Insidie interiori.

di EvgeniaPsyche Rox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Psycho. ***
Capitolo 2: *** Strangeness. ***
Capitolo 3: *** Bad luck. ***
Capitolo 4: *** Mirrors. ***
Capitolo 5: *** Rust. ***
Capitolo 6: *** Home. ***
Capitolo 7: *** White. ***



Capitolo 1
*** Psycho. ***


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[Per la musa ispiratrice che è venuta a trovarmi nei miei sogni, rivelandomi il titolo di questa storia
-E sì, prendetemi pure per una pazza che parla con un frammento di un proprio sogno, ma per me è stato un evento importante-
e per Jim Morrison, che mi ha incantata, facendomi innamorare perdutamente delle sue parole brucianti e piene.]

 

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Insidie interiori.

 

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1. Psycho

 

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Si nascondeva sempre in soggiorno, in quel minuscolo spazio tra il mobile e il muro.
Il mobile in questione era un enorme armadio trasparente pieno di vecchie fotografie, bicchieri e piatti particolari per gli ospiti, bambole di porcellana e statuette di vetro.
Era stretto. Tremendamente stretto e ogni volta che riempiva i polmoni per prendere aria, sentiva una lieve pressione alla pancia.
Però cercava di non curarsene e sporgeva un poco il volto, scrutando con estrema attenzione la soglia della porta; non appena sentiva scattare la serratura, si accucciava ulteriormente e si sforzava in ogni modo di rendere impercettibili i propri respiri pesanti.
Udiva poi il rumore dei sacchetti di carta venire appoggiati velocemente sul tavolo della cucina e una voce galleggiare nella casa. «Roxas?»
Lui si metteva una mano sulla bocca e nascondeva un lieve sorriso soddisfatto.
«Roxas?», questa volta il richiamo si faceva più alto, ma ancora nessuna risposta.
«Roxas?», la voce un poco tremante, una lieve nota di preoccupazione. «Roxas! Roxas, ci sei?»
Dopo tornava a respirare, piano piano, zitto zitto, per non farsi sentire, rimanendo però sempre nascosto.
«Roxas?! Roxas, rispondi!», la paura spiccava in un grido e il terrore si faceva spazio nel torace della donna. «Roxas!»
E lui sbucava finalmente fuori, con il cuore colmo di sofferenza e pena per la madre, avviandosi poi verso la soglia della porta. «Sono qui.»
Successivamente lei si metteva sempre una mano al petto, tirando un sospiro di sollievo, mentre la fronte però si corrugava quasi immediatamente in un'espressione arrabbiata. «Roxas, lo sai che detesto questi scherzi. Lo capisci o no che mi fai stare veramente male?»
Il giovane si limitava a restare in silenzio: le labbra serrate, gli occhi blu come quelli del padre immersi nelle iridi verdi della madre.
«Non saprei proprio cosa fare se ti dovesse succedere qualcosa.», e, dopo aver detto ciò, la donna si chinava verso l'esile figura del figlio, avvolgendolo in un caloroso abbraccio.

 

 

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''Gli uomini che escono in barca
Per sfuggire al peccato & alla melma della città
contemplano la placenta delle stelle serotine
dal ponte, sdraiati
& passano l'equatore
& praticano rituali per l'esumazione dei morti
iniziazioni pericolosi
Per segnare il passaggio a nuovi livelli

Sentirsi al limite di un esorcismo
di un rito di passaggio

Attendere, o cercare la maturità
l'illuminazione in un'arma''

 

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Chiuse il libro con un tonfo senza leggere l'ultima riga poco più in basso, sospirando pesantemente.
Socchiuse gli occhi per un attimo e tastò con estrema attenzione la copertina della sua unica e vera fonte di distrazione; riaprì lentamente le palpebre e scrutò il volto dell'uomo di cui era innamorato perdutamente.
Strofinò delicatamente l'indice sui suoi occhi, sul naso, sulle labbra e poi risalì sui capelli, rileggendo più e più volte il titolo.
''Tempesta elettrica.
Poesie e scritti perduti.''

Un altro sospiro. Strinse con forza il libro e si impose di appoggiarlo sul comodino accanto a sé; si alzò faticosamente dal letto e non si prese neanche la briga di sistemare le coperte bianche.
Bianche. Schifosamente bianche come i muri della sua stanza, come il materasso. Bianco. Orrendo bianco.
Un bianco soffocante. Una purezza finta che nascondeva un grigiore tinto di macchie nere e rosse; un'ingenuità falsa che avvolgeva quel fottutissimo edicio che detestava a morte.
Si diresse lentamente nel piccolo bagno -Schifosamente bianco anche quello- e si chinò verso il lavandino, lavandosi la faccia con dell'acqua fredda; alzò la testa e si guardò il volto gocciolante allo specchio con un'espressione indecifrabile.
Occhi blu solcati da occhiaie. Blu, orribilmente blu, come sognavano tutte le ragazze; ma no, non era il blu che loro amavano, era il blu di un pazzo, perché lui era pazzo, eccome se lo era.
Anzi, no.
Lui non era pazzo. Non lo era. Lui era normale, erano gli altri ad essere pazzi.
Tutta quella gente disgustosa che lo circondava era pazza. Tutti, tutti.
Lui no. Non era pazzo.
Prese un'altra manciata d'acqua e se la lanciò sulle guance pallide e scavate dalla stanchezza.
Lui era normale, gli altri erano pazzi.
Lui era normale, gli altri erano pazzi.
Avanti, Roxas. Ripetilo. Un'altra volta. Ancora e poi potrai affrontare l'ennesima giornata di merda in questo posto del cazzo.
Lui era normale, gli altri erano pazzi.
Era quella la consapevolezza che si era costruito lentamente stando in quel luogo di matti. La consapevolezza che andava contro ciò che gli insegnavano: ''Qui nessuno è pazzo o normale, abbiamo tutti dei problemi che riusciremo a risolvere. Chi prima, chi dopo.''
«Ma vaffanculo.», sibilò a denti stretti il giovane al ricordo di quella dannata frase; chiuse il rubinetto e si sbottonò la camicia da notte, lanciandola sul pavimento. Quel giorno non aveva voglia di sistemare niente di niente. Era una giornata più merdosa della solita merda che è ogni giorno, come diceva il suo migliore amico.
Ecco, era una di quelle giornate.
Il problema era che in quell'ultimo periodo giorni del genere si ripetevano troppo frequentemente.
Stava forse peggiorando? Forse.
Ma che importava, in fondo? Niente.
Tanto ci avrebbero pensato le donne delle pulizie alla stanza, anche se il regolamento imponeva che si doveva mantenere un certo ordine con i propri materiali.
Ecco, sì, il regolamento. Un'altra stronzata di quel dannato posto.
Si tolse i pantaloni azzurri e li lasciò scivolare sulle piastrelle del bagno, raggiungendo l'armadio di legno, in contrasto in mezzo a tutto quel bianco: aprì le ante e afferrò la maglia più larga che aveva insieme ad un paio di jeans chiari.
Indossò velocemente gli indumenti e aprì la porta della camera, ritrovandosi il volto assonnato del suo migliore amico, il quale stava proprio per bussare.
Qualche centimetro più alto di lui; capelli disordinati di un biondo cenere, proprio come i suoi, occhi castani e quel mezzo sorriso ironico stampato sul volto era forse la cosa che più lo caratterizzava.
Hayner Wiedenkeller era un suo coetaneo che era entrato in quel posto praticamente nello stesso periodo in cui era arrivato lui.
Roxas rimase immobile, il palmo ancora appoggiato sulla maniglia e lo sguardo fisso nelle iridi dell'altro che sembrava essere particolarmente pensieroso, o forse semplicemente mezzo addormentato.
«Bella maglia.», borbottò l'altro dopo qualche altro secondo passato in silenzio, strofinandosi l'occhio sinistro prima di sbadigliare; il giovane dalle iridi blu abbassò lo sguardo verso l'indumento che raffigurava la sua band preferita.
«L'hai già vista un miliardo di volte.», osservò successivamente, sollevando istintivamente il soppraciglio destro. «Aspetta, ho già capito. Ti serve un favore.»
Hayner ridacchiò nervosamente, svegliandosi del tutto; successivamente fece cenno al compagno di seguirlo mentre iniziò ad incamminarsi per i lunghi corridoi.
Roxas sospirò e chiuse la porta dietro di sé, incrociando le braccia al petto mentre scuoteva la testa con aria rimprovera. «Allora, che cos'hai combinato questa volta?»
«Niente, giuro.», mugugnò infantilmente Hayner, ottenendo un'occhiataccia dall'altro presente. «Ho solo, ecco... Mmmh... Hai presente l'alcolizzata del terzo piano?»
Il giovane corrugò la fronte, scendendo lentamente le scale. «Hayner, il terzo piano è pieno di alcolizzati.»
«L'intero edificio è pieno di alcolizzati, se è per questo. Pensa che sono il sessanta per cento di tutti i pazienti.», spiegò l'amico, divagando. «Comunque, no, io stavo parlando della tizia bionda.»
«Larxene?», azzardò il suo interlocutore, mostrandosi assai perplesso. «Ti prego, non dirmi ch-»
«No, no, aspetta, aspetta. Non è come credi!», si affrettò a giustificarsi Hayner, mostrando entrambi i palmi. «Cioè, l'ho beccata mentre pomiciava allegramente con il suo compagno di stanza. Non so chi cazzo era, comunque... Poi...»
Ma Roxas lo precedette, intuendo già com'era andata a finire la situazione. «Sei andato a dirlo al suo ragazzo, ho già capito. E adesso lei ti vuole spezzare le ossa, ho capito bene?»
«Veramente non ha detto che mi vuole spezzare le ossa. Ha semplicemente detto che vuole ridurmi a brandelli e che tutto ciò che resterà di me saranno dei miserabili stuzzichini.», osservò con un mezzo sorriso sghembo il compagno, ghignando.
«Wow.», commentò apaticamente il biondo, abituato ai guai in cui si metteva sempre l'amico; raggiunsero finalmente il piano terra e si avviarono verso l'enorme sala mensa a sinistra, incrociando un paio di ragazzi ritardatari come loro.
«Io non ho ancora capito perché non usiamo l'ascensore come fa praticamente metà della gente qui dentro.», farfugliò improvvisamente il ragazzo dagli occhi marroni, mettendosi le mani dietro la nuca, sbadigliando nuovamente. «E' una faticaccia immensa fare le scale.»
Roxas sospirò per l'ennesima volta, ripetendo la medesima frase di ogni maledetto giorno. «E' proprio per questo; l'ascensore lo usano tutti e di conseguenza se lo utilizzassimo anche noi dovremmo vedere qualche faccia da culo. Lo sai che io non voglio parlare con nessuno di prima mattina. Soprattutto con i coglioni dell'ultimo piano.»
«Ma loro vanno quasi sempre nell'altra mensa.», replicò il compagno. «Dicono che lì il cibo sia migliore.»
«Stronzate. Quando mi stavo nascondendo dalla Dahl sono capitato in quella mensa durante l'ora di pranzo e c'era un brodo che sapeva di formaggio andato a male.»
Hayner scoppiò a ridere. «Un brodo che ha il gusto di formaggio?»
«Ma che ne so.», borbottò l'altro scrollandosi le spalle. «Resta il fatto che faceva schifo e che preferisco avvelenarmi qui che nell'altra mensa.»
La mensa era sicuramente la sala più grande dell'intero edificio: vi erano una ventina di tavoli in tutto e ciascuno di essi possedeva sette sedie, anche se poi i presenti le spostavano un po' come volevano, con il risultato che vi erano tavoli che disponevano di un paio di posti e altri che, al contrario, ne avevano addirittura undici.
Le tavoglie, anch'esse bianche, erano ruvide e alla fine dei pasti erano sempre stropicciate, se non addirittura strappate.

«Comunque, tornando al discorso di prima», parlò improvvisamente Hayner, tirando diversi spintoni per farsi spazio tra i ragazzi più piccoli, consapevole del fatto che essi non avrebbero osato fiatare. «ho sentito che questa sera Larxene verrà in sala tv proprio per suonarmele di santa ragione.»
«Così impari ad intrufolarti al terzo piano per saltare le ore della signora Olsen.», commentò aspramente l'altro, scrollandosi le spalle prima di arrivare di fronte al volto rugoso e accigliato della cuoca con il vassoio in mano. «'Giorno Mary.», mormorò poi apaticamente, sbattendo più volte le palpebre.
«Buongiorno Mary!», salutò con più vivacità l'amico, mettendo una mano sulla spalla del biondo. «Allora, quali sono le novità del giorno?»
La donna sospirò pesantemente, facendo un cenno con la testa alla collega prima di rivolgersi ai due ragazzi: ormai stavano in quel posto da così tanto tempo che erano riusciti a farsi amica addirittura la cuoca. In realtà la donna non aveva più di quantarant'anni: eppure ne dimostrava addirittura cinquanta.
Il volto stanco e segnato da profonde rughe ovunque, le dita storte e ingiallite, la pelle stanca e decadente. Una di quelle persone che non aveva fatto altro che lasciarsi andare alle lussurie della vita, tra alcool e fumo; troppo, troppo fumo. Ricordava benissimo come, a sedici anni appena compiuti, era anche in grado di finire tre pacchetti di sigarette al giorno.
E quelli erano i risultati finali. Diceva di non rimpiangere nulla, ma sia Roxas che Hayner sapevano che erano solo un mucchio di stronzate.
Certo che rimpiangeva. Eccome se rimpiangeva. Rimpiangeva la sua infanzia, la sua adolescenza e la scarsità della sua attuale vita. Il suo non aver voluto di più dal futuro, il suo essersi arresa ad una misera cuoca di una mensa piena di pazzi.
Sospirò ancora -Era già la quinta volta nel corso della giornata; si chiese a quanti sospiri sarebbe arrivata a fine serata-. «Koch si è slogato una caviglia.», disse mettendo una decina di biscotti sul vassoio, sotto lo sguardo inorridito e nauseato del biondo.
Hayner sgranò gli occhi. «Cosa? Koch?! Vuoi proprio dire... Quel Koch?», la cuoca annuì e lui scoppiò in una grassa risata, mettendosi addirittura una mano sulla pancia. «Quanto ci godo!», commentò poi a voce un po' troppo alta, dato che i ragazzi dietro -Già abbastanza infuriati per la lentezza quotidiana dei due che passavano almeno cinque minuti a chiacchierare con Mary- gli lanciarono un'occhiataccia.
«Ma si può sapere di chi state parlando?», si intromise improvvisamente Roxas, nonostante non fosse un'amante del gossip come lo era il compagno.
«Di Koch! Riku Koch, quello del terzo piano! Non l'hai mai visto? Qualche volta passeggia insieme agli altri scemi del villaggio.», spiegò sghignazzando il giovane, afferrando il proprio vassoio pieno di biscotti, prendendo poi la piccola scatoletta di latte. «Lo detesto a morte. Anzi, a dire il vero quelli del terzo piano li detesto tutti.»
Roxas venne assalito da un improvviso brivido; ricordò bene come un paio di volte era stato paragonato a quel ragazzo dai lunghi capelli argentati.
Prima da un ragazza di cui gli sfuggiva il nome, poi dal preside stesso.
Era successo circa tre mesi fa, quando Hayner ne aveva combinata un'altra delle sue, mettendo in mezzo come al solito anche lui; così, senza neanche accorgersene, si era ritrovato di fronte al volto spossato dell'uomo dai lunghi capelli grigi. «Io non so più cosa fare con voi due.», aveva poi ammesso, massaggiandosi le tempie. «Così finirete per farvi cacciare fuori, lo sapete?»
Hayner si era scrollato le spalle, indifferente. «Questa volta non ho fatto niente di male. Era solo uno scherzetto, tanto per passare il tempo.»
Il compagno, seduto accanto a lui, aveva invece roteato lo sguardo da una parte all'altra dell'ambiente circostante. «Ma se è praticamente svenuta. Bello scherzo del cazzo, Hayner. I miei più sinceri complimenti.»
L'uomo non aveva neanche badato al loro linguaggio, ormai abituato a simili situazioni con i due. «Le punizioni neanche servono con voi due.»
«Allora che ne dice di chiudere un occhio e berci una bella tazza di tè, parlando allegramente dei vecchi tempi andati?», chiese sarcasticamente Hayner con il solito ghigno dipinto sul volto, ottenendo una gomitata da parte dell'amico. «Hayner, piantala. Così non migliori la situazione, anzi.»
La discussione era poi sfociata in litigio e alla fine di tutto, dopo l'ennesima sgridata da parte del preside, quest'ultimo aveva scosso la testa rivolgendosi al giovane dalle iridi blu, borbottando: «Mi ricordi molto il ragazzo del terzo piano. Riku Koch. Avete questo stesso carattere intrattabile che dovete assolutamente migliorare, se volete uscire da qua.»
E lui aveva sentito una rabbia tremenda assalirgli il corpo e avvolgergli le viscere; ciò che l'aveva fatto infuriare non era stato il paragone di per sé, ma la frase finale.
Se volete uscire di qui.
Uscire di qui.
Uscire. Di. Qui.

Roxas aveva sedici anni e mezzo quando era finito nella clinica di recupero Werner: ora ne aveva diciotto e a lui sembrava di essere sempre al punto di partenza.
Anzi.
Talvolta gli pareva addirittura che la situazione fosse peggiorata.





«Mi vuoi aiutare o no?»
«No.»
Circa cinque ore dopo, durante la pausa dopo pranzo, Hayner si era recato nella camera dell'amico, dato che quest'ultimo non aveva alcuna voglia di uscire in giardino.
«Sei proprio un amico del cazzo.», commentò aspramente, incrociando le braccia al petto e socchiudendo gli occhi. «Ti ho solo chiesto di pararmi il culo nel caso Larxene questa sera venisse davvero a staccarmi la testa.»
Roxas sospirò, appoggiando la testa contro il vetro della finestra. «E va bene, va bene. Però mi devi un favore.»
L'altro accennò un largo sorriso a trentadue denti, spalancando le braccia. «Dai, facciamo come dice la signora Dahl: diamoci un caloroso abbraccio per ricordarci quanto ci vogliamo bene!»
Il giovane dalle iridi blu si lasciò sfuggire una lieve risata e Hayner sorrise allegramente, felice di aver fatto ridere l'amico una volta ogni tanto; il primo così si avvicinò e si lasciò avvolgere dalle braccia dell'altro, il quale ridacchiò dopo poco. «Siamo proprio delle femminucce del cazzo, porca miseria.»
Roxas accennò un sorriso malinconico. «E allora? Che importanza ha se siamo delle femminucce del cazzo? Qui dentro siamo tutti malati comunque.»
L'espressione del compagno cambiò improvvisamente e corrugò la fronte. «Sì, tranne noi due, però.»
«No, Hayner, no.», il diciottenne scosse la testa e appoggiò le mani sul petto dell'amico, spingendolo appena per allontanarsi. «Lo sai anche tu che noi non siamo da meno. Dobbiamo mettercelo in testa, cazzo. Siamo qui dentro da più di un anno e non facciamo altro che ripeterci che siamo normali e bla, bla, bla.», poi si zittì per qualche secondo, osservando intensamente gli occhi dell'altro. «Se fossimo normali ci avrebbero già fatti uscire da tempo. Anzi, se fossimo normali non saremmo neanche finiti qui dentro. E' questa la ver-»
«Vaffanculo.», sussultò, venendo improvvisamente interrotto dal brusco commento di Hayner che si voltò, spalancando la porta della stanza per poi sbatterla rumorosamente dietro di sé senza aggiungere altro.
«Hayner, no, aspet-», appena si staccò dalla finestra un'ondata di stanchezza gli avvolse le gambe e il mondo iniziò a vorticare intorno a sé: Roxas tremò e schiuse le labbra, come se avesse voluto aggiungere qualcos'altro; ma la voce gli si bloccò in gola come un groppo e si acasciò a terra, chiudendo le palpebre.



Era buio, quando si risvegliò.
Le tenebre riempivano la stanza e gli sembrò di galleggiare nell'oscurità più totale; era come essere immersi nel nero, vuoto e viscido nero.
Nero. Nero che riempiva tutto.
Lui era l'unico colore in contrasto, con quel pigiama bianco era una macchia nel dipinto nero e galleggiante nel nulla.
C'era una voce in lontananza, nel tunnel, o forse era una stanza. Non lo sapeva, era tutto troppo nero.
''Cosa? Non ti ho sentito, ripeti!''
Ma la voce gli si bloccò di nuovo in gola.
Aveva già sentito quella voce. Era familiare, l'aveva sentita, certo che sì, ma di chi era?
''Ripeti, per favore!''
Una voragine di immagini e ricordi lo travolse improvvisamente, trascinandolo e divorandogli il corpo.
Volle strillare, ma non ci riuscì.
Volle chiamare aiuto, ma la voce gli si spezzò.
Chi era. Di chi era quella voce. Non ricordava, non ricordava, era questo il problema.
C'era qualcosa di importante che gli era sfuggito dalle mani. Non l'aveva afferrato in tempo.

 

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«Roxas, mi senti?
Sono io.
Ti ricordi ancora di me?»

 

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Riaprì le palpebre di scatto e si sentì soffocare i polmoni, come se per tutto quel tempo avesse inspiegabilmente trattenuto il respiro.
I demoni del suo passato erano venuti a trovarlo ancora; si erano impossessati di nuovo del suo corpo e gli avevano macchiato i sogni, sporcandoli.
Cercò di alzare la testa tenendosi sui gomiti e posò lo sguardo sull'orologiò appoggiato sul comodino: le sue iridi blu si dilatarono immediatamente e fu costretto a mordersi il labbro inferiore per soffocare un'imprecazione poco elegante non appena scoprì che erano le sedici e cinque minuti.
Era la prima volta che rimaneva svenuto per così tanto tempo e la cosa lo turbò profondamente; il nero lo stava divorando da dentro, gli rissucchiava via le forze ogni giorno e gli rendeva impossibile anche le attività più semplici.
Scendere le scale la mattina stava diventando difficile; risalirle era impossibile, ogni passo gli sembrava un dolore atroce e le ossa gli facevano male, così come tutto il resto del corpo.
Sapeva che lei si era ormai impossessata di lui. Lo stava rissucchiando, lo divorava in vortice infinito e immenso. Ormai era caduto dentro e le speranze di uscire erano sempre più scarse; ogni giorno una piccola candela si spegneva e i suoi occhi si facevano sempre più vuoti.
Non ce l'avrebbe fatta. Era troppo debole, troppo piccolo ed impotente di fronte a lei.
Quella che all'inizio gli era sembrata la sua unica ancora di salvezza, ora era diventata la sua ossessione che lo stava uccidendo lentamente e inesorabilmente.
Si alzò a fatica, cercando poi di rimanere in piedi nonostante le gambe tremanti; chiuse di scatto gli occhi e si sforzò di ignorare l'acuto dolore che iniziò a percorrergli lo stomaco.
Aveva saltato le attività pomeridiane, ma non era la prima volta che faceva una cosa del genere: talvolta se ne restava chiuso in camera per semplice mancanza di voglia, mentre altre volte erano semplicemente le energie ad abbandonarlo completamente.
Fortunatamente sarebbe riuscito ad andare all'appuntamento settimanale con il suo psicologo; la clinica ne possedeva una quindicina circa ed ogni paziente aveva diritto ad un incontro di un'ora alla settimana con uno di loro.
Quando era entrato in quel postaccio gli era capitato il dottor Lauer: era rimasto in silenzio per ben cinque sedute di fila e alla fine aveva fatto impazzire del tutto il povero dottore, costringendo così il preside a cambiargli psicologo.
Il dottor Astron era un uomo di circa quarant'anni e si era laureato con il massimo dei voti in un'accademia americana; oltre ad essere un uomo estremamente disponibile, era l'unica persona che veniva considerata normale da Roxas.
Prima di lasciare la stanza si avviò verso il comodino, aprendo il libro nel punto in cui aveva abbandonato la lettura qualche ora prima; sospirò appena e si tuffò nell'ultima riga della poesia: 

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''Uccidere l'infanzia, l'innocenza
in un attimo''

 

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Qualche volta anche svegliarsi la mattina era diventato difficile per lui.
Perfino respirare era diventato complicato e pesante. Anzi, soprattutto respirare.
Si avviò verso la soglia della porta, ignaro di ciò che avrebbe trovato al suo ritorno.
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*Note di Ev'*
No, allora. Prima di tutto ringrazio immensamente questa storia perché è grazie ad essa che ho scoperto i Muse. <3 E ringrazio la loro canzone ''Undisclosed Desires'' che ho ascoltato per tipo cinquanta volte durante la scrittura, senza stancarmi mai.
Detto ciò, salve a tutti.
Avevo in mente di scrivere una storia del genere da parecchi anni, e non sto scherzando. Insomma, finalmente il momento è giunto, quindi, eccomi qua.
Una storia drammatica, un Roxas insieme al suo migliore amico finito in una clinica di recupero per motivi ancora sconosciuti.
Per il nostro caro protagonista l'unico filo che lo conduce alla sua 'vecchia vita' è appunto il libro di Jim Morrison che legge ogni giorno; tutto il resto è grigiore per lui, una monotonia continua e perenne.
Che dire... In questi ultimi giorni, non so perché, ho smesso per un po' di continuare le storie. Mi sono dedicata invece tantissimo alla scrittura di frasi e /o aforismi. Una botta di energia continua. Scrivevo, frammenti di pensieri, flash brevi, mah... Però ieri sera ho deciso di dedicarmi a questa storia. Non so ogni quanto l'aggiornerò, ma credo che sarò più veloce de 'La Terra Di Mezzo.'
Boh, niente, ci tengo tanto, davvero tanto, a questa storia dato che spero di trasformarla in un futuro libro o qualcosa del genere, quindi mi auguro che voi recensiate, soprattutto se la metterete tra le seguite.
Siamo in un sito dove ci si deve confrontare -bla, bla, bla-, quindi non vi costa nulla lasciare uno straccio di commento decente.
Alla prossima,

E.P.R.

 

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Capitolo 2
*** Strangeness. ***


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Insidie interiori.

 

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2. Strangeness  

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«Dieci minuti e venticinque secondi. Complimenti per il ritardo, Roxas. Hai già battuto Hayner, che cosa vuoi ancora?»
Il paziente sbuffò rumorosamente, prendendo posto sulla sedia girevole di pelle, incrociando poi le braccia al petto. «Non mi interessa minimamente di battere quel... Quella sottospecie di...», si interruppe, mordendosi il labbro inferiore per evitare di terminare la frase con qualche insulto poco carino.
L'uomo, seduto dall'altra parte della scrivania bianca, sospirò pesantemente, togliendosi gli occhiali. «Roxas, cos'è successo? Sei svenuto per caso?»
«No!», sbottò immediatamente il biondo, voltando di scatto le iridi blu verso il dottore. «Non sono svenuto.», ribadì successivamente a voce più bassa.
«Lo sai che è inutile mentire, non è vero? Tanto i tuoi insegnanti mi diranno se hai partecipato o meno alle attività pomeridiane.», spiegò pazientemente l'altro, aprendo nel frattempo un cassetto; tirò fuori una cartella gialla prima di proseguire. «Roxas, rischi davvero. Sia tu che il tuo amichetto. Fai troppe assenze.»
«Le attività pomeridiane sono per i ritardati del cazzo. Non mi aiutano per niente.», affermò schiettamente il diciottenne, scrutando con estrema attenzione i numerosi fogli che sbucavano dalla cartella. «E comunque non sono stupido; ho capito come funzionano le cose. So che non mi butterete mai fuori di qui. Non prima di avermi curato. Se non fosse così, Hayner sarebbe già fuori da mesi e mesi, dopo tutto quello che ha fatto.»
Lo psicologo aprì il fascicolo del paziente, ignorando volontariamente il suo discorso. «Non c'è alcun miglioramento da quasi sette mesi, Roxas. Non è una cosa positiva. Tu puoi guarire, basta ch-»
«'Fanculo.», lo interruppe il biondo, proprio come aveva fatto il suo migliore amico qualche ora fa. «Non mi faccia ancora quei dannati discorsi del diavolo. Posso guarire se voglio, devo solo impegnarmi e bla, bla, bla. Sono tutte stupidaggini. Sono qui da quasi un anno e mezzo. Un fottuto anno e mezzo, non so se ha capito. Com'è possibile?! Come cazzo può essere possibile che io sia qui dentro da così tanto tempo?! Perché mi sento ancora così?! A pezzi, distrutto, così schifosamente in colpa e... », si zittì improvvisamente, inclinando il volto su un lato con gli occhi rivolti verso il vuoto totale, mentre il dottore cercava di prendere nota dello sfogo momentaneo del paziente; Roxas si irrigidì, sentendo una fitta al petto.
Un anno e mezzo.
Era davvero passato così tanto tempo?
I primi mesi erano stati un vero e proprio inferno: contava i secondi, i minuti, le ore e i giorni che passava in quel posto pieno di pazzi. Contava i pasti, le lezioni, le attività, tutto. Contava ossessivamente, si fermava ad osservare ogni singolo orologio, scrutava ogni calendario, chiedeva sempre l'ora e la data precisa.
Contava, contava e contava.
Contava e sperava.
''Mi verranno presto a prendere e uscirò da qui'', si ripeteva la sera prima di scivolare nel sonno. ''Domani tornerò a casa e passerà tutto.''
Ma poi non era successo nulla.
Roxas Hagen aveva smesso di fermarsi nei corridoi per osservare il grande orologio a pendolo appeso sul muro; aveva smesso di contare i giorni e i minuti, aveva smesso di attendere una libertà che non avrebbe mai avuto.
Era arrivato alla tragica conclusione che nessuno sarebbe più venuto a prenderlo. Nessuno avrebbe spalancato la porta della sua stanza bianca -Schifosamente bianca-, per dirgli che c'era qualcuno a prenderlo, a salvarlo da quel fottuto posto.
Nessuno.
Aveva passato le sere immerso nell'angoscia più totale a stringersi la testa, rannicchiato sul letto, con gli occhi pieni di lacrime; quella verità lo aveva trafitto, lo aveva divorato da dentro, uccidendolo lentamente e inesorabilmente, spegnendolo, rubandogli tutto, tutta l'energia per vivere.
E il giorno successivo aveva smesso di essere, aveva smesso di esistere.
Non gli importava più di niente. Né della data, né delle ore. Né dei secondi, né dei minuti.
Non si accorgeva più del tempo che si sommava alla sua vita, dell'orologio che suonava; per lui non faceva alcuna differenza se era l'ora di pranzo o di cena, non gli importava se stava andando a dormire o se si era appena svegliato, non gli importava della buonanotte o del buongiorno, non gli importava niente di niente.
Era tutto uguale. Era una macchia grigia che circondava quel posto in cui le persone rinchiudevano la gente malata per tenerla lontana da sé.
Non era vero che volevano aiutarli. Erano tutte stronzate per Roxas. La verità è che volevano solo allontanarli dal mondo, volevano spingerli via, ammucchiarli tutti in quello scatolone, unire i pazzi, tutti, tutti insieme.
Era stretto, troppo stretto per lui.
«... E comunque non sono svenuto. Ho saltato le attività pomeridiane perché non avevo voglia di fare niente; ho litigato con Hayner.», mentì poi, tornando ad osservare gli occhi neri come la notte più buia del dottor Astron: preferiva ricevere altri voti negativi nella condotta che far sapere agli altri che lei era tornata a possederlo, ad ucciderlo e a riempirgli il corpo, lasciandogli allo stesso tempo un immenso vuoto mortale.
Lo psicologo sospirò nuovamente, prendendo appunti con una penna nera. «Sì, lo so.», disse poi senza staccare gli occhi dal foglio che veniva lentamente riempito di parole sul paziente; quest'ultimo voltò lo sguardo altrove, stringendosi le spalle. «Glielo ha detto Hayner?»
L'uomo annuì, togliendosi nuovamente gli occhiali prima di massaggiarsi le tempie: aveva sempre sognato di fare lo psicologo, di aiutare la gente, di capire i loro problemi per trovare insieme a loro una soluzione. L'unico dilemma di quel lavoro era la pesantezza; sentiva addosso a sé i pesi di tutti i complessi di quei ragazzi, mescolato al timore di non riuscire a trovare una cura, un rimedio. Vedeva sempre sguardi spenti, vacui, come se fossero morti. E, in effetti, in un certo senso lo erano. Qualcuno o qualcosa li aveva uccisi interiormente e stavano cercando in ogni modo di resuscitare.
Il problema è che non sempre ci riuscivano.
Era quello il problema.
Non sempre.
«E che cos'altro le ha detto?», la voce di Roxas spezzò il filo dei suoi pensieri; alzò finalmente lo sguardo dal foglio e incrociò le iridi blu del giovane, un tempo spensierate e piene.
Il dottor Astron era anche lo stesso psicologo di Hayner e aveva un'ora con lui giusto prima di Roxas; quando i due amici litigavano, il secondo cercava sempre di fare tardi per evitare di incrociare l'altro per i corridoi.
Eppure Roxas aveva la fissa di chiedere ossessivamente che cosa avesse detto Hayner, come se fosse qualcosa di essenziale per lui; nonostante sapesse praticamente tutto del suo migliore amico, aveva sempre il timore che nascondesse qualcosa nelle sue viscere, nel suo essere più scavato e profondo.
Qualcosa che non voleva dirgli.
E continuava ad insistere con quella domanda, anche se la risposta dell'uomo non cambiava mai. «Roxas, lo sai che c'è il segreto professionale e non posso dirtelo. Quante volte te lo avrò ripetuto?»
«Almeno un centinaio.», rispose automaticamente il paziente, stizzito ed estremamente irritato. «Ma se dice qualcosa su di me ho tutto il diritto di saperlo, non crede?»
Astron rimase stranamente in silenzio e assunse un'espressione preoccupata che non sfuggì agli occhi attenti del biondo, il quale riprese immediatamente la parola senza farsi troppi scrupoli. «Parla di me? Che cosa dice?»
Lo psicologo era caratterizzato da una forte professionalità che lo faceva apparire come un uomo perennemente rigido e inflessibile; nonostante ciò, Roxas aveva passato ormai così tanto tempo con lui che riusciva a notare anche le sue più piccole espressioni, i suoi occhi che si incupivano improvvisamente o il suo sguardo pensieroso.
Roxas non era affatto stupido e questo Astron lo sapeva fin troppo bene.
«Sì.», ammise infine con un sospiro, consapevole che anche se avesse mentito il paziente lo avrebbe sicuramente intuito. «Sì, Roxas, parla di te. E ti ho già detto troppo.»
Il diciottenne si irrigidì un poco sulla sedia e parve addirittura sorpreso; eppure era strano dato che si aspettava una risposta del genere.
Allora cos'era quella sorta di inquietudine che si stava facendo spazio nel suo stomaco? Era forse ancora quella paura che Hayner nascondesse qualcosa?
Roxas mantenne lo sguardo fisso sulle piastrelle bianche del pavimento fino a quando non si accorse che il dottore stava frugando tra i numerosi fogli nel suo cassetto; dopo qualche secondo il nero dei suoi occhi sembrò illuminarsi, come se la notte si fosse improvvisamente accesa grazie ad una singola stella, e tirò fuori una scheda su cui vi era disegnata una spirale piuttosto disordinata.
Il biondo sbuffò sonoramente: detestava a morte quando il dottor Astron gli faceva quei ''giochetti psicologici da imbecilli'', come li chiamava Hayner, per cercare di scoprire che cosa ci fosse nel suo inconscio e stupidaggini del genere. «Non mi ha ancora chiesto come ho passato la settimana.», osservò apaticamente, sperando di evitarsi quella dannatissima scheda.

«Te lo chiederò dopo.», si limitò a dire fermamente l'uomo, indicando con un dito la spirale. «Allora, Roxas, guarda attentamente questa spirale.»
Osservò di sottecchi il diretto interessato che, al contrario, aveva voltato lo sguardo altrove, scocciato. «Roxas», lo chiamò con tono rimprovero e spazientito, «ti prego, prestami un po' di attenzione. Se fai come ti dico magari ti faccio uscire prima, che ne dici?»
A quel punto il biondo si illuminò appena, osservando immediatamente la scheda sotto il proprio naso; Astron sospirò prima di riprendere a parlare. Sapeva perfettamente che non era per nulla professionale giungere a questi compromessi con i pazienti, ma sapeva anche che con Roxas non c'era altro modo per farlo ragionare.
«Come ti stavo dicendo, devi osservare con estrema attenzione questa spirale», ne tracciò così con cura i contorni mentre il paziente annuì, tentando di non mostrarsi annoiato com'era realmente. «e dopo dovrai segnare con un punto, un quadrato o quello che vuoi la tua posizione.»
Roxas alzò appena le iridi blu, tuffandosi nella notte dell'uomo. «Cioè devo segnare dove sono secondo me in quella spirale?»
«Esattamente.», annuì il dottore. «E poi, se vuoi, potrai anche aggiungere qualcuno che ti sta particolarmente a cuore, scegliendo ovviamente la posizione anche per lui. Ricorda che qui non ci sono risposte giuste o sbagliate, Roxas, ma solt-»
«Soltanto punti di vista che emergono dalla mia interiorità.», lo interruppe con fare meccanico il paziente, dato che sapeva ormai a memoria quelle parole; impugnò la penna nera e rimase per interminabili minuti ad osservare la scheda di fronte a sé.
L'altro, nel frattempo, segnò qualche altro appunto su un foglio; in realtà non sempre scriveva qualcosa di concreto e comprensibile, semplicemente aveva capito che Roxas era uno di quei ragazzi che detestava particolarmente essere fissato mentre pensava o mentre prendeva una decisione. Lo metteva sotto pressione e l'ultima cosa al mondo che voleva era provocargli un attacco di ansia o di panico.
Anzi, gli aveva sempre detto che non c'era fretta e che poteva prendersi tutto il tempo necessario.
Il diciottenne appoggiò un momento la penna sulla scrivania e si massaggiò la testa, come se avesse appena fatto un enorme sforzo mentale; socchiuse un poco le palpebre e per un attimo gli sembrò addirittura che la spirale avesse iniziato a ruotare di fronte ai propri occhi.
Stava girando. Stava girando davvero. E la spirale si trasformò improvvisamente nella trottola con cui amava giocare da bambino; il nero si trasformò in blu e tutto mutò. Era una trottola, la sua bellissima trottola che tanto aveva amato. Passava il tempo nel piccolo parco vicino a casa sua e la faceva girare, sperando che durasse all'infinito.
La trottola si ruppe e Roxas sbattè le palpebre, osservando la spirale nera. Afferrò nuovamente la penna e segnò un punto vicino al centro.
Astron allontanò lo sguardo dal foglio biancò e scrutò con estrema attenzione ciò che aveva fatto il biondo, rimanendo comunque in silenzio.
Per un momento gli sembrò quasi di vedere quegli occhi blu galleggiare nel vuoto; spesso aveva notato che il diciottenne non osservava qualcosa di preciso, era quasi perso, come se si fosse ritirato dentro se stesso, come se qualcun altro avesse preso il comando del suo corpo.
Era un filo che si spezzava, un filo conduttore che per un po' interrompeva il collegamento con il suo cervello, facendo così in modo che lui rimanesse immobile e sospeso. Una volta aveva provato a parlargli di quei strani momenti, ma Roxas si ostinava ad affermare che non ricordava nulla del genere.
Il paziente, quasi fosse sotto una sorta di ipnosi, tracciò automaticamente una linea dal punto che aveva segnato prima fino all'inizio della spirale; inizialmente essa era scura, ma poi lentamente sembrava svanire nel bianco del foglio fino a risultare praticamente invisibile.
Successivamente Roxas fece un altro punto, abbastanza vicino al primo, e li collegò con un'altra linea piuttosto sottile; allungò poi il braccio e raggiunse nuovamente l'inizio della spirale dove disegnò un enorme cerchio, colorandolo in malo modo come un bambino delle elementari.
Astron corrugò la fronte, perplesso e stupito, mentre il biondo aveva improvvisamente scosso la testa, sussultando appena e guardandosi attorno come se avesse magicamente dimenticato qualcosa di importante.
Abbassò poi le iridi blu verso la scheda e iniziò finalmente a parlare, indicando il primo punto che aveva segnato. «Questo sono io, mentre l'altro punto è Hayner.», spiegò con aria assorta, facendo scorrere lentamente l'indice verso il filo sottile che collegava i due punti. «Questa riga indica la nostra vicinanza.», successivamente si interruppe improvvisamente e il dottore ne approfittò per chiedere: «I due punti sono sullo stesso piano, quindi tu ti consideri quasi nella sua stessa situazione?»
Roxas scrutò con estrema attenzione la spirale e annuì con una leggera titubanza. «I nostri problemi si assomigliano molto, anche se sono stati causati da motivi del tutto diversi. Siamo entrati qui nello stesso periodo e siamo rimasti insieme per tutto questo tempo», a quel punto si accorse di avere inspiegabilmente la gola secca e si leccò nervosamente le labbra, tastando un fastidioso sapore salato. «quindi sì, siamo sullo stesso piano in questa voragine.»
Il dottore annotò tutto con grande interesse; doveva ammetterlo, quel ragazzo era sempre in grado di stupirlo in qualche modo. «E dimmi, Roxas, secondo te se uno dei due guarirà, anche all'altro potrebbe accadere la medesima cosa?»
Il paziente rimase perfettamente in silenzio e si irrigidì completamente; l'uomo alzò nuovamente lo sguardo e notò l'espressione quasi impaurita del giovane.
Ecco, era quello il problema, il dilemma di quei due ragazzi così tanto affiatati tra di loro. Spesso la loro amicizia era stata considerata come un danno, un modo tutto loro per distruggersi a vicenda; o almeno, così affermava buona parte degli insegnanti.
Lui non aveva mai capito se essi avessero ragione o meno. La loro amicizia aveva i pro e i contro, come in quasi tutte le situazioni.
E uno dei contro più grandi e che uno era dipendente dall'altro. Erano legati da un filo che non li lasciava mai, erano perfettamente incollati, due tasselli di un puzzle bianco uniti tra di loro. Non osavano allontanarsi; la loro amicizia era stata costruita dal terrore di rimanere soli da parte di entrambi, dalla voglia di sopravvivere in qualche modo in quella clinica.
Desideravano ardentemente uscire, ma al tempo stesso erano impauriti dall'abbandonarsi. Avevano paura che se fossero guariti si sarebbero persi di vista. E da un lato sarebbe stata la cosa migliore; se si guardavano a vicenda non avrebbero fatto altro che alimentare i ricordi dei loro giorni passati in quel posto, delle loro angosce e sofferenza.
Si autodistruggevano a vicenda ed erano incatenati in mezzo a quel labirinto in cui non riuscivano ancora a vedere l'uscita.
Roxas non rispose e si limitò ad indicare l'altra linea che collegava il primo punto fino all'inizio della spirale. «Questo è il filo che mi dovrebbe condurre all'uscita. All'inizio è ben evidente, però poi diventa invisibile perché... », si zittì e di nuovo non proseguì il discorso, dedicandosi alla presenza del cerchio posizionato quasi all'esterno della spirale. «Questo è la gente, il mondo. Questo cerchio rappresenta tutti gli altri.»
Lo psicologo si sitemò gli occhiali sul naso, osservando attentamente la scheda. «Quindi tu vedi la gente come qualcosa di lontano da te?»
«Lontano anni luce.», precisò apaticamente Roxas alzandosi, nonostante mancassero ancora dieci minuti alla fine dell'ora. «Io vado.», e abbandonò la stanza senza neanche lasciare il tempo all'uomo di dire altro, chiudendo la porta dietro di sé.
Astron si massaggiò per l'ennesima volta le tempie, sospirando pesantemente.
Era quello il problema. Hayner era collegato a Roxas, e se Roxas avesse provato a seguire il filo che lo conduceva all'esterno della spirale, Hayner lo avrebbe automaticamente seguito.
Era quello il problema.



Non aveva ancora avuto tempo di tornare in camera propria; aveva passato circa due ore a passeggiare per il cortile sotto l'edificio, saltando così anche la cena.
Il fatto è che non se la sentiva proprio di rivedere Hayner. Non ancora, per lo meno. Anche se sapeva perfettamente che non poteva di certo fuggire per sempre da lui. Prima o poi lo avrebbe beccato o per i corridoi o per le scale.
O in sala tv.
A quel pensiero si lasciò sfuggire un sorriso sghembo; nonostante tutto, l'incontro tra quell'alcolizzata e Hayner non se lo sarebbe perso per nulla al mondo. E proprio per questo motivo alle nove di sera entrò nella grande sala già immersa nel buio più totale. Il film era iniziato da qualche minuto e Roxas con una fugace occhiata intuì che molto probabilmente doveva essere d'azione. Al contrario di Hayner, lui detestava quel genere; era sempre la stessa solfa tra inseguimenti e colpi di pistola.
Si poteva saltare l'attività serale soltanto due volte alla settimana, dato che esse non erano propriamente obbligatorie come quelle pomeridiane; ovviamente, però, non ci si poteva recare in cortile dopo l'ora di cena e neanche fare baccano per i corridoi -Nonostante lui ed Hayner avessero violato quel regolamento già un centinaio di volte-. Al massimo si poteva fare una piccola passeggiata per l'edificio o, ancora meglio, rimanersene in santa pace chiusi nella propria stanza.
Il suo migliore amico amava la sera; erano le ore più libere, in cui non c'era quasi nessuno a controllare le sue mosse o ciò che faceva. Non per nulla spesso lo costringeva ad assistere a ciò che combinava; spesso adorava infilarsi nell'aula informatica -Ormai aveva capito come aprire la porta grazie ad una semplice forcina rubata nella camera di qualche ragazza- per fare qualche scherzo bastardo come riempire i computer di virus o costringere i pazienti che più detestava a subire delle figuracce il giorno successivo a causa di siti sconci. Praticamente tutti erano a conoscenza del fatto che era lui l'artefice di quelle follie, ma nessuno aveva le prove per incastrarlo e così quella furia di Hayner avrebbe potuto continuare all'infinito.
Nonostante ci fossero una decina di posti liberi, rimase in piedi, appoggiato al muro con le braccia conserte ad osservare la situazione, facendo comunque finta di essere interessato alla visione del film; la sala era estremamente spaziosa ed era formata da una ventina di file orizzontali di poltrone rosse. Un lusso niente male per una clinica di recupero, questo bisognava ammetterlo.

«Ehi, Hagen», Roxas si voltò di scatto, riconoscendo la figura di un uomo dai lunghi capelli disordinati ricadenti sulle spalle. «Come ti butta la vita?»
Il diciottenne si strinse le spalle, sentendosi immediatamente a disagio. «Come al solito.»
Marluxia Horn -Definito anche 'Porn'- aveva circa ventidue anni e si trovava in quella clinica da sei mesi e mezzo; in quel periodo relativamente breve in confronto a tanti altri pazienti, era riuscito a farsi immediatamente conoscere per la sua folta chioma tinta di un rosa acceso che gli dava un'aria piuttosto femminile, nonostante il carattere dimostrasse l'esatto opposto. Oltre ad un altro piccolo dettaglio: era omosessuale e non aveva avuto alcun problema ad annunciarlo, non facendo altro che girare per i diversi piani alla ricerca di una preda da portarsi a letto.
E questo disgustava enormemente Roxas. Non era il fatto dell'omosessualità di per sé ad irritarlo, assolutamente no; in un posto del genere, pieno di pazzi e malati, non doveva di certo mettersi a fare lo schizzinoso o a giudicare la gente per i loro gusti sessuali o altro. Il vero motivo per cui Marluxia non gli piaceva, oltre al fatto che faceva parte dell'allegra combriccola degli svitati del terzo piano, era semplicemente che ci aveva provato spudoratamente con lui già ben cinque volte.
Le prime volte si era limitato a riempirlo di lusinghe anche romantiche, lasciandogli perfino delle rose davanti alla porta di camera sua; poi, notando che le sue attenzioni non venivano ricambiate in alcun modo, era passato agli apprezzamenti più pesanti e sconci, palpandogli addirittura il sedere e ricevendo in risposta un pugno sul naso durante l'ora di giardinaggio -Materia che, al contrario di Marluxia, Roxas detestava a morte. Non gli interessava assolutamente nulla di come piantare uno stupido fiore, per lui poteva benissimo anche appassire-.
E tutto questo si aggiungeva al fatto che lo trovava estremamente inquietante, sotto diversi punti di vista. Erano ben pochi a sapere del perché fosse finito in quel posto di matti e Roxas era uno di quelle persone che, in quel caso, preferiva tapparsi le orecchie e fare finta di niente. Soprattutto quando aveva sentito dire in giro che forse aveva un piercing nelle suddette 'parti basse'.
L'uomo sorrise. «Dov'è il tuo amichetto?»
Roxas dal canto suo sollevò istintivamente un soppraciglio. «Cos'è, quella vipera di Larxene ti ha chiesto di fare il lavoro sporco al posto suo?», sputò aspramente, consapevole di essere conosciuto anche per la sua estrema bastardaggine; Marluxia però non fece una piega, mantenendo la sua solita espressione dipinta sul volto. «No, mi dispiace dirtelo, ma hai sbagliato, caro il mio biondino. Semplicemente lo sto cercando anch'io per poterlo consegnare a Larxene.»
«Così lei gliene potrà dare di santa ragione.», concluse il diciottenne apaticamente. «E che cosa ti farà credere che io ti dica dove si trova Hayner?»
«Volete chiudere o no la bocca? Sto cercando di seguire il film.», si intromise improvvisamente un ragazzo dai capelli argentati seduto nell'ultima fila, voltandosi verso gli altri due con aria estremamente irritata.
Marluxia alzò allegramente la mano sinistra in segno di saluto. «Andiamo Riku, datti una calmata. Non è mica colpa mia se questo bocconcino non mi vuole dire dov'è Wiedenkeller.»
«Peccato che il suddetto ''bocconcino'' se la sia data a gambe.», osservò con indifferenza Riku, indicando con un cenno della testa lo spazio del muro in cui prima vi si era appoggiato il biondo; Marluxia sobbalzò e grugnì qualche insulto a denti stretti, uscendo immediatamente dalla sala e iniziando così a correre.
«Svitati.», commento tra sé e sé il ragazzo dai capelli argentati, tornando ad osservare il grande schermo nella speranza di godersi finalmente il film in pace.
Nel frattempo Roxas stava cercando di correre il più velocemente possibile, sforzandosi in ogni modo di ignorare il solito dolore alle gambe; rischiò di scivolare lungo le piastrelle, ma riuscì a mantenere miracolosamente l'equilibrio.
«Hagen, lo sai che sono più veloce di te!», sentì tuonare alle proprie spalle. «Ti consiglio di fermarti e di dirmi dov'è Hayner, altrimenti se Larxene spezzerà le ossa a lui, io farò la stessa cosa con te!»
Ma poi perché diavolo doveva cacciarsi anche lui nei guai? E sempre per colpa del suo migliore amico, per giunta. Insomma, lui non sapeva neanche dove si fosse cacciato, però, nonostante avessero litigato, non se la sentiva proprio di farlo ammazzare di botte da quella vipera di Larxene.
«Aqua!», udì improvvisamente chiamare dall'uomo che non cennava a rallentare la propria corsa. «Fermalo, ti prego! Ferma questa peste!»
Roxas tornò ad osservare di fronte a sé e notò che in fondo al corridoio vi era appunto una ragazza da capelli celesti e lisci; Aqua inclinò il volto su un lato, non riuscendo ad inquadrare la situazione di fronte a sé.
«Prendilo, cazzo!», strillò Marluxia e questa volta lei si convinse e spalancò le braccia; il diciottenne rallentò immediatamente la corsa fino a fermarsi, notando, con sua grande fortuna, la presenza dell'ascensore alla sua destra. Premette velocemente il tasto ed esso si aprì.
«Buona serata, coglioni.», salutò con un falso sorriso dipinto sul volto prima di entrare velocemente, schiacciando un pulsante a caso giusto l'attimo prima in cui l'uomo potesse raggiungerlo; attraverso il vetro trasparente vide il suo volto infuriato e sventolò allegramente la mano sinistra, facendolo irritare ulteriormente.
Tirò un sospiro di sollievo quando udì una voce accanto a sé. «Anche tu qui?»
Roxas lanciò un urlo a causa dello spavento, finendo con le spalle al muro e sentendo nel frattempo il cuore in gola; vide poi il volto divertito del suo migliore amico e si mise una mano sul petto. «Cazzo, potevi dirlo che eri qui.»
Hayner sghignazzò. «Volevo farlo, ma sembravi impegnato a fuggire dal gay e dall'altra sua amichetta.»
«Sì, e per colpa tua.», osservò aspramente l'altro, riprendendosi del tutto dal colpo mentre le porte dell'ascensore si aprirono; Roxas porse il volto fuori e si guardò attorno. «Ma guarda tu che fortuna, siamo capitati proprio nel nostro piano.», e, dopo aver detto ciò, iniziò a camminare per i lunghi corridoi, seguito a ruota dal compagno che riprese a parlare. «Dovevi vedere quella bestia di Larxene; quella è tutta fuori, te lo dico io! E' venuta a cercarmi come una furia ancora prima che mi recassi in sala tv: voleva riempirmi di botte, cazzo. Sono stato salvato da Astron che era per i corridoi e l'ha fermata, altrimenti a quest'ora non sarei più in questo mondo.», raccontò con fare teatrale Hayner, annuendo. «Alla fine me la cavo sempre, perché io sono il grand-»
«Perché ti comporti in questo modo?», Roxas si fermò improvvisamente, voltandosi verso l'amico prima di osservarlo intensamente negli occhi. «Insomma, prima mi mandi a quel paese e adesso... Adesso mi parli come se nulla fosse?»
L'espressione dell'altro cambiò immediatamente e i suoi occhi marroni si fecero più scuri. «Non ti aveva mai detto fastidio il nostro modo di fare pace.», rimase in silenzio per qualche secondo prima di sembrare improvvisamente preoccupato e allarmato. «Aspetta, Astron ti ha detto qualcosa?»
Roxas scosse la testa. «No, perché? Gli dici qualcosa di particolare su di noi durante le tue sedute?», e finalmente ebbe il coraggio di chiederglielo apertamente. Sperò intensamente che rispondesse; sperò che gli dicesse una volta per tutte ciò che aveva da dire. Sperò e, come sempre, il suo desiderio non si realizzò.
«Ma figurati.», si affrettò a dire con aria vaga Hayner, facendo un cenno con la mano prima di tornare il solito ragazzo dal sorriso ironico stampato sul volto. «Gli parlo solo delle cagate che faccio durante le ore della signora Olsen.»
Roxas accennò un sorriso tirato, decidendo di lasciare perdere l'argomento per poi riprendere a camminare.
«Non dirmi che vuoi già tornare in camera? Non sono nemmeno le dieci! Neanche i vecchi dell'ultimo piano vanno a dormire così presto.», gli fece notare l'amico, accostandosi a lui. «Dai, Roxas, andiamo a fare qualcos'altro.»
«Come farci ammazzare da Larxene e Marluxia? Scommetto che avranno costretto tutti gli svitati del terzo piano a cercarci. Questa sera lascia perdere, Hayner. Sono troppo giovane per morire.»
Nonostante talvolta si ritrovava a pensare che forse la morte sarebbe stata meno dolorosa della sua attuale situazione.
Hayner sospirò pesantemente con aria arrendevole. «Va bene, va bene.»
«E comunque non dobbiamo mica dormire per forza.», proseguì Roxas, giungendo di fronte alla porta della propria camera.
«Allora cazzeggiamo un po' nella tua stanza.», concluse il compagno, ritrovando il buon umore; l'altro fece per aprire la porta, quando si fermò per qualche secondo, facendo cenno ad Hayner di tacere. «Non la senti?»
«Cosa?»
«La musica.», rispose il giovane dalle iridi blu, appoggiando l'orecchio sinistro sulla porta con aria indagatoria. «Adesso si sente benissimo.»
Hayner imitò il suo gesto e si illuminò immediatamente. «Cazzo, è vero.»
«I've got that summertime, summertime sadness.», ripeté le parole della cantante, allontanandosi di scatto dalla porta; alzò poi lo sguardo sul piccolo cartellino che segnava il numero trentaquattro, quasi timoroso di aver sbagliato seriamente stanza. Si voltò poi all'indietro e notò la porta graffiata del suo migliore amico che segnava il numero trentadue.
«Sicuro che non hai una radio?», chiese improvvisamente Hayner, assai perplesso; Roxas lo guardò male prima di rispondere ironicamente. «A meno che non l'abbia tirata fuori dal culo o che non me l'abbia portata la fatina dei denti, no.»
«Allora lì dentro c'è qualcuno.», alla conclusione dell'amico il biondo sentì un brivido freddo percorrergli la schiena.
E se fosse davvero... ?
«Ci devono aver fatto qualche scherzo idiota.», commentò poi con voce improvvisamente tremante Roxas, come se stesse cercando di convincere se stesso; tirò fuori la chiave e fece scattare la serratura, aprendo la maniglia con il cuore in gola.
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*Note di Ev'*
Ed ecco qui il secondo capitolo di 'Insidie Interiori'.
Vorrei anzittutto ringraziare le persone che hanno recensito il capitolo precedente; siete stati adorabili, davvero, vi prometto che risponderò presto ai vostri commenti e mi auguro che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento.
Passiamo dunque all'analisi (?). Il capitolo è diviso in due parti; all'inizio si vede Roxas che parla appunto con il suo psicologo e si scopre qualcosa in più sul rapporto tra lui ed Hayner, nonostante non si sappia ancora quali problemi reali abbiano. Mentre, nella seconda parte, vediamo un folle inseguimento tra Marluxia e il biondo, il quale poi fa pace con il suo migliore amico e insieme si recano in camera. Lì, però, sentono una canzone provenire dall'interno e... Bum, ho interrotto sul più bello. Inizialmente avevo pensato a proseguire un altro po', ma ho preferito lasciarvi la tensione addosso è_é
Mah, non ho molto da dire... Questa storia mi sta prendendo parecchio, sì.
E, come sempre, vi prego di recensire Siamo appunto in un sito in cui ci si deve confrontare e quindi mi sembra giusto lasciare un commento in qualsiasi storia si legga.
Bene, detto ciò, posso svanire di scena.
Alla prossima!
E.P.R.

 

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Capitolo 3
*** Bad luck. ***


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Insidie interiori.

 

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3. Bad luck

 

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Era nato nel posto sbagliato, ecco tutto.
Si era ritrovato in una fottuta città inculata in Norvegia, uno dei paesi più deprimenti del mondo insieme al resto della Scandinavia.
Probabilmente quello era stato il suo primo errore, il suo primo sbaglio. L'inizio di una sfortuna senza fine.
In quel posto dove il tempo scivolava via dalle mani senza che qualcuno se ne potesse accorgere, Roxas Hagen aveva iniziato a rigirarsi ripetutamente nel letto in piena notte, inventandosi ogni volta nuove teorie per spiegare la sua immensa sfiga che, a quanto pare, lo perseguitava fin da bambino.
Era nato nel posto sbagliato, in un covo di depressi nel quale a malapena si vedeva la luce del sole e dove la gente risolveva i problemi attaccandosi ad una lattina di birra, parlando poi della propria vita privata accanto al vicino sconosciuto, in un bar nascosto in fondo alla città dove le mogli non avrebbero potuto scoprirli.
Così ritornavano a casa sempre più tardi, prima a mezzanotte, poi anche all'una o alle due, e iniziavano ad utilizzare le scuse più idiote, le bugie, le menzogne che riempivano il rapporto, il quale stava lentamente ed inesorabilmente cadendo nello sconfinato vuoto della perdita.
Game over.
A circa sette anni Roxas si era recato sulla cima di una piccola collina di neve, sventolando la mano coperta dai guanti per fare un cenno ai suoi compagni che lo attendevano in fondo.
«Guardatemi!», aveva urlato a gran voce prima di sorridere, prendendo così posto sullo slittino di legno che gli aveva costruito suo padre; aveva alzato per un attimo gli occhi verso il cielo nuvoloso e poi aveva finalmente iniziato la discesa, galleggiando tra la soffice neve e l'aria gelida che gli tingeva dolcemente le guance di rosa.
La soffice neve assassina. Successivamente aveva iniziato a chiamarla così.
Si era accorto troppo tardi che stava andando ad una velocità eccessiva: troppo tardi, troppo veloce.
'Fermati slittino, ti prego. Fermati, fermalo, fermatelo!'
Eppure la voce non gli era uscita dalle labbra pallide e tremanti; aveva solo avuto il tempo di sgranare gli occhi prima di finire contro l'abete che i signori Shear avevano addobbato per Natale.
Quel giorno aveva compreso molte cose. Prima di tutto, aveva capito che la neve era soffice e assassina. Seconda cosa, aveva scoperto che detestava sentire le persone gridare il suo nome con orrore e paura, mescolati ai loro volti immersi in una maschera di terrore. Aveva anche capito che il sangue aveva uno strano odore, soprattutto il suo. Poi aveva appreso l'ultima cosa, la più importante.
Era sfortunato. Troppo sfortunato.
E in quel momento ebbe l'ennesima prova della sua sfiga.
Aveva ancora la mano appoggiata sulla maniglia della porta, lo sguardo perplesso e stralunato puntato di fronte a sé e le labbra sottili un poco schiuse; Hayner, accanto a lui, sollevò istintivamente un soppraciglio e non si fece scrupoli a prendere la parola. «Ma cos'è, uno scherzo di merda?»
«Forse hanno iniziato a prendere anche gli uomini per mettere in ordine le stanze.», tentò di azzardare poi Roxas, riprendendosi dallo shock iniziale.
«Ma di solito passano la mattina, non alla sera.», osservò il compagno, incrociando le braccia. «E poi perché diavol-»

«E voi chi cazzo siete?», l'intruso della stanza si fece finalmente sentire e spense lo stereo che aveva appoggiato sul comodino, proprio accanto al libro di Jim Morrison che Roxas amava tanto.
«Ehi, piano con le parole», lo incalzò Hayner, come se il suo linguaggio fosse tanto diverso. «Dovresti limitarti a sistemare la stanza, non rompere anche i coglioni e ascoltare musica a tutto volume.»
Il suo interlocutore si alzò di scatto dal letto, mettendo in mostra la sua altezza di ben 1,80 centimetri, capelli non compresi. «Ma per chi mi hai preso?», sputò poi con rabbia, sollevando anch'egli un soppraciglio. «Per la donna delle pulizie?»
Hayner a quel punto sgranò le iridi marroni, facendo finta di mostrarsi stupito. «Sei una donna? Woh, allora avevo pensato giusto, cazzo!», successivamente tirò una gomitata all'amico che ridacchiò appena.
«Ma andatevene a 'fanculo. Uscite dalla mia stanza prima che vi obblighi io a farlo con dei calci in culo.»
A quella minaccia il ragazzo si irrigidì immediatamente; Roxas invece, dal canto suo, fece un paio di passi indietro, osservando per l'ennesima volta il numero della stanza: era giusto, dannazione, era più che giusto, a meno che non fosse diventato cieco di punto in bianco.
Dopodiché puntò gli occhi di fronte a sé, scrutando l'uomo con estrema attenzione: aveva una capigliatura assai strana che ricordava vagamente dei petardi sparati in aria di un colore rosso acceso; le sue iridi, verdi come lo smeraldo, avevano una forma felina ed erano circondate da un sottile strato di eye liner -Il che fece pensare ai due giovani che fosse frocio o una sorta di travestito-; il suo volto invece era spigoloso e aveva un mento leggermente pronunciato; un'altra cosa che saltava subito all'occhio, oltre ai capelli, erano certamente i due tatuaggi viola sugli zigomi simili a lacrime capovolte.
Roxas era stanco, stressato, e aveva passato una giornata 'più merdosa della solita merda che è di solito'.

Sentiva che lei stava tornando a divorarlo, svuotandolo al tempo stesso, e sapeva che le sue gambe stavano praticamente per cedere.
Schiuse le labbra e si decise finalmente a parlare. «Cos'è, dal circo ti hanno trasferito in una clinica? Sei passato da pagliaccio a pazzo? Si sente la puzza di alcool a chilometri di distanza; almeno abbi la decenza di lavarti. Questa è la mia stanza, quindi fuori dalle palle. », disse con tono pacato e aspro, mantenendo lo sguardo freddo e distaccato, lo stesso che utilizzava quando litigava con Hayner.
Quest'ultimo, nel frattempo, fece per scoppiare a ridere, estremamente divertito dal discorso dell'amico, quando vide tutto succedere in un attimo soltanto.
A malapena riuscì a scorgere l'imponente figura del rosso stringere di scatto i pugni prima di fiondarsi contro Roxas, afferrandolo per il collo per poi spingerlo contro il muro, fuori dalla stanza. «Che cazzo hai detto piccolo stronzetto?! Che cazzo hai detto su di me?! Ripeti, dai!»
Il biondo tossì appena, le gambe tremanti e l'espressione piuttosto confusa e persa di fronte all'improvviso cambiamento della situazione; socchiuse un poco le palpebre e riprese a parlare, la voce strozzata e quasi bloccata in gola. «Mi correggo. Non sei pazzo, ma semplicemente uno schizzato del cazzo.»
Vide il volto dell'uomo assumere lo stesso colore dei suoi capelli e subito dopo si ritrovò a terra con il naso immerso in un lago di sangue.
Almeno adesso non doveva più cercare di reggersi in piedi.
«Roxas! Ma sei fuori?! Brutto coglione, io ti ammazzo! Bastardo!», udì la voce di Hayner e per un attimo gli sembrò lontana, tremendamente lontana; si resse la testa che gli stava pulsando in maniera incontrollabile e si riscosse, cercando di rialzarsi.
Si sentiva mancare il fiato. Era stretto, orribilmente stretto, come quel minuscolo spazio tra il mobile e il muro in cui si infilava una volta.
Alzò faticosamente lo sguardo e vide il suo migliore amico muovere ossessivamente le labbra con lo sguardo infuriato; eppure non riusciva più a udire la sua voce, era tutto come un film muto, erano delle parole censurate, gli stavano tappando le orecchie e anche le figure stesse iniziarono a sembrare confuse e offuscate.
Il dipinto era ancora fresco e qualcuno ci aveva messo il dito sopra, stava mescolando i personaggi, Roxas non capiva più, non vedeva più, era tutto sbiadito.
Sbatté ripetutamente le palpebre e fece soltanto la prima cosa che gli venne in mente; fece solo ciò che gli disse l'istinto in quel momento.
Doveva restituire il regalo.
Si avvicinò all'uomo e lo costrinse a voltarsi, tirandogli a sua volta un pugno sul labbro e facendolo così barcollare appena.
Non udì ciò che gli gridò contro. Era tutto muto, un mondo silenzioso che veniva riempito dalle espressioni e dagli sguardi.

 

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''Roxas, ti ricordi ancora di me?''

 

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Indietreggiò e lei lo fece cadere; socchiuse gli occhi e si lasciò andare finché un paio di braccia non lo sorressero prontamente per le ascelle. 

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''E' tutta colpa tua! Che cazzo gli hai fatto?!
Che cazzo hai fatto?! Rispondi!''

 

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Respirò affannosamente e tossì ancora, questa volta più forte di prima, percosso da frequenti brividi.
«Roxas? Roxas, cazzo, Roxas, che hai?», il mondo aveva ripreso la parola e sentì la voce di Hayner accanto a sé mentre lo stringeva.
«Roxas? Roxas, hai mangiato oggi?»
Hai mangiato oggi?
Hai mangiato oggi?
Hai mangiato oggi?

Il mondo vorticò, i colori si unirono e lui chiuse definitivamente le palpebre. 


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C'era un gatto.
Quella era la prima cosa che si ricordava.
C'era un gatto bianco a macchie marroni nel parcheggio sotto casa sua.
Era un gatto randagio che girava sempre da quelle parti e a lui piacevano tanto i gatti.
Lo aveva chiamato Fuffi.
Suo padre gli aveva detto che era un nome stupido, ma per lui andava bene così.
A quei tempi molte cose andavano bene per Roxas. Diceva sempre che stava bene così, che non importava, che sarebbe potuto andare peggio.
Infatti poi andò peggio. Molto peggio.
Fuffi all'inizio era diffidente e quando gli si avvicinava lui scappava via, come tutti i gatti d'altronde.
Poi, con il passare del tempo, aveva iniziato ad abituarsi alla sua presenza; si lasciava accarezzare e se Roxas batteva le mani lui si avvicinava sempre.
Aveva persino iniziato a seguirlo ovunque e quando doveva risalire in casa il gatto appoggiava le zampe sul vetro della porta e lo osservava con aria triste.
Fuffi era triste e Roxas si sentiva altrettanto male a vederlo in quello stato; così qualche volta apriva il portone e giocava ancora un po' con lui.
Altre volte invece lo guardava per qualche secondo e poi si girava, iniziando a salire le scale.
A Roxas piacevano i gatti e Fuffi era suo amico.
 


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Il filo che collegava la sua mente ai sogni si ruppe e a lui parve improvvisamente di cadere, di precipitare in una voragine che si stava aprendo di fronte a sé.
Aprì di scatto le palpebre prima di schiantarsi, infastidito da un rumore.
Si guardò attorno e non vide altro che l'oscurità più totale che divorava la stanza; sospirò pesantemente e si massaggiò le tempie, cercando di risvegliarsi del tutto nonostasse la solita stanchezza continuasse a scavargli l'anima.
Si scostò faticosamente le coperte di dosso e si alzò, barcollando un poco; appoggiò una mano sul gelido muro nella speranza di mantenere l'equilibrio.
La testa gli faceva male da impazzire e gli sembrava che qualcuno stesse suonando un tamburo nel suo corpo.
Era insopportabile. La sua situazione era insopportabile e lui si sentiva morire ogni giorno di più.
A quanto pare la corsa che aveva fatto la sera prima per sfuggire dalle grinfie di Marluxia gli aveva prosciugato completamente le energie; sapeva perfettamente che per lui soltanto rimanere in piedi era un miracolo, figurarsi poi correre.
Non per nulla era l'unico esonerato dalla lezione di ginnastica; i medici gli avevano detto che per lui fare motoria sarebbe stato letale, ma Roxas non li aveva mai dato ascolto.
Lui voleva muoversi. Voleva farlo ad ogni costo; voleva muovere le gambe, le braccia, voleva correre nonostante il suo corpo stesse praticamente cadendo a pezzi, voleva fare le flessioni nonostante le sue braccia non riuscissero più a reggere il suo peso.
Voleva perdere peso.
Roxas Hagen voleva perdere peso all'infinito.
Non gli interessava di quei fottuti medici; durante la lezione di motoria si ostinava a gridare contro la professoressa, dicendole che se la regola era che fossero tutti uguali, anche lui aveva tutto il diritto di fare sport.
E così poi lei si arrendeva, lo lasciava muoversi liberamente nonostasse spesso barcollava, nonostante il suo sguardo stanco, nonostante il suo corpo non era altro che un ammasso di ossa e pelle.
Però in quel momento c'era qualcos'altro che sembrava sfinirlo. Il problema era che non ricordava cosa.
Sentì un'improvvisa fitta al naso e se lo tastò lentamente, accorgendosi della presenza di un cerotto su di esso; in un attimo tutto gli tornò alla mente, i ricordi riemersero dall'oblio e lui ricordò.
C'era un'altra persona nella sua stanza.
Si voltò lentamente alla sua sinistra. Lo sapeva, lo sentiva; sentiva il suo pesante respiro riempire la camera stretta, troppo stretta.
Pensò che probabilmente quella non sarebbe più stata soltanto la sua stanza. Avrebbe dovuto condividerla, e lui detestava a morte condividere le cose, soprattutto con uno sconosciuto che al posto di presentarsi decentemente gli aveva tirato un pugno sul naso.

Alle prime luci dell'alba sarebbe andato dal preside e lo avrebbe mandato a quel paese senza tanti giri di parole: come diavolo si permetteva di rifilargli un nuovo arrivato che puzzava di alcool e che non riusciva a trattenere i suoi scatti di rabbia?
Ebbe il forte impulso di vendicarsi con qualche scherzo bastardo; avrebbe potuto prendere dell'acqua fredda e lanciargliela sul volto, facendolo strillare in piena notte dallo spavento, oppure gridargli nell'orecchio, o ancora tagliargli quegli orribili capelli rossi, o forse...
Scosse la testa, sospirando: non voleva ricevere altri pugni o roba del genere.
Si era svegliato perché aveva sentito un rumore fuori dalla stanza e sapeva già di che cosa si trattava.
Aprì lentamente la porta che emise un sinistro scricchiolio e un flebile fascio di luce lo illuminò di scatto, facendogli notare solo in quel momento che indossava il suo pigiama bianco; sbatté più volte le palpebre e alzò lo sguardo di fronte a sé, incrociando un paio di occhi marroni. «Ci scommettevo che eri tu.»
«E chi ti aspettavi? Il fantasma di Jim Morrison?», fece ironicamente Hayner, spostando ripetutamente la luce lungo il corridoio. «'Sta merda di torcia si sta scaricando. Mi sa che dovrò rubarne un'altra alla Dahl.»
«Cos'è successo?», chiese sordamente il compagno senza troppe cerimonie. «Prima, intendo.»
«Vuoi il riassunto o il poema nei minimi dettagli?»
«Tutto nei minimi dettagli, credo.», mormorò con leggera titubanza il biondo, osservando l'espressione dell'amico grazie alla luce tremante; le sue iridi marroni sembrarono scrutarlo con estrema attenzione e aveva corrugato la fronte, quasi fosse contrariato o a disagio in qualche modo.
Detestava quando Hayner lo guardava in quel modo. Lo metteva in soggezione, lo faceva sentire strano e gli ricordava sempre di quel presagio che aveva nei suoi confronti.
I lineamenti del ragazzo si distesero improvvisamente e tornò a sorridere. «Va bene», disse frettolosamente prima di afferrare di scatto il polso di Roxas, lasciandogli a malapena il tempo di richiudere la porta della sua stanza. «andiamo a parlare da me che è più sicuro.»
Successivamente Hayner fece qualche passo in avanti e puntò la torcia verso la serratura della porta di camera sua, aprendo così la maniglia.
«Non chiudi a chiave?», domandò improvvisamente Roxas nonostante gliel'avesse già chiesto parecchie volte; Hayner ridacchiò nervosamente, facendo entrare l'amico nella stanza prima di chiudere la porta dietro di sé. «Chi vuoi che entri? Faccio soltanto un salto in cucina.», e, dopo aver risposto, fece cadere la torcia per terra che si ruppe immediatamente; accese la luce dell'abat-jour e si sedette sul letto, aprendo velocemente il budino che aveva in mano.
«Dovresti smetterla con questi spuntini notturni», disse improvvisamente l'altro con fare rimprovero. «anche se riesci a non farti scoprire è sempre un male per te.»
Hayner aveva già impugnato un cucchiaino di plastica e aveva iniziato a mangiare voracemente, sentendo a malapena il gusto della cioccolata accarezzargli il palato. «Sei la persona meno adatta per dirmi cos'è sbagliato, Roxas», replicò con improvvisa freddezza, pulendosi di tanto in tanto la bocca con la manica del pigiama bianco. «scommetto che tu oggi non hai mangiato.»
Roxas si irrigidì immediatamente. «Non stavamo parlando di me.»
«Bene, e io non voglio parlare delle mie cattive abitudini alimentari.», concluse frettolosamente Hayner, finendo in pochi secondi il budino prima di buttarlo in malomodo sul pavimento, iniziando poi ad aprire ossessivamente i cassetti del suo comodino. «Qualcosa da mangiare, cazzo, cazzo, cazzo. Avevo nascosto qualcosa da mangiare ieri sera, si può sapere dov'è finito?! Se quelle stronze delle donne delle pulizie me lo hanno fottuto io giuro ch-», la minaccia gli si bloccò in gola non appena le sue mani toccarono una barretta; la tirò immediatamente fuori e la scartò in un attimo, portandosela velocemente alla bocca.
Roxas voltò di scatto lo sguardo altrove, infastidito dall'odore del cibo che gli aveva già fatto brontolare lo stomaco. «E quella dove l'hai trovata?»
«Mary tiene di tutto nel frigo della mensa, non lo sapevi?», chiese retoricamente l'amico con la bocca piena, finendo immediatamente anche la barretta; si portò una mano alla gola e sentì i soliti dolori alla pancia che lo costrinsero a correre in bagno per fargli vomitare tutto quello che aveva appena mangiato.

Il compagno sospirò pesantemente, prendendo posto sul materasso e stringendosi le gambe al petto; nascose il volto tra le ginocchia e cercò di ignorare le quotidiane fitte allo stomaco che lo torturavano in ogni momento.
Aveva mangiato solamente una mela; il pranzo lo aveva saltato, mentre a colazione e a cena aveva dato tutto di nascosto al suo migliore amico, come sempre d'altronde.
Ecco perché molti insegnanti dicevano che l'amicizia tra lui ed Hayner era distruttiva: avevano dei problemi simili e al tempo stesso opposti. Sapevano in un certo senso capirsi a vicenda ed entrambi avevano lo stesso dilemma che però risolvevano in maniera differente.
Lui non mangiava. Non mangiava, beveva acqua fino a sentire il liquido rimbombare nelle pareti dello stomaco e correva talmente tanto da arrivare allo svenimento, oltre ovviamente a passare il tempo a guardarsi ossessivamente allo specchio con la maglia alzata.
Era orribile. Lei era orribile.
All'inizio aveva pensato che lei lo avrebbe salvato, e invece era stata la sua rovina.
L'anoressia lo aveva ucciso; lo aveva divorato, distrutto, e non voleva abbandonarlo nonostante fossero passati quasi due anni.
Gli scavava la pelle, metteva in mostra le sue ossa, le sue costole, tutto; lo spogliava, lo mostrava pallido, tremante ed orribilmente debole.
Eppure lui continuava a vedersi. Era quello il problema: lui continuava a vedersi troppo, si sentiva troppo, su di sé sentiva ancora troppo peso, troppo, troppo, era grasso, si sentiva grasso in maniera schifosamente inacettabile e doveva rimediare.
Ancora un paio di chili, si diceva. Un paio di chili e poi la smetto, giuro, si ripeteva ogni giorno; se lo diceva sempre, era un digiuno infinito, una dieta assassina, uno schifo, si sentiva uno schifo e si sentiva sempre troppo.
Hayner invece mangiava. Mangiava tanto, tantissimo; il cibo non faceva quasi in tempo ad arrivare allo stomaco che lui si infilava due dita in gola e rigettava immediatamente tutto nel gabinetto, il volto basso e gli occhi sbarrati di fronte a quell'oscenità.
Al contrario suo, Hayner non si faceva problemi a dire che soffriva di bulimia, anzi; spesso ci scherzava su, diceva che era un bulimico del cazzo e che mangiava come una bestia, talvolta anche ridendo.
L'unica cosa che lo infastidiva era quando qualcuno gli diceva che ciò che faceva era sbagliato.

Infatti per lui andava bene così. Gli aveva sempre detto che non c'erano problemi perché tanto poi avrebbe vomitato e infatti non per nulla non era di certo grasso; aveva un fisico invidiabile e le braccia possedevano addirittura un cenno di muscoli.
Ma Roxas sapeva che stava comunque male dentro.
Non riusciva a godersi il cibo. Quando si sentiva uno schifo si lanciava sul cibo e mangiava, mangiava fino a star male, mangiava tutto, tanto, velocemente, non si godeva nessun sapore, niente di niente; voleva solo mangiare e sfogarsi, voleva riempire quel vuoto, quel dannatissimo vuoto e così mangiava, mescolava pietanze e stava male, stava male fino a rigettare tutto anche spontaneamente.
Durante i pasti faceva finta di mangiare normalmente, soprattutto quando talvolta passavano i medici a controllare; impugnava lentamente la forchetta e faceva quel suo mezzo sorriso ironico, portandosi il cibo alla bocca e masticando con estrema tranquillità.
Era un ottimo attore, quello Roxas doveva ammetterlo.
Per lui era molto più difficile. Quando sentiva addosso le occhiate dei medici stringeva le posate con le mani tremanti e si sforzava in ogni modo di ingoiare tutto, sentendo comunque i sensi di colpa trapanargli l'intera anima in un sussulto violento.
Si sentiva uno schifo quando mangiava. Era orribile, veramente orribile. Mangiare era la tortura peggiore.
Per questo lui ed Hayner consumavano i pasti in meno di dieci minuti; lui nascondeva una parte del cibo nei tovaglioli e li buttava nel cestino, facendo finta di nulla, mentre l'altra parte la faceva mangiare al suo compagno.

Però Hayner non era mai sazio. Si sentiva sempre vuoto e almeno quattro volte alla settimana, in piena notte, andava in cucina a rubare qualcosa da mangiare. Era più forte di lui e quando Roxas lo aveva visto per i corridoi la prima volta con in mano due sacchetti di patatine e un panino alla marmellata, era rimasto sconvolto.
Le prime settimane in cui lo aveva conosciuto aveva pensato che fosse sulla via della guarigione dato che in mensa recitava così bene; e invece no, di notte tornava tutto, mangiava, mangiava velocemente e vomitava.
Così, ogni volta che veniva svegliato da strani rumori fuori dalla sua stanza, sapeva già chi era e si alzava immediatamente dal letto, sperando di distrarlo e di farlo stare meglio con una sana chiacchierata notturna nella sua stanza.
«Eccomi.», alzò le iridi blu e osservò il volto del suo migliore amico che si sforzava in ogni modo di sorridere. «Allora, dicevamo?»
«Devi raccontarmi ciò che è successo.», borbottò Roxas facendosi a malapena capire; Hayner annuì e riprese immediatamente la parola. «Sì, giusto. E' un bel casino, eh», si schiarì la voce e si sdraiò sul piccolo letto, sfiorando la schiena dell'altro con le gambe. «Il tipo schizzato che ti ha tirato un pugno sarà il tuo compagno di stanza.»
«COSA?!»
«Sssh», lo incalzò Hayner, divertito alla vista degli occhi sgranati e dall'espressione sconvolta del biondo. «Vuoi che ci scoprano?»
Roxas scosse la testa e si massaggiò le tempie, sperando vivamente di aver sentito male; il compagno ridacchiò sommessamente e si scostò un poco, facendogli cenno di sdraiarsi accanto a sé.
«Dimmi che mi stai prendendo per il culo», lo implorò con aria sconsolata il giovane dalle iridi blu cobalto, coricandosi. «non può essere vero.»

«Mi dispiace per te, caro il mio Roxas, ma questa è la dura realtà. Quel tipo non stava sparando palle quando diceva che quella era la sua stanza. Non so che cazzo gli sia venuto in mente a quel maledetto bastardo di Xemnas.»
Roxas sospirò per l'ennesima volta, appoggiando la testa accanto al braccio del compagno. «Domani andrò nel suo ufficio e gli parlerò.»
«Dovrai farlo comunque.»
«Mh?»
«Domani dopo colazione vuole che tu e Mr. schizzato andiate nel suo ufficio. Probabilmente vi farà una bella ramanzina del cazzo per le botte che vi siete dati e vi dirà che dovrete condividere la stanza.»

«Ma vaffanculo!», tuonò improvvisamente Roxas, mettendosi nuovamente a sedere. «Ha iniziato lui! Mi ha dato un pugno! Che cazzo avrei dovuto fare?! Accarezzarlo?!»
Hayner sghignazzò, nonostasse fosse dispiaciuto per la sfortuna dell'amico. «Non preoccuparti, ti accompagnerò anch'io dal preside e ti difenderò. Vedrai che butteremo fuori dalla tua stanza quel sottospecie di pagliaccio schizzato. Gli diremo che era ubriaco e che ha iniziato a picchiarti senza alcun motivo.»
«Ma questo non si chiama mentire?», Roxas si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito e l'altro ridacchiò nuovamente, scuotendo la testa. «No, questo è soltanto difendere i propri diritti e la propria stanza. E poi non è una bugia; era ubriaco, puzzava da far schifo!»
«Già.», biascicò appena il biondo. «Comunque non voglio che venga anche tu domani.»
«Cosa? E perché?», Hayner corrugò immediatamente la fronte e si sedette anche a lui, osservando con aria cupa il compagno che sospirò. «Voglio pensarci da solo, Hayner. Vedrai che me la caverò.»
«Ma hai bisogno di un testimone!», trillò in risposta il diciottenne dalle iridi marroni, afferrando l'altro per le spalle. «Andiamo, io voglio solo aiutarti, lo sai.»
Roxas voltò un poco lo sguardo altrove, leggermente infastidito dal contatto dell'amico; lo detestava davvero in quei momenti. Lo soffocava, lo riempiva di tutte quelle parole, di quegli sguardi, di quelle stranezze, di quelle cose sconosciute che ancora non sapeva di lui. «Xemnas non ti crederà comunque, dopo tutte le cazzate che hai fatto.»
Questa volta fu Hayner a sospirare rumorosamente prima di porgersi un poco in avanti, appoggiando la testa sulla spalla sinistra del compagno. «Sì, hai ragione. Comunque cerca di togliere dalle palle quello schizzato, mi raccomando.», e sorrise, facendo rabbrividire Roxas senza alcun motivo preciso.
«Sicuro», borbottò poi frettolosamente. «Comunque, devo sapere altro?»

Hayner fece un cenno positivo con la testa, allontanandosi dall'amico prima di riprendere a parlare. «Quando sei svenuto sono arrivate un paio di infermiere e ti hanno fatto un controllo al naso. Quel coglione ti ha rotto un capillare e teoricamente dovresti fare il laser o qualcosa del genere. Il problema è che con i fondi di questo schifo di posto ci vorrà un almeno mesetto.»
Roxas si alzò faticosamente dal letto, scosso dalla notizia. «E quindi? Cos'è, morirò o qualcosa del genere?»
Hayner rise, scuotendo la testa. «No, ma va. Ti uscirà un bel po' di sangue, anche più di una volta al giorno, e sarà una bella rottura di palle. Però nel frattempo dovrebbero darti delle pastiglie.»

«Quel maledetto bastardo», ringhiò a denti stretti il biondo, toccandosi ripetutamente la zona colpita.
«Le infermiere stavano per farti un controllo al peso», disse improvvisamente il compagno, facendo irrigidere completamente Roxas. «ma sono riuscito a fermarle in tempo con una scusa. Ho detto loro che eri svenuto per il colpo, non per altro.»
Roxas tirò un sospiro di sollievo; se per caso era sottopeso in maniera eccessiva lo avrebbero costretto a mangiare e lo avrebbero controllato in maniera più severa. Fortunatamente riusciva sempre a nascondere il proprio corpo indossando dei vestiti estremamente larghi. «Grazie mille, Hayner. Sei un vero amico.»
Quest'ultimo sorrise. «E' stato un piacere.»
«Adesso credo sia il caso di andare. Domani mi aspetterà un'altra giornata merdosa e non ho il coraggio di svegliarmi con quello schizzato.», farfugliò con aria scocciata il biondo, avviandosi verso la porta mentre il compagno riprendeva la parola. «Se ti crea dei problemi fammi un fischio e andrò a suonargliele di santa ragione. Se non fossero venute le infermiere lo avrei riempito di botte fino a fargli sputare i denti.»

Roxas accennò una risata estremamente divertita, appoggiando la mano sulla maniglia. «Buona notte, Hayner.»
«'Notte Roxas. A domani.»
L'altro annuì appena e aprì la porta, uscendo silenziosamente dalla stanza con la testa piena di pensieri.
Era certo che non sarebbe riuscito a prendere sonno.
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*Note di Ev'*
M I R A C O L O.
Sono finalmente riuscita a pubblicare qualcosa -Tralasciando la storia horror che dovrei terminare presto-, olé!
Come avevo appunto detto nelle note di ''Dirty Pages'', questa è la storia che mi sento sicuramente più di scrivere dato che provo i sentimenti giusti. -E non è una bella cosa. Per niente.-
Innanzittutto, ringrazio vivamente le persone che hanno recensito. Siete stati tutti davvero gentilissimi e dolcissimi; non so come ringraziarvi! Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e vi prego di recensire dato che siamo in un sito in cui ci si deve confrontare.
Detto ciò, passiamo alla solita analisi. -Che non capisco perché mi ostino tanto a fare, boh.-
Qui si è scoperto che la musica proveniva appunto dallo stereo di quello schizzato di Axel.
E come primo incontro abbiamo una bella rissa! Dolce, eh?
Sì, insomma, si mollano un paio di pugni e passiamo alla scena successiva, ovvero all'allegra chiacchierata notturna di Hayner e Roxas, in cui finalmente si scoprono i loro problemi: il primo è bulimico, mentre il secondo è anoressico.
Si parla un po' delle loro cattive abitudini e si scopre che Axel sarà il compagno di stanza di Roxas, a meno che quest'ultimo riesca a convincere il preside a toglierlo dalle balle mandarlo altrove.
Detto ciò, boh... Sì, insomma, spero di ricevere qualche recensione ;A;
Dal prossimo capitolo la storia si allungherà quasi sicuramente C:
Oh, e ringrazio di cuore le ventuno persone che mi hanno aggiunto tra i loro autori preferiti C':
Io sono qui, e, beh, qua si sentono dei gran bei tuoni stile film horror, con tanto di lampi. <3 E... OHMIODDIO SI'! Piove, lalala. <3
Alla prossima, people!
E.P.R.

 

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Capitolo 4
*** Mirrors. ***


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Insidie interiori.

 

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4. Mirrors
 

 


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«Roxas?»
Il biondo sbuffò rumorosamente con il naso, grugnendo qualcosa di incomprensibile a denti stretti.
«Roxas?»
Strinse con forza la forchetta, riducendo gli occhi a due fessure.
«ROXAS!», strillò infine Hayner sull'orlo di una crisi isterica, ottenendo finalmente l'attenzione del diretto interessato che si limitò a rispondere con un sonoro e poco elegante: «Che c'è?»
«Come sarebbe a dire che c'è?!», tuonò il compagno sputando metà dei cereali che aveva in bocca. «Non mi hai dato neanche il buongiorno! Non fai altro che lanciare occhiate omicida a Mr. schizzato!»

Roxas sospirò rumorosamente, allontanando da sé la ciotola bianca con una smorfia disgustata. «Quel maledetto coglione. Insomma, mi sono alzato e sono andato a lavarmi i denti; poi, quando sono uscito dal bagno, ho notato che era ancora nel mondo dei sogni e gli ho tirato uno schiaffo sulla testa per svegliarlo. A quel punto lui invece di ringraziarmi ha iniziato a gridarmi contro, mi ha mandato a fare in culo e si è chiuso in bagno.»
«Ma perché l'hai svegliato?!», chiese Hayner strillando di fronte al compagno, allungando nel frattempo la mano per afferrare la ciotola di latte e cereali di Roxas dopo essersi accertato dell'assenza di medici in giro. «Dovevi lasciarlo dormire! Così la Dahl si sarebbe accorta della sua assenza e gli avrebbe fatto il culo.»
Roxas appoggiò la testa sulla mano sinistra, sbuffando nuovamente. «Ma sai come dice la regola; se si è compagni di stanza bisogna aiutarsi e bla, bla, bla»
«Ma cosa te ne frega? Tanto tra poco andrai da Xemnas e lo caccerai dalla tua stanza.», osservò Hayner prima di portarsi un altro cucchiaio di cereali in bocca.
«Non avresti dovuto tirargli uno schiaffo.», si intromise improvvisamente la giovane seduta accanto a Roxas, scuotendo appena la testa. «E' ovvio che così si sia arrabbiato.»
Olette Edigher, una graziosa ragazzina dai capelli marroni e gli occhi verdi, aveva diciassette anni ed era stata mandata nella clinica da suo padre pochi mesi prima; era caduta in depressione a causa della morte di sua madre e non era più riuscita a vedere la luce nonostante i numerosi psicologi.
Aveva conosciuto gli altri due tre giorni dopo essere entrata nella clinica; Hayner aveva riempito per l'ennesima volta il computer di Riku Koch di virus e mentre il preside era intento a cercarlo in ogni stanza dell'edificio per punirlo, lei era riuscita a distrarlo, dandogli le indicazioni sbagliate.
Di natura non amava infrangere le regole, ma Roxas e Hayner erano le uniche persone su cui poteva veramente contare.
Divideva la stanza con Acqua Soberg; non le dispiaceva per nulla, in fondo era una ragazza molto disponibile e un paio di volte l'aveva aiutata ad alleviare i dolori mestruali, ma cercava sempre di non dare troppa confidenza a quelli del terzo piano date le strani voci che giravano sul loro conto.
Almeno però spesso Aqua le raccontava ciò che succedeva al suo gruppo e Hayner, da grande amante del gossip qual era, le chiedeva sempre di spifferargli tutto.
«Era l'unico modo per svegliarlo, dato che a quanto pare ha un sonno fottutamente pesante.», questa volta fu Roxas a scuotere la testa con fare contrariato. «E russa pure. E' osceno.»
Hayner scoppiò in una grassa e rumorosa risata, estremamente divertito dalla descrizione del compagno. «Puzza di alcool, è schizzato ed è pure osceno? Che persona magnifica!», alzò poi il tono della voce, roteando lo sguardo verso il diretto interessato con aria ambigua.

«Ehm, non per fare la spiona», mormorò improvvisamente la ragazza porgendo il volto in avanti per farsi sentire solamente dai due compagni. «ma continua a fissarci.»
«A fissare Roxas, vorrai dire», la corresse Hayner voltandosi verso l'uomo dai capelli rossi che era seduto solo ad un tavolo posizionato dall'altra parte della mensa. «Che ne dite se mi alzo e gli rovescio i cereali in testa facendo finta di nulla?»
«Hayner, lascia perdere.», brontolò Roxas, non avendo alcuna voglia di assistere all'ennesima pagliacciata dell'amico. «Ignoratelo. Adesso vado da Xemnas e lo tolgo dalle palle. Ci lascerà subito in pace, vedrete. Entro domani avrà già un gruppo di ritardati intorno a sé: con quel look da svitato non passa di certo inosservato.»
Olette annuì, completamente d'accordo; Hayner dal canto suo sbuffò e continuò a fissare il rosso, mettendo poi in mostra il terzo dito con un ghigno dipinto sul volto.
«Hayner!», lo rimproverò automaticamente il biondo, scocciato. «La vuoi smettere?»
«Sto solo ricambiando i suoi sguardi!», si giustificò pateticamente l'altro, mostrando i palmi in segno di innocenza; Roxas scosse la testa, decidendo di lasciare perdere, e si alzò dalla sedia, quando la voce di Olette si fece nuovamente sentire: «Oddio, credo che si stia avvicinando», e abbassò immediatamente lo sguardo, riprendendo a mangiare nervosamente.
«Chi?», chiese ingenuamente Roxas prima di voltarsi e ritrovarsi l'imponente figura del suo suddetto ''compagno di stanza''.
«Uuuh, è arrivato Mr. schizzato a deliziarci con la sua delicata compagnia.», commentò sarcasticamente Hayner, sogghignando; Olette soffocò a fatica una risatina e si mise il tovagliolo sulla bocca, al contrario di Roxas che gli lanciò un'occhiata torva.
«Senti, piccolo stronzetto», Axel ignorò con estrema fatica il commento del biondo e si dedicò esclusivamente a Roxas. «prima di tutto, smettila di fissarmi. Secondo, di' al tuo amichetto di evitare di mandarmi a 'fanculo se ci tiene alla sua vita.»
«Che paura!», si intromise nuovamente Hayner alzandosi anch'egli. «Me la sto facendo addosso, guarda!»
«Dovresti, sottospecie di-»
«Fissarti io?! Ma cos'è, sei scemo o lo fai?», lo interruppe Roxas, alzando il tono della voce fino ad ottenere alcuni sguardi curiosi degli altri pazienti. «Sei tu che fissi me, schizzato.»
«Forse hai bisogno di un altro pugno. Magari sarà la volta buona che ti rompo davvero il naso», lo minacciò il rosso, mostrando la propria mano destra. «ma questa volta oltre a svenire piangerai di brutto.»
«Adesso mi hai stancato, fottuto alcolizzato!», Hayner fece per lanciarsi contro l'uomo quando si sentì afferrare di scatto per le spalle; imprecò a gran voce e si voltò, incrociando il sorriso sghembo di Marluxia. «Ehi, che succede? Andiamo gente, siamo delle persone civili, noi.», affermò con affilata ironia, lasciando la presa sul ragazzo dopo aver notato che si era calmato. «Bambolotto, che c'è? Non dirmi che vuoi prenderle da un nuovo arrivato!», l'uomo dai capelli rosa appoggiò una mano sulla spalla di Roxas che si scostò immediatamente, disgustato. «Fatti i cazzi tuoi, Marluxia.»
«Oh, suvvia!», lo incalzò quest'ultimo con aria teatrale, ridendo. «Sono venuto solamente per darti una mano. Siamo buoni amici, no?»
«No», si intromise Hayner fermamente, accostandosi al biondo. «lui non ha bisogno della tua mano o della tua amicizia da frocio. Quindi, fuori dai coglioni.»
Marluxia scoppiò nuovamente a ridere. «Wiedenkeller,
dovrei ancora suonartele per ieri sera. Sia a te che al bambolotto.»
«'Fanculo.», sputò spudoratamente Hayner, afferrando il polso dell'amico che si decise finalmente a parlare. «Andiamocene. Questo tavolo sta diventando un raduno di clown e io ho sempre detestato il circo.»
Gli altri due fecero per replicare, quando l'imponente voce della signora Dahl creò un silenzio assoluto nella mensa. «Roxas Hagen, Axel Koskinen, il preside vorrebbe vedervi.»
Il fulvo a quel punto imprecò a bassa voce e si diresse verso l'uscita, spintonando volontariamente Roxas che venne afferrato in tempo da Hayner. «Mi raccomando. Fagli passare la voglia di fare lo schizzato.»
E Roxas annuì, raggiungnedo anch'egli la signora Dahl.





Prese posto sulla sedia di legno di fronte alla scrivania, lanciando nel frattempo una fugace occhiata al rosso che si sedette accanto a lui con aria estremamente irritata.
«Eccovi finalmente. Roxas, è un piacere rivederti.», l'uomo seduto dall'altra parte accennò un sorriso sghembo, porgendosi in avanti per poter scrutare meglio i nuovi arrivati.
Xemnas aveva ereditato quella clinica circa tre anni prima da suo padre, Ansem Lehtinen, il quale aveva perso il posto di preside per le sue strane cure.
Giravano parecchie voci tra i ragazzi riguardanti la sua figura strana e misteriosa; Roxas aveva saputo dai pazienti più vecchi che Ansem molto probabilmente aveva qualche strano disturbo mentale, dato che per lui le cosiddette cure consistevano in realtà in sadiche torture.
La sorte era davvero ironica: un malato che aveva fondato una clinica di recupero.
Seifer Laine, un ventenne alto e biondo, era entrato nella clinica quando veniva ancora gestita da Ansem; un giorno doveva aver combinato qualcosa di veramente grave perché il preside lo aveva chiuso per una giornata intera nella suddetta ''camera degli specchi''.
Era una stanza piuttosto piccola e consisteva in una decina di specchi messi in cerchio; al centro invece vi era una sedia di legno sulla quale il paziente veniva legato accuratamente in modo che alzarsi gli risultasse praticamente impossibile.
Ansem affermava che era una cura infallibile per i pazienti che presentavano disturbi della personalità; Seifer, infatti, soffriva da tempo di attacchi isterici particolarmente violenti che lo portavano a prendere a pugni chiunque gli fosse vicino.
Le infermiere lo avevano legato alla sedia nonostante lui avesse continuato a gridare e a tirare calci all'aria; successivamente lo avevano abbandonato nella stanza chiudendo a chiave la massiccia porta marrone.
Roxas era sicuro che Seifer avesse perso l'anima in quel posto da incubo.
La camera in questione era piuttosto buia e l'unica luce che la illuminava proveniva da una microscopica finestra sul soffitto.
Secondo la cosiddetta cura del preside, il paziente avrebbe dovuto confrontarsi con la propria immagina riflessa e l'impatto avrebbe dovuto aiutarlo a scoprire a fondo il suo essere malato.
Ma secondo Roxas l'unico ad essere veramente malato era quell'uomo; coloro che erano usciti da quella stanza sembravano dei morti viventi, altro che via della guarigione.
Se negli anni precedenti Seifer era stato il terrore della clinica a causa del suo comportamento da bullo, adesso al massimo poteva suscitare la pena degli altri pazienti.
Aveva smesso di parlare da tempo e ogni suo movimento sembrava quello di una macchina; camminava con lo sguardo spento e perso nell'oblio più totale, come se la sua vita fosse diventata un pesante dovere da svolgere.
Ansem era matto e prima di aver fatto costruire la clinica aveva studiato medicina; si era sempre interessato alla scienza, alla psicologia umana e ai comportamenti dei malati.
Era uno scienziato pazzo, ecco la verità. Le sue non erano cure, ma vere e proprie torture da incubo.
Quando Demyx Thomsen, un ragazzo del terzo piano innamorato perdutamente della sua chitarra, aveva raccontato tutto ciò ad Hayner e a Roxas durante l'ora di giardinaggio, il primo aveva affermato con sicurezza di aver visto la tortura della camera degli specchi in un film horror.
«Allora era sicuramente un appassionato di film dell'orrore. Probabilmente quando non aveva più idee li guardava per trovare l'ispirazione.», Demyx aveva annuito con aria saccente, mentre Marluxia, accanto a lui, gli aveva tirato una gomitata. «Chiudi quella bocca, cazzo. Lo sai che non dovresti parlare di Ansem in giro.»
Demyx allora aveva assunto un'espressione piuttosto dispiaciuta, al contrario di Hayner che aveva sghignazzato, felice di aver scoperto nuove informazioni interessanti.
Roxas dal canto suo non aveva più aperto bocca per un po'; doveva ammetterlo, quel racconto lo aveva seriamente scosso.
Si era sforzato di pensare che forse era una stronzata, ma dentro sapeva benissimo che non poteva essere così; Demyx era l'unico del terzo piano che non gli faceva venire la pelle d'oca, anzi. Lo considerava anche piuttosto stupido, ma non per questo era un tipo che diceva cazzate tanto per dare aria alla bocca.
«Immagino che voi sappiate il motivo per cui vi ho convocati.», Xemnas incrociò le mani come in una preghiera e puntò le iridi gialle in avanti, quasi avesse voluto leggere nel pensiero degli altri due.
Era un uomo sulla trentina o forse più, ma i suoi lunghi capelli che gli ricadevano fino a metà schiena erano già di un grigio spento e opaco.
Roxas aveva seriamente iniziato a pensare che stare in quella clinica faceva invecchiare le persone prima del tempo.
Axel, dal canto suo, sembrava piuttosto annoiato dalla situazione; roteava ripetutamente lo sguardo da una parte all'altra della stanza, picchiettando nel frattempo il suo stivale nero sul pavimento beige.
Il biondo a quel punto indicò il proprio naso, schiudendo appena le labbra. «Questo tipo mi ha tirato un pugno sul naso e mi ha rotto un capillare.»
A quell'affermazione Axel si voltò di scatto verso il giovane con un'espressione ulteriormente irritata. «Tu hai osato darmi dello schizzato.»
«Perché lo sei. Oltre ad essere ubriaco marcio, ovvio.», all'annesimo insulto il più grande si alzò immediatamente, tirando un pugno sulla scrivania con tale violenza da far traballare tutte le penne e le cartelle appoggiate su di essa. «Non mi faccio problemi a tirarti un altro pugno sul naso, te l'ho già detto.»
«Allora dai, provaci.»
«Per favore», la solenne e severa voce del preside richiamò l'attenzione dei due pazienti che si voltarono contemporaneamente verso di lui. «cercate di calmarvi.», Xemnas fece un cenno con la mano ad Axel di sedersi prima di riprendere la parola. «So già cos'è successo e penso che ognuno abbia le proprie colpe.»
Axel grugnì qualcosa a denti stretti, estremamente infastidito; a quanto pare non solo doveva finire in quel posto pieno di pazzi, ma doveva perfino sorbirsi le ramanzine del preside come quando frequentava la scuola superiore.
Soltanto che quella presidenza sembrava essere più elegante di tutte quelle che aveva visitato; aveva quasi un tocco antico che sapeva di ottocentesco.
La sedia su cui aveva preso posto Xemnas era di un rosso opaco e spento che però sottolineava parecchio l'importanza della sua figura; le pareti, tinte di un marroncino chiaro, erano per lo più tappezzate da quadri e fotografie di Ansem.
In fondo alla stanza vi erano numerosi cassetti di legno e in un angolino saltava subito all'occhio la presenza di una scatola impolverata che conteneva tutti gli oggetti proibiti confiscati ai pazienti.
«Non avrete una punizione vera e propria: non perché ho deciso di chiudere un occhio, ma semplicemente per il fatto che essere compagni di stanza è già abbastanza pesante per voi, a quanto pare.», l'uomo sorrise e Roxas si irrigidì sulla sedia; conosceva bene quell'espressione soddisfatta da bastardo di turno.
«Io non condividerò la stanza con questo stronzetto.», Axel incrociò le braccia al petto e guardò con aria minacciosa il preside che non fece una piega. «Invece dovrai farlo, che ti piaccia o no.», successivamente l'uomo si rivolse al biondo con fare alquanto severo. «E tu, Roxas. Sappi che se il tuo amichetto si azzarderà a fare qualche scherzo ad Axel per cacciarlo dalla stanza sarete puniti entrambi molto severamente.»
Il diciottenne fece per schiudere le labbra, pronto a ribattere in qualche modo, quando sentì bussare alla porta alle sue spalle.
Xemnas corrugò la fronte, infastidito dall'interruzione. «Avanti.»
Sulla soglia apparve una robusta donna sulla cinquantina dai corti capelli neri e dall'espressione alquanto scocciata, accompagnata da un ragazzo che aveva un sorrisetto storto dipinto sul volto. «Salve! Disturbiamo?»
Roxas sospirò rumorosamente e si tirò una manata sulla faccia. «Hayner, ma che cazzo fai qui?»

La signora Dahl lanciò un'occhiataccia al biondo per il suo solito linguaggio volgare e spinse appena il diciottenne nella stanza, appoggiando l'altra mano sulla maniglia della porta. «Ha scatenato una rissa in mensa.»
«Hayner!», lo chiamò con aria rimprovera Roxas mentre Xemnas si stava massaggiando le tempie con aria spossata. «Ma che cosa ti salta in mente?!»
Il diretto interessato si scrollò le spalle, mostrando le mani con fare innocente. «Io non c'entro niente. Ho solo detto due parole e poi quelli del terzo piano hanno iniziato a prendersi a pugni. Se solo Mary mi avesse dato una telecamera avrei filmato tutto, cazzo. Sai quanto avremmo guadagnato se avessimo messo quel video su Internet? Sai, qualcosa tipo ''pazzi si picchiano'', oppure ''la rissa dei pazzi'', o ancora ''colazione quotidiana in una clini-''»

«Silenzio!», tuonò il preside alzandosi dalla sedia con aria furibonda. «Non volevo arrivare a questo, ma a quanto pare in una situazione del genere non posso fare altro. Domani vi sveglierete all'alba e andrete a pulire il cortile all'esterno.»
Axel accennò un sorriso soddisfatto in direzione dei due diciottenni, quando il preside continuò: «Koskinen, stavo parlando anche con te. E adesso uscite, non voglio storie.»
«Cosa?! Ma io non c'entro un caz-»
«Ho detto niente storie.»
Il fulvo tirò un altro pugno sulla scrivania e fece cadere numerose cartelle sul pavimento prima di alzarsi e avviarsi velocemente verso l'uscita, imprecando a gran voce.

«Mi sa che domani ce la farà pagare.», commentò con affilato sarcasmo Hayner senza cancellare dalla faccia il suo solito sorrisetto storto.
Roxas corrugò la fronte, guardandolo malissimo. «Ah, tu credi?»





Ansem Lehtinen era stato arrestato non appena i carabinieri erano venuti a conoscenza dei suoi strani modi di curare i suoi pazienti.
Una mattina la clinica si era svegliata dalle sirene della polizia e l'uomo stava per essere portato in centrale, quando l'auto aveva sbandato ed era uscita di strada.
Erano morti sia i due poliziotti al suo interno sia Ansem stesso; da quel misterioso evento numerose voci avevano iniziato a correre tra i corridoi, giungendo fino alle orecchie di Roxas e Hayner.
Di Domenica non c'era mai granché da fare e proprio per questo motivo circa tre mesi prima Hayner aveva bussato alla porta dell'amico con un allegro sorriso dipinto sul volto. «Roxas, so che cosa faremo oggi!»
Il biondo si era stropicciato gli occhi con aria stanca. «Hayner, ti prego lasciami in pace. Oggi non ho voglia di fare un cazzo.»
Ma nonostante le sue lamentele Hayner lo aveva costretto a vestirsi in fretta e furia e lo aveva trascinato nell'area proibita del terzo piano; infatti, dopo la morte di Ansem, si diceva in giro che il suo fantasma visitasse ancora la camera degli specchi, la quale però era inaccessibile e chiusa a chiave. Se qualcuno avesse solo provato ad avvicinarsi ad essa avrebbe ricevuto una punizione molto severa.
«Non si può, Hayner. Andiamocene, cazzo.», lo aveva pregato Roxas, estremamente a disagio; il compagno però aveva scosso la testa, tirando fuori la chiave prima di infilarla nella serratura. «Ci ho messo un culo così per rubare la chiave in presidenza. Vuoi che tutte le mie fatiche finiscano nel cesso? E poi voglio vedere se c'è davvero questo famigerato fantasma!»
Roxas a quel punto era rabbrividito e aveva fatto un passo indietro; detestava quando si parlava di spiriti, spettri, fantasmi e presenze. Erano i suoi punti deboli e lo facevano sentire male in qualche modo. Talvolta gli capitava di vedere cose e persone che ormai appartenevano ad un passato lontano; non erano vere e proprie allucinazioni, ma visioni più che altro.
E lo spaventavano a morte.
Erano entrati davvero nella camera degli specchi e lui si si era seduto sulla famosa sedia al centro della stanza.
Era stato orribile e dopo solamente un paio di minuti aveva sentito delle tremende fitte lungo il corpo; era stato terribile per Roxas voltare la testa e vedere solamente il proprio riflesso ovunque.
Si rifletteva all'infinito, c'erano i suoi grandi occhi blu dappertutto, i suoi capelli del medesimo colore del grano, il volto pallido e stanco, le braccia magre, orribilmente magre, le vedeva ovunque, vedeva il terrore nel suo stesso sguardo e si era alzato quasi subito, preso dai capogiri.
Quella stanza sembrava essere davvero uscita da un film dell'orrore e aveva capito immediatamente perché le persone che vi entravano ne uscivano completamente pazze.
Il guardarsi per ore e ore portava alla follia in qualche modo. Ti costringeva a schiantarti con le tue stesse paure, i tuoi fantasmi più intimi, ti faceva rivivere il passato, i tuoi errori, i tuoi disturbi, ed era qualcosa di orribile.
Quegli specchi erano in grado di mettere alla luce il tuo inconscio, quello che Roxas aveva cercato di sotterrare nelle viscere più profonde del suo essere.
In quei miseri secondi aveva sentito voci e aveva avuto di nuovo quelle visioni; aveva rivisto il suo volto, lo aveva visto, lo aveva sentito mentre gli chiedeva se si ricordava ancora di lui e aveva voluto piangere.
Aveva visto la stanza girare intorno a sé e il suo riflesso era diventato un'immagine deformata, proprio come lo era lui dentro, fino a quando Hayner non lo aveva afferrato per le spalle, facendolo alzare.
«Roxas? Roxas, stai bene? Roxas, che hai? Ehi, mi senti? Roxas, svegliati, dai!», e lui aveva scosso leggermente la testa, attonito.
«Sì, ci sono.»
«No che non ci sei. Non c'eri. Dove cazzo eri?»
«Hayner, di che cosa stai parlando?»
E Hayner aveva indicato la sedia, la stanza, gli specchi. «Eri assente. Ti ho parlato, ma non mi ascoltavi. A cosa pensavi?»
«A niente.»
«Cazzate.»
Roxas aveva fatto per replicare, ma poi aveva serrato automaticamente le labbra, sospirando. Era inutile discutere con Hayner e lo sapeva fin troppo bene.
«Questa stanza è infestata, ne sono sicuro.», successivamente l'altro aveva cambiato argomento, guardandosi attentamente attorno.
«E poi sarei io quello che dice cazzate», aveva borbottato il diciottenne dalle iridi blu, sollevando un soppraciglio. «Hayner, non c'è niente qui. Ansem è morto, basta.»
«Non dev'essere per forza Ansem.»
«Cosa intendi dire?»
«I fantasmi, Roxas. I nostri fantasmi. Quelli sì che fanno veramente paura.», aveva osservato per qualche secondo il soffitto prima di abbassare gli occhi per poter scrutare intensamente le iridi blu dell'amico; lo aveva osservato attentamente per qualche minuto prima di voltarsi e avviarsi verso la porta. «Andiamocene, dai. Questo posto è una merda.»
Ma Roxas si era guardato un altro po' allo specchio prima di raggiungere Hayner.
Fortunatamente nessuno aveva scoperto della loro piccola gita nella camera proibita; quando erano usciti soltanto Riku li aveva lanciato una fugace occhiata salendo le scale, ma non aveva detto niente di niente.
Non ci erano più tornati. Roxas era rimasto in qualche modo turbato dalle parole di Hayner e lo aveva visto comportarsi in maniera strana in mezzo agli specchi. Aveva scrutato con estrema attenzione la stanza, però non sembrava voler cercare il fantasma di Ansem. Stava cercando qualcos'altro, qualcosa di importante, ma Roxas non era riuscito a capire cosa.
E gli specchi. Li aveva guardati, ma per pochi secondi. Non era rimasto ad osservare il suo stesso riflesso. Hayner non si era guardato per nulla.
Non di fronte agli specchi, almeno.
«HAGEN!», Roxas si voltò di scatto e vide in un nanosecondo un pallone arrivare di fronte a sé alla velocità della luce prima di colpirlo in pieno volto, facendolo cadere goffamente all'indietro.
Rimase per qualche secondo accasciato sul pavimento della palestra prima di sbattere ripetutamente le palpebre, osservando il pallone bianco che stava rotolando via alla sua sinistra; si alzò faticosamente e sbuffò, sentendo un'atroce dolore invadergli il volto arrossato.
«Hagen!», Roxas grugnì qualcosa tra sé e sé contro la botta che aveva preso e voltò lo sguardo a sinistra, incrociando gli occhi dell'insegnante di ginnastica che lo stava scrutando con un'espressione severa dipinta sul volto. «Hagen, ma insomma, un po' di attenzione. Si ostina tanto a voler fare motoria e non riesce neanche a fermare una schiacciata?»
Il diciottenne si passò una mano sul volto come per constatare di non avere nulla di rotto e afferrò il pallone, facendolo rotolare dall'altra parte della rete; si scrollò le spalle e si posizionò al centro del campo, notando solo in quel momento la presenza del suo compagno di stanza nell'altra squadra.
E a quanto pare sembrava perfino soddisfatto della sua schiacciata.
Bastardo.
Ritrovarselo insieme nell'ora di motoria era proprio il culmine delle sfighe, questo poco, ma sicuro.
«Ehi, Hagen», il diretto interessato alzò appena le iridi blu e notò che Axel aveva già imparato il suo cognome. «ti consiglio di prepararti, sai, non vorrei spaccarti davvero la faccia.»
«Brutto schizzato di merda», farfugliò a bassa voce il biondo prima di indietreggiare di qualche passo, osservando con estrema attenzione la traiettoria del pallone; lo vide avvicinarsi pericolosamente e unì immediatamente le braccia per poter fare un bagher praticamente perfetto.
Accennò un sorriso soddisfatto in direzione di Axel che però lo ignorò volontariamente, quando sentì improvvisamente le gambe tremare sotto il proprio peso; barcollò un po' e si appoggiò alla parete bianca, accorgendosi di rischiare l'ennesimo svenimento dovuto all'eccessiva debolezza fisica e allo sforzo dell'ora di ginnastica.
Strinse gli occhi e si sforzò in ogni modo di mantenere l'equilibrio, sentendo però di uno strano pizzicore al naso; appoggiò istintivamente una mano su di esso e notò la presenza di alcune macchie scarlatte sui polpastrelli.
«Roxas, ti esce sangue dal naso.», se c'era una cosa che faceva irritare parecchio Roxas erano gli interventi idioti di Zexion: di natura era un ragazzo estremamente pacato e tranquillo e passava la maggior parte del tempo a leggere in disparte, ma quando qualcuno si feriva o perdeva sangue da qualche parte era sempre pronto a sottolinearlo.
Il biondo fece per rispondergli con qualcosa come '' senza di te non me ne sarei mai accorto, grazie '', ma decise di lasciar perdere il proprio sarcasmo e di approfittare della situazione per fare un salto in bagno nel caso fosse svenuto da un momento all'altro.
Almeno aveva trovato un lato positivo nell'essersi rotto un capillare.




«Muoviti a cambiarti, mi raccomando.», ripeté per la quinta volta Hayner mentre il compagno stava cercando di aprire la porta della sua stanza. «Ho sentito Demyx e Riku che parlavano tra di loro. Credo che abbiano in mente qualcosa insieme agli altri svitati del terzo piano.»
«E allora?», Roxas sbuffò rumorosamente, continuando a girare la chiave nella serratura.
«Come ''e allora?'' Roxas, svegliati! Dobbiamo spiarli e vedere che cosa vogliono fare!», spiegò pazientemente Hayner mentre gesticolava animatamente con le mani. «Suvvia, sarà divertente!»
«E' la stessa cosa che dici sempre prima che qualcuno ci scopra e ci sbatta in presidenza. Domani mattina dobbiamo già pulire il cortile per colpa delle tue stronzate e mi basta già come punizione.»
L'altro incrociò le braccia, mostrandosi offeso. «Sei un guastafeste, Roxas. Dai, tu muoviti a cambiarti e raggiungimi. Ti aspetto vicino alla mensa.», e, dopo aver detto ciò, gli tirò una pacca sulla spalla prima di voltarsi e avviarso verso l'ascensore.
Roxas sospirò pesantemente e si osservò nuovamente la maglia bianca macchiata; durante l'ora di cena Marluxia aveva fatto sbadatamente -O almeno, così lui diceva- lo sgambetto ad Olette, la quale era poi caduta rovinosamente per terra, facendo così volare la minestra su di lui.
Conclusione: tutti i presenti erano scoppiati a ridere, Marluxia aveva ottenuto la sua fottutissima vendetta, Olette aveva passato la serata a scusarsi per quasi duecento volte di fila, Axel lo aveva pigliato per il culo e lo aveva riempito di battutine del cazzo e lui aveva fatto forse una delle peggiori figuracce in tutta la sua maledettissima esistenza.
Cercò di girare la chiave per la quarta volta e si innervosì, imprecando a gran voce prima di tirare un pugno sulla porta. «Ma perché cazzo 'sta merda non si apre?!», tuonò in mezzo al silenzio del corridoio per poi di irrigidirsi improvvisamente, porgendo il volto in avanti fino ad appoggiare l'orecchio sinistro sulla porta.
Rimase perfettamente immobile per qualche secondo prima di sgranare lentamente gli occhi, udendo la stessa canzone che aveva sentito la sera prima: indietreggiò di qualche passo e alzò la testa in lato, scrutando attentamente il numero della sua stanza.
In un primo momento si sforzò, anzi, si impose, di mantenere la calma in ogni modo: strinse i pugni con violenza e contò mentalmente fino a dieci, ma nulla.
Il fatto è che in situazioni del genere è veramente impossibile non esplodere dalla rabbia; insomma, fai conoscenza del tuo compagno di stanza che è uno schizzato e che per presentarsi ti molla un pugno sul naso, ti tira le pallonate in faccia, ti prende in giro e... Sì, ti chiude fuori dalla tua stessa stanza.
«APRI SUBITO QUESTA PORTA!», strillò così a gran voce, appoggiando le mani sulla parete. «ADESSO!»
La musica si fermò immediatamente e gli parve addirittura di udire una risatina sommessa dall'altra parte. «Parola d'ordine?»
«Maledetto bastardo apri! Apri questa cazzo di porta! Questa è la mia stanza, cazzo!», continuò a gridare in preda alla furia più totale, tirando un altro pugno sulla porta. «Stronzo, apri!»
«Altrimenti?», Axel, dall'interno della stanza, sembrava particolarmente divertito dalla situazione dato che si sforzava in ogni modo di trattenere le risate.

«Ti ammazzo!»
«Sì, certo.», borbottò ironicamente il fulvo con tutta la tranquillità del mondo. «Mi dispiace dirtelo, ma adesso questa è la mia stanza. Perché non ti trasferisci dal tuo amichetto?»

«'Fanculo, maledetto schizzato. Apri!», Roxas tirò l'ennesimo pugno sulla porta e sentì un'altra scarica di dolore attraversargli la mano sinistra; la ritirò di scatto e la osservò per qualche secondo, notando che si era immediatamente arrossata.
Non aveva la più pallida idea di come Axel fosse riuscito a bloccargli la serratura nonostante possedesse le chiavi, ma, a quanto pare, aveva un trucchetto tutto suo.
«Te l'ho detto, questa ormai è la mia stanza.»
Il diciottenne strinse nuovamente i pugni, indietreggiando di qualche passo per poi mordersi furiosamente il labbro inferiore; sapeva perfettamente che sarebbe potuto benissimo andare a lamentarsi dal preside, ma non voleva fare la figura della femminuccia di turno.
Così prese un profondo respiro e disse: «Sei solo un ubriaco del cazzo.»
Silenzio.
Corrugò la fronte e schiuse le labbra, decidendo di provare con qualche altro insulto, quando vide improvvisamente la porta spalancarsi, facendo apparire il volto infuriato di Axel che aveva stretto immediatamente i pugni. «Adesso mi hai fatto veramente girare i coglioni.»
Il lato positivo di quella situazione è che Roxas ormai aveva avuto la certezza assoluta del punto debole dell'altro; invece quello negativa era che stava per prendersele di santa ragione.
Ma riuscì comunque a farla franca.
Prima che Axel potesse saltargli addosso e riempirlo di pugni fino a fargli saltare tutti i denti, il biondo scattò in avanti e lo superò, entrando finalmente nella sua stanza.
Non richiuse la porta dietro di sé semplicemente perché non voleva abbassarsi tanto da imitare i sporchi giochetti di Axel, così si limitò ad aprire l'armadio, notando però con orrore che tutti i suoi vestiti erano scomparsi per far posto ai numerosissimi indumenti del rosso che consistevano principalmente in jeans aderenti e maglie con strani disegni.

«Ma dove cazzo... Dove cazzo hai messo la mia roba?!», Roxas si voltò di scatto verso il fulvo che era rientrato nella camera con un'espressione più tranquilla; lo scrutò per qualche secondo e si lasciò sfuggire un sorrisetto soddisfatto prima di sdraiarsi nuovamente sul suo letto. «Non ricordo. Devo averli lanciati da qualche parte.»
«Brutto schizzato di merda, potevi lasciare i miei vestiti nell'armadio!»
«Ma non c'era abbastanza posto per tutte le mie maglie», commentò l'uomo con tutta la calma del mondo, ghignando. «Non so se hai notato, ma io indosso roba molto più figa delle tue quattro maglie XXL.»
Roxas cercò di ignorarlo e si inginocchiò sul pavimento, accorgendosi delle presenza di tutti i suoi indumenti ammucchiati sotto il letto; sospirò rumorosamente e afferrò la prima maglia che gli capitò a tiro.
Si sarebbe cambiato in bagno. Non voleva sentire lo sguardo di Axel sul proprio corpo, non voleva sentire i suoi commenti, le sue battute, non voleva che scoprisse la verità.
Lanciò una fugace occhiata dietro di sé e notò che il suo compagno di stanza aveva acceso nuovamente la radio e aveva iniziato a canticchiare a bassa voce; ne approfittò così per prendere il suo amato libro di Jim Morrison e decise di scordarsi per qualche secondo di tutto e di tutti, immergendosi in quelle parole stampate sulla carta bianca.
Doveva farlo.
Doveva farlo per sopravvivere. 


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  ''La bocca è piena d/sapore di rame.
Carta cinese. Moneta estera. Vecchi manifesti.
Diabolo su un filo, un tavolo.
Frulla una moneta. Le facce.

C'è un pubblico al nostro dramma.
Magica maschera d'ombra.
Come un eroe di sogno, lavora per noi,
a nostro nome.

Quanto siamo vicini alla versione definitiva?

Cado. Dolce oscurità.
Strano mondo che aspetta & sta a guardare.
Antico orrore del non esistere.

Se non è un problema, che ne parliamo a fare.
Ogni cosa detta significa questo,
il suo opposto, & tutto il resto.
Sono vivo. Sto morendo.''

 

    

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*Note di Ev'*
Ed eccomi qua, finalmente il quarto capitolo di codesta storia.
Allora, da dove potrei cominciare? Ahm, sì, una breve analisi del capitolo, il quale viene suddiviso appunto in quattro parti; nella prima il luogo in cui svolge la scena (?) è appunto la mensa. Troviamo un Roxas alquanto scazzato e un Hayner che non fa altro che mettersi nei guai.
Oltre al fatto che, a quanto pare, Marluxia è sempre e comunque in mezzo alle palle alle scatole.
La seconda parte si sposta invece in presidenza, dove vi sono anche un paio di flash-back; si parla di chi possedeva la clinica prima di Xemnas, della sua strana figura oscura, ed entra in scena Demyx per poco.
Roxas non fanno altro che insultarsi a morte e grazie a quel furbone di Hayner hanno ricevuto tutti e tre un'allegra punizione.
La terza parte è formata invece principalmente da un flash-back ed è forse quella più riflessiva del capitolo. Si parla principalmente di specchi, di immagine, e del comportamento di Roxas e Hayner nei confronti del loro riflesso.
Alla fine si torna al presente e Roxas si becca una pallonata in faccia.
Da chi?
Ma ovviamente da quello schizzato di merda quel bravo ragazzo di Axel!
Ultima parte. Axel fa lo stronzo e chiude Roxas fuori dalla stanza. Prende possesso della camera nonostante sia il nuovo arrivato e butta all'aria tutti i suoi vestiti. Il capitolo si conclude con il nostro povero protagonista che cerca di trovare un po' di pace nella lettura.

Ci ho messo parecchio a pubblicare, lo so, ma l'importante è che sono qui.
Non so cosa dire riguardo le altre storie in sospeso. Ecco... Non so, non me la sento ancora di continuarle. Ma lo farò presto, spero.

Vorrei, come sempre, ringraziare tutti coloro che recensiscono sempre. Siete delle meraviglie, veramente. Non immaginate quanto mi rendete felice. Sto cercando di rispondere a tutte le recensioni. Ci metto molto non soltanto perché il mio tempo scarseggia, ma perché non voglio rispondere con un veloce ''Ciao, grazie, ciao''. Insomma, no. Quando rispondo alle recensioni voglio aprire una sorta di dialogo, cavolo.
Spero vivamente che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e spero che continuiate a commentare, perché, cazzo, se leggete dovete anche recensire òwò. E' un obbligo, yeppala. (?)

Bene, gente. Io sono particolarmente depressa perché domani ricomincerà la scuola e sinceramente non so che cosa mi aspetterà quest'anno scolastico. Tanto credo che peggio dell'anno scorso non può essere. -Disse la ragazza seguita perennemente dalla sfiga.
Vabbeh, no. Auguro buona fortuna un po' a tutti; sia a coloro che hanno già iniziato la scuola, sia a coloro che devono ancora iniziarla.
Qui ormai c'è profumo di autunno c':
Alla prossima.
E.P.R.

Ps. Ho cambiato il titolo del secondo capitolo. Non so se ve ne fotta qualcosa o meno, ma sentivo di dovervi avvertire, pffh.

 

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Capitolo 5
*** Rust. ***


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Insidie interiori.


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5. Rust


«Ma quando arriva il cameriere?»
«Sì, infatti. Sto morendo di fame.»
«Se entro due secondi non arriva io giuro ch- Oh, eccolo!»
Qualsiasi forma di bar, caffetteria o ristorante era diventato da tempo per Roxas una sorta di Luna Park dell'orrore.
Un luogo di divertimento per gli altri, una tortura per lui.
Una vera e propria tortura.
«E tu Roxas, che cosa prendi?»
Lui allora rimaneva lì, perfettamente immobile, gli occhi grandi e blu spauriti, pieni di terrore, disgusto, ripugnanza.
«Nulla, grazie.»
«Andiamo Roxas, non fare il difficile. Che cosa vuoi? Un antipasto leggero? O preferisci qualcosa di più consistente? Guarda quanta scelta hai!», e i suoi amici gli tiravano diverse pacche sulla spalla, facendogli cenno di guardare con estrema attenzione il menù.
Il menù.
Quel dannatissimo menù che gli mostrava tutto quel grasso. Faceva scorrere lo sguardo dall'alto verso il basso, poi dal basso verso l'alto, all'infinito, senza fermarsi mai, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse in qualche modo alimentarlo senza farlo ingrassare.
Nulla.
E stava lì, con gli occhi che scrutavano con aria critica quelle lettere nere stampate sul menù, chiedendosi perché diavolo non si degnassero di scrivere il numero preciso delle calorie accanto ad ogni piatto. Come poteva mangiare senza sapere esattamente che cosa, o meglio, quanto stesse ingerendo?
«Roxas? Allora?»
«Se volete potrei ripassare più tardi», mormorava dunque il cameriere, infilandosi la penna in tasca.
«Sì», annuiva poi il ragazzo, stringendo i pugni sotto il tavolo. «è meglio... E' meglio dopo.»
Ma quel dopo non arrivava mai. Quel dopo riusciva a spingerlo sempre più in là, lontano, eccessivamente lontano. Si inventava scuse, ogni volta differenti. Cambiava argomento, se ne andava prima e non mangiava mai nulla.
Nulla. Nessuna caloria. Era quella l'unica cosa che contava: stare il più lontano possibile da tutto quel cibo, quel disgustoso cibo che voleva farlo ingrassare in ogni maniera.
«Ma ti vuoi muovere? Sei caduto nel cesso o cosa? Ah, scusa, probabilmente non riesci a distinguere la tua faccia dal gabinetto». Roxas si infilò di scatto la maglietta estremamente larga e assunse un'espressione furibonda di fronte alle solite battutine del suo compagno di stanza che già sembrava volerlo irritare di prima mattina.
«Pezzo di merda.»
«Ti ho sentito.»
«Era proprio quello che volevo.», affermò apatiamente il biondo, facendo scattare la serratura della chiave prima di aprire la porta, ritrovandosi faccia a faccia con quella sottospecie di porcospino dai capelli fiammeggianti.
«Ah, finalmente! Cazzo, se tutte le mattine devi metterci così tanto non mi farò scrupoli a chiuderti un'altra volta fuori dalla stanza.»
Roxas si sforzò in ogni maniera di ignorare le sue aspre parole, limitandosi a lanciare un sospiro di sollievo non appena lo sentì chiudersi a sua volta in bagno; si sedette allora sul proprio letto, il quale sembrava quasi perfettamente in ordine in confronto a quello del suo compagno, e afferrò il suo amato libro, aprendolo all'incirca a metà:

''Ci sono immagini che mi servono
a completare la mia propria realtà''

Come? Tutto qui? Furono le prime domande che si pose mentalmente.
Due semplici righe?
Ebbe l'impulso di andare a leggere qualche altro frammento cartaceo, ma si impose di controllarsi; in fondo quello era l'unico oggetto che gli permetteva di evadere dalla realtà, l'unico spiraglio che gli consentiva di respirare senza ingerire scorie tossiche della sua malattia e di quelle degli altri pazienti.
Apriva sempre le pagine a caso. Sia perché non possedeva alcuna sorta di segnalibro, sia perché in quel modo non sarebbe mai giunto alla fine, all'ultima pagina.
A caso. Come gli andava. Apriva e basta. Leggeva ciò che gli capitava sotto gli occhi. Non si segnava nemmeno le pagine che incontrava e in questo modo gli era successo spesso di leggere più volte la stessa poesia. Ma in fondo poco gli interessava.
Poco gli importava se c'erano pagine che aveva letto fino alla nausea. Poco gli importava se invece ne esistevano altre che non aveva mai conosciuto, come la prima e l'ultima.
E' praticamente impossibile aprire a caso un libro e giungere alla prima o all'ultima pagina, a meno che non lo si faccia volontariamente.
E a Roxas non andava. Non voleva sapere che cosa c'era scritto sulla prima e sull'ultima pagina.
Un improvviso rumore all'esterno interruppe il silenzio della stanza e il ragazzo sussultò, accorgendosi del fatto che qualcuno stava bussando alla porta; allora si alzò e la raggiunse in pochi secondi, intuendo immediatamente chi era colui che lo stava attendendo dall'altra parte.
Appoggiò la mano sulla maniglia e la girò, provocando così lo scatto della serratura che rimbombò lungo il corridoio; Roxas alzò leggermente le iridi e incontrò, come ogni mattina, quelle dell'unica persona su cui ormai poteva contare.
«Buongiorno Roxas!», a quel saluto particolarmente vivace il biondo sollevò istintivamente un soppraciglio, chiedendosi se l'altro fosse ubriaco o cosa.
«Come stai?», continuò Hayner, ignorando lo sguardo stralunato dell'amico. «Senti gli uccellini invisibili cinguettare e la perenne puzza di corpi putrefatti che arieggia allegramente nei corridoi di questo splendido luogo camuffato da scuola per studenti brillanti?»
Roxas sbatté ripetutamente le palpebre, sconvolto e perplesso dalla sanità mentale dell'altro. «Hayner, chi è stato?»
«Chi è stato a fare cosa?»
«A venderti roba così pesante». A quella sarcastica risposta Hayner assunse un'espressione imbronciata prima di lanciare un'occhiataccia al ragazzo dai capelli dorati. «Cercavo soltanto di rendere il tuo risveglio meno traumatico del solito, soprattutto data la tua nuova compagnia.»
«Se proprio volevi aiutarmi avresti dovuto risparmiare la tua uscita da coglione che hai fatto ieri dal preside. Pulire il cortile... Guarda che merda di situazione mi è capitata.»
Hayner allora sbuffò rumorosamente con il naso, incrociando le braccia sulla propria maglia, la quale raffigurava un dito medio messo in bella mostra. «Sei il solito rompicazzo, Roxas. Ti consiglio di trattarmi bene almeno per oggi, perché altrimenti non ti mostrerò quello che sono riuscito ad avere.»
A quell'affermazione gli occhi del biondo si illuminarono immediatamente; fece per schiudere le labbra, pronto a chiedere di che cosa si trattava, quando uno spintone sulla schiena lo interruppe, facendolo barcollare appena.
E intuì immediatamente da dove proveniva quel delizioso saluto, ancor prima di sentir ne la voce. «Siete ancora qui? Io speravo che vi foste levati dalle palle e che aveste già iniziato a pulire quel cazzo di cortile.»
«Roxas, ti prego, reggimi. Vedere un essere così disgustoso a quest'ora del mattino potrebbe farmi saltare tutti gli organi interni.», ghignò ironicamente Hayner, accennando poi un sorrisetto soddisfatto dalla propria battuta; Axel a quel punto gli lanciò un'occhiata truce, non aspettando però neanche un secondo per ribattere. «Tanto il cervello è già saltato da tempo, quindi non vedo dove sia il problema.»
«Tu, brutto figlio di-»
«Hayner, basta, cazzo, abbassate questa dannatissima voce», li incalzò improvvisamente il terzo presente, iniziando ad incamminarsi lungo il solito corridoio. «L'ultima cosa che voglio è che l'intera clinica sappia che mi è toccata una punizione del genere.»
Quell'osservazione non sfuggì alle orecchie di Axel che accennò un sorriso sinistro. «Povero, perderesti quella poca dignità che ti è rimasta.»
«Che simpatico.»
«Lo so, modestamente.»
«Era ironico, deficiente.»
«Ho capito, coglione. Anche il mio ringraziamento era ironico, se poi il tuo cervello non ci arriva non so che cosa dirti.»
«Non è colpa mia se con quel tono di voce di merda che ti ritrovi non si riesce a capire se sei serio o meno, per non parlare dei tuoi tatuaggi da...», e a quel punto fu Hayner quello che si sentì meno coinvolto nella discussione che venne portata avanti fino all'arrivo a destinazione; Axel insultava, Roxas rispondeva con qualcosa di più aspro e acido, ottenendo l'ennesima rispostaccia da parte del rosso. Talvolta Hayner interveniva per difendere l'amico e allora Axel se ne usciva con frasi come ''Cazzo, Hagen, non riesci neanche a pararti il culo da solo'' o cose del genere, subendo poi l'ira degli altri due che, prontamente, lo riempivano di insulti e minacce.
Tutto questo prima di giungere nel cortile che circondava l'edificio: era di medie dimensioni, insomma, abbastanza grande da impedire di annoiarsi durante le prime due settimane, ma troppo piccolo per i pazienti che vivevano in quel luogo da più di sei mesi.
«Datevi una mossa!». I tre si voltarono di scatto alla loro destra, notando la presenza di una donna bassa e grassoccia, con addosso come minimo tre strati di vestiti e due paia di pantaloni.
«Oh, no», commentò ad alta voce Hayner, deglutendo rumorosamente. «è quell'obesa della signora Olsen. Se ci sarà lei a controllarci, me ne vado. Quella mi odia!»
Roxas roteò lo sguardo da una parte all'altra dell'ambiente circostante, chiedendosi perché diavolo gli capitavano tutte a lui. «Perché, c'è qualcuno qui dentro che non ti odia?»
«Mi associo a questo odio collettivo.», si intromise improvvisamente l'uomo dai folti capelli rossi, superando gli altri due per poter raggiungere la professoressa, sforzandosi nel frattempo di sfoggiare uno dei suoi sorrisi meno falsi.
«Beh?», fece poco dopo Hayner, rivolgendosi all'amico. «Che facciamo?»
«Come sarebbe a dire ''che facciamo?'' Dobbiamo pulire, non c'è altro modo.»
«Ma mi è appena venuto in mente un piano per pote-»
«Hayner, ti prego», lo interruppe con uno sguardo esasperato il biondo, facendogli cenno di seguirlo dalla signora Olsen, la quale, dopo averli salutati con un sorrisetto soddisfatto da bastarda di turno, consegnò loro dei rastrelli. «In quest'ultimo periodo, come ben sapete, il personale scarseggia parecchio e quindi non riusciamo ad occuparci abbastanza della pulizia del cortile. Avrete certamente notato la quantità industriale di foglie qua e là, quindi, forza, al lavoro!»
Hayner schiuse le labbra, spinto dalla voglia di mandare la donna bellamente a quel paese, quando l'amico lo fermò, tirandolo per la manica della maglia. «Non peggiorare le cose.»
Il ragazzo grugnì qualche insulto tra sé e sé, decidendo comunque di seguire il consiglio di Roxas; si allontanò di qualche metro insieme a quest'ultimo e iniziò a raggruppare tra di loro le foglie, sbuffando cinque volte nell'arco di due minuti. «Guarda come gode quella bastarda a vederci sgobbare.»
«Ci credo, dopo tutto quello che le hai fat- Ehi, ma che diavolo 'sta facendo quello schizzato di merda?»
Hayner interruppe volentieri il massacrante lavoro che gli era toccato e ridusse gli occhi a due fessure, notando che dall'altra parte la signora Olsen sembrava particolarmente divertita da qualche battuta di Axel. «Regola numero cinque, sezione sette della sopravvivenza nella clinica di recupero Werner: se sei nuovo, cerca di fare buona impressione su quegli stronzi dei medici e degli insegnanti in modo da evitare qualsiasi sorta di punizione.»
«Ma se il primo giorno che è arrivato mi ha mollato un pugno sul naso!», tuonò Roxas, riprendendo ad ammucchiare le foglie con aria scocciata. «Buona impressione, ma per favore! La prima cosa che ti viene istintivo fare guardandolo è di tirargli un calcio in faccia.»
Hayner scoppiò in una grassa risata e fece cadere il rastrello sul prato bagnato a causa dell'acquazzone della sera prima, sedendosi poi a gambe incrociate. «Allora probabilmente lo starà facendo per cercare di sembrare simpatico almeno agli occhi della signora Olsen. Sai, magari spera che gli faccia saltare la punizione. Si vede che è nuovo, povero sfigato. Adesso posa quella merda e siediti qui. Scommetto quel che vuoi che dopo un po' la signora Olsen si romperà di noi e ci rimanderà ai dormitori comunque.»








«Potrei andare in bagno?»
Una risata generale si espanse nella piccola aula e la dottoressa Andersen sospirò rumorosamente, annotando qualcosa sul proprio quaderno. «Wiedenkeller, non mi sembra proprio il caso.»
«Ha ragione, mi scusi.», mormorò il ragazzo, assumendo una finta espressione dispiaciuta. «Volevo dire: potrei andare ai servizi?»
Roxas a quel punto gli tirò l'ennesima gomitata sul braccio, facendogli cenno di chiudere quella maledettissima bocca che lo aveva sempre cacciato in mezzo ai guai.
Detestava a morte la terapia di gruppo. Probabilmente, insieme alla lezione di giardinaggio, era l'attività più inutile di quello schifosissimo posto. L'unica cosa positiva, o forse negativa, dipendeva dai punti di vista, era proprio che era una delle poche attività in cui si ritrovava insieme ad Hayner.
In realtà quando era entrato nella clinica si era imbattuto con lui in quasi tutte le lezioni, ogni benedetto pomeriggio; in qualsiasi aula si recava, lui era lì, sempre e comunque.
Proprio per questo si erano avvicinati molto. E per il medesimo motivo gli insegnanti decisero, dopo almeno cinque mesi, di rifare completamente i loro programmi settimanali, cercando in ogni maniera di farli incontrare il meno possibile, giusto per evitare che continuassero a far scoppiare i soliti deliri tra i pazienti.
Ma le attività erano molte ed era ovvio che almeno tre volte alla settimana le loro lezioni, in un modo o nell'altro, combiaciassero.
«Wiedenkeller, siccome ha sempre così tanta voglia di parlare, perché non inizia lei a raccontarci dei suoi ultimi progressi?»
A quella richiesta Hayner si sedette in maniera composta e si scrollò le spalle, lanciando una fugace occhiata a tutti i presenti, i quali erano a loro volta seduti su delle piccole sedie di plastica, formando così un cerchio piuttosto disordinato.
Nonostante Roxas avesse partecipato a quella dannatissima terapia almeno un centinaio di volte, ancora non aveva imparato tutti i nomi delle diciasette persone presenti nella stanza. A parte Hayner, conosceva soltanto Aqua, Riku, Demyx e, sfiga di tutte le sfighe, quel maledetto schizzato del suo compagno di stanza era capitato nel suo stesso gruppo.
Al contrario dei nomi, ricordava piuttosto bene i problemi e le diverse malattie che galleggiavano in quella stanza; sapeva che c'erano un paio di drogati, un'infinità di alcolizzati, una ragazza che aveva un disturbo istrionico di personalità, un sociopatico e altre strane patologie che non aveva ancora compreso pienamente.
E poi c'era lui, l'unico che era costretto a vivere insieme a lei.
Fino a tre mesi fa, in realtà, c'era un'altra ragazza che soffriva di anoressia; era entrata nella clinica molto più tardi di lui, ma non ci aveva messo molto a riprendersi.
Durante le prime sedute l'aveva vista stanca, pallida, tremante; eppure, di volta in volta, aveva notato le sue iridi luccicare sempre di più, una speranza interiore che si accendeva nella sua anima, la stessa speranza che l'aveva salvata, che l'aveva riportata a galla, che le aveva permesso di riprendere in mano le posate senza odiarsi.
La stessa speranza che l'aveva accompagnata fino all'ultima terapia di gruppo sorridendo e gridando a gran voce: «Domani uscirò finalmente di qui!»
E lui l'aveva odiata, l'aveva odiata a morte.
«Non so se me la sento di parlare», non appena Roxas udì la voce fioca e timida di Hayner si tirò una manata in faccia, chiedendosi che gusto ci trovava a fare quelle scenate da teatro. «sapete, non è facile ammettere che sono un bulimico del cazzo... Adesso vi racconterò una storia; tanto tempo fa, in una terra lontana, c'era un ragazzo di nome Hayner Wieden-»
«Va bene, va bene, lasciamo perdere.», lo interruppe con un sospiro esasperato la dottoressa, annotando qualcosa di indecifrabile sul quaderno.
Anzi, forse Roxas sapeva perché Hayner trovava così divertente presentarsi continuamente a tutte le terapie di gruppo. Non voleva far ridere, né tanto meno era sua intenzione irritare la dottoressa che sembrava sempre sul punto di una crisi di nervi. Semplicemente era una sua tattica per evitare di dover parlare dei suoi cosiddetti ''ultimi progressi.''
In effetti, tutti sapevano perfettamente che era bulimico, ma nessuno era a conoscenza dei suoi miglioramenti, o meglio, dei suoi peggioramenti e dei suoi spuntini notturni.
Insomma, riusciva sempre a farla franca in un modo o nell'altro.
A quel punto parlò una ragazza, una certa Lucy, la quale spese quasi venti minuti per raccontare tutto ciò che le era accaduto in quelle ultime settimane, terminando la sua tragica storia con uno gemito di dolore seguito da un oceano di lacrime.
E n0n c'era cosa più irritante per i due amici di quelli che piangevano narrando ciò che avevano passato. Li detestavano, li detestavano davvero.
Per questo quando Hayner prendeva per il culo persone del genere, fingendo di piangere o di soffiarsi il naso mentre si presentava, Roxas non faceva mai nulla per fermarlo, né tanto meno lo incitava a smettere. Poco gli interessava se feriva i sentimenti di qualcuno. Anzi, in fondo era un bene. Almeno avrebbero capito che piangere non sarebbe servito a niente e, soprattutto, che non avrebbero suscitato la pietà di nessuno.
Venne interpellata un'altra ragazza, la quale si limitò ad elencare tutto ciò che aveva fatto negli ultimi quattro giorni, uscendosene addirittura con frasi tipo: ''Alle cinque e un quarto sono andata in bagno, poi mi sono lavata le mani e mi sono recata...''
Roxas temette seriamente di addormentarsi, quando la professoressa batté improvvisamente le mani, ottenendo l'attenzione dei presenti che sembrò quasi essere svanita nel nulla. «Adesso vi prego di mantenere il silenzio perché sta per parlare un nuovo arrivato, quindi cerchiamo di mostrarci disponibili ad ascoltarlo.»
«Ci sarà da ridere.», bisbigliò Hayner accanto all'orecchio di Roxas, proprio nello stesso momento in cui la dottoressa si stava rivolgendo all'uomo dai folti capelli rossi. «Koskinen, giusto?»
Il diretto interessato brontolò una sorta di ''sì'' annoiato e si alzò rumorosamente, senza guardare un punto ben preciso. «Sono Axel Koskinen e ho ventitre anni», dopodiché riprese posto senza farsi scrupoli, incrociando le braccia al petto con un'espressione alquanto infastidita dalla situazione in generale.
«Che discorso emozionante, bravo, bravissimo!», commentò ad alta voce Hayner con affilata ironia, ottenendo un'occhiata omicida da parte del fulvo, il quale fece per rispondere nella maniera più brusca possibile, quando la dottoressa si intromise: «Non vorresti aggiungere qualcos altro? Ad esempio, come ti trovi qui? Pensi che sarai in grado di intraprendere una via di guarigione?»
I presenti puntarono immediatamente gli occhi sul diretto interessato; chi curioso, chi invece ansioso di trovare qualcosa di cui parlare in mensa.
«Questo posto è la cosa più odiosa che possa esistere e non devo guarire da niente.», affermò apaticamente il fulvo, mantenendo lo sguardo fisso in aria.
Roxas allora scosse leggermente la testa, cercando di farsi sentire solamente dal suo vicino. «Un classico.»
Hayner annuì in risposta, notando che la dottoressa aveva già ripreso a prendere appunti. «''Soggetto di tipo A: classico paziente che, prima di intraprendere la famigerata via di guarigione, dovrà assumere la piena consapolvezza di avere dei disturbi e di essere al medesimo livello di tutti.''», recitò poi con voce robotica, intuendo immediatamente ciò che la donna stava scrivendo.
Roxas si lasciò sfuggire una risatina, mentre l'altro continuò: «''Mi rincresce informare il preside che però questo soggetto ha dei seri problemi mentali incurabili e che, ci conseguenza, dev'essere immediatamente allontanato.''»
«Questo non è ciò che sta scrivendo la signora Andersen, è un tuo desiderio.»
«Un nostro desiderio», lo corresse Hayner, sorridendo. «Si starebbe da Dio se quello si levasse da-»
«Hagen, Wiedenkeller, e voi? Avete qualche domanda da porre al nuovo arrivato?», chiese improvvisamente la dottoressa con aria rimprovera, sollevando appena un soppraciglio; Roxas voltò leggermente lo sguardo e si accorse che Axel li stava guardando in cagnesco.
''Sì, volevo sapere se è nato così o se si è rincoglionito con il tempo'', avrebbe voluto tanto domandare, ma si morse la lingua, decidendo di darsi un contegno; Hayner, al contrario, si alzò. «Sì, io ho una domanda!»
«Sentiamo, Wiedenkeller.»
Quest'ultimo lanciò prima una lunga occhiata al suo vicino, quasi avesse voluto leggergli nel pensiero; il biondo dunque assunse un'espressione perplessa e per un attimo temette seriamente che Hayner volesse davvero chiedere ciò che si era domandato mentalmente poco fa.
«Volevo sapere», iniziò finalmente a parlare il ragazzo, schiarendosi la voce di tanto in tanto per assumere un tono più solenne. «se ha i capelli tinti o meno. No perché, hanno un colore veramente improponibile.»








Afferrò un lembo di pelle del braccio e lo tirò verso di sé, rigirandoselo ripetutamente tra le dita fino a sentire un'acuto dolore; prese un profondo respiro e si tirò un pugno sullo stomaco, prima leggermente, poi un altro più forte, sperando così di fermare completamente i morsi della fame.
Perché si sentiva sempre troppo? Perché non riusciva mai a raggiungere il peso perfetto? Perché continuava a vedere tutto quel disgustoso grasso?
Si alzò la stoffa dei pantaloni fino alle ginocchia, scrutando con estrema attenzione le gambe che sembravano perennemente sul punto di spezzarsi.
Erano successe tante, tantissime cose, prima che lo sbattessero in quella maledetta clinica.
Gli avevano detto che rischiava di morire. Lo avevano ricoverato urgentemente e lo avevano costretto all'alimentazione forzata.
Fu terribile. Fu terribile per lui vedere le proprie guance riempirsi, insieme alla pancia, alle braccia, alle gambe. Fu terribile vedere la lancetta della bilancia muoversi verso numeri sempre più alti.
Fu disgustoso. E piangeva, piangeva giorno e notte, piangeva perché lo costringevano a mangiare e gli dicevano che stava facendo dei progressi.
Progressi. Perché? Perché li consideravano progressi, se lui si sentiva uno schifo? Perché lo consideravano malato, se voleva dimagrire?
Alla fine aveva raggiunto un peso abbastanza accettabile e lo avevano dimesso, riempiendolo però di fogli che lo incitavano ad un'alimentazione ricca e abbondante.
Lui era tornato a casa e aveva stracciato quei frammenti cartacei.
L'unica cosa che aveva desiderato era rimediare a quel grasso, a tutto quel peso accumulato. Allora aveva iniziato a correre, a fare palestra, a fare più sport contemporaneamente e a bere, bere più di tre litri d'acqua al giorno.
Sarebbe stato tutto perfetto, se non fosse svenuto così tante volte.
Sarebbe stato tutto perfetto, se il suo corpo fosse riuscito a reggerlo in piedi più spesso.
Poi, un giorno, si ritrovò in quella clinica. Aveva aperto gli occhi pensando di trovarsi nuovamente al pronto soccorso, ma successivamente aveva scoperto che lo avevano mandato in un posto ben peggiore.
Peggiore perché non lo avevano considerato soltanto ai fin di vita. Lo avevano considerato pazzo. Malato. Matto. Da allontanare.
Fece risalire le mani tremanti lungo i fianchi, giungendo poi alla pancia scoperta; si tastò le costole e tracciò ogni centimetro della sua pelle con l'indice fino a giungere all'incavo tra la spalla e il collo.
Grasso.Lì c'era troppo grasso. C'erano troppe calorie, c'era troppo tutto. Era una parte troppo piena.
Quel giorno gli avevano detto che rischiava la morte, e lui avrebbe voluto rispondere spiegando che era disposto a correre tale pericolo, a costo di vedersi perfetto una volta per tutte.
Dopodiché tornò a fissarsi le braccia e ricominciò tutto da capo: si tirò la pelle, si detestò a morte, cercò di soffocare il dolore provocato dalla fame e si guardò le gambe.
Così una, due, tre, quattro volte. All'infinito. Si analizzò, si studiò in ogni minimo dettaglio, aspettando e progettando. Aspettando di dimagrire. Progettando la perfezione.
Quella perfezione che gli altri non riuscivano a capire.
Rimase lì per altri minuti interminabili, immerso nel silenzio della sua stanza e nel rumore assordante dei suoi pensieri, quando udì un pugno battere contro la porta.
Roxas sentì il cuore salirgli in gola e sussultò, sentendo una morsa tremenda stringergli il cuore che iniziò a pompare il sangue più velocemente.
Ansia.
No.
Terrore.
Panico.
Paura.
Axel. Era Axel, se lo sentiva. Axel avrebbe visto il suo voler essere perfetto. Quel suo desiderio che per altri era follia. Di certo lo sarebbe stato anche per lui. Lo avrebbe deriso. Lo avrebbe detto ai medici. Lo avrebbero pesato. Avrebbero visto i suoi ''peggioramenti.'' Lo avrebbero controllato ad ogni pasto. Lo avrebbero costretto a mangiare.
Sarebbe ingrassato.
Grasso, calorie, troppo.
La perfezione sarebbe sfumata via dalle sue mani.
Aveva chiuso la porta a chiave.
L'anima si rilassò, i muscoli si distesero.
Ma Axel era il suo compagno di stanza. Aveva chiuso la porta a chiave. La stessa chiave che possedeva anche lui.
Questa volta la morsa dell'ansia fu ancora più feroce e violenta; lo trascinò via, lo fece annegare nel panico più totale, quando udì una voce, quella voce che fu come un soave bacio per i suoi nervi tesi. «Roxas, ci sei?»
Era Hayner. Non Axel. Hayner. Hayner accettava la tua ricerca ossessiva verso la perfezione. Hayner lo aiutava anche. Hayner era sua amico.
«Roxas, ehi? Dai apri che è ora di cena e non voglio che quegli stronzi del terzo piano finiscano i piatti migliori.»
«Arrivo», brontolò Roxas, non riuscendo però a farsi sentire; appoggiò le mani sul pavimento e cercò di alzarsi, quando un'improvvisa fitta allo stomaco, la più atroce e tagliente della giornata, lo costrinse a rimanere lì, seduto di fronte allo specchio che aveva trasportato dal bagno.
No.
Non in quel momento. Non poteva svenire. Non poteva non presentarsi di nuovo a cena. Aveva già saltato la colazione con la scusa della punizione, ottenendo un'occhiataccia da parte degli insegnanti. Non poteva far insospettire la gente, altrimenti lo avrebbero costretto a mangiare e a ingrassare.
Tentò nuovamente di alzarsi con tutte le sue forze, riuscendo questa volta nell'intento; si appoggiò al muro e ignorò i forti brividi che gli stavano percorrendo il corpo, avviandosi poi verso il proprio materasso.
Afferrò la felpa verde che si era tolto un'ora prima e se la infilò in fretta e furia, cercando di abbassarsela il più possibile per poter coprire anche parte delle cosce.
«Rooooxas, andiamo! Lo so che ci sei! Ti vuoi muovere? Mica ho tutta la vita! Ho fame, cazzo!»
In realtà il ragazzo riuscì a sentire soltanto parte delle incitazioni di Hayner; fu come se qualcuno gli avesse tappato improvvisamente le orecchie e purtroppo conosceva bene quella sensazione di smarrimento.
Nel frattempo anche la vista gli si appannò e riuscì a raggiungere per miracolo la porta, girando così la chiave giusto un attimo prima di sentire il proprio peso cedere sotto le ginocchia.
«Roxas, allora? Guarda che io apro!», annunciò a gran voce il ragazzo dall'altra parte, facendo ciò che aveva detto; dopodiché gli si gelò il sangue nelle vene alla vista dell'amico acasciato a terra ed entrò immediatamente nella stanza, chiudendo la porta dietro di sé.
«Oh merda, oh merda, oh merda, Roxas, cazzo, no», continuò a ripetere con fare disperato, chinandosi velocemente verso il giovane prima di afferrargli la testa per poterla sollevare di qualche centimetro. «Roxas? Roxas, andiamo, apri gli occhi! Roxas, ti prego, svegliati!», gli tirò dei leggeri schiaffi sulle guance, accorgendosi solo in quel momento quanto fossero scavate e consumate a causa della carenza di cibo.
Ritirò di scatto la mano, rabbrividendo, e si limitò a scuotere ripetutamente l'amico. «Roxas, ti prego, apri gli occhi! Svegliati, altrimenti i medici ti cercheranno di sicuro!»
Quelle parole riuscirono in qualche modo a raggiungere il cervello semiaddormentato del giovane, il quale si sforzò di sollevare leggermente le palpebre che, in quel momento, gli parvero due macigni enormi.
L'espressione preoccupata di Hayner lasciò posto ad un caldo sorriso. «Bentornato tra i comuni mortali. O forse dovrei dire tra i comuni malati.»
Roxas rimase in silenzio per qualche secondo, tentando di ricostruire mentalmente ciò che era successo. «Non... Non sono svenuto.»
«No, beh, certo che no.»
Il ragazzo dalle iridi blu cobalto chiuse nuovamente le palpebre e sospirò, voltando appena la testa ancora appoggiata sulla mano sinistra dell'altro. «Dico sul serio. Quando svengo di solito non mi sveglio prima di un'ora. Sarà stato soltanto un capogiro, niente di grave.»
«Capogiro o svenimento, poco importa. Dobbiamo andare a mangiare.», fece notare con aria sbrigativa Hayner, avvolgendo la schiena dell'amico con l'altra mano per aiutarlo ad alzarsi, quando quest'ultimo scostò bruscamente il suo braccio. «Riesco ad alzarmi benissimo da solo.»
A quell'improvviso rifiuto l'espressione di Hayner cambiò immediatamente. «Non si direbbe proprio.»
«E invece ti dico di sì.», replicò Roxas con asprezza, sforzandosi di issarsi sulle proprie mani; dopo un paio di cadute a causa dell'eccessiva spossatezza del corpo, riuscì comunque ad alzarsi anche senza l'aiuto di Hayner, il quale era intento ad osservarsi il palmo sinistro.
«Bene, adesso possiamo andare.», borbottò il giovane una volta in piedi, spolverandosi nel frattempo la felpa; successivamente alzò le iridi blu, perplesso di fronte al silenzio dell'altro. «Hayner? Ma che stai facendo?»
«Eh?», sobbalzò il ragazzo, scuotendo velocemente la testa. «Niente, niente. Andiamo, sì», farfugliò poi, scrutando con estrema attenzione la figura dell'amico mentre apriva la porta, avviandosi lungo il solito corridoio.
Hayner allora si guardò nuovamente il palmo sinistro per qualche altro secondo, concentrando in particolare la propria attenzione sul piccolo ciuffo dorato di capelli che gli era rimasto tra le mani.
Dopodiché scosse la testa e si sfregò le dita sulla maglia, affrettandosi a raggiungere Roxas.








Mary rovesciò una manciata di spaghetti sul piatto del giovane che osservò la propria cena con aria disgustata prima di alzare nuovamente gli occhi verso la donna. «Così tanti?»
«Non lamentarti Roxas e levati da qui, che c'è altra gente che aspetta di essere servita.», affermò scorbuticamente la cuoca, preparando un'altra porzione per l'ennesimo paziente; Roxas allora sospirò pesantemente e si voltò, pensando seriamente di fingere di far cadere sbadatamente il piatto. Solo in un secondo momento, però, si accorse della presenza dei medici che girovagavano per la mensa.
Maledetti bastardi.
Strinse nervosamente il piatto, afferrando nel frattempo una mela rossa non appena si imbatté nel solito vassoio di frutta. Successivamente si accinse a raggiungere Hayner che aveva già preso posto nel medesimo tavolo di Olette.
«E no, beh, niente, ho tirato una pallonata nelle parti basse di Marluxia Porn e posso confermare che, molto probabilmente, in quegli angoli bui non c'è nessun piercing.»
La giovane si portò alla bocca una manciata di spaghetti e, dopo aver masticato con cura, domandò: «E come fai ad esserne così sicuro?»
«Semplicemente perché non ho sentito un rumore metallico o qualcosa del genere. Se avesse davvero avuto il piercing, avrebbe dovuto fare qualche suono di fronte a quella pallonata, no?», a quella patetica spiegazione Olette scosse la testa con aria esasperata e al tempo stesso divertita.
«Vedo che anche le tue lezioni di motoria sono molto produttive», si intromise improvvisamente Roxas con affilata ironia, iniziando a tagliare in pezzi più piccoli ogni singolo spaghetto.
Hayner accennò il suo tipico sorriso sghembo e si scrollò le spalle, riprendendo nel frattempo a mangiare. «Assolutamente sì», annuì con aria sicura, lanciando poi una fugace occhiata al piatto del compagno.
«No Hayner, aspetta», bisbigliò il biondo, facendosi a malapena udire dagli altri due, in particolare dal ragazzo. «Ci sono... Ci sono troppi medici che girano oggi.»
«Sì, è quello che ho notato anch'io», brontolò il compagno, ingoiando l'ennesima manciata di spaghetti. «Mi sa che dovrai...», poi si bloccò, lasciando sospesa la frase in mezzo al tavolo.
Una frase che comunque fece rabbrividire Roxas.
Quest'ultimo abbassò automaticamente la testa verso la propria porzione enorme di spaghetti.
Calorie. Grasso. Cibo. Tutto insieme. In un unico pasto. Un pasto che lo avrebbe fatto sentire
troppo.Strinse con forza la forchetta, accorgendosi della presenza di un dottore proprio accanto al suo tavolo; lo vide guardare un punto perso della mensa, anche se in realtà sapeva perfettamente che lui, loro, tutti, scrutavano ogni singolo paziente con la coda dell'occhio. Poi annotavano, scrivevano i loro gesti, i loro atteggiamenti, le loro parole, su un fottutissimo taccuino. Un taccuino che poi avrebbero consegnato agli psicologi per poter discutere insieme se era il caso di farli uscire o meno.
Per discutere insieme della loro pazzia.
Per discutere insieme delle loro malattie.
Malato.
Come potevano considerarlo malato soltanto perché desiderava dimagrire?
Non era malattia, era amore verso se stessi, verso il proprio corpo, avrebbe voluto spiegare alla gente, al mondo intero che non aveva capito niente di niente.
Vide Hayner recitare. Lo vide impugnare naturalmente la forchetta prima di portarsi tranquillamente il cibo alla bocca, masticando con estrema cura.
Perfetta normalità. Perfetta. Perfetta fuori, non dentro. Dentro no perché i suoi occhi marroni erano nervosi. Le sue iridi continuavano a muoversi da una parte all'altra della mensa, sperando forse di vedere i medici svanire magicamente nel nulla.
Perché invece lui non riusciva a recitare?
Si sforzò di portare alla bocca qualcosa, senza però alcun risultato concreto; si limitò quindi a tagliare ossessivamente ogni singolo spaghetto, uno dopo l'altro, li divideva in cinque parti perfettamente uguali, poi le ammucchiava, cercando di far sparire il cibo, di trasformarlo in una quantità minore, in qualsiasi modo.
Perché lo obbligavano ad
ingrassare?Il medico era ancora lì, a scrivere, ad osservare.
E allora Roxas si decise. Si impose di afferrare una manciata di spaghetti, dieci piccole parti, e di portarsela definitivamente alla bocca.
Masticò lentamente. Masticò tutto fino a perderne il sapore. Masticò ed inghiottì con enorme fatica.
Ancora Roxas, andiamo. Devi farlo. Altrimenti ti obbligheranno ad ingrassare, ingrassare ed ingrassare.Altre dieci parti. In bocca. Masticare, masticare, masticare e masticare. Masticare fino a trasformare tutto in briciole. Poi ingoiare. Ingoiare ed ingrassare. Ingoiare e affliggersi dai sensi di colpa. Ingoiare e sentirsi sbagliato.
Alzò le iridi per un attimo e incrociò lo sguardo indecifrabile di Hayner. Avrebbe tanto voluto chiedergli aiuto. Avrebbe tanto voluto consegnargli il piatto e andarsene via. Avrebbe voluto farlo con tutto se stesso, ma non poteva, non lì, non di fronte a tutti quei dottori, a quei maledetti stronzi che volevano vederlo grasso.
Terzo boccone. Questa volta solo cinque parti. Non riusciva ad ingoiare altro. Prese in considerazione l'ipotesi di alzarsi e correre verso la propria stanza per vomitare, ma lo avrebbero certamente scoperto.
Aveva vomitato soltanto una volta, fuori da quel postaccio, quando ancora era libero, o almeno quasi. Una sera si era lasciato andare. Aveva mangiato tanto, tantissimo; aveva mangiato fino a sentirsi pieno, sazio, grasso, troppo. Si era odiato profondamente ed era corso in bagno a rigettare tutto nel gabinetto. Aveva vomitato fino a sputare acqua e sangue; nonostante ciò aveva la piena consapevolezza del fatto che era inutile. Sapeva che non serviva. Qualche caloria era sicuramente riuscita a raggiungere il suo stomaco, ad aggiungersi al suo peso.
Vomitare non gli serviva. Doveva solo controllarsi.
Qualcuno dall'alto sembrò aver preso improvvisamente in considerazione le sue preghiere perché i medici raggiunsero finalmente l'uscita e scomparvero nei corridoi con le loro informazioni trascritte su quei maledettissimi taccuini.
La mensa allora tornò a respirare e il solito caos quotidiano ricominciò ad aumentare di volume, costellato da parolacce e insulti di vario genere.
«Mi chiedo perché oggi questi pezzi di merda siano rimasti a romperci le palle per così tanto tempo». Hayner terminò la propria porzione e lanciò il piatto vuoto al centro del tavolo, estremamente irritato.
«Forse è stato il preside a chiederli di controllarci più spesso», azzardò la ragazza, sistemandosi una ciocca castana dietro l'orecchio sinistro. «Comunque, oggi parteciperete all'attività serale?»
«Che schifo ci sarà?»
«Uno spettacolo teatrale o qualcosa del genere», rispose Roxas, allontanando il piatto da sé, sforzandosi nel frattempo di non farsi assalire da qualche attacco di panico causato da tutte quelle calorie che aveva ingerito.
Hayner allora scoppiò in una grassa risata e scosse la testa. «Ma stiamo scherzando? Sarà la solita puttanata che ci farà venire voglia di morire per davvero. E poi io e Roxas dobbiamo fare una cosa importante.»
Il compagno sospirò rumorosamente e iniziò a sbucciare la mela. «Veramente io oggi pensavo d-»
«No, senti, non voglio fare nessuno scherzo, giuro!». A quell'affermazione Olette e Roxas sollevarono istintivamente un soppraciglio, esasperati di fronte alla menzogna dell'altro.
«Guardate che è la verità!», tuonò Hayner, scocciato dalla poca fiducia che i due amici avevano in lui. «Roxas, non ti ricordi che 'sta mattina ti avevo detto che sono riuscito a prendere una cosa?»
Mentre il biondo era intento a ripercorrere mentalmente la propria giornata, Olette riuscì immediatamente a capire di che cosa stesse parlando l'amico. «Sei riuscito ad avere delle...?»
«Sigarette, esatto. Un paio.»
Le iridi di Roxas allora si illuminarono immediatamente e spalancò leggermente la bocca, tra il sorpreso e l'entusiasta. «Hayner, ti prego, dimmi che non stai scherzando.»
«Assolutamente no», affermò con estrema sicurezza il compagno, sorridendo allegramente di fronte alla reazione dell'altro. «Ho scommesso queste due sigarette con un coglione del terzo piano.»
«Che tipo di scommessa hai fatto?», domandò Olette, non riuscendo a nascondere un leggero interesse all'argomento.
Hayner a quel punto si schiarì immediatamente la voce, pronto a raccontare l'ennesima avventura che aveva passato. «Ieri mi sono saltato le attività pomeridiane perché dovevo vedere questo tipo. Lui praticamente riesce a procurarsi un sacco di sigarette e allora gli ho chiesto se me ne regalava un paio, ma ha fatto il difficile e quindi abbiamo scommesso», dopodiché si guardò attentamente attorno e si avvicinò maggiormente ai due amici. «Conoscete il ''salto nel vuoto'', l'ennesima cura da psicopatico di Ansem?»
Roxas e Olette scossero la testa.
«Bene!», trillò Hayner, felice di poter aggiungere più dettagli possibili al suo racconto. «Allora ve ne parlerò io. Praticamente Ansem costringeva tutti i pazienti a turno, almeno una volta al mese, a fare una sorta di bungee jumping sulla piccola altura che c'è dietro la clinica»
Roxas rabbrividì immediatamente, accanto ad Olette che assunse un'espressione perplessa. «Non è mica tanto piccola per fare bungee jumping.»
Hayner si limitò a rispondere con una scrollata di spalle e proseguì: «Dicevo, lui stringeva una corda attorno ai pazienti e poi li costringeva a lanciarsi da quella piccola altura. Ma sapete qual era il bello? La corda non era legata a nessun albero o qualcosa del genere.»
Il ragazzo sgranò gli occhi. «E allora come...?»
«La corda veniva tenuta da lui e altri cinque pazienti. Il gioco stava nel cercare di fermare la caduta libera del povero sfigato un attimo prima che si riducesse in mille brandelli.»
Olette a quel punto si mise una mano sulla bocca, sconvolta; aveva sentito davvero numerose cure di Ansem, ma ogni volta non poteva fare a meno di rimanere sconcertata.
E lo stesso valeva per Roxas, il quale però si sforzò ancora di chiedere: «Ma... Ma non è mai capitato che... Insomma... Che qualcuno ci rimettesse la pelle?»
«Non lo so», ammise Hayner, dispiaciuto di non conoscere un dettaglio di tale importanza. «La clinica tiene notizie del genere molto riservate per evitare scandali o cazzate del genere. Comunque, Ansem faceva questo perché poi chiedeva a tutti a che cosa pensavano durante la caduta. Insomma, se rimanevano coscienti, dato che un bel po' di gente sveniva e basta. Secondo lui se il paziente era in grado di guardare in faccia la morte, allora sarebbe stato perfino capace di sconfiggere la sua stessa malattia.», recitò con fare teatrale il ragazzo, lanciando poi un'occhiata attenta ai due compagni di fronte a sé; Roxas aveva abbassato leggermente lo sguardo, evidentemente sconvolto di fronte ad un ragionamento così assurdo, e si limitava a tagliare la mela, senza comunque avvicinarla alla bocca. Al contrario, Olette lo stava guardando con fare addirittura terrorizzato, sperando vivamente che la descrizione di quella ''cura'' fosse tutta una sua invenzione.
Ma ovviamente no, non lo era affatto.
Probabilmente ciò che spaventava tutti era il pensiero che se fossero finiti nella clinica prima, anche loro avrebbero assaggiato le follie del vecchio preside. E allora, quasi sicuramente, sarebbero impazziti per davvero.
Nonostante la reazione dei due, Hayner non si fermò: «Poi, andando avanti, quando Ansem vedeva che gli atteggiamenti dei pazienti cambiavano, modificava un po' la cosa. Legava per davvero la corda ad un albero, o comunque a qualcosa di resistente, e lo buttava nel vuoto. Il paziente allora precipitava per un po' prima di fermarsi di scatto e in un secondo si ritrovava sospeso in aria. E finiva così? No, certo che no. Quel malato di Ansem li lasciava lì per almeno cinque minuti, nel bel mezzo del nulla. E poi, quando finalmente li faceva risalire, chiedeva a tutti di raccontare i loro pensieri durante quegli infiniti minuti e infine trascriveva tutto. Roba da accapponare la pelle, eh?»
«Già», mormorò Roxas dopo una manciata di secondi, evidentemente infastidito nell'aver ascoltato tutti quei particolari. «ma si può sapere che diavolo c'entra tutto questo con la scommessa?»
«Che cosa c'entra con la scommessa?», ripeté Hayner con un sorrisetto sghembo dipinto sul volto, iniziando poi a dondolarsi sulla sedia. «Beh, semplice. La scommessa consisteva proprio nel fare questo famigerato salto nel vuoto.»
Roxas, che aveva iniziato a sorseggiare un bicchiere d'acqua, si mise a tossire violentemente; Olette spalancò gli occhi, atterritta di fronte alla rivelazione dell'amico.
«Andiamo, non fate quelle facce», brontolò Hayner, facendo nel frattempo un cenno con la mano. «Guardate che sono ancora vivo. Fino a prova contraria non sono un fantasma.»
«Sei pazzo.», affermò schiettamente Roxas dopo essersi ripreso dallo shock iniziale, scuotendo lentamente la testa. «Hai rischiato grosso.»
«E questo sarebbe il tuo ringraziamento? L'ho fatto anche per te, sappilo. Se no sigarette un cazzo, ricordatelo», a quell'osservazione il biondo si zittì immediatamente, accorgendosi di essere dalla parte del torto; in fondo non aveva toccato alcuna sigaretta da più di un mese e ciò lo innervosiva parecchio.
«Ma dove avete trovato la corda? E chi ti ha tenuto?», tornò finalmente a farsi sentire Olette che, nonostante la forte preoccupazione per l'incolumità dell'amico, era comunque particolarmente curiosa di sapere come fosse riuscito a cavarsela senza neanche un graffio.
«Quel tipo l'aveva presa nella camera degli specchi», spiegò con fare assorto Hayner, giocherellando con il piatto vuoto. «Mi ha tenuto lui insieme ad un altro psicopatico del terzo piano. Un certo Lexaeus, un vero armadio, ve lo assicuro.»
«Ma lo sai che avresti potuto spiaccicarti a terra come una frittata?»
«Oh, Roxas, ma quanto la fai lunga! Andiamo, erano in due che mi tenevano! Di certo non mi avrebbero mollato, altrimenti sarebbero finiti nei casini!»
«Ci saresti finito anche tu», fece notare con una certa apatia il biondo, lanciando un'occhiata torva all'altro che replicò immediatamente: «Ma io sarei morto.»
Quell'affermazione fece immediatamente irrigidire gli altri due presenti, creando così un silenzio agghiacciante; Olette abbassò lo sguardo, scrutando con aria assorta la tovaglia leggermente macchiata. Roxas, al contrario, continuò a sbucciare la mela rossa che reggeva tra le mani, tagliandola poi in numerose fette. Osservò il frutto per minuti interminabili prima di allontanarlo da sé, accorgendosi che non se la sentiva proprio di ingerire altre calorie, altro grasso, altro troppo al suo corpo.
«Comunque non è successo!», fece notare con un sorriso allegro Hayner, spezzando il silenzio che stava iniziando a diventare particolarmente pesante. «Un po' d'ansia l'ho avuta prima del lancio, lo ammetto, ma niente di che. E' stata quasi una passeggiata.»
«E a che cosa hai pensato durante la caduta?»
Alla domanda della ragazza Hayner storse leggermente il naso e si scrollò le spalle, quasi avesse voluto liberarsi da un pensiero alquanto fastidioso. «A niente. Anzi, ho pensato alle sigaret- Ehi, Roxas, ti senti bene?»
Il diretto interessato infatti si era alzato di scatto, appoggiando il palmo della mano sinistra sul naso già grondante di liquido scarlatto. «Che palle, è la seconda volta oggi», farfugliò più a se stesso che ai due compagni, affrettandosi a raggiungere l'uscita, continuando nel frattempo a tenere la mano premuta contro le narici insanguinate.
Una sorta di ribrezzo gli solleticò lo stomaco, costringendolo a socchiudere un occhio nella speranza di non farsi completamente assalire da un forte senso di nausea; sentire il sangue vivo, così rosso e denso, pendere dal proprio naso non era di certo il massimo.
Attraversò gran parte della mensa, sforzandosi di ignorare gli sguardi indiscreti degli altri pazienti, quando una voce, una maledettissima voce, lo fece voltare di scatto: «Hagen, cos'è tutta questa fretta?»
Axel.
E non era solo.
Roxas si maledisse mentalmente più e più volte per essersi voltato, poiché si era ritrovato di fronte al tavolo di quei malati del terzo piano che, come aveva previsto, sembravano aver stretto amicizia con il suo compagno di stanza.
Fece per replicare con un insulto, uno qualsiasi, magari riferito alla sua puzza di alcool, ma si morse la lingua, imponendosi di ignorarlo e di proseguire verso l'uscita; prese un profondo respiro e fece per muovere il primo passo, quando si aggiunse una seconda voce, questa volta proveniente da Marluxia: «Roxas, voci esterne mi hanno detto che 'sta mattina ti sei dovuto subire una gran bella punizione di merda, confermi?»
Risatine. Dannatissime risatine taglienti, rumori assordanti che gli stavano trapanando le orecchie.
Bastardo. Quel bastardo di Axel lo aveva fatto sapere in giro, giusto per sputtanarlo un po'.
Roxas tentò di asciugarsi il naso, allontanando poi il palmo della mano per poter parlare liberamente: «Ah, sì? Bene, fai sapere a queste ''voci esterne'' di farsi una manciata di cazzi propri, se non ti dispiace.»
Marluxia scoppiò in una grassa risata e fu sul punto di ribattere, quando Axel si intromise nuovamente: «Andiamo Hagen, non prendertela; pensa che ti ho pure fatto una sorpresa!», ma Roxas non udì completamente la provocazione, poiché si precipitò verso l'uscita della mensa in fretta e furia.








Riempirsi il più possibile perché ci si sente troppo vuoti. Riempirsi, riempirsi, riempirsi al massimo, riempirsi fino a provare un acuto dolore a causa di quell'eccessiva pienezza, per poi svuotarsi di nuovo, tornando al punto di partenza.
Un circolo vizioso.
Riempirsi perché ci si sente vuoti, svuotarsi perché ci si sente troppo pieni. Causa, conseguenza. Conseguenza, causa. Era tutto abilmente collegato in modo da impedirti di trovare una via di fuga, un'uscita, qualcosa, qualsiasi cosa, pur di poter rompere quel filo infinito.
Ecco che cos'era la bulimia.
Una ricerca contro il vuoto che però tornava sempre, più forte di prima, più affamato della volta precedente.
E a Roxas sembrava quasi di respirare quel senso opprimente di pienezza nella stanza di Hayner. Una pienezza mascherata abilmente, una pienezza che dietro nascondeva il vuoto, il vuoto iniziale, quella voragine da cui partiva tutto.
Quella che assomigliava un po' alla sua.
La sentiva respirare, pesante, forte, soffocante. Gli tagliava la pelle, lo faceva sanguinare dentro, gli trapanava lo stomaco con la fame e con i sensi di colpa.
Lui sentiva solo un vuoto intenso, più intenso di qualsiasi altra presenza. Hayner invece assaggiava anche la pienezza, quella malata, quella mascherata, quella che poi lo rovesciava nel vuoto.
Entrambi nel vuoto.
Vuoto che rovina, distrugge, devasta, demolisce, abbatte, sfascia, smantella.
Vuoto che soffia via tutto ciò che hai dentro. Vuoto che si impossessa di te, vuoto che ti ricostruisce morto.
Perché rovinarsi tanto la vita per una ricerca infinita verso la perfezione?
Non lo sapeva. Non lo sapeva nemmeno lui. Era caduto e non si era ancora rialzato. Perché? Perché quel vuoto si era innamorato così ossessivamente di lui?
Roxas pensò che lei, l'anoressia, quel vuoto, gli aveva reso le ossa marce. Tutte, tutte quante. A partire dalla cassa toracica, quella che abbracciava i polmoni, il cuore. Si era ammuffito, era andato a male, scaduto. Aveva le ossa scadute, una cassa toracica stanca di tenere polmoni che respiravano solo aria sporca. Polmoni che non reggevano più un cuore malato.
Roxas si sentiva così. Marcio e scaduto. Dentro, perché fuori continuava a vedersi troppo. Fuori continuava a cercare la perfezione, una bellezza che portava inesorabilmente ad una lapide.
Eppure non gli importava.
Era quello il problema.
Era consapevole della sua malattia da tempo ormai. Aveva superato da un anno la fase del considerarsi normale. Certo che l'aveva superata.
Ma non gli importava, che forse era pure peggio dell'insistenza di cercare la normalità dove non esisteva.
Stava precipitando.
«L'ho mandato a fare in culo.»
Roxas sussultò appena, alzando immediatamente le iridi blu verso Hayner. «Cosa?»
«Axel. L'ho mandato a fare in culo, quello stronzo di merda. Hai visto che si è circondato da quei ritardati del terzo piano?»
«Prevedibile», borbottò in risposta il biondo, allontanando leggermente il fazzoletto dal naso. «Come ti sembra?»
«Mi pare che abbia smesso di sanguinare.», annuì Hayner prima di aprire il cassetto del comodino di legno accanto al suo letto. «E adesso possiamo finalmente goderci il paradisiaco sapore delle sigarette.»
Roxas allora si alzò, infilandosi il fazzoletto sporco nelle tasche dei pantaloni, tentando di nascondere l'evidente emozione. «Però è meglio se le fumiamo fuori, in cortile. Usciamo di nascosto e torniamo il prima possibile.»
«Sìsì, tutto quello che vuoi», farfugliò Hayner, aprendo il secondo cassetto con aria indaffarata; tirò fuori una manciata di barrette al cioccolato e scostò numerosi fogli accartocciati, imprecando ripetutamente.
«Hayner?», lo chiamò l'altro dopo una decina di secondi. «Ti vuoi muovere o no?»
«Cazzo!», tuonò allora il proprietario della stanza, tirando un pugno contro il comodino. «Non ci sono!»
«Che cazzo vuol dire che non ci sono?!»
«Non ci sono, merda, non ci sono!»
«Mi stai prendendo in giro?»
«No!», trillò Hayner, calciando ripetutamente i cassetti, quasi incitandoli a vomitare una volta per tutte quelle maledette sigarette. «Le avevo messe qui, cazzo, te lo giuro!»
«Controlla bene, andiamo...»
«Controllare?! Roxas, non c'è un cazzo da controllare! Ho fatto quella merda di scommessa, ho preso le sigarette, sono corso qui e le ho infilate nel cassetto!»
Roxas si morse furiosamente il labbro, leggermente intimorito di fronte alla rabbia dell'amico; lo squadrò bene, notando che continuava ad imprecare tra sé e sé. Hayner, probabilmente, non era fissato come lui con le sigarette. Forse ciò che lo aveva fatto infuriare così tanto non era la scomparsa di esse.
Hayner era adirato per un altro motivo e Roxas purtroppo aveva capito perfettamente di che cosa si trattava.
«Qualche stronzo ce le ha fottute, ne sono più che sicuro», ringhiò a denti stretti il giovane dalle iridi marroni, serrando i pugni, quasi si stesse preparando ad una futura rissa.
Il biondo sospirò pesantemente e si avviò verso la porta, appoggiando la mano sulla maniglia.
«Dove vai?»
«Mi sdraio un po' in camera», mormorò Roxas, avendo già intuito che l'altro gli avrebbe posto quella domanda. «Ho mal di testa. Speravo di fumarmi una fottutissima sigaretta e invece... Che giornata di merda.»
«Perché non cerchiamo il colpevole?»
Roxas roteò lo sguardo da una parte all'altra della stanza, lanciando un'occhiataccia ad Hayner, il quale, nel frattempo, aveva scartato una barretta. «E chi cazzo siamo, Sherlock Holmes?»
«Magari troviamo le sigarette.»
«Se va bene sarà rimasta la cenere», commentò aspramente l'altro, aprendo la porta, pronto ad andarsene, quando la voce di Hayner lo raggiunse: «Gli farò vomitare il fumo dai polmoni, vedrai.»
Roxas si limitò ad alzare la mano in cenno di saluto e chiuse la porta dietro di sé, lasciandosi sfuggire un secondo sospiro, più pesante del precedente.
Possibile che tutta la sfiga si ammassasse sempre addosso a lui?
Una giornata da cancellare, ecco che cos'era. Non che le altre fossero migliori, però, insomma, tutto aveva un limite.
Si avvicinò alla propria stanza, intuendo immediatamente la presenza del suo tanto odiato compagno poiché riusciva già ad udire quella maledetta canzone che ascoltava in qualsiasi ora della giornata.
Prese un profondo respiro, decidendo di aspettare qualche secondo prima di entrare, giusto per poter riflettere su come comportarsi.
Entrare e mandarlo a quel paese per la figura poco elegante che gli aveva fatto fare in mensa? No, meglio di no. Ciò non avrebbe fatto altro che peggiorare la serata.
Entrare e fingere di non essere a conoscenza della sua esistenza? Sì, un'idea decisamente migliore.
Lo avrebbe ignorato da quel momento fino alla fine dei suoi giorni. Solo allora Axel si sarebbe stancato di torturarlo e di rovinargli l'intera esistenza, come se non fosse già abbastanza tremenda.
Sbuffò con il naso e decise finalmente di aprire la porta, sforzandosi in ogni maniera di rispettare il proprio piano e di non fare nulla che avrebbe potuto mandare completamente a puttane la giornata, quando qualcosa gli fece gelare il sangue nelle vene.
E quello stesso sangue un attimo dopo Roxas lo sentì bollire sotto la propria pelle, come se un improvviso fuoco avesse fatto sciogliere il ghiaccio, rendendo i suoi globuli rossi più roventi che mai.
Non fu la presenza di Axel a mandarlo in bestia. No, assolutamente no. E nemmeno il fatto che stesse ascoltando quella maledettissima canzone per l'ennesima volta. Quello, in fondo, lo innervosiva e basta. Quello era soltanto un pizzico di pepe in mezzo ad un piatto particolarmente piccante.
Ciò che gli fece saltare i nervi fu il quadro completo della situazione: vedere Axel tranquillamente sdraiato sul materasso disfatto, intento a fumare una sigaretta e a guardare il soffitto, ascoltando nel frattempo di sfuggita la solita canzone e posando la cenere sul suo libro di Jim Morrison, fu uno spettacolo tremendo per Roxas.
A dir poco tremendo.
Qualcuno gli aveva rovesciato dell'acido su una ferita ancora fresca.
Axel aspirò il fumo dalle narici, accennando un sorriso sghembo e divertito. Divertito per davvero, divertito della sua stessa ipocrisia e del suo completo essere stronzo. Non si poteva considerare un sorriso ipocrita, perché lui lo era e basta. Era la sua presenza ad essere falsa, di conseguenza era lapalissiano che anche il suo sorriso lo fosse.
«Beh? Non ti avevo detto che ti aspettava una sorpresa?»
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*Note di Ev'*
Salve a tutti.
Oddio, no, così è troppo accademico.
Allora, ehm... Ciao abominevoli stronzi.
Va bene, lasciamo perdere i saluti.
Io... Io, ohm, inizierò con l'analisi del capitolo, e poi vi riempirò di una miriade di cazzate, scuse e ringraziamenti, ecco.
L'ultima volta (Che, vi giuro, non ho il coraggio di vedere a quale data risalga perché altrimenti rischierei un infarto o una crisi isterica/di pianto) abbiamo lasciato i nostri protagonisti alle prese con la famigerata punizione, la quale, appunto, viene trattata nella prima parte del capitolo.
All'inizio c'è un breve flash-back della vita passata di Roxas, anche se questo frammento riguarda sempre la sua malattia e non ciò che è accaduto ancora precedentemente; si narra delle sue ansie, delle sue paure e... Insomma, avete capito.
Con l'arrivo di Hayner si parla vagamente della famigerata cosa che è riuscito a procurarsi che, come si scoprirà alla fine, è una sigaretta. O meglio, due.
Seconda parte. Un'allegra terapia di gruppo, in cui, sfiga di tutte le sfighe esistenti sulla faccia di questa storia, vediamo di nuovo quel rompicoglioni bravo ragazzo, ovvero Axel.
Eh, no, ancora non si è scoperto il vero motivo per cui sia finito in questo schifo di posto, poiché sua grazia si è limitato a presentarsi e a rivelare la sua età. Come se ce ne fottesse qualcosa, poi.
Scena successiva. Una fitta analisi psicologica dei sentimenti che prova Roxas quando si osserva ossessivamente allo specchio, intento a vagare nei suoi amplessi che riguardano sempre, ovviamente, il suo peso. Si viene nel frattempo a conoscenza di un altro dettaglio; prima di finire nella clinica, egli è stato ricoverato ed è stato costretto all'alimentazione forzata.
Anyway, passiamo oltre. Roxas sviene, Hayner lo aiuta, o comunque, ci prova, e, prima di raggiungere l'amico lungo i corridoi, si accorge della presenza di un piccolo ciuffo di capelli tra le mani. (Ps. Per chi non lo sapesse, l'anoressia porta alla perdita di capelli, anche se ciò avviene lentamente. E addirittura, nelle ragazze, alla scomparsa del ciclo mestruale.)
Andiamo avanti. La parte successiva è quella più lunga, se non sbaglio (E infatti rileggere e controllare eventuali errori è stata una gran bella rottura di coglioni), e si svolge in mensa. E in essa gli avvenimenti essenziali sono: il comportamento di Roxas e Hayner di fronte a tutti quei medici, il fatto che Hayner sia riuscito a procurarsi delle sigarette (In realtà quando mi era venuta in mente l'ispirazione per questo fatto, ancor prima di scrivere la storia, non era mia intenzione raccontare anche la maniera in cui Hayner se l'era procurate. Ciò l'ho fatto essenzialmente per la cara Raven C. che nell'ultima recensione mi ha pregata di parlare ancora di qualche altra cura/tortura di Ansem e ci tenevo assai ad accontentarla!) e, vabbeh, sì, che, come al solito, Axel spacca il cazzo al povero Roxas.
Ultima scena. I due sono pronti a fumare le famigerate sigarette, quando... Shock totale, esse sono magicamente scomparse nel nulla. Evidentemente qualcuno le ha rubate. -A meno che Hayner se le sia mangiate (??) senza accorgersene.-
Dunque Roxas abbandona la stanza dell'amico e si reca nella propria, dove, ovviamente, c'è Axel che... Sì sta fumando una sigaretta, sì.
Fine dell'analisi che, molto probabilmente, non fregava a nessuno.



Passiamo alle cazzate a random, yuppi.
Gente, questo è il capitolo più lungo fino ad ora, penso che lo abbiate notato. Spero che almeno così io sia riuscita a farmi perdonare per... No, non è un ritardo, è addirittura troppo per definirsi un banale ritardo, omg.
Molte di voi sono state carinissime con me, veramente. A parte Raven (Tanto lo sai fino alla nausea che io ti ringrazio enormemente per tutto), vorrei far notare a _NekoRoxy_ e a Faith Yoite che mi avete fatto venire il diabete dalla dolcezza ;_; Non immaginate quanto mi abbiate resa felice contattandomi per chiedermi di continuare la storia, owh.
E come ho già ribadito tante volte, non è l'ispirazione a mancarmi. Io so già come terminare questa storia, giuro. So già che cosa accadrà nel prossimo capitolo, so già che cosa è successo ai personaggi in passato, ma, ma... Ma il tempo, cazzo, è il tempo, è questa merda di scuola :c Porco polaretto, grazie a Dio sta per finire. Aprile sta terminando, poi ci sarà Maggio (Mese in cui compiro finalmente 16 anni, olà. Magari diventerò un po' più alta) e... e... LIBERTA', CAZZUM, LIBERTA' DI SCRIVERE, DI PUBBLICARE NUOVA STORIE AOIDOWERJZLCKXVC.-
Il fatto è anche che non è che io scriva i capitoli e basta, ohm. Scrivere è sensazionale, ma poi c'è il faticoso lavoro di rileggere così tante volte da imparare le frasi a memoria. Sì, perché rileggo come minimo dieci volte per controllare gli errori, i tempi, e questo mi fa diventare matta. Rileggo due volte parte per parte, poi altre due volte per intero, poi l'HTML, questo, quello... Forse mi converrebbe scrivere una parte, rileggere e ricontrollare, scriverne un'altra e così via, ohm.


Detto ciò, ringrazio tutte le splendide creaturine che mi hanno sempre lasciato una recensione. (E spero tanto di rispondere presto ad esse, uhm) E incito anche i lettori silenziosi a commentare, poiché questo è un sito in cui ci si deve confrontare.
Mi dileguo,
alla prossima!
E.P.R.

 

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Capitolo 6
*** Home. ***


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Insidie interiori.

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2. Home


Prima detestava a morte l'odore delle sigarette e addirittura, quando qualche suo amico tirava fuori il famigerato pacchetto dalla tasca dei jeans, lui si allontanava di parecchi metri, infastidito.
Prima, ovvio.
Tutto ciò accadeva prima, quando la sua vita non era ancora un cumulo di macerie e quando lui si poteva ancora considerare una persona normale.
Aveva scoperto per caso che il fumo riusciva in qualche modo a bloccargli lo stimolo della fame; un pomeriggio si era recato in un piccolo bar in periferia, intenzionato a comprare un pacchetto di chewing-gum che gli avrebbe consentito di saltare la cena, quando il suo sguardo era casualmente andato alle numerose marche di sigarette presenti.

Così in un attimo decise di cambiare i propri programmi e intuì immediatamente che quella era la strada giusta per sentire il meno possibile la fame; le chewing gum non contenevano molte calorie, ne era consapevole, ma sapeva anche che esse accrescevano la voglia di cibo.
Al contrario, le sigarette gli sarebbero potute bastare per tutti e tre i pasti della giornata.
Non gli interessava dell'alito che puzzava perennemente di fumo, dei suoi polmoni che imploravano pietà, né tanto meno delle lamentele in famiglia.
L'unica cosa che desiderava era dimagrire e quello stratagemma aveva funzionato perfettamente, almeno quando viveva fuori da quel dannatissimo posto.
Tutto quel bianco camuffato.
Ma c'era Hayner, la sua àncora, il suo salvagente. Lui talora riusciva a procurarsi un paio di sigarette; una volta era riuscito ad avere addirittura un pacchetto intero.
Le sigarette.
Le sigarette tanto bramate e sudate.
Le sigarette che in quel momento Axel si stava fumando con tutta la traquillità esistente sulla faccia della Terra, inspirando il fumo con fare particolarmente rilassato.
«Dovresti vedere la tua faccia», continuò a parlare il fulvo, portandosi la sigaretta alle labbra. «Sembri sul punto di scoppiare.»
Perché non poteva avere neanche un attimo di pace?
Almeno prima nella sua stanza, per quanto si sentisse solo e straziato, poteva rimanere immerso nel suo beato silenzio.
Prima, certo.
Prima.
Sempre prima, mai ora. Per lui bisognava utilizzare perennemente il passato.

A Roxas parve quasi di sentire i bulbi oculari fremere dalla rabbia; strinse con furia i pugni fino a sentire le unghie penetrare nella pelle, forse nella futile speranza di poter ancora contenere quell'immensa collera.
Axel, dal canto suo, sembrava sempre più divertito dalla situazione; per lui vedere gli altri alterarsi pareva quasi uno spettacolo particolarmente comico. Non allontanò le iridi dal compagno di stanza neanche per un secondo; addirittura lo sfidò con gli occhi, probabilmente incuriosito dal vedere la sua mossa successiva.
Mossa che non tardò ad arrivare.
Roxas in realtà non ci pensò poi molto; si limitò a voltare per pochi secondi lo sguardo e allora un lampo attraversò la sua mente.
Axel nel frattempo diede l'impressione di essere sul punto di dire qualcosa, probabilmente l'ennesima presa in giro aspra e bastarda, quando notò che il biondo lo aveva raggiunto con passi estremamente veloci; dunque si mise a sedere, sempre più divertito, pronto a fargli capire che in forza fisica era senz'altro il migliore, finché Roxas non lo lasciò completamente spiazzato con due semplici movimenti: appoggiò la mano sullo stereo e lo lanciò contro il pavimento, fermando così la canzone giusto un attimo prima dell'inizio del ritornello.
Roxas allora si accorse di aver toccato un altro punto debole dell'uomo, poiché quest'ultimo passò dallo stupore all'ira in una manciata di secondi; il giovane lo ignorò tranquillamente e si limitò ad afferrare il proprio libro per spolverarlo dalla cenere.
«Tu», sputò Axel, alzandosi con aria minacciosa. «maledetto stronzo, raccogli il mio stereo.»
«Altrimenti?», lo sfidò beffardemente il diciottenne, non degnandolo di uno sguardo. In un primo momento dentro provò paura, doveva ammetterlo, ma poi si accorse che non doveva più temere nulla. Aveva rischiato di morire, lo avevano sbattuto in una clinica, la sua vita non aveva praticamente senso... Di certo un altro pugno non gli avrebbe cambiato la situazione.
Anche perché prima di essere stato ricoverato urgentemente, prima dell'anoressia, erano successe altre cose. Altri avvenimenti, altri fatti. Una molla che lo aveva spinto brutalmente a distruggersi.
«Roxas, il tuo problema è che non riesci a dimenticare ciò che è successo.», gli aveva rivelato il dottor Astron già alla quarta seduta. Se fosse stato per lui, uno psicologo brillante, non c''è che dire, sarebbe giunto a questa conclusione già alla seconda seduta; il problema era che Roxas si era deciso a parlare soltanto dopo un paio di settimane. Praticamente le prime sedute le aveva spese a fissare il vuoto, limitandosi a rispondere a monosillabi.
«Altrimenti questa volta ti spacco per davvero la faccia». Roxas si accorse della presenza del rosso dietro di sé e si voltò di scatto, stringendo il proprio libro come se fosse una sorta di scudo. Dopodiché ridusse gli occhi a due fessure e decise che, siccome non era particolarmente dotato di forza fisica, si sarebbe limitato ad usare le parole. «Davvero vuoi colpirmi di nuovo? Beh, ci rimetteresti soltanto tu, sappilo. E questa volta la punizione te la beccherai solo tu perché io non mi difenderò minimamente. Ti puniranno e sarai lo zimbello di tutta la clinica. E magari prenderanno anche dei provvedimenti molto pesanti perché io non mi farò problemi a dire al preside che ti stavi fumando una sigaretta.»
Quelle parole non fecero altro che alimentare ulteriormente il fuoco di Axel, dal momento che non appena il biondo concluse il proprio discorso -A parer suo brillante-, lo afferrò per il colletto della felpa e lo spinse contro il muro senza troppe cerimonie. «Io giuro davanti a Dio che ti ammazzo se non chiudi quella boccaccia.»
«Che paura.», commentò apaticamente il biondo, mantenendo il contatto fisso con le iridi smeraldine dell'uomo.
Ci fu un attimo in cui pensò seriamente che sarebbe morto ed ebbe davvero l'impulso di gridare, o comunque di spingerlo via. Vide qualcosa nei suoi occhi, uno spruzzo di follia che per un momento lo spaventò in qualche modo. E Roxas allora guardò la mano di Axel spostarsi di pochi centimetri più in alto per potergli stringere il collo. Piano, piano, senza fretta, giusto per godersi appieno il senso di morte che gli stava invadendo il corpo. E in quegli attimi Roxas si domandò se la sua malattia non fosse soltanto un disperato tentativo di suicidio. Si disse che forse morire era davvero ciò che desiderava. Forse non aveva mai fatto nulla per salvarsi veramente. Probabilmente perché non pensava di meritarselo. Non voleva alcun salvagente. E allora perché non morire in maniera più semplice? Overdose? Buttarsi da un palazzo? Tagliarsi le vene? Perché aveva scelto proprio la via più complicata e intricata?
Forse perché la gente non aveva mai visto di buon occhio il suicidio, poiché quest'ultimo non era mai abbastanza motivato, soprattutto per il mondo della religione. Roxas non sapeva esattamente se credeva o meno. Ricordava vagamente quando sua madre costringeva lui e suo fratello a partecipare alle messe della Domenica, ma non aveva mai prestato davvero attenzione alle parole del prete.
Forse credeva. Forse era per questo che non era ancora giunto all'ultima pagina della sua esistenza. Della sua esistenza, sì, perché la sua non era più una vita. Quando si parla di vita ci si riferisce ad un ammasso di colori; anche tristi, è vero, ma sono presenti pur sempre tutti. Esistenza invece gli ricordava il grigiore, l'assenza totale di vivacità.
Forse Roxas non si era mai suicidato perché temeva di trovare qualcosa di peggiore nell'Aldilà, dunque aveva preferito semplicemente lasciarsi andare negli abissi del proprio disturbo.
E' meglio sentire parlare di un ragazzo morto a causa di una malattia che ha apparentemente cercato di sconfiggere, piuttosto che leggere sul giornale il suicidio di un giovane qualunque. La gente prova compassione per la morte, non per il suicidio.
Ma nell'Aldilà probabilmente avrebbe ricevuto comunque una punizione; se Dio sapeva davvero tutto avrebbe certamente compreso che lui non aveva mai cercato di lottare veramente per la propria vita, giusto?
Roxas era consapevole di avere un'immaginazione particolarmente fervida, forse anche malata. Lo aveva sempre saputo, soprattutto perché Axel in realtà non spostò mai la propria mano intorno al suo collo, né decise di mettere semplicemente fine alla sua esistenza. Probabilmente aveva riflettuto sul suo famigerato discorso ''brillante'' e aveva lasciato perdere. Si limitò dunque ad allontanare bruscamente il braccio prima di voltarsi verso il suo letto, riprendendo lo stereo tanto amato prima di rimetterlo al proprio posto. «E invece dovresti avere paura.»
Roxas lo ignorò e si avvicinò al comodino posizionato accanto al suo materasso, aprendo il primo cassetto. «Non toccare più il mio libro.», mormorò abbastanza forte da farsi sentire dall'altro che non si fece scrupoli a ribattere immediatamente: «E tu non osare più toccare il mio stereo.»
Il biondo farfugliò un ''va bene, va bene'' e sistemò il proprio libro nel cassetto prima di richiuderlo, lasciandosi sfuggire nel frattempo un pesante sospiro. Dopodiché si voltò verso il suo compagno di stanza, notando che si era nuovamente sdraiato sul letto, osservando con aria persa il soffitto mentre nella mano sinistra reggeva ancora la sigaretta giunta quasi al termine.
E per un attimo Roxas si rivide in quella sigaretta. Osservò la punta che si accendeva non appena Axel se la portava alla bocca e si accorse che il fuoco che lo stava bruciando era l'anoressia.
E si accorse anche che la bocca che lo stava risucchiando era il suo passato.
Ma che cos'era rimasto di lui? Metà? Un quarto? O stava giungendo davvero al termine? Si sarebbe ridotto anche lui ad un cumulo di cenere?
Probabilmente.
''Il fumo uccide'', vi è scritto sui pacchetti, eppure alla gente poco importa. Roxas sapeva che la sua malattia, la sua ossessione, l'anoressia, lo stava uccidendo, ma non gli interessava. Aveva comprato lo stesso quel pacchetto, più di due anni fa. Lo aveva comprato e non aveva mangiato fino al giorno successivo.
''Skip dinner, wake up thinner.''*
«Che stai guardando?». Roxas sussultò, interrompendo il flusso dei propri pensieri, e si accorse di aver mantenuto lo sguardo fisso verso l'uomo dai folti capelli rossi, il quale aveva sollevato istintivamente il soppraciglio. «Apri la finestra, se domani passano quelle della pulizia sentiranno la puzza di fumo e poi scaricaranno la colpa anche a me.»

Axel si limitò a rispondere con una scrollata di spalle e tirò fuori un fazzoletto dai propri pantaloni; schiacciò la sigaretta con forza per spegnerla del tutto prima di infilarla all'interno di esso. Dopodiché arrotolò il fazzoletto, si alzò, si recò in bagno e Roxas intuì dal rumore dello sciaquone che lo aveva buttato nel gabinetto.
Per essere un nuovo arrivato ne conosceva di trucchetti, doveva ammetterlo.
E mentre Axel si lavava con estrema cura le mani per togliere la puzza di fumo dalla propria pelle, Roxas si accorse della presenza di una seconda sigaretta proprio accanto allo stereo. I suoi occhi in un attimo si illuminarono e si affrettò ad afferrarla.
«Di' al tuo amichetto di chiudere la porta della sua stanza a chiave, la prossima volta». Il biondo sobbalzò un poco e si voltò di scatto verso Axel, cercando comunque di infilare la sigaretta in fretta e furia nella tasca dei propri pantaloni. L'uomo notò il suo gesto ma non vi badò più di tanto, probabilmente perché poco interessato di fumare ancora; dunque si limitò a raggiungere nuovamente il proprio letto e si coricò.
«Non è normale entrare nelle stanze altrui.», fece notare Roxas, osservando i gesti dell'altro con la coda dell'occhio.
«L'ho sentito scommettere delle sigarette e allora mi è venuta voglia di fumare, tutto qui.», spiegò con estrema tranquillità il fulvo, facendo partire per l'ennesima volta quella dannatissima canzone che ormai aveva fatto venire la nausea a Roxas. «E adesso levati dalle balle, va' dal tuo amichetto.»
«Con immenso piacere.», commentò Roxas prima di avviarsi verso la porta, pronto ad abbandonare quella che, purtroppo, non era davvero più solo la sua stanza.







Inclinò la testa all'indietro e riaprì lentamente le palpebre, scrutando con aria persa il cielo nuvoloso sopra di sé. L'aria, nonostante non fosse particolarmente forte, era così gelida da penetrargli fin dentro le ossa. Il fatto era che il desiderio di uscire dalla sua stanza il più presto possibile lo aveva spinto a non portarsi dietro nemmeno una giacca.
Questo significava che si sarebbe accontentato della sua felpa enorme; enorme per davvero, poiché era talmente larga che il vento entrava all'interno delle maniche senza alcun problema.
«Ehi, che ci fai qui?». Roxas si voltò di scatto e incrociò le iridi scure di Hayner che in realtà lo stava guardando già da qualche minuto.
«Potrei chiederti la stessa cosa.»
«Classica battuta da film.»
«Stai dicendo che sono monotono?». A quella domanda il nuovo arrivato accennò una risata e scosse la testa, prendendo posto accanto al biondo. «Possiamo stare qui anche un po', tanto la signora Olsen è impegnata a provarci con il nuovo dottore e non sta controllando l'uscita.»
«Di nuovo? Non ci credo.», borbottò Roxas, ricordando che era già la terza volta che quella maledetta vipera tentava di tirare fuori il suo cosiddetto ''fascino femminile'' di fronte a quell'uomo.
«Meglio per noi, no?»
Roxas annuì. «Però non mi hai ancora detto perché sei qui.»
«Beh», iniziò l'amico, scrollandosi le spalle. «volevo uscire per fare finta di fumarmi quella cazzo di sigaretta. E pensare che mi ero anche procurato l'accendino.», il ragazzo infilò le mani nelle proprie tasche e tirò fuori un piccolo accendino verde, sbuffando sonoramente.
Roxas allora si voltò dall'altra parte e si morse nervosamente il labbro inferiore.
Quando era uscito dalla sua camera era rimasto a lungo indeciso sul da farsi; avvertire immediatamente Hayner di essere riuscito ad avere almeno una sigaretta o no? A quel punto gli avrebbe certamente chiesto chi fosse il famigerato ''ladro'' e al sentire nominare il suo compagno di stanza sarebbe andato su tutte le furie. Si sarebbe precipitato nella sua camera e gli avrebbe tirato un pugno o qualcosa del genere, così sarebbe finito nei guai, come al solito d'altronde.
Aveva anche pensato di mentirgli; avrebbe potuto dirgli che l'aveva trovata per caso, ma dove? Si sarebbe certamente accorto della menzogna.
Ma il punto non era quello.
Il problema era che Roxas desiderava ardentemente sentire l'odore del fumo insidiarsi nei propri polmoni in santa pace. In santa pace, sì, solo l'aria notturna e l'odore della nicotina. Sapeva perfettamente che il suo era un pensiero egoistico, poiché non era stato lui a procurarsi la sigaretta, però... Però era troppo tempo che non si riempiva lo stomaco con qualcosa di diverso da litri e litri di acqua.
Era un egoista di merda. E la verità era che, se non fosse stato per il fatto che non aveva un dannatissimo accendino, di quella sigarette sarebbe rimasta solo la cenere.
«Roxas, che hai?». Il biondo sussultò al tocco dell'altro sulla propria spalla e tornò a guardarlo prima di sospirare appena. «Ho trovato una delle sigarette che sei riuscito ad avere.»
Hayner allora allontanò di scatto il braccio e sgranò gli occhi. «Che? Stai scherzando?»
L'altro scosse la testa, tirando fuori la prova concreta dalla propria tasca. «Dai, fumiamocela prima che sparisca magicamente davanti ai nostri occhi.», Roxas allora allungò la mano libera verso il compagno, attendendo che gli venisse consegnato l'accendino, quando quest'ultimo si alzò bruscamente.
E nonostante fossero circondati dall'oscurità più totale, Roxas riuscì a vedere gli occhi di Hayner, i quali stavano traboccando di ira. Era adirato, certo, anche se vi erano state volte in cui lo aveva visto ben più infuriato.
«Allora sai chi è stato lo stronzo che ha frugato nella mia stanza, no?!», tuonò Hayner, serrando di scatto i pugni.
Roxas si morse una seconda volta il labbro, cercando in qualche modo di deviare l'argomento. «Non ti preoccupare, non ha visto il cibo che nascondi. Ha sentito della storia delle sigarette e quind-»
«'Fanculo! Non si doveva permettere di entrare nella mia stanza! Chi cazzo è stato, Roxas?!». Quest'ultimo si accorse che ormai Hayner stava gridando e che, molto probabilmente, se la signora Olsen in quel momento non fosse stata impegnata a fare la gatta morta con il dottor Luterling, sarebbe uscita a controllare chi diavolo si era recato nei cortili fuori orario.
E forse ancor prima di spalancare le porte avrebbe già intuito che non si trattava altro di loro due.
Roxas non sapeva che cosa dire, ma decise comunque di schiudere le labbra, sperando di essere investito da un lampo di genio all'ultimo secondo, quando l'altro presente lo precedette, poiché quei pochi attimi di silenzio gli bastarono a comprendere il quadro completo della situazione: «E' STATO QUEL FIGLIO DI PUTTANA, ROXAS?! E' STATO LUI, NON E' VERO?!»
Il giovane dalle iridi blu si sforzò in ogni maniera di mantenere un tono pacato e, dopo aver preso un profondo respiro, ricominciò a parlare: «Sì, Hayner, è stato Axel. Ma che importa? Non puoi andare lì e picchiarlo.»
«Infatti non voglio picchiarlo», si affrettò a far notare il compagno con la voce ancora carica di ira pura. «Lo voglio uccidere». E quella frase fece provare a Roxas la medesima sensazione che aveva sentito poco prima nella sua stanza, quando Axel lo stava stringendo per il colletto della sua felpa; i brividi di morte, quelli che congelano le ossa e terrorizzano la paura stessa.
Solo che prima se lo era immaginato. Axel non aveva mai stretto le mani su di lui. Invece Hayner l'aveva detto, forte e chiaro, aveva fatto uscire quelle parole e in qualche modo Roxas ne era rimasto turbato.
Perché, poi? Quante volte lui stesso aveva detto che avrebbe ammazzato qualcuno con le sue stesse mani?
Come se non si fosse sporcato le mani già abbastanza.
Dal momento che Hayner non ricevette alcuna risposta, fece per incamminarsi verso l'edificio, quando Roxas allungò il braccio e lo afferrò per il polso sinistro. «Per piacere, lascia perdere.»
«E' entrato nella mia stanza, Roxas. Non si doveva permettere. La deve pagare.», sputò con ira il giovane, guardando un punto perso di fronte a sé, immaginando forse una vendetta particolarmente crudele.
«Sei tu che non hai chiuso a chiave». A quell'osservazione Hayner si voltò di scatto e incrociò finalmente gli occhi dell'amico. «Ah, quindi adesso lo stai difendendo?»
«Non lo sto difendendo. Resta pur sempre Mr. Schizzato.», farfugliò il biondo, sperando di alleggerire l'atmosfera, senza comunque lasciare la presa sull'altro. «Ti prego, Hayner. Fallo per me.»
E quella semplice frase bastò a far cambiare idea ad Hayner, il quale si sedette nuovamente accanto all'amico, sorridendogli calorosamente come se nulla fosse successo. «Va bene, a patto che però il primo tiro lo concedi a me.»
Roxas sollevò il soppraciglio destro, perplesso di fronte all'improvviso cambiamento d'umore del compagno; certo, era felice di essere riuscito a convincerlo, ma, testardo com'era, si aspettava come minimo di impiegare una decina di minuti per incoraggiarlo a lasciare perdere.
Decise però di non pensarci e si concentrò esclusivamente sulla propria vittoria, se così si poteva definire; dunque ricambiò il sorriso e gli porse la sigaretta, osservando poi distrattamente la fiammella che fuoriuscì immediatamente dall'accendino dell'altro. «Ti posso rivelare una cosa?»
Roxas sollevò gli occhi verso il volto dell'amico e annuì anche se l'altro non lo stava guardando, dal momento che era intento a portarsi la sigaretta alla bocca. «Ti ascolto.»
«Questo posto non è così male, in fondo.», e, dopo aver detto ciò, Hayner spostò nuovamente lo sguardo verso il compagno che aveva spalancato le iridi, sconvolto.
«Mi stai guardando come se avessi bestemmiato nel bel mezzo di una messa.»
Roxas sentì la gola improvvisamente asciutta e scosse la testa, massaggiandosi le tempie con aria esasperata. «Quello che hai detto è ben peggiore.»
Hayner allora espirò il fumo dal naso e scoppiò a ridere prima di porgere la sigaretta al biondo, il quale si sforzò in ogni maniera di non apparire eccessivamente eccitato. Si sentiva davvero un bambino in mezzo ad un negozio di giocattoli.
«Ma dai, che esagerato. Insomma, sì, è un cesso di posto, il cibo fa vomitare, i medici ci trattano come dei ritardati, l'incontro settimanale con Astron è una rottura di coglioni, la terapia di gruppo ti fa cadere le palle, però alla fine ti ci abitui. Voglio dire, se tornassimo lì, uhm, a casa», e Hayner dovette interrompersi per qualche secondo, poiché quella parola gli parve particolarmente difficile da digerire. «sarebbe peggio. Non ci hai mai pensato? Che cosa succederebbe se ci dimmettessero? I nostri parenti continuerebbero a trattarci come dei ritardati. Con le pinze, sai. Magari avrebbero paura di aprire la porta della nostra stanza e di trovarci lì a distruggere tutto, così, a caso, come degli schizzati. E ad ogni fottutissimo pasto tutti gli occhi sarebbero puntati su di noi. Andiamo, non sarebbe uno schifo? Qui si sta bene, dopotutto. Inoltre se uscissi ci sarebbero tutti i miei vecchi compagni di scuola che mi riempirebbero di domande di merda. Poi, cazzo, tutti parlerebbero di me, del bulimico di merda che è uscito da quella clinica di malati dopo più di un anno. Per non parlare del mio vecchio; lo sai che mi ha sempre odiato, no? Scommetto che ha preferito raccontare a tutti che sono morto in un incidente, piuttosto che ammettere che suo figlio non riesce a mangiare un piatto di pasta senza andare a vomitare al gabinetto. Qua nessuno mi giudica. Certo, ci sono i medici e tutti 'sti stronzi, però alla fine non gliene frega un cazzo di noi. Chissà quanti bulimici avranno visto nella loro vita. Io sono uno dei tanti, solo che scasso anche le palle perché combino casini. Là fuori io non saprei come vivere, Roxas. Noi non saremmo più capaci di ambientarci. Chi darà un lavoro a dei tipi che hanno passato gli ultimi anni in una cazzo di clinica? Io qui sono okay, Roxas, questa è diventata quasi casa mia. Se uscissi là fuori non saprei che combinare. Mio padre mi porterebbe in qualche ristorante di lusso per festeggiare la mia guarigione, come se gliene importasse veramente qualcosa poi, e alla fine del pasto chiederei al cameriere dov'è il bagno per poter vomitare tutto per colpa dell'ansia, della tensione, insomma. Mi sono dimenticato come si vive tra la gente normale. Ehi, lo sai che non mi ricordo neanche quanto costa un cazzo di pacchetto di biscotti al supermercato? Assurdo.»
Il vento si alzò improvvisamente, provocando il fruscio di un mucchio di foglie non molto distante dai due ragazzi. E, al tempo stesso, quella folata di vento investì Roxas, lo penetrò con forza attraverso le larghe maniche della sua felpa e gli provocò un violento brivido.
E quello, in fondo, non era altro che il suo modo di comportarsi con la vita.
Tenersi tutto dentro.
L'aria gelida che gli schiaffeggiava la pelle, lui che non faceva nulla per fermarla. Anzi, magari il giorno dopo avrebbe indossato qualcosa di ancora più largo. Per nascondere, nascondere tutto. Nascondere il proprio problema, il suo vento interiore, che era mille volte più gelido di quell'aria notturna.
Roxas aveva ascoltato le prime frasi abbastanza distrattamente, poiché aveva concentrato gran parte della propria attenzione a godersi l'odore della nicotina.
Un bambino che scarta il regalo più grande sotto l'albero di Natale.
Dopodiché aveva allontanato la sigaretta dalle propria labbra ed era rimasto in completo silenzio, ingoiando ogni singola parola dell'altro come se fosse un macigno. O meglio, come se fosse cibo, cibo normale. Cibo che lo rendeva grasso, imperfetto, inacettabile.
Eppure quelle parole non lo avevano riempito, al contrario, lo avevano del tutto svuotato.
La sigaretta si spense tra le mani di Roxas, il quale però non vi fece molto caso.
Il discorso di Hayner gli provocò un altro brivido; un brivido della stessa intensità di quello che aveva provato a causa dell'aria gelida.
«Casa è dove ci sono persone che ci amano, che ci aiutano in qualche modo. I medici non ci amano. Come puoi considerare questa merda casa tua?»
Hayner accennò un sorriso sghembo, lasciando trasparire un leggero disagio provocato da chissà cosa. «Perché, là fuori invece c'è qualcuno che ci ama? Se siamo qui è perché loro non sapevano come aiutarci.»
Roxas allora abbassò leggermente lo sguardo, non sapendo come ribattere.
Il discorso di Hayner non sembrava così stupido, tutto sommato. Eppure non era d'accordo con lui. Come poteva mai considerare casa sua una dannatissima clinica di recupero?
Il punto però era che non aveva il coraggio di chiamare ''casa'' nemmeno il posto in cui aveva vissuto, fuori da quell'edificio pieno di matti.
Roxas sussultò, accorgendosi che l'altro nel frattempo aveva allungato il braccio verso di lui per potergli accendere nuovamente la sigaretta; a quel punto il biondo gli rivolse un flebile sorriso di ringraziamento e se la portò alla bocca. «Quindi tu vorresti morire qui dentro?»
«No, non ho detto questo.», Hayner si mise le mani dietro la testa e si sdraiò sull'erba, facendo intuire a Roxas che poteva terminare di fumare la sigaretta senza doverla più condividere. «Però non credo che ci sentiamo pronti ad uscire.»
«E quando lo saremo? E' passato un anno e mezzo e tu non ti ricordi quanto costa una scatola di biscotti. Tra un altro anno che succederà? Dimenticheremo l'esistenza degli autobus? O magari ci scorderemo perfino come sono fatte le strade?»
Hayner soffocò una mezza risata con il naso e si voltò verso l'amico. «Non c'è fretta.»
Il compagno sospirò e rimase in silenzio, concentrandosi per qualche secondo soltanto sull'odore del fumo che gli riempiva le narici.
Non parlarono più. Rimasero semplicemente lì, uno seduto a gambe incrociate, l'altro sdraiato, aspettando la fine di quella benedetta sigaretta. Ci fu un attimo in cui a Roxas parve di essere un ragazzo normale; un ragazzo che magari si trovava nel giardino di casa sua e che aveva invitato il proprio migliore amico a dormire da lui. Però nella sua stanza faceva troppo caldo, così avevano deciso di passare la notte fuori ad ammirare il cielo. Poco importava se il giorno dopo avrebbero avuto scuola; l'insegnante li avrebbe sgridati per il ritardo, pazienza.
Ma no.
Lui non era un ragazzo normale, né tanto meno si trovava nel giardino di casa sua. Era nel cortile di una dannatissima clinica di recupero, anche se si trovava insieme a quello che ormai da un anno considerava il suo migliore amico. Almeno qualcosa di vero c'era.
Poi sospirò per l'ennesima volta e guardò la sigaretta giungere al termine.
Forse Hayner era messo meglio di lui. Considerare una clinica di recupero come casa era un pensiero folle, certo, ma lui addirittura non sapeva quale fosse la propria casa. Non si sentiva a casa né in mensa, né nella sua stanza (Tanto meno ora che doveva condividerla), né nello studio del dottor Astron. Né nella sua vera casa, quella che non vedeva da un anno e mezzo. E anche se lo avessero dimesso non sarebbe riuscito a considerarla più come la propria casa.
Forse Roxas Hagen era destinato a non avere più un posto in cui entrare e dire: ''Casa, dolce casa.''









«Dove stai andando?», domandò, ma lei non lo udì, o forse fece finta di non udirlo.
Roxas si mosse nella sua piccola stanza e si voltò verso lo specchio, quando un'orrenda creatura riflessa lo costrinse a spalancare la bocca.
Un urlo silenzioso per gli altri, assordante per lui.
Corse via dalla stanza e incrociò nuovamente sua madre, la quale non lo degnò di uno sguardo. Allora si ritrovò in bagno e alzò gli occhi verso il piccolo specchio, scontrandosi nuovamente con il medesimo mostro di prima.
Non era lui, si disse, non poteva essere lui.
Aprì la bocca e questa volta lanciò un urlo che infranse una volta per tutte le barriere del suo incubo.
Roxas spalancò di scatto gli occhi e si accorse di avere il fiato inspiegabilmente corto; si guardò attorno, tra le tenebre, realizzando dopo qualche secondo di aver appena avuto un brutto sogno.
Si tolse le coperte e si strinse le spalle, cercando in ogni maniera di calmarsi e di non farsi prendere dal panico, quando una voce non molto distante da lui lo fece sobbalzare dallo spavento: «Ma che cazzo ti è preso?»
Roxas si voltò alla propria sinistra e vide di sfuggita un braccio muoversi nell'oscurità. «Mi hai svegliato, grazie tante.»
Il biondo deglutì rumorosamente e notò di avere la gola secca; schiuse le labbra nella speranza di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma la voce sembrava essersi bloccata tra le sue corde vocali, come se anche essa si fosse in qualche modo spaventata.
Non era così inusuale per lui avere gli incubi; talvolta sognava frammenti della propria giornata che si trasformavano in poco tempo in veri e propri film dell'orrore. Altre volte sognava ciò che era successo prima, tanto tempo fa, e quelli erano gli incubi che più lo turbavano. Non per nulla ogni volta che il suo sonno veniva disturbato da essi andava a bussare alla porta della stanza di Hayner e passava il resto della nottata in sua compagnia.
Se in quei momenti fosse stato in sé, Roxas non avrebbe mai fatto una cosa del genere, poiché era un gesto da femminucce, a parer suo. Il problema era che la prima volta che aveva avuto un incubo del genere era rimasto sconvolto e si era precipitato fuori dalla propria camera alla velocità della luce, tirando poi numerosi pugni sulla porta dell'amico che aveva ingoiato in un attimo tutti gli insulti che stava preparando mentalmente quando si era ritrovato la figura tremante di Roxas davanti a sé. «Amico, tutto... Tutto bene? Cos'è successo?»
E Roxas quella notte aveva scosso la testa, boccheggiando come un pesce fuori d'acqua.
«Ma che hai? Marluxia è entrato nella tua stanza e ha cercato di stuprarti?», aveva cercato di buttarla sul ridere il compagno, inclinando la testa su un lato.
Ma Roxas non era riuscito né a ridere, né tanto meno a sorridere; al contrario, si era messo le mani sul volto e aveva iniziato a respirare più velocemente, come in preda ad un attacco di panico. «Ho vissuto tutto un'altra volta... Ho visto di nuvo tutto quello... Quello che è successo, Hayner... E l-lui era sempre lì, io, lo so che è colpa mia, ma... Dio mio, voglio morire, Hayner, voglio-», e il ragazzo dalle iridi marroni lo aveva interrotto afferrandolo per il polso, accennando un sorriso rassicurante. «Era un incubo, Roxas, va bene? Era solo un cazzo di incubo. Se vuoi puoi stare da me 'sta notte. Non ho più sonno, possiamo parlare fino all'alba, vedrai che ti passerà tutto.»
E gli era passato tutto per davvero. Le chiacchiere di Hayner erano un'ottima medicina contro i suoi incubi peggiori, per questo Roxas non avrebbe mai smesso di ringraziarlo abbastanza.
Eppure quella volta era stato diverso. Il batticuore, il respiro affannato, i violenti brividi. Gli stessi sintomi dei suoi incubi peggiori, ma non aveva sognato quello che era successo. C'era sua madre, la sua stanza, degli specchi... E poi?
Roxas si massaggiò la testa e, improvvisamente, si ricordò: l'orrenda creatura riflessa. Era quella che lo aveva spaventato davvero.
«Sei morto?». Roxas si voltò nuovamente verso il letto del proprio compagno di stanza e sbuffò rumorosamente. «Devo andare in bagno.», farfugliò poi, alzandosi velocemente per potersi dare una rinfrescata al volto.
«E c'era bisogno di urlare come un matto?», chiese ironicamente Axel, infastidito di essere stato svegliato in maniera così brusca. E ciò che lo infastidì ancora di più fu il fatto che l'altro non gli degnò di una risposta. «Esigo almeno delle cazzo di scuse.»
«'Fanculo.», parlò finalmente il biondo prima di chiudere la porta del bagno dietro di sé.







Era Venerdì e tutti nella clinica Werner sapevano che cosa simboleggiava quel giorno.
Roxas non era riuscito a chiudere occhio per il resto della nottata; aveva passato due ore a rigirarsi ripetutamente nel letto, chiedendosi se fosse il caso di parlare al dottor Astron del suo incubo nella sua futura seduta, e quando le prime luci dell'alba avevano invaso la stanza i suoi pensieri si erano spostati sull'ennesimo Venerdì che avrebbe dovuto sopportare.
Ed era così buffo come il suo rapporto nei confronti dei giorni fosse cambiato da quando era entrato in quella dannatissima clinica.
Prima, quando le scorie tossiche del suo disturbo non lo avevano ancora raggiunto, amava il Venerdì e il Sabato, come ogni altro suo coetaneo. Il Venerdì indicava la fine della settimana scolastica; durante quel giorno doveva sforzarsi di mantenere la concentrazione un'ultima volta prima di sentire il dolce suono della campanella che avrebbe udito nuovamente soltanto il Lunedì successivo.
E usciva dalla classe correndo, prima. Con il sorriso sulle labbra, la cartella che non faceva nemmeno in tempo a mettersi sulle spalle dalla fretta di tornare a casa una volta per tutte. A casa, in cucina precisamente, dove lo attendeva la merenda costituita da una fumante tazza di cioccolata calda e tre biscotti.
Prima.
Roxas amava il Venerdì pomeriggio. Suo fratello fuori a giocare con i vicini, i suoi genitori a lavorare: diventava dunque lui il re della casa. E si sentiva un re per davvero, anzi, un principe precisamente. La parola ''re'' lo faceva sentire vecchio in qualche modo. Essere principe invece era fantastico; un sacco di privilegi, poche responsabilità, al contrario della figura del re. O almeno, questo era quello che pensava Roxas.

Una fumante tazza di cioccolata calda, tre biscotti e la televisione accesa. Cartoni animati, programmi stupidi, telefilm, poco importava. Solo lui, la cucina, la tazza bollente e le briciole sparse sul tavolo.
Roxas una volta amava il Venerdì pomeriggio. Non toccava i compiti, ovviamente, e rifiutava di uscire con i suoi amici perché voleva solo godersi quei momenti di pace.
Anche il Sabato non gli dispiaceva, certo. Faceva le solite passeggiate in compagnia dei suoi coetanei, beveva qualcosa al bar, rideva e terminava di studiare.
Però il Venerdì pomeriggio aveva qualcosa in più.
Prima.
Prima, sì, sempre prima. Prima Roxas riusciva ad orientarsi nei giorni della settimana; sia perché aveva sempre dietro il foglio delle sue attività pomeridiane, sia perché pensava che presto qualcuno sarebbe venuto a prenderlo.

Quella speranza però si infranse nello stesso momento in cui si accorse che quel dannatissimo foglio non gli serviva più. Non era più nella sua tasca, bensì custodito nel primo cassetto del suo comodino da chissà quanto tempo.
Non gli serviva più perché ormai aveva imparato le proprie attività a memoria. Era diventato tutto meccanico, automatico, e quindi non faceva più caso ai giorni della settimana. O almeno, così sarebbe stato se non fosse per la presenza della Domenica e del Venerdì.
La Domenica si sentiva; era malinconica, vuota, niente da fare, nessuna attività, grigiore che si espandeva in tutti i reparti.
Mentre il Venerdì... Era semplicemente il giorno dell'incontro con i parenti.
E questo lo sapevano bene, i pazienti della clinica Werner. Così come Roxas e Olette sapevano che era meglio non infastidire troppo Hayner durante quella giornata così temuta e odiata da tutti.
Roxas giocherellò con la propria omelette quando un piatto venne praticamente lanciato accanto a sé, facendolo sussultare appena; alzò le iridi blu e notò che Hayner aveva preso bruscamente posto accanto a lui, iniziando immediatamente a mangiare.
Quella mattina non si era neanche dovuto precipitare alla porta per aprire al suo migliore amico, poiché quest'ultimo non si era presentato di fronte alla sua stanza come al solito. Così, intuendo che, molto probabilmente, quel Venerdì il suo umore era peggio del solito, aveva deciso di recarsi in mensa da solo, trovando già Olette ad aspettarlo seduta ad un tavolo.
«Buongiorno Hayner.», si sforzò di salutare la giovane dagli capelli castani, sperando di alleggerire l'atmosfera.
Obiettivo che non riuscì a raggiungere, dal momento che il diretto interessato non rispose e si limitò ad ingoiare il terzo boccone della propria omelette.
La ragazza allora abbassò gli occhi verso il proprio piatto e si morse il labbro, a disagio.
Roxas sospirò appena e lanciò una fugace occhiata ad Olette, dispiaciuto per il suo tentativo andato in fumo; dopodiché si chiese se dovesse provare anche lui ad avere una conversazione con Hayner, ma decise di lasciare perdere e si limitò a tagliare un piccolo pezzo della propria colazione prima di portarselo faticosamente alla bocca.
Masticò fino a far perdere totalmente il sapore all'omelette e mandò il boccone giù in gola, tentando di non lasciare trasparire eccessivamente il proprio disagio.
Fece la medesima cosa con il morso successivo e poi appoggiò le posate accanto al piatto, assalito dai soliti sensi di colpa.
Nulla di grave. Niente di pericoloso. Aveva conosciuto un'amica più due anni fa. Un'amica che lo aiutava a sentirsi soddisfatto di se stesso, anche se per poco tempo. Un'amica che gli permetteva di avere il controllo su qualcosa. Un'amica che lo faceva sentire meno solo. Un'amica che lo aveva salvato e annegato. Solo una cosa in cambio: non mangiare.
Non mangiare, Roxas.
La stessa amica che lo aveva trascinato in quel postaccio. Ma non era colpa sua, no, assolutamente no. Erano gli altri; erano loro i bastardi che non lo capivano, che non comprendevano che voleva solo sentirsi leggero come una farfalla.

Piccole note, così aveva iniziato. Piccoli bigliettini dalla sua amica per lui.
''Non mangiare, Roxas.''
Un biglietto dentro il suo diario di scuola, uno attaccato sull'astuccio. ''Non mangiare, Roxas, controllati.''
Niente merenda all'intervallo. Niente pranzo.
''No, non ho fame, mamma. Ho già mangiato fuori.''
E quei bigliettini avevano funzionato davvero. Ogni volta che aveva l'impulso di mangiare gli bastava leggerli per controllarsi.

Biglietti che avevano addobbato la sua vita come palline di Natale. Lui era un abete che si sentiva sempre fuori posto. Un abete tra uova di Pasqua, tra maschere di Halloween e Carnevale.
Nessuna casa in cui essere ospitato.
Roxas si guardò attorno con estrema attenzione, come faceva tutti i Venerdì mattina; i suoi occhi cercavano di leggere ogni volto, ogni paziente, alla ricerca di quella tristezza, quell'angoscia del dopo, di ciò che avrebbero dovuto affrontare durante il pomeriggio. E spesso non era difficile da trovare; c'erano molte persone come Hayner: testa bassa, volto scuro, labbra serrate. Altri ridevano e scherzavano, ma Roxas riusciva quasi a sentire l'odore della loro ansia.
Fece per tornare alla propria omelette, quando una capigliatura rosso fuoco attirò la sua attenzione; Axel entrò nella mensa con la solita espressione indecifrabile dipinta sul volto. Indossava dei jeans aderenti di colore scuro e una maglia apparentemente leggera a righe rosse e bianche. Afferrò il proprio vassoio di malavoglia e si fece mettere sul piatto da Mary l'omelette; dopodiché si riempì il bicchiere con del succo di arancia e raggiunse il gruppetto composto dai pazienti del terzo piano, intromettendosi immediatamente nella loro conversazione.
Roxas si chiese se fosse a conoscenza dell'incontro con i parenti e se la cosa lo stesse turbando. Aveva la solita faccia da stronzo egocentrico di ogni giorno, però, chissà, pensò tra sé e sé il biondo, forse anche lui era in qualche modo agitato. Anche perché tutti sapevano bene che i primi incontri con i parenti o amici erano sempre i peggiori. C'erano quei silenzi imbarazzanti, le domande che faticavano a venire fuori. Che cosa bisognava dire? Ogni parola sarebbe parsa sbagliata, errata, pesante.
''Ehi, figliolo, come va la cura? Ti stanno rincoglionendo abbastanza di medicinali?''
''Com'è stare in mezzo ai pazzi? Ti senti a tuo agio?''
E se qualsiasi domanda sembrava in qualche modo inappropriata, anche i racconti che riguardavano la vita di tutti giorni avrebbero potuto turbare i pazienti: ''Qua è tutto come al solito... Tua sorella oggi ha preso un buon voto in storia e domani tua cugina si sposerà. Al lavoro tutto bene, certo, mi pagano una miseria, ma cerco di non lamentarmi... Beh, poi... Sì, insomma, manchi molto a tua madre, a me, a tutti.''
Sì, perché anche discorsi di questo genere avrebbero fatto non male, ma malissimo. Malissimo perché quelle parole avrebbero provocato una folata di nostalgia, di sensi di colpa che avrebbero fatto sentire i pazienti più sbagliati di quel che già pensavano di essere.

E poi c'erano le frasi peggiori, i coltelli più affilati di tutti, le dita che premevano i tasti più dolorosi: ''Quando pensi di tornare?''
''Tornerai presto?''
''A casa ti stiamo aspettando; mi raccomando, non metterci molto a tornare!''
Tornare.

Chi mai aveva parlato di ''tornare''? Come potevano essere sicuri che ci avrebbero impiegato un anno e non un mese?
Nessuna certezza. Niente di niente. Solo occhi a disagio, silenzi pesanti che venivano riempiti da parole asfissianti. Casa. Tornare. Famiglia. Nostalgia. Guarigione.
«Oggi verrà». Roxas si voltò immediatamente verso il proprio migliore amico e inclinò la testa su un lato. «Me lo sento, oggi verrà.»
Olette rimase in silenzio, non sapendo in che maniera commentare: ormai aveva ripetuto quella frase chissà quante volte e puntualmente ogni Venerdì veniva deluso. Non le andava proprio di alimentare ulteriormente le illusioni di Hayner.
«Non ci spererei troppo.», farfugliò al contrario Roxas con schiettezza, continuando a tagliare l'omelette senza però digerire più alcun boccone.
«Cosa?», fece Hayner, nonostante avesse sentito perfettamente; il biondo però non disse nulla e allora il ragazzo dalle iridi marroni strinse con forza la forchetta tra le mani, riprendendo la parola. «Almeno lui viene a trovarmi qualche volta. Resterà un bastardo di merda, però almeno viene a trovarmi. Qualche volta.»
A quelle parole Olette alzò di scatto gli occhi e rivolse lo sguardo verso Hayner, sconvolta dalle sue parole così taglienti; fece per rimproverarlo, ma decise di mordersi la lingua per evitare di innervosire ulteriormente il ragazzo.
Roxas, dal canto suo, non rispose in alcun modo; si limitò a tagliare ulteriormente la propria omelette e a nascondere alcune fette all'interno di un fazzoletto, incartandolo poi lentamente. Non lasciò trasparire quanto le parole di Hayner lo avessero in realtà ferito.
Quest'ultimo nel frattempo sembrò riscuotersi in qualche modo; si massaggiò le tempie e sospirò rumorosamente, allontanando il piatto vuoto verso il centro del tavolo. «Scusa. Ho detto una cazzata, okay?»
«Fa niente.», borbottò il biondo utilizzando un tono piatto che fece intuire agli altri due che in verità stava mentendo.
«Mi dispiace.», ripeté Hayner e Roxas si limitò a fare un cenno con il capo.
Era davvero impossibile per i pazienti della clinica Werner non odiare il Venerdì.







Roxas sapeva che Hayner in parte aveva ragione e in parte no.
Suo padre era uno stronzo, uno dei soliti ricconi che abitavano in provincia, e aveva trascinato il proprio figlio in una clinica dall'altra parte del paese per evitare che i suoi conoscenti lo scoprissero.
Hayner aveva carenza di affetto e a Roxas non era servita una laurea per capirlo. La madre troppo assorbita da sbattere in faccia a tutte le sue vecchie compagne che l'avevano presa in giro da ragazza di aver sposato un uomo ricchissimo, il padre impegnato tra viaggi di affari a destra e manca, Hayner si sentiva praticamente la pecora nera della famiglia.
«Mi hanno partorito solo per non dover dividere l'eredità tra quelle vipere dei miei parenti, ne sono sicuro.», gli aveva detto una volta l'amico dopo aver consumato uno dei suoi spuntini notturni e, chissà perché, quelle parole lo avevano colpito particolarmente.
Hayner Wiedenkeller era diventato ben presto una di quelle persone con cui la tattica della famigerata ''psicologia inversa'' funzionava per davvero.
''Non farmi fare brutta figura davanti agli altri impreditori!''
E lui passava tutta la cena a far cadere accidentalmente bicchieri e utilizzare le posate sbagliate.
''Devi essere il primo della classe, sono stato chiaro?''
Era stato sospeso e aveva marinato la scuola almeno una decina di volte.
Roxas non era esattamente sicuro se Hayner avesse fatto tutto ciò per attirare l'attenzione del padre, o meglio, del suo ''vecchio'', come lo chiamava lui, o se semplicemente voleva infangare completamente la sua reputazione. O se lo avesse fatto per entrambi i motivi, chissà.
E alla fine era riuscito ad attirare la sua attenzione, almeno in parte.
Hayner diceva di non ricordare esattamente come tutto era iniziato. Probabilmente per ansia; suo padre aveva scoperto le sue scappatelle da scuola e gli aveva detto che lo avrebbe controllato molto più severamente, imponendogli anche regole particolarmente rigide.
Questo Hayner non aveva potuto sopportarlo.
Aveva atteso di restare solo in casa, si era precipitato in cucina e aveva aperto la dispensa. Cibo. Cibo ovunque. Qualcosa con cui riempirsi. L'affetto non c'era, ma il cibo sì. Quello non sarebbe mai mancato. Aveva iniziato con una merendina, quello lo ricordava bene. Se l'era praticamente divorata in due bocconi per poi passare ad altro. Pane e formaggio. Senza sentire il sapore, tutto in una volta, veloce veloce, l'allenatore della sua mente che gli gridava di sbrigarsi, un cronometro invisibile. Un piatto di pasta avanzato la sera prima. Freddo, poco importava, non c'era tempo per riscadarlo. Non c'era tempo.
L'affetto mancava, ma il cibo no.
Dopo era corso in bagno, afflitto da forti fitte allo stomaco. Lo aveva fatto istintivamente, senza pensarci. Due dita in gola e via. Via il cibo, di nuovo vuoto, carenza di affetto.
E quasi ogni giorno della sua vita era diventato un continuo via e vai tra la cucina e il bagno. Il frigo per riempirsi, il gabinetto per svuotarsi.
In compagnia non lo aveva mai fatto. Stare con i suoi amici lo aiutava, anche se solo un po'. A scuola non poteva permetterselo perché qualcuno si sarebbe certamente accorto di qualcosa. Poteva manifestarsi solo quando il principe della casa era lui. Solo allora poteva lasciarsi andare.
E si sa che la bulimia è più difficile da individuare rispetto all'anoressia. Si può essere bulimici sottopeso, sovrappeso o con un peso normale. Hayner, purtroppo, o forse fortunatamente, chissà, era sempre rientrato nell'ultima categoria.
Era riuscito a nascondere il proprio disturbo per più di sei mesi; dopodiché, durante quella che gli era parsa una giornata scolastica qualsiasi, aveva sentito delle atroci fitte allo stomaco nell'ora di matematica. Detestava la matematica, certo, ma non così tanto da avere conseguenze del genere. Se fosse stato donna, aveva rivelato Hayner all'amico mentre lo raccontava, avrebbe seriamente temuto di essere nel bel mezzo di un travaglio.
Suo padre aveva abbandonato la sua giornata lavorativa ed era andato a prenderlo, ma, siccome quei tremendi dolori non si erano fermati neanche dopo un paio di ore, aveva deciso di portarlo immediatamente a fargli una visita.
Hayner non aveva la più pallida idea che la bulimia potesse avere delle conseguenze. O meglio; Hayner non aveva la più pallida idea di essere bulimico.
Viveva le sue giornate come sentiva e basta. Marinava la scuola quando gli andava, litigava con suo padre, usciva con i suoi amici e, una volta a casa, aveva lo strano schizzo di mangiare e vomitare. Sapeva che non era esattamente normale, ma si consolava dicendo che ogni persona aveva le proprie fisse, per quanto strane potessero essere. Aveva addirittura scommesso tra sé e sé che almeno uno dei suoi amici avesse il suo stesso comportamento. Ne era più che sicuro.
Ma ovviamente la sua certezza era del tutto errata.
Il medico gli aveva spiegato che il suo esofago presentava delle ulcerazioni.
«Com'è la tua alimentazione?». Gli aveva domandato l'uomo in camicia bianca, annotando i risultati sulla propria cartella.
«Normale.», aveva risposto Hayner, sforzandosi in ogni maniera di mostrarsi tranquillo.
«Mangia molte schifezze», si era improvvisamente intromesso il padre. «Ho notato che nel frigo manca sempre qualcosa.»
A quella rivelazione Hayner era sussultato appena e si era morso un poco il labbro. «E' normale alla mia età mangiare porcate. Lo fanno tutti i miei amici.»
«E per questo lo devi fare anche tu?»
«Il mangiare o meno cibi particolarmente calorici non c'entra», li aveva interrotti il medico, infilandosi la penna nella tasca sinistra della propria camicia. «E' strano che si sia sviluppato alla sua età. In ogni caso, queste ulcerazioni sembrano essere state provocate dagli acidi gastrici dello stomaco stesso.»
E Hayner si era sentito in un vicolo cieco.
Suo padre non sarebbe stato in grado di controllarlo in maniera adeguata e questo lo sapeva fin troppo bene. Lo stesso valeva per sua madre. Presero in considerazione l'idea di fare delle semplici sedute con uno psicologo, ma Hayner sembrava essersi già spinto troppo in là.
Dopo una settimana di parole straripanti di disagio e pasti consumati in silenzio, suo padre aveva deciso di mandarlo in una clinica nella speranza di curarlo del tutto.
«E' per il tuo bene.», aveva concluso il discorso l'uomo dopo aver spiegato i suoi piani al figlio che, successivamente, reagì in maniera particolarmente violenta.
Il suo vecchio sapeva che l'avrebbe presa male, ma non immaginava così tanto.
Hayner aveva passato il resto della serata a strillare e buttare a terra tutto ciò che custodiva nella propria stanza. Non si era dato pace nemmeno di notte, durante la quale non aveva fatto altro che andare in cucina e in bagno. E così aveva continuato anche durante i giorni successivi, arrivando addirittura a minacciare suo padre con frasi tipo: «Giuro sulla mia cazzo di vita che se mi mandi in una clinica lo andrò a dire a tutti. Ai miei compagni, ai prof e a tutti i tuoi amici ricconi. Dirò loro che sono pazzo e che mi manderai in un posto pieno di malati.»
Suo padre, nonostante in un primo momento avesse avuto quasi l'impulso di cambiare idea per salvare la propria reputazione, non aveva fatto una piega e, anzi, rigirò le parole a proprio vantaggio: «Fai pure, Hayner. La mia dignità ne risentirà, certo, ma tu? Davvero vuoi far sapere a tutti che soffri di bulimia?»
E quelle parole bastarono a riempire di ira il ragazzo che, dopo aver sgranato un poco gli occhi, era salito in camera propria sbattendo la porta con una violenza inaudita.
Addirittura il suo vecchio aveva preso in considerazione l'ipotesi di fargli prendere dei tranquillanti, ma ben presto scacciò l'idea, poiché, la mattina successiva, consumando la sua solita tazza di caffè, Hayner gli si era avvicinato con un'espressione indecifrabile dipinta sul volto.«Allora? Quando me ne potrò andare da questa casa di merda? Preferisco essere chiuso tra i pazzi che stare in mezzo a stronzi come voi.»
Roxas non era esattamente sicuro del fatto che il padre di Hayner lo detestasse per davvero. Difficilmente i genitori arrivavano ad odiare i propri figli. Semplicemente non era stato un buon padre. Forse però se avesse avuto una madre presente Hayner avrebbe ricevuto l'affetto tanto desiderato e si sarebbe salvato.
Ma così non era stato e si era perso in una ricerca infinita; la ricerca verso qualcosa con cui riempirsi per davvero.
E nonostante il suo vecchio non gli avesse regalato dei momenti particolarmente piacevoli, nonostante considerasse la propria reputazione più importante di lui, nonostante fosse stata la causa principale del suo disturbo, Roxas sapeva che nemmeno Hayner odiava suo padre.
E proprio per questo nel suo intimo sperava sempre di vedere la sua macchina blu perfettamente lucida varcare la soglia della clinica e parcheggiare nel cortile insieme a tutte le altre automobili. Sperava sempre di vederlo scendere in giacca e cravatta con la sua valigetta nera. Sperava di incrociare i suoi occhi marroni e di contare quanti capelli bianchi si fossero aggiunti. E poteva essere pure irritato, poco gli sarebbe importato. Poteva anche guardare il suo orologio d'argento una ventina di volte perché non voleva passare troppo tempo in quel postaccio, gli sarebbe andato bene lo stesso.
Hayner avrebbe voluto solo vederlo un po' più spesso. Non ogni Venerdì, certo. Una volta ogni due o tre settimane gli sarebbero bastato. In fondo suo padre era il suo unico mezzo che lo collegava alla vita reale, quella che aveva interrotto a causa della sua malattia.
Niente abbracci, una semplice stretta di mano sarebbe stata perfetta. Voleva solo parlargli per qualche minuto, essere riconosciuto ancora come suo figlio.
Riempire quel vuoto.
Era in quella clinica da circa diciotto mesi e aveva visto il suo vecchio al massimo una decina di volte.
Per Olette la situazione era del tutto differente; sua madre era morta a causa di un tumore al seno e lei aveva iniziato a fare uso eccessivo di psicofarmaci e tranquillanti. Roxas non conosceva nel dettaglio la sua storia, poiché a lei non piaceva parlarle. L'unica cosa che aveva compreso era che il resto della sua famiglia la supportava in ogni maniera possibile. Ogni settimana la veniva a trovare qualcuno; il padre, gli zii, i cugini, addirittura un paio di volte erano passati i nonni a salutarla, nonostante avessero pensato che la nipote fosse appena uscita da scuola.
Una volta le avevano spedito un regalo e Olette quel giorno non era riuscita a trattenere il sorriso fino alla mattina successiva.
Aveva certamente subito un duro colpo, ma Roxas pensava che se la sarebbe cavata. A parte gli psicologi, i medici e qualche pillola di tanto in tanto, erano i suoi familiari che le davano tutta la forza necessaria e quella sarebbe stata certamente la sua salvezza.
Sarebbe stata una paziente di passaggio. Se ne sarebbe andata, presto o tardi. Sarebbe tornata a scuola e avrebbe recuperato il periodo perso. Avrebbe passato qualche sera a piangere sulle foto di sua madre, ma la mattina dopo avrebbe affrontato la giornata sorridendo.
Roxas sapeva che Olette era diversa da lui e Hayner. Lei aveva qualcosa ad attenderla, là fuori.
Loro no.
Durante il primo mese Roxas aveva ricevuto una visita ogni Venerdì. Precisamente da suo cugino. Sì, suo cugino, la stessa persona che lo aveva trascinato in quella gabbia di matti.
Non lo aveva sopportato. Era stato troppo per lui rivederlo. Non appena Roxas si era ritrovato faccia a faccia con Vanitas, con i suoi capelli corvini e con i suoi occhi così maledettamente gialli, non era riuscito a trattenersi. Aveva alzato il braccio e gli aveva tirato un pugno.
O meglio, lo avrebbe fatto se non fosse stato fermato in tempo dalla sua mano che gli aveva afferrato prontamente il polso sinistro.
E allora aveva iniziato a vomitare fuori tutte le cattiveria possibili, tutto ciò che sentiva, tutto l'odio che provava per lui, per lui che lo aveva chiuso in quel posto da incubo. Da incubo perché le prime settimane erano state veramente devastanti per Roxas.
Aveva strillato ogni insulto possibile con tutto il fiato che aveva in gola; poco gli era importato se gli altri genitori lo stavano fissando e se i pazienti presenti sghignazzavano. Non gli era importato niente di niente.
E quando era riuscito a liberarsi dalla sua presa si era scagliato nuovamente contro di lui, urlando nuovamente un ''TI ODIO!''
Avrebbe voluto tirargli un pugno, uno soltanto, per sfogarsi, per sentirsi meglio, una volta tanto. Per liberarsi di quell'aria gelida che teneva sempre nascosta. E forse Vanitas aveva lasciato la presa sul suo polso per permetterglielo, per aiutarlo a sfogarsi.
Ma le infermiere non glielo consentirono, poiché, dopo aver assistito alla scena dalle finestre dell'edificio, si erano precipitate in cortile per afferrarlo per i fianchi e trascinarlo via dopo essersi umilmente scusate con Vanitas, il quale era rimasto praticamente impassibile.
Successivamente gli avevano iniettato del sedativo al braccio e Roxas si era svegliato nel proprio letto due ore più tardi.
Dopo quello spiacevole episodio aveva capito che gridare non sarebbe servito a niente. Anche perché non c'era nulla di più umiliante che essere sedati, secondo Roxas. Gli dava davvero l'idea di essere pazzo. Di solito le infermiere sedavano gli schizofrenici o comunque coloro che presentavano problemi comportamentali. Lui non aveva nulla di tutto ciò, semplicemente si era lasciato travolgere dall'ira e quell'iniezione gli era bastata per darsi una calmata.
Durante le visite successive non aveva più urlato, bensì era rimasto in silenzio e quando Vanitas aveva tentato di aprire una conversazione, lui lo aveva ignorato o, nella gran parte dei casi, gli aveva lanciato un'occhiata truce prima di dirgli cose come ''Ti odio'', ''Sei uno stronzo'', ''Mi disgusti.''
E durante l'ultimo Venerdì del primo mese fu Vanitas a non poterne più.
«Forse la prossima settimana tua madre verrà a trovarti.», aveva iniziato il ventenne prendendo posto su uno dei tavolini di legno che venivano posizionati proprio per l'incontro. «Ha aspettato un po' perché non voleva che te la prendessi anche con lei.»
Roxas non aveva risposto e aveva mantenuto lo sguardo concentrato verso l'ambiente circostante con la testa appoggiata sulla mano destra, come se stesse ascoltando una monotona lezione di matematica.
«E magari la settimana dopo ancora verrà tuo padre. Se fosse per lui verrebbe già il prossimo Venerdì, ma ha degli impegni di lavoro o una cosa del genere.»
Nessuna risposta.
«Hai capito o no?»
«Non mi interessa.»
Vanitas allora aveva stretto il pugno sinistro sul tavolo, irritato dall'atteggiamento così strafottente del ragazzo. «Fai pure lo stronzo con me, ma quando verranno i tuoi cerca di essere più gentile. Non sei l'unica vittima qui, Roxas.»
Quelle parole avevano colpito particolarmente il biondo, poiché aveva degnato finalmente di uno sguardo il cugino. Uno sguardo carico di rabbia. «Ah, sì? E allora perché sono io quello chiuso qui dentro? Perché se state soffrendo tutti non venite anche voi in 'sta merda?!»
«Lo sai perché sei qui.»
«No, non lo so.»
«Davvero?», aveva domandato improvvisamente il corvino, sbattendo lentamente le palpebre. «Perché se è così credo che resterai qui dentro ancora per molto tempo.»
Un pugno in faccia. In faccia, allo stomaco, ovunque. Roxas aveva pensato che se le parole potessero davvero distruggere fisicamente le persone, molto probabilmente quel Venerdì pomeriggio le infermiere avrebbero passato almeno due ore a raccogliere i resti delle sue ossa.
Aveva avuto l'impulso di alzarsi e di gridare ancora, proprio come aveva fatto le prime volte, ma poi si era ricordato del sedativo e aveva lasciato perdere. Aveva deciso di essere soltanto schietto, apatico e fermo.
Poche parole.
«Fai sapere a mamma e papà che non devono disturbarsi a venire. E lo stesso vale per te. Non ho bisogno di queste visite del cazzo. Mi fanno andare fuori di testa.»
Poche parole che però avevano fatto la differenza.
Gli occhi di Vanitas erano esplosi di ira per un attimo e il suo volto si era trasformato in una maschera adirata; il tutto però era durato pochi attimi, poiché subito dopo aveva sostituito la rabbia con l'indifferenza totale.
Aveva afferrato il proprio cellulare e se l'era infilato in tasca; dopodiché si era alzato e aveva guardato il giovane per qualche secondo. «Va bene Roxas, ho capito. Se non ci vuoi in mezzo ai coglioni, vedremo di sparire. Buona guarigione». Successivamente si era voltato e aveva abbandonato il cortile in sella alla propria moto nera.
Anzi.
Dopo aver parlato, era rimasto fermo per una manciata di secondi. Immobile. Ad aspettare. Ad aspettare una parola da Roxas, una qualsiasi. Non voleva delle scuse. Voleva solo che gli rispondesse. Una semplice risposta, anche se dura, gli sarebbe bastata a cambiare idea.
Ma no.
Roxas non lo aveva neanche guardato. La testa appoggiata sulla mano, gli occhi rivolti verso un albero non molto distante. E Vanitas allora aveva deciso di andarsene.
Roxas aveva voltato lo sguardo verso i cancelli soltanto quando la moto aveva girato l'angolo, svanendo via, lontano. Nella vita reale, nel mondo dei normali.
In un primo momento aveva pensato che le sue fossero state solo parole al vento, ma così non era.
Il Venerdì successivo non aveva trovato nessuno ad aspettarlo e questo lo rincuorò in qualche odo. Era successo la medesima cosa il Venerdì dopo, e quello dopo ancora.
Poi però il sollievo aveva lasciato posto alla morsa dell'angoscia, alla consapevolezza di non avere più nessuno.
«Almeno lui viene a trovarmi qualche volta.»
Sapeva che Hayner in parte aveva ragione e in parte no.
Suo padre era venuto a trovarlo una decina di volte al massimo, ma almeno sarebbe tornato. Magari quel Venerdì stesso, magari tra un mese, però prima o poi sarebbe venuto.
Roxas invece non aveva più nemmeno quella certezza. E aveva avuto ragione, poco prima, in mensa. Soltanto in parte perché in realtà i suoi familiari non avevano smesso di visitarlo per volontà propria.
Avevano solo eseguito il suo desiderio, giusto?
Ma era davvero quello che voleva? No, non più ormai.
Però gli sarebbe bastata una telefonata. Ad ognuno veniva concessa una telefonata alla settimana, se il paziente lo desiderava. La sala al piano terra, vicino alla mensa. Quattro telefoni rossi che spiccavano in mezzo al grigiore. Gli sarebbe bastato premere quei tasti, leggendo però il foglio che gli avrebbero consegnato le infermiere; il foglio su cui avrebbero trascritto il suo numero di casa preso dalla sua cartella clinica. Gli sarebbe certamente servito, poiché non se lo ricordava più a memoria.
Ma Roxas non lo aveva mai fatto e sapeva che non avrebbe raggiunto quella sala per orgoglio. Mai avrebbe avuto la forza di udire quel ''Pronto?'' mormorato da suo padre o da sua madre. Mai avrebbe avuto il coraggio di scoppiare a piangere e di dire: «Vi prego, venite qui, venitemi a prendere, anche se per poco.»
Mai.
Roxas aveva letto un sacco di frasi riguardo al fatto che era quasi impossibile perdere la speranza; le persone continuano ad aspettare il ritorno del loro grande amore anche dopo un doloroso addio. Continuano ad attendere un treno che è già partito senza di loro. L'avrebbero fatto per forza, perché gli esseri umani sono così, bastardi masochisti che non sanno mettere la parola fine alle proprie speranze, nemmeno quando esse si trasformano in illusioni.
Ma Roxas sapeva che erano tutte stronzate, quelle. Sapeva che la speranza si poteva perdere. Lo sapeva perché lui l'aveva persa da tempo. Aveva smesso di recarsi in cortile durante il Venerdì pomeriggio, e se lo faceva era soltanto per tenere compagnia ad Hayner o per fare una passeggiata.
Aveva perso la speranza in Vanitas e nei suoi genitori perché non sarebbero più tornati.
Aveva perso la speranza in se stesso perché sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di sollevare quella cornetta rossa.





Skip dinner, wake up thinner*: ''Salta la cena, ti sveglierai più magro.''

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*Note di Ev' Rox*
Mi auguro vivamente che questo capitolo possa essere abbastanza per rimediare al mio solito ritardo di merda.
Io, personalmente, ne sono assai soddisfatta. Anche perché mentre lo scrivevo mi sono venute una miriade di idee; ormai credo di avere il quadro completo della storia, soprattutto per quanto riguarda il finale. L'unico pezzo mancante del puzzle è il passato di Axel che, uhm, mi lascia un po' perplessa, ma credo che per quello si vedrà più avanti.

Come ho scritto nel mio profilo, purtroppo ho speso il mese di Luglio a cazzeggiare leggere e recensire storie in inglese su fanfiction.net, poiché il fandom in questione è praticamente inesistente in Italia, blbl.
E' stato un ottimo allenamento per il mio inglese, quindi non è stato tempo perso, però, ahimè, non mi ha permesso di scrivere praticamente nulla. Cioè, mi veniva lo schizzo di scrivere qualcosa, come sempre, ma era un continuo tira e molla. Poi ho deciso di continuare qualche mia long, ma, sinceramente, non ne avevo granché voglia, finché una settimana fa mi è venuto un attacco di angoscia particolarmente acuto e mi sono detta che potevo sfruttare l'occasione (?) per continuare ''Insidie Interiori''.
Che poi, cazzo, mi piace veramente tanto scrivere questa storia, dico davvero. Non solo perché è molto facile per me vomitare fuori sensazioni del genere, ma... Buh, sono soddisfatta di come svilupperò la storia. Mi viene una voglia matta di fare degli Spoiler mostruosi, ma devo trattenermi, porco Pinguino del Perù.
Vi dico solo che... soijwefnzichjvuhie No, sto zitta ebbasta.

Forse l'unica cosa che non mi convince molto è il primo capitolo, o comunque i primi due a grandi linee. Più che altro per il problema che con il tempo mi pare sempre di cambiare modo di scrivere, di evolverlo, perché comunque sono in fase di crescita, e rileggere i miei scritti già leggermente più vecchi mi infastidisce. Credo che qualcosina lo modificherò, forse toglierò l'ambientazione in Norvegia. Cioè, la storia è ambientata in qualche luogo freddo, comunque nel Nord, si avverte anche dai cognomi, ma è meglio non specificare, principalmente perché il clima del Nord d'Europa è un casino e non sono abbastanza informata. Anyway, quando farò queste piccole modifiche avvertirò di sicuro.
Ho anche cambiato l'introduzione della storia, dal momento che era troppo vaga. Volevo che l'ambientazione della clinica fosse una sorta di ''effetto sorpresa'', ma poi ho compreso che è una cosa stupida. E' vero che nella prima parte del primo capitolo non si capisce ed è simpatico (?) lo shock che si ha quando viene citata la clinica Werner, ma è un dettaglio fondamentale della storia che deve assolutamente rientrare nell'introduzione.
Okay, dopo questo ammasso di pensieri che desideravo condividere con voi, possiamo passare all'analisi.





Come ho già detto, questo capitolo l'ho vomitato di getto, in pochi giorni, perché è una storia che mi viene facile da scrivere. E devo dire che non ho faticato molto nemmeno a correggerlo -Forse perché in realtà mi sono sfuggiti un miliardo di errori-, né ho sclerato più di tanto con l'HTML.
Well, well, well... La volta scorsa avevamo lasciato in sospeso un Roxas infuriato con un certo uomo dai capelli rossi che ha gentilmente fottuto le sue sigarette. Il biondo decide quindi di ''vendicarsi'', lanciandogli a terra quel maledetto stereo, ottenendo così la sua rabbia, la quale, però, fortunatamente, non gli fa fare nulla di estremo. Anche perché se no Roxas sarebbe morto e la storia si sarebbe conclusa qui.
I due, per quanto continuino ad essere come cane e gatto, sembrano comunque iniziare a tirare fuori un minimo di... Civiltà umanità? Cioè, riescono a scambiarsi due parole che siano diverse da: ''Ti spacco la faccia, stronzo.''
Anche se ciò avviene soltanto alla fine della prima parte del capitolo e nella terza parte, quella nella quale Roxas ha un incubo. Infatti, nonostante quest'ultimo abbia svegliato con un grido Axel, il rosso non lo riempie di botte. Odore di miglioramento?
Quando il corso della narrazione viene interrotta da riflessioni sulla vita di Roxas viene utilizzato spesso il termine ''prima'', giusto per paragonare la sua attuale esistenza con la sua vita precedente. Talora si parla anche di un ''prima'' di tutto, del suo disturbo, ma non viene citato nulla nel dettaglio. -Ah-ah-ah: io lo so e voi no!-
La seconda parte mi è piaciuta molto da scrivere, quella riguardante la chiacchierata notturna tra Hayner (Personaggio che, devo ammettere, adoro assai in questa storia. E ho notato di non essere l'unica c': ) e Roxas.

Hayner rivela di considerare la clinica quasi come una ''casa'', il che, in un primo momento, sconvolge non poco Roxas; successivamente però, dopo aver riflettuto sul suo discorso, si accorge che non ha tutti i torti, poiché tornare nella vita quotidiana non sarebbe affatto facile. Però il biondo, al contrario dell'amico, non riesce neanche a considerare come casa la clinica, dal momento che, insomma, la detesta a morte. Il risultato è che lui non sa quale sia davvero casa sua, il che lo porta ad un senso di smarrimento totale.
In questo capitolo si scopre che il Venerdì è il giorno dedicato all'incontro con i parenti e proprio per questo è temuto da quasi tutti i pazienti. In particolare Hayner detesta particolarmente questo giorno e ciò viene dimostrato non solo dal suo silenzio iniziale, ma soprattutto dalle parole che, inavvertitamente, dedica al proprio migliore amico.
Passiamo poi all'ultima parte, che è forse quella più importante, poiché si viene a conoscenza di tutto il passato di Hayner. Genitori poco presenti, affetto che viene sostituito con il cibo e comportamenti che infrangono tutte le regole.
Si passa poi ad una breve descrizione di Olette, la quale è stata infilata soprattutto per evidenziare il contrasto tra la sua situazione e quella di Roxas e Hayner. In particolare Olette ha attraversato qualcosa che, in un certo senso, si può considerare ''peggiore'' rispetto al passato di Hayner; nonostante ciò, la prima sembra avere una luce grazie alla propria famiglia, il secondo invece è inchiodato in quel posto da un anno e mezzo.
Nell'ultima parte invece si scopre chi è stato colui che ha costretto Roxas a recarsi nella clinica (Non chiedetemi perché proprio Vanitas; ancora prima di trascrivere questa storia  sapevo che doveva essere lui e basta). Ma soprattutto si comprende come le sue speranze siano del tutto infrante, anche se ad infrangerle, in un certo senso, è stato lui stesso, poiché non si è fatto aiutare.
E nulla... Bom, fine dell'analisi.





Mi scuso solo se il capitolo è particolarmente lungo; vi è assicuro che non è così soltanto perché siccome pubblico una volta ogni morte di Papa, almeno mi rifaccio (?) con la lunghezza, nono. E' che questa storia necessita di ancora tanti, tanti avvenimenti, e se facessi i capitoli corti come i primi non ne usciremmo più. E poi buh, io quando scrivo non decido quando terminare un capitolo; è una cosa che mi viene istintiva, so che quella è l'ultima frase e basta.
Per il resto, beh, spero che stiate passando delle piacevoli vacanze. Io dal canto mio non mi lamento, anche se ho fatto tipo un quarto di compiti e la cosa mi turba. -Si guarda attorno- Credo che domani dovrei iniziare seriamente, altrimenti andrà a finire che a Settembre non ricorderò nemmeno quale scuola sto frequentando.
Il pensiero di ritornare lì dentro mi deprime assai c.c Ciò che mi consola è l'inverno, i miei compagni, Halloween, Natale e robe del genere, blbl.
Uhm... Fortunatamente la fissa che ho avuto per le storie inglesi ha decisamente allentato la sua presa, quindi credo di poter scrivere con più regolarità. Spero.
E nulla... Se avete letto questo capitolo, MI RACCOMANDO, recensite, poiché per me è estremamente importante conoscere la vostra opinione sui miei scritti.

Con questo, passo e chiudo.
See ya'!  Alla prossima!
E. P. R.



Ps. People, io spero vivamente che questa storia non vi stia incitando a non mangiare, eh! I problemi alimentari sono una cosa seria, ve lo posso assicurare, ho avuto diverse esperienze, non fatevi venire strane idee leggendo i pensieri di Roxas. O Hayner, perché neanche vomitare è divertente. Cioè, se proprio volete vomitare fatelo a causa delle montagne russe di un Luna Park (?).
Se invece vi viene voglia di prendere a pugni la gente come fa Axel potete sempre darvi al Wrestling. Almeno ci guadagnerete anche.

Io, dal canto mio, adesso andrò a mangiarmi un soufflè al cioccolato.
Ingozzatevi perché la vita è solo una!

 

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Capitolo 7
*** White. ***


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Insidie interiori.

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7. White


Durante il Venerdì veniva fatta soltanto un'attività pomeridiana, poiché secondo il preside i pazienti dovevano avere tutto il tempo necessario per prepararsi all'incontro con i parenti.
Roxas strinse maggiormente il fazzoletto macchiato di rosso contro le proprie narici.
Questo perché ovviamente secondo quello svitato di Xemnas loro avrebbero passato più di un'ora a lavarsi, a scegliere i vestiti adatti, a pettinarsi, a tirarsi i capelli all'indietro con il gel e così via.
Ma certo.
Roxas pensava che fosse tutta un'enorme presa per il culo, dal momento che dovevano chiedere addirittura il permesso di usare il rasoio. Ed era lapalissiano che se ciò veniva loro concesso dovevano anche essere tenuti sotto controllo da un'infermiera.

Era una cosa così stupida, si disse tra sé e sé. Ormai tagliarsi le vene con il rasoio era passato di moda; se qualcuno avesse cercato di suicidarsi in questa maniera avrebbe assolutamente raggiunto la soglia della monotonia.
Meglio cercare qualcosa di più originale per mettere fine alla propria esistenza, tanto per essere ricordati.
Fortunatamente lui non aveva problemi del genere; sia perché, nonostante i suoi diciotto anni, aveva la pelle molto liscia -Forse addirittura troppo-, sia perché, anche se avesse avuto una barba da far invidia a Gesù di Nazaret, non si sarebbe mai e poi mai abbassato al livello di poter chiedere il permesso di utilizzare un dannatissimo rasoio.
Era una regola veramente stupida; in mensa usano i coltelli e quindi se a qualche schizzato sarebbe venuta voglia di ammazzare qualcuno l'avrebbe fatto senza problemi.
Permettevano ai pazienti di utilizzare i coltelli durante i pasti e non gli consentivano nemmeno di avere nella propria stanza un paio di forbici con la punta arrotondata.
Roxas pensò che molto probabilmente la parola ''coerenza'' era un vocabolo del tutto sconosciuto nella mente di Xemnas.
Allontanò la mano sinistra dal proprio naso e si accorse che finalmente aveva smesso di sanguinare; dopodiché si alzò e buttò il fazzoletto nella pattumiera prima di raggiungere il proprio comodino, aprendo il cassetto per potersi dedicare alla lettura del suo amato libro.
Rimase immobile per qualche secondo a contemplarne la copertina con aria assorta, quasi sperasse di essere risucchiato all'interno di essa in qualche modo, e sospirò, aprendo il libro ad una pagina a caso:

''C'è sangue per le strade.

C'è sangue per le strade

& m arriva alle caviglie
Sangue per le strade
della città di Chicago
Sangue che mi segue
dopo che trabocca


Sangue per le strade
scorre un fiume di tristezza
Sangue per le strade
& mi arriva alla coscia
Il fiume scorre rosso
ai piedi della città
Le donne singhiozzano
rossi fiumi di gemiti



Sangue per le strade
nella città di New Haven
Sangue che macchia i tetti
e i palmizi di Venice



Sangue nell'amor mio
nell'estate tremenda
Il Sole rosso e... ''

«Cazzo!»
A quell'esclamazione poco elegante Roxas chiuse il libro con un tonfo per lo spavento; sbatté ripetutamente le palpebre, notando che il suo compagno di stanza aveva spalancato la porta in fretta e furia, aveva fatto notare la propria presenza con la sua squillante voce, e aveva richiuso la porta dietro di sé prima di precipitarsi verso il proprio letto.
Il biondo sbuffò rumorosamente con il naso e abbassò le iridi verso il libro, accorgendosi solo in quel momento di aver perso il segno e che, molto probabilmente, non avrebbe mai scoperto come sarebbe proseguita la poesia.
Era davvero un bene leggere pagine a caso?
«Mi hai sentito?», Roxas alzò per la seconda volta lo sguardo, rilevando un Axel lo stava fissando con le mani sui fianchi.
«Sì, ti ho sentito, hai detto ''cazzo''. Vuoi un applauso?»
«Spiritoso.», commentò con affilata ironia l'altro, roteando lo sguardo da una parte all'altra della stanza. «Senti coso, è vero che oggi c'è l'incontro con i parenti o qualche stronzata del genere?»
Roxas fece una fatica immensa per cercare di trattenere un sorriso soddisfatto; a quanto pare Axel Koskinen, lo stesso bastardo che gli aveva rotto un capillare del naso, gli stava chiedendo informazioni come una povera matricola.
«Coso lo vai a dire a qualcun altro.», si limitò a farfugliare il biondo, voltandosi verso il comodino per rimettere a posto il libro e, soprattutto, per nascondere la propria espressione appagata.
«Stronzo va bene?»
Roxas non disse nulla, e allora l'uomo sospirò rumorosamente, lasciando andare le braccia lungo i fianchi. «Hagen, cazzo, Hagen. Adesso mi vuoi rispondere o no?»
L'altro si scrollò le spalle e tornò a guardare il fulvo. Non amava particolarmente farsi chiamare per cognome, ma a quanto pare era una fissa di quelli del terzo piano; fissa che sembravano aver trasmesso anche a quello schizzato del suo compagno di stanza.
«Perché lo vieni a chiedere proprio a me?»
«Perché me l'ha detto Marluxia e non ho capito se mi stava prendendo per il culo. E' vero o no?»
«Non hai letto l'allegro volantino della clinica prima di entrare qui?», fece con tono canzonatorio il diciottenne, non volendo perdersi quel momento per alcuna ragione al mondo; Axel, dal canto suo, non parve divertirsi allo stesso modo, poiché ringhiò qualche insulto a denti stretti, irritato dal fatto che l'altro non cennava a dargli una risposta precisa.
«Vaffanculo. C'è o no questa merda di incontro?»
«Perché non lo chiedi alle infermiere?»
«Ma mi hai preso per una matricola del cazzo?!»
«Beh, è l'impressione che mi stai dando.», rispose con un finto sorriso innocente il giovane dalle iridi blu, inclinando appena la testa su un lato con aria sempre più soddisfatta. «Vediamo... Mi hai tirato un pugno sul naso, mi hai preso per il culo davanti a tutta la mensa, mi hai chiuso fuori dalla stanza, hai rubato una delle due sigarette che era riuscito a prendere Hayner... Uh, guarda un po', mi è passata la voglia di risponderti. Curioso, non trovi?»
Axel si morse furiosamente le labbra, in preda all'ira; strinse con forza i pugni, gli stessi pugni che avrebbe voluto far incontrare con il volto del biondo. Dopodiché, probabilmente ricordandosi il discorso riguardo alla storia di subire una punizione particolarmente severa e di diventare lo zimbello della clinica, si sforzò di calmarsi; socchiuse appena gli occhi e si lasciò sfuggire un sospiro. «Va bene piccolo figlio di puttana, andrò a chiederlo a qualcun altro. Sappi solo che questa me la paghi.»
«Bla, bla, bla, parole al vento.»
«A proposito, carino lo schizzo di gridare in piena notte come una femminuccia, Hagen. Però non sarebbe un dettaglio simpatico da far conoscere a Marluxia e agli altri, non trovi?», lo imitò il fulvo, avviandosi verso la porta per poi appoggiare la mano sulla maniglia con un sorriso soddisfatto.
Lo stesso sorriso che in quel momento scomparve dal volto del biondo, lasciando posto ad una smorfia irritata. «Che pezzo di...»
«Ah-ah-ah.», lo ammonì Axel, tamburellando le dita sulla porta. «Non essere maleducato.»
Roxas lo guardò in cagnesco e soffocò l'insulto in gola.
Bene, il suo momento di gloria era durato ben poco e non gli andava proprio di fare un'altra figuraccia davanti a quelli svitati del terzo piano per la storia di aver gridato nel bel mezzo della notte a causa di un incubo.
«Sì», sputò infine Roxas con rabbia, non trovando altra via di fuga. «Sì, oggi è il giorno dell'incontro con i parenti, come tutti i cazzo di Venerdì. Sei contento adesso?!»
«Abbastanza.», rispose l'altro con fare pensieroso. «E senti, bisogna per forza andarci?»
«No, se non ti va puoi anche evitare.», spiegò il biondo, scrollandosi le spalle. «però saranno punti a sfavore per la tua cartella clinica.»
Axel ascoltò attentamente il ragazzo e annuì, aprendo la porta. «Punti a mio sfavore in che senso?»
«Nel senso che farai la figura dell'asociale di merda incazzato con il mondo intero. Anche se poi non te ne dovrebbe importare tanto, visto che l'hai già fatta», mormorò Roxas, indicando il proprio naso e facendo riferimento al loro incontro piuttosto ''energetico''. «Insomma, fai cosa ti pare.»
Axel si lasciò sfuggire un ghigno divertito al ricordo del proprio pugno e sorrise prima di riprendere la parola. «Quindi dovrei fingere di essere carino, simpatico, gentile e disponibile con il prossimo, giusto?»
«Non ci riusciresti neanche per mezza giornata, non ti preoccupare.», e, dopo aver detto ciò, Roxas tornò a guardare l'uomo dai folti capelli rossi, aspettandosi un suo insulto o qualcosa del genere; al contrario, il diretto interessato scoppiò a ridere, particolarmente divertito dalla sua osservazione. «Hai ragione.», disse poi, chiudendo la porta dietro di sé e svanendo quindi nel corridoio.
E Roxas rimase lì, a bocca aperta.
Forse più che un'alcolizzato si era ritrovato in stanza con un bipolare.






«Adesso rilassatevi. Liberate la mente, svuotatela completamente da tutti i pensieri e concentratevi soltanto sui suoni della natura.»
Un tuono rimbombò in lontananza e, dopo qualche secondo, Marluxia Horn fece sentire la propria voce in mezzo al silenzio: «Questa volta non era il mio stomaco.»
I presenti scoppiarono a ridere, ad eccezione di Roxas che sbuffò rumorosamente con il naso, irritato dalla battutina di quel dannato maniaco dai capelli rosa.
«Vi prego, mantenete la concentrazione. Chiudete lentamente gli occhi e lasciatevi andare.», tentò di farsi sentire la signora Dahl, seduta a gambe incrociate di fronte al gruppetto dei dodici presenti.
«Demyx, devi chiudere entrambi gli occhi». Questo fu l'ultimo rimprovero che il biondo udì, poiché, dopo ciò, poté finalmente godersi quei cinque minuti di pace.
Molti consideravano un'immensa fortuna avere il corso di yoga come attività precedente all'incontro con i parenti. Insomma, per quanto Roxas la considerasse stupida, come tuti i corsi d'altronde, doveva ammetterlo, in fondo rilassava per davvero.
Soltanto durante gli ultimi cinque minuti, ovvio, dal momento che il resto dell'ora la passavano a fare esercizi e contorsioni che gli facevano venire solamente dei dolori insopportabili alla schiena. Fortunatamente la signora Dahl era sempre troppo impegnata a spiegare come assumere la posizione corretta e dunque non si accorgeva mai che in realtà metà dei presenti stava solo fingendo di provarci.
Probabilmente se Roxas avesse avuto ancora qualcuno ad aspettarlo avrebbe trovato grande consolazione in quei cinque minuti di pace totale. Tutta la sua ansia per l'incontro sarebbe svanita, almeno per un po', o comunque sarebbe notevolmente diminuita.
Ma tanto a lui poco importava. Non provava alcuna sorta di ansia, poiché non c'era nessun volto che apparteneva alla sua vita passata, durante il Venerdì pomeriggio.
Si lasciò sfuggire un sospiro e decise di spostare i propri pensieri altrove.
Ad Hayner era toccato il corso di pittura come attività precedente all'incontro con i parenti. Gli aveva raccontato numerose volte che passava praticamente l'ora ad infastidire Riku Koch, principalmente perché amava vedere un ragazzo così calmo e pacato perdere le staffe a causa sua.
L'aria fresca di Ottobre gli schiaffeggiò le gote e Roxas si strinse un poco le spalle, cercando comunque di muoversi il meno possibile in mezzo al prato.
Hayner gli aveva detto che quel Venerdì avrebbe tentato di rovesciare accidentalmente un po' di pittura sui capelli argentati di Riku; tanto non avrebbe potuto fargli nulla, poiché aveva ancora la gamba ingessata.
Roxas sorrise con aria divertita: probabilmente quando tutta la clinica avrebbe speso l'ora buca che precedeva l'incontro a prepararsi e a sistemarsi accuratamente, il suo migliore amico avrebbe avuto uno dei suoi soliti colloqui con Xemnas.
Una volta gli aveva raccontato di essersi addormentato nel bel mezzo della lezione di pittura; non aveva dormito affatto quella notte, lo ricordava bene, dato che erano rimasti a chiacchierare insieme fino al suono della sveglia. Così, prima aveva ciondolato la testa per un po', poi aveva definitivamente appoggiato la guancia sul proprio foglio ancora bianco ed era caduto tra le braccia di Morfeo.
Dopo aver speso ben venti minuti a russare, facendo sghignazzare ripetutamente il resto dei pazienti, si era svegliato di scatto con un sussulto e si era allontanato dal proprio foglio, notando che era rimasta una chiazza della sua saliva.
Si era asciugato le labbra e si era stiracchiato con tutta la tranquillità del mondo, emettendo anche versi poco eleganti; successivamente aveva alzato le iridi e si era accorto della minacciosa figura del signor Berg, il quale aveva ormai il volto paonazzo dalla rabbia.
E Roxas aveva poi compreso che era proprio per sfuggire dalla sua furia omicidia che quel Venerdì, una volta riaperto le palpebre alla fine della lezione di yoga, si era ritrovato il proprio migliore amico sdraiato accanto a sé con un sorriso sghembo dipinto sul volto. «Ci si rivede, eh?»
«Ma che cazzo ci fai qui?», gli aveva domandato istintivamente il biondo e, prima che l'altro avesse potuto rispondergli in qualsiasi modo, la signora Dahl si era intromessa, alzandosi: «Wiedenkeller, non mi ricordavo della tua presenza...»
«Eh, beh, deve sapere, signora Dahl», si era affrettato a ribattere il diretto interessato, mettendosi a sedere sull'erba con un finto sorriso innocente. «che non mi basta un'ora alla settimana di yoga, così ho deciso di rimediare!»
L'insegnante allora aveva sospirato pesantemente e aveva deciso di lasciare perdere, fino a quando l'attenzione dei presenti si era concentrata sulla minuta figura del signor Berg, il quale si stava precipitando verso di loro con il fumo dalle orecchie. «Wiedenkeller, vieni immediatamente qui!»
«Cazzo, ma non molla mai?», aveva chiesto tra sé e sé il ragazzo dagli occhi marroni, alzandosi con un balzo prima di fare un cenno con la mano al proprio migliore amico, ancora confuso dalla situazione. «Ci vediamo dopo, se non mi sbattono in presidenza.», e, dopodiché, aveva iniziato a correre verso la parte opposta del cortile, seguito a ruota dal signor Berg.
Roxas soffocò a fatica una risata e voltò un poco la nuca.
Adorava rimanere sdraiato sull'erba in quei cinque minuti. Trecento di secondi di silenzio. Trecento secondi da spendere in solitudine con la propria mente.
Già, con la propria mente. E ciò simboleggiava il fatto che non riusciva proprio a seguire l'indicazione della signora Dahl: ''non pensare a nulla.''
Come poteva svuotarsi del tutto?
Gli pareva impossibile, anche se solo per trecento secondi.
Non poteva spegnere il proprio cervello. Non ci riusciva nemmeno quando si addormentava, poiché i suoi sogni venivano costantemente popolati da incubi o vecchi ricordi pescati dalla sua vita passata.
Si domandò se anche gli altri provavano le sue medesime sensazioni, o se, al contrario, fossero in grado di staccare per un po' la spina del proprio cervello.
Ma come potevano?
Come potevano dimenticare i propri problemi, il proprio passato? Come potevano dimenticare i propri familiari, i loro volti delusi, i loro sguardi pieni di angoscia? Come potevano dimenticare di trovarsi in una dannatissima clinica di recupero?
Come potevano dimenticare di essere pazzi?
«Perfetto, siete stati molto bravi. Adesso potete alzarvi». Le parole della signora Dahl fecero riaprire le palpebre a Roxas che si mise lentamente a sedere prima di lanciare una fugace occhiata agli altri presenti.
Marluxia era già in piedi, probabilmente perché si era preso la briga di interrompere la propria lezione prima del permesso della signora Dahl, e stava dicendo qualcosa di particolarmente divertente a Demyx, dal momento che quest'ultimo aveva le lacrime agli occhi dal ridere.
Roxas fece per alzarsi, quando si accorse di avere le gambe assai pesanti; un brivido gli percorse la schiena e appoggiò le mani sull'erba, cercando in ogni maniera di issarsi con tutta la propria forza.
Non poteva mostrarsi debole. Non lì, davanti a tutti. Non lì, di fronte alla signora Dahl, colei che poi sarebbe andata a rivelare tutto alle infermiere.
Un controllo al peso.
''Troppo magro, dobbiamo controllarlo più spesso. Deve mangiare di più!''
Roxas riuscì finalmente ad alzarsi e, una volta in piedi, avvertì un'acuto dolore alle gambe, ma si sforzò di ignorarlo e si affrettò a raggiungere l'interno dell'edificio.






Aveva speso più di mezz'ora a vagare come un fantasma tra i corridoi deserti della clinica.
Infatti, mentre la maggior parte dei pazienti era impegnata a ''prepararsi'' (Sia fisicamente che psicologicamente) per il famigerato incontro, lui aveva cercato Hayner praticamente ovunque.
Aveva bussato alla sua stanza ripetutamente, senza però ottenere alcuna risposta; era perfino entrato nella sala mensa sparecchiata, pensando forse di trovarlo a progettare nuovi scherzi, ma nulla.
Aveva incrociato Olette al secondo piano e le aveva domandato se lo avesse visto, ma lei aveva scosso la testa e lo aveva aiutato a cercarlo per un po' prima di ritornare nella propria camera a cambiarsi.
Addirittura Roxas aveva cercato di aprire la stanza degli specchi, temendo che si fosse recato lì per chissà qualche assurdo motivo, ma, poiché si era ritrovato di fronte alla porta chiusa a chiave, come al solito, aveva lasciato perdere ed era tornato al piano terra.
Forse aveva davvero lanciato della vernice sui capelli di Riku, ottenendo come immediata conseguenza la solita passeggiatina in presidenza.
A quell'ipotesi Roxas sospirò rumorosamente e scosse la testa tra sé e sé. Il suo migliore amico non sarebbe cambiato mai e poi mai.
Se prima tutti sembravano essersi rintanati nelle proprie stanze, i corridoi ora stavano ricominciando ad affollarsi; le infermiere continuavano a camminare avanti e indietro, intervenendo in caso di eventuali ''attacchi di follia'' di qualche paziente alla vista dei propri familiari, e le prime automobili stavano facendo capolinea nel cortile, parcheggiando la vettura per poi di scendere con i soliti volti spaesati e smarriti in quel luogo così assurdo.
In quella gabbia di matti.
«Cosa?!»

Roxas si voltò alla propria sinistra e notò la presenza di un ragazzo poco più alto di lui. Se non ricordava male, lo aveva visto da qualche parte in mensa, ma non gli pareva che avessero in comune qualche corso.
Capelli ricci colorati di un arancione scuro, qualche lentiggine sul naso e un paio di occhi grigi: Alexander Oddlink stava guardando con aria sconvolta un'infermiera accanto a lui, la quale, in tutta risposta, aveva assunto un'espressione amareggiata.
«Mi spiace molto, hanno appena chiamato e ci hanno comunicato che non potranno venire. E' successo tutto all'ultimo minuto e-»
«Me l'avevano promesso!», la interruppe bruscamente il giovane, come se la sua frase avesse potuto cambiare la situazione.
«Mi hanno però detto che il prossimo Venerdì faranno di tutto per essere presenti.», si affrettò ad aggiungere la donna, stringendo una manciata di fogli al petto; Alexander rimase per un paio di secondi immobile con lo sguardo rivolto verso il vuoto.
L'infermiera allora allungò la mano per poterla appoggiare sulla spalla dell'altro, probabilmente per domandargli se stava bene o qualcosa del genere, quando il ragazzo si era voltato di scatto e si era allontanato velocemente verso la rampa di scale.
Roxas lo guardò salire i gradini prima di spostare gli occhi altrove, non volendo apparire in alcun modo come un ficcanaso; tornò a concentrarsi mentalmente su dove potesse essersi cacciato il suo migliore amico e si accorse di non aver ancora controllato in cortile.
Decise dunque di raggiungere le porte già aperte e di abbandonare per un po' la puzza di disinfettante e di medicinali che galleggiava costantemente in quel dannatissimo edificio.
Si domandò se, dopo aver passato ben un anno e mezzo lì dentro, avrebbe continuato ad avere quell'odore anche una volta uscito da quel postaccio.
Sì, se mai sarebbe stato dimesso, ovvio.
Il cielo era particolarmente nuvoloso e si udiva talvolta qualche tuono in lontananza, nonostante non fosse ancora scesa una goccia. Non era esattamente sicuro di essere un'amante della pioggia o meno. Forse era lo stesso rapporto che aveva con i giorni della settimana: non gli facevano alcuna differenza, ecco tutto.
«Sono qui!»
Roxas si voltò istintivamente, proprio come aveva fatto poco prima, e notò che la voce proveniva da un uomo calvo sulla cinquantina; stava sventolando la mano e, non appena si accorse che la diretta interessata lo aveva visto, sorrise.
Infatti dopo una manciata di secondi una ragazza corvina corse e superò la figura di Roxas alla velocità della luce prima di fiondarsi tra le braccia di quello che, molto probabilmente, era suo padre.
Doveva certamente essere un'altra persona fortunata come Olette in ambito familiare, pensò tra sé e sé il biondo mentre si allontanava velocemente dal centro del cortile, evidentemente a disagio.
Tutto ciò che desiderava era trovare Hayner senza fare la figura del cretino che cercava inutilmente i propri genitori che non avrebbero mai varcato quel cancello arrugginito.
Si infilò le mani nelle tasche della propria felpa e si affrettò a raggiungere la piccola altura dall'altra parte del cortile; incontrò alcuni volti familiari seduti ai tavoli o alle panchine accanto all'edificio, ma poco vi badò e, anzi, cercò di accelerare il proprio passo.
Anche perché spesso i pazienti, soprattutto quelli del terzo piano, sapevano essere dei gran bastardati, dal momento che non si faceva scrupoli ad uscirsene con domande tipo: «Quando arriveranno i tuoi genitori? Non li ho ancora visti!»
«Credi che i tuoi siano rimasti imbottigliati nel traffico o qualcosa del genere?»
«E i tuoi familiari non sono venuti? Perché? Non avevano voglia di rivederti o cosa?»
Prese posto tra alcuni massi in mezzo all'erba e si strinse le ginocchia al petto prima di scrutare attentamente il cortile sotto di sé.
Almeno da lì avrebbe potuto cercare Hayner con lo sguardo senza rischiare di fare la figura dell'idiota e, soprattutto, senza rischiare di ricevere qualche domanda indiscreta da parte di pazienti particolarmente sadici.
Lui, proprio come Hayner, non ricordava esattamente come tutto fosse successo.
Era passato un po' di tempo da quell'episodio, e, nonostante ogni giorno gli portasse via una parte di sé, non pensava che sarebbe stata una molla che lo avrebbe portato all'autodistruzione. Sperava di morire prima. Sperava che quel ricordo gli strappasse via tutte le viscere e che lo svuotasse completamente.
Sarebbe stato molto meno doloroso che conoscere quell'amica.
A scuola non era affatto facile, tra compiti in classe e interrogazioni; inoltre i suoi lo avevano iscritto a nuoto e a tennis, cercando di riempire il più possibile il suo tempo per distrarlo in ogni modo.
L'idea inizialmente non sembrava male; il suo tempo libero si era azzerato proprio del tutto. Si svegliava, andava a scuola, faceva i compiti e si recava o al campo o in piscina.
Il problema era che anche in quei momenti i ricordi continuavano a torturarlo in ogni maniera possibile. Sia durante i compiti in classe, sia prima di andare a dormire, sia durante le partite di tennis.
Sì, ovvio, materialmente non aveva più tempo libero, tanto che non riusciva neanche a ritagliarsi trenta minuti per i pasti.
Roxas abbandonò improvvisamente il cimitero dei propri ricordi, poiché la sua attenzione si focalizzò su una figura a lui familiare al centro del campo, occupata in un'accesa discussione con altri due adulti.
Precisamente il suo compagno di stanza.
Ovviamente Roxas era troppo lontano per sentire ciò che stava dicendo e l'unica ragione per cui era riuscito a riconoscerlo era per quei suoi capelli rossi che sfidavano qualsiasi forza di gravità. Lo vide comunque gesticolare animatamente e camminare avanti e indietro con fare piuttosto irritato. Probabilmente si stava lamentando con gli altri due su quanto detestasse quello schifosissimo posto di merda o qualcosa del genere.
Roxas ridusse gli occhi a due fessure e porse un poco la testa in avanti, cercando in qualche modo di distinguere gli altri due individui; gli parve di vedere un uomo e... Sì, una donna. Un uomo e una donna. Uno accanto all'altro. Perfettamente immobili, intenti a guardare la figura nervosa di Axel.
Che fossero davvero i suoi genitori?
Strano, pensò Roxas, se li era immaginati entrambi con i capelli sparati in aria proprio come il figlio.
Certo, comportarsi in quella maniera non lo avrebbe affatto aiutato, ma almeno non aveva fatto la figura dell'asociale incazzato con il mondo intero.
Scosse la testa e sospirò pesantemente: ma in fondo che diavolo gli importava? Assolutamente nulla. Voleva solo stare lontano dagli altri e magari sperare di vedere Hayner apparire magicamente dal nulla.
Beh, era molto improbabile che il suo secondo desiderio si realizzasse, ma almeno se ne stava in santa pace.
O meglio, lo era fino a quel momento.
Quei pochi secondi di distrazione nei quali il biondo aveva alzato lo sguardo verso il cielo grigio, gli bastarono a sconvolgerlo; infatti, non appena abbassò nuovamente lo sguardo di fronte a sé, si accorse che i genitori di Axel erano rimasti soli.
Roxas spostò ripetutamente lo sguardo da una parte all'ambiente sottostante, e, non appena ipotizzò che il suo compagno di stanza fosse rientrato nella clinica, si accorse che, al contrario, si era allontanato dal cortile per risalire la piccola altura su cui si trovava.
Sì, insomma, stava camminando proprio verso di lui.
Addio pace.
Pensò che magari l'altro non lo avesse visto, poiché sembrava assai pensieroso -O forse nervoso, non lo sapeva con esattezza-, con le iridi rivolte verso il basso e le mani infilate nelle tasche dei jeans.

Per un attimo prese in considerazione l'idea di alzarsi e di andarsene, ma si sarebbe sentito in qualche modo umiliato.
Insomma, gli aveva già praticamente rubato metà dello spazio della camera; non gli avrebbe di certo permesso di fregargli anche il suo posto personale in cui pensare in santa pace.
Axel era ormai a pochi metri da lui, quando alzò lentamente la testa e sollevò istintivamente il soppraciglio sinistro prima di sputare sfacciatamente un: «Non ci credo, anche qui?»
A quel piacevole saluto Roxas gli lanciò un'occhiataccia prima di tornare ad osservare il cortile sottostante. «Non so se te ne sei accorto Einstein, ma io sono qui da un bel po', quindi è inutile che fai quella faccia.»
«Io però ho deciso di venire qui, quindi?»
«Quindi niente, ti puoi scordare che io mi sposti. Vattene ad ascoltare quella dannatissima canzone.», lo incitò scorbuticamente il biondo, mantenendo nel frattempo lo sguardo fisso verso le numerose figure in movimento nel cortile; gli parve di vedere Olette, ma prima che potesse accertarsene, la sua attenzione si spostò sull'altro, dal momento che aveva preso anch'egli posto su una roccia non molto distante da lui. «Io invece voglio stare qui. Mi sono fatto tutto il culo per salire fin quassù, figurati se ho ancora voglia di ritornare nella mia stanza.»
«Sì, che poi in realtà sarebbe la mia stanza.», precisò il ragazzo con aria irritata.
«Non lo è più da un bel po'.»
«Che schifo condividere le cose.»
«Non dirlo a me». A quella frase Roxas alzò leggermente un soppraciglio e inclinò la testa su un lato prima di ridurre gli occhi a due fessure. «Cioè, adesso mi vuoi far credere che la vittima saresti tu?»
«Non sono io quello che tiene il bagno occupato soltanto perché si vuole cambiare lì. Sto pensando seriamente che tu in realtà sia una ragazza e che lo voglia nascondere, o qualcosa del genere. Sai, una cosa tipo Mulan.»
«Ma vaffanculo.», sputò senza tante cerimonie il diciottenne, spostando per l'ennesima volta lo sguardo altrove. «Non sono io quello che ha dei capelli improponibili. E due tatuaggi molto discutibili.»
E se Roxas aveva le iridi puntate verso la propria sinistra, Axel invece voltò istintivamente la testa verso di lui, guardandolo in cagnesco. «Che cazzo intendi dire?»
«Che non puoi fare la predica a nessun uomo sul sembrare una ragazza o meno.»
«Si chiama stile, ficcatelo in quella testa vuota, anche se è una cosa che evidentemente ti manca.»
«Ma per piacere», borbottò Roxas, scrollandosi le spalle prima di cambiare improvvisamente argomento. «E poi non sono io quello che passa metà giornata ad ascoltare quella dannatissima canzone. Dio, mi hai fuso praticamente il cervello. E ti ho mai detto che russi da far schifo? Ah, e inoltr-», il ragazzo però interruppe improvvisamente le proprie lamentele non appena si accorse della presenza di alcune gocce scarlatte sotto il naso. «Merda, di nuovo.», mormorò tra sé e sé prima di iniziare a frugare tra le proprie tasche, senza riuscire però a trovare alcun fazzoletto.
Si sentì uno stupido, dal momento che avrebbe dovuto portarsene sempre uno dietro per evitare di imbrattarsi ogni volta i palmi.
«Hai il nasino delicato, eh», lo prese allegramente in giro con un sorriso sghembo il fulvo, divertito dal fatto che l'altro continuasse a cercare disperatamente qualcosa con cui asciugarsi le narici scarlatte.
«'Fanculo, non è il mio naso il problema. Era il tuo pugno che...», poi però Roxas si morse la lingua e lasciò la propria frase sospesa a metà.
«Che cosa?»
«Niente.»
Axel allora non poté fare a meno di mettere in mostra un ghigno divertito prima di infilarsi una mano nella tasca sinistra, tirando poi fuori un pezzo di stoffa blu. «Era il mio pugno che era troppo forte, mh?»
«Figurati.», si affrettò a ribattere il biondo, continuando a sfregarsi il dorso della mano sul naso.
«Allora il tuo naso è delicato. Scegli tu; nasino delicato o pugno troppo forte? Preferisci fare la figura della checca o darmi la soddisfazione di sentirmi dire che ti ho fatto male?», continuò a schernirlo il rosso, sentendosi particolarmente geniale ad averlo messo in un vicolo cieco.
«Sei uno stronzo, ecco qual è il punto.»
Axel scoppiò a ridere e scosse la folta chioma rossa prima di allungare il braccio verso l'altro presente; Roxas dopo un paio di secondi si voltò, notando che stava reggendo in mano un pezzo di stoffa. «Quella roba non ce l'ha più neanche mia nonna.»
«Ah, allora continua pure ad usare le mani.», Axel fece per ritirare il braccio, quando Roxas scosse la testa e si affrettò ad afferrare l'oggetto per portarselo alle narici. «Grazie.», farfugliò poi a fior di labbra, facendosi a malapena sentire dall'altro.
L'uomo lo osservò per una manciata di secondi prima di riprendere la parola: «Devi stringere forte.»
Il biondo sussultò appena e, dopo aver capito che si stava riferendo alle proprie narici, incastrò la testa tra le spalle. «Lo so, ogni infermiera me lo ha ripetuto una decina di volte.»
Axel allora si limitò a fare un cenno positivo con la testa per poi spostare finalmente lo sguardo verso il cortile; il ragazzo dalle iridi blu, nel frattempo, allontanò leggermente il pezzo di stoffa e notò la macchia scura sembrava essere in contrasto con il blu circostante.
«E' così brutto fare la figura dell'asociale incazzato con il mondo?». Roxas si voltò per l'ennesima volta verso il suo compagno di stanza e inclinò appena la testa su un lato. «Sono solo punti a tuo sfavore, te l'ho detto.»
«Quindi quegli stronzi segnano tutto quello che faccio?»
«Più o meno. L'incontro con i parenti è importante però, per questo durante il Venerdì pomeriggio vengono aggiornate le cartelle di tutti i pazienti.»
«Che palle.», commentò con fare nervoso il rosso, mantenendo le iridi smeraldine puntate di fronte a sé. «Io non voglio più rivederli.»
«Chi?», chiese istintivamente Roxas, anche se forse in parte aveva capito di chi stava parlando Axel.
«I miei genitori.»
A quella risposta il ragazzo si sentì stranamente a disagio; non sapeva proprio in che maniera rispondere. Di certo non si sarebbe messo a parlare della propria situazione o qualcosa del genere, né gli andava di porre altre domande. Però al tempo stesso quel silenzio lo turbava un po', non sapeva esattamente il perché.
Decisa dunque di dire una cosa qualsiasi, che però aveva a che fare con l'argomento. «Ci sono pazienti che si sono lamentati del fatto che è un'ingiustizia che ci sia solo il Venerdì pomeriggio per incontrare i propri parenti.»
Axel si lasciò sfuggire una mezza risata con il naso. «Ci mancherebbe solo questa. Quelli che dicono così sono persone che hanno un buon rapporto con i propri genitori.»
«Sicuramente.», mormorò Roxas, allontanando nuovamente il pezzo di stoffa dalle narici; sbatté ripetutamente le palpebre e infilò l'oggetto in tasca, accorgendosi che, fortunatamente, il suo naso sembrava avergli dato un attimo di tregua. «Ci sono cliniche dove ogni giorno c'è un preciso orario dedicato alle visite. Almeno ti hanno portato in un posto dove le cose non funzionano così.»
A quelle parole Axel si voltò di scatto verso l'altro presente con un'espressione indecifrabile dipinta sul volto. «Cosa?»
Il ragazzo dunque aggrottò le soppraciglia, perplesso. «Ho detto che ci sono cliniche dove ogni gior-»
«No, non dicevo quello.»
«E allora che c'è?»
«Cos'hai detto dopo?»
Il diciottenne sembrò rifletterci su per un po' prima di riprendere la parola. «Ah, sì, ho detto che almeno ti hanno portato in un posto dove non ci sono visite ogni giorno.»
«Mi hanno portato chi?», domandò bruscamente il rosso, senza smettere di fissare l'altro che si sentiva sempre più a disagio dall'aria pesante che si era venuta a creare.
«Ma che cosa vuoi che ne sappia.», borbottò poi in risposta, spostando lo sguardo altrove. «I tuoi genitori forse, boh, non lo so.»
«E invece no.», replicò apaticamente l'uomo, aspettando di ottenere nuovamente l'attenzione del biondo per proseguire. «Qui non mi ha portato nessuno.»
Roxas sbatté le palpebre, senza capire. Fu sul punto di farglielo notare, o magari di scuotere la testa e di realizzare mentalmente che quel tipo aveva il cervello andato, quando ciò che udì dopo lo lasciò completamente spiazzato: «Ci sono venuto da solo, di mia volontà.», e, dopo aver rivelato ciò, Axel si alzò e iniziò a scendere dall'altura, stando attento a non inciampare tra le numerose rocce.






Era rimasto fuori praticamente fino alle diciotto e trenta; oltre quell'orario ogni paziente doveva trovarsi all'interno della clinica, altrimenti avrebbe subito qualche tremenda punizione.
Roxas salì la solita rampa di scale e si ritrovò nel bel mezzo del corridoio; iniziò ad incamminarsi verso la propria camera, domandandosi se Axel fosse all'interno di essa o meno, quando si bloccò di fronte alla porta semiaperta della stanza del suo migliore amico.
Sbatté ripetutamente le palpebre, perplesso; che Axel fosse nuovamente entrato nella sua stanza? O semplicemente Hayner si era dimenticato di chiudere la porta?
Decise allora di bussare due volte per accertarsi che non ci fosse nessuno. Ci fu un breve silenzio e, proprio mentre il biondo stava per entrare, udì la voce un po' soffocata del proprio migliore amico: «Roxas, sei tu?»
Il diretto interessato sussultò un poco. «Sì, sono io. E' tutto okay?»
Nessuna risposta.
Roxas si morse il labbro nervosamente, sentendosi invaso da un brutto presagio. «Hayner?»
«Vieni». A quel mormorio quasi incomprensibile Roxas spinse la porta ed entrò finalmente nella stanza che gli parve più disordinata che mai; alcune magliette erano sparse sul pavimento, tenendo compagnia alla coperta e al cuscino. Il secondo cassetto del comodino accanto al letto era aperto, mettendo in mostra così un paio di barrette di cioccolato.
Roxas richiuse la porta dietro di sé, domandandosi se davvero qualcuno fosse entrato prima a rovistare tra la roba del suo migliore amico. Dopodiché focalizzò la propria attenzione sulla figura di Hayner, il quale era seduto sul materasso con aria persa.
Roxas lo squadrò da capo a piedi e, non appena si fermò sul suo volto, sgranò le iridi blu, sconvolto dal notare le gote arrossate a causa di un evidente pianto.
«Hayner, cosa... Cos'è successo?», si sforzò di domandare dopo lo shock iniziale, deglutendo rumorosamente.
Aveva visto Hayner piangere un paio di volte, eppure si sentì comunque a disagio. Non sapeva proprio come comportarsi di fronte ad una persona in lacrime. Forse era un po' la medesima sensazione che provavano i parenti durante il Venerdì pomeriggio davanti a tutti quei pazienti; le domande che parevano sempre errate, pesanti, inappropriate in qualche modo.
Dopo una manciata di secondi di silenzio, Hayner si decise finalmente ad alzare lo sguardo verso l'altro presente, facendolo rabbrividire un poco; si asciugò gli occhi bagnati e tirò su con il naso prima di iniziare finalmente a parlare. «Te l'avevo detto che oggi sarebbe venuto.»
A quelle parole Roxas spalancò nuovamente le iridi. Proprio come aveva immaginato, il motivo delle lacrime dell'amico era suo padre. Già, il medesimo motivo per cui lo aveva visto piangere le altre volte.
Sempre la stessa ragione.
«Allora ci hai... Sì, insomma, ci hai parlato?», tentò poi di chiedere il biondo, mordendosi leggermente il labbro inferiore.
Hayner allora serrò di scatto i pugni e si lasciò sfuggire un grugnito a denti stretti. «Ho detto una stronzata in mensa.»
Roxas corrugò la fronte, non riuscendo a capire perché l'altro stesse saltando di palo in frasca. «Ma di che stai parlando?»
«Quando ti ho detto che almeno io ho qualcuno che viene a trovarmi. Era una stronzata, una stronzata enorme.»
«Non riesco a seguirti.»
«Quello stronzo, cazzo!», tuonò improvvisamente il giovane dagli occhi marroni, alzandosi di scatto dal letto prima di dirigersi verso la finestra, dando le spalle all'amico. «Lo sai che ha fatto quello stronzo? E' venuto. Lui c'era, cazzo, era qui. Roxas, ho fatto lo scherzo di merda a Riku. Gli ho lanciato la vernice sui capelli. Dovevi vedere la sua faccia; era da sbellicarsi dalle risate! Però poi il signor Berg mi ha mandato in presidenza. ''Wiedenkeller, fila subito dal preside!'', così mi ha detto, ecco, proprio così. Io ho cercato un po' di scassargli le palle, mi sono lamentato, non ne avevo proprio voglia di alzarmi, ma lui era incazzato nero e allora ho deciso di andare per evitare qualche sua sfuriata». Hayner interruppe il proprio racconto per qualche secondo; strinse i pugni con maggiore forza e guardò ciò che rifletteva la finestra con rabbia, come se essa c'entrasse in qualche modo con ciò che lo stava turbando.
«Stavo andando da quel rompicoglioni di Xemnas. Sai, mi stavo preparando alla sua solita ramanzina, o magari a qualche punizione del cazzo, ma... Non so, è successo tutto così velocemente... Camminavo lungo il corridoio, quando la porta di Xemnas si è aperta e ho visto mio padre uscire da lì.»
Un'altra pausa.
Roxas continuò a torturarsi il labbro inferiore con i denti, non sapendo se commentare o meno. Hayner nel frattempo prese un respiro profondo e proseguì: «Mi si è fermato il cuore per un secondo, lo sai? Cazzo, ho provato così tante emozioni, tutte... Tutte insieme. Sono rimasto lì, senza fiato, per... Non lo so, forse una decina di secondi. Pensavo che stesse raggiungendo il cortile, per aspettarmi. E invece no, lui se ne stava andando, se ne stava andando su quella merda di macchina da ricconi. L'ho capito dopo». Hayner a quel punto si voltò di scatto verso il compagno, il quale lo stava guardando a sua volta, incitandolo silenziosamente a proseguire.
«Io l'ho chiamato. Ho preso coraggio e l'ho chiamato perché speravo che potessimo fare le scale insieme fino al cortile. Sai, per parlare di più. Per avere un po' più di tempo. Tu non lo sai come mi ha guardato, Roxas. Mi ha guardato come se fossi un insetto da calpestare. Come se fossi feccia, ecco. E poi sai che cosa mi ha detto? Ha detto che si vergogna di me, che non dovrei essere suo figlio. Quel maledetto bastardo di Xemnas gli ha fatto vedere la mia cartella, sai, tutti i casini che ho combinato e le punizioni che ho ricevuto. Mio padre mi ha detto che sono una vergogna e che combino solo casini. Non era venuto nemmeno per salutarmi. Voleva solo fare una cazzo di donazione all'equipe medica, probabilmente per fare la figura dell'uomo altruista». Il ragazzo si portò nuovamente la mano sinistra sugli occhi, accorgendosi che si stavano formando nuovamente le lacrime.
«Sai che cosa gli ho detto, Roxas? Gli ho detto che è uno stronzo di merda. L'ho urlato. L'ho urlato in mezzo al corridoio, davanti alla porta del preside. Non me ne fregava un cazzo, per me poteva esserci tutta la clinica. Anzi, speravo che ci fossero tutti, cazzo. Avrei voluto che  tutti sapessero che mio padre è uno stronzo di merda. Lo odio, Roxas, adesso lo odio a morte e spero di non tornarci mai in quel posto di merda dove vive lui.», e, dopo aver concluso il proprio racconto, il diciottenne prese nuovamente posto sul materasso, continuando a stringere i pugni con forza. «Spero che muoia, quello stronzo. Non voglio più neanche considerarlo mio padre.»
Roxas si lasciò sfuggire un lungo sospiro prima di lanciare una fugace occhiata alla stanza, intuendo che, molto probabilmente, era stato lo stesso Hayner ad aver messo a soqquadro l'intera camera per rabbia.
Si strinse le spalle e si avvicinò al materasso del compagno prima di sedersi accanto a lui. «Adesso sei arrabbiato, è normale dire cose del genere.»
«No Roxas», replicò l'altro, scuotendo la testa. «Dico sul serio, lo odio. Hai capito quello che sto dicendo? Lo odio. Non è vero che c'è qualcuno che mi viene a trovare, non più. E anche se ritornasse, gli sputerei in un occhio. Anzi, spero proprio che torni, così lo potrò mandare a 'fanculo come si deve.»  
Il biondo ritornò a mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore, indeciso su come commentare. Hayner era testardo, perfino troppo, e sapeva che sarebbe stato inutile replicare con frasi del tipo: ''E' pur sempre tuo padre.''
Ma d'altro canto, non voleva che il suo migliore amico facesse il suo stesso errore, ovvero quello di rifiutare la presenza di un familiare per orgoglio o per eccessiva rabbia.
«Non si è comportato da padre modello, è vero, però magari anche lui era arrabbiato. Sai, per tutti i guai che hai combinato...». A quella specie di giustificazione il ragazzo dalle iridi marroni si voltò di scatto verso l'altro, osservandolo intensamente. «Sì, è vero, ho fatto un mucchio di cazzate, e allora? Doveva per forza dirmi che sono una vergogna?!». Hayner alzò nuovamente il tono della propria voce e a Roxas parve che fosse nuovamente sul punto di piangere; il diciottenne dagli occhi marroni però si affretto a portarsi nuovamente una mano sugli occhi prima di accennare un sorriso sghembo al compagno. «Almeno adesso siamo proprio sulla stessa barca, no?»
Roxas non sapeva esattamente se ciò fosse un lato positivo o meno; decise dunque di non rispondere direttamente alla sua affermazione e si limitò ad abbassare un poco lo sguardo, evidentemente a disagio. «Hayner, senti, mi... Mi dispiace per tutto 'sto casino, davvero.»
Il diretto interessato spostò a sua volta gli occhi prima di riprendere a parlare: «Allora secondo te ho fatto bene a dargli dello stronzo?»
A quella domanda Roxas si irrigidì di colpo.
Si accorse di avere i muscoli inspiegabilmente tesi e tornò mentalmente a quel pomeriggio; il pomeriggio dell'ultimo Venerdì del suo primo mese nella clinica.
«Va bene Roxas, ho capito. Se non ci vuoi in mezzo ai coglioni, vedremo di sparire. Buona guarigione.»     
Si era infranto da solo l'unica possibilità di mantenere un minimo di contatto con il mondo reale, quello al di là di quelle dannatissime mura, al di là del cortile, del cancello arrugginito.
E molto probabilmente Hayner aveva appena fatto il suo stesso errore.
Aveva fatto bene? No, ovvio che no. Però, d'altro canto, forse anche lui non si sarebbe comportato diversamente; in fondo suo padre lo aveva sempre ferito nell'orgoglio.
Ma era giusto lasciar posto alla rabbia e all'orgoglio in una situazione del genere? Probabilmente no, poiché si era praticamente rovinato da solo.
Ma se quel pomeriggio, quel dannatissimo Venerdì pomeriggio, avesse saputo che Vanitas non sarebbe più tornato per davvero, avrebbe comunque detto quella frase? Gli avrebbe comunque detto che non aveva bisogno di quelle visite del cazzo?
Era quello il punto.
Se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, avrebbe cercato di cambiare le cose?
«Sai che cosa ti dico? 'Fanculo, 'fanculo tutto e tutti». Il biondo sussultò un poco, accorgendosi che Hayner aveva allungato un braccio per poterlo avvolgere attorno alla sua spalla. «Non ho bisogno di lui. Non ho bisogno di quello stronzo.»
Roxas si lasciò sfuggire un flebile sospiro e tornò ad osservare il pavimento a piastrelle della stanza del suo migliore amico.
''Non ho bisogno di queste visite del cazzo. Mi fanno andare fuori di testa.''






«Hayner, perché. Dimmi solo perché.»
«Oh, ma piantala di rompere, Roxas! Sarà divertente!»
«Divertente un cazzo.»
Il giorno successivo, durante la pausa che precedeva le attività pomeridiane, Hayner aveva costretto il suo migliore amico ad uscire dalla sua stanza per accompagnarlo in un luogo ''nuovo''.
«Me ne hanno parlato un sacco e adesso sono fottutamente curioso.», spiegò il giovane dalle iridi marroni, continuando a tenere l'altro per il polso destro, poiché era consapevole del fatto che se avesse lasciato la presa Roxas non si sarebbe fatto scrupoli a fare dietro-front e a scappare nella propria stanza correndo alla velocità della luce.
«A me sembra una pagliacciata. Perché non lasciamo perdere?», brontolò per l'ennesima volta il biondo, cercando di tanto in tanto di fermare i piedi e di opporre resistenza, senza però ottenere alcun risultato concreto, dal momento che l'altro non cennava ad ascoltarlo.
Non appena si trovarono di fronte all'ascensore Hayner premette ripetutamente sul tasto rosso, imprecando sulla sua lentezza a denti stretti prima di degnarsi finalmente di dare una risposta al compagno: «Lasciare perdere? E allora come vorresti passare il tempo? In compagnia di quel simpaticone di Mr. Schizzato? Ormai devi stare il meno possibile nella tua stanza, Roxas.»
Quest'ultimo fece per replicare, quando l'arrivo dell'ascensore lo distrasse; Hayner lo spinse un poco all'interno di esso prima di seguirlo. Le porte a quel punto si chiusero automaticamente e il diciottenne dagli occhi marroni si affrettò a premere il tasto che li avrebbe portati al terzo piano.
«E se per i corridoi incontrassimo qualche idiota tipo Marluxia o Larxene? Perché rischiare?»
Hayner sbuffò rumorosamente per poi scuotere la testa e incrociare le braccia, lanciando un'occhiata all'amico accanto a sé. «Beh, se inizieranno a rompere i coglioni li manderò io a quel paese.»
Roxas si lasciò sfuggire un lungo sospiro esasperato. «Mi chiedo perché continuo a darti corda.»
L'altro scoppiò a ridere e, nello stesso momento in cui l'ascensore si fermò, riprese a parlare: «Altrimenti non saresti il mio migliore amico, no?», e, dopo aver fatto questa osservazione, spinse le due ante dell'ascensore, ritrovandosi così nel corridoio del terzo piano.
Roxas si affiancò all'amico e dunque chiese: «E adesso? Spero che tu ti sia informato su dove sia la sua stanza.»
Il compagno gli lanciò un'altra occhiataccia e storse un poco il naso. «Sì, sì, certo, certo...»
«Hayner?», lo chiamò con tono rimprovero il biondo, sollevando istintivamente un soppraciglio con fare poco convinto.
«Okay, non ho la più pallida idea di dove sia.»
Roxas allora scosse la testa e si lasciò sfuggire un secondo sospiro prima di guardarsi attorno. «Bene, e adesso che cosa hai intenzione di fare?»
«Chiediamo a qualcuno, no?», propose istintivamente Hayner, iniziando a girovagare nei d'intorni. «Bussiamo alla porta di qualcuno e chiediamo dov'è la stanza, dai.»
«Bene», farfugliò Roxas, non del tutto convinto. «ma se ci troviamo di fronte a qualche ritardato sarà solo colpa tua, sappilo.»
Hayner fece un cenno disinteressato con la mano prima di guardarsi attentamente intorno, assumendo un'espressione pensierosa. «Mmmh... Facciamo una conta per decidere quale porta bussare?»
Roxas roteò gli occhi con aria esasperata e fece per rispondere in maniera aspra, quando un improvviso rumore costrinse i due giovani a voltare di scatto la testa alla loro destra; una porta a pochi metri da loro si spalancò, mettendo così in mostra una ragazza dai capelli argentati e gli occhi tinti di un bruno così intenso da sembrare quasi rosso.
Fujin Tikka, meglio conosciuta come ''Fuu'', era un'amica assai fedele a Seifer e, nonostante quest'ultimo fosse cambiato dopo la sua ''visita'' nella stanza degli specchi, lei non aveva smesso di rimanergli accanto. Quasi nessuno conosceva la sua diagnosi, o comunque il suo passato in generale, poiché era una tipa molto taciturna e perfino durante le terapie di gruppo non proferiva parola.
Indossava una leggera giacca blu con la cerniera e dei pantaloni beige chiaro; in quel momento richiuse la parola dietro di sé e fece per prendere la direzione opposta rispetto a dove si trovavano i due giovani, quando Hayner sventolò la mano e cercò di attirare la sua attenzione. «Ehi, tu, aspetta!»
La diretta interessata si voltò di scatto, mantenendo comunque un'espressione impassibile dipinta sul volto; quando Hayner si accorse che lo stava fissando, afferrò nuovamente per un polso l'amico e le si avvicinò, riprendendo la parola. «Sai per caso dov'è la stanza di... Ehm, com'è che si chiama?», domandò improvvisamente il ragazzo, rivolgendosi all'altro che sospirò rumorosamente. «E' inutile che mi guardi così, io non ne ho la più pallida idea.»
«Ehm, ce l'ho sulla punta della lingua... Aspetta, si chiama... Uh, cazzo...», continuò a farfugliare tra sé e sé Hayner, lasciando la presa sul polso di Roxas per grattarsi la nuca. «Me l'aveva detto Demyx, accidenti...»
Fuu sollevò appena un soppraciglio, facendo finalmente sentire la propria voce: «Io non ho tempo da perdere, quindi, se non vi dispiace, adesso me ne va-»
«NAMINE'!», gridò improvvisamente Hayner, facendo sobbalzare gli altri due presenti. «Si chiama Naminè, ecco! Sai dov'è la sua stanza?»
La ragazza sbatté ripetutamente le palpebre, nonostante l'occhio sinistro fosse coperto dal lungo ciuffo di capelli. «Sì.»
Hayner dunque corrugò la fronte, perplesso dalle risposte così brevi dell'altra. «Ehm, allora ci diresti dove cazzo è?»
Fuu indicò la porta dietro di sé, la stessa da cui era appena uscita; i due amici allora scrutarono la camera indicata e assunsero espressioni differenti: chi euforico, chi perplesso e poco convinto.
«Beh, grazie», mormorò successivamente Hayner, mettendo un mostra un sorriso a trentadue denti; la giovane guardò attentamente i due per una manciata di secondi prima di annuire senza un apparentemente motivo. Dopodiché si voltò e si incamminò lungo il corridoio, lasciando Roxas e Hayner finalmente soli.
«A me continua a non sembrare una buona idea.», farfugliò improvvisamente Roxas, interrompendo il breve silenzio.
«Non è mica una novità.»
«Forse dovresti iniziare a farti qualche domanda.», replicò immediatamente il biondo, facendo riferimento alle numerose volte nelle quali erano stati sbattuti in presidenza.
«Non succederà niente 'sta volta, vedrai», cercò di rassicurarlo con aria scocciata il compagno, avvicinando la mano verso la porta. «in fondo non siamo i primi a fare una cosa del genere, anzi, mezza clinica è già stata da questa tipa.»
Il biondo sbuffò. «E va bene...»
Hayner gli rivolse un sorriso soddisfatto prima di bussare alla porta due volte. «E' permesso?»
Roxas allora sentì improvvisamente una strana inquietudine espandersi nel petto; inizialmente si disse che forse era per il fatto che le idee di Hayner non gli erano mai andate a genio, però poi si accorse che no, non era quello il motivo, poiché il suo pareva essere una sorta di presagio profondo.
«Ehiii, Naminè? Possiamo entrare o no?». Hayner bussò altre due volte prima di appoggiare l'orecchio sulla porta, accorgendosi che l'unica cosa che sentiva era il totale silenzio. «Che strano, eppure quella tipa ha detto che la stanza è proprio questa...»
«Forse non vuole più visite», azzardò Roxas, cogliendo al volo l'occasione per convincere nuovamente Hayner a lasciare perdere. «Andiamocene, dai, magari poi si incazza o qualcosa del genere.»
Il compagno lo ignorò e bussò un'altra volta. «Perché non proviamo ad aprire?»
«Ma sei scemo?! Magari si sta cambiando o è sotto la doccia! Guarda che è la sua stanza!»
«E allora? E' lei che ha messo su 'sta storia della strega che prevede il futuro o quel che è. Questo significa che tutti possono avere accesso alla sua camera, a meno che sia chiusa a chiave!», fece notare con fare saccente Hayner, sentendosi particolarmente intelligente. «Quindi, io propongo di entrare.»
«Hayner, se lo fai io me ne vado.»
«Che rompicoglioni. E andiamo, non ti interessa sapere che cosa ha in serbo per te il futuro?», domandò con aria teatrale il giovane dalle iridi castane, rivolgendo gli occhi verso il soffitto.
«Non me ne potrebbe fregare di meno.», affermò schiettamente il biondo e fece seriamente per girare i tacchi, sempre più irritato dalla situazione, quando una voce proveniente dall'interno della porta lo fece irrigidire: «Entrate pure, è aperto.»
Hayner, dopo aver lanciato con lo sguardo un chiaro ''Te l'avevo detto'', girò la maniglia della porta, imbattendosi immediatamente nel bianco.
Certo, in tutte le stanze della clinica Werner il colore predominante era il bianco, eppure quella camera sembrava essere in qualche modo diversa.
Un bianco differente.
Poteva essere il bianco diverso, avere delle altre tonalità? A quanto pare sì.
Non appena i due entrarono nella camera, Roxas sentì quella sorta di inquietudine espandersi maggiormente nel petto; cercò comunque di non lasciare trasparire il proprio disagio e si limitò a richiudere la porta dietro di sé.
«Sono felice che voi siate qui.», i due ragazzi sussultarono prima di focalizzare l'attenzione sulla figura inginocchiata di fronte a loro, la quale però era intenta a disegnare qualcosa di misterioso su un foglio sotto di sé.
«Ehm, non ci voleva qualche appuntamento o roba del genere, vero?», iniziò immediatamente a parlare Hayner, sentendosi leggermente in imbarazzo senza un motivo preciso.
«Oh, no». La giovane alzò finalmente la testa, mettendo così in mostra due grandi occhi azzurri come il cielo più sereno. «Va bene così, davvero.»
Indossava un leggero vestito completamente bianco, e Roxas si domandò come potesse non sentire freddo; i capelli lisci e biondi come il grano le ricadevano dolcemente sulle spalle, fatto eccezione per alcuni ciuffi della frangia che le coprivano parte della fronte.
Trasmetteva tranquillità. Troppa tranquillità.
Troppa tranquillità per essere la paziente di una clinica di recupero.
Così come quel luogo era troppo maledettamente bianco.
«Sedetevi pure». La  ragazza si fece nuovamente sentire e Roxas rabbrividì, pensando tra sé e sé che il suo tono di voce gli ricordava vagamente uno spirito, chissà perché poi.
O forse sì. Insomma, quella stanza lo faceva sentire a disagio, ecco tutto.
Si domandò se anche Hayner provasse la medesima sensazione; voltò appena la testa verso di lui, sperando di poter incrociare il suo sguardo, quando egli fece qualche passo in avanti, avvicinandosi alla giovane. Dopodiché si sedette a gambe incrociate, aspettando che anche Roxas potesse imitare il suo gesto; così quest'ultimo, dopo essersi lasciato sfuggire un rumoroso sospiro, lo seguì e prese posto accanto a lui nella medesima posizione, rimanendo in perfetto silenzio.
Poiché la ragazza tornò a concentrarsi sul proprio disegno, Roxas decise di approfittarne per scrutare con più attenzione i dettagli della stanza; notò che, sì, la stanza era completamente bianca -Il letto, le coperte, il comodino, il pavimento-, ma, nonostante ciò, c'erano due cose che spiccavano: la finestra e i disegni appesi sulle pareti.
La prima permetteva alla stanza di affacciarsi sul mondo esterno, o meglio, sul cortile della clinica, che forse era già qualcosa. Permetteva alla realtà di sfiorare appena la camera di Naminè, quel piccolo luogo che a Roxas parve quasi qualcosa di irreale, come il frammento di un sogno, o una casa fantasma.
Sulle pareti vi erano circa una ventina di disegni disposti in maniera alquanto disordinata. Forse furono proprio essi a colpire maggiormente Roxas, dal momento che sembravano essere stati fatti da una bambina delle elementari.
Parte dei disegni raffiguravano differenti luoghi; molti parevano sconosciuti a Roxas, ma presto si accorse che alcuni di essi mostravano sale della clinica stessa. Riuscì incredibilmente a riconoscere il cortile, la mensa e la sala TV.
Invece in altri disegni i protagonisti erano delle vere e proprie figure; ciò che in essi venivano più curati erano i capelli, poiché gli occhi e i vestiti erano soltanto un ammasso di colori provenienti dai pastelli. E anche in quel caso Roxas provò la medesima sensazione; gli parve di riconoscere alcuni degli individui rappresentati e si domandò se Naminè avesse la fissa di disegnare i pazienti del terzo piano, dato che in un foglio gli sembrò di vedere la capigliatura argentata di Riku.
Roxas spostò poi lo sguardo verso la parete destra, accorgendosi che da quella parte la disposizione dei disegni cambiava del tutto; lì i disegni, infatti, che erano sette al massimo, erano stati posti in modo da formare un cerchio, il quale al centro presentava un foglio completamente bianco.
I disegni circostanti invece erano strani, apparentemente privi di senso. Un paio presentavano soltanto una macchia rossa colorata in malo modo, altri raffiguravano un'ombra nera accanto ad un letto. Uno in particolare colpì Roxas; vi erano un paio di occhi neri, neri come la notte, ed era l'unico disegno colorato veramente, addirittura Naminè sembrava aver calcato, consumando probabilmente parte del pastello.
Parevano due voragini e al ragazzo vennero i brividi.
«Ti piacciono i miei disegni?». Roxas sussultò appena e si accorse solo in quel momento che Naminè lo stava osservando con un lieve sorriso dipinto sulle labbra; Hayner, al contrario, aveva la testa rivolta verso la parete sinistra e sembrava essersi da poco accorto della presenza dei disegni.
«Sono... Particolari.», balbettò goffamente il biondo, sempre più a disagio dall'atmosfera.
La fanciulla continuò a sorridere e spostò appena il capo per potersi rivolgere anche all'altro presente. «Siete qui per sapere che cosa vi attende il futuro, giusto?»
A quella domanda Roxas si morse un poco il labbro inferiore, imbarazzato; lui non credeva di certo a scemenze simili e non gli andava proprio di raccontare una menzogna, anche perché, se ci avesse provato, probabilmente gli sarebbe scappata una risatina o qualcosa del genere.
Fortunatamente per lui Hayner intervenì in suo soccorso. «Sì, esatto, visto che abbiamo sentito tanto parlare delle tue, mmh... Doti magiche, credo.»
E, in effetti, ciò che aveva detto il diciottenne era la verità.
Naminè Lannert era piuttosto conosciuta nella clinica, poiché da tempo indefinito riceveva come ospiti pazienti di ogni genere; dagli svitati del suo stesso piano, agli anziani dell'ultimo e c'era addirittura chi affermava di aver visto intrufolarsi qualche cuoca.
La ragazza veniva considerata come una strega, una specie di oracolo, e qui le voci si dividevano in due parti; vi era chi credeva fermamente in ciò che diceva Naminè (E solitamente erano gli schizzati e gli schizofrenici, o almeno, così la pensava Roxas), e, al contrario, vi era chi la considerava una svitata.
A Roxas non era mai interessato niente di niente e sapeva che nemmeno Hayner credeva a certe stronzate; lo aveva trascinato in quella pagliacciata soltanto per passare il tempo in maniera diversa, ecco tutto.
Naminè era sicuramente una ragazza particolare, dato che emetteva una strana aura che faceva venire i brividi a Roxas; nonostante ciò, ella sapeva nascondersi perfettamente, poiché difficilmente veniva avvistata dagli altri pazienti. In mensa si recava sempre tardi, quando rimanevano giusto una decina di persone, e alle attività pomeridiane pareva invisibile.
Coloro che non l'avevano mai vista potevano anche scommettere che fosse un fantasma.
Roxas si chiese se fino a quel momento non avesse fatto parte di quest'ultima categoria.
«Ma visto che dicono tanto che sei un'indovina», il biondo interruppe il corso dei propri pensieri a causa della voce del compagno, il quale aveva assunto il solito tono di sfida caratterizzato da una punta di sarcasmo. «vediamo, come ci chiamiamo?»
Roxas a quel punto tirò una gomitata all'amico che in tutta risposta gli fece una smorfia.
Insomma, sapeva che Hayner lo aveva trascinato lì dentro per passare il tempo, ma non gli andava che si mettesse anche a prendere in giro quella ragazza. Trovava stupido il suo passatempo e tutta la storia del prevedere il futuro, certo, ma in fondo si trovavano tutti in una clinica di matti, quindi era dura considerare un comportamento più folle di un altro.
Naminè abbassò leggermente le iridi e rimase in silenzio per una manciata di secondi.
Secondi nei quali il disagio di Roxas aumentò a dismisura; perfino Hayner corrugò un poco la fronte e schiuse le labbra, pronto magari a deviare argomento o far notare che la sua era una semplice presa in giro, quando la fanciulla alzò nuovamente la testa e indicò prima il ragazzo dagli occhi blu, poi il compagno. «Tu sei Roxas, e tu invece sei Hayner.»
I due dunque spalancarono leggermente gli occhi; dopodiché Roxas scosse un poco la testa e si sforzò di darsi un contegno, dal momento che, in fondo, non ci voleva molto a venire a conoscenza di un paio di nomi; Hayner invece riprese immediatamente la parola. «Wow, hai visto Roxas? Siamo famosi nella clinica!», e ridacchiò, come se fosse poi realmente divertente.
La fanciulla allora fece ancora quel suo sorriso strano, un sorriso privo di gioia, privo di qualsiasi sentimento. Pareva quasi galleggiare nel nulla, tinto di bianco, proprio come la sua stanza, come la clinica intera, il suo sorriso era proprio così, un bianco spento per quanto privo di macchie, due pietre prive di valore al posto degli occhi.
Giravano molte voci sul conto di Naminè Lannert, e la verità era che quasi nessuno conosceva con esattezza la sua storia, o comunque il motivo per cui si trovasse in quella clinica.
Vi erano pazienti che erano sicuri che soffrisse di anoressia, ma Roxas era sicuro che quella non era la verità; certo, la ragazza era esile, ma non in maniera eccessiva, anche perché, oltre al fatto che non si faceva problemi ad indossare vestiti a maniche corte, non pareva in ansia per i pasti.
Doveva certamente avere qualche sorta di depressione, anche se, ovviamente, non si sapeva di che tipo.
Nonostante i pazienti del terzo piano cercassero sempre di nascondere le proprie diagnosi a vicenda, talvolta a Demyx qualcosa sfuggiva sempre e grazie a ciò Hayner aveva scoperto che Naminè era finita in quella clinica per aver subito degli abusi sessuali da parte del suo patrigno, probabilmente.
Erano tutte voci, magari anche gli stessi pazienti del terzo piano non conoscevano il suo passato, ma, chissà perché, Hayner era propenso a credere a quell'ipotesi, per quanto forse fosse la peggiore.
Naminè allungò improvvisamente la mano e afferrò quella di Roxas, il quale sussultò leggermente, sorpreso da quel gesto così inaspettato; Hayner, dal canto suo, sollevò istintivamente il soppraciglio sinistro e guardò la fanciulla, incrociando per un attimo le sue pietre spente.
Dopodiché Naminè tornò ad osservare il ragazzo dagli occhi blu e lo costrinse con delicatezza ad aprire il palmo della mano sinistra.
Roxas si accorse che aveva la pelle particolarmente liscia e dura, sembrava essere quasi fatta di vetro. Non c'era nulla di morbido, ma soltanto la triste e solitaria perfezione di una bambola di porcellana, quelle che le bambine amavano tanto appoggiare sul comodino per permetter loro vegliare sul proprio sonno ma che, al tempo stesso, con quei loro grandi occhi, sapevano inquietarle.
La ragazza scrutò con estrema attenzione il palmo dell'altro, il quale, nel frattempo, spostò un poco gli occhi verso il compagno, incerto sul da farsi. La presenza di Naminè lo turbava parecchio, anche se, al tempo stesso, tutta quella situazione gli pareva surreale. Che cosa pensava di fare? Leggergli la mano? Ci fu un attimo in cui temette seriamente di lasciarsi sfuggire una mezza risata, ma, fortunatamente, riuscì a trattenersi. Non gli andava di ferire i sentimenti di Naminè, sarebbe stato particolarmente crudele da parte sua.
Ma una cosa era certa; una volta uscita da quella stanza un bel calcio ad Hayner non glielo avrebbe impedito nessuno. Accidenti a lui e alle sue malsane idee che lo costringevano ad affrontare situazioni così imbarazzanti.
Naminè finalmente lasciò la sua mano e accennò un sorriso in segno di ringraziamento prima di dedicarsi finalmente ad Hayner, il quale stava tentando in ogni maniera di non lasciarsi sfuggire qualche sarcastica battuta; si limitò dunque ad allungare la mano, continuando a torturarsi il labbro inferiore nella speranza di trattenersi.
Dunque la fanciulla rimase per una manciata di secondi immobile, con lo sguardo puntato verso il palmo di Hayner; dopodiché alzò la testa, sorrise per l'ennesima volta e lasciò la sua mano. «Abbiate la pazienza di restare qui ancora un po'. Non ci vorrà molto, ve lo prometto.»
«Possiamo stare qui tutto il tempo, tanto manca ancora molto alle attività pomeridiane!», a quella vivace risposta Roxas tirò una seconda gomitata all'amico e gli lanciò un'occhiataccia che lasciava trasparire il suo disagio e fastidio nel dover stare ancora in quella sottospecie di camera per fantasmi.
Il compagno rispose con una scrollata di spalle poco interessata prima di tornare a concentrarsi nuovamente sulla ragazza, notando che quest'ultima aveva tirato fuori dal proprio album un foglio completamente bianco. 
Bianco.
Come il materasso, le coperte, le pareti, il pavimento, il vestito.

Bianco camuffato.
Roxas comprese improvvisamente che quel bianco era soltanto un'enorme maschera che nascondeva il passato di Naminè. Una maschera indistruttibile, perché nulla avrebbe mai macchiato quel bianco.

I suoi occhi blu erano pietre, pietre vuote ormai, assorbite dal passato, soffocate da esso. Si erano spenti, e forse mai più si sarebbero riaccesi.
Nulla li avrebbe più macchiati. Quelle pareti non avrebbero mai permesso al passato di emergere, di invadere la stanza, di sporcare quella perfezione solitaria di una bambola di porcellana.
Pochi colori essenziali. I pastelli, i capelli biondi di Naminè e i suoi occhi azzurri. Azzurri ancora per poco però, perché Roxas temeva che presto anche essi sarebbero diventati bianchi.
Un castello di vetro tinto di bianco. Un castello che imprigionava non solo una fanciulla, ma anche il suo passato. Un castello costruito dalla fanciulla stessa; ella non desiderava nessun cavaliere. Quel castello era il suo salvataggio, quel castello che non permetteva al passato di emergere.
Naminè era un ammasso di nuvole cristallizzate che nascondevano un temporale.
La ragazza nel frattempo sembrò essere sul punto di terminare il disegno; utilizzò il pastello nero e colorò in malomodo prima di appoggiarlo sul pavimento, accanto alle proprie gambe. «Ho finito.», annunciò in un bisbiglio prima di porgere il foglio ai due, il quale venne prontamente preso da Hayner.
Il disegno raffigurava due teste viste da dietro, dal momento che vi erano solo i capelli, in mezzo ad un contrasto tra il nero e il bianco.
Inizialmente, infatti, entrambi i capi erano circondati dal nero più assoluto; successivamente, però, quello sinistro sembrava in qualche modo liberarsi da quell'opprimente presenza, al contrario dell'altra figura che continuava ad essere contornata quasi fino alla fine del foglio; l'ultima parte parte del disegno, infatti, era stato lasciata in bianco, formando così una striscia contrastante con il nero precedente.
Hayner corrugò la fronte e si grattò la nuca prima di mostrare il disegno alla ragazza. «Ma io chi sarei, scusa?»
A quella domanda Roxas sospirò rumorosamente e roteò gli occhi, domandandosi perché diavolo il suo migliore amico si ostinasse a trovare un senso in quell'assurdo disegno. Probabilmente aveva colorato di proposito i capelli con il medesimo giallo, in modo da confonderli. Insomma, giusto per creare un po' di atmosfera enigmatica.
Naminè sbatté più volte le palpebre prima di riprendere il disegno che stava colorando prima dell'arrivo dei due; afferrò il pastello verde e chinò la testa, ignorando la domanda del ragazzo. «Mi ha fatto piacere conoscervi.»
Quella risposta fece intuire ai due che l'incontro era terminato; Hayner dunque si alzò, non senza sbuffare rumorosamente, irritato che la sua domanda sia stata ignorata così, e si avviò verso la porta.
Roxas fece lo stesso, anche se più lentamente; barcollò un po' e si spolverò i pantaloni. Si voltò all'indietro e notò che Hayner aveva già abbandonato la stanza, dunque lanciò un'ultima occhiata alle pareti invase dai disegni.
«Posso chiederti una cosa?». A quella domanda Naminè alzò di scatto la testa e puntò le sue pietre verso Roxas, incuriosita, senza però rispondere.
«Quel disegno...», iniziò il ragazzo, indicando il foglio completamente bianco al centro del cerchio, sulla parete destra.  «Che cosa rappresenta?»
Naminè seguì con gli occhi la direzione indicata dal biondo; rimase in silenzio per un paio di attimi, come ipnotizzata, dopodiché sembrò illuminarsi un poco, ma durò soltanto un millesimo di secondo perché poi le sue pietre tornarono prive di valore. «Oh, quel giorno avevo soltanto deciso di rappresentare la mia stanza. E' stato molto facile. Tutti i fogli del mio album, prima di essere colorati, sono la mia stanza. Tutti, tutti quanti.», successivamente chinò nuovamente la testa e riprese a concentrarsi sul proprio foglio.
Roxas allora rimase immobile per qualche secondo, perplesso; dopodiché scosse il capo tra sé e sé ed uscì dalla stanza, raggiungendo Hayner che lo stava ancora aspettando in mezzo al corridoio con il disegno in mano.

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*Note di Ev'*
Questo capitolo è stato scritto principalmente per _NekoRoxy_, poiché mi ha avvertita del fatto che domani partirà e che, di conseguenza, non potrà leggere il settimo capitolo, in caso aggiornassi.
Avevo già in mente di pubblicare entro questo week-end, ma mi ci sono messa di impegno perché ci tenevo che lei riuscisse a leggerlo in tempo.
Ahimè, non sono proprio dell'umore. In questi giorni non immaginate che casini astronomici siano successi per delle... Okay, no, mi devo trattenere.
Dio Santo, non vedo l'ora di andarmene da questa città del cazzo. Ma lasciamo perdere e passiamo oltre.


Allora, ehm, l'analisi, boh, non saprei... Roxas e Axel stanno iniziando a parlare, ehm... Più o meno civilmente, uh? E abbiamo scoperto che Axel è entrato nella clinica di sua volontà.
Per il resto, beh, ci ritroviamo con un Hayner piangente (?) a causa di suo padre, e, infine, i nostri due eroi (?) si sono tuffati a capofitto nell'ennesima cazzata di Hayner.
Entra in scena qui il personaggio di Naminè e... Boh, sì, succede quel che succede.


Scusate per la pateticità dell'analisi, ma proprio non me la sento.
Che dirvi... La scuola è iniziata, mi devo abituare al cambiamento degli insegnanti, certo, ma direi che è andato tutto piuttosto bene.
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e, in caso abbiate letto, vi prego di recensire, poiché siamo in un sito in cui il confronto è ESSENZIALE.
Detto ciò, passo e chiudo.
Alla prossima.
E.P.R.

 

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