Half Moon

di Kiasan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Out of the question ***
Capitolo 2: *** Friend, my friend ***
Capitolo 3: *** Poco lunatici insomma! ***
Capitolo 4: *** La verità ***
Capitolo 5: *** Rifugio ***



Capitolo 1
*** Out of the question ***


Half Moon


1. Out of the question



Quella sera, Novembre si faceva sentire più che mai: il vento soffiava leggero, ma freddo e l'indomani, ne ero certa, il terreno sarebbe stato ghiacciato. Entrai nel parco della nostra modesta cittadina e mi incamminai verso il chiosco di caramelle, dove lavorava il mio migliore amico.
<< Sei in ritardo, Jenny!! >> mi ammonì lui, una volta giunta a destinazione. << Sono le diciannove e quindici e avrei dovuto chiudere un quarto d’ora fa! >>.
<< Ciao anche a te Jack >> dissi ironica buttandogli le braccia al collo.
<< Non sono corrompibile Jey, le caramelle le paghi comunque >> commentò facendomi il solletico per farmi staccare da lui.
<< Come vuoi >> risposi fingendomi offesa. << Sai già cosa prendo >> aggiunsi incrociando le braccia. Mi recavo spesso da lui per comprare svariati generi di caramelle per i miei fratelli, tutti addottati.
<< Scherzi a parte >> cominciò Jack, introducendo all'interno di un sacchetto di carta candida molteplici caramelle d'orzo; << Novità su tuo padre? >>.
Presi un profondo respiro, cercando di allontanare quella morsa di ferro che mi avvolgeva il cuore: al tempo del mio concepimento, diciassette anni fa, i miei genitori erano una coppia perfetta, sebbene uno fosse il sole e l'altra la pioggia. Tuttavia con il passare degli anni, il loro rapporto si colmò di disaccordi e litigi; i più frequenti riguardavano l'argomento "figli".
Mia madre aveva sempre sognato una famiglia numerosa, ma mio padre fu molto cinico: non voleva altri figli, io ero abbastanza. Sfiorando però il discorso "affido", si trovarono d'accordo (mi fu sempre ignoto il perché mio padre avesse accettato un bambino in affido e non un suo figlio); così decisero di prendere un neonato.
L'anno successivo però, gli assistenti sociali ci comunicarono che i genitori di Nicolas avevano seri problemi psicologici e quindi dovevano trovargli una famiglia fissa; questo argomento fu causa di ulteriori litigi, ma alla fine adottammo Nicolas; che attualmente ha otto anni.
Il piccolo cuore del bambino riportò quella luce e quel vigore che da tempo non sfioravano le mura di casa nostra e così, quando gli assistenti sociali ci comunicarono che due gemelle, Sophia e Gemma, ora di quattro anni, aveva bisogno di una casa poiché entrambi i genitori si erano dati la morte, mia madre non esitò a rispondere affermativamente e, seppur con smorfie, anche mio padre acconsentì.
Quando un anno fa, tuttavia, una bambina di dodici mesi aveva estremo bisogno di una famiglia, fu la goccia che fece traboccare il vaso: mio padre non voleva altri bambini in casa, mentre mia madre non ne volle sapere: se quella creatura aveva bisogno, lei non avrebbe fatto finta di niente e così fu.
Da quell’anno tra mio padre e mia madre era in atto una vera e propria guerra fredda, ma la causa non era Aurora: il loro rapporto non era più come una volta, punto.
Tutto ciò è testimoniato dal fatto che, una settimana fa, mio padre se n’è andato fingendo di avere problemi con il lavoro, ma ancora non abbiamo sue notizie.
<< Jay? >> il ragazzo mi riportò alla realtà, così risposi: << Ancora niente... E' difficile tirare su quattro bambini e due adulti solo con mille euro al mese ed io non posso fare niente: d'inverno nessuno assume diciassettenni. Mio padre è stato un tale egoista! Era lui che con il suo lavoro sostentava la nostra famiglia ed ora mia madre, con il lavoro che fa, beh…>> mormorai.
<< Non fingere di essere più preoccupata per la vostra situazione economica che per quella familiare >> mi interruppe, porgendomi le caramelle, gratis come sempre.
Io le presi e mi morsi il labbro: << E' mio padre... come ha potuto farmi questo? Come ha potuto farlo a lei, mia madre?? >> quasi urlai.
<< Ehi, calmati >> il ragazzo mi baciò la testa. << Vedrai che andrà tutto bene >>.
<< Se lo dici tu, mi fido >> mormorai riprendendo a sorridere.
<< Fai bene, ascolta i consigli dei più anziani! >> ammiccò.
<< Smettila di vantarti solo perché hai due anni più di me! >> sbottai. << Comunque, mi accompagni a casa? >> aggiunsi speranzosa: non che non mi piacesse camminare, ma dopo una giornata di allenamenti ginnici a scuola, l'unica cosa che desideravo era un letto e, dato che lui sarebbe tornato a casa in macchina, scroccare un passaggio divenne un' idea assai allettante.
<< No, scusa! Devo fare delle commissioni per un amico dall'altra parte del parco >> rispose.
<< Ok, fa niente >> dissi, nascondendo il dispiacere.
<< Ti voglio bene, Jay >> mormorò stringendomi.
<< Anche io >> detto ciò ci incamminammo in direzioni opposte.
Ormai all'uscita del parco, scrutai un'ombra salire sul grattacelo che affiancava quest'ultimo.
Aguzzai la vista poiché, credetemi, l’oscurità non aiutava affatto, e scoprì che l’ombra, con un’agilità straordinaria, stava raggiungendo la cima del palazzo arrampicandosi di terrazzo in terrazzo; di sporgenza in sporgenza e, ancor prima che io riuscissi a realizzare quello che stava accadendo, essa si lanciò.
Gli arti mi si immobilizzarono e non riuscii a fare altro che guardare quell’indistinta figura cadere nel vuoto. Giù, giù…
Cercai un modo per salvarla, ma neanche se fossi riuscita a muovermi avrei potuto afferrarla. Solo quando la figura fu a pochi metri da terra, cominciai a correre per coprire la distanza che mi divideva dall’uscita del parco, cercando disperatamente il cellulare nella borsa. Non fui sicura di cosa fosse scattato in me, ma sapevo di dover fare qualcosa, così una volta giunta davanti al ragazzo, che si era appena schiantato al suolo e appariva inerme, digitai l’unico numero che sarebbe potuto essermi utile in quel momento: il 118.
Sapevo che per quel ragazzo, che sembrava avere pressappoco la mia età, non c’era più nulla da fare: era caduto, o meglio si era lanciato in un tentato suicidio, dal grattacelo più alto di Welley, la nostra città, dotato di cinquanta piani ed era impossibile sopravvivere all’impatto con il terreno ad una tale quota.
In una città piccola come la mia, ci conoscevamo tutti o, perlomeno, eravamo al corrente dei volti di chi la abitava, tuttavia non avevo mai visto quel ragazzo moro e… beh, così bello! In quel momento, però, la sua bellezza era ben poco ragguardevole, quindi mi scossi e spinsi il tasto “chiama”. Ma nel momento in cui avvicinai all’orecchio il cellulare, il ragazzo aprì gli occhi.
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Il cellulare mi cadde a terra, si aprì e la batteria volò via. (Si, lo ammetto, non era molto resistente).
Il cuore quasi mi si fermò: era tecnicamente impossibile che il ragazzo fosse sopravvissuto. IMPOSSIBILE. Eppure quegli occhi cobalto mi fissavano in un misto di terrore e confusione ed io non reagii; semplicemente me ne stetti li, immobile.
Dopo quella che mi sembrò un’eternità il mio respiro tornò regolare e le mie mani in preda al tremolio iniziarono a stabilizzarsi.
Presi un profondo respiro e provai a parlare: << S-sei vivo…?>> il mio tono era più sconvolto del previsto.
Il ragazzo si sedette senza rispondere: riusciva a muovere perfettamente tutti gli arti e non vi era segno di alcuna lesione nonostante, mentre correvo verso di lui pochi secondi prima, mi era sembrato di intravedere uno squarcio lungo la schiena. Mi sporsi per controllare meglio, ma l’unica imperfezione erano la camicia, che possedeva una spaccatura lungo il dorso dove poco prima pensavo vi fosse una fenditura e dove non vi era traccia di sangue, ed i capelli, selvaggiamente disordinati.
Non aveva ossa rotte… era incolume!! Assolutamente ILLESO, contro ogni logica!
Tutto attorno a me divenne, allora, nebuloso e privo di senso; punti neri cominciarono a ballarmi davanti agli occhi e non ci volle molto perché io perdessi i sensi.
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Quando mi risvegliai dovetti fare appello a tutte le mie forze per ricordare ciò che era successo, ma poi serbai memoria e mi rammendai di tutto. Cercando a tastoni il cellulare, lo trovai inaspettatamente aggiustato: non era più aperto sul retro sebbene ero sicura che, cadendo, persino la batteria era stata scaraventata lontano. Lo accesi e scoprì di essere stata priva di sensi per dieci minuti! Presi un profondo respiro e arrivai a pensare (o più che altro a sperare) di essermi immaginata tutto in una specie di illusione pre-svenimento; tuttavia i ricordi erano troppo vividi! Decisi di respirare profondamente e di incamminarmi verso casa, accompagnata da uno strano presentimento.
Mentre camminavo diedi uno sguardo più attendo al cellulare e mi ritrovai con due chiamate perse provenienti da mia mamma, così le mandai un breve messaggio: “Non mi sono sentita bene, così ho preferito sedermi su una panchina e aspettare che il giramento di testa finisse, sto tornando a casa ora”. Controllando fra le altre chiamate perse, mi ritrovai improvvisamente a sorridere: Jack mi aveva chiamato sette volte! Ritardavo da casa solo cinque minuti e lui mi tempestava di chiamate, manco fosse mia madre!
“Iper protettivo mi dicono! Sto tornando a casa ora e sono viva, mi sono solo fermata su una panchina a causa di un giramento di testa… ti chiamo ‘sta sera! Ti voglio un mondo di bene”, scrissi il messaggio anche per Jack e provai ad ironizzarlo un poco, sebbene la testa mi doleva e non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che il ragazzo moro non era morto nonostante si fosse lanciato da un grattacielo. Era meno che non morto, cavolo, era stra-vivo! Semplicemente inconcepibile!!
Una volta a casa le gemelle mi abbracciarono ed io baciai i loro mossi capelli neri: << Scusate il ritardo >> dissi prendendo Sophia in braccio: lei era stata l’ultima a nascere, ci avevano detto gli assistenti sociali, e il parto era stato veramente traumatico, così spesso faticava a camminare.
<< Forza, finalmente Jenny è arrivata, tutti a tavola! >> esordì mia madre. I suoi capelli rossi e ricci, a differenza dei miei che invece erano leggermente mossi ma della sua stessa tonalità di colore, erano bellissimi, ma il volto aveva una perenne smorfia di dolore, nonostante tentasse in tutti i modi di nasconderlo ai bambini.
Dopo cena addormentai Aurora, la più piccola, e raggiunsi mia mamma in cucina: << Sai qualcosa di papà? >> le chiesi.
<< No… sai cosa significa questo, Jenny? >> mi disse sconsolata.
<< Mamma se è per i soldi… beh, troverò in qualche modo un lavoro! >>.
<< Il fatto che io e tuo padre sicuramente ci lasceremo ci impedirà, agli occhi degli assistenti sociali, di garantire una buona salvaguardia dei bambini, seppur tutti in adozione… e poi si, hai ragione, i soldi! Ma non ti permetterò di lavorare a diciassette anni, non ti rovinerò l’adolescenza >>.
Dopo pochi secondi di silenzio aggiunse: << Non ce li lasceranno mai >> sembrava veramente entrata nel panico.
<< Mamma, andrà tutto bene, non ci porteranno via nessuno! Ci conoscono e poi, beh, anche le gemelle ormai ti chiamano mamma >> questo la commosse e fui felice di non aver infierito sulla separazione: non pensavo fossimo già arrivati a questo punto ma, d’altro canto, sia io che mia madre sapevamo che prima o poi la disgiunzione sarebbe giunta: era inevitabile.
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La sera, nel letto, riuscii finalmente a rilassarmi un poco e a distrarmi dal pensiero ormai fisso del “ragazzo sopravvissuto alla caduta”.
<< Jack >> dissi, dopo ormai un’ora che ero al telefono con lui.
<< Si, è il mio nome! >> scherzò.
<< Scemo! Comunque… i miei si separano >> gliela buttai veramente alla selvaggia.
<< Piccola, mi dispiace >> la sua voce, più roca del solito, metteva in evidenza il suo dispiacere.
<< Mia mamma pensa che ci possano portare via i bambini per questo “disastro” famigliare… e anche perché facciamo fatica ad arrivare a fine mese >>.
<< Ma tua nonna? Non vi dava una percentuale al mese da un anno ormai? >> chiese.
<< Si, infatti, ma anche lei è alle strette e dopo Dicembre non riuscirà più ad aiutarci >> mormorai.
<< Vorrei fare qualcosa per aiutarvi, fidati piccola >>.
<< Jack, tu fai tanto così, standomi vicino. E poi è mia madre che ha bisogno di aiuto >> in quel momento fui tentata di raccontargli ciò che era successo all’uscita del parco, ma poi mi trattenni per evitare di finire chiusa in una camera con le pareti imbottite.
Perché io non mi ero immaginata nulla e non avevo bisogno di nessuna camera con nessuna parete imbottita… vero?
.

<< Addirittura la separazione? Non potevano aspettare che si calmassero un attimo le acque? >> sbottò la mia migliore amica.
<< Non vogliono più avere nulla a che fare l’uno con l’altra; lo sparire di mio padre ne è stata la prova e, magari, ora è alle Hawaii a godersi il sole con tanto di un drink >> lo ammetto: sfogarmi con lei mi aiutava molto.
<< Oh mio Dio! Guarda Jenny! >> Katrin mi prese il braccio e mi trascinò davanti alla vetrina di Swarosvki, indicandomi una favolosa collana argentata.
<< Quella sarà mia >> decise, scostandosi teatralmente i capelli biondi dal viso perfetto; tutti i pomeriggi per tornare a casa da scuola passavamo davanti a quel negozio, ed ogni volta ne restava incantata. Purtroppo però, non si interessava più di tanto ai miei problemi: era la ragazza più bella e popolare della scuola, a volte presuntuosa e poco altruista, ma era mia amica: per questo ero pronta a chiudere un occhio sul suo poco interesse riguardo ai miei “dilemmi” famigliari.
Circa a metà strada ci separammo ed io decisi di tornare a casa attraverso il parco: più animali da vedere, più verde, più tranquillità e più vento, amavo il vento.
Ormai a metà tragitto scrutai un bagliore in lontananza, sembrava fuoco, ma nel parco era severamente vietato appiccarne uno. Temevo ad avvicinarmi troppo, ma decisi di avanzare sperando che fosse un piccolo incendio causato da un mozzicone di sigaretta e facilmente estinguibile; tuttavia più mi avvicinavo, più riconoscevo la sagoma di una persona... una persona divorata dalle fiamme rosse e fameliche. Ok, fosse stato per me avrei girato i tacchi e me la sarei squagliata, ma così facendo, mi sussurrava la mia coscienza, avrei contribuito alla morte di un innocente, magari un ragazzino; così, spinta da quel pensiero, corsi verso la sagoma in fiamme. Una volta giunta a destinazione, mi tolsi la sciarpa di cotone e cominciai a soffocare le fiamme che invadevano il corpo di un ragazzo.
Un ragazzo moro, alto e bello… il ragazzo del grattacielo!? Mi si fermò il cuore quando capì che era lui, ma mi scossi immediatamente e, con mani tremanti, afferrai la bottiglia d’acqua che avevo nello zaino e la svuotai sul corpo del ragazzo. Per un breve momento sembrò privo di sensi, ma poi riaprì gli occhi cobalto e li fermò nei miei.
Dopo quella che mi sembrò un’eternità mi scostai e digitai il numero dei carabinieri: era già la seconda volta che lo sorprendevo nel tentativo di un suicidio e, per la seconda volta, ne era uscito illeso; la pelle infatti non possedeva bruciature, nonostante la maglia fosse colma di buchi. << No, ferma! >> posò bruscamente la sua mano affusolata sulla mia. Era la prima volta che udivo la sua voce: era… non trovai, ne trovo tutt’ora, parole per descriverla, avevo cognizione solamente di quanto fosse bella. Cercai di regolare il mio respiro affannoso e, invece di chiederli come mai stesse cercando in tutti i modi di uccidersi, mormorai: << Perché sei ancora vivo? >>.
Per un attimo restò a guardarmi, ma poi si allontanò da me con un semplice: << Hai soffocato il fuoco, ovvio che sono ancora vivo! >>.
Non sapevo nemmeno io cosa mi era preso, ma il suo comportamento mi infastidiva quanto mi attraeva: lui non moriva, punto! E questo non era logicamente possibile!
<< Dal grattacelo idiota!* >> ribattei. << Come hai fatto a sopravvivere?! >>.
<< Senti, senza offesa, ma non sembri nel pieno delle tue forze mentali >>.
<< Io. Non. Sono. Pazza. >> ringhiai.
<< Hai… visto, mmm, un’anziana signora andarsene? >> chiese tentennante, ignorando completamente la mia affermazione.
<< L’ho salvata, ecco perché ero pieno di fiamme! >> continuò, vedendo il mio viso confuso. << Pro-probabilmente era la cuoca della casa di riposo e qualcosa nella cucina è andato storto, l’ho portata fuori dall’edificio e sembrava non stare troppo male, ma poi le fiamme hanno cominciato a divorarmi e non l’ho più vista >> continuò indicando l’edificio dietro di noi.
Effettivamente quest’ultimo conteneva la cucina ove volontari preparavano il cibo per asportare alla casa di riposo non troppo lontano dal parco, ma una signora anziana non sarebbe mai potuta andare troppo lontano dopo essere quasi morta a causa di un incendio… non credevo neanche un po’ alle sue spiegazioni!
<< Mi vuoi far credere che la cuoca sia riuscita ad andarsene con il corpo per metà carbonizzato? >> domandai contrariata.
<< Senti, fai come ti pare, ma non chiamare i carabinieri! >>.
<< Guarda che lo facevo per te, ma se vuoi ucciderti fa pure, la vita è tua >> sbottai irritata.
Lui sospirò, lo sguardo triste, profondo: sembrava molto più saggio di me. Improvvisamente mi sentii ridicola: stavo litigando con qualcuno che neanche conoscevo e che magari aveva problemi molto più grandi dei mie!
<< Sei nuovo di qui >> affermai poco dopo, addolcendo un po’ la voce.
<< Si, mi sono trasferito dopo la morte di mio fratello: domani comincerò la scuola e recupererò con degli esami i mesi persi >>.
<< Oh, bhe, mi dispiace per tuo fratello… di hai tuoi genitori che avranno sicuramente un’adeguata cerimonia di benvenuto dai vicini >> da noi era così: i nuovi cittadini erano sempre stati importanti.
<< Non vivo con loro >> tagliò corto mentre si alzava, per poi congedarsi con un cenno della mano
.

SPAZIO AUTRICE: Ciao a tutti, eccomi qua con questa nuova fic! Ringrazio subito la mia beta (massi, cominciamo con i ringraziamenti che portano bene xD) poiché mi suggerisce sempre nuove battute divertenti e originali!! Senza perdermi troppo in chiacchere inutili, vi lascio alla lettura del capitolo, fatemi sapere che impressione vi ha dato :)

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Capitolo 2
*** Friend, my friend ***


2. Friend, my friend

<< Finiscila di guardarlo! >> mi sussurrò Katrin durante l’ora di biologia. << D’accordo che è carino, ma ce ne sono tanti altri!! E poi lui non mi sembra il tipo che si rende disponibile >> continuò senza farsi vedere dal professor Hurry: un uomo robusto dotato di grigi capelli e un viso simpatico.
<< Smettila, non lo sto guardando! >> ribattei, ma la mia amica aveva ragione: non riuscivo a smettere di ammirare il ragazzo moro del grattacelo che, come il pomeriggio prima lui stesso mi aveva accennato, aveva cominciato il percorso scolastico.
“ Vi prego di essere ospitali con il vostro nuovo compagno di classe, Ian Hall. Il signor Hall si è da poco trasferito in questa scuola e se supererà gli esami d’ammissione, beh, ce lo porteremo fino all’ultimo anno “, aveva annunciato il professore, con un umorismo che nessuno nella classe era riuscito a cogliere; compresa la sottoscritta.
<< Come vuoi >> concluse svelta Katrin che, evidentemente, aveva trovato qualcosa più interessante di cui parlare. << Comunque, mi accompagni a prendere la collana da Swarosvki oggi? >> chiese infatti.
<< Mmm, negativo, mi viene a prendere Jack: passiamo la giornata insieme dato che è il suo compleanno, scusa >> sussurrai.
Avrei infatti passato la giornata fuori casa con il festeggiato e alcuni suoi amici; mi sentivo un po’ in colpa poiché avrei lasciato a casa da sola mia madre con i miei fratelli, ma lei mi aveva assicurato che sarebbe andata ad aiutarla una sua cara amica.
<< Ecco, Jack si che è un figaccione! Ed è pure grande, dovresti mirare a lui, non a Hall. Bè, se poi a me capitasse lui mi accontenterei, ma… >> continuò a blaterare mentre io ero tornata a fissare Ian: come faceva a dire che era solo carino? Per quanto riguarda la bellezza del mio migliore amico ero d’accordo con lei, ma era una specie di fratello per me e non sapevo se sarei riuscita a vederlo diversamente.
<< Vuoi condividere il tuo pensiero con la classe signorina Brown? >> chiese il professor Hurry, rivolto a Katrin.
<< Oppure lei, signorina Murray, dato che è dall’inizio dell’ora che chiacchiera animatamente con la sua compagna di banco >> continuò stizzito.
<< No, scusi >> rispondemmo all’unisono io e Katrin: era incredibile agli occhi di tutta la scuola la nostra uniformità.
Quella mattina io e Ian ci limitammo a timidi sorrisi quando i nostri sguardi si incrociavano; non sembrava affatto un ragazzo con problemi mentali che aveva più volte tentato il suicidio, al contrario appariva normalissimo e un po’ impacciato quando una cerchia di ragazze del secondo anno cercarono di fargli la corte.

All’uscita salutai Katrin e corsi da Jack che mi aspettava appoggiato al muro della scuola: << Ciao bellezza >> mi salutò.
<< Auguri!! >> urlai buttandogli le braccia al collo. << Mi fai paura… hai vent’anni ora >> sbottai appena mi lasciò.
<< Già, devo stare attento a girare con te, potrei essere preso per pedofilo >> scherzò, spingendomi verso la sua macchina.
<< Come è andata a scuola? >> chiese una volta salito al posto di guida.
<< Come al solito… ah, Katrin dice che sei un figaccione >> lo informai ridendo ridendo.
<< Finalmente qualcuno che nota la mia bellezza >> giocò, mentre i suoi occhi scuri incontravano i miei.
Improvvisamente mi accarezzò la guancia: un gesto che faceva spesso, ma questa volta era presente molta più intensità e intimità. All'istante mi tornarono in mente le parole della mia amica; e se fosse nato veramente qualcosa fra me e lui? No, impossibile, noi eravamo amici da sempre e tali saremmo restati.
Ok, magari è bene precisare un’altra cosuccia… mmm… ecco, non avevo ancora avuto un ragazzo.
<< Ehm… ti ho preso il regalo >>, dissi, scostandomi un poco, sia da lui che dai miei strani pensieri.
Lui sorrise, cogliendo l’imbarazzo nella mia voce e, tornando quello di sempre, spacchettò il dono. << Oh. Mio. Dio. >>, urlò, stringendomi in un abbraccio soffocante. Gli avevo regalato i CD con le liriche da lui più amate e un libro di canzoni con gli accordi per la chitarra, che lui amava suonare.
<< Non sai da quanto aspettavo questo libro!! >> continuò, liberandomi dall’abbraccio.

Il pomeriggio passò veloce e mi divertii molto con lui e i suoi amici; tuttavia, quando ormai sarei dovuta tornare a casa, un amico di Jack, Sam, ci annunciò: << Probabilmente fra poco viene un amico a prendermi, aspettate prima di andare che vuole conoscervi? >> chiese, con una punta di maliziosità nella voce che io non compresi.
Così, poco dopo, un ragazzo tarchiato con un berretto in testa e le braccia colme di tatuaggi, ci raggiunse nella piazza di Welley e, notandolo, Jack chiese: << Eccolo, è lui vero? >>.
Sam annuì, per poi proporre a quest’ultimo: << Perché tu e James non andate a prendere qualcosa da mangiare alla piadineria? >>. James era un timido ragazzo dai capelli color carota che non negava mai niente a qualcuno.
<< Io ci sto: ho una gran fame! >> intervenne pimpante il nuovo arrivato, senza preoccuparsi delle presentazioni.
<< Non so… Dovevo portare Jay a casa più o meno a quest’ora >> rispose Jack, guardandomi.
<< No, tranquilli! A casa sopravvivranno >> dissi: non volevo impedire a Jack di stare con i suoi amici, così avvisai svelta mia madre del cambio di programma: quello era il giorno dedicato al mio migliore amico e sapevo che desiderava mangiarsi un crescione in compagnia dei suoi amici.
Rimanemmo, così, solo Sam, il ragazzo tatuato (Taylor, come scopri in seguito si chiamasse) ed io, poiché la strada era lunga e sarebbe stato più facile portare i crescioni in due dalla piadineria alla piazza, dove vi erano comodi tavoli da pic-nic sui quali avremmo cenato, proprio come il festeggiato amava fare.
<< Allora >> cominciò Taylor avvicinandosi a me più del dovuto. << Ti chiami? >> mi chiese, prendendo una ciocca dei miei capelli fra le mani.
<< Ehm… Jenny >> dissi scostandomi.
<< Non essere scortese! E’ maleducazione spostarsi quando un ragazzo parla con te >> disse in tono beffardo Sam.
Ok, quel ragazzo non mi era mai piaciuto, ma non mi aveva mai causato paura.
<< Si, infatti Jenny, non ti spostare!! >> gli fece eco Taylor; il cuore cominciò a battermi velocemente. << Forse è meglio se vado ad aiutare i ragazzi >> provai, ma il giovane tarchiato mi afferrò per un braccio e cominciò a slacciarmi il cappotto.
<< Dai, lasciami >> provai, ma Taylor riuscì nella sua impresa, mentre Sam rideva divertito.
Cercai in fretta una soluzione, ma Jack era ormai troppo lontano: i due ragazzi avevano archiviato il piano al meglio.
<< Uh, quanti strati >> disse Taylor, notando il gilet lungo che portavo sopra una maglia aderente e nera. << Jack sarà qui fra poco >> sbottai, sebbene sapessi che non fosse così.
<< E chi è Jack? Il tuo ragazzo? >> chiese beffardo il ragazzo, alzandomi il gilet.
Mi guardai intorno, alquanto disperata: non c’era nessuno, ovviamente! A Welley nell’ora di pranzo e di cena non c’era quasi mai nessuno in centro. Ciò non era affatto strano, erano le regole di una piccola cittadina di montagna. Cominciai a divincolarmi, assestando un paio di calci sulle gambe del ragazzo, ma le sue mani mi stringevano in una morsa di ferro.
Proprio mentre stavo entrando nel panico più totale, un’ombra si scagliò contro il mio assalitore e lo allontanò da me.
<> rise Taylor nel vedere Ian, per niente spaventato da lui.
Ian! Il mio cuore accellerò maggiormente i battiti, sempre che fosse possibile: il ragazzo che avevo considerato pazzo e forse irreale solo qualche giorno prima, ora mi aveva salvata.
<< Lasciatela in pace >> sbottò il giovane moro, frapponendosi a me e ai due complici.
<< Uh, si… altrimenti? >> lo derise Sam.
<< Altrimenti >> cominciò Ian, alterandosi. Si avvicinò all’ultimo parlante, lo prese per il colletto e lo sbatté contro il tavolo da pic-nic: aveva una forza incredibile!
<< Potresti farti male >> detto questo si girò verso di me e mi fece cenno di seguirlo.
<< Ma Jack si aspetta di vedermi qui una volta tornato dalla piadineria! Non posso andarmene >> dissi dopo qualche attimo di silenzio, quando vidi che mi conduceva ad una macchina, la sua evidentemente.
<< Se vuoi ti riporto da quei tizi >> fece sarcastico.
<< No, scusa… io >> sospirai. << Grazie >>.
Si fermò davanti all’unico autoveicolo presente nella zona, una peugeot grigia, e si voltò verso di me: << Così siamo pari >> borbottò e tirò fuori dalla macchina una sciarpa blu di cotone: << Ecco, l’ho ricomprata uguale >> aveva ragione, era identica.
<< Oh, non ce n’era bisogno >> dissi, sorpresa da tanta gentilezza; ma dopotutto gli avevo salvato la vita, che lo avesse desiderato o meno.
Mi riassettai il gilet grigio e cominciai a tremare: avevo lasciato il giubbotto sul tavolo da pic-nic dove il mio assalitore me lo aveva tolto, ma ormai era lontano e c’erano ancora entrambi i ragazzi, quindi il tornare a prenderlo era assolutamente escluso.
<< Tieni >> disse Ian, posandomi sulle spalle il suo cappotto; aveva un buon profumo. << Se vuoi ti riporto a casa >> propose, leggermente incerto.
<< Bè, te ne sarei grata >>.
<< Come mai da queste parti? >> chiesi, una volta in viaggio.
<< Dovevo prendere un modulo per l’iscrizione a scuola da far firmare alla signora Patt: mi ha ospitato nella casa che vendeva in affitto accanto alla sua e, dato che sono minorenne e non ho parenti in questa città, lei è una specie di tutore per me >> spiegò, ma io, com’era normale in una città piccola come la mia, sapevo molte cose sulla signora Patt.
Il resto del viaggio fu silenzioso, eccezion fatta per le indicazioni da me fornite che ci avrebbero condotto a casa mia. Una volta sopraggiunti a destinazione (mi lasciò all’inizio del vialetto di casa per non destare sospetti in mia madre), si riprese il cappotto nero e, nel farlo, sfiorò le mie braccia: questo suscitò in me una strana emozione, ma probabilmente ero solo stanca.
<< Grazie per il passaggio >> dissi, ma prima di scendere chiesi: << Non ti ho immaginato vero, quella sera, quando ti sei buttato dal grattacelo? >>.
Un lampo di incertezza attraversò il suo viso, ma subito dopo rispose con un semplice: << No >>. << E come fai ad essere ancora vivo? >> chiesi, ostinata.
<< Perché il secondo piano non è abbastanza alto >> mi sorrise, facendo spallucce.
<< No >> dissi, irritata da tanta testardaggine. << Ti sei buttato dall’ultimo! E anche se ti fossi lanciato dal secondo piano, è alquanto improbabile che tu ne sia uscito illeso… e poi perchè l’hai fatto? >> sbottai.
<< Non sarebbero affari tuoi >> cominciò, distogliendo lo sguardo. << Ma quando perdi il fratello e non vivi con i tuoi genitori, non è facile andare avanti. E comunque non era l’ultimo piano >>.
Improvvisamente capii che quel ragazzo aveva veramente bisogno di aiuto, di qualcuno accanto come Jack faceva con me. Mi sentii subito una stupida: forse mi ero veramente immaginata gran parte dell’accaduto di qualche sera prima a causa della paura.
<< Scusa la mia insistenza. Se hai bisogno di qualcosa, ci sono >> mormorai, sebbene queste parole non lo rassicurarono affatto.
Lui annuì: << Buona serata >>.
Usci dalla macchina: dovevo spiegare in qualche modo a mia mamma il perché fossi a casa prima di cena e non potevo dirle di Sam e Taylor, si sarebbe spaventata troppo! Avrei anche dovuto parlare con Jack, che si sarebbe sentito in colpa per quello che mi era successo, ma era il suo compleanno e non mi sarei mai permessa di rovinargli la giornata.

Dopo cena mi decisi a chiamare Jack per dirgli quello che veramente era successo, poiché inizialmente mi ero limitata a liquidarlo con semplici messaggi.
<< Cos’è che ti hanno fatto?? >> tuonò, quando gli ebbi raccontato tutto.
<< Vengo a casa tua >> aggiunse determinato.
<< Sto bene, Jack! Veramente, non è stato nulla di che >> provai in tutti i modi a persuaderlo, anche perché non avevo idea di come spiegare a mia madre la sua comparsa: lei sapeva che il festeggiato aveva avuto un contrattempo, così avevamo rimandato la cena.
<< Arrivo >> mormorò ignorandomi apertamente e riattaccò. Possibile che dovesse essere sempre così possessivo e iper protettivo? Sospirai e, uscendo da camera mia annunciai: << Mamma, Jack passa di qui >> cercai di essere disinvolta. << Oggi abbiamo faticato a stare insieme, inoltre vuole cogliere l’occasione per salutarvi, è da un po’ che non viene >>.
<< Lui non da mai fastidio >> rispose sorridente mia madre, che teneva in braccio Aurora.
<< Mamma, Jack è il ragazzo di Jenny? >> chiese curioso Nicolas, che stava giocando con le costruzioni. Mia madre scoppiò a ridere e rispose: << Non è a me che devi chiederlo >> ah, perfetto! Ora ci si metteva anche lei.
<< No, Nico, siamo solo amici >> quasi lo gridai, nonostante la cosa non mi avesse infastidito più del dovuto.
Gemma scoppiò a ridere. << E tu stai buona >> sbottai, per poi sorridere, vedendola incupirsi. Poco dopo arrivò Jack, il quale dovette trattenersi per non corrermi in contro e controllare che non fossi ferita; lo sapevo, glielo leggevo negli occhi.
<< Ciao Clare >> salutò lui, rivolto a mia madre.
<< Ciao caro, buon compleanno >>.
<< Grazie >> rispose sorridente l’interessato. << Ehi campione! >> disse poi rivolto a Nicolas, che sfoggiò il suo più grande sorriso: amava Jack.
<< E’ un problema se te la rubo un secondo? Poi posso aiutarti anch’io a portare a letto i bambini >> chiese dopo poco Jack, rivolto ora a mia madre.
<< Nessun problema, oggi è il tuo compleanno >> e così uscimmo nel nero della sera (io mi ero messa il cappotto di mia madre, senza darlo troppo a vedere).
Quando ci allontanammo da casa, mi squadrò e poi mi strinse forte, i nostri corpi si toccarono. << Ehi, davvero, sto bene >> gli dissi, ma lui non mi lasciò.
<< E’ tutta colpa mia >> mugugnò.
Gli lanciai un leggero pugno sul petto: << Smettila! L’unica cosa che mi preoccupa è che ho lasciato al tavolo da pic-nic il mio cappotto >> dissi.
<< Strano, non c’era quando sono tornato dalla piadineria >>.
<< Se lo sarà preso qualcuno, ma non c’è problema: ne ho un altro in soffitta >>.
Lui annuì, sebbene non fosse d’accordo con la mia affermazione: come ho già detto, a Welley c’è veramente poco traffico all’ora dei pasti. << Sono felice che sia andato tutto bene >> aggiunse poco dopo.
<< Non si sarebbero spinti tanto oltre >> dissi, per poi alzarmi in punta di piedi e baciargli la guancia. Scorsi una smorfia sul suo volto, ma non contraddisse la mia affermazione.
<< Un’ultima cosa >>, disse, invece. << Chi ti ha portato a casa e ti ha tolto dai pasticci? >>.
<< Ah… mmh… beh, Ian, quello nuovo >> risposi imbarazzata.
<< E ti conosce? >> chiese quasi gelosamente.
Beh, tecnicamente ci eravamo già incontrati, ma preferii tacere quei fatti e dissi semplicemente, con una nota teatrale alla Katrin: << Aveva visto una fanciulla in pericolo e si è sentito in dovere di aiutarla >>.
<< Tu, piuttosto >> dissi, dopo quasi dieci minuti di cammino silenzioso nel viottolo di casa con il suo braccio sulle spalle. << Che ti hanno detto Sam e Taylor sulla mia sparizione? >>.
<< Che te n’eri andata perché a casa avevano bisogno di te >> rispose semplicemente.
<< Poco astuto da parte loro, dato che casa tua è piuttosto lontana dalla piazza e tu >> continuò in tono d’accusa. << Non hai ancora voluto prendere la patente >>.
Sospirai, non lo biasimavo: nonostante avessi da poco superato sedici anni, avrei già dovuto avere la patente; tuttavia la tensione in famiglia e, nelle ultime settimane, la perdita (perché per quanto mi riguardava poteva anche essere moro) di mio padre, mi avevano impedito di cimentarmi anche in questo ambito. Inoltre, in una città piccola come Welley, si poteva arrivare ovunque in mountain bike.
<< Ehi >> disse Jack, vedendo il mio viso incupirsi, sopraffatto dal pensiero di mio padre. << Scherzavo >>.
<< Si, lo so… ma forse mi sto comportando veramente da debole. Insomma, capita ormai a tutti di vedere i propri genitori divorziare >> crudele, ma vera realtà.
<< Jay! >> mi rimproverò, con sguardo severo ma comprensivo. << Devi smetterla di esser così cattiva con te stessa: tuo padre vi ha lasciato, questo no che non capita a tutti >>.
Mi morsi le labbra, mentre un grosso nodo mi si formava alla gola.
Jack mi strinse forte, capendo come sempre il mio stato d’animo: << Ti voglio bene >> ammise, regalandomi tutto ciò di cui avevo bisogno; proprio così, all’udire quelle tre parole il mio cuore si alleggeriva, sempre lo faceva e sempre lo avrebbe fatto.
<< Cavolo se te ne voglio, io! >> dissi, cominciando a ridere istericamente e a stringendolo ancor più forte a me.

SPAZIO AUTRICE: Hola! Eccomi con il secondo capito :)
Come avrete potuto notare ho deciso di postare il lunedì di ogni due settimane, dato che la scuola mi sta letteralmente uccidendo in questo periodo xD Beh, buona lettura!!

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Capitolo 3
*** Poco lunatici insomma! ***


3. Poco lunatici insomma!


<> Ian era appoggiato con la schiena contro il muro della nostra classe e aveva in mano il mio giubbotto. << Ieri sono tornato a prenderlo >>, spiegò.
<< Oh, grazie >> gli sorrisi.
<< Perché hai due cappotti? >> Katrin comparse, come sempre, dal nulla.
<< Lascia perdere >> dissi ridendo.
<< E perché lui aveva il tuo? E tu quello di non so chi? >> insistette la mia amica.
<< L’avevo lasciato in centro ieri, e anche questo >> dissi indicando il cappotto che indossavo. << E’ mio >>.
<< Sarà >> Katrin sorrise maliziosamente a Ian e mi trascinò nel mio banco.
<< Racconta >> incalzò, una volta sedutasi vicino a me.
Fortunatamente la campanella suonò e riuscì a ridere astutamente al suo: << Salvata dalla campana! >>.

<< Jenny! >> mi chiamò Ian all’uscita. << Il professore di lettere si è dimenticato di darmi l’orario scolastico, ho assolutamente bisogno di averlo >> disse, affannato.
<< E’ incredibile quanto una persona possa essere strana >> dissi acida: ma perché mai? Questo me lo chiedo tutt’ora. << Un giorno vuole suicidarsi e l’altro, di punto in bianco, decide di voler diventare il primo della classe >>.
<< Senti >> cominciò rattristato dal mio commento sarcastico. << Non mi importa tanto se mi odi, ma se voglio migliorare la mia vita e farla divenire come quella di un normale ragazzo, ho bisogno di essere ammesso a questa scuola e, per farlo, non devo solo superare gli esami di ammissione, ma anche avere un buon rendimento scolastico al di fuori di questi >>.
Sospirai: << Ok, ok prendi >> e gli porsi il diario con gli orari settimanali.
<< Grazie >> la sua risposta non lasciava trasparire alcuna emozione. Fu allora che, come qualche giorno prima, mi sentii in colpa per averlo giudicato senza sapere realmente il perché delle sue estreme azioni.
<< Anche tu vai a piedi? >> chiesi, dopo un attimo di imbarazzante silenzio, quando mi ebbe riconsegnato il foglio con gli orari.
<< Già >>.
<< Mmm, senti so di essere un po’… ok, un bel po’, lunatica, quindi per farmi perdonare proporrei di fare un pezzo di strada assieme >> non seppi bene il perché di quella proposta, ma ero sicura che quel ragazzo aveva seri problemi ed io non mi volevo annettere a questi. Diedi un’occhiata a Katrin, la quale mi elogiò con uno sguardo sospettoso; che avesse cambiato idea riguardo a Ian?
<< Il tragitto è lo stesso, mi pare >> fu il suo atono commento.
<> chiesi, cercando di rompere il ghiaccio, dato che era già un minuto buono che nessuno dei due proferiva parola.
<< Non male, a parte inglese >> sorrise, sembrava meno freddo di poco prima.
<< A me invece piace molto >> lo informai. << Però non mi aiuta, in inverno, a trovare lavoro >>.
<< Come? >> chiese.
<< Si >> comincia, senza capire bene il perché di tanto stupore. << Hai presente i lavori al bar o al mare? Li hanno moltissimo bisogno di personale in gamba con le lingue, ma d’inverno, purtroppo, l’inglese non mi può aiutare >>.
<< Fin li c’ero arrivato >> mi interruppe con una risata: si, decisamente si era fatto scivolare via la mia acidità. << Ma non capivo –e non capisco– perchè hai tanta urgenza di trovare lavoro a diciassette anni >>.
Feci una smorfia: << Mio padre ha deciso di non voler più vivere con noi e, di conseguenza, non siamo più finanziati dal suo stipendio, in più mia madre deve mantenere quattro bambini e la sottoscritta con mille euro al mese e… >> immediatamente mi bloccai, ma che mi era preso? Non era da me raccontare i fatti a miei a uno (più o meno) sconosciuto.
Ian sbarrò gli occhi: << Cavolo! Mi dispiace… >> ma subito dopo il suo volto si illuminò. << Che c’è? >> chiesi curiosa, sciogliendomi un poco.
<< Uh… avrei un’idea >> cominciò con un sorriso raggiante sul volto. << Potresti darmi ripetizioni, così io evito di essere bocciato in inglese e ti pagherò, così potrai aiutare tua madre >>.
Era geniale e, anche se ciò che avrei guadagnato non sarebbe stato poi così tanto, non avrebbe fatto sicuramente male.
<< Bhe… di solito non mi faccio pagare dagli amici >> dissi incerta, ricorrendo alle buone maniere.
<< Se la metti su questo piano, dato che la scorsa volta mi hai dato del pazzo, possiamo pure fare finta di non essere amici >> fece spallucce, ricordandosi del mio malfatto comportamento.
<< No! Non intendevo questo >> sospirai. << Ma non puoi negare che, quella notte, tu sei sopravvissuto a qualcosa di atroce, e lo stesso è successo al parco >> cercai di farlo ragionare, questa volta parlando con calma.
<< Senti, probabilmente eri solo nervosa e ciò ti ha indotto a credere di aver visto cose che, in realtà, non sono mai accadute >> ecco che tornava freddo.
<< Cosa mi stai nascondendo? >> chiesi, guardandolo dritto negli occhi e provando in tutti i modi a infondergli fiducia.
Sospirò: << Nulla! Comunque io qui devo girare >> disse, indicando col capo il bivio davanti a noi. << Allora, sei d’accordo per le ripetizioni, o non vuoi perché pensi di darle a un’immortale? >> aggiunse, quando non mi vide proferir parola.
Il suo sarcasmo mi irritò assai: << Certo che sono d’accordo >> mormorai, ma nella mia voce, invece d’ira, vi era puro dispiacere: io stessa fui colpita dal mio tono, tuttavia non gli avrei permesso di notare il nuovo stato d’animo che mi aveva invaso. Che mi succedeva? Perché mi dispiacevo per una frase sarcastica di un pazzo?
<< Va bene, allora domani a scuola discutiamo i giorni d’incontro >> dettò ciò si congedò.

Quella sera, poggiata con i gomiti sul davanzale della mia finestra, osservai il cielo in tutta la sua bellezza: era nero come la pece e irto di nuvole, ma le stelle facevano di tanto in tanto capolino dietro di esse e la luna si ergeva alta formando una metà perfetta.
Per tutto il pomeriggio ero stata assai irritabile, per nessun motivo agli occhi altrui, ma io conoscevo benissimo il perché di quel mio malvisto comportamento.
Sospirai, ripensando alla insolente battuta di Ian, ma poi mi riscossi: dovevo smetterla di preoccuparmi per un pazzo sarcastico; avevo altri problemi più importanti di cui occuparmi.
Dicembre si avvicinava, per esempio, e noi non avremmo più avuto denaro a sufficienza, poiché mia nonna avrebbe smesso di sostenerci.
Mi scervellai fino a tardi, ma non riuscii in nessun modo a venire a capo a quell’ insistente problema; così, sfinita, mi buttai nel letto sperando in una notte consigliera.

La mattina seguente la casa era immersa nel silenzio più totale, eccezion fatta per il lieve volume della televisione, che mi faceva compagnia durante la colazione, dato che quella mattina anche mia madre dormiva. Addentai una fetta di pane e marmellata mentre il telegiornale introduceva le notizie, perlopiù sgradevoli.
<< Questa mattina è stato ritrovato il corpo squarciato di un ragazzo, la famiglia è accorsa poco fa sul luogo del delitto: il campo di grano a est di Welley >> annunciava la triste voce.
Sospirai, un poco spaventata per quello che il mondo stava diventando: i serial killer non si limitavano più ad uccidere, ma facevano anche scempio dei corpi delle vittime.
Poco dopo, mentre mi mettevo le scarpe, la notizia poco prima accennata– riguardante l’omicidio del ragazzo– fu illustrata ampiamente: << Il malvivente non ha lasciato indizi, se non il corpo squarciato della vittima, Matthew Rover. Nulla ci rimane se non controllare le impronte digitali lasciate… >> la voce del reporter era oramai diventata per me nient’altro che un sussurro: ero rimasta paralizzata alla vista della foto del ragazzo.
Jack lo conosceva, non si sentivano spesso, ma era comunque un suo amico. Era un ragazzo, come lui. Come me. Avremmo potuto esserci noi al suo posto.
Il corpo era veramente stato squartato, quasi fosse un animale l’artefice di quella ferocia. Spensi con impeto la televisione, mi infilai nel cappotto e corsi fuori di casa, prendendo al volo lo zaino. Quella mattina Ian non era a scuola, con mia grande afflizione, così non seppi nulla sulle ripetizioni; perlomeno fino alla terza ora, quando Katrin si degnò di aggiornarmi su ciò che sapeva riguardo il ragazzo.
“ Mi ha chiesto il tuo numero”, mi scrisse sul banco.
La guardai perplessa. << Ha detto che era importante, così glielo ho dato >> si giustificò poi a voce, facendomi l’occhiolino.
<< E come faceva lui a sapere il tuo numero? >>.
<< Il mio numero lo sa tutta la scuola >> si vantò in un sussurrò. Sospirai, scuotendo divertita la testa, in attesa del messaggio di Ian, che a quanto pareva, dovevo comunicarmi qualcosa di importante. Così fu infatti: alla quarta ora nascosi il cellulare, illuminatosi in quel momento, dentro la borsa, che posai indifferente sul banco.
“ Jenny, sono Ian. Scusa se oggi non sono venuto a scuola, ma questa notte non sono stato bene. Se vogliamo metterci d’accordo per le ripetizioni puoi passare a casa mia (affianco a quella della signora Patt) anche dopo la scuola”, diceva il messaggio.
<< Ripetizioni? Davvero? >> chiese Katrin, allungandosi per vedere meglio il messaggio. << E’ per aiutare mia mamma >> risposi, senza troppe specifiche.
Lei mi guardò male, così le sorrisi malinconica: << Si, lo so che il guadagno sarà ben poco, ma è meglio di niente, giusto? >>.
Non ebbe tempo di rispondermi perché il professor Cooper, di letteratura, pose i palmi sui nostri banchi e cominciò a studiarci. Sospirai: mi aspettava un lungo e noioso discorso sul rispetto e la responsabilità che, per la vostra sopravvivenza, vi risparmio.

Quando Ian aprì la porta di casa sua il mio cuore saltò due battiti: il viso stanco, il corpo debole e i capelli selvaggiamente pettinati in capo lo rendevano dolce e vulnerabile; non sembrava più lo scaltro e forte ragazzo del giorno prima. In quel momento, però, l’unico pensiero che pervadeva la mia mente era quanto, nel complesso, fosse carino.
<< Grazie per essere venuta >> mi salutò, scostandosi dall’uscio per lasciarmi entrare.
La casa era piccola, tutta su un piano: il corridoio dell’entrata si apriva in un piccolo salotto, la cucina e la sala da pranzo erano a destra, mentre a sinistra c’era la sua camera da letto e in fondo al corridoio dell’entrata una porta bianca che, probabilmente, conduceva al bagno. Nel complesso era graziosa e accogliente, l’odore di Ian aleggiava dolce in ognuna delle stanze.
Mi fece accomodare sul divano e cominciò ad elencarmi i giorni in cui ci saremmo potuti vedere per le ripetizioni.
<< Direi che la cosa migliore sia incontrarci domani, ossia venerdì, e il lunedì >> annunciai alla fine. << Perfetto >> disse sorridente, quasi si fosse dimenticato del “battibecco” del giorno prima. << Posso offrirti qualcosa? >> chiese poco dopo, del tutto a suo agio.
Gli sorrisi, adorando il suo modo di scostarsi i capelli dalla fronte (si, lo so, ero patetica), ma dovetti rifiutare l’offerta: << Grazie mille, ma devo andare a pranzare: sono appena tornata da scuola. Nel mondo dei vivi ci si va, sai? >>.
<< Spiritosa, veramente >> disse sarcastico, battendo platealmente le mani.
<< Lo so >> mi vantai, cercando di cancellare quel tono sarcastico che invadeva continuamente, perlomeno quando era con me, la sua voce. << Mmm… cosa hai avuto questa notte? >>.
<< Oh… la febbre >> sembrava l’avessi colto alla sprovvista… strano! << La febbre alta >> puntualizzò poco dopo.
Sembrava sincero, così decisi di smetterla con le mie solite paranoie mentali e dissi semplicemente: << Capito. Allora, ci si vede domani a scuola >>.
<< Si, vedrai che per domani sarò in forma smagliante >> ancora quel tono sarcastico!
<< Siamo nervosetti oggi >> constatai sull’uscio.
<< Taci! >> sbottò. Alzai un sopracciglio: che gli prendeva? << Poco lunatico >> borbottai, dandogli le spalle per andarmene. Tuttavia, com’è ovvio, la mia constatazione non fece che innervosirlo ulteriormente.
<< Se non mi sopporti perché ci tieni tanto alle ripetizioni? >> mi urlò, prima che io riuscissi a oltrepassare la soglia di casa per andarmene. Stavo per rispondergli a modo, ma poi mi ricordai dei suoi gravi problemi: doveva affrontare il decesso di suo fratello da solo, dato che i suo genitori erano chissà dove, e si trovava in una città completamente estranea.
Così, spinta da un moto di dolcezza (e di stupida impulsività), posai una mano sul suo braccio: << Capisco cosa vuol dire non avere nessuno con chi sfogarsi >> cominciai. << Ed io sarò felice di ascoltarti, ma se non smetti di essere così scontroso con le persone, finirai per restare solo… >>.
<< Più di quanto non lo sia già >> mormorò cupo, concludendo la mia frase che, sebbene in maniera meno diretta, avrebbe avuto un significato analogo alla sua.
Nacque così un sorriso sulle sue labbra e capii che le mie parole gli avevano infuso fiducia, ma allo stesso tempo lo indussero ad aggrapparsi a qualcosa che, in futuro, lo avrebbe indotto a gesti estremi. Ma io questo ancora non lo sapevo.
SPAZIO AUTRICE: Heila!! Ecco il terzo capitolo, spero sia di vostro gradimento, quindi vi lascio alla lettura e, per chi volesse, critiche e/o consigli sono sempre ben accetti!! :)

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Capitolo 4
*** La verità ***


4. La verità




<< Mmh >> cominciai incerta quella sera, nel tentativo di dire a mia madre delle ripetizioni.
<< Faccio ripetizioni al nuovo arrivato in città, così che possa più facilmente superare gli esami d’ammissione. In più mi pagherà qualcosa >>.
Mia madre, che stava lavando i piatti, si fermò e mi guardò sottecchi. << Ian, giusto? >>.
Le sorrisi, non c’era da stupirsi che sapesse il suo nome: a Welley tutti sapevo tutto (o quasi) su tutti.
<< Si, sei d’accordo? >> chiesi, per renderla partecipe.
<< Certo, se le ripetizioni non le farete a casa sua >>.
Scoppiai a ridere: << Mamma!! Lo conosco appena >> esclamai, arrossendo.
<< A maggior ragione >> rispose tranquilla. Come faceva a riuscire ad avere sempre l’ultima parola?! Sinceramente Ian ed io avevamo deciso di vederci a casa sua, ma non pensai fosse necessario dirlo a mia mamma... in quel momento per lo meno.
<< Jack non sarà geloso? >> domandò poco dopo lei, mentre le davo una mano a sistemare la cucina. << Ma che avete tutti in questo periodo? Jack è mio amico… punto! >> sbuffai.
<< Abbassa la voce signorina, i tuoi fratelli dormono e, comunque, tutti non ti faremmo questa domanda se tu e lui non vi comportaste in maniera diversa dal solito >>.
Beh, io non avevo mai avuto un ragazzo in vita mia, quindi forse mia madre si aspettava di vedermi impegnata ben presto… ok, la prima affermazione potevo risparmiarmela, ma fa parte di questa storia quindi, che vi piaccia o no, ingogliatevela.
<< Ok, ok ho capito l’antifona, vuoi rassettare la cucina da sola >> risposi sarcastica.
Lei scoppiò a ridere: << Mmh, non era proprio questo che volevo dire, ma hai fatto bene a provarci >>.
Le cacciai un’occhiataccia, ma continuai comunque ad aiutarla.


Dopo quell’allettante discorso con mia madre, vedere Ian non mi sembrava poi così terribile, così quando bussai alla sua porta per le ripetizioni fui sicura e disinvolta… beh, perlomeno fino a quando non lo vidi: i suoi occhi cobalto si fermarono sui miei, le sue labbra si aprirono in un sorriso indefinito e… caspita il suo il viso!!
<< Allora entri, oppure hai intenzione di rimanere lì a contemplarmi? >> il suo tono di voce era scherzoso, ma l’ultima parola mi fece avvampare le guance: avrei dovuto contenermi di più, sia nei pensieri che nelle azioni.
<< Guarda che mica sei sempre al centro dell’attenzione >> dissi, mascherando i miei pensieri.
Scoppiò a ridere, ma poi tornò serio e decise che era giunto il momento di rimboccarsi le maniche: << Bene, mettiamoci in camera mia >>.
Comincia con le spiegazioni di base sui verbi inglesi e sui vari tempi presenti; fu piacevole stare in sua compagnia e, dedussi, per lui valeva la stessa cosa, dato che stava cominciando, come me d'altronde, a sciogliersi un poco.
<< Ok, quindi i verbi che finiscono in “ing” si usano per il gerundio… questo lo sapevo già, ma non capisco cosa c’entra il gerundio nel passato >> era bellissimo con la fronte corrugata nel tentativo di capire qualcosa di quella per lui così difficile materia.
<< Sei una merda! >> sbottai ridendo. << Te l’ho già detto mille volte! La forma in “ing” nel passato viene tradotta con l’imperfetto >>.
Si grattò la testa: << Cazzo, è vero! >>.
<< Quindi >> cominciò dopo aver pensato un poco. << E’ giusta la frase: “I did sitting there”? >>.
<< Ti uccido! >> sbottai, stappando il suo evidenziatore verde, per poi colorargli la mano.
<< Ehi!! >> si lamentò, guardandosi la mano colorata.
<< Riprova e sarai più fortunato… o più colorato >> risi malvagia, impugnando la mia arma.
Il fatto che se avesse sbagliato la frase avevo pieno diritto (beh, più o meno) di colorarlo di verde mi rese veramente allegra.
<< Ok… allora: “I were sitting there”? >> provò. Cominciai a colorargli la faccia, al che mi buttò sul suo letto e mi bloccò.
<< Sei… tutto… colorato >> dissi, tra una risata e l’altra.
<< Si, ora vedi che ti faccio >> non l’avesse mai detto: mi ritrovai colorata di verde ovunque!
Alla fine della battaglia mi portò nel suo bagno e cercammo di ripulirci dalle macchie verdi di cui eravamo saturi.
<< Come va? >> chiesi, mostrandogli il viso.
<< Ce ne è un altro qua >> fu la sua risposta e, dolcemente, posò il panno bagnato vicino al mio naso. Il mio cuore cominciò a galoppare e per non scappare da quel tocco dovetti fare appello a tutte le mie forze.
Probabilmente lui se ne accorse, tant’è che sfoggiò un sorrisetto compiaciuto. << Smettila >> sbottai, scostandomi.
<< Stavo solo cercando di essere dolce >> ribatte innocuamente.
Alzai un sopracciglio e mi appoggiai al lavandino, decisa a cambiare discorso: << Allora, dimmi quella benedetta frase con il Past Continous >>.
<< I was sitting there >> questa volta era sicuro, d'altronde se non è zuppa è pan bagnato. << Quanto mi manca per essere pronto per l’esame? >> chiese poco dopo, una volta tornati in camera.
<< E’ il primo giorno! >> dissi ridendo. << Ti manca ancora un po’, ma vedrai che lo passerai >>.
Mi sorrise: << Quanto ti devo? >>.
<< Macchè!! Me li dai alla fine di tutte le ripetizioni >>.
<< Naaaa, aiutare le fanciulle in difficoltà è il mio forte, o sbaglio? >> mormorò maliziosamente.
Scoppiai a ridere: << La situazione sta veramente cadendo sul ridicolo, ergo ci vediamo domani a scuola >>.
Mi accompagnò fino alla porta senza ribattere (stranamente), ma una volta giunti sulla sogna mi bloccò e guardandomi negli occhi mormorò: << Grazie, per le ripetizioni >> e mi baciò la fronte.
Rimasi di stuccò, cos’era quell’atto di dolcezza?
<< Tu hai una doppia personalità >> risposi sorridendo.
<< E tu hai una corazza esteriore che non ti si addice >> lo sentì rispondere quando ormai me ne stavo andando. Forse perché ero ancora allibita a causa del suo comportamento, o forse per altro, fatto sta che non capi esattamente il significato di quella frase.


Quel mese passò in fretta, mentre Ian mi dava sempre più soldi del dovuto per le ripetizioni, liquidando ogni mia domanda a riguardo con un semplice: << Mio padre è un uomo ricco, molto! >>. Io e lui cominciammo finalmente a legare e cominciai ad ammettere, almeno a me stessa, che quel ragazzo mi piaceva ogni giorni di più.
Quella notte ( in seguito capii che in realtà era mattino presto) fui destata dal sonno da un colpo di tosse. Poi un altro… e un altro ancora. Qualcuno stava soffocando!! Mi tirai su dal letto con gli occhi sbarrati e colmi di paura. Seguì quel rumore che mi portò fino alla camera di Sophia e Gemma: la visione che ebbi fu veramente orribile: Sophia era in braccio a mia madre, con la testa china sul pavimento e tossiva a non finire: un attacco d’asma. Lei aveva sempre sofferto di questa tremenda malattia, ma rare volte stava così male.
<< Jenny! >> mi chiamò mia madre, mentre cercava in tutti i modi di sorreggere la bambina.
<< Devi andare dal signor Grayn a prenderle il ventoline, subito! >> il signor Grayn era il farmacista della nostra città, ma come avrei potuto andare in farmacia a quell’ora? Sarebbe stata certamente chiusa!
<< Vai a casa sua, siamo amici, capirà che abbiamo bisogno e ci aiuterà >> aggiunse, vedendo il mio viso confuso. Io annuii, senza capire troppo e mi riversai per le scale, infilandomi qualche vestito a caso, mentre Sophia era scossa da una nuova ondata di tosse.
<< Mamma dobbiamo chiamare anche il 118? >> chiesi, mentre aprivo la porta.
<< No, mi basta il ventoline, tu sbrigati!! >> esordì lei. << Se me la vedo male li chiaamerò io >> aggiunse, ripensandoci.
Corsi fuori il più in fretta possibile, mentre il cuore mi batteva all’impazzata. Non era la prima volta che Sophia si sentiva così male per l’asma, ma eravamo sempre provvisti di medicine, salvo questa volta! A quell’ora della mattina, ovviamente, in una città come la mia non vi era nessuno per le strade e riuscì ad arrivare velocemente (sebbene mi costò una pedalata ardua) alla casa del nostro amico farmacista.
Suonai il campanello con mano tremante e, sebbene riluttante, dopo qualche minuto (porello, l’avevo svegliato nel pieno sonno) si affacciò un viso pelato e alquanto assonnato. Mi ritrovai davanti un signor Grayn, magro come uno stuzzicadente, immerso nel suo smisurato pigiama grigio, che mi guardava circospetto. Tuttavia, appena mi riconobbe, aprì del tutto la porta e mi accolse con un sorriso: << Che succede bambina? Qui a quest’ora? >>.
<< Ehm… salve… Avrei bisogno del ventoline per Sophia, sta male e lo abbiamo finito >> balbettai, parecchio presa dal panico.
<< Tranquilla figliola, ho gli scatoloni in cantina >> mi tranquillizzò, vedendomi preoccupata. << Corro a prendertelo >>.
<< Grazie, ti faremo avere i soldi appena mia sorella starà bene >> gli urlai. << Entro oggi, sicuramente >> aggiunsi.
<< Stai tranquilla >> mi rassicurò l’anziano uomo. << Ora va, corri a casa >> non me lo feci ripetere due volte, saltai in sella alla bici e cominciai a pedalare freneticamente. Decisi di passare dalla campagna, avrei sicuramente fatto prima.
I campi di grano circondavano la strada sassosa che percorrevo (si, lo so, è orribile da transitare in bicicletta, ma mi avrebbe condotto a casa molto prima che se fossi passata dal centro di Welley), il cielo cominciava in quel momento a rischiararsi ed il sole fece lentamente capolino dietro alle montagne, congedando la luna, che formava un mezzo cerchio perfetto.
Inaspettatamente mi trovai davanti una persona... così, dal nulla! Probabilmente ero stata distratta dal panorama e ciò mi aveva impedito di avvistarla in lontananza.
Ah, no, non è vero. Le persone erano due: una stesa al suolo e l’altra in piedi, accanto alla prima. Improvvisamente realizzai cosa realmente stavo vedendo e caddi dalla bicicletta, facendo rovinare a terra il farmaco per Sophia.
Dinnanzi a me vi era una ragazza, all’incirca della mia età, con il corpo dilaniato e il sangue che sgorgava fuori dal suo corpo. Gli occhi vitrei della vittima erano rivolti al cielo e i vestiti stracciati avevano assunto il colore del sangue, che aveva impregnato persino i sassi vicini. Ma, cosa ancora più terribile, la persona in piedi era Ian, ricoperto di sangue su tutto il corpo ma, come notai in seguito, privo di lacerazioni, a differenza della ragazza. Come poteva perdere sangue se non era ferito? Cercai di riprendere a respirare regolarmente e chiesi: << S-stai bene? >>.
Ian si girò verso di me, il viso digrignato in un ringhio, le mascelle ben visibili; se fossi risalita in sella alla bicicletta, la vista del suo volto mi avrebbe fatta nuovamente cadere. Sembrò accorgersi della mia espressione spaventata, così chiuse la bocca, quasi si sentisse in colpa. Forse la banda di serial killer che aveva attaccato Matt aveva fatto lo stesso anche con Ian e la ragazza al suolo… ma il mio amico sembrava sano e la smorfia spaventosa sul suo viso non affermava affatto di appartenere ad un oppresso.
Immediatamente un pensiero si modellò nella mia mente prima che io potessi accettare anche solo l’idea di ciò che vedevo: il sangue che ricopriva il corpo di Ian non era suo, ma della ragazza stesa al suolo.
Ian era un assassino.
Deglutii e mi proibii di svenire o andare in apnea: Sophia aveva bisogno di me e niente e nessuno mi avrebbe fermato.
Così, piena di dubbi e assai sgomenta, risalii in sella e, recuperato il medicinale con mani tremanti, cominciai a pedalare.
<< Jenny >> sentii la voce di Ian chiamarmi. << Aspetta!! >> ma oramai ero troppo lontana per tornare indietro.


Sophia grazie al medicinale si era finalmente ripresa ed io avevo già riaddormentato anche le altre pesti, che preoccupate erano venute a controllare la salute della piccola gemella… ma per quanto riguarda me, beh, non riuscivo più a riprendere sonno. L’immagine di Ian e della povera ragazza continuava ad opprimermi la mente, provocandomi un orribile senso di nausea. Sospirai, cambiando posizione per l’ennesima volta e, quando la sveglia mi annunciò che erano le sette, ringraziai il cielo e mi alzai.
Ovviamente dormivano ancora tutti tranne mia madre, che trafficava in cucina.
<< Buongiorno >> borbottai.
<< Ciao Jenny… allora oggi non è l’ultimo giorno di ripetizioni per Ian? Insomma non sei emozionata? Si vedranno i frutti del vostro lavoro >> arretrai a quella sfilza di domande, come se mia madre mi avesse schiaffeggiato.
<< Oh… certo! >> riuscii a dire in risposta, per poi chiudermi in bagno.
Poco dopo stavo già uscendo di casa, quando mia madre urlò: << Non hai fatto colazione! >> ma, prendendo la scusa di non aver sentito, mi dileguai verso la scuola.
Tuttavia la solitudine lasciava le redini ai pensieri, che galopparono senza sosta nella mia mente. Magari era stato solo un’allucinazione e non avevo realmente visto Ian sporco di sangue, come quei miraggi che vedi quando sei nel deserto, solo che questo “miraggio” non era per nulla piacevole!!
Oppure avevo visto tutto, però Ian non era l’assassino ma una delle tante vittime del serial killer che si aggirava in città ed io non avevo notato le sue ferite perché, come mi era stato dimostrato per ben due volte, quel dannato ragazzo guariva in un baleno dalle lesioni.
Ma… eh, te pareva che non c’era un ma! Ma ciò non spiegava il volto del mio amico contratto in un ringhio, le mascelle e i denti in vista, quasi fosse un animale.
Giunta a scuola frenai la cascata di pensieri e domande che mi opprimevano la mente e, dato che non vi era traccia di Ian o Katrin, che arrivava sempre all’ultimo minuto, mi appoggiai al muro della scuola, come faceva sempre Jack.
<< Jenny >> il mio nome, pronunciato in quel modo pochi secondi dopo il mio arrivo, mi fece trasalire.
<< Jenny >> ripeté la voce di Ian. Mi allontanai da lui, senza sapere esattamente cosa fare davanti a un assassino… perché era un assassino Ian… o no?
<< Ti prego, lasciami spiegare >> continuò.
<< Senti, rispondimi solo a una domanda… sinceramente >> dissi in risposta, cercando di utilizzare un tono piatto e sicuro, ma ciò che ne uscì fu solo uno squittio.
Sospirò, sembrava così stanco! Aveva due grandi occhiaie sotto gli occhi e i capelli spettinati, tuttavia non mi lasciai ingannare dal suo aspetto.
<< Ok… Hai ucciso tu quella ragazza? >>.
Lui mi guardò, poi aprì la bocca, ma la richiuse immediatamente.
<< Ian >> la mia sembrò più una supplica, una supplica a rispondermi che non era stato lui l’aggressore, ma semplicemente un oppresso, proprio come la ragazza.
<< Io posso spiegarti ogni mia azione, ma ho bisogno di tempo… vediamoci all’entrata del parco, oggi, dopo la scuola… tanto ti saresti comunque fermata per darmi ripetizioni >> la sua frase era satura di momenti di pausa.
<< Che giustificazione c’è ad un omicidio? >> quasi strillai.
<< Non ho detto che mi sarei giustificato, ma che ti avrei spiegato le mie azioni >>.
<< Tu sei un assassino! >> cominciavo a diventare isterica.
<< Ti prego, Jenny! Lascia che io possa almeno parlare con te e poi potrai fare la tua scelta >>.
Sembrava così triste. Presi un profondo respiro: << E chi mi dice che non ucciderai anche me!? >>.
<< Pensavo che noi fossimo amici... >> mormorò, quasi acido, ma poi ad alta voce disse: << Come potrei farti del male? >>.
Quelle parole lasciarono in sospeso ogni mia intenzione di rispondergli a tono.
<< Ok, verrò e ascolterò ciò che hai da dirmi >>.
Lui mi regalò mezzo sorriso: << Grazie >>.
Fortunatamente vidi spuntare dietro le spalle di Ian la mia migliore amica: << Chi ascolterà cosa? >> chiese curiosa.
<< Il discorso sulla responsabilità del preside se non ci sbrighiamo ad entrare! >> le strillai e, prendendola per un braccio, mi allontanai il più possibile da Ian.
<< Sembra a me o questa era una fuga in grande stile dal tuo amore? >>. La spintonai, ma non dissi nulla: come avrei potuto contraddirla?


Durante l’orario scolastico cominciarono a subentrare le mie solite paranoie mentali, che in quel caso erano anche giustificabili, riguardo Ian. Insomma, e se veramente aveva intenzione di uccidere anche me? Dopotutto non aveva negato di essere il responsabile della morte della ragazza, che tra l’altro aveva portato lo scompiglio a scuola. Gli insegnanti difatti dopo aver riportato la calma nell’ istituto avevano deciso di dedicare un minuto di silenzio a Greta Dysen, ragazza diciottenne uccisa da un misterioso assassino.
Talmente il suo corpo era sciagurato che non l’avevo riconosciuta quella mattina ma, sentendo pronunciare quel nome, capii immediatamente chi fosse, sebbene ci conoscessimo solo di vista. Quella ragazza era assai emarginata dalla società per i suoi denti storti, i suoi terribili occhiali e il suo aspetto che non era di certo fra i migliori; questo spiega il perché si trovasse sola nel bel mezzo di un campo di grano all’alba di un giorno scolastico.
Cercai di concentrarmi sulla lezione di storia ma, neanche a dirlo, mi fu impossibile. Continuò così fino alla fine delle lezioni, allorché congedai Katrin, abbastanza incazzata per il mio comportamento taciturno e misterioso, e mi avviai verso il parco con il cuore ai mille.
Dopotutto avrei anche potuto deviare e correre a gambe levate verso casa, ma qualcosa dentro di me, strano e sicuramente molto stupido, faceva si che continuassi ad avanzare verso il luogo prefissato.
All’entrata del parco scorsi finalmente la figura slanciata di Ian, con le mani in tasca, in attesa. Presi un profondo respiro e, cercando di non essere codarda, lo salutai con la mano.
<< Grazie per essere venuta >> parlò con tono tranquillo, come se dovessimo disquisire sulla scuola o sul suo esame di inglese che si sarebbe tenuto l’indomani. Avrei tanto voluto rispondergli che non ero venuta per lui, ma per capire cosa diavolo stesse succedendo, ma fortunatamente tenni per me i commenti acidi.
<< Ti dirò la verità, nuda e cruda a patto che tu mi lasci finire il mio racconto senza scappare o chiamare la polizia >> cominciò, invitandomi a passeggiare accanto a lui.
<< Perfetto, è un serial Killer >> sbottai sottovoce, ma per qualche sfortuna Ian mi sentì e sospirò.
<< Non sono un serial Killer… tu però mi devi promettere che ciò che ti sto per dire non lo dirai a nessuno >>. Non potevo promettere una tal cosa! Vedendomi indugiare mi prese per le spalle e mi costrinse a guardarlo negli occhi: << Eravamo amici… >> ma poi si fermò e sembrò quasi intenzionato ad andarsene.
<< Ok, io ti voglio bene e ti prometto che terrò per me qualsiasi cosa tu mi stia per dire, a patto che se sei un assassino sfrenato e avido di dolore altrui provi a cambiare >> non so perché ne come avessi avuto la forza di dire questa frase e, una volta pronunciata, non sapevo se esserne orgogliosa o se prendermi a bastonate.
Lui fece mezzo sorriso, poi guardo avanti e cominciò a parlare: << Tanto tempo fa >> oh povera me! << Non avrai intenzione di… >> ma lui si posò un dito sulle labbra: << Lasciami finire, fai la brava >>. Io annuii, sebbene poco convinta e lo lasciai continuare.
<< Tanto tempo fa la chiesa narra che Dio, arrabbiato per il comportamento dell’uomo, mandò un forte temporale e incaricò Noe di salvare gli animali, accogliendo nella sua arca una coppia di ogni specie, poiché loro non avevano colpa >>.
<< La conosco questa storia >> lo informai. << “Ascoltare e basta” non sta nel tuo vocabolario vero? >> chiese divertito, per poi divenire nuovamente serio.
<< Tuttavia esistono anche altre forze, misteriose e potenti, che dirigono il corso della vita della nostra terra >> continuò.
. << Stai disertando la potenza di Dio? >> chiesi, senza capire il perché di questo suo escursus nel passato.
Rise: << No, Jenny. Stai zitta un secondo. Non sto dicendo che queste forze siano potenti più di Dio, ma che esse hanno una grande potenza e sono state incaricate, da Dio o da qualcun altro, di coordinare la vita sulla terra e quella della terra stessa. Tali forze comprendono quella della natura, la più importante, dato che la terra è composta da quest’ultima. Ci sei? >>.
Annuii, trattenendomi dal fare domande.
<< Bene, mio fratello mi ha raccontato che queste forze, questi Spiriti, per punire l’uomo non si sono accontentate della punizione di Dio e hanno creato una maledizione per tutti gli uomini che vivevano nella parte della terra, la cui superficie era illuminata maggiormente dalla luna, la parte sinistra >>.
<< Tuo fratello? >> chiesi, cominciando a perdermi.
<< Mio fratello… lui è stato colpito da questa maledizione ed è divenuto schiavo della luna >> fece una breve pausa, per poi ricominciare tristemente: << E io anche >>.
<< E… >> iniziai. << Cosa prevede esattamente questa maledizione? >> chiesi, desiderando di non sentirmi la protagonista di un orribile film.
<< Prevede la trasformazione di questi individui in essere spregevoli che, ogni qual volta la luna raggiunge la sua metà sinistra perfetta, vengono assaliti dall’istinto animale e tutto ciò che desiderano è uccidere >> mi spiegò.
<< E tu… tu sei…?>> non riuscivo a formulare una domanda di senso compiuto. Come poteva la luna creare una maledizione? Come potevamo esistere delle forze misteriose che trasformavano le persone? E Ian cos’era? Un Vampiro? Un Lupo Mannaro? Improvvisamente mi ricordai del fatto che lui non moriva, per lo meno non come potevano morire le persone normali. Ma, dopotutto, cos’è normale?
<< Sono >> cominciò Ian, costringendomi a guardarlo. << Sono un demone, Jay. Mi trasformo in pantera quando la luna raggiunge la sua metà perfetta >>.



SPAZIO AUTRICE: Ooooook, leggermente in ritardo… soooolo un mese xD Sorry, tra vacanza, fine della scuola e poca voglia questo capitolo non si scriveva.
Comunque senza perdere tempo in chiacchiere e scuse varie vi lascio alla lettura del capitolo, ringraziando chiunque volesse lasciare un commento. :D

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Capitolo 5
*** Rifugio ***


5. Rifugio



Una pantera. No, davvero?
<< Tutto quello che mi hai detto non ha alcun senso >> borbottai ma, anche mentre pronunciavo queste parole, sapevo che non mi stava mentendo.
<< Può non avere senso, ma è così >> rispose, cercando di capire il mio stato d’animo.
<< So che è difficile da accettare, per questo ti lascerò tempo per digerire la questione… però, ti prego, non… >> ma nemmeno lui sapeva come continuare la frase.
<< E’ a causa della maledizione che non puoi morire e le tue ferite si rimarginano in fretta? >> chiesi dopo un minuto di silenzio.
<< Diciamo che una maledizione più è crudele più deve celare un aspetto positivo, è la Regola che rende equilibrate le cose nel mondo e come tale va rispettata >> mi spiegò. << Inoltre noi non siamo eterni, anche se non moriremo mai di vecchiaia o per mezzo di un arma che ucciderebbe uno di voi. Nulla nella natura delle cose è eterno, nulla immortale. Solo un’arma è letale per noi, ma non ne so ne il nome ne la provenienza: mio fratello è morto prima di potermelo dire >>.
<< Ma… tuo padre o tua madre non potevano dirtelo? >> chiesi, cercando di ragionare.
<< Mia madre odia sia me che mio fratello e per quanto riguarda mio padre, se ne è andato anni fa lasciandomi solo con Kyle, mio fratello, quando ancora non mi ero trasformato per la prima volta in pantera. Mio fratello è stato colui che mi ha aiutato a comprendere questo nuovo mondo, ma poi… >> si fermò, senza trovare parole per concludere la frase.
Non capi perché mai sua madre dovesse odiarlo tanto, ma preferii non approfondire l’argomento: << Quindi non vi trasformate fin da quando siete bambini? >> non feci tempo a dirlo che mi resi conto della stupidità della mia domanda: un neonato-pantera?
<< No, la prima trasformazione avviene nel pieno dell’adolescenza. L’età varia da soggetto a soggetto e, prima che tu me lo chieda, questa maledizione si è protratta di generazione in generazione, quindi i miei avi abitavano nella parte sinistra della terra, quella più illuminata dalla luna >>.
<< Comincio a capire >> ammisi, più a me stessa che a lui.
Stavo parlando normalmente, come se la vera natura di Ian non mi avesse minimamente toccato, tuttavia avevo l’impressione di poter scoppiare da un momento all’altro. Insomma queste cose accadevano nei film e nei libri, non nella realtà! I Demoni non esistono, dannazione! Eppure sapevo che Ian non mentiva e che c’era veramente stata una maledizione. che aveva trasformato gli abitanti e le loro generazioni in pantere. Come mai ne ero così certa? Non lo so, lo sapevo e basta. O forse mi stavo fidando semplicemente di un mio amico.
<< Ti credo >> gli dissi dopo un lungo silenzio.
Mi sorrise, ma prima che potesse aprire bocca continuai: << Ti credo, Ian, però non so se riesco a sopportarlo. Insomma tutte quelle persone che hai ucciso… erano innocenti! >>.
<< Io cerco di non farlo, ma è inevitabile! >> interruppe la nostra passeggiata, colmo d’ira, e strinse i pugni. Si voltò verso di me, chinandosi in posizione d’attacco.
Arretrai spaventata: stava digrignando i denti come un animale.
Tuttavia più arretravo più lui si avvicinava, le mascelle contratte in un ringhio.
<< Ian >> mormorai, impaurita. Al solo suono della mia voce si fermò, prese un profondo respiro e mormorò : << Scusa >>.
Prese le distanze per paura di spaventarmi ulteriormente e spiegò: << I cinque (in media) giorni successivi o precedenti alla trasformazione il demone in noi è molto più in superficie di quanto non lo sia negli altri giorni del mese e quindi siamo più… >> si fermò per cercare la parola adatta. << Irascibili >>.
<< E pericolosi >> aggiunsi.
<< Anche >>.
Cominciai a sentirmi veramente male fisicamente, in quanto la testa girava all’impazzata e per non cadere dovetti tenermi ad un albero.
<< Stai bene? >> chiese.
<< Starò bene quando me ne andrò di qui… >> era la verità, dovevo andarmene. Capivo che lui non poteva sottrarsi a questa maledizione, ma ciò non giustificava il fatto che lui era un assassino. Aveva ucciso l’amico di Jack. Avrebbe potuto uccidere mia madre, i miei fratelli, Jack e… me.
<< Ti accompagno all’uscita del parco >> la sua non era una domanda, ma risposi comunque: << No, Ian, io ho bisogno di allontanarmi da… tutto questo >>. Tuttavia il ragazzo mi prese per il braccio: << No, aspetta… >> ma io non potevo più aspettare, dovevo andarmene, subito.
<< Sono venuta, ti ho ascoltato e ti riprometto di non dire a nessuno ciò che sei, ma lasciami andare >> il mio tono era piatto, freddo. Quelle parole lo trafissero e dopo qualche minuto, finalmente, mi lasciò ed io cominciai a correre.
Corsi il più lontano possibile dal ragazzo moro, corsi ovunque, ma non da Ian. Stremata mi fermai sotto un albero e mi sedetti sul terreno ghiacciato. Avevo bisogno di Jack, era inevitabile, lui era il mio rifugio, la mia cura. Presi il cellulare e, al primo squillo, la sua voce roca rispose: << Ciao bellezza >>.
<< Jack, mi vieni a prendere al parco? >> chiesi.
<< Si, certo… cosa succede? Stai bene? >>.
<< Sto bene, ho solo bisogno di stare un po’ con te >> cercai di sembrare convincente, ma invano. << Arrivo, ci vediamo all’uscita >> disse e riattaccò.
Sospirai e, mentre mi dirigevo verso l’uscita del parco, avvisai mia mamma che mi sarei fermata con Jack a mangiare qualcosa dato che Ian ed io avevamo deciso di dedicarci solo all’inglese e non avevamo mangiato.
Era una balla bella e buona ma quella bugia era sicuramente più sensata di un: “Mamma mangio con Jack perché Ian è una pantera mannara che si trasforma quando la luna raggiunse la sua metà perfetta”.
Potrebbe sembrare egoista da parte mia chiamare Jack e, senza nemmeno chiedergli se poteva e voleva, gli dicevo di venirmi a prendere al parco, ma tra me e lui era diverso: uno chiamava e l’altra veniva e viceversa; nessun rimpianto e nessuna costrizione, punto.
Non appena giunsi all’uscita del parco, vidi Jack appoggiato al cancello di ferro battuto sorridermi. Il sole, seppur lontano e privo di calore, gli baciava il viso, facendo splendere i suoi capelli castani.
Non lo salutai, non lo ringraziai, lo abbracciai e basta. Rifugiata fra le sue braccia rischiai di dimenticare tutto quel casino con i Demoni e desiderai non muovermi più da li.
<< Che sta succedendo, Jay? >> chiese dopo un secolo. Tutto ciò che riuscii a fare fu affondare il viso nel suo petto e mormorare: << Niente >>.
<< Ok, non sei obbligata a parlarne… che vuoi fare? >>.
Avrei voluto rispondere che volevo restare fra le sue braccia fino a che non avessi dimenticato Ian, ma non era ciò che volevo, non a mente fredda perlomeno. Non volevo dimenticare Ian, ma allo stesso tempo lo desideravo.
Non volevo farlo preoccupare per qualcosa che non potevo nemmeno raccontargli, così mi costrinsi a dire: << Andiamo a bere qualcosa >> e salii sulla sua macchina perfettamente pulita e ordinata: era un maniaco in quest’ambito. Beh, solo per quanto riguarda le macchine, perché il suo appartamento era tutt’altro che ordinato. Viveva con la sorella minorenne, mantenendo entrambi.
<< A bere? >> chiese stupito. Addio all’intenzione di non preoccuparlo. << A bere >> risposi come se niente fosse, ma entrambi sapevamo che c’era qualcosa che non andava: io non bevevo mai, se non per qualcosa di estremo, come quando mio padre se n’era andato. Lui non ribatte ma sapevo che era contrario alla cosa.
<< Allora, Coca o Fanta? >> chiese, sperando di distrarmi dal mio intento.
<< Vodka >> risposi e lui, sebbene con un sospirò, ordinò due bicchieri di vodka.
Trangugiai il primo bicchiere e ne ordinai un altro.
<< Jay, basta >> disse Jack al quarto bicchiere, impedendomi di berlo.
Gli lanciai un’occhiataccia, ma non potei ribattere perché il suo cellulare squillò.
<< Ah, cazzo! E’ Dario, il fratello di Greta. Gli avevo promesso che oggi sarei stato libero per parlargli, dato che sua sorella è stata uccisa e, stando ai suoi genitori, sta entrando in depressione >>.
<< Oh… >> riuscì a dire. Il suo discorso non aveva fatto altro che invogliarmi a bere altri bicchieri di vodka, ma quando mi prese il viso fra le mani e mormorò: << Ti prego, non fare stupidaggini >> cominciai a valutare anche l’opzione che prevedeva il fare la brava.
Ma quando Jack uscì per rispondere a Dario, l’effetto della vodka cominciò ad annebbiarmi la mente e non potei fare a meno di ingollare anche il terzo e prenderne un altro.
<< Ehi, quanti anni hai? >> chiesi il barista. << Diciotto >> mentii. << Voglio vedere la carta d’identità >> ecco, ti pareva che non dovesse cominciare a piantare grane pure l’ inserviente.
<< Ce l’ha il mio amico… è Jack, devi per forza conoscerlo, ha lavorato qui un paio di anni ed ora ne ha venti >>. Tuttavia il barista non sembrava del tutto convinto della balla, così continuai: << Me lo ha permesso lui >>.
<< D’accordo, Jack è un bravo ragazzo >>.
Felice e sbronza trangugiai altri due bicchieri di vodka. Tuttavia Jack rientrò e, vedendo la mia condizione cominciò ad incazzarsi con il barista per avermi permesso di bere così tanto, ma non riuscì a capire una parola di quello che diceva.
<< Tu me la paghi, cara >> mi disse, prima di prendermi sotto braccio e portarmi fuori di li.
<< Ma sei matta? Sei bicchieri di vodka? >> era proprio nero. << Se solo scopro chi ti ha ridotto così… >> mormorò a se stesso.
<< Andiamo a casa tua >> borbottai senza nemmeno sapere se queste parole le avevo pronunciate o solo pensate.
<< Per forza! Tua madre mi uccide se ti vede così >>.
<< Grazie Jack >> ma poi non riuscì più a parlare perché la testa mi girava da matti e avevo l’impressione di dover vomitare.
Una volta giunti a casa sua, mi lasciò sdraiare sul divano e cominciò ad accarezzarmi i capelli, mentre venivo scossa da una risata isterica di prima classe.
<< Come ti senti? >> chiese.
<< Di merda >>.
Sospirò e mi coprì con la mia coperta preferita, quella che profumava di lui. Tuttavia mi dovetti alzare immediatamente e correre, sempre se quell’avanzare barcollando potesse essere definito una “corsa”, verso il bagno.
<< Mi sa che devo vomitare >> annunciai, aprendo la porta. Lui mi corse dietro, ma lo fermai: << Resta qui, non sarà bello >>.
<< Non dire cazzate >> rispose, per poi sorreggermi fino al water. Avrei voluto ribattere ma stavo troppo male, così mi appoggiai al pavimento ed aspettai. Non dovetti indugiare molto che vomitai, mentre Jack mi teneva i capelli indietro e mi accarezzava la nuca.
<< Va meglio? >> chiese, quando mi alzai dalla tavoletta.
<< No >> mugugnai. Lui sospirò e mi andò a prendere un bicchiere d’acqua.
Restò con me tutto il pomeriggio, durante il quale fu più quello che vomitai di ciò che avevo mangiato in diciassette anni. Jack, quando vide che la questione sarebbe durata ancora a lungo, decise di chiamare mia madre per dirle che mi sarei fermata di più da lui poiché, a causa di una gastroenterite, non riuscivo a staccarmi dal wc.
La testa mi girava, sentivo le formiche su tutto il corpo e il mio stomaco si stava ribellando da matti, ma ero felice, in parte. Ero felice perché sapevo, in quel giorno più che in ogni altro, che Jack sarebbe stato con me, che non mi avrebbe mai lasciata.
Quando finalmente tutto finì, verso le sei di sera, Jack mi passò una salvietta con cui mi pulii la bocca.
<< Jack… ti voglio bene >> ammisi.
<< E io in questo momento ti strozzerei >> disse ridendo.
<< Fallo >> lo provocai con voce fievole.
<< Sei troppo debole, non mi divertirei abbastanza >>.
<< Giusto >> e mi lasciai cullare dalle sue braccia fino a che non dovetti tornare a casa.
Quando entrammo mia madre non fece domande: si fidava di me e, ancora di più, del mio migliore amico.
<< Te la porto in camera, dubito che possa camminare da sola, e poi tolgo il disturbo >> disse Jack a mia madre, mentre salutava anche i miei fratelli.
<< Certo >> rispose ridendo mia madre: era così buffo per lei che mi fossi ammalata?
Una volta giunti in camera mi pose sul letto e si inginocchiò accanto a me: << Devi mangiare qualcosa >> non era un consiglio, ne una domanda: era un ordine.
<< Naa, non mi va niente >> mi lamentai.
<< Ti prendo un pacco di Cracker >> disse, ignorandomi. Poco dopo fu nuovamente accanto a me, con i Cracker e un bicchiere d’acqua zuccherata.
<< Grazie >> gli feci un sorrisone.
<< Oh, Dio, quanto ti odio Jenny Murray >>.
<< Dammi un bacio e vattene >> gli dissi, desiderando solo di dormire. Ovviamente io intendevo un bacio sulla guancia o sulla fronte, come faceva sempre lui, ma forse non aveva capito ciò che intendevo o forse non aveva semplicemente voluto capire. Fatto sta che mi baciò.
Posò delicatamente le labbra morbide sulle mie e, di primo impatto, non seppi come comportarmi.
Insomma non avevo mai baciato nessuno prima d’allora e l’ultima persone che mi sognavo di baciare era proprio Jack! Allo stupore seguì lo sconcerto: c’erano mia madre e tutti i miei fratelli in casa, non era quello il luogo per un bacio. Tuttavia mi accorsi immediatamente che la porta era chiusa. E allora, solo allora, capii che desideravo anch’io, quanto lui, quel bacio. Spinta da questo pensiero socchiusi le labbra, ma poi m’invase un ulteriore sentimento: la paura mista a indecisione: Ian. In quel momento pensai a Ian. Perché mai se stavo contraccambiando il bacio? Perché mai il viso di Ian mi aveva attraversato la mente se volevo baciare Jack?
Tutto ciò frullava nella mia mente, mentre Jack mi stringeva a se. Improvvisamente capii che era sbagliato: lui era il mio migliore amico e nulla di più. Così mi staccai violentemente da lui, assai confusa.
<< Jay… >> mormorò Jack, stupito dalla mia reazione.
<< Io… non volevo, scusa Jack >> risposi. Non volevo cosa? Contraccambiare il bacio? Era vero? Non ne avevo la più schifosa idea.
<< No, non ti scusare. Non so perché l’ho fatto, io pensavo che tu… >> ma si bloccò e sospirò, alzandosi.
<< Sarà meglio che vada >> aggiunse e, congedandosi con un cenno della mano, aprì la porta e se ne andò.
Cavolo. Non mi piaceva per niente come si era conclusa la giornata. Ad essere sincera, mi aveva fatto schifo l’intera giornata.



SPAZIO AUTRICE: eccomi qui con il quinto capitolo, non è lunghissimo, ma spero vi piaccia ^^

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