Random nel barattolo della vita.

di thestarsareout
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Destino. ***
Capitolo 2: *** Accettazione. ***
Capitolo 3: *** Depressione. ***



Capitolo 1
*** Destino. ***


Non le piaceva ricevere quelle spintarelle –benché leggere- dai propri genitori, pensava di essere stata abbastanza chiara.

Ma i coniugi Roth non consideravano spintarella convincere un loro datore di lavoro ad affidare l’incarico alla figlia, no: era solo un onesto e sincero consiglio mirato a far emergere la valida e notevole professionalità di una psicologa che stimavano molto.

Sì, ci sapevano fare con le parole e sì, loro adoravano esercitare quel loro indiscusso potere ascendente.

Per qualche assurdo motivo credevano di aver utilizzato quel loro potere, anni orsono, anche su di lei spingendola a varcare la soglia del loro vecchio college e seguire le loro stesse orme.

Loro, loro, loro.

Da quando aveva tredici anni –ed intrapreso quella tortuosa e infelice fase denominata adolescenza- ogni litigio si concludeva con una sua invettiva: smettetela di psicanalizzarmi!

Sebbene Gloria Roth e Rio Roth fossero dei famosi e strapagati psicologi, non erano mai riusciti a capire la figlia. Probabilmente perché –come sempre- le cose avevano una diversa e distorta prospettiva se si osservavano troppo da vicino.

Così, pervasi da uno stupido senso di colpa, cercavano in tutti i modi di far lavorare la loro unica figlia, vittima del loro abbagliante successo, appena uscita dal college.

La loro superbia era troppo radicata per fargli comprendere che no, non aveva scelto il loro dannato college per una qualche sorta di idolatria. Semplicemente le piaceva.

I suoi amici le avevano di continuo domandato se credeva seriamente che la psicoanalisi fosse valida perché, secondo la loro scanzonata opinione, non valeva un penny, anzi – aggiungevano ridacchiando- valeva molti penny solo per coloro che disegnavano ghirigori sul taccuino a scapito dell’illuso sdraiato sul divano. Lei puntualmente sospirava e alzava le spalle: era ovvio che la psicoanalisi fosse valida fino ad un limitato punto e la maggior parte delle volte serviva semplicemente a dare delle giustificazioni a dei comportamenti umani, sgravando il paziente da quel macigno di responsabilità e dando un posto di rilievo ad un presunto lavoro dell’inconscio.

Poi sorrideva e scuoteva la testa, ammettendo che proprio in questo non c’era nulla di male: permetteva alle persone di sentirsi meglio, di conoscersi meglio e, soprattutto, di migliorarsi.

Probabilmente peccava come i genitori –in fondo buon sangue non mente- di megalomania, ma amava vedere i pazienti progredire verso ciò che avrebbero voluto essere e verso ciò che li avrebbe resi delle persone quanto più vicine alla felicità.

Lanciò uno sguardo impaziente all’orologio da parete che segnava le cinque del pomeriggio, poi al piccolo tavolino imbandito che dava ad ogni seduta il benvenuto ai magnifici cinque.

E’ un caso difficile, così l’avevano avvertita i genitori.

Non per la psicologa che stimate, dotata di una valida e notevole professionalità, rispose lei.

Così l’argomento non fu ripreso, ma le problematiche continuavano ad eccedere: dopo circa sette sedute, nessun miglioramento era all’orizzonte.

Il caso Lowener aveva destabilizzato e attirato come api al miele l’opinione pubblica per settimane intere, e l’eco del dramma di era sentito quasi in tutte le nazioni, anche sotto forma di trafiletto nelle notizie dall’estero.

Un uomo sull’orlo del baratro –forse anche di gran lunga oltre l’orlo- cercò di rapinare la banca che gli aveva pignorato la casa: per molti quello fu un assurdo mercoledì mattina alla banca più sicura del paese, degno dei migliori film thriller. Dopo le prime negoziazioni, durate per ore ed ore, rimasero solo cinque ostaggi all’interno che, a conclusione della vicenda, non riportarono ferite gravi ma, furono testimoni del macabro suicidio del signor Lowener.

La banca aveva dunque incaricato i celeberrimi coniugi Roth di occuparsi della riabilitazione psicologica dei cinque clienti.

Ma non facevano alcun progresso, sospirò stanca.

Pescò dalla sua maxi-bag il barattolo che aveva preparato per l’ultima sessione di terapia: se c’era una cosa che aveva compreso dalla sua limitata esperienza e dai suoi massacranti studi era che l’essere umano aveva un profondo bisogno di credere al destino.

Ciò succedeva sia per gli eventi lieti –chiamasi predestinazione- che per le disgrazie: infondo se fossero state prestabilite e dunque inevitabili nessuno avrebbe potuto sentirsi responsabile o capace di poter cambiare il corso del destino.

E lei aveva deciso che avrebbe creato per loro un destino.


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Capitolo 2
*** Accettazione. ***


Capitolo I - Accettazione.

 

«E’ il suo turno Marcus.»

La terapista, munita di un largo e accomodante sorriso, porse all’uomo il barattolo contenente i bigliettini.

In risposta ricevette un’alzata sarcastica di sopracciglio «Non parteciperò a quest’assurda pagliacciata.» Puntualizzò deciso «Sono qui soltanto perché la mia addetta stampa pensa sia un’ottima promotion.»

«Ora le dirò ciò che faremo, Marcus: prenderà un bigliettino, leggerà ad alta voce l’obiettivo che le sarà assegnato e come da accordi, sin da domani, provvederà a raggiungerlo.» Si premurò di precisare, in modo che il suo atteggiamento non contagiasse, con effetto domino, gli altri pazienti presenti.

«La prossima settima ho un’importantissima…»

«A quanto pare no.» Smentì riacquistando il suo iniziale sorriso «Ho parlato con la sua segretaria e ha detto che una vacanza le farebbe piuttosto bene, dal momento che non usufruisce delle ferie dall’anno scorso.» Così chiuse l’argomento, riavvicinandosi con il barattolo.

«Pensavo che tutto ciò dovesse durare solo poche sedute.» Borbottò mentre introduceva la mano in pesca del bigliettino.

«Infatti!» Confermò. «Questa sarà l’ultima seduta collettiva, per il resoconto della settimana prenderemo appuntamenti individuali.»

«Non sarà troppo giovane per quest’incarico?» Insinuò cinico, mentre le sue dita sceglievano il pezzetto di carta.

«Non troppo per capire che nessuno di voi sta facendo progressi.» Comunicò «Ad esempio, lei è ancora strenuamente ancorato allo stadio di accettazione.»

«Che per quanto ne so, è l’ultimo.»

«Nel suo caso è il primo caro Marcus dunque, dovendo ancora passare dal via, le mancano ben cinque stadi.»

 

Marcus.

No, sono Marcus Cevelant.

Ambito ricco scapolo.

Che fosse dannato quel giorno in cui aveva preso un appuntamento con il direttore della Banca Centrale.

Martedì, aveva detto lui, ma diamine, i contrattempi l’avevano costretto a posticipare a Mercoledì e..

Bam!

Un pazzoide –ovvero un enorme contrattempo- aveva costretto la sua segretaria a spostare ogni singolo appuntamento del pomeriggio, perché lui era rimasto bloccato lì.

E non era finita, perché la sua morte lo stava costringendo a perdere molto più tempo.

Riguardò il bigliettino: completare l’ultimo livello di Final Fantasy XIII.

Lo accartocciò con rabbia: aveva affari molto più importanti a cui pensare.

Agguantò il suo Blackberry, ma non premette il due delle chiamate rapide ma il cinque.

Il tuuu irritante si prolungò per molto, prima che qualcuno si degnasse a rispondere.

«Signor Cevelant?» Quella voce –che si limitò ad un sussurro- gli punzecchiò ancor di più i nervi.

«Abigail, perché sento solo dei mormorii?» Chiese stizzito.

«Perché Raelene mi ha proibito di rispondere quando leggo il suo nome sul display, ma io ho pensato: è sempre il mio capo, no? Anche se Raelene dice che…»

«Okay, Okay Abigail, sei stata brava. Ora prendi l’agenda e…»

«Signor Cevelant!» Tuonò una voce femminile, facilmente attribuibile alla sua efficientissima assistente che avrebbe dovuto –al più presto-  licenziare.

 «Lei per una settimana non sarà il nostro capo e la povera Abigail» Era certo che le avesse lanciato un’occhiata di rimprovero, subito dopo averle strappato di mano il cellulare «Deve considerarsi sollevata dall’incarico.»

Dettava legge, quella strega.

«Al mio ritorno ti licenzierò.» Sbraitò fuori di sé.

«Sì, dice sempre così» Sorrise, sì, sentiva il suo sorriso «Ma è troppo intelligente per licenziare la sua migliore assistente.»

Ed era dannatamente vero.

La piccola Raelene si era presentata al suo cospetto tantissimi –o almeno così gli sembravano- anni orsono, ed era proprio come la si poteva immaginare se menzionata in un libro.

Con capelli spesso indomabili, inevitabilmente rossicci, e occhi così verdi da perderti in un bosco di abeti nella stagione invernale.

Un verde deciso, quasi quanto il suo carattere, denso e ombroso.

La descrizione dei suoi caratteri principali, nella patente o in un sito d’incontri, avrebbero fatto pensare ad una sventola.

Ma quando entrò da quella porta cigolante, con uno zaino stracolmo in spalla, gli sembrò una ragazzina sperduta: il giorno del suo diciottesimo compleanno, invece di soffiare delle allegre candeline, impertinente chiedeva di lavorare per lui e, nonostante avesse il viso smunto, il corpo magrissimo e quella cascata di capelli che, avvolgendola completamente, la facevano apparire ancor più minuta, già emanava quel nonsoché di selvaggio e coraggioso, che l’avrebbe accompagnata per tutti gli anni a seguire.

In verità non c’era materialmente spazio per un assistente, ma lui aveva ugualmente pubblicato un annuncio, sperando in un compagno d’idee con il quale condividere oneri e onori del suo progetto.

Ma quando, dopo esser trascorsi ben undici giorni –sì, li aveva contati- durante i quali neanche un’anima pia si era fatta viva, la porta cigolò rivelando quella figura malconcia, si rese conto che non era nella posizione di essere troppo schizzinoso.

Aveva speso quasi tutti i suoi risparmi –no, tutti i suoi risparmi- per comprare quell’appartamento/alloggio decrepito, che contava due stanze e un bagno striminzito. Sperava che la sua impresa sarebbe decollata al più presto, ma quel presto sembrava molto molto lontano.

E il suo progetto, beh, era un progetto abbastanza indefinito.

Era bravo a investire, ma non su se stesso.

La sua vera e propria fortuna era stata che Raelene fu in grado di intuire come ciò avrebbe potuto volgere a loro favore.

 

Amava il suo lavoro.

Amava ciò che faceva, come lo faceva e quanta gioia potesse restituirgli.

Scegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua, disse Confucio.

Gli orientali avevano sempre avuto un pizzico di saggezza in più, rispetto a tutti i comuni e materialisti mortali.

Così in quel momento, nonostante sarebbe dovuto andare in un qualche negozio di giocattoli o godersi la vacanza forzata, non poteva fare a meno di leggere quelle cartelle una ad una, prendendo diligentemente appunti e figurandosi mentalmente lo show.

Si sentiva in pace con se stesso e, ogni volta che prendeva dalla ventiquattr’ore un nuovo caso, provava un senso di soddisfazione.

Quando sentì delle chiavi girare nella toppa pensò, in una frazione di secondo, a dei ladri.

Perché no? In fondo in quel periodo ci sguazzava nelle rapine.

La cosa sorprendente fu che rimase calmo, non individuò febbrilmente alcuna possibile arma a portata di mano e diede un altro lungo sorso di Romanée-Conti, versato nel bicchiere con abbondante generosità da una bottiglia molto speciale del 1945, che si era aggiudicato  per non sapeva –e non voleva sapere- quanti mila franchi svizzeri nel corso di un’asta dedicata ai grandi vini a Ginevra.

Quando delle ciocche rosse iniziarono ad esaltare il contrasto cromatico con la porta bianca, capì che l’ufficio –senza lavorare- era stretto anche per lei.

Ma -tanto per seguire il filo delle reazioni strane- la sua comparsa lo stizzì ancor di più del ritrovarsi davanti un coglione con una calzamaglia in testa.

Intanto perché quella pazza era capace di bruciare tutti i fascicoli se li avesse visti e poi –grazie al suo subconscio- temeva un giudizio sull’ammasso di vestiti gettati alla rinfusa in camera da letto.

Belinda, la governante, proprio quel giorno era di riposo: vacanza anche per lei.              

Ma comunque non ci sarebbe stata occasione di entrare in camera da letto, dunque che restasse pure allibita dall’arredamento della casa.

Dopo che la loro società era decollata, la prima spesa che quasi dimezzò il suo patrimonio fu proprio l’acquisto e il mobilio dell’ appartamento, che gli avrebbe scongiurato l’ennesima scomoda notte sul materasso dello studio. 

La scelta dell’ubicazione era stata semplice: facilmente raggiungibile ma riservata.

Così si ritrovava ad avere una splendida vista, dalla veranda, del quartiere più in della città.      

La questione arredamento, risultò un tantino più complicata: deciso a far da solo, dopo aver declinato tutte le offerte d’aiuto della popolazione femminile mondiale, si ritrovò costretto a lasciare un bel gruzzoletto dal giornalaio per fare incetta di tutte le riviste di arredamento disponibili sul mercato.

Era stato poi difficile –e costoso- seguire tutti i dettami di ogni pagina, ma il risultato l’aveva lasciato estasiato –ma, a quanto vedeva, non solo lui- e pago degli sforzi: era riuscito a rendere accogliente –nonostante fosse un single incallito- una casa che un arredatore esperto avrebbe trasformato –con tutte quelle nuove trovate hi-tech- in uno stabile senz’anima.

Raelene si avvicinò al divano sul quale era comodamente sdraiato, squadrandolo attentamente.

No, non lui: il divano.                   

«Salotto Privilege di Casa più Lusso, vero?» Fece una smorfia, continuando ad avvicinarsi per poi sfiorare con le dita il bracciolo più distante. «Divani di due, tre posti e poltrona, tutti con rivestimento in pelle e base in radica di noce di Persia.» Sospirò, mentre di sfuggita notava anche l’ulteriore accostamento: mobile contenitore, tavolino centrale e tavolino laterale. «Ecco l’asso nella manica che ti ha permesso di rifiutare l’aiuto di tutti.»

«Non avrei mai fatto entrare dei miei dipendenti o degli sconosciuti a casa mia.» Ci tenne a precisare lui «E comunque, tu non mi hai offerto nessun aiuto.» Ricordò reprimendo un moto di stizza.

«Questo perché ho un Salotto Geo a casa mia –liberamente ispirato a pagina tredici di Casa Idea- e non sarei stata la persona più indicata: ti sembro bionda

Marcus alzò gli occhi al cielo, sperando che lei non ricominciasse con la storia delle bionde.

«A proposito di dipendenti in casa mia, la chiave che ti ho dato è una chiave per le emergenze.» Puntualizzò, inarcando un sopracciglio.

«Infatti.» confermò irritata «Questa è un’emergenza.»

Fu solo in quel momento che si accorse della grossa busta che nascondeva con la mano sinistra dietro il corpo.

«Cosa mi hai portato?» Sbuffò «Il kit completo per una buona dipartita?»

«Per una buona partita, semmai» corresse ridendo scacciando via –come con l’involucro del pacco- la sua patina composta «Ecco una Playstation III.»

Aveva sicuramente chiesto consiglio al suo giovane nipote Lucas, per procurarsi quell’armamentario in così poco tempo ma lui, a differenza del bambino, non aveva iniziato a saltellare allegramente.

«Te lo puoi scordare.» Avvisò perentorio, eliminando qualsivoglia inizio di spiegazione «Sono in vacanza, non basta?»

«Faremo così: io chiuderò un occhio e lascerò che quei fascicoli rimangano incolumi nella tua ventiquattrore, tu ascolterai ciò che devi sapere ed inizierai a giocare

«Hai quasi lo stesso cipiglio della dottoressa.» Mugugnò l’uomo, maledicendo –per la trentasettesima volta giornaliera- quel mercoledì della malora.

«Beh, prima di correre a salvarti, abbiamo a lungo discusso il tuo caso» confessò «E chissà perché eravamo entrambe convinte che l’ultima cosa che avresti fatto sarebbe stata attenerti a ciò che avresti dovuto fare.»

«Hai controllato, quando ti avevo chiesto di farlo, se sia una vera dottoressa?» ricordò sviando il discorso.

«No.» Puntualizzò «Perché mi fido.» Fece un’altra delle sue smorfie «Ecco, la fiducia è un’altra cosa sulla quale dovresti lavorare.»

«Ma queste non sono informazioni riservate? Esiste ancora il segreto professionale?»

«Marcus, queste sono informazioni che chiunque potrebbe dedurre dal tuo comportamento» scosse la testa «In ufficio ci chiediamo quando inizierai a pretendere notizie dettagliate sulla vita del fattorino che consegna il pranzo.»

«Divertente

«No, non direi.» Sbuffò.

 

«Inizio ad accennarti qualcosa –o almeno, quello che ho capito- di ciò che mi ha spiegato Abigail.»

«Pensavo ti avesse aiutato Lucas.» Disse sorpreso, chiedendosi come mai non sapesse nulla della passione di una sua dipendente per questi giochi.

«Lucas infatti ci aiuterà, ma solo al momento del gioco effettivo.» Chiarì  «Dovrebbe essere qui da un momento all’altro.» Guardò preoccupata l’orologio.

«Perché non Abigail?»

«Perché, Signor non avrei mai fatto entrare dei miei dipendenti o degli sconosciuti a casa mia, Abigail prova profonda soggezione –come ti sarai reso conto- nei tuoi confronti e non riesce a giocare se in tensione.»

Rispose con un borbottio, prevendendo un lunghissimo pomeriggio.

«Per quanto riguarda i titoli precedenti, non preoccuparti, ognuno è una storia a se e non c’entra niente con i suoi predecessori. Anche se – a detta di Abi- conoscere i vecchi titoli sarebbe meglio, ma non per la trama, per lo stile di gioco. Comunque ogni capitolo, e questo Final Fantasy ne è la prova, ha sempre delle innovazioni di gioco, di stile di combattimento e di tanto altro.» Fece un sospiro, cercando di ricordare le informazioni più importanti «Storia e trama sono molto più lunghe di qualsiasi altro gioco e, come se non bastasse, il gioco è pieno di missioni secondarie che portano al suo completamento non prima di settanta-ottanta ore. Ovviamente con anche solo venti o meno potresti finire la trama principale, ma –a quanto pare- il bello di Final Fantasy è l'immensità del suo mondo pieno di sorprese, dettagli e soprattutto stupore.» Scoccò un occhiata perplessa indirizzata alle sue stesse parole e poi, dedicando un altro sguardo preoccupato alle lancette, proseguì. «Arrivata a questo punto, ero troppo confusa per capire appieno la trama, da quel che ricordo è uno strano mix di amore, politica, religione, predestinazione, conflitti e –sì, sembra assurdo- crescita personale. Lo scopo è quello di vivere la storia di sei protagonisti, affrontando lungo la  strada enigmi e combattimenti che li renderanno sempre più forti, e quindi capaci di affrontare nemici più pericolosi.»

Uno scampanellio alla porta la fece sussultare, impedendole di realizzare ciò che il suo sermone le aveva suggerito: che razza di cura era quella?

Quando la rossa –oh sì, fai pure come se fossi a casa tua- aprì la porta, un ragazzino di soli dieci anni spuntò baldanzoso, dirigendosi –quasi come conoscesse esattamente dove fosse ubicata la nuova Playstation III- verso lo schermo della tv Full HD, dilungandosi poco ad osservare il costoso ingresso.

I bambini avevano fiuto solo per i giochi: era stato e sarebbe stato sempre così.

Per collegare tutto ci mise –sorprendentemente- pochi minuti e gli rivolse la parola solo quando –inserito il Blue Ray- aveva già il joystick in mano, pronto a mostrare il suo mondo.

«Ci troviamo a Cocoon, un mondo dove le persone vivono in tranquillità, protetti dai fal’Cie. Però, questo paradiso viene sconvolto da un misterioso contagio organizzato da un fal’Cie corrotto, venuto dal terribile mondo di Pulse, per conquistare la popolazione di Cocoon e piegarla così al suo volere. La venuta di questo terribile nemico porta il Sanctum, massimo organo governativo di Cocoon, a organizzare uno spostamento di massa per evitare la diffusione di questa maledizione.» Si fermò un attimo, dandosi pena di controllare se l’adulto lo stesse seguendo «Allora gli abitanti di Cocoon organizzano delle rivolte nel tentativo di difendere la vita dell’intera comunità. Conosceremo sei personaggi diversi, come Lightning, Snow e Sazh che, nonostante combattono per ragioni diverse, saranno degli eroi del popolo tentando di far finire la guerra.» Fece un sospiro, prendendo tutta l’aria che aveva consumato parlando continuamente senza fermarsi un attimo.

Marcus lanciò un’occhiata contenuta –ma disperata- alla sua assistente e sperò che quella serata finisse il più presto possibile. 

«Dov’è che siamo?» chiese, stropicciandosi stanco gli occhi.

«Cocoon» Ricordò, con una nota di rimprovero, Lucas. «Questo gioco non è caratterizzato da scontri a turni ma da combattimenti in tempo reale, dove, sfruttando le proprie barre ATB…» Fece un cenno verso lo schermo, mentre lui si dilettava in un giro di prova «…Si possono attaccare i nemici in libertà. Come vedi hai il controllo di un solo personaggio, mentre gli altri si muovono per conto loro, a volte ti seguono a volte ti stanno davanti. Il combattimento si attiva ogni volta che ti imbatti in un mostro, e coinvolgerà anche tutti quelli vicino: se sarai abbastanza bravo da prenderli di spalle…» mosse velocemente le mani sul joystick «…Potrai riempire le barre della catena…»

 

Parecchi involtini primavera, riso saltato alla cantonese, gamberi al curry e germogli di bambù con funghi stufati dopo, avendo saggiamente sfruttato il servizio take away del ristorante cinese del centro, entrambi con un buon vino -offerto prodigalmente dalla fornitissima cantina di casa Cevelant- si stavano finalmente rilassando, seduti l’uno accanto all’altro sul divano.

Con i piedi appoggiati sul costoso tavolino, ridacchiavano ricordando le pessime performance dell’uomo clamorosamente sconfitto da un bambino.

«Tu dovresti finire Final Fantasy, non Lucas.» Rimproverò Raelene.

«Beh, non è specificato nella terapia come si debba raggiungere l’obiettivo» Ragguagliò furbo, mostrando il suo rinomato sorriso da squalo. 

«Sei sempre il solito!» Accusò con ilarità la ragazza, abbracciandosi gli addominali per le continue risate.

Gli erano mancati questi momenti, si ritrovò a pensare Marcus.

Quando, circa sette anni prima, si era presentata alla sua porta e –per pietà- le aveva ceduto il suo posto sul divano –cosa che procurò a lui diversi mesi di insopportabile mal di schiena- non aveva mai e poi mai creduto che potesse andar a finire così.

Il suo conto in banca era di cinquecentosettantadue dollari e giornalmente galoppava verso un triste doppio zero, così un’assistente totalmente gratis –tranne che per vitto e alloggio- gli faceva comodo, in barba se fosse stata una ragazzina!

In quei mesi, che precedettero la –ancora allora- inarrestabile ascesa, loro si riscoprivano ogni giorno legati sempre più a doppio filo: la cosa era stata piuttosto inevitabile, dal momento in cui entrambi avevano tagliato i ponti con la loro famiglia e sentivano ben palpabile quel senso di solitudine che quando ti invadeva era difficile da debellare. Ma da quando, piano piano, il conto in banca era lievitato –con un guadagno che ammontava a 53 dollari al secondo- le responsabilità, ovviamente, erano centuplicate.

Come le attenzioni delle riviste, dei mass-media, e i giornalieri tracolli nervosi.

Nonostante il conto –ed i meriti- fossero in comune, lei ufficialmente preferiva essere l’assistente e così, in ufficio –con il contegno che era solita darsi- era raro sentirla ridere e i momenti privati diminuivano sempre più, con la stanchezza che li sfiancava e i vari inviti ad aste, meeting e ricevimenti che lo coinvolgevano continuamente data la sua non recente entrata nella classifica degli scapoli d’oro.

«Sai, ho guardato il fascicolo di Jack Langert…» Disse divenendo improvvisamente seria, come accadeva ogni volta che si parlava di lavoro.

Gli ci vollero alcuni istanti per riagganciarsi al discorso: la sua mente aveva fatto una lunga digressione in ricordi e pensieri e il vino, certamente, non aiutava.

«E così hai lavorato…» Punzecchiò fingendosi arrabbiato.

«Beh, qualcuno deve pur non battere la fiacca!» Si scusò risoluta, scoppiando per l’ennesima volta a ridere.

Il vino la rendeva più bella, considerò spontaneo.

Poi scosse la testa, come per riordinare i pensieri.

«Dimmi di questo Langert…» Spronò, interessato, cercando una posizione più comoda su quel divano dal quale ormai non si alzava da ore.

«Il suo Secret Whish è la regia: sì, vorrebbe diventare un regista di successo.» Spiegò, recuperando dalla ventiquattrore alcuni fogli «Mentre giocavate, ho controllato anche il materiale multimediale che ha allegato: sono degli ottimi lavori, ovviamente solo cortometraggi realizzati con l’impiego di scarse apparecchiature, ma credo che anche il dipartimento sarà della mia stessa opinione.»

«Perfetto, hai già recuperato tutti i nostri contatti?» Lo squalo iniziava a mostrare i denti.

«No, perché volevo proporti un’idea, balzana ma credo d’effetto.» Si schiarì la voce, anche lei in trepidazione «Guardando gli altri fascicoli, mi sono imbattuta in Candice, Candice Lowe, il cui Secret Whish è il grande schermo. Però, dando un’occhiata al suo portfolio, è chiaro come lei non abbia abbastanza esperienze per spuntarla in quest’ambiente e, soprattutto, conoscenze: fa parte di un’anonima compagnia teatrale della Virginia dalla quale è destinata a ruoli di bassa lega e risalto. Era chiaramente visibile, però, la scintilla nel suo ultimo personaggio teatrale, perciò vorrei darle un’occasione. E’ una ragazza davvero bellissima, e credo che potrebbe iniziare a farsi conoscere intanto per la sua avvenenza e, nel frattempo, fare un po’ d’esperienza cinematografica…»

«Così vuoi combinare gli eventi…» Dedusse Marcus, interrompendola.

«Esatto, e stavo in particolare pensando ad una pubblicità: per Jack, abituato ai cortometraggi, sarà una passeggiata e, con l’ottima troupe e attrezzatura a sua disposizione, ne verrà un capolavoro che lo renderà celebre sul mercato. Per quanto riguarda Candice, lei avrà l’importante opportunità di farsi un’idea del mondo della cinepresa e comunque far conoscere il suo volto a tutti i consumatori, passando nei teleschermi ogni ora.»

«Vincono entrambi.» Ne dedusse soddisfatto.

«E potrebbe nascere una storia d’amore, o comunque potremmo manovrarla…» Aggiunse lei, conscia di come il pubblico sbavasse letteralmente per quelle cose.

«Per quanto riguarda il loro passato?»

Quella era la parte più importante, essendo proprio quella che apriva lo show di Secret Whish.

Infatti, a inizio diretta, il presentatore raccontava le vicende antecedenti all’intervento del programma televisivo, dunque spesso storie di tenacia e caparbietà, di giovani o anziani –non c’era alcun limite d’età- che avevano lottato strenuamente –ma il più delle volte senza alcun risultato- per i loro sogni. Nella seconda porzione di Secret Whish, l’ospite entrava in studio e parlava di sé, delle sue passioni e rinunce, di come avesse quasi perso la speranza. Nella terza, partiva un filmato che mostrava come Secret Whish lo avesse aiutato attivamente a raggiungere i propri sogni, come gli avesse dato quella chance che nessuno gli avrebbe mai dato ma, sottolineando sempre la sostanziale predestinazione dell’ospite al successo. La quarta parte era la più seguita anche se, a dirla tutta, quando andava in onda il programma lo share era predominante e continuo: a quel punto l’ospite lavava i suoi panni in pubblico. Ovvero, sputava fuori tutto ciò che in quegli anni –che talvolta erano davvero tanti- si era tenuto dentro alimentando il rancore. Dunque una lista dettagliata di tutte le persone che l’avevano ostacolato, di come l’avevano ostacolato e l’avevano fatto sentire non all’altezza dei suoi sogni. Il più delle volte era la famiglia, poi gli insegnanti, il datore di lavoro e così via. L’ospite era ben lieto di prendere parte attiva alla quarta porzione, come già pattuito da contratto: era qualcosa liberatorio e rinfrancante, e dava una sferzata di vita ad un ego che era stato troppo a lungo maltrattato. D’altra parte gli spettatori ci andavano a nozze, insomma: chi non avrebbe voluto godersi uno sfogo pubblico? Erano attratti sia dalla curiosità che dalla speranza di, un giorno, stare al suo posto.

Così ricevevano quotidianamente migliaia di fascicoli provenienti da tutte le parti del mondo, in cui svelavano i propri sogni nel cassetto sperando di essere scelti.

«Candice è francese ma vive in Virginia dall’età di tredici anni, quando scappò di casa.» Informò, andando poi a spulciare l’altro dossier «Jack… Jack fa tre lavori pur di permettersi di affittare le attrezzature…»

«Scadenti…» Ricordò.

«Sì, appunto.» Confermò, alzando un sopracciglio.

«E’ una grande, ottima idea.» Si complimentò, lasciandosi trasportare dall’entusiasmo, per poi abbassare rauco la voce. «Davvero bella.» Ribadì, allungando il braccio appoggiato allo schienale del divano per sfiorarle il viso.

Aveva la pelle morbida e, per un secondo soltanto, pensò di poterlo fare.

Beh, a dire il vero avrebbe potuto farlo, sedurla, dal primo istante in cui l’aveva vista.

Un venticinquenne vs una diciottenne: sarebbe stato un gioco da ragazzi.

Lui sarebbe anche potuto essere insicuro sulle proprie capacità intellettive e manageriali ma, per quanto riguardava quelle fisiche, era più che conscio della sua impeccabile forma, dei capelli biondi –che gli avevano regalato numerosi punti bonus per scalare la classifica degli scapoli d’oro- e degli occhi azzurri.

Ma non l’aveva fatto.

Perché -per la prima volta- qualcuno l’aveva guardato con fiducia e rispetto e l’aveva considerato adulto.

E responsabile.

Così si era dato da fare, non rimpiangendo mai –neanche per un secondo- l’entrata nella sua vita di Raelene.

Il suo era l’unico compleanno che ricordava e, quell’anno, avrebbe fatto qualcosa di spettacolare.

Voleva scoprire qual era il suo Secret Whish e realizzarlo.

No, non avrebbe rovinato tutto.

 

 

 

Ecco il secondo capitolo e la trama che si fa più definita. 
Che ne pensate?

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Capitolo 3
*** Depressione. ***


Capitolo II - Depressione.

 

La dottoressa Roth si avvicino a Cliff con il suo solito sorriso, accorgendosi delle lacrime trattenute a difficoltà.

«Stia tranquillo» gli diede una dolce pacca sulla spalla e poi gli mostrò il barattolo: era il suo turno.

«Ma può non capitare il mio» obiettò lamentandosi triste.

«E’ proprio questo il nostro scopo» sospirò, cercando di essere il più chiara possibile «Il rapinatore vi ha costretto ad intrecciare volenti o nolenti le vostre vite: noi le legheremo definitivamente. Non tutto il male viene per nuocere e, magari, ne uscirà qualcosa di buono da quest’esperienza».

«Ne dubito» pronostico l’uomo che, al ricordo di quelle ore, gli veniva ancora la pelle d’oca.

E non solo.

«Legga a voce alta» rammentò la dottoressa quando ebbe pescato il bigliettino.

«Visitare Parigi».

 

La dolcissima psicoterapeuta gli aveva assicurato che tutte le spese sarebbero state coperte dalla banca, ma lui non trovò –neanche al pensiero di vacanze gratis- una qualche sorta di stimolo per affrontare con  entusiasmo quell’avventura.

Anzi, in quel periodo davvero pochi sorrisi si affacciavano dal suo viso.

Sbuffò mentre faceva un giro di ricognizione per appuntare i, fortunatamente non molti, clienti che avrebbe dovuto avvertire della posticipazione delle riparazioni. Era una persona ordinata, dunque non aveva avuto bisogno di perdere troppo tempo nel ripulire l’officina e, nel giro di un paio d’ore, avendo finito, si apprestava già ad abbassare la saracinesca.

In quel momento si ritrovò a pensare che mai aveva chiuso per così tanto tempo.

Beh, forse quella volta in cui non si era ben curato la polmonite e l’avevano dovuto ricoverare d’urgenza all’ospedale. Tre giorni e poi aveva praticamente costretto i dottori a dargli il permesso di dimissioni.

Neanche quando era morto suo padre aveva chiuso: tenere aperta ed efficiente quell’officina, per la quale lui aveva sacrificato vita e risparmi, gli era sembrata la migliore dimostrazione d’affetto e rispetto che avrebbe potuto fare. Da quel giorno, decise che non avrebbe mai potuto chiudere.

Così aveva abbandonato quella sua infantile idea dell’università di lingue per dedicarsi ad oli e motori. Sua madre avrebbe preferito che decidesse anche di tornare a vivere con lei, ma il suo diniego era stato perentorio. Si disse che magari avrebbe dovuto avvisarla della sua partenza, tanto per non allarmarla nel caso fosse passata dall’officina e l’avesse trovata chiusa.

Era così immerso nei suoi pensieri che non si accorse dell’uomo che gli si era avvicinato –e spaventato-  dandogli un’ amichevole pacca sulla spalla. 

«Ehi, amico!» il sorriso a trentadue denti era l’arma che Charles usava più di frequente per accalappiare tutte le sue prede.

«Ehi…».

«Ragazzo, ancora questa voce moscia?» punzecchiò, stanco di vedere l’amico che, da più di un mese a quella parte, si mostrava in giro come un sacco di patate svuotato della sua essenza.

«Lascia perdere» finì di bloccare il catenaccio e fece per salutarlo.

«Che ne dici di andarcene al Super Taste? Non c’è niente che quel locale non riesca a sollevare!» i due, più di dodici anni prima, si erano incontrati lì, dove Charles lavorava dopo la scuola e Cliff comprava i suoi adoratissimi noodles.

«Sinceramente? Non ho molta fame» disse dispiaciuto, ma era vero: il suo stomaco era completamente chiuso.

«Stai facendo una qualche dieta del tipo solo pompelmi?» Lo squadrò critico «Ti vedo molto sciupato…»

«Charles sto bene» calcò, stanco di dover partecipare continuamente a conversazioni di questo genere.

«Ti dispiace lasciarmi in pace? Forse è proprio il tuo istinto da mamma chioccia a farmi soffocare» accusò, invaso da un repentino moto di rabbia.

Ma come venne se ne andò ed il suo animo fu devastato da senso di colpa e tristezza.

Da settimane il suo umore oscillava: come un pendolo impazzito gli faceva attraversare stati di depressione, inappetenza, agitazione, tristezza e crisi di pianto.

Come l’altro giorno in cui, per nascondersi alla vista dei suoi dipendenti, era rimasto più di mezz’ora sotto la macchina che stava revisionando a singhiozzare silenziosamente.

Era stremato.

E il lampo di delusione negli occhi Charles lo ferì –se fosse stato possibile- ancor di più.

Sapeva anche che sarebbe stato inutile scusarsi in quel momento perché il corpo dell’amico, sfregandosi nervosamente le mani, era già proteso ad andarsene.

Si ripromise che più tardi l’avrebbe chiamato.

«Beh, ci sentiamo Cliff» sospirò con un’alzata di spalle «Ti sta bene questo nuovo look barbone trasandato, inclusa la barba» scherzò sorridendo mesto,  mentre si allontanava.

Il barbone trasandato non rispose, ma si toccò perplesso la barba.

 

Montmartre, il Museo D'Orsay, il Louvre, la Tour Eiffel, Notre Dame e La Sainte Chapelle.

Erano richieste ragionevoli, se ne rendeva conto.

L’arzilla signora Morgan gli aveva consegnato, prima della fine della seduta di gruppo, un bigliettino dove aveva velocemente appuntato ciò che avrebbe dovuto assolutamente vedere.

Il suo sguardo speranzoso l’aveva destabilizzato, tanto che le sue lacrime –al massimo dell’attività in quel periodo- avevano minacciato una parata in grande stile.

Così l’aveva preso, ma era certo che non avrebbe visitato niente di niente.

Era troppo tempo che suoi nervi erano tesi e attorcigliati: non una lacrima per il padre, per i film horror che era costretto a vedere da bambino, per la frattura al braccio, per il rogo della sua intera superspeciale collezione di figurine. Ma oramai bastava un viso gentile, una parola o il miagolio di un gatto per sentire un tremolio alle labbra e un punzecchio agli occhi.

Era diventato una donnetta.

E poi la notte. Dio. Prima che Morfeo gli permettesse di scivolare nel sonno, era condannato a dover rivivere tutta l’agonia.

Aprire la porta della banca.

Sulla soglia aveva pensato ciò che tutti pensarono dando un primo sguardo intorno: non uscirò mai più da qui. No, non c’era stato alcun sentore della tragedia ma solo dell’enorme mole di tempo che avrebbero perso dal momento che, su dodici, solo cinque sportelli erano attivi.

Lui si sedette –erano rimasti tre posti liberi su ottanta- infastidito, mentre la guardia vicino all’ ingresso continuava ad osservarlo con un misto di sospetto –per la sua tuta sporca da meccanico- e tracotanza.

Esultare per l’arrivo del turno.

Era stanco e non vedeva l’ora di andarsene da lì per raggiungere Charlie al Super Taste. L’impiegato era lento e annoiato e ciò non faceva altro che aumentare la frustrazione che quell’unico intrattenimento mensile alla banca gli procurava.

Sentire le urla.

Le prime erano state femminili ma, focalizzando, anche gli uomini non si contennero più di tanto. Ne ricordava particolarmente una, uno stridio lungo e terrorizzato.

Poi il buio.

Ovvero, la sua mente obliò tutte le immagini e i ricordi che percorrevano gli eventi dallo sportello al caveau dove era stato legato come un salame.

Dalle sedute e dai racconti dei suoi sfortunati compagni si era evinto che tutti e cinque erano allo sportello al momento del primo sparo e delle prime  grida, e che tutti e cinque erano stati trascinati fino al deposito.

Volontari.

Questa era la prima cosa che non gli tornava: aveva contato, compreso il signor Lowener, dieci rapinatori.

Nove aiutanti che, durante la negoziazione, si scoprirono essere volontari. Nel senso che altre persone –delle quali due erano anche degli sconosciuti- si erano immolati per la causa. Una causa che avrebbe potuto spedirli in galera per un bel po’ di anni. Ma il caro signor Lowener -Carl Lowener, per amor di precisione- aveva negoziato, rilasciando buona parte degli impiegati e degli ostaggi, per assicurarsi la loro immunità.

I vari reportage sul caso, che avevano dominato a tutte le ore la tv, fecero varie supposizioni su come la banda criminale si fosse messa insieme: gruppi su facebook, inserzioni criptate, società massoniche.

La verità, per quanto relativa fosse potuta essere, era che c’erano degli esseri umani che, anche se in modo stravagante e pericoloso, avevano ancora nei cromosomi il concetto di solidarietà.

Semplicemente avevano voluto aiutare quel poveraccio.

Cliff era un appassionato di film thriller e possedeva nel suo monolocale una  videoteca pressoché infinita –per quanto l’estensione dell’abitazione permettesse l’uso dell’aggettivo infinito- che spolverava lui stesso. Aveva visto innumerevoli volte John Q. e non aveva avuto problemi, mentre il nastro adesivo gli segava e irritava la pelle, a fare un parallelismo cinematografico. John era un uomo che viveva una vita modestissima, anzi povera, con moglie e figlio. Quando si scoprì che il bambino era affetto da una pericolosa malattia cardiaca, che presto gli sarebbe costata la vita se non si fosse intervenuti con un trapianto, John Q iniziò a provarle tutte, subendo delusioni, inganni e arbitrii nei vari ospedali. Così, rendendosi conto che il figlio sarebbe morto senza che lui potesse farci niente, decise di agire con violenza prendendo in ostaggio alcune persone di un ospedale, compreso il chirurgo.

Denzel Washington/John Q non era altro che Carl Lowener. 

Carl ne aveva quattro di figli ed una moglie. Entrambi disoccupati –lui licenziato da vari mesi- avevano provato a farsi assumere da qualche parte, qualsiasi parte, e in ultimo chiedere aiuto alla banca. Ma era stato inutile: il pignoramento della casa, per il mutuo non estinto, era inevitabile.

Ciò che Cliff ricordava più lucidamente di quelle ore era la camminata nervosa e rettilinea –avanti e indietro- per il caveau, con la pistola che ondeggiava nella sua mano destra, e i deliri sconnessi dell’uomo: dove andremo a vivere, a dormire, se non abbiamo neanche una macchina? Con quattro figli poi! August, Andrew, Adrian e  la mia piccola principessina Aretha. August non ha neanche sette anni. August perché lo concepimmo una notte di agosto dal cielo stellato… Oh! Come possono essere vividi i ricordi: ci sdraiammo sul giardino del retro della casa di suo padre e avevamo così tanta energia, così tanta voglia… di correre a piedi nudi lungo la strada, di cambiare il mondo, di amare il mondo. Avevamo raccolto coperte e cuscini, anche se il nostro solo calore sarebbe bastato, e giacevamo là fuori sotto la pioggerellina estiva che bagnava la nostra pelle nuda. Quando iniziò il temporale ritornammo nel letto della sua camera ed io rubai questo piccolo scatto per renderci infiniti. Così stropicciava teneramente quell’istantanea che si macchiò del suo stesso sangue quando si accorse dell’incursione degli agenti di polizia.

Bam.

Era stato improvviso, così come tutto ciò che era avvenuto quel giorno.

Improvvisamente lui sbarrò gli occhi, come colto da una verità straziante, e utilizzò la pistola contro di sé.

Dopo quell’ultima scena Morfeo, avendo forse pietà di lui e del suo povero animo, gli concedeva una breve e scomoda dormita.

 

Non usciva dalla sua camera d’albergo da quattro giorni: la maggior parte del tempo l’aveva impiegato sdraiato sul letto, con le lenzuola fin sopra la testa o intrecciate al corpo, muovendosi poco, quasi niente.

Beh, certo, tranne che per andare in bagno e spiluccare quale minuzzaglia dal grosso zaino che si era portato. Dunque merendine, barrette e succhi di frutta.

Toc-toc. 

«Servizio in camera!» annunciò una voce femminile.

No, non di nuovo! Pensò Cliff esasperato per poi schiarirsi la voce ed esibirsi nelle sue tradizionali (ed anche appartenenti ai bei tempi andati)  esposizioni baritonali.

«Vada via!» ruggì.

Per ben quattro volte era andato a segno e la cameriera aveva girato i tacchi. Ma, a quanto pareva, per quel giorno era destinato a non avere fortuna.

«Apra o butto giù la porta!» minacciò la donna.

Dopo tanto tempo, un sorriso fece capolino tra le sue labbra. Non gli sarebbe dispiaciuto restare sdraiato ed aspettare la sua prossima mossa, ad esempio il come avrebbe avuto intenzione di buttare giù la porta, ma l’insofferenza ebbe la meglio e decise di aprirla rendendole la vita più facile.

«Era ora» esordì, squadrandolo brevemente –ma in modo sprezzante- dalla testa ai piedi «E’ una delle nostre migliori suite, non dovrebbe alloggiarci come un barbone» commentò, avanzando con il carrello delle vivande.

Lui pensò che forse Charles si era sbagliato: non gli stava propriamente bene il look barbone trasandato. Sorrise, di nuovo, assicurando a se stesso che non gliene fregava un cazzo.

Ah! Si fece sfuggire anche un sospiro pago: aveva detto una parolaccia. Quanti mesi era che non accadeva? Certo, l’aveva fatto nella sua mente e cazzo non era decisamente una delle più sboccate, ma si ritenne ampiamente soddisfatto.

«Rida pure signor…».

«Cliff» aveva sempre odiato gli inutili formalismi: quella ragazza avrebbe potuto benissimo avere la sua età, se non essere addirittura più giovane, perciò non aveva alcun senso farsi dare del lei. Lo faceva sentire più vecchio di quanto già si sentisse in quel periodo.  

«Bene, rida pure signor Cliff, lieta di esserle stata d’intrattenimento» evidentemente lei non era della stessa idea e voleva continuare a mantenere le distanze «Arrivederci, si goda il soggiorno» augurò con tono sarcastico, dimostrando di essere abbastanza sveglia da capire che quell’uomo non l’avrebbe mai fatto. Scosse la testa, come delusa, e indietreggiò guidando il carrello verso l’uscita.

«Aspetta!» esclamò d’impulso l’altro, pentendosene subito dopo: avrebbe dovuto, alla svelta, inventarsi un motivo per quella sua scena da film romantico. Era diventato una ragazzina, certe realtà non si potevano ignorare «Ehm, si sta riportando il cibo?».

E bravo lo stupido. Come certe realtà non si potevano ignorare, alcune non sarebbero mai cambiate: le figure di merda facevano parte del suo corredo genetico. Ah! Altro sospiro soddisfatto: non magre figure, ma di merda. Allora stava davvero migliorando.

«Io…» fece per scusarsi, abbassando difatti la testa, ma poi, di scatto, la rialzò come se si fosse convita, durante quei pochi attimi, di non aver nulla di cui scusarsi «Il carrello è vuoto, era un pretesto per conoscerla, dato che da giorni le mie college non riuscivano ad entrare» la confessione sarebbe potuta pur essere una pompata per il suo floscio ego ma lei continuava a guardarlo delusa e, ci avrebbe scommesso due noodles caldi, infastidita. Infastidita! Come se disponesse del diritto per esserlo! Lui lo era, lui solo. Ma intanto, non era in grado di mostrare il suo ormai consueto lato beffardo ed, al contempo, afflitto.

«Che ti aspettavi?» chiese curioso mentre, incurante del suo pigiama grigio incollato alla pelle da giorni, si ridistendeva sul letto incrociando le braccia dietro la nuca. Lei guardò seccata l’orologio poi, evidentemente, pensò di avere tempo per una veloce delucidazione.

«Mi aspettavo un’artista» confessò appassionata «Non eri un violinista, perché nessuno aveva sentito le tue prove, ma saresti potuto essere un pittore, uno scrittore, persino un attore» azzardò  «Ti ha tradito il servizio in camera: insomma, anche i migliori artisti hanno bisogno di almeno uno spuntino, soprattutto quelli che non escono dalla propria suite da giorni». Era passata al tu! Questo lo rinfrancò.

«Chi ti dice che non lo sia?» tentò con voce misteriosa ma lei, in risposta, lo guardò con i suoi grandi e scintillanti occhi color cioccolato, così belli che il suo entusiasmo si smorzò e si decise a non insistere nella pantomima e a lasciarla concludere.

«Sei un idiota al quale qualcuno avrà pagato il viaggio» sbottò velenosa infischiandosene dei limiti «Perché nessuno, e ripeto nessuno, neanche uno tra i più impegnati manager, alloggia a Parigi e non mette fuori il naso nemmeno per respirare la sua aria incantata» accusò arrabbiata «Sei un idiota perché incantata è un aggettivo che si usa solo per le fiabe e questa città lo è, è una fiaba: ti possiede in modo dolce e fa sì che tu rimanga affascinato dai suoi colori, dalle sue musiche, dai suoi profumi» in quel momento si accorse di essersi così lasciata andare da fermarsi di botto. Si sistemò i capelli, raccolti in un severo chignon, e riprese –per finirlo definitivamente- il filo del discorso, questa volta in una maniera parecchio più pacata che ebbe, se possibile, molto più effetto.

«E’ un idiota, e non può convincermi diversamente» tornò rigorosa al lei «perché è proprio da idioti snobbare una città del genere, una città che si vuol visitare anche con la febbre a quaranta» fece un respiro e trascinò il carrello fuori prima di una qualsivoglia reazione, prima addirittura che lui riuscisse a pensare ad una qualsivoglia reazione.

Rimasto con le braccia incrociate dietro la nuca, i gomiti iniziavano a dolergli ma se ne infischiò: era scioccato e senza parole, tanto da non essere capace di pensare a ciò che gli era stato detto. Pensava più al come: nessuno gli aveva parlato così da quando… insomma… da quando…

«Da quando mi sono ucciso» rispose una voce per lui.

Cliff girò la testa di scatto per ritrovarsi, disteso accanto, il corpo di Carl Lowener con tanto di pistola e pallottole che squarciavano dei suoi brandelli di carne. Fu in quella situazione che si rese davvero conto di cosa significasse rimanere senza parole: prima era solo confuso e forse stava manifestando un segno di qualche suo ritardo mentale, adesso aveva la gola dolorosamente serrata e le lacrime agli occhi.

«Ho capito, parlo io» s’impegnò il fantasma o qualunque cosa fosse «Intanto non sono un fantasma ma un’allucinazione causata sia dalla tua scarsa alimentazione che dalla tua forma di depressione che ti dà la sensazione che il defunto, ovvero io, sia in qualche modo ancora presente» sospirò sereno «Ho intenzione di dirti che sei un idiota, non di spiegarti alcun perché» chiarì inflessibile, riferendosi al proprio suicidio «D’altronde sono  frutto della tua immaginazione e tu, il perché, non lo sai. Piuttosto: smettila di continuare a fissare le mie ferite, non distrarti. Sì, sono vestito proprio come quel giorno… con il vecchio completo di sartoria sgualcito. Ora basta! Concentrati! Sei un’idiota perché avresti dovuto fermarla, anche con un “aspetta” da ragazzina.  Che ne pensi di offrirle una cena? Sì, questa sera. Dai, lo so che ami mangiare e che, anche se possiedi un’imbastitura rozza –chi avrebbe potuto, se non tu, scrivere nel bigliettino “mangiare, sotto le coperte, ciambelle per una settimana intera”?- ci sono buone possibilità che il cibo parigino ti conquisti» spronò «Che aspetti?».

Si svegliò di soprassalto e annaspò. Annaspò come se fosse stato per un’infinità di minuti sott’acqua e ora, finalmente fuori, prendesse il primo vero respiro. Era solo un incubo, si disse, ma non poteva fare a meno di pensare a quei fori di proiettile.

Ora basta! Concentrati!

Il ricordo lo fece sussultare. Era normale che rammentasse tutto in modo così vivido? Le immagini degli incubi dopo pochi minuti non si sarebbero dovute annebbiare? Fece mente locale su ciò che era accaduto prima che si assopisse in modo così inaspettato.

Beh, era appoggiato sui bicipiti, che gli facevano un male cane, e stava ripensando all’ultima volta che aveva avuto una conversazione così sincera. E si era addormentato, bam, senza Morfeo che facesse i capricci, senza il consueto tour degli orrori, senza difficoltà.

Sospirò e decise di stiracchiarsi. Uhm, ora sì che andava meglio.

Prese dalla valigia il beauty case che, per uno strano e fortuito caso, aveva gettato tra la roba da portare e ci rovistò dento. Ottimo! Schiuma da barba e lametta rispondevano all’appello. Non aveva intenzione di radersi del tutto, in fondo gli piaceva davvero quel suo nuovo look, ma voleva comunque darsi una sistemata. Diede un’altra occhiata all’interno del bagaglio e, sempre per fatalità, ci trovò con sommo stupore uno smoking. Oh, anche il papillon. No, non era fatalità: si chiamava culo.

Non fu cosciente per cosa o per chi si stesse agghindando fino a quando non si ritrovò nell’atrio dell’albergo. Atrio che, al suo arrivo, aveva praticamente attraversato bendato e ignaro della sua magnificenza: aveva un soffitto trasparente a volta e un’abbondanza di poltrone all’apparenza comode e costose che avrebbe fatto invidia ad una stazione. Tutto in tinta, oro e bordò, gli si palesava accuditissimo. Anche il tipico campanello da reception, grazie al quale aveva attirato l’attenzione dell’ impiegata, era in pendant.

«Prego: come posso esserle utile?» una biondina, con lo stesso chignon e, più o meno, età della cameriera gli fece un largo sorriso.

«Ehm» s’imbarazzò, com’era solito fare in quelle assurde situazioni, ma poi sorrise anch’egli, esibendosi nei suoi venti secondi vitalizi di coraggio «Oggi è entrata nella stanza una signorina, mora, occhi grandi e castani, parlantina sferzante e ironia da vendere. C’è qualcuno, tra i dipendenti, che corrisponde a questa descrizione della quale mi potrebbe dare il numero?».

Respiro. Okay, iperventilazione scongiurata.

Il secondo sorriso che la receptionist gli rivolse lo fece ben sperare e si rilassò.

«Non proprio, ma c’è una ragazza che, uhm come dire, stacca ora» guardò l’orario «La può attendere dietro quella porta» gliela indicò con il dito con l’unghia fresca di manicure.

Lui, come sempre, rimase così intontito da dimenticare di ringraziarla anche se era stato frainteso alla grande: non era uno di quegli stupidi che faceva descrizioni di ragazze da portarsi a letto rivolgendosi ad un magnaccia. Era un altro tipo di stupido, del tipo che rimaneva impalato, come un bambino di fronte all’entrata dello stadio il giorno del derby, nel ritrovarsi faccia a faccia con quegli occhi grandi. E belli.

«Che ci fa lei qui?» inarcò un sopracciglio sospettosa. Poi lo squadrò, proprio come aveva fatto qualche ora prima, solo con un risultato diverso… quasi ammirato.

Altri venti secondi bonus di coraggio.

«Sa… sai» si corresse. Oh, per favore! Non fare la figura dell’idiota imbranato «Quando sei salita e mi hai… redarguito» ecco a cosa serviva leggere qualche quotidiano «in quel modo… beh, ho riflettuto molto ed hai ragione. No, non hai solo ragione. Devo confessarti di aver vissuto una brutta… esperienza… e che tu mi hai aperto gli occhi. Voglio dire: si deve tornare a vivere, no? E sarebbe un peccato non iniziare a farlo proprio qui a Parigi. Con te».

Dio mio! Aveva il respiro affannato e le ascelle completamente fradicie, tanto che ebbe l’impulso di idolatrare la marca di deodorante che gli stava permettendo di non allontanarsi per il fetore. Neanche le avesse dichiarato il suo amore o proposto di matrimonio. No, aveva fatto di più.

«Qualcuno ti ha detto qualcosa?» chiese diffidente e per nulla turbata dalla confessione.

«Eh? Chi? No!» Un idiota, un idiota.

Un idiota che si sentì l’uomo più potente quando lei gli mostrò, per la prima volta, il suo sorriso. Era bello, proprio come i suoi occhi, e così lo erano i suoi denti bianchi e dell’esatta misura per essere scoperti dalle sue labbra, e le graziose fossette sotto gli zigomi temporaneamente visibili.

«Anch’io ti devo confessare una cosa…» oh, ma allora non era immune all’ imbarazzo! «Sono la proprietaria dell’albergo»  disse velocissima.

«Come scusa?».

Lei sbuffò frustrata «Sono la proprietaria dell’albergo» ripeté scandendo le parole con rassegnazione.

«Ah» commentò da ebete, evidentemente affezionato alla sua famigerata idiozia.

«Ah?»

«Ok? Dico, va bene, no?» era confuso. Cosa avrebbe voluto dicesse?

«Sei sorpreso?».

«Un po’» ammise «Perché ti sei vestita da cameriera?».

«E’ una lunga storia…» divagò «Mi dispiace per come ti ho trattato» si scusò sincera, premurandosi di accompagnare tutto con uno dei suoi sorrisi. Più timido, il secondo.

«Hai avuto una bella faccia tosta!» commentò scoppiando a ridere Cliff, ricordando la scena.

«Perché ho utilizzato i miei venti secondi vitalizzi di coraggio» spiegò con un alzata di spalle  «Comunque sono Liz» gli porse la mano e sfoggiò il suo terzo sorriso.

Sessanta secondi di coraggio avrebbero fruttato trecento euro al proprietario del bistrot all’angolo, il nomignolo “cupido” a Gin, la receptionist di turno quel giorno, altri quattro, no cinque.. beh, altri innumerevoli sorrisi a Liz ed il primo di tanti sonni ristoratori a Cliff.

Per scoprire il valore di un minuto non c’era bisogno di perdere il treno, il bus o l’aereo: bastava utilizzare i suoi sessanta secondi con coraggio.

 

»Ecco la fine di un altro capitolo.

Intanto mi scuso tantissimo per il ritardo e colgo anche qui l’occasione di ringraziare particolarmente Sem per il suo supporto! Poi, come avete potuto intuire ogni capitolo parlerà di un personaggio in terapia e andiamo in ordine decrescente: accettazione, depressione, patteggiamento, rabbia e negazione. Dunque a rigor di logica mancano tre capitoli e altri tre personaggi da conoscere.

 Ditemi che ne pensate, aspetto con ansia i vostri commenti! (:

Un bacio, Eliana.

P.S. siete tutti dolcissimi :’)

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