My Dragon Age: The Evil’s Blood

di RainbowCar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Andraste ***
Capitolo 3: *** Filatterio ***
Capitolo 4: *** Lavriella ***
Capitolo 5: *** Feron ***
Capitolo 6: *** Richiesta ***
Capitolo 7: *** Eretico ***
Capitolo 8: *** Altelha ***
Capitolo 9: *** Haven ***
Capitolo 10: *** Liraya ***
Capitolo 11: *** Deleric ***
Capitolo 12: *** Orzammar ***
Capitolo 13: *** Gulliack ***
Capitolo 14: *** Rosso ***
Capitolo 15: *** Notte ***
Capitolo 16: *** Sangue ***
Capitolo 17: *** Sadine ***
Capitolo 18: *** Temporale ***
Capitolo 19: *** Incrocio ***
Capitolo 20: *** Giusto ***
Capitolo 21: *** Farfalla ***
Capitolo 22: *** Denerim ***
Capitolo 23: *** Verità ***
Capitolo 24: *** Sorriso ***
Capitolo 25: *** Udienza ***



Capitolo 1
*** Intro ***


 
Mia madre è un’eretica. Un’eretica bellissima, che, nonostante la sua età, fa ancora girare la testa a molti uomini della mia. Mia madre è scaltra come un corvo di  Antiva, è forte come un ogre, coraggiosa come un templare e allo stesso tempo prudente come un mago. È astuta come un nano e tenace come un berserker.

Mia madre mi ha insegnato tante cose sulla vita e sulla morte, sul male e sul bene, su quanto sia difficile distinguere l’uno dall’altro.
Credo che non fosse affatto delusa quando nacqui io. Forse il sesso non era quello che si aspettava, ma direi che le abbia fatto più piacere avere me.

Le somiglio molto. Ho i suoi grandi occhi ambrati, i capelli scuri e la carnagione chiara, ma spesso lei mi ha detto che in me rivede mio padre, soprattutto quando le faccio perdere la pazienza e la esaspero con le mie assurde richieste. Come quella, ad esempio, di conoscere l’identità di mio padre.
Gliel’ho chiesto per anni, fino a sfinirla, le ho domandato di lui, se fosse ancora vivo, se si erano amati molto e se lo amava ancora. La risposta era sempre la stessa: “No”.
Mio padre era dunque morto? E come? Cosa gli era capitato? Davvero non erano innamorati? È stato un rapporto occasionale a darmi vita? Erano ubriachi? Mai una sola volta avevo ricevuto altre risposte alle mie innumerevoli domande.

Una sera, avendo ormai raggiunto l’età di 18 anni, le dissi chiaramente che il suo silenzio non bastava più in risposta ai miei dubbi e che se avesse continuato a tacermi la verità l’avrei lasciata per andarmene per conto mio. Le avrei detto addio per sempre. Ero perfettamente in grado di cavarmela, avendo ereditato i suoi poteri, ed ero discretamente abile nell’usarli.
La mia incredibile determinazione, o la mia cocciutaggine, avrebbe detto lei, vantandosi di avermela trasmessa, la convinsero che facevo sul serio. Si prese qualche secondo per riflettere e valutare le sue opzioni. Evidentemente dovette giungere alla conclusione che tenermi con lei le convenisse di più, e così decise di raccontarmi la verità sull’identità di mio padre. Una bugia non l’avrei accettata e di sicuro non l’avrei bevuta.

Mia madre sa essere saggia come un dalish. Sa quando vuotare il sacco, se questo consiste nel male minore. Credo anche che aspettasse da un po’ un mio simile ultimatum e che ne fosse segretamente compiaciuta. Forse mi ha raccontato tutto perché voleva farlo o forse perché mi amava troppo per allontanarsi da me… ma io propenderei più per la prima opzione. Non che lei non mi ami, anche se l’affettuosità non è certo tra i suoi innumerevoli pregi, ma l’indipendenza per lei viene prima di tutto il resto e nel crescermi “a modo suo” ha forgiato la mia capacità di sopravvivenza in solitudine.

Così mia madre, per non perdermi, o meglio, per non perdere ciò che io rappresento, mi ha parlato del mio destino, a quanto pare abbastanza pieno di aspettative dato il sangue che mi scorre nelle vene, e di mio padre.
Mi ha detto che è ancora vivo e mi ha detto come si chiama. Su una cosa non aveva mentito: sui loro sentimenti. Tra di loro non c’è mai stato amore. Sarebbe stato romantico nascere da un travolgente rapporto ricco di  sentimento, ma per me non è stato così e credo che saperlo mi farà sopravvivere lo stesso. Ma potrei non sopravvivere a lungo quando finalmente parlerò con mi padre e gli dirò chi sono. O magari non sopravviverà lui dallo stupore, o non sopravviverà sua moglie dallo spavento.

Dunque eccomi qui, in viaggio alla ricerca di mio padre, avendo deciso comunque di lasciare mia madre per potergli parlare, vedere che faccia abbia, solo per capire se davvero gli somiglio come afferma mia madre, anche se credo che lei mi segua da non troppo lontano. Non mi infastidisce la sua presenza, a patto che non interferisca con la mia ricerca e col mio desiderio di ribellarmi a un fato che sembra già scritto dal giorno in cui i miei genitori si unirono in un’unica notte di passione.

In realtà so dove trovare mio padre, ma il viaggio è lungo e potrebbe succedere di tutto durante questi mesi. La morte è sempre un’eventualità da non tralasciare, essendo pronta a strapparti dal tuo cammino in qualunque momento. E il Ferelden è molto più cupo e selvaggio di Orlais. Non che mia madre abbia scelto di allevarmi tra lussi e usanze barocche del Paese, ma di terre selvagge vi è penuria.
Una foresta sembrava fare al caso nostro, ma era talmente frequentata da cacciatori e bestie assetate di sangue che le grotte del lago Celestine sono diventate la nostra unica occasione di non dare nell’occhio. E così, in una fresca notte d’autunno, mia madre mi ha partorito in un buco in una roccia che ho chiamato casa per 18 anni, e che nel mio cuore resterà tale per sempre.

La stanchezza e il sonno si fanno sentire. Ho deciso che stanotte mi accamperò qui, con la speranza che nessuno shriek mi strappi il cuore durante la notte. Comunque non sono completamente sola, anche se non faccio affidamento su nessun aiuto, perché incomincio a pensare che questo sia il suo modo di mettermi alla prova, di controllare finalmente se ha fatto un buon lavoro nel crescermi.
Intorno a me non vedo che sporadici alberi e distese di erbacce, oltre che antiche rovine. La mia mappa dice che mi trovo nelle selve Korcari. Chissà come deve sentirsi mia madre ad essere ritornata nel luogo in cui è cresciuta.

Mia madre è una strega. L’ultima, forse, strega delle selve. Mia madre si chiama Morrigan.

Mio padre… beh, mio padre è un custode grigio, nonché re del Ferelden. Sua moglie, la regina, è anch’essa un custode e ha salvato il suo popolo sconfiggendo l’Arcidemone nell’ultimo flagello. La regina è Lady Cousland. Mio padre si chiama Alistair, e io sono la sua unica figlia, l’ illegittima, l’erede al trono.

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Capitolo 2
*** Andraste ***




“Per le chiappe di Andraste!” aveva esclamato quel nano barbuto seduto al bancone della taverna, appena fui entrata confondendomi tra gli altri avventori,  e io non avevo potuto esimermi dal cercare di girarmi per dare un’occhiata al mio sedere. Mi ero sentita chiamata in causa, anche se sapevo che non poteva avercela con me.

 Andraste. Ancora non capisco se mia madre mi abbia chiamata così per sbeffeggiare la chiesa che le da la caccia o perché sono destinata, come la profetessa, a cambiare il Thedas.
Mi ha rivelato che sono in possesso di poteri straordinari anche se non me ne sono affatto resa conto fino ad ora. Per quanto mi sforzi, i miei poteri non son poi così diversi da quelli di mia madre, tantomeno più potenti di quelli di qualunque altro mago. Non che prima di intraprendere il mio viaggio abbia conosciuto chissà quanti maghi, ma adesso ne avevo visti un bel po’ all’opera da molto vicino.
E tutto grazie al primo mago a cui ho visto usare il dono, a parte mia madre. Per la precisione, la prima maga. Ad essere ancora più precisa, una maga elfica, e a voler essere pignoli, una maga elfica dalish, o meglio,  ex dalish, che ha abbandonato il suo clan parecchi anni fa e che, dopo aver militato a Kirkwall il tempo necessario per aiutare la  campionessa della città nelle sue eroiche imprese, ora vaga da un posto all’altro, da una città all’altra e da un Paese all’altro. Il suo nome è Merrill, e una notte, per un breve tempo che ha cambiato per sempre le nostre esistenze, le nostre strade si sono incrociate.

 “Per le tette di Andraste!” aveva esclamato ancora il nano ubriaco, dopo che mi ero seduta al tavolo e avevo ordinato da mangiare. “Donna! Cosa credi di fare con quei boccali pieni? Portali al tuo amato Oghren e muovi il tuo strabiliante culo in fretta!”. La cameriera, anch’essa di razza nanica, gli aveva rivolto un sorriso smaliziato ed era corsa a servirlo.
Lo avevo osservato, resistendo all’impulso di controllare che le mie tette fossero ancora al loro posto. Aveva una folta e lunga barba rossa acconciata in quattro scarmigliate trecce e capelli dello stesso colore, altrettanto ispidi e arruffati. Alcune ciocche erano ormai ingiallite dal tempo e quasi bianche, ma non potevano appartenere a un nano troppo anziano. Doveva avere intorno ai cinquant’ anni, dato il sottile reticolo di rughe intorno agli occhi, che però, stranamente, non li rendeva meno dolci e profondi.
Al di là delle sue cattive maniere e del suo brutale modo di esprimersi, sembrava una persona che aveva vissuto intensamente, amato intensamente e sofferto immensamente.
Per un attimo in nostri sguardi si erano incrociati. Credo che si fosse sentito osservato ma aveva distolto quasi subito i suoi occhi dai miei. Indossavo un mantello con un cappuccio che mi nascondeva quasi interamente e dubito che mi avesse guardata a sufficienza per notare in me qualcosa di familiare, ma un lampo nei suoi occhi mi aveva dato l’ impressione che vedermi per lui avesse un significato che andava ben oltre l’osservare distrattamente quelli che per una sera sono i tuoi compagni di bevute. Avevo cominciato a credere che mi avesse presa di mira come la prossima da castigare con la sua potente verga nanica e i miei sospetti erano divenuti per me certezze quando lo avevo visto tracannare l’ultimo sorso di birra, alzarsi e venire verso di me.
Prima che avesse raggiunto una distanza ragionevole solo per vedermi bene in viso, io avevo già lasciato “La principessa viziata” e di corsa mi dirigevo al mio rifugio sulla parte buia e dimenticata del lago Calenhad.
In fondo essere in riva a un lago è un po’ come sentirsi a casa per me. A parte la presenza costante, a pochi passi, di templari a caccia di eretici, in particolare di una maga del sangue elfica e di una giovane mutaforma.

Ho lasciato le selve Korcari e mi sono spinta fino a qui per aiutare qualcuno. Mia madre non avrebbe approvato, ne sono certa, anzi, diciamo pure che non approva, perché sono sicura che sia già al corrente di quello che ho combinato.
 
…………………………………………


“Era lei ti dico!”
“E io ti ripeto che è impossibile, si dice che sia morta, nessuno di noi la vede da quando abbiamo sconfitto l'arcidemone...”*
“E io invece l’ho vista! Proprio qualche settimana fa! Al lago Calenhad!”
Il re stava per perdere la pazienza. Quel nano ubriacone aveva probabilmente sognato quello che era venuto a dirgli, eppure, perché affrontare un così lungo viaggio solo per raccontare di visioni offuscate dall’alcol? Sembrava assolutamente sicuro di ciò che affermava.
“Inoltre” , continuò Oghren , “sembra che il tempo non abbia influito affatto su di lei. Sembra addirittura più giovane di quando l’abbiamo vista l’ultima volta”.
“E questo come me lo spieghi?” rispose stizzito Alistair.
“ Che vuoi che ti dica. È una strega. Chissà con quale demone avrà fatto un patto per rimanere bella per sempre. In fondo, non dimentichiamoci che è degna figlia di sua madre, e tutti sappiamo come Flemeth sia riuscita a vivere per secoli…”
“E perché non le hai parlato allora? Perché non l’hai portata qui?”
“Credi che mi avrebbe seguito come un docile agnellino? Appena ho tentato di avvicinarmi a lei, era già scappata via sparendo nell’oscurità della notte.”
“Beh, sicuramente questo è da lei. Se non abbiamo avuto sue notizie fino ad ora, evidentemente non vuole essere trovata, e questo spiega il perché sia fuggita. O magari era solo una povera fanciulla qualunque, spaventata da un nano sboccato che ha tentato di avvicinarla…”
Alistair sorrise notando la crescente irritazione del berserker, che fece scemare la sua. Sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro, visto il volto che aveva preso quasi lo stesso colore dei capelli e che adesso era tutt’uno con la barba. Sembrava un enorme ciuffo di pelo rosso che spuntava da un’elegante armatura in silverite. L’immagine evocata dalla sua mente era senza dubbio divertente, ma decise di tenerla per sé.
“E se andassimo a cercarla?” propose il nano con tono inasprito, “così ti dimostrerò che non ho sognato!”
“Cercare chi?”
La regina era entrata nello studio di suo marito senza far rumore. I due uomini si voltarono di scatto interrompendo immediatamente la loro conversazione, quasi fossero stati due ragazzini sorpresi con le mani nel barattolo della marmellata.
“Cercare chi?” ripetè Lady Cousland. “ A proposito Oghren, ti ringrazio ancora per l’equipaggiamento pregiato che ci hai portato, i soldati sono a dir poco entusiasti di indossare armature di una così raffinata fattura!”
“Oh, ma figurati!” rispose il nano, dissipando all’istante il suo malumore. “I miei viaggi hanno fruttato bene e ho pensato che fosse utile aiutare l’esercito della capitale, visti gli scontri che ormai sembrano accendersi a ogni angolo delle strade.”
“La situazione per adesso è sotto controllo, almeno nel Ferelden” intervenne il re.
“E’ vero, anche se non sarà così ancora per molto. Arrivano notizie poco rassicuranti da Kirkwall. ” ribattè pensierosa la regina. La preoccupazione era chiaramente leggibile sul suo volto. “Ma ora, se non vi dispiace, torniamo alla mia domanda? Chi state cercando?”
“Mia cara, temo che non crederai alle tue orecchie. Il nano deve aver bevuto più del solito ultimamente.” Rispose Alistair, non riuscendo più a trattenere una risata.
“Oh! Ma come fai a sopportarlo, dolcezza?”
Dolcezza, splendore, tesoro. Non erano certo appellativi adatti a una regina, ma a Oghren era concesso rivolgersi in modo confidenziale ai sovrani, almeno in privato. A nessuno del gruppo che aveva avuto un ruolo essenziale nella sconfitta dell’arcidemone era infatti mai stato imposto di rivolgersi ai propri compagni con il formale ‘vostra maestà’.  Sarebbe stato completamente innaturale.
“Con tanto amore e tanta, tanta pazienza!” esclamò Lady Cousland. Anche se quel momento di ilarità non cancellò la sua aria preoccupata.
“Dolcezza, ti assicuro che sono perfettamente lucido in questo momento, e sono sicuro di ciò che sto per dirti: Morrigan è tornata!”
“Morrigan…?”
E sul volto della regina sparì la preoccupazione, per far posto alla paura.
 
 
*Nota dell’autrice: Non ho mai giocato a DA Awakening né ai vari DLC, né letto i libri ecc… Perdonate queste mie mancanze ma la storia si baserà solo sulle mie informazioni, ricavate appunto esclusivamente da DAO e DA2. Se dovessi riportare delle scorrettezze dovute alla mia “non conoscenza” delle vicende che non ho giocato, vi prego di scusarmi, ma farmelo notare sarebbe inutile, visto che non avrei modo di correggermi e sviluppare la storia basandomi su fatti che non conosco. Se invece dovessi sbagliarmi e riportare informazioni non corrette chiaramente fruibili attraverso DAO e DA2, mi farebbe piacere che mi avvisaste in modo da non incappare più nell’errore. Inoltre, l’età dei personaggi è completamente a mia libera interpretazione, non essendo riuscita a capire quanti anni abbiano i protagonisti nel gioco. In fondo, è pur sempre una fan fiction!

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Capitolo 3
*** Filatterio ***


Non avrei saputo dire quanti anni avesse. So solo che nel bel mezzo della notte era piombata nel mio accampamento mezza svenuta e con diverse ferite su mani e piedi. Io naturalmente avevo udito i rumori ed ero pronta a difendermi da qualunque creatura avesse varcato l’oscurità della mia solitudine. Ma non mi aspettavo di certo una creatura così fiera ed elegante, anche se martoriata dalla fatica. C’era in lei qualcosa... un qualcosa che mi aveva spinto immediatamente a fidarmi di lei e a cercare di aiutarla. Ormai giaceva a terra esamine accanto al fuoco che avevo acceso poche ore prima. Mi ero avvicinata cautamente e avevo visto che sanguinava in modo copioso. Se non avessi arrestato l’emorragia, l’elfa sarebbe sicuramente morta e non potevo permetterlo. Le avevo afferrato i polsi e li avevo avvicinati alle caviglie, rannicchiandola in posizione fetale, e poi avevo guarito i tagli.
Questo mia madre non sapeva farlo! Una volta tanto l’allievo supera il maestro! La guarigione è un dono che mia madre non possiede, mentre io l’ho sperimentato quasi subito. Da bambina amavo soccorrere gli animali feriti che trovavo nelle foreste, proprio un attimo prima che mia madre li catturasse per farne la nostra cena. Ma era la prima volta che curavo un’altra persona, oltre me stessa e mia madre.
C’è stata una volta, quasi 5 anni fa, in cui io e lei eravamo al mercato di Val Royeaux, e un ragazzino si era ferito piuttosto gravemente cadendo da cavallo sotto i nostri occhi. Io cercai di precipitarmi a curarlo, ma mia madre mi fermò, decisa. Eravamo in mezzo a decine di persone e con la guerra che imperversava nei liberi confini tra maghi e templari, tutti erano diventati un po’ troppo sospettosi anche a Orlais e non avrebbero esitato a consegnare due eretiche alla chiesa, magari alla Divina in persona. Era molto rischioso già il fatto di girare liberamente nella capitale, date le numerose forze dispiegate a protezione della cattedrale, e dunque non protestai troppo all’ordine di mia madre di lasciare quel ragazzo al suo destino e occuparci delle nostre provviste.
Sbrigati i nostri affari lasciammo in fretta il mercato e tornammo nel nostro rifugio, apparentemente come se non fosse successo nulla. Non ne ho mai parlato con mia madre, ma in realtà ancora oggi mi capita di chiedermi cosa ne sia stato di quel bambino, se sia sopravvissuto, se invece sia morto e abbia sacrificato la sua vita per la nostra. Mia madre lo chiamerebbe sciocco e insulso rimorso. E anche io lo chiamo così. Eppure, di notte ogni tanto mi capita di sognare quel ragazzino che mi ringrazia di avergli salvato la vita, oppure che mi maledice augurandomi tutte le pene dell’oblio, per averlo lasciato lì a morire.
 
Merrill mi aveva guardata e io ero stata tentata di afferrare quei topazi brillanti che aveva al posto degli occhi. Aveva un ascendente strano su di me, mi sentivo legata a lei quasi come se la conoscessi da anni, eppure era stata con me solo un paio di giorni, giusto il tempo di guarire al meglio le sue ferite e recuperare le forze.
“Ho un favore da chiederti” mi aveva detto.
Come potevo rifiutare? Era la prima persona con cui mi ritrovavo da sola, senza l’interferenza materna. Ed era così affascinante… il suono della sua voce era così intenso, così… diverso. Era molto piacevole conversare con lei. Mi aveva raccontato della sua vita, di certo non semplice, delle sue migliori intenzioni naturalmente andate in mille pezzi e della sua costante fuga da una vita che aveva costruito faticosamente solo per vedersela franare addosso.
In quel momento era in fuga dai templari che l’avevano quasi catturata, ma grazie alla magia del sangue, assolutamente proibita dalla chiesa, era riuscita a salvarsi sbarazzandosi di loro. Le sue ferite erano state dunque autoinflitte,  aveva rischiato quasi di ammazzarsi da sola, ma quando glielo avevo fatto notare mi aveva risposto che avrebbe di gran lunga preferito morire per sua stessa mano che per la spada dei templari.
 
Non avevo osato dirle di no. Nemmeno dopo che mi ebbe illustrato il suo folle piano.
C’era un mago nel circolo del Ferelden, un mago di origini nobili che Merrill aveva conosciuto durante uno dei suoi viaggi. Il mago era stato trasferito al circolo quando era ancora un ragazzino, tuttavia, avendo un nome altisonante, gli veniva spesso concesso di lasciare il circolo e far visita ai suoi cari. Suo padre era ormai morto da qualche anno ma era stato un grande uomo, che aveva degnamente servito la corona e i cittadini di Redcliffe, di cui era stato l’Arle. Qualche anno prima di morire aveva abdicato in favore di suo fratello, avendo riconosciuto impossibile considerare erede del titolo un figlio mago, e lo zio del ragazzo si era dimostrato un degno successore. Connor Guerrin, figlio di Eamon e nipote dell’Arle Teagan, era proprio in visita a Redcliffe quando conobbe Merrill. E fu proprio quando ritornò nella torre da uno dei suoi viaggi che noi potemmo nasconderci nella barca, con buona compiacenza del traghettatore, compiacenza costata sei sovrane, per poi sgattaiolare nella cripta col favore della notte.
 
Il comandante Cullen non si aspettava di certo un attacco. L’ora era tarda e i maghi avevano terminato le loro attività giornaliere, ritirandosi nei dormitori. Le guardie notturne erano al proprio posto e la ronda era iniziata. Come sempre, Cullen si assicurava che i suoi uomini seguissero le sue istruzioni prima di ritirarsi nel suo ufficio. Quella notte non era diversa dalle altre. Tranne che per quella strana sensazione, quell’istinto che gli suggeriva di ritornare sui suoi passi. Tornò indietro per controllare che la recluta Jankins fosse davvero dove avrebbe dovuto essere.
Cullen attraversò il salone vuoto con passo svelto e si ritrovò di fronte all’ingresso della cripta della torre: Jankins naturalmente non c’era e la porta era spalancata. Si addentrò cautamente nei sotterranei.  Fece pochi passi e inciampò nella malcapitata recluta. Era morta o svenuta? Un fioco gemito lo rassicurò sulle sue condizioni. Era stato senza dubbio un mago intenzionato a distruggere il suo filatterio. Magari un maleficar. Come aveva fatto a farsi sfuggire un maleficar nella sua torre? Eppure non era negligente né indulgente. Erano previste pene molto severe per i trasgressori, che lui non esitava a infliggere in presenza di prove certe. Non che ce ne fosse stato spesso bisogno. I casi di insubordinazione erano stati piuttosto rari e comunque più da parte dei templari stessi che dei maghi.
Il circolo del Ferelden, a parte la grave parentesi in cui la pazzia di Uldred aveva ucciso quasi tutti,  era sempre stato tranquillo e i maghi non tentavano di far fuori i templari alla prima occasione, né viceversa. A Kirkwall, dove aveva militato anni  con la carica di capitano, era invece l’esatto opposto. La guerra tra maghi e templari era sempre stata latente, per poi scoppiare definitivamente in conseguenza alla pazzia della comandante Meredith. Nessuno aveva avuto il coraggio di prendere il suo posto, quindi ora Kirkwall si trovava sprovvista del circolo e addirittura di abbastanza templari che tenessero a bada i maleficarum. Cullen, come molti altri, non aveva potuto fare altro che allontanarsi da una situazione impossibile da gestire e tornare nel suo Paese.
D’altra parte era inutile negare l’evidenza. Ora qualcuno si era fatto beffe di lui. C’era solo da sperare che non fosse ancora riuscito nel suo intento e che fosse fermato in tempo, prima di distruggere la fiala. Doveva fare in fretta, non c’era tempo per dare l’allarme. Dunque si addentrò silenziosamente nel buio delle cripta, da solo.
Connor ! lo sapeva! Era stato troppo buono con lui! Gli aveva dato il permesso di uscire a suo piacimento, si era fidato e aveva sbagliato! Ormai era tardi, il filatterio era stato distrutto e doveva chiamare rinforzi.
“Gli errori si pagano” pensò Cullen prima di perdere i sensi.
Il raggio gelante colpì il comandante prima che questi avesse il tempo di avvisare gli altri templari. Ci aveva scoperti mentre Connor distruggeva il suo filatterio e aveva cercato di chiamare rinforzi, ma era stato paralizzato dalla magia prima che la voce uscisse dalle sue labbra spalancate. Di li a poco si sarebbe ripreso, quindi non avevamo un attimo da perdere. Fui tentata per un momento di distruggere tutti i filatteri che mi circondavano, ma poi rinsavii. Non ne avrei avuto il tempo e soprattutto sarebbe stato troppo comodo per quei maghi vincere senza nemmeno combattere. Inoltre in molti avevano scelto volontariamente di sottomettersi alla chiesa. Se qualcuno di loro intendeva fuggire, che prendesse il coraggio a due mani e combattesse per la propria libertà, proprio come stava facendo Connor.
Cercammo di lasciare la torre, ma quando raggiungemmo l’ingresso dei sotterranei, notammo che a terra non c’era più il giovane templare stordito: era corso a dare l’allarme. In pochi secondi ci ritrovammo nel salone circondati da una decina di templari armati fino ai denti e mezza dozzina di maghi altrettanto agguerriti.
Il primo affondo fu sferrato dalla recluta che avevamo colto di sorpresa poco prima. Gli effetti magici dell’intorpidimento erano completamente svaniti e ora si muoveva con una discreta abilità. La sua spada per poco non affondò nel petto di Merrill, che riuscì a schivare il colpo solo grazie alla sua agilità elfica. Connor intanto con un incantesimo sbalzò a terra tre dei nostri nemici. Un mago anziano lo attaccò colpendolo a una spalla con una scossa elettrica. Connor per un attimo barcollò e fu alla mercé del mago ma Merrill aveva già fatto ricorso al suo potere proibito, lanciando un maleficio che immobilizzò all’istante il vecchio mago. Io mi occupai dei templari. Serviva forza e resistenza, e soprattutto non potevo farmi guardare bene in faccia, così mutai la mia forma in quella di un ragno velenoso per sfuggire ai nemici semplicemente paralizzandoli e resistere meglio agli attacchi. La mossa funzionò. In pochi minuti riuscii a colpire quasi tutti i templari e Merrill pietrificò i restanti. Connor sferrò un attacco ad area facendo piovere lapilli infuocati che portarono i maghi ancora in piedi a disperdersi per evitare di ferirsi. Approfittando del panico generale ci avviammo verso l’uscita, convinti di averla scampata, quando una voce ci fermò.
“Aspettate!” intimò il primo incantatore. “In nome del Creatore, Connor! Sai vero che le tue azioni ti si ritorceranno contro prima o poi? Non smetteranno mai di cercarti”
“Lo so. Ma ne vale la pena” rispose il fuggiasco stringendo Merrill a sé.
“Non ti fermerò, ma mi devi una spiegazione. Perché? Cosa ti spinge verso il punto di non ritorno?”
Connor rivolse al suo maestro uno sguardo deciso ma malinconico: “E’ semplice. L’amore.”
E si voltò, lasciando per sempre la torre con la sua amata tra le braccia e un’eretica che aveva rischiato la vita per difendere ciò che non capiva.
 
L’amore. Un sentimento strano. Mi è quasi sconosciuto. Tutto quello che so proviene da miti, libri, canti, ma non ho mai capito fino in fondo cosa spinga due persone a vivere l’una per l’altra. Nemmeno mia madre è stata in grado di spiegarmelo, reputando l’amore come una convenzione sociale, che giustifica in genere matrimoni sfarzosi  e che comunque assicura la prosecuzione della specie.
“Quando due persone dicono di amarsi, lo fanno per sfogare i propri istinti e si ripuliscono la coscienza con un sentimento che li convince di essere di versi dalle bestie” aveva detto. Ma nella sua voce non c’era troppa convinzione. Chissà se davvero non è mai stata innamorata. E mi chiedo: come può un sentimento che non esiste dar voce alle più belle canzoni, dar vita a meravigliosi romanzi e essere in grado di cambiare il mondo? Le persone, che bizzarre creature! Sono così curiosa di sperimentare questo strano stato d’animo.
Possibile che fosse ciò che ho provato per Merrill? Un misto di ammirazione, attrazione, simpatia, fiducia, rispetto… possibile che fosse questo l’amore? Confesso di averci pensato quando ci siamo dette addio e lei mi ha baciata. Un piccolo bacio. Le sue labbra morbide e infuocate si sono posate sulla mia bocca, leggere come un alito di vento. Un tocco breve, sfuggente, che mi ha lasciata inerme, senza parole, con la testa svuotata.
“Grazie” mi aveva sussurrato subito dopo, “spero di rivederti un giorno”.
E mi aveva lasciata di nuovo alla mia solitudine, dopo quasi un mese passato insieme, non prima di avermi fatto un ultimo regalo: il suo prezioso anello di legnosilvano.
“Questo me l’ha regalato una mia cara amica. Lo dono a te ora, perché in te ho trovato una sorella”.
Amicizia. Ecco cos’era. Ero stata in grado di dare un nome a tutte le emozioni che mi suscitava stare in sua compagnia, e mancava qualcosa, lo sapevo. Mancava ciò che i poeti chiamano scintilla o passione o follia. Non era amore, ma amicizia. Di quella mia madre me ne aveva parlato, avendola provata sulla sua stessa pelle, e ora l’avevo sperimentata anch’io.
Avevo aiutato la mia amica a coronare il suo sogno d’amore sconfiggendo parecchi templari e anche diversi maghi contenti, quasi grati, di stare al guinzaglio della chiesa. E ora finalmente Merrill era insieme al suo Connor.
Li avevo osservati mentre lasciavano il mio rifugio. Mano nella mano avrebbero affrontato uniti un cammino disseminato di ostacoli che non sembrava spaventarli, anzi, li rendeva felici.
È questo l’amore? Avrei voluto chiederglielo. Avrei voluto chiedere loro se fossero sicuri, avrei voluto chiedere loro di raccontarmi esattamente cosa si prova a stare nelle braccia l’uno dell’altra, ma mentre stavo aprendo la bocca per articolare i suoni, la voce mi è morta in gola e sono rimasta immobile e silenziosa a vederli svanire nel buio e nella nebbia.
Stare qui mi fa pensare a lei, a loro, a quello che io non ho. Non che da sola non stia bene, anzi, la solitudine è a dir poco affascinante, ma ho bisogno di cambiare aria, di muovermi, di apprendere quante più cose del mondo e soprattutto di ritrovare mio padre. Domani mattina lascerò questo luogo. I templari mi stanno cercando, ma qualche ora di sonno mi farà bene. Questa notte senza Luna è mia complice.

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Capitolo 4
*** Lavriella ***




“Vostra maestà, è un onore avervi qui!” esclamò Felsi, con aria estasiata e al contempo stupita.”Non sapevo di un viaggio ufficiale in questa regione, altrimenti l’accoglienza sarebbe stata senza dubbio migliore”.
La povera donna era mortificata. La locanda era in uno stato pietoso: poche ore prima una banda di scalmanati aveva pensato bene di andare a discutere di debiti insoluti proprio lì e quel che ne era seguito era stato tutt’altro che un pacifico chiarimento. In pochi minuti erano cominciati a volare boccali, sedie e persino tavoli e convincere quei balordi ad andare via non era stato semplice.
Addirittura Felsi era dovuta correre ad avvisare i templari a guardia del circolo per farsi aiutare. Questi ultimi le avevano appunto dato una grossa mano a mettere in fuga i malviventi, non prima di aver macchiato qua e là le pareti con un po’ di sangue fresco che la nana stava cercando faticosamente di ripulire, quando la porta, sebbene fosse chiusa a chiave, si era aperta ed era entrata la regina.
“Non preoccuparti Felsi, il mio non è un viaggio ufficiale, sono qui per motivi personali” . Lady Cousland si guardò intorno notando che la donna aveva un bel po’ di lavoro da svolgere. “Mi farebbe piacere aiutarti a risistemare, posso?”
Felsi ora era completamente sbigottita. “Cosa? Ma voi siete l’eroina del Ferelden, nonché la regina! Per quale motivo dovreste aiutarmi a rimettere a posto questo macello?”
“Ebbene” sorrise la sua ospite “Sono provvista di due braccia e due gambe proprio come te, dunque non vedo l’impedimento dove sia. Inoltre, vorrei parlarti di una cosa”
“Come volete”
Felsi continuò a smacchiare le pareti mentre la regina raccoglieva i cocci dei boccali dal pavimento.
“Viaggiate da sola, vostra maestà? Vostro marito non è con voi?” chiese la cameriera.
“Mio marito è stato richiamato alla fortezza di Weisshaupt qualche giorno fa. Ne avrà per un mese almeno”
“Non lo invidio, quello è un postaccio!”
“E’ vero, io ci sono stata per soli due giorni e in confronto le Vie Profonde mi sono sembrate dei prati fioriti. Ma tu come fai a saperlo?”
“Oh, di tanto in tanto passa di qui un custode che racconta le sue avventure: nessuno ne parla bene!”
Dall’ultimo flagello nel Ferelden erano stati nominati parecchi nuovi custodi grigi, molti dal re e la regina stessi. I custodi grigi erano diventati molto popolari, molte canzoni ora ne tessevano le lodi e il fatto che i regnanti in persona ne facessero parte aveva spinto i cittadini di ogni angolo del Ferelden a chiedere di entrarvi. Le reclute però, vista l’ enorme richiesta, erano scelte con cura tramite tornei di combattimento e ardue prove. Solo i vincitori dell’ arena di Orzammar e di questi, i coraggiosi che si addentravano nelle vie profonde a cercare sangue di prole oscura erano ammessi al rituale.
Felsi era comunque molto sveglia. C’era sotto qualcos’altro. La regina non aveva nemmeno il suo solito seguito di ancelle e anche i suoi compagni di avventure erano assenti. Aveva intravisto solo quello strano elfo, ma non era entrato con lei.
“Maestà, voi non dovreste essere qui, vero? Viaggiate in incognito? Non sarà una fuga romantica?”
Disse indicando con un cenno del capo l’elfo dietro la porta.
“Oh per carità!” rispose la regina. “ Sono in incognito, hai ragione, ma di certo non per fuggire con Zevran!”
“Perdonatemi maestà! Sono stata davvero inopportuna. Queste non sono cose da chiedere a una regina!”
Si prostrò in un profondo inchino. “E’ solo che ho detto la prima cosa che mi è passata per la testa, la voce è uscita fuori da sola senza che potessi impedirglielo!” si giustificò.
“Non preoccuparti Felsi. Siamo sole e siamo amiche. Ci conosciamo da quando la corona non adornava ancora il mio capo. Sentiti libera di essere sempre sincera e schietta con me. E già che ci sei, ti prego di non chiamarmi maestà in un occasione come questa, chiamami pure con il mio nome.”
“D’accordo. Con le tue parole mi onori. Allora mi sento libera di chiederti, Lavriella, cosa ti porta in questa parte del Ferelden?”
“Oghren”
“Oh, non starà ancora pensando di mettere su famiglia con me? Ha mandato addirittura la regina per convincermi? Gli ho già detto che non voglio sposarlo, sono uno spirito libero io!”
“Ma no! Non mi ha mandata a convincerti di nulla! Anzi, nemmeno sa che sono qui. Ma sono venuta perché mi ha raccontato qualcosa di strano che è successo proprio in questa locanda”
“Qualcosa di strano? A cosa ti riferisci in particolare? Come avrai notato qui succede qualcosa di strano talmente tanto spesso da trovare strano che non succeda nulla!”
“Me ne rendo conto, ma ho bisogno comunque di sapere cosa ricordi. Qualche settimana fa c’era una donna qui, una donna che forse ricordi anche tu, l’avrai vista insieme a me durante in flagello”
“Oh. Adesso ho capito a cosa ti riferisci”.
 
Zevran stava aspettando da più di un’ora. Era stato tentato di entrare per vedere a che punto fosse l’incontro, ma poi aveva desistito. Lavriella gli aveva chiesto di restare fuori e lui non poteva disubbidire.
Dopo quasi vent’anni ancora scattava a ogni sua richiesta. Aveva rinunciato a qualunque cosa per lei… e ne era valsa la pena. Ogni istante in sua compagnia era un pagamento sufficiente per aver rinunciato a i suoi viaggi, alla sua ritrovata libertà. Non poteva sentirsi più libero se non standole accanto. Lavriella aveva trentotto anni ma era persino più bella, se possibile, di quando l’aveva vista la prima volta. E poi si sapeva, lui aveva un debole per le donne più “mature”.
Persino Wynne era stata presa di mira dalle sue attenzioni. Era una donna affascinante e intelligente. Persino divertente a volte. Era mancata troppo presto per i suoi gusti. Tutti avevano pianto la sua scomparsa. L’intero Ferelden era stato in lutto e in migliaia erano accorsi a dare l’estremo saluto a una donna che aveva contribuito a fare del Ferelden un posto migliore. La sua tomba si trovava a Denerim, ma un monumento la ricordava nella torre del circolo, dov’era cresciuta e aveva imparato ad amare gli altri senza pretendere nulla in cambio. Aveva lasciato un grande vuoto nel cuore dei suoi compagni, e un figlio, Alvius, che ora era primo incantatore. Un figlio che , pur non avendola mai conosciuta era un uomo giusto come lei e altrettanto altruista.
Wynne era morta due anni dopo il matrimonio di Alistair e Lavriella.
Una notte, semplicemente, annunciò che lo spirito che la teneva in vita, aveva ormai esaurito il suo potere e che non avrebbe superato la notte. Non volle nessuno accanto a sé durante i suoi ultimi istanti. Si sdraiò nel grande giardino del palazzo reale a guardare le stelle e fu lì che la ritrovarono all’alba del giorno successivo.
 Lavriella era convinta che se avesse scelto quel posto per esalare l’ultimo respiro, l’avesse scelto per rimanervi per sempre, e così era stato.
Ora lì c’era la sua tomba, su cui Lavriella certe volte passava  giorni interi, parlandole, meditando, piangendo o ridendo, confidandole ciò che aveva nel cuore o semplicemente leggendo un libro. In un certo senso la sentiva ancora vicina. Forse dipendeva dal fatto che Wynne era stata come una seconda mamma e che i suoi veri genitori non avevano una tomba su cui potesse piangere. Così stare sulla tomba di Wynne era un po’ come stare sulla tomba di mamma è papà e su quella di tutte le persone amate che non facevano più parte di questo mondo.
 
Lavriella finalmente uscì dalla taverna. Aveva uno sguardo cupo e assorto, tanto che l’elfo dovette richiamare la sua attenzione schioccando le dita.
“Scusami Zev. Ero sovrappensiero”.
“Me ne sono accorto, credimi” sdrammatizzò lui. “Mi farebbe piacere che mi raccontassi cosa c’e’ che non va” le spostò gentilmente una ciocca corvina dal viso. “Lo sai che puoi fidarti di me. Perché siamo venuti qui?”
 
Era notte fonda. Nessun rumore nel palazzo a parte l’abbaiare di qualche mabari irrequieto e i passi della ronda notturna, cadetti che strascicavano pesanti armature in lungo e in largo per scongiurare qualsiasi tipo di attacco alla fortezza. Un altro tipo di passi si aggiunsero a quelli, leggeri, felpati, veloci. Zevran Arainai era nel suo letto quando li udì.
I suoi raffinati sensi elfici gli avevano suggerito che quelli non erano i passi dei cavalieri, né di una qualunque altra persona. Erano i suoi passi, terminati davanti alla sua porta.
La regina non si degnò di bussare. Semplicemente, dato il suo passato da discreta scassinatrice, forzò la serratura e entrò silenziosamente, richiudendo la porta alle sue spalle. Una fioca luce filtrava attraverso le giunture della porta di legno, che illuminava la stanza quanto bastava per distinguere chiaramente la sua figura. Indossava una leggera camicia da notte di seta lunga fino alle caviglie che avvolgeva morbidamente i suo corpo, coperta da una vestaglia di un tessuto più pesante che però non nascondeva del tutto le sue curve.
Sicuramente non sarebbe stato opportuno farsi vedere in quella tenuta da un altro uomo che non fosse suo marito, ma Zevran non faceva testo. Già. Quasi non fosse un uomo. Quasi non avesse occhi per guardarla, quasi non avesse un c…uore per desiderarla. Eppure non aveva mai fatto mistero della sua incredibile attrazione verso le belle donne, e non solo.
“Lavriella, è successo qualcosa?” Zevran si mise a sedere nel suo grande letto. La sua voce era appena un sussurro.
“Io… ho bisogno di parlarti” disse la regina. Il suo tono era carico d’apprensione.
“Ok, aspetta un attimo”.
Zevran sembrava completamente nudo, avvolto solo in candide lenzuola che lo coprivano dalla cintola in giù. C’era accanto a lui qualcosa di indistinto che sembrava muoversi nell’ampio letto. Lavriella si avvicinò istintivamente e vide una donna dai lunghi capelli rossi dormire beatamente, svestita.
“ Oh cielo!” sibilò. “Scusami, sono stata inopportuna, avrei dovuto quantomeno bussare, tornerò domani!”
Si voltò per andarsene ma Zevran prontamente balzò fuori dal letto e la afferrò per un polso.
“Aspetta!”
Non c’era alcun dubbio: era completamente nudo! Lavriella si era girata quando lui l’aveva afferrata e l’aveva guardato. Cercò di distogliere immediatamente lo sguardo tentando di non arrossire troppo, restando completamente immobile. Zevran non parve notare il suo imbarazzo, tanto che non fece il minimo sforzo per coprirsi.
La spinse dall’altro lato della stanza.
“Nasconditi qui. Mi sbarazzerò di lei e potremo parlare in pace.”
Lavriella annuì e si nascose dietro a un paravento dai decori orlesiani.
Zevran si avvicinò alla ragazza addormentata, si sedette accanto a lei e la svegliò con un delicato bacio sul collo.
“Mia cara”, le disse non appena aprì gli occhi, “temo di soffrire di claustrofobia”.
La ragazza aveva un’aria interrogativa. L’elfo alzò un sopracciglio, come fosse stupito del fatto che lei non avesse capito al volo.
“Vedi” continuò, “temo che questo letto sia troppo stretto per due persone, se si vuole riposare comodamente”.
La ragazza ci mise un po’ ma alla fine concluse: “Vuoi che vada via?”
“Beh, quella sarebbe la mia idea. Non fraintendermi, è stato bello, ma ho bisogno dei miei spazi”.
“Ma è notte, come faccio ad andare in giro da sola? E se incontrassi qualche malintenzionato?” replicò lei.
“Oh, credo che te la caverai benissimo, in fondo sei appena stata a letto col più malintenzionato dell’intera città”. Le sorrise. Uno di quei suoi sorrisi ammalianti, capaci di convincerti di qualunque cosa. La ragazza scoppiò in una risatina maliziosa. Si alzò e raccolse le sue vesti.
“D’accordo, me ne vado, ma prima, mi prometti che ci rivedremo presto?”
“Ma certo mia cara!”
“E mi permetteresti di farti un ultimo regalo prima di andare?”
“Oh tesoro, vieni qui. Che nessuno osi mai dire che Zevran Arainai si sia tirato indietro di fronte a tanta generosità”.
In un attimo la ragazza affondò il suo capo tra le gambe di Zevran, la cui espressione era un misto tra delizia ed estasi. Dopo pochi secondi l’elfo la prese tra le braccia e la poggiò contro la parete. Lui era in piedi e le gambe di lei erano intorno ai suoi fianchi. Ogni vigorosa spinta dentro di lei era un gemito di piacere e soddisfazione da parte della giovane donna.
Lavriella si era voltata per non guardare attraverso le fessure del paravento, ma i gemiti,gli urletti, i sospiri, quelli sì che li sentiva. Sarebbe voluta sprofondare in una voragine e riaffrontare l’Arcidemone magari, pur di non stare lì inerme ad assistere a quello.  Probabilmente non durò a lungo, ma per Lavriella furono attimi interminabili.
Quando finalmente il silenzio ritornò a regnare nella stanza, Zevran spostò il paravento e si avvicinò a Lavriella: “Finalmente soli” disse, come se non fosse successo nulla. Il viso della donna era praticamente dello stesso colore dei pomodori maturi ma la fioca luce evidentemente non diede modo all’elfo di rendersene conto.
“Cosa diamine ti è saltato in mente?”esclamò Lavriella.
“Ti ha dato fastidio? Ti chiedo scusa, ma sai, ne andava della mia reputazione”, si giustificò lui.
“E’ stato a dir poco imbarazzante, non ho mai sentito invocare il Creatore con tanta enfasi in effetti!”
“Che dire, si vede che non ti hanno mai fatto sentire il bisogno di ringraziarlo per tanto diletto” infierì Zevran, divertito.
Lavriella strabuzzò gli occhi, confusa.
“Io… ho bisogno di un po’ d’aria”. Corse alla finestra e la spalancò. La Luna piena illuminò la camera e i suoi occhi, ormai abituati alla semioscurità, poterono cogliere meglio i particolari.
Zevran aveva un corpo perfetto. Il fatto di essere un elfo lo faceva apparire più giovane di quanto in realtà non fosse. Sembrava ancora un ragazzo, un ragazzo di trentanove anni. Sebbene fosse leggermente più basso di lei, era ben proporzionato. Più esile di suo marito, ma altrettanto vigoroso. Le gambe erano ben tornite, le braccia muscolose, il torace  definito. I glutei perfetti erano sicuramente sodi e scolpiti, e la sua virilità… quella no, non avrebbe potuto descriverla, si era imposta di non guardarla.
“In nome del Creatore Zev! Mettiti qualcosa addosso!”
Zev. Adorava particolarmente quell’abbreviazione del suo nome, quando era lei a usarla.
Si affrettò a infilarsi un paio di pantaloni e tornò dalla sua regina, che , intanto, aveva riacquistato un colorito più simile a quello umano.
“Devi farmi un favore”gli disse.
“Qualunque cosa”.
“Tra pochi giorni partiremo per il lago Calenhad, io e te da soli, ma non chiedermi il perché. Non adesso, almeno ”.
E lui non gliel’aveva chiesto. Non le aveva fatto nessuna domanda. Aveva acconsentito perché passare del tempo da solo con lei gli era sembrato semplicemente un premio non meritato. Sapere di averla accanto gli bastava. Ma ora… sembrava così triste. Voleva cancellarle dal viso quell’espressione infelice. Era giunto il momento di chiedere.
Ufficialmente la regina si era recata a far visita al primo incantatore e non aveva portato la sua scorta reale perché al circolo non sono ammessi molti estranei. Nessuno aveva protestato sul fatto che l’unico accompagnatore fosse l’elfo biondo. Era pur sempre un campione che aveva aiutato l’eroina del Ferelden. Inoltre erano buoni amici e il re stesso non dubitava della loro lealtà. Peccato che il re fosse stato richiamato d’urgenza alla fortezza di Weisshaupt e che non sapesse di questo viaggio. La regina però aveva inviato un messaggero per avvisarlo che sarebbe stata lontana dal castello per un po’. Se nella lettera avesse specificato o meno che si sarebbe allontanata sola con un uomo, nessuno lo sapeva.
“Hai ragione Zev. Ti devo delle spiegazioni. Ma non volevo parlartene prima di esserne sicura”.
“Sicura di cosa?”
“Vedi... ricordi quando Oghren è venuto a farci visita a palazzo?”
“Certo. Ti ha portato cattive notizie?” Zevran incominciò a preoccuparsi.
“Cattive è un eufemismo. Siamo qui perché volevo verificare che non avesse semplicemente sognato quello che mi ha riferito”.
“E…?”
“E… vieni! Devo assolutamente parlare con Alvius!”
La regina si diresse verso il molo a passi svelti, seguita dal suo amico. Il templare a guardia del circolo nemmeno la guardò in faccia.
“Mi dispiace, per via di alcuni problemi, nessuno può accedere al circolo”.
“Sono qui per vedere il primo incantatore. Sono sicura che lui mi lascerebbe entrare”
“Chi credete di ess… vostra maestà? Vi chiedo di perdonarmi, non vi avevo riconosciuta! Il traghettatore vi porterà immediatamente al circolo”.
 
“Alvius! Come stai?”
La regina del Ferelden aveva varcato la porta del suo studio. Non si aspettava di vederla lì, era passato poco tempo dalla sua ultima vista e non credeva che sarebbe tornata così presto. Non che gli dispiacesse. Lady Cousland era una donna la cui compagnia era sempre un piacere. Gli aveva cambiato la vita.
Era riuscita a rintracciarlo nella chiesa di Orlais e l’aveva aiutato a diventare l’uomo che era ora.  Non aveva mai conosciuto sua madre, ma da quello che gli avevano raccontato, era una donna meravigliosa che non aveva smesso di pensare a lui nemmeno per un attimo.
Il dono della magia si era manifestato tardi in lui, quindi non era stato rinchiuso ma era diventato un semplice servo della chiesa. Quando aveva scoperto i suoi poteri aveva deciso di tenerli nascosti perchè sapeva che nel circolo, essendo solo un umile servo, non avrebbe avuto vita facile. E ora, grazie alla regina che l’aveva fortemente rivoluto in patria, si ritrovava primo incantatore del Ferelden.
“Vostra maestà, quale onore rivedervi così presto!”
“Anche per me è sempre un piacere rivederti Alvius”
Lo scambio di convenevoli durò pochi secondi, nei quali Lavriella si sedette e rifiutò con cortesia tè e biscotti.
“Mi è stato riferito che ci sono stati dei problemi al circolo”.
“Le notizie viaggiano in fretta vedo. Sono mortificato, maestà. Il ragazzo non aveva mai manifestato le sue intenzioni, era sempre stato tra i più diligenti…”
“Non è mica colpa tua. Ognuno è responsabile delle sue azioni e ne pagherà le conseguenze”.
Alvius notò amarezza e rimprovero nelle parole della regina. Che sapesse che l’aveva lasciato andare?
“Ma non sono qui per incolpare nessuno. Voglio solo farti qualche domanda” continuò lei.
Il primo incantatore tirò un  impercettibile sospiro di sollievo.
“Ma certo, risponderò con piacere alle vostre domande, se potrò”
 “Connor era solo quando è fuggito?”
“No, c’erano altri due maghi con lui”
Due? Possibile che ci fosse anche lui?
“Non li abbiamo visti bene in faccia, erano coperti da pesanti mantelli e cappucci. Una maleficar elfica e un mutaforma. Quest’ultimo non sappiamo dire se fosse umano o meno, né se fosse uomo o donna. Alcuni templari però giurano che fosse una donna”.
Dunque. Era proprio Morrigan. Ma l’altra maga… era un’elfa. Non era lui.
“Forse potrei darvi una mano a rintracciare Connor.”
“Vostra maestà. Non è certo un compito che spetta a una regina”
“Dimenticate il mio ruolo ufficiale. Sono pur sempre un custode grigio, e i custodi si battono per ciò che  è giusto”
“Beh, allora, forse, vi conviene cominciare da Redcliffe, in fondo Lady Isolde e l’Arle Teagan potrebbero sapere qualcosa e dubito che parlerebbero volentieri coi templari” ipotizzò Alvius.
“Sono sicura che l’Arle Teagan non abbia nessun ruolo in tutto questo!” affermò decisa la regina.
“Non intendevo…”
“Non preoccuparti. Mi hai dato un ottimo consiglio, andrò a Redcliffe”
“Volete restare qui per la notte?”
“No, grazie, non abbiamo un attimo da perdere, riprenderemo il viaggio subito”.
 
Appena scesero dalla barca, di nuovo soli,  Zevran  non potè più far tacere i suoi sospetti.
“Stai cercando Morrigan, vero?”
“Sì” ammise Lavriella abbassando lo sguardo.
“Avevi promesso di non cercarla”
“E lei di non farsi più vedere”
“Infatti non l’hai vista!”
“Oh, per favore! Io non l’ho ancora vista,certo, ma è stata vista da Oghren e Felsi, nonché da mezzo circolo!” Lavriella, con fare stizzito, si avvicinò alla riva del lago, lo sguardo fisso all’orizzonte e le braccia incrociate. Il tramonto imminente non addolcì il suo stato d’animo.
Zevran la raggiunse. Lei era testarda, ma lui non era da meno, e di certo non aveva paura di parlarle chiaro, anche a costo di discutere.
“Perché ti stai accanendo così?” le chiese, duro.
“Temo che non sia sola”. E in quel momento Zevran vide i suoi occhi, lucidi, brillare alla luce del tramonto.
“Dimmi che succede”
Lui l’abbracciò e lei si sciolse. Pianse. E rivelò per la prima volta il suo oscuro segreto. Un segreto che si era portata dentro per diciannove anni e che non aveva confidato nemmeno a suo marito, ignaro di avere da qualche parte quel figlio che aveva sempre desiderato e mai avuto fra le braccia.
 

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Capitolo 5
*** Feron ***




Redcliffe. Un villaggio tranquillo. Nessuno avrebbe potuto immaginare quanta sofferenza abbia patito in passato, quando mia madre giunse qui per la prima volta. Tutta colpa di Connor, mi aveva detto. Ma un ragazzino che brama l’approvazione del padre farebbe qualsiasi cosa, anche a costo della vita di tutti i paesani. Ora avevo conosciuto quel ragazzetto ingenuo e l’avevo trovato uomo, ma ancora abbastanza folle da fare qualunque cosa per amore.
Sono venuta qui perché avevo bisogno di provviste e denaro, e questa cittadina è la più vicina al lago. Ho accettato una missione dalla bacheca del cantore. La Chiesa paga bene e non fa troppe domande su chi mette a disposizione le sue abilità per scopi a lei congeniali.
 
Un prezioso manufatto era scomparso e io avevo promesso di ritrovarlo. Si trattava di un antico tomo.
Ero alla ricerca di una taverna per ristorarmi prima di intraprendere una lunga ed estenuante ricerca, quando una figura incappucciata mi sfilò davanti con un grosso involucro rettangolare di tessuto scuro tra le mani.
Impossibile. Non potevo essere così fortunata. Lasciai perdere l’attraente prospettiva di un pasto caldo e seguii quella figura fino a un mulino abbandonato su una collina deserta. La figura entrò e io aspettai il favore del buio per infiltrarmi nella cascina e recuperare il tomo. Quando il sole fu tramontato sul lago, varcai l’entrata del mulino senza far rumore.
 
C’era silenzio. Anche troppo. Che fossi stata scoperta? Che la figura incappucciata mi stesse aspettando? Mi addentrai vigile nell’oscurità della cascina.
Il libro era su un leggio improvvisato, composto da assi di legno accatastate una sull’altra. Mi avvicinai, cauta.
 
“Nel regno del terrore esistono solo due modi per fuggire: la morte e una nuova vita. E non è detto che le due cose siano poi così diverse. Na via lerno victoria*”
Arcanum?
Sembrava l’addio di un suicida. Quando vidi quel corpo esamine lo pensai davvero. Ma non c’erano ferite evidenti, né traccia di impiastri o pozioni velenose che avrebbe potuto bere. Solo quello strano libro le cui pagine continuavano a scriversi da sole e a scorrere veloci. Sembrava avesse preso vita. O che qualcuno gli stesse dando la propria.
Cercai di leggere qualche riga da quei fogli impazziti e mi accorsi che raccontavano di qualcuno che giaceva ai miei piedi. Ma come aveva fatto a entrare nel libro? C’era modo di liberarlo? Cosa sarebbe successo se fossero finite le pagine? Dovevo fare in fretta.
Più che salvare quel ladruncolo ero incuriosita da quella magia. Tentai qualche incantesimo,  senza successo. L’unico modo era entrare lì dentro. Mi guardai intorno: uno specchietto rotto striato di sangue, una bella spilla orlesiana, quel libro e quella frase in lingua arcana che appariva in tutte le pagine. Magia del sangue.
Afferrai la spilla, mi punsi il dito, lo passai sullo specchio rotto, pronunciai la frase. Nulla.
Osservai meglio lo specchio. Sembrava rotto dall’interno, i frammenti non riflettevano nulla. Tirai fuori dalla mia sacca l’unico oggetto che mi ricordasse mia madre, il suo prezioso specchietto decorato con pietre preziose, che mi aveva donato prima della partenza. Ripetei il rituale con quello. Nell’esatto istante in cui il vetro andò in frantumi, il mondo intorno a me si fece buio.
 
 
Era tutto perfetto. Mio padre e mia madre si abbracciavano sorridenti mentre mi guardavano giocare col mio fratellino. Il sole splendeva alto nel cielo  e il lago Celestine luccicava come uno zaffiro. C’erano uccelli e cerbiatti e nug. E c‘era un drago. Un drago enorme e mostruoso era venuto per uccidere.
Le sue zanne arrivarono talmente vicine alla mia faccia che potei sentire il rancido odore di morte che esalavano. Mi fissò per qualche secondo per poi volgere la sua furia distruttrice sulla mia famiglia. Con una fiammata arse la nostra casa e i nostri giochi. Coi suoi artigli arpionò il bambino e ne straziò il corpicino. Mia madre e mio padre furono dilaniati dai morsi della bestia.
Solo io ero sopravvissuta.
Il drago, placata la sua sete di sangue, era volato via lasciandomi sola tra le membra sparpagliate di persone che amavo e io ero terrorizzata dalle sensazioni che provavo.
Terrorizzata dalla tanta soddisfazione che avevo provato ad assistere a quello spettacolo.
 
“Sveglia!” una voce lontana, ovattata, mi stava riportando alla realtà.
“Svegliati” questa volta era più forte, vicina.
“Mi senti? Stai bene?”
Aprii gli occhi e me ne ritrovai due grandi e verdi che mi guardavano  con aria interrogativa.
“Sto bene” borbottai alzandomi. “Chi sei? Dove siamo?”
Tutto sembrava offuscato, annebbiato, non riuscivo a distinguere i contorni delle cose più lontane di un palmo dal mio naso. Un uomo era di fronte a me e in quello strano mondo confuso mi sembrava davvero bello. Era più alto di me, occhi profondi e luminosi, capelli scuri di media lunghezza raccolti in una treccia.
“Mi chiamo Feron. Credo che ci troviamo all’interno del libro”
In quel momento ricordai. Ricordai il rituale. Ricordai il  mio incubo. Ebbi un brivido.
“Perché hai rubato il libro?” gli chiesi.
“Ero curioso. Avevo sentito dire che conteneva un grande potere e volevo constatare di persona se fosse vero. E tu perché sei qui?”
“Ho visto il tuo corpo. E lo specchio rotto. Sono stata assunta per recuperare il tomo”
“E invece ora ti ritrovi intrappolata qui dentro. Bella mossa!” mi sbeffeggiò.
“Oh, vedo che non sono l’unica idiota nei paraggi!” replicai.
“Un punto per te” dovette ammettere.
Di certo avevamo qualcosa in comune io e lui: eravamo entrambi abbastanza folli e avventati.
“C’è un modo per uscire di qui?” domandai.
“Se lo sapessi sarei già andato via”
“Le pagine continuavano a scriversi da sole quando ho visto il libro. Immagino che fossi tu a riempirle. Magari coi tuoi tentativi di scappare. Hai scoperto qualcosa? ” dissi, giustificando la mia domanda apparentemente banale.
“Niente di niente. Non che non ci abbia provato. Vedi quelle barriere magiche?” Mi indicò le pareti luminose che ci circondavano. Emettevano un sinistro ronzio. “Quando le attraverso mi ritrovo inevitabilmente di nuovo qui”
“Dev’esserci un modo…Abbiamo poco tempo prima che le pagine finiscano”
“Immagino che una volta finite, finirà anche la nostra vita”
Non avevo fatto tutta quella strada solo per finire intrappolata in un tomo maledetto. Ero pur sempre una maga. Dovevo fare qualcosa.
“Dev’essere senz’altro un demone a controllare il libro” conclusi.
“Già, ma non si è fatto vedere fino ad ora e io non ho idea di come evocarlo” mi spiegò il ladro.
“Allora gli offriremo qualcosa che di sicuro non rifiuterà”
“Che hai in mente?”
“Io sono una maga. E i demoni amano particolarmente i maghi, anelano a impossessarsene”
“Ma rischi di trasformarti in un abomino!” mi guardò come fossi impazzita.
“O questo o una morte inevitabile per entrambi. Mi dispiace, non me ne starò qui ad aspettare di morire!”
Feron si zittì. Sapeva che avevo ragione. “Ok. Dimmi cos’hai in mente”
“Lo attirerò qui con la magia. Tu nasconditi dietro al mio mantello se vuoi”
“Non sono mica un bambino!” replicò offeso. “Anche se non sono un mago sono abbastanza abile in combattimento”
“Ma i pugnali contro i demoni non sono le armi ideali” lo schernii.
“Come vuoi!” rispose irritato “Allora me ne starò in disparte a vederti massacrare”
 
 
Il demone del desiderio era molto diverso da come me lo aspettassi. Aveva le sembianze di una donna, un corpo sensuale e un viso da diavolo. La sua voce era un sussurro, capace di entrare nella mente e soggiogarla.
“Non ho forse realizzato il tuo desiderio? ” disse.
“Di cosa parli, demone?”
Quale desiderio?
“Il tuo sogno. Non è forse ciò che desideri?”
Io desiderare quella mostruosità?
“Sogno? Era in incubo!” urlai sconvolta.
“Ne sei sicura?” mi penetrò con quegli occhi bui, senza pupille, insinuandosi nei miei pensieri. Riaffiorò in me la sensazione di appagamento che avevo provato nel vedere i miei cari a brandelli.
 “Ci hai provato demone. Ma i tuoi trucchi non attaccano con me!” affermai infine, convincendomi sempre di più che quelle strane sensazioni fossero opera sua.
Lanciai il mio primo dardo di fuoco e lo colpii in pieno. Il demone fu sbalzato a terra ma si rialzò prontamente fluttuando nell’aria. Sapevo che non sarebbe stato un combattimento alla pari e non fui sorpresa quando evocò delle ombre che mi circondarono. Le allontanai con un’esplosione mentale che mi permise di concentrarmi di nuovo sul demone. Lo immobilizzai con un raggio gelido e ne approfittai per dedicarmi alle ombre.
Notai che alcune erano già cadute. Altre si dirigevano verso di me e le annientai con una pioggia infuocata. Non mi accorsi che una di loro mi stava per attaccare alle spalle. Non ebbi il tempo di reagire. Mi voltai e vidi l’ombra su di me prepararsi per sferrare il suo attacco, gli artigli acuminati a pochi centimetri dal mio viso. Chiusi gli occhi, d’istinto.
 
Non sentivo dolore. Ero già morta? Riaprii lentamente gli occhi. L’ombra era svanita e di fronte a me c’era Feron coi pugnali ancora a mezz’aria. Aveva neutralizzato la minaccia, mi aveva salvato la vita.
“Pensi ancora che i miei pugnali siano inutili?” mi strizzò l’occhio. “Ci penso io qui,”disse indicando le ombre rimaste “tu pensa al demone”.
Il raggio gelante stava finendo il suo effetto. Sentivo le lame di Feron svolgere il proprio lavoro.
Colpii il demone con un pugno di pietra. Barcollò intontito e sferrai l’ultimo, decisivo attacco: una scarica di elettricità partì dal mio bastone e folgorò il demone all’istante.
 
Alle mie spalle la battaglia si era conclusa. Feron aveva vinto. E io avevo ucciso il demone. Non ci restava che uscire di lì. Le barriere magiche erano cadute. Una di loro celava una porta che non voleva aprirsi. Persino le doti di ladro di Feron si rivelarono inutili. Troppo complicato scassinarla.
Forse doveva semplicemente essere abbattuta. Osservai la porta: era pesante, di legno spesso, molto solida. Di certo non c’era più alcuna protezione magica a sigillarla, ci voleva solo un po’ di forza bruta.
Intorno a noi non c’era nulla che potesse essere utile allo scopo, così mutai la mia forma in quella di un feroce orso e l’abbattei sotto lo sguardo stupito di Feron.
 
La porta celava una fonte di energia che sembrava non esaurirsi mai. Riacquistai la mia forma umana e mi avvicinai alla fonte assieme a Feron. All’istante sentii una gran forza scorrere dentro di me. I miei poteri erano diventati sicuramente più efficaci e anche il ladruncolo sembrò avvertire le mie stesse sensazioni, blaterando di sentirsi più forte e più abile. Oltre la fonte, un portale magico ci avrebbe permesso di lasciare quel luogo e tornare alla realtà.
Somigliava a una pozza d’acqua in cui si riflettevano le nostre vite. Potevamo osservare i nostri corpi addormentati ma non potevamo raggiungerli. Era impossibile d’attraversare.
Mi ricordai del modo in cui eravamo arrivati e cercai uno specchio. Forse ne sarebbero serviti due. Non vedevo nulla che potesse fare al caso nostro.
“Aspettami qui” mi disse Feron.
Si allontanò per pochi istanti e tornò con qualcosa di lucente tra le mani.
“Dove l’hai trovato questo?” gli chiesi indicando lo specchietto.
“Sul corpo di quello stupido demone”
“Bella intuizione!” mi complimentai. Lui mi strizzò l’occhio in segno di intesa.
“Purtroppo però è uno solo,” notai “ non riusciremo a tornare indietro entrambi”.
Mi guardò con quegli occhi di smeraldo. “Prendilo tu. Vai.”
“Cosa?” mi colse alla sprovvista “E io che ti facevo un misero ladruncolo egoista…”
“Beh, non che non sia un misero ladro, o che non sia egoista e molto interessato a salvare la mia pelle, ma come potrei lasciare che tanta bellezza venga sprecata? Che razza di gentiluomo sarei?” mi sorrise.
I suoi denti bianchissimi erano in contrasto con la sua carnagione abbronzata. Doveva passare molto tempo al sole, pensai, chiedendomi se il suo sorriso avesse lo stesso effetto che aveva su di me su tutte le fanciulle del Ferelden.
“Forse non ce ne sarà bisogno” dissi. “Dammi lo specchio”
 
 
 
 
* Na via lerno victoria: solo i vivi conoscono la vittoria
 
 

 

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Capitolo 6
*** Richiesta ***


 
“Dammi lo specchio”
Feron me lo porse.
Aveva un’aria da cane bastonato, quella di chi si aspetta di essere abbandonato a una morte lenta e inesorabile.
Afferrai lo specchio e presi uno dei suoi pugnali.
Le pareti intorno a noi cominciavano a sgretolarsi , il pavimento a tremare, il soffitto a cedere.  La magia del demone stava esaurendo il suo potere. Quel mondo sarebbe sparito per sempre, la qual cosa mi faceva sentire non poco sollevata.
Mi procurai un piccolo taglio sulla mano col pugnale e feci lo stesso con la sua.
Magia del sangue. Non mi facevo di certo scrupoli se serviva a una buona causa. E salvarci la vita sembrava un’ottima causa.
Feci colare le gocce di sangue sullo specchio e strinsi la sua mano ferita nella mia, in modo che i tagli si toccassero.
“Ora pronuncia insieme a me la formula e usciamo di qui” gli dissi.
“Sarà meglio che funzioni” sospirò lui.
Pronunciammo quelle parole maledette e ci immergemmo del portale.
 
Mi risvegliai sul duro pavimento di legno della cascina. La prima cosa che vidi, ancora una volta, furono gli occhi di Feron che  attendevano che proferissi parola. Era bello per davvero, non un’illusione di un mondo offuscato dalla magia demoniaca.
“Ce l’abbiamo fatta” riuscii finalmente a sussurrare.
“A quanto pare sì”
Mi misi faticosamente a sedere.
“Volevo dirti” continuò lui  “che ti ringrazio per il tuo aiuto. Ho provveduto a distruggere il tomo mentre tu te la prendevi comoda. Dormivi così bene…  beata come un piccolo nug… un paio di volte hai fatto anche il verso del nug”
“Ehi! Io no faccio affatto il verso del nu… cos’hai detto?” scattai in piedi .
“Brutto idiota!” strillai arrabbiata, “Ora cosa riporterò alla Chiesa? Non riceverò nessuna ricompensa e io ho bisogno di denaro!”
“Ah, ingenua creatura!” mi canzonò lui. “Credi davvero che ti avrebbero dato una ricompensa per un tomo senza il suo potere? Al massimo ti avrebbero arrestata per averlo usato!”
Rimasi senza parole. Il suo ragionamento non faceva una piega. Perché non ci avevo pensato? Ero arrabbiata, ma non riuscivo a capire perché. E i suoi occhi continuavano a scrutarmi.
“Scusami” balbettai. Perché mi fissava? Mi rendeva nervosa. Uscii dalla cascina per prendere un po’ d’aria fresca. Il cielo stellato era limpido e un leggero vento accarezzava le mie guance. Tirai un bel respiro. Mi sentivo molto meglio. Il mio cuore riprese a battere ad un ritmo normale e la mia mente si schiarì. Avevo riacquistato la mia solita calma.
Feron mi raggiunse poco dopo. “Io… non so come ringraziarti. In fondo mi hai salvato la vita” mi disse, “vorrei ripagarti in qualche modo”.
“Sentiamo. Come vorresti ripagarmi?” risposi secca.
“Beh…potrei comporre una canzone in tuo onore, se solo mi dicessi come ti chiami”
“Idiota!” gli voltai le spalle e mi allontanai a passi svelti. Mi sentivo di nuovo agitata.
“Ehi!” sentii che gridava alle mie spalle, “Me lo dici o no il tuo nome? A chi dedicherò le mie canzoni?”
Mi voltai verso di lui. “Canta di Andraste e mi riterrò soddisfatta”
“Non ti facevo un tipo religioso”
“Non lo sono, infatti”
 
 
Quando gli dissi che il  mio nome era proprio quello della profetessa la sua espressione fu un misto di incredulità e divertimento.
“Non ci posso credere,” disse ridendo “Ti avranno presa in giro parecchio!”
In realtà non avevo detto il mio nome molte volte in vita mia, specialmente a qualcun altro.
Merrill era stata la prima a cui mi fossi presentata. Poi c’era stato Connor, ma non gli avevo rivelato io il mio nome, era stata Merrill , dicendo che doveva essere un segno della benevolenza divina, sebbene non credesse negli dei degli umani.
 
Guardai Feron con aria torva. In effetti era il primo a prendermi in giro per il mio nome. Evitai di rispondere anche se sentivo una crescente irritazione difficile da reprimere, soprattutto se la persona che la causa ti dice che vuole seguirti per ripagarti del tuo aiuto.
“Io viaggio da sola” gli avevo ripetuto più volte, ma era stato parecchio insistente. Non mi fidavo. Ma un paio di pugnali mi sarebbero sicuramente serviti durante la mia ricerca. E poi sembrava che sapesse parecchie cose del Ferelden, o del mondo in generale. Ero avida di sapere, alcune cose mia madre non aveva potuto insegnarmele. Non mi aveva mai accennato,  per esempio, che potessero esistere umani tanto affascinanti… e odiosi e sbruffoni e pieni di sé.
 
“Devo chiederti una cosa” ammise infine. Da qualche ora era troppo silenzioso. Lo sospettavo. Mia madre mi ha avvertito: non si fa mai niente per niente. Sapevo che dietro a quel suo sorrisetto sfacciato si nascondeva dell’altro.
“Di che si tratta?” domandai con aria distratta. In realtà ero tutta orecchie.
“Ho bisogno del tuo aiuto”
Ci risiamo. Gli servivo a qualcosa, ecco perché aveva tanto insistito a voler venire con me.
“Cosa ti serve?” replicai idignata.
Lui  non era Merrill, con la sua voce delicata e i modi gentili. E gli occhi. Occhi grandi, in cui si rifletteva il fuoco davanti a cui eravamo. Al contrario degli occhi di Merrill, quelli di Feron mi era impossibile guardarli per più di due secondi.
 
 
“Ho un contatto” mi aveva detto, “un vecchio amico” aveva precisato, “che mi ha chiesto di reclutare gente… interessata alla sua causa”.
“Che tipo di causa?”avevo chiesto, non riuscendo più a nascondere l’interesse.
“Diciamo che il mio amico ha molto a cuore le persone speciali come te”
“Speciali?”
Avevo alzato un sopracciglio, diffidente.
“Beh, persone che combattono per i propri ideali…”  aveva aggiunto.
“Spiegati meglio!” lo avevo incalzato, impaziente di capirci qualcosa.
“Il mio amico è un mago, precisamente un eretico, come te”
Il quadro si stava chiarendo.
“E cosa vuole il tuo amico da noi eretici? Se cerca qualcuno che combatta la sua guerra, con me perderebbe il suo tempo. Ho già le mie battaglie da vincere”
“Lo capisco. Beh, posso dirti che a lui di sicuro farebbe piacere parlare con te… quello che avrà da proporti e le tue intenzioni in merito sono solo affari vostri”.
Così avevo accettato di incontrarlo. In fondo era di strada.
L’eretico si trovava nella foresta di Brecilian, normalmente popolata dagli elfi dalish, e io ero estremamente curiosa di conoscere l’umano che viveva in un simile territorio con il loro benestare.

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Capitolo 7
*** Eretico ***


Le rovine erano avvolte da fitti rampicanti, le rocce erose dal tempo. Non c’era traccia di vita, nulla che potesse indicare la presenza di un uomo in quella terra abbandonata. E invece qualcuno c’era.
Una vecchia rocca crollata era diventata il rifugio dell’uomo più ricercato del Thedas.
Avevo sentito parlare di lui da mia madre. A quanto pare, era il fautore di un grosso cambiamento, ancora purtroppo in atto. Finalmente davo un volto a tutte quelle storie e leggende narrate nei romanzi e nelle canzoni dei menestrelli.
“Ti ho portato una persona” gli disse Feron appena scorse la sua ombra in un angolo buio dell’edificio in rovina. Due occhi spuntarono luminosi nell’oscurità.
“Ci possiamo fidare?” disse una voce che aveva ben poco di umano.
La creatura abbandonò il buio e si rivelò. L’aspetto era quello di un uomo ma una strana iridescenza azzurrognola si irradiava intorno a lui.
“Posso parlare col mio amico?” domandò Feron, con mio stupore. Non vedevo nessun altro nella stanza.
“Feron, sei tu?”
Improvvisamente la creatura smise di emettere la tetra energia e sembrò tornare nel suo mondo. Era umano ora, a tutti gli effetti. Anche la sua voce era cambiata. Tranne gli occhi. Quegli occhi spalancati, guardinghi, irrequieti. Sembravano gli occhi di un folle. E forse non era da escludere che lo fossero.
“Si amico mio, sono proprio io. E ti ho portato qualcuno che potrebbe fare al caso tuo”.
“Davvero?” chiese entusiasta l’eretico. “Proviamo allora!”
 
Non ebbi nemmeno il tempo di rendermene conto che una scarica energetica bluastra si diresse verso di me, colpendomi in pieno. Riuscii ad attivare appena in tempo un’esplosione mentale che fece barcollare i due uomini, ma non riuscii a evitare l’attacco che mi scaraventò a terra. Mi rialzai, furiosa e dolorante, e scatenai una pioggia infuocata.
Ci ero cascata come una stupida. Mi ero fatta ingannare da un bel sorriso e un paio di occhi verdi! Non riuscivo a capire cosa potessero volere da me, ma qualunque cosa fosse non l’avrei ceduta senza combattere. Notai che Feron si era messo in disparte, come per assistere a uno spettacolo. Codardo! Lasciava il lavoro sporco al suo amico… ladruncolo da strapazzo.
Un’onda d’urto colpì il mio braccio, facendomi sanguinare. Era solo un graffio, ma contribuì ad accrescere la mia rabbia.
Un forte vento ora soffiava nella stanza. Mi era quasi impossibile stare in piedi e lanciare un incantesimo era fuori discussione. Arretrai a fatica, senza altra possibilità di scampo. Uscii dal rudere e aspettai che la furia del tornado si placasse. Inspirai profondamente. La forza bruta non sarebbe bastata. L’eretico era estremamente potente e la mia abilità di mutaforma non mi avrebbe aiutata. Rimandai la guarigione della mia piccola ferita per concentrare tutte le mie energie nell’attacco successivo. Aspettai pazientemente che il nemico venisse a cercarmi, appostandomi di fianco all’entrata, e non appena il mago varcò la soglia, lo congelai con un raggio gelido.
Mi precipitai all’interno. Avevo un conto da regolare con Feron.
“Aspe...” tentò di dire, ma una scarica elettrica lo tramortì all’istante.
 
Si risvegliarono con mani e piedi legati con una robusta edera che cresceva in abbondanza in quella zona.
“Sto decidendo cosa fare di voi” dissi loro non appena riaprirono gli occhi.
“Notevole” affermò il mago, rendendosi conto della situazione in cui era.
“Che ti dicevo?” rispose il suo amico. Sorridevano. Sembravano quasi divertiti.
“Adesso esigo delle risposte!” esclamai io interrompendo le loro risatine sarcastiche.
“In realtà ho io una domanda da porti” fece il mago, liberandosi dai nodi con estrema facilità, quasi fossero di paglia.
“Non un’altra mossa!” intimai puntandogli il bastone contro. “Sei sotto tiro”.
“Tranquilla, non ho nessuna intenzione di fare un altro passo. Solo di parlarti”.
 
 
Un miagolio salutò la nostra partenza.
“Lui è Ser Pelosotto III” ci aveva detto Anders.
La palla di pelo si strofinò sui miei calzari e io non potei fare a meno di chinarmi e concedergli una grattatina dietro le orecchie. Il gatto chiuse gli occhi, beato, cominciando la sua roca sinfonia.
Feron salutò il suo amico con un abbraccio.
“Ci rivedremo presto” gli disse. “Abbi cura di te”.
“Vorrei che fosse così, Feron, ma il mio corpo non potrà essere una dimora adeguata per Giustizia ancora per molto, lo sai”.
Lo sguardo del ladro si incupì, ma il mago lo incoraggiò: “Non intristirti, sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato, la corruzione dei prole oscura mi ha indebolito più di quanto abbia fatto lo spirito, è la vita che ho scelto e io non ne sono pentito, non più almeno, da molti anni ormai”.
Feron ritrovò il suo sorriso. “E poi ti è andata bene, pensa se ti avessero trovato il templari, a quest’ora non saresti qui a tendere agguati a fanciulle indifese!”
“Hai ragione amico mio, poteva andare molto peggio di così!”
Scoppiarono in una fragorosa risata. Io mi ero allontanata insieme a Ser Pelosotto per lasciare loro il tempo di dirsi addio.
“Tieni”. Anders porse a Feron una piccola pergamena avvolta in un nastro scarlatto.”Ho bisogno che tu mi faccia quest’ultimo favore”.
“Ho capito”, rispose il ladro,”ti giuro che lo farò”.
 
 
Eravamo in viaggio da un paio di giorni ormai e Feron era stranamente taciturno.
Anders mi aveva messa alla prova e poi mi aveva chiesto di combattere la sua guerra contro la chiesa e io naturalmente avevo rifiutato.
“Combatto già per me stessa”, gli avevo detto. Anders non era sembrato deluso o contrariato dalla mia risposta, anzi, mi era sembrato compiaciuto.
“Non potevo sperare in una risposta migliore. Sono sicuro che qualunque cosa tu faccia sarà un’ulteriore spina nel fianco per quei maledetti templari”.
 
Il fuoco ardeva al centro dell’accampamento, quando vidi Feron addentrarsi nell’oscurità della foresta. Ebbi la tentazione di seguirlo, per chiedergli a cosa stesse pensando, ma desistetti. E mi resi conto di non sapere molto di lui. Mi aveva raccontato tante storie sul Ferelden, qualcuna anche su Antiva, ma di lui mi aveva detto poco o niente. Sapevo che era cresciuto praticamente per strada, non aveva mai conosciuto i suoi genitori, e che se l’era cavata viaggiando, rubacchiando, lavorando per persone che non avevano intenzione di seguire le strade della legalità per raggiungere i propri scopi. Gli avevo chiesto se avesse anche ucciso per soldi, ma non mi aveva risposto. Era rimasto sul vago e aveva cambiato argomento. Chissà perché. Forse non erano domande da porre alla gente. Non ero ancora abituata ad aver a che fare con le persone.
Rimasi assorta a osservare il fuoco, quando uno scricchiolio attirò la mia attenzione. Dei passi alle mie spalle schioccavano sulle foglie secche.

“Feron, io volevo chiederti…” mi voltai e vidi una figura. Non era Feron. La figura, esile e aggraziata, abbandonò la penombra avvicinandosi al fuoco. Era un’elfa. Per un istante credetti che fosse Merrill, poi la guardai bene in volto. Aveva lunghi capelli rossi legati in una coda alta, occhi scuri e pelle ambrata.
 
**********************
La regina poche ore dopo l’incontro con Alvius era arrivata a Redcliffe col suo seguito composto unicamente dal suo amico elfo. Mancava da quel luogo da qualche anno ormai, forse due o tre, e la sua visita in città aveva fatto scalpore. I paesani l’avevano riconosciuta subito e si erano prodigati in ogni sorta di servigio, attenzione, premura nei confronti di sua maestà. Dopo aver visitato la chiesa e altri importanti punti di riferimento dove si richiedeva presenziasse una regina in una visita anche solo ufficiosa, si fece annunciare al castello dell’Arle, che raggiunse appena si fu liberata dai convenevoli che permeano la vita di un regnate.
Era notte fonda ormai.
Zevran aveva avanzato l’ipotesi che forse sarebbe stato meglio giungere al castello la mattina dopo, ma lei era la regina, non poteva fermarsi, purtroppo, a dormire in una taverna qualunque. Il castello era l’unica soluzione, per di più Lavriella aveva fretta, quindi l’elfo non aveva insistito oltre.
Lavriella varcò la soglia dell’imponente portone di legno ed entrò nel salone principale. Il fuoco ardeva nel camino, dei vasi pieni di fiori freschi ornavano l’ampia sala, donando all’ambiente un profumo dolce e delicato, in contrasto con l’austerità della dimora.
Una mezza dozzina di cavalieri presenziava all’incontro tra la regina e L’Arle Teagan.
“Sono onorato dalla tua presenza, maestà” le disse Teagan non appena la vide apparire, bella come sempre, e incedere verso di lui con la grazia che l’aveva sempre contraddistinta, anche ai tempi in cui indossava un’armatura e impugnava una spada.
Era passato del tempo dal loro ultimo incontro. Meno di un anno, forse, dato che l’Arle si recava spesso a palazzo per visitare suo nipote e dargli anche dei saggi consigli. Aveva pochi anni più di Alistair eppure era di gran lunga il più saggio tra i due, o meglio, il più abile a risolvere velocemente e pacificamente i problemi legati all’amministrazione e alla giurisdizione di un regno tanto grande. Col tempo Alistair aveva imparato a sbrigarsela quasi sempre da solo, così il tempo passato a Denerim era diventato sempre meno. Purtroppo. Teagan avrebbe voluto avere più spesso la necessità di andare a trovare suo nipote adottivo, ma aveva fatto un buon lavoro con lui e ora non ce n’era più bisogno.
Ormai aveva sempre meno occasioni per vederla.
Ma adesso lei era lì.
Quando fu abbastanza vicina, Teagan si chinò e le baciò la mano.
“Cosa ti porta a Redlciffe?” le chiese.
“Devo parlarti di Connor”.
L’argomento non stupì di certo l’Arle, che si aspettava che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a fargli delle domande dopo quello che era successo alla torre del circolo, ma credeva che sarebbe arrivato un templare, non la regina in persona. Di sicuro quello che era accaduto era un fatto molto grave, ma non così grave da scomodare sua maestà. Non poteva aver fatto tutta quella strada solo per chiedergli dove fosse finito suo nipote Connor.
“Se non ti dispiace, vorrei discuterne con te in privato” aggiunse poi la regina.
L’Arle annuì. Era d’accordo. Se non l’avesse fatto lei, probabilmente gliel’avrebbe chiesto lui.
 “Accomodiamoci nel mio studio”.
Lavriella seguì l’Arle insieme a Zevran.
“Aspettami qui”, disse all’elfo prima di entrare nello studio.
“Certo! Ormai sono diventato bravissimo a sorvegliare le porte, ti assicuro che la terrò d’occhio!” ironizzò lui, restando fuori.
 
 
“Non sapevo cosa avesse in mente Connor, ha scioccato anche me.”
Teagan era sincero. Non si aspettava una cosa del genere da suo nipote. Non avrebbe mai creduto che sarebbe stato capace di abbandonare sua madre e sparire.
“Forse dovresti parlare con Isolde, ma non credo ne sappia più di me” suggerì infine.“Adesso starà riposando nelle sue stanze, ma se vuoi la faccio chiamare subito”.
Isolde era stravolta. Il suo bambino era svanito nel nulla, non poteva darsi pace. Era preoccupata ma confidava che ora fosse felice e quella speranza le dava un po’ di forza.
“Cosa succederà a mio figlio se lo troveranno?”
“Se lo troveranno i templari, sarà imprigionato e forse giustiziato”
“OH!” la donna emise un gemito disperato.
“Ma se lo trovo io per prima…potrei impedirlo” la consolò la regina.
Isolde annuì, speranzosa.
Lavriella si sentì un po’ in colpa. Non era certo corsa fin lì per aiutare Connor, ma solo per il suo egoismo.
Eppure doveva continuare a chiedere.
“Se c’è qualcosa...qualunque cosa che possa aiutarmi a trovare Connor, forse dovresti dirmelo”
Isolde scosse la testa. “Non so dirti dove sia andato, ma…”
Si fermò, incerta, poi proseguì. “Ma so che era innamorato”
“Innamorato? Di chi?”
“Non lo so! Ma forse è scappato con lei!”
“Isolde, perché non me l’hai detto prima?” le domandò Teagan, sorpreso.
“E cosa avrei dovuto dirti? Che mio figlio è un uomo capace di provare dei sentimenti? Cosa vuoi saperne tu dell’amore, tu che non ti sei mai sposato?”
Teagan non disse nulla. Lasciò che la donna sfogasse tutta la sua frustrazione e pensò al motivo per cui non si era mai sposato. Non si era mai innamorato. Non di nuovo.
“Ti prego, trova mio figlio!” disse infine Isolde alla regina, prima di ritirarsi di nuovo nella sua stanza.
“Ho tutta l’intenzione di trovarlo” le rispose Lavriella.
Quando Isolde fu andata via, Teagan e Lavriella rimasero soli.
“Allora, mi dici come mai sei qui?” le chiese lui.
“Per Connor…ovviamente”
“Vuoi dire che mio nipote non c’entra nulla?”
“Certo che c’entra, ti ho detto che sono qui per lui!”
“ Non quel nipote. L’altro.”
“Ah…”
Lavriella lo guardò negli occhi. La conosceva bene. Strano. Eppure, anche se in passato Teagan si recava molto spesso a palazzo, non avevano avuto poi troppe occasioni per parlare, non da soli almeno.
Ma lui l’aveva osservata tanto. Conosceva il significato di ogni sua espressione, sapeva quando era a disagio o quando era felice. Era felice quando guardava Alistair, ad esempio, ed era a disagio in quel preciso momento.
“Ti capisco se non vuoi parlarmene”
Lavriella abbassò lo sguardo, più che imbarazzata, mortificata. Aveva mentito a tutti per anni, persino a suo marito. E ora si sentiva come una bambina sorpresa con le mani nel barattolo della marmellata.
“Ricordo ancora la prima volta che ti ho vista”  continuò Teagan. “Pensai di non aver mai visto una creatura più bella e fiera. E lo penso ancora adesso”
La regina tornò a guardarlo negli occhi. L’Arle aveva un’espressione dolce, comprensiva. Era un uomo ancora tremendamente affascinante.
“Ricordo anch’io il nostro primo incontro. Mi incuriosisti da subito. Ero molto insistente, ti facevo domande molto personali e tu arrossivi a ogni mia richiesta”
“Già. Nonostante tutto l’orrore che ci circondava mi facesti pensare che valeva la pena di combattere per le cose belle di questo mondo. Come te.”Teagan le sorrise.
La luce delle candele si andava affievolendo ormai. Presto si sarebbero spente, lasciando i due interlocutori al buio.
“Ho pensato spesso a te” confessò la regina, “ma poi mi sono innamorata di quel  bamboccione di tuo nipote”
“Ancora oggi non capisco come sia stato possibile!”
“Nemmeno io!”
I due scoppiarono in una sonora risata.
La luce era sempre più fioca.
Teagan si avvicinò a lei. Non era mai stato così vicino. L’abbracciò. Abbracciò per la prima volta la donna che amava. La strinse forte, si inebriò del suo profumo. Poi le baciò la fronte.
“Sei mia nipote, ma non ti vedrò mai come tale. Semplicemente, non ci riesco”
“E tu sei mio zio, ma anche il primo uomo che mi abbia fatto battere il cuore”
Le candele si spensero. Rimasero abbracciati ancora.
“Resta qui stanotte” le sussurrò Teagan all’orecchio.
Subito dopo però si rese conto che era suonata come una proposta. Si allontanò si scatto. Il buio rendeva impossibile decifrare l’espressione di Lavriella ma era sicuro che non fosse esattamente delle più indifferenti.
“I-io volevo dire… uhm… volevo dire che è molto tardi e che sarebbe meglio per te e Zevran fermarvi al castello per la notte, per poi ripartire domani!”
“Ho capito cosa volevi dire,” lo rassicurò lei, “e ti ringrazio, ma partiremo subito”
La porta dello studio si aprì e Zevran vide uscire Lavriella da una stanza buia, dov’era stata sola con l’Arle. Un’espressione lievemente infastidita si stagliò sul suo volto. Comunque dissimulò in fretta.
“Possiamo andare?” le chiese con tono distaccato.
Lavriella annuì e i due si diressero verso il portone principale.
Teagan vide allontanarsi di nuovo colei che aveva sempre amato e avrebbe continuato ad amare.  
“Ti amo, maestà. E’ questa la verità. Ti amerò per sempre. Amerò il tenero ricordo del nostro incontro nel mio cuore.”
 
 
 
 
 
*NDA: Mi hanno fatto notare che in realtà Teagan si sposa con Caitlyn, una tizia che il gray warden aiuta a Redcliffe, oppure può sposare la cameriera che lavora nella taverna, Bella. Ma si sposa solo se le tizie vengono aiutate ad andare via con molti soldi. Naturalmente Lavriella non l’ha fatto XD, non ha comprato la spada da Caitlyn e ha consegnato la taverna a Bella (quindi non sono andate via da Redcliffe).

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Capitolo 8
*** Altelha ***




“Cosa vuoi?”
Feron era comparso alle spalle dell’elfa e le puntava una lama alla gola, tenendola per le spalle con l’altro braccio intorno al suo corpo.
Io decisi di non fare nulla e di assistere alla scena. La ragazza sembrava disarmata. Restò completamente immobile, con aria spaventata.
“Non ho cattive intenzioni…”
“Allora cosa ci fai qui?” la incalzò il ladro.
“Sono arrivata qui per caso...Stavo  vagando nella foresta e ho visto il fuoco da lontano…” disse con voce incerta.
“Vagavi nella foresta? Per quale motivo?” Feron era scettico.
“Io…sono scappata!” confessò lei.
“Scappata? Da chi?”
Feron allontanò il pugnale dal suo collo quel tanto che bastava perché l’elfa potesse sfuggire agilmente alla sua presa e piazzare un calcio ben assestato al suo inguine. Afferrò la borsa coi nostri viveri e incominciò a correre.
Fantastico, un’altra ladra. Come se non mi fosse bastato incontrare Feron, che , in quel momento, era accasciato e dolorante, intento a constatare tramite un elaborato palpeggiamento l’integrità della zona colpita.
A quel punto mi alzai e le scagliai addosso stizzita un quadrello arcano. L’elfa non vide arrivare la scarica, dato che mi dava le spalle, e fu colpita in pieno. Inciampò e cadde con la faccia nel fango. Era stata una scena piuttosto divertente, che mi strappò persino un sorriso.
Feron, ripresosi, decise di raggiungerla, ma la ladra, contrariamente alla goffaggine mostrata poco prima, si rialzò immediatamente e scagliò contro il suo inseguitore un piccolo pugnale che aveva tirato fuori dai calzari. Feron riuscì a scansarlo, non senza procurarsi un piccolo taglio alla guancia. Furioso, il ragazzo la raggiunse e si avventò su di lei, atterrandola ancora una volta. L’elfa si ritrovò supina con addosso Feron che cercava di strapparle la nostra borsa che teneva a tracolla e nel contempo tentava di farla smettere di scalciare e tirare schiaffi.
Stavolta fu un ramo, a portata di mando lì per terra, a colpirlo, purtroppo, in pieno volto. Per fortuna un ramo piccolo, che bastò comunque alla ladra per far mollare la presa al suo assalitore e divincolarsi, spingendolo a terra alla sua  destra. Poi con un balzo si rialzò e tentò nuovamente la fuga.
Era un osso duro, ma Feron non era da meno. Era ancora a terra, ma con una capriola riuscì ad agguantarle una caviglia e farla ruzzolare nuovamente. Lei disse qualcosa in linguaggio elfico che  non capii, ma dal tono valutai che era meglio non aver capito, poi iniziò il combattimento corpo a corpo.
Da principio restai a guardare. Indubbiamente era brava, ma Feron sapeva tenerla a bada, non senza difficoltà. L’elfa però scansò uno dei suoi affondi e rapidamente, durante una mezza giravolta, sfilò dal fodero un altro  pugnale nascosto, stavolta, all’altezza della coscia destra. Altrettanto rapidamente lo piantò sulla coscia di Feron, che fu costretto a inginocchiarsi, sofferente. Non era grave ma doveva sicuramente essere doloroso. Estrasse il pugnale ma il sangue usciva a fiotti. Intanto lei se la stava dando a gambe.
Decisi dunque di  intervenire di nuovo. Lanciai un incantesimo di guarigione a Feron e un raggio gelido alla fuggitiva. Finalmente si placò. Restò immobile diversi minuti prima di risvegliarsi legata a un tronco d’albero.
“Lasciatemi andare!” gridò, quasi con arroganza.
“Ti aspettavi davvero che ti avrei lasciata fuggire con le nostre provviste?” la interrogò spavaldo Feron, evidentemente dimentico del fatto che ci sarebbe riuscita benissimo se non fossi intervenuta io. “Adesso dicci perché sei qui. Chi ti ha mandata?”
“Mandata?” chiese lei. Sembrava sinceramente incredula. “Io non lavoro per nessuno, non ho la minima idea di chi siate! Se non l’hai notato, mi interessava allontanarmi il più possibile da voi!”
“Con il nostro cibo” precisai io.
“Ero affamata!”
“Ragazzina, non ti hanno insegnato a chiedere le cose invece di rubarle?” la canzonò Feron.
Non potevo crederci. Un ladro che faceva la predica a un altro ladro. Cercai di dissimulare la mia espressione a metà tra il divertito e lo sbigottito.
“Chiedere non serve a nulla. Ho imparato che se vuoi qualcosa, devi prendertela”
Adesso era Feron quello che non riusciva a trattenere una risata. Indubbiamente la ragazzina aveva carattere.
“Come ti chiami?” le chiesi.
“Che ti importa?!” rispose cocciuta.
“Come preferisci. Se non vuoi avere a che fare con noi, allora ce ne andremo e ti lasceremo qui legata come un salame, così che i tuoi inseguitori ti possano trovare presto…”
La ragazza sgranò gli occhi, spaventata. Finalmente era pronta a collaborare.
“Mi chiamo Altelha” si affrettò a dire.
Feron insistette: “Da dove sei fuggita, e perché?”
“Sono fuggita da Denerim”
 
Denerim. La città di mio padre. La città che stavo cercando disperatamente di raggiungere.
“Com’è Denerim?” avevo chiesto ad Altelha. “E il re? Com’è?”
Le avevo detto che avevo sentito parlare di lui e che ero curiosa di conoscerlo, inoltre lei e Feron sapevano che avevo affari da sbrigare alla capitale, ma nessuno dei due sapeva esattamente cosa. Solo che dopo quell’incontro il sogno di raggiungerla si era allontanato  ancora.
“Non posso tornare a Denerim!” aveva asserito Altelha, piagnucolando.
Sua madre Shianni, la guardiana dell’enclave, le aveva combinato un matrimonio con un ragazzo che lei odiava. In realtà non lo odiava per un motivo in particolare, lo odiava perché non era lui la persona che amava. Era innamorata di un giovane nano. E questo giovane nano adesso si trovava a Orzammar. E lei voleva raggiungerlo a tutti i costi. E io mi ritrovavo coinvolta ancora una volta in affari di cuore che non mi riguardavano.
“Non andremo a Orzammar!” tentai di protestare, ma Feron, una volta soli, mi fece notare che quella deviazione era necessaria.
“Pensaci bene. Se la lasciamo andare, potrebbe spifferare a qualcuno di noi, di te…verremmo catturati e arrestati in men che non si dica.”
“Non se l’ammazziamo”, proposi, seria.
Feron mi guardò come se avesse di fronte un demone. Evidentemente non si aspettava che io fossi capace di un azione tanto crudele. Non gli avevo mai raccontato di quella volta che lasciai al suo destino quel ragazzino a Val Royeaux….
“D’accordo. Non la ucciderò” dissi abbassando gli occhi. Quel suo sguardo di ghiaccio mi aveva mortificata. Avrei voluto dirgli che in realtà  non avevo mai avuto intenzione di uccidere la ragazza, ma evitai di giustificarmi.
“La porteremo a Orzammar, lei resterà lì, sposerà il suo nano, ci sarà riconoscente a vita e saremo tutti felici e contenti” continuò lui.
“Ma non ho tempo per quello!”
“Non sei tu a dire sempre che vuoi conoscere di più sul Ferelden? Beh questa è una buona occasione, in più…” si interruppe, indeciso se continuare o meno.
“In più?” lo sollecitai io.
“In più saremmo di strada per una commissione che devo svolgere”
“Commissione?”
Incredibile. Ancora una volta spacciava un suo interesse per un interesse comune.
Incrociai le braccia, in attesa che mi raccontasse tutto.
E lui lo fece. E io, ancora una volta, non potei dire di no.
 
 
Anders gli aveva salvato la vita. Gli doveva tutto. L’aveva raccattato ai confini della foresta di Brecillian sette anni prima, quando Feron aveva appena quindici anni. Era stato picchiato, rapinato e ferito a morte. Se Anders non l’avesse trovato sarebbe sicuramente rimasto lì a dissanguarsi lentamente finchè il suo cuore avesse cessato di battere. Invece il mago  l’aveva soccorso e l’aveva portato nel suo rifugio. Gli aveva guarito le ferite, si era occupato di lui per mesi, gli aveva dato un tetto, del cibo e persino dei vestiti. In seguito si erano rivisti spesso, erano diventati grandi amici, forse Feron in lui vedeva il padre che non aveva mai avuto, comunque sia Anders aveva fatto per lui più di chiunque altro. E ora lui non poteva negargli questo favore, forse l’ultimo favore  che gli avrebbe mai chiesto, oltre che l’unico.
Ascoltai il racconto di Feron seduta accanto a lui, davanti al fuoco e alla carne che si stava cuocendo.  Ero rapita dalla sua voce e quel suo sguardo malinconico mi suscitava tenerezza, sembrava un cucciolo sperduto bisognoso di coccole.
Mi sorpresi a pensare a lui in questi termini, ma la verità è che aveva uno strano ascendente su di me, era capace di farmi cambiare stato d’animo in meno di un secondo, solo con uno sguardo o con una singola parola. Non ne comprendevo il motivo però, e la cosa mi rendeva ancora più confusa.
Altelha era andata a prendere dell’altra legna, quindi eravamo ancora una volta soli.
“Sei mai stato innamorato?” gli chiesi, d’istinto, senza preamboli.
Lui mi guardò negli occhi, in silenzio, per un lungo istante. Poi finalmente mi rispose.
“Sì”, disse, tornando a guardare il fuoco. E non aggiunse altro.
“E… com’è? Com’è essere innamorati di qualcuno? Com’è l’amore? E’ davvero così speciale come cantano i menestrelli, come lo descrivono i poeti?” Non riuscivo a smettere di chiedere.
Lui sorrise, ma era un sorriso triste, lo sguardo era basso, il volto tirato.
“Sì” si limitò a dire, “E’ proprio come lo descrivono i poeti”
Quel Feron di poche parole non era il Feron che avevo imparato a conoscere in quelle settimane, anzi, quando era così silenzioso voleva dire che qualcosa non andava.
“Sono stata indiscreta?” mi scusai, non so nemmeno io il perché. “Mi dispiace, probabilmente non sono cose che vanno chieste”
“Non è colpa tua” si affettò a dire, notando il mio rammarico. Mi mise una mano sulla spalla, come per rassicurarmi. “Il passato è passato. L’importante è il presente, no?”
Finalmente tornò a sorridermi.
Poi successe una cosa strana.
Mi abbracciò. Mi strinse forte. Durò solo qualche secondo ma io rimasi completamente inerme tra le sue braccia, inerte come una bambola di pezza. Assaporai il tepore della sua pelle sulla mia, il profumo dei suoi capelli, ma non ebbi il tempo di rendermi conto di quanto mi piacesse quella sensazione che mi lasciò andare e si alzò, addentrandosi poi ancora una volta nell’oscurità della notte.
Poco dopo tornò Altelha, con una bella scorta di legna. Ancora mi chiedevo come mai non ci facesse fuori nel sonno, ormai era con noi da tre giorni, aspettava forse l’occasione giusta? Più probabilmente conveniva anche a lei avere protezione durante il suo lungo viaggio. Dopotutto, voleva arrivare sana e salva dal suo amato Gulliack.
“Parlami ancora di Denerim” le chiesi, e così lei mi raccontò dell’enclave, del mercato, di certi posti in cui si va alla ricerca di piacere, e del castello. Un grande castello, sì, ma lei non c’era mai stata. Conosceva il re e la regina perché qualche volta avevano fatto visita a sua madre, ma non aveva avuto modo di parlare con loro al di là dei convenevoli. Erano pur sempre i sovrani del Ferelden. Sua madre però li conosceva da quando erano due semplici custodi, e loro non si erano dimenticati di lei. Il re sembrava un brav’uomo e teneva molto al suo popolo, umano  o elfico che fosse. Anche la regina era una donna giusta e meritevole. In fondo aveva ucciso l’arcidemone con le sue mani, o meglio, col suo pugnale.  Questo avrebbe elevato chiunque, anche il peggiore dei furfanti, a uomo degno di lode, tanto più se quella persona fosse stata davvero degna, come lo era infatti la regina.
 
Quella notte dormii sonni tranquilli, accanto al fuoco che lentamente moriva, ricordai il tepore delle braccia di Feron, il suo inaspettato ma piacevole tocco. Scivolai nel sonno con più facilità del solito, evitando di preoccuparmi di stare in guardia. Cominciavo a fidarmi di Altelha. Parlandole quella sera avevo capito che era una ragazzina desiderosa di fare le proprie esperienze e di vivere la propria vita, proprio come me. La comprendevo. Eravamo entrate in sintonia, se così si poteva dire. Quindi avevo deciso di concedere a me stessa una tregua. E poi ero sicura che mia madre non avrebbe permesso a nessuno di farmi del male.
 
 
**************************************


“Adesso basta!” cercò di convincerla lui, ma lei era testarda come un mulo.
Zevran lo sapeva bene, quando Lavriella si metteva qualcosa in testa, difficilmente cambiava idea.
“Sono due settimane che brancoliamo nel buio, non la troveremo mai!”
“Il pessimismo di certo non ci aiuterà!” ribattè lei, sarcastica.
“Nemmeno l’ottimismo se è per questo”
L’elfo camminava nervosamente in un punto imprecisato della foresta di Brecillian, percorrendo la stessa distanza avanti e indietro, tamburellandosi il mento con le dita di una mano, mentre cercava di far ragionare la donna.
“Ma non capisci Zev? Davvero non capisci? Credevo fossi l’unico di cui potessi fidarmi e ora vuoi voltarmi le spalle?” gli occhi della regina si fecero lucidi.
Zevran stava quasi per cedere, ma ormai la conosceva bene, così come lei conosceva lui e sapeva che il 90% delle volte lui cedeva ai suoi occhioni tristi. Ma ora la cosa era seria, non poteva lasciarsi soggiogare così e soprattutto lei non poteva continuare a comportarsi come una bambina capricciosa.
“Lo sai che io ti capisco benissimo. E sai anche che puoi fidarti di me, così come sai che per te farei di tutto, anche senza questo tuo sguardo da cerbiatta”
Si avvicinò a lei e le strinse le mani nelle sue, guardandola dritta negli occhi.
“Ma renditi conto che non possiamo andare in giro in tutto il Ferelden per mesi e mesi senza garanzie di successo. E’ come cercare un ago in un pagliaio…”
“Oh, per favore! In qualche modo la troveremo!”
“Dovresti parlarne con tuo marito”.
Quella frase colse Lavriella alla sprovvista. In realtà si sentiva tremendamente in colpa ma riuscì solo a esternare rabbia.
“Cosa? Ma chi ti credi di essere per farmi la predica?  Tu! Che più di tutti dovresti sapere cosa vuol dire avere dei segreti, soffrire per quei segreti e sentirsi in colpa ogni giorno per quei segreti! Tu che più di tutti dovresti sapere come ci si sente a fingere ogni giorno, ogni giorno della tua vita, a portare un peso centomila volte più grande di te, a sentirti schiacciare da quel peso, a sentirti soffocare tanto da farti mancare il respiro….tu…tu…” le ultime parole si persero in un sussurro. Stavolta le lacrime erano copiose, e vere.
Zevran lo sapeva. Eccome se lo sapeva. Sapeva cosa significava mentire ogni giorno alla persona che amava, sentirsi soffocare, mancare il respiro, sentirsi morire, eppure continuare a lottare in una battaglia di cui si conosce già l’esito. Che non è di certo una vittoria.
La strinse a sé. L’abbracciò forte, asciugò le sue lacrime e ingoiò le sue, ancora una volta.
“La troveremo” le promise.

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Capitolo 9
*** Haven ***


Haven. Un villaggio tranquillo. Fin troppo. Abbandonato, a dire il vero, da molti anni.
Era stato teatro di diverse stragi e macabri rituali in cui era coinvolta la magia del sangue, un bel po’ di sangue, e per questo si diceva che il posto fosse sempre infestato da demoni e spiriti malevoli dell’oblio.
In più la presenza di un alto drago sulle montagne vicine non aveva di certo incoraggiato i viandanti a fare visita al paesino ormai disabitato. Le case di legno erano ancora in buono stato, anche se le erbacce e i rampicanti si erano impossessati di buona parte delle costruzioni. Non c’era anima viva, nemmeno uno scoiattolo o un passerotto solitario. Niente. Solo silenzio.
“Perché siamo venuti qui?” domandò Altelha, spazientita dal lungo viaggio e dal clima rigido della montagna.
“Te l’ho già detto, ragazzina, ho una commissione da svolgere” rispose secco Feron.
“Sì, ma..qui? Nel bel mezzo del nulla? Sei sicuro?” chiese ancora l’elfa.
“Certo che sono sicuro. Adesso per favore fai silenzio”
“Silenzio? Perché? Quello che c’è qui non ti basta? L’unica cosa che si sente è il rumore dei nostri stivali che calpestano l’erba secca!” insistette lei.
“Io in realtà sento anche un altro rumore, molto fastidioso”
“Davvero? Cosa? Cosa senti? Io non sento nulla!”
“Sento la tua voce!” le rispose irritato il ladro.
“Ah ah ah”  reagì lei scimmiottando una risata, sarcastica.
Per mia fortuna decisero di non continuare quel battibecco e io mi ritrovai a lodare la mia omonima per la graditissima grazia ricevuta.

In passato qualcuno aveva provato a far rinascere Haven, ma senza successo. La ricerca dell’urna delle sacre ceneri di Andraste era stata ormai abbandonata per la presenza del drago, che aveva arrostito un bel po’ di pellegrini prima che qualcuno si rendesse conto che era meglio evitare di recarsi in quel posto. Inoltre le famiglie che avevano provato a insediarsi nel paesino erano scappate via nel cuore della notte affermando che vi fossero presenze maligne che impedivano loro di vivere lì.
In realtà io non avvertivo nulla di tutto ciò. Non c’erano demoni, né spiriti. Il velo non era stato squarciato e credevo che la storia dell’infestazione fosse solo sciocca suggestione derivante da ridicole superstizioni.
A mio parere non c’era nulla di intrinsecamente malvagio nella magia del sangue, era una magia come un'altra, ammesso che si fosse abbastanza forti da non farsi controllare dai demoni. Quelli che cedevano alla possessione erano i maghi deboli, cui il mondo avrebbe potuto fare volentieri a meno. Anche Merrill la pensava come me.
Merrill. Chissà dov’era ora, chissà se stava bene, chissà se era felice col suo Connor. Sarebbero scappati nel Tevinter, immaginavo, un luogo in cui avevo sentito dire che la magia non era vista come il nemico. Quel titolo, nell’impero, spettava ai Qunari.
I Qunari erano in guerra col Tevinter praticamente da sempre, e sembrava che nessuna delle due parti avrebbe ceduto così facilmente. Dopo la sconfitta a Kirkwall, qualche anno prima, i Qunari per un po’ avevano smesso di infastidire i loro avversari, per poi tornare più forti e agguerriti che mai. Evidentemente avevano preso tempo per riorganizzarsi. E di conseguenza l’impero aveva dato fondo a tutte le risorse disponibili, sacrificando per il bene comune una quantità enorme di schiavi che ormai venivano rapiti sempre più spesso anche da Paesi in cui la schiavitù era proibita. Nonostante ciò, i Qunari erano riusciti a conquistare la piccola cittadina di Carastes, decidendo, per il momento, di fermarsi lì. L’impero però aveva risposto con un attacco ad Alam, conclusosi, al contrario delle previsioni, in una rovinosa sconfitta.
Tuttavia il Tevinter sopportava ogni colpo e la capitale era ancora una fortezza inespugnabile.
Incredibile credere a quante cose interessanti si potevano scoprire viaggiando e parlando con la gente. Di molte cose ero venuta a conoscenza solo da quando ero partita e avevo come guida un ladro dalla parlantina sciolta. Perché lui parlava, e tanto. Di tutto, quasi. Ma molto poco di sé stesso.
Da quando parecchi giorni prima gli avevo fatto quelle domande personali e lui mi aveva…abbracciata, non ci era più capitato di chiacchierare da soli  e di certo non avevamo più toccato l’argomento.
Io però continuavo a chiedermi come mai non l’avessi incenerito all’istante. Mi ero ritrovata tra le sue braccia così in fretta che ero stata incapace di oppormi. Ma come gli era saltato in mente? Chi gliel’aveva chiesto? La cosa mia aveva turbato parecchio, non potevo fare a meno di pensarci e ripensarci. E ogni volta sentivo il mio viso in fiamme e il mio cuore battere più velocemente. Avrei dovuto agire diversamente, ma mi ero lasciata sopraffare. Sopraffare da un abbraccio? Non era da me, se mia madre mi avesse vista avrebbe cominciato a ridere a crepapelle, ne ero sicura. Anzi, ero sicura che mi avesse vista e che aveva riso, sebbene se io non l’avessi sentita.

Il sole ormai era quasi tramontato e stava per arrivare la gelida notte. Non avevamo ancora trovato un riparo e dormire all’aperto su quelle montagne non era una buona idea, se non volevamo rischiare di  morire congelati. Dopotutto avevamo l’imbarazzo della scelta: di cascine vuote ce n’erano a bizzeffe, ma Feron non si decideva a smettere di andarsene in giro in cerca di chissà cosa. Io e Altelha lo seguivamo, provando a captare qualche indizio utile sul suo misterioso comportamento.
D’improvviso, delle voci attirarono la nostra attenzione, rompendo il silenzio in cui sembrava fossimo sprofondati. Erano risate cristalline e gioiose, che mi riportarono alla mente le gite ai villaggi in compagnia di mia madre, dove spesso incontravo dei bambini che giocavano a rincorrersi o  a nascondersi nei campi. Avevo sempre invidiato quei bambini, sarebbe piaciuto anche a me giocare con loro, ma mia madre non me l’aveva mai permesso. Spesso mi incantavo a guardarli da lontano mentre lei sbrigava le sue commissioni, e fantasticavo su quanto sarebbe stato bello avere un fratellino con cui divertirsi.
 
Una bambina dai lunghi capelli neri stava correndo in un campo. L’erba incolta le arrivava alle ginocchia, eppure lei non se ne preoccupava, anzi, rideva del suo accompagnatore, di parecchi centimetri più basso di lei, che arrancava in mezzo a quella fitta vegetazione.
“Aspettami!” le urlò quasi disperato, “altrimenti dirò alla mamma che abbiamo fatto tardi per colpa tua!”
“E io ti trasformerò in un rospo!” ribattè lei, ridendo.
“E io dirò a papà che usi la magia senza permesso!”
“Non potrai dirglielo se ti trasformo in un rospo!”
“Smettila!” frignò il bambino, quasi con le lacrime agli occhi, mentre sua sorella si prendeva gioco di lui.
“Scherzavo! Non piangere!” lo rassicurò infine lei. “Forza, ti aspetto, ma sbrigati che tra poco sarà buio”.
 
“Credo proprio che ci siamo” disse Feron guardando i due bambini. Poi volse il suo sguardo verso di me. “Non ci resta  che chiedere a loro. Vai a parlarci e fatti dire dove abitano”
“Cosa? E perché dovrei farlo io? Non sono molto brava con i bambini” risposi seccata.
“Perché sei una donna. Saranno meno minacciati dalla tua presenza che dalla mia, non credi?”
Annuii e controvoglia mi diressi verso i due ragazzini.
Appena fui abbastanza vicina, notai che si somigliavano davvero molto. Stesso colore di capelli, stessa carnagione chiara, stessa forma delle labbra. Tranne per il colore delle iridi. La femmina le aveva di un verde smeraldo brillante, mentre quelle del maschio erano di un azzurro intenso e limpido, come il lago Celestine illuminato dal sole estivo.
A prima vista sembravano umani, ma avevano lineamenti affusolati e occhi insolitamente grandi. Eppure non avevano le tipiche orecchie a punta degli elfi.
La mia presenza sembrò stupirli molto, ma non mi parvero spaventati. Lanciarono un’occhiata alle mie spalle e videro che non ero sola. Tuttavia non fuggirono, ma rimasero in attesa di una mia mossa.
Feci un bel respiro e sfoderai uno dei miei rari sorrisi, cercando di essere più naturale possibile. Avevo affrontato cose di gran lunga peggiori, quanto poteva essere difficile approcciarsi a quei due marmocchi?
Li salutai con un timido “Ciao”. Non ero brava con le persone, ancor meno coi bambini. Che diavolo era saltato in mente a Feron? Non avevo idea di cosa dir loro…
 
“Che vuoi, sgorbio?!”
Eh? Come mi aveva chiamata quella bambina?
“Come hai detto scusa?”
“Ho detto: che vuoi, sgorbio?”
Sgorbio? Alle mie spalle sentii le risatine soffocate dei miei compagni. Come osavano ridere? Mi voltai e li fulminai con lo sguardo. Poi tornai a dedicarmi alla mia simpatica interlocutrice.
“Vedo che non sei una bambina molto educata”
“E a te che importa?”
Bene. Era un osso duro. Ma non mi sarei lasciata mettere i piedi in testa da una ragazzina.
“Hai ragione. Di te non mi importa nulla. Mi rivolgerò a lui” dissi indicando l’altro bambino. “Forse sarà più gentile di te”
“Io sono molto gentile” confermò lui, annuendo.
“Non parlarle!” intervenne sua sorella “Non mi fido, non vedi che brutta faccia che ha?”
“Adesso basta!” la sgridai. “Sto perdendo la pazienza. Chi ti credi di essere, ragazzina? Un’altra parola e ti  giuro che ti….”
La mia frase fu interrotta dal pianto disperato di suo fratello, che mi colse di sorpresa.
“Ti prego! Non farci del male! Non abbiamo fatto nulla, ti prego!”
“Non preoccuparti, ti difenderò io da questa strega!” lo rassicurò la sorella. E dalle sue mani partì una scarica di energia elettrica che mi colpì al braccio, per fortuna troppo debole per creare un danno.
 “Piccola idiota insolente! Credi forse che quello fosse un incantesimo? Adesso ti faccio vedere io come si scaglia una vera  saetta!”
Impugnai il mio bastone e lo puntai contro la mocciosa, ma una mano sulla mia spalla mi fermò.
“Basta così” intervenne Feron. “Lo ammetto, è tutta colpa mia, è stata una pessima idea mandarti da loro”mi sussurrò a un orecchio. Avvampai. Riposi il bastone e mi vergognai profondamente della mia stupidità.
Poi l’uomo si rivolse ai ragazzini, che, confusi, erano rimasti in silenzio ad osservarci con gli occhi sgranati.
“Bambini, cercate di perdonarla, è un po’ irruenta, ma non è cattiva, vi assicuro che non vi farà nulla”
“E’ stata lei a provocarci!” affermò la marmocchia, ritrovando la sua arroganza.
“Lo so, è un po’ rozza e ha un brutto carattere, ma è innocua”
La mia pazienza era messa di nuovo a dura prova.
“Ma non hai sentito? Voleva friggerci!” insistette lei.
“Certo che ho sentito, ma non l’ha fatto, visto? E’ bastato che io le dicessi di smetterla. Non preoccupatevi, obbedisce ai miei ordini” la rincuorò lui con tono complice, strizzandole l’occhio.
Ero fortemente tentata di riafferrare il bastone per puntarlo, stavolta, sulla linguaccia biforcuta del ladruncolo.
“Non so se fidarmi…” rispose titubante la mocciosa, guardandomi di sbieco.
Altelha, che fino a quel momento era restata in disparte, si avvicinò ed estrasse qualcosa dallo zaino. Poi sorridendo la porse al maschietto.
“Assaggia. E’ buonissimo”
Il bambino, entusiasta, allungò la mano per afferrare il dolcetto, ma la sorella lo bloccò.
“Non prenderlo! Potrebbe essere avvelenato!”
“Ma lei è carina! E poi lei è come papà!” rispose indicando le orecchie a punta dell’elfa.
Altelha allora spezzò il dolcetto a metà  e ne mangiò una parte per dimostrare che non era nulla di pericoloso, poi offrì il secondo pezzo al bambino, che lo prese e lo ficcò in bocca in un istante, sotto lo sguardo di disapprovazione della sorella.
“Ne vuoi uno anche tu?” le chiese l’elfa.
“E’ buonissimo!” esclamò suo fratello ancora con la bocca piena.
Lei abbassò lo sguardo e imbarazzata non potè che mormorare: “Sì, per favore”.
Poi prese il dolcetto e lo mangiò con gusto.
“D’accordo. Abbiamo deciso che possiamo fidarci di voi. Cosa volete?” Domandò non appena terminato lo spuntino.
“Abbiamo bisogno di parlare con vostra madre. Sapete dirmi dove si trova in questo momento?” chiese Feron.
“Mamma è a casa, insieme a papà ” confermò il bambino.
“Perfetto. Sareste così gentili da portarci da loro?”
“Cosa volete dalla mamma?” domandò  la ragazzina, più che sospettosa, curiosa stavolta.
“Devo consegnarle una lettera molto importante”
“Perché non la dai a noi? Gliela porteremo”
“Non posso. Mi hanno ordinato di consegnarla solo nelle sue mani. Inoltre devo anche parlarle…”
Doveva davvero essere una lettera importante se Anders aveva chiesto a Feron di fare tutta quella strada. Ma non avevo idea di chi fosse il destinatario, o meglio, la destinataria, né cosa contenesse il messaggio.
 
Finalmente i bambini si convinsero e ci invitarono a seguirli fino a casa. Non era molto distante ma sicuramente si trovava nel lato più nascosto del villaggio, quello più inoltrato tra gli stretti passaggi di montagna. Non era difficile capire come mai nessuno avesse notato che qualcuno viveva lì.

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Capitolo 10
*** Liraya ***


Del fumo usciva dal comignolo di una delle case, e le lanterne illuminavano il suo interno. Da una finestra si poteva scorgere una donna intenta a preparare la tavola per la cena. A giudicare dal buon odore che proveniva dalla cucina, doveva essere una brava cuoca.
La donna alzò lo sguardo e attraverso il vetro vide i suoi figli accompagnati da degli estranei. Afferrò qualcosa e si precipitò all’esterno dell’abitazione.
Prima che potesse proferire parola, i  bambini le corsero incontro sorridendo e l’abbracciarono.
“Chi sono queste persone? Vi hanno fatto qualcosa?” chiese loro.
“No, mamma, non sono cattivi, ci hanno dato dei dolcetti buonissimi!”
“D’accordo. Entrate in casa, arrivo subito”.
I bambini obbedirono e la donna si rivolse a noi.
“Ospiti? Non credo di aver preparato abbastanza stufato” disse sarcastica.
Notai che stringeva dietro le sue spalle un bastone da mago. Era un’eretica, dunque, e aveva dei figli da proteggere. Aveva tutte le ragioni per essere sospettosa.
Provai un insensato moto d’affetto verso quella donna e persino verso i suoi bambini. La situazione in cui vivevano non poteva non ricordarmi la mia e quella di mia madre. Era più o meno la stessa: un posto sperduto lontano da tutto e tutti, un’eretica, sua figlia con lo stesso dono.
Solo che, da quanto avevo capito, con lei c’era anche il padre delle sue creature, sebbene non si fosse ancora visto. Forse non era in casa, anche se i bambini avevano affermato il contrario. Dall’affetto passai all’invidia in meno di un secondo. Ma non potevo biasimare loro. Non era colpa di nessuno se quei bambini avevano dei genitori che si amavano tanto da restare uniti per crescerli. Però ero davvero curiosa di conoscere l’uomo che non aveva abbandonato quella donna. Volevo conoscere meglio tutti loro. Avevo intrapreso il mio viaggio proprio per saperne di più su mio padre, tuttavia il pensiero di incontrarlo stranamente mi terrorizzava. Osservare da vicino una famiglia forse mi avrebbe dato più forza e più coraggio nel perseguire il mio obiettivo.
“Non hai nulla da temere da noi” esordì Feron, dopo un attimo di esitazione. Era stato intimidito da lei? No, a giudicare da come la guardava, non era intimidito, semmai ammirato.
La donna doveva avere intorno ai quarant’anni, ma era ancora attraente. Aveva capelli corvini come quelli dei suoi figli, tagliati abbastanza corti, ma in modo irregolare. Alcune ciocche coprivano in parte i suoi occhi luminosi e molto espressivi: occhi azzurri, splendenti come il cielo. Il naso sottile e il mento leggermente pronunciato le conferivano un’aria fiera e spavalda, le sopracciglia corrucciate donavano stranamente grazia a quel volto forte ma comunque molto femminile. Sembrava poi avere un corpo statuario nonostante la sua età, anche se era fasciata da pesanti abiti che lasciavano quasi tutto all’immaginazione. Era alta poco più della media, il seno pareva pieno e la vita sottile. I fianchi rotondi e proporzionati le donavano una postura elegante.
Se ne stava ferma sulla porta a scrutarci, le braccia dietro la schiena a tener stretto il bastone, il peso del corpo sulla gamba sinistra e la destra leggermente divaricata. Era bellissima. E evidentemente Feron era della mia stessa idea.
“Certo, questa l’ho già sentita, più o meno prima che iniziassero a volare pugnali” rispose diffidente.
“Ho un messaggio da consegnarti, Liraya”
La donna sgranò gli occhi.
“Dunque, tu conosci il mio nome?”
Restò ancora immobile, incerta sul da farsi.
“Credevo che il mio cognome fosse più famoso” aggiunse poi in tono sarcastico. “Chi vi ha mandati qui?”
“E’ stato Anders”
“Anders?”
Per la prima volta lessi nei suoi occhi il dubbio. Era evidente che sentir nominare il mago la turbava parecchio.
Feron le si avvicinò, cauto, e lei d’istinto, fece un piccolo passo indietro, ma non sembrò volerglielo impedire. Quando furono abbastanza vicini, l’uomo le porse la pergamena dal nastro color del sangue.
  Liraya poggiò il bastone allo stipite della porta, facendogli scudo col suo corpo. Prese, quasi tremante, la pergamena tra le mani dello straniero, ma non l’aprì.
“Entrate”

I bambini si erano seduti a tavola in attesa che fosse tutto pronto per la cena, ma non si vedeva nessun altro.
“Dov’è andato papà?” chiese infatti la maggiore, per nulla sorpresa di vederci in casa.
“E’ andato prendere la legna” rispose sua madre.
“Resterete a mangiare con noi?” ci domandò il più piccolo.
“Vedremo” intervenne vaga la padrona di casa. “Sedetevi” disse poi, indicandoci una panca forse troppo piccola per permetterci di stare tutti e tre comodi. Comunque ci accomodammo, approfittandone per riposarci e riscaldarci davanti al caminetto.
“Chiedo scusa, temo di aver terminato tè e pasticcini, riceviamo talmente tante visite che li abbiamo finiti”
“Non è di certo un problema, non siamo venuti a infastidirvi, ce ne andremo subito. Solo, lascia che prima ti parli”. Feron aveva un tono quasi supplichevole. Era incredibile vedere con quanta devozione cercava di fare qualcosa per il suo amico. Quella donna per Anders doveva essere importante, forse una sorella, una vecchia amica o più probabilmente un’amante.
“So già di cosa vuoi parlarmi” disse in tono solenne. “Io non posso accontentarti”
“Sta morendo… lui morirà presto. E tu sei il suo unico rimpianto”
 “Io…io non posso…”
“Non conosco il contenuto della missiva, ma so che lui non si aspetta nulla. Sono io a chiedertelo. Non mi conosci, non hai motivo di accettare questa mia richiesta, posso solo dirti che lui mi ha salvato la vita e che a lui devo tutto. Che in fondo anche tu sai che in lui non c’è solo vendetta. Che in lui c’è anche un uomo, un uomo che è stato capace di amare come mai avrebbe creduto.”
La donna aveva abbassato lo sguardo e ascoltava in silenzio quello che lo sconosciuto le stava raccontando. Sembrava capire, anzi, sembrava sapere che c’era del vero in quelle parole.
“Sono passati dodici anni. In tutto questo tempo non ci siamo più visti. E per colpa sua sono…siamo costretti a vivere come eremiti, a scappare, a nasconderci. Quello che ha fatto…è imperdonabile!”
“Ma tu l’hai perdonato”
Quelle parole parvero colpirla come fossero uno schiaffo.
“So che l’hai fatto” insistette Feron.
“Tu non mi conosci”
“No, ma conosco quello che Anders pensa di te. Quello che pensa è che tu sei una persona di gran lunga migliore di chiunque abbia mai conosciuto. Anche di me”
C’era risentimento in quell’ultima frase?
“Non posso credere che l’opinione che ha di te sia solo una sua invenzione, un qualcosa che viene visto solo dagli innamorati. E comunque anche se fosse così, dovresti ascoltarmi lo stesso. Se non sei davvero la splendida persona che lui crede, dovresti almeno degnarti di rivedere colui che ha una così grande stima di te, anche se non la meriti”
Feron si era alzato in piedi e il suo tono adesso era diventato concitato.
“Dimmi che in questi anni non hai mai pensato a lui. Dimmi che non ti sei mai chiesta se stesse bene, se fosse vivo, se fosse felice. Dimmi che gli unici pensieri che hai rivolto a lui erano di odio e di rancore e ce ne andremo. Non sentirai mai più parlare di noi”
La donna non rispose, rimase in silenzio, mordendosi un labbro.
“Non è possibile che lui si sia innamorato solo della tua bellezza!” affermò lui, perdendo la pazienza.
“Dunque pensi che io sia bella?” scherzò lei, probabilmente per spezzare la tensione che si era creata in quel momento o più probabilmente per evitare di rispondere alla domanda.
“Sei notevolmente bella. E lo sai. Qualche volta dovremmo vederci senza tutta questa gente intorno” Ammiccò.
Rieccolo, il ladro cascamorto che avevo conosciuto.
Liraya sorrise, ma non era affatto imbarazzata, semmai divertita.
Contemporaneamente una folata di vento gelido ci indicò che la porta si era aperta e una voce che emanava gli stessi toni freddi ci avvertì di un possibile pericolo.
“Prima o dopo che io ti abbia staccato la testa?”
L’uomo era entrato in casa sua e aveva sentito l’ultima, infelice proposta di Feron.
“ Chi siete?” chiese con la sua foce profonda. Cercai di guardarlo bene ma era avvolto da un pesante mantello. Il suo aspetto, comunque, era abbastanza inquietante. E le sue minacce non lo rendevano più affabile. Aveva gli occhi chiari, verdi e intensi come due smeraldi. La pelle era ambrata e degli strani tatuaggi marcavano il suo volto. Si abbassò il cappuccio e potei vedere le caratteristiche orecchie elfiche e dei capelli color argento, leggermente spettinati. Era senza dubbio affascinante. Un fascino strano, del tipo spaventoso e attraente allo stesso tempo. Lo guardai per qualche secondo più del dovuto forse, perché Altelha dovette darmi una leggera gomitata per distogliermi dal nuovo arrivato.
“Andranno via tra un momento” rispose anticipandoci la sua compagna.”Bambini, aiutate papà a mettere a posto la legna”
Una specie di grugnito funse da assenso alle sue parole, ma non da parte dei piccoli, bensì da parte dell’elfo. Avevo come l’impressione che lui non sapesse dirle di no.
Era dunque lui la persona che aveva avuto il coraggio di non lasciare la donna che amava? Di stare con lei nonostante fosse un’eretica in fuga? All’apparenza non sembrava affatto un tipo da famiglia, ma poi mi accorsi che era molto affettuoso coi suoi figli e che ogni volta che lanciava uno sguardo in direzione di Liraya, sembrava che avesse paura che da un momento all’altro gli portassimo via il tesoro più prezioso che avesse. Era strano. Burbero, scontroso, probabilmente irascibile, eppure anche una persona del genere poteva provare un sentimento come l’amore e essere ricambiato?
Quella notte, al contrario delle previsioni, restammo lì, in quella casa che all’inizio non voleva ospitarci, in mezzo a persone che avevano diffidato di noi e che forse ancora diffidavano.
Viaggiare dopo il tramonto, in quella neve, probabilmente ci avrebbe messo a dura prova. La cosa non mi avrebbe spaventato, ma la mia curiosità mi aveva spinto ad accettare le pressioni dei due piccoli padroni di casa, che a dire il vero avevano insistito più con i miei compagni che con me. La piccola Bethany si era limitata a lanciarmi un’occhiataccia dicendo che se proprio dovevo, potevo restare, mentre Carver, il suo fratellino, era restato in silenzio, intontito dalle moine di sua sorella  nei confronti di Feron.
Così ne approfittammo per consumare un pasto al caldo, mentre Liraya Hawke ci raccontava piccoli scorci della sua difficile vita, sotto lo sguardo contrariato dell’elfo accanto a lei. La cosa che mi colpì è che sembrava parlarne con una leggerezza inaspettata, trovando nel sarcasmo la forza e il coraggio per affrontare gli eventi che le avevano sconvolto l’esistenza.
Ci raccontò che dopo aver aiutato i maghi a sfuggire alla morsa del templari, lei e Fenris erano stati costretti a lasciare Kirkwall facendo perdere ogni traccia. Ci raccontò che erano approdati quasi per miracolo nel Ferelden e che il Paese da cui aveva tentato di fuggire in tutti i modi era di nuovo la sua casa. Ci raccontò che i bambini avevano il nome dei suoi fratelli, mancati prematuramente per mano della prole oscura. Ci raccontò queste e altre cose, ma non la sentii mai accennare ad Anders, alla persona per cui era costretta a vivere lì e per cui noi in quel momento eravamo lì. Forse era doloroso per lei parlarne o forse non voleva semplicemente aprire il suo cuore a degli estranei, ma, anche se con tutta probabilità il suo compagno l’avrebbe fatto volentieri, non ci cacciò via nemmeno quando Altelha le fece la domanda meno delicata che potesse venirle in mente, ovviamente davanti a tutti, come nulla fosse.
“Allora? Chi è questo Anders? E’ forse una tua vecchia fiamma?”
Persino io avevo capito che l’argomento era da evitare, almeno davanti a Fenris, ma lei l’aveva chiesto con un’ingenuità tale da cogliere tutti alla sprovvista. Ero sinceramente curiosa di saperne di più anch’io, ma Liraya si limitò a fare spallucce e a sentenziare con  il solito tono beffardo:
“Nessuno di importante. Tranne per il fatto che ha condizionato per sempre la mia vita e quella della mia famiglia”
Eppure non percepivo rancore in quelle parole. Di certo ve ne era parecchio nello sguardo di Fenris, ma non saprei dire se fosse più rancore verso Anders o verso gli estranei che erano piombati in casa sua a fare domande su persone che lui non amava sentir nominare.
 
Bethany e Carver ci salutarono riuscendoci a estorcere la promessa di tornare presto a trovarli e soprattutto di portare altri dolcetti.
Mi chiesi se li avrei più rivisti. Fissai quella famiglia ancora una volta.
La mamma e il papà, abbracciati, i bambini che sorridevano, felici.
Era proprio la famiglia che avevo sempre sognato di avere.
 
 
*********
 
Non sono ancora sicuro di fare la cosa giusta scrivendoti queste parole, spero però con il cuore che le leggerai .
Sono passati tanti anni dall’ultima volta che ho udito la tua voce, che ti ho guardata negli occhi, che ti ho vista ridere, che ho potuto sfiorarti, anche solo per un attimo, che ho potuto inebriarmi del tuo profumo. Il tuo sapore è ancora l’unico ricordo che mi tiene ancorato a questo mondo, vivido e caldo come il sole d’estate, delicato e fresco come il vento di primavera. Ancora adesso, giorno e notte, mi tortura.
Ricordi quella notte?  Quando mi sono illuso di poter essere tuo, di poter entrare nel tuo cuore e restarci per sempre? Sapevo che non poteva essere vero, eppure ho voluto crederci, eppure ho creduto che quel bacio avesse un significato che andava ben oltre un gesto disperato. Quando sono venuto da te mi è bastato nominare ‘lui’ e tu mi hai mandato via. Quanta rabbia provai, e quanta gelosia, e dolore, e tormento. Ma adesso sono felice di come sia andata. Mi sono innamorato di te dalla prima volta che ti ho vista… ma ringrazio il Creatore del fatto  che tu non mi abbia mai voluto accanto a te. Ti ho già rovinato la vita in un modo, non avrei potuto sopportare di accollarti anche il peso della mia esistenza.
Non ti chiedo di perdonarmi. Non lo merito. Vorrei solo che tu esaudissi il mio ultimo desiderio. Forse non ti importerà, e lo capisco, perciò non te ne farò una colpa se deciderai di ignorare questa mia insulsa e ingiustificata, irrispettosa e sfacciata richiesta. Ho bisogno di vederti un’ultima volta. L’ultima, prima di andarmene per sempre da questo mondo. Non anelo a morire in pace, sarebbe troppo comodo, troppo misericordioso dopo quello che ho fatto. Non ti chiederei di vederti se pensassi che questo possa offrirmi un riposo sereno. Te lo chiedo perché so che sarà straziante, vederti ancora, sapendo che mai ti ho avuta e mai ti avrò. Non mi ucciderà. Sono già morto. Ma la mia anima sarà in pena per l’eternità. Se non verrai penserò che forse mi vuoi bene abbastanza da risparmiarmi quest’ultimo dolore o più probabilmente che non ti importa nulla della mia sorte. Cos’altro mi rimane se non la speranza che possa essere la prima ipotesi a mantenerti lontana? Quale sublime piacere ne scaturirebbe, se non dovessi più vederti? Confiderei in quella piccola fiammella di luce che si ostinerebbe a convincermi che la tua assenza sia il tuo ultimo dono per me. Tuttavia, come ti ho detto, non merito di crogiolarmi in simili illusioni. Fammi vedere il tuo viso ancora una volta, e io me ne andrò per sempre.
 
Liraya aveva gli occhi lucidi.
Ripiegò la pergamena subito dopo averla letta, tenendo per sé il suo contenuto, poi la richiuse con accortezza annodandole di nuovo il nastro rosso attorno.  
“Andrai da lui?” le chiese una voce profonda, la voce dell’uomo che aveva sempre amato. C’era incertezza in quella voce dura, preoccupazione, insensata paura. Sapeva che Anders la stava cercando, sapeva che voleva rivederla. Dopo tutti quegli anni, aveva ancora paura di perderla.
Hawke esitò qualche istante, poi, con calma serafica, ricacciò indietro le lacrime che non fecero in tempo a traboccare, ripose la lettera in un baule in cui conservava le sue poche cose e alla fine, con tono pacato, rispose.
“Farò quello che è giusto”

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Capitolo 11
*** Deleric ***




La strada per Orzammar era tanto lunga quanto impervia. Dopo l’incontro con Liraya, la famosa Hawke che aveva rovesciato le sorti di Kirkwall nonché scatenato le ribellioni dei maghi bistrattati dalla Chiesa, Feron si era fatto silenzioso, distratto. Sembrava costantemente assorto nei suoi pensieri. Solo una volta, una sera, mentre eravamo accampati per la notte, mi aveva chiesto qualcosa: un parere. A me, che non ho esperienza alcuna sull’argomento di cui mi ha parlato.
“Credi che Hawke andrà a trovare Anders?” mi aveva chiesto mentre preparavo la cena.
“Io... non lo so, ma sarebbe triste se lo facesse soltanto per pietà”
“Sarebbe comunque meglio di niente, non trovi?”
“Io non so nulla sull’ amore, ma credo che non c’entri con la pietà” avevo azzardato.
Dopo una lunga pausa in silenzio, aveva annuito.
“Hai ragione”
Poi  se n’era andato nella sua tenda, senza dire altro.
Ma ci pensava Altelha a fare rumore. Il dono del silenzio non la caratterizzava di certo. Orzammar non era più tanto lontana e lei non vedeva l’ora di arrivare. Anch’io a dire il vero. Speravo che una volta trovato il suo fidanzatino ci avrebbe finalmente lasciati in pace e io avrei potuto raggiungere Denerim. Tuttavia, una volta andata via Altelha, io e Feron saremmo rimasti di nuovo soli. E se avesse continuato a ignorarmi?
Non avevo di certo il coraggio né l’intenzione di chiedergli spiegazioni. E se avesse deciso di andarsene anche lui? La solitudine era quello a cui aspiravo, eppure l’idea di viaggiare di nuovo sola mi angosciava. Non era paura dei rischi che correvo, piuttosto era paura di  non scoprire mai cosa voleva dire avere dei veri amici. Persino mia madre aveva avuto un’amica. Ma l’aveva abbandonata. Era così facile abbandonare qualcuno? Ero cresciuta con l’idea di non aver bisogno di nessuno, ma in poche settimane la mia visione del mondo era quasi totalmente stata stravolta.
 
Feron camminava alle nostra spalle, mentre Altelha mi stava accanto lamentandosi del sole forte e degli insetti.
“Voi elfi non dovreste essere in simbiosi con la natura? Come mai ti infastidiscono gli insetti e persino il sole?” chiesi ingenuamente.
“Sono cresciuta in città. Sai, noi abbiamo delle case lì, non viviamo nelle grotte!”
Beh, me l’ero cercata.
Sentii Feron sghignazzare alle nostre spalle. Nei fui stupita, quindi mi voltai e finalmente rividi il suo sorriso. Rallentai apposta il passo e lo affiancai.
Adottai la stanchezza come scusa per la mia riduzione di velocità. Altelha ci distaccò, procedendo spedita, sempre più impaziente, così potei rivolgere la parola a Feron in tutta tranquillità.
“Sei mai stato a Orzammar?” gli chiesi. Ero sicura che mi avrebbe risposto di nuovo in modo vago, come faceva da qualche giorno, invece non fu così.
“Si, ci sono stato una volta, qualche anno fa. La cultura nanica è piuttosto affascinante. Vuoi sentire una storia?”
Eccome se la volevo sentire, soprattutto se era lui a raccontarla. Adoravo il suono della sua voce.
“Certo!” esclamai cercando di celare l’entusiasmo.
Sembrava tornato il Feron di sempre. Possibile?
Mi raccontò di un nano che aveva conosciuto nella taverna del quartiere popolare di Orzammar, un nano che amava raccontare storie a sua volta. Il nano stava narrando le gesta di una certa eroina quando Feron gli aveva involontariamente rovesciato addosso un intero boccale di birra. Invece di prendersela, il nano si era messo a ridere e quello era stato l’inizio di un’avventura che si era conclusa con una folla di nani inferocita che voleva linciarli.
Mi stava per raccontare come avessero fatto a scappare, ma fu interrotto da un grido. Era la voce di Altelha. L’avevamo persa di vista, la ragazzina era veloce. Le sue urla ci portarono da lei: era a testa in giù, appesa a un albero tramite una corda che le serrava la caviglia destra.
“Aiutatemi!” strillò non appena ci vide.
“Chi diavolo ha piazzato una trappola qui nel bel mezzo del nulla?” si chiese Feron mentre tagliava le corde. Un tonfo e un gemito di dolore testimoniarono che l’elfa era stata liberata.
I miei sensi erano all’erta. Non eravamo soli. Sentii un fruscio alle mie spalle. Qualcuno ci osservava, nascosto tra gli alberi. Se n’era accorto anche Feron, che mi lanciò uno sguardo di intesa, pronto a combattere.
“Vieni fuori!” intimai alla misteriosa presenza.
Altelha cominciò a inveire verso colui che l’aveva catturata non appena riacquistò un colorito normale.
“La pagherai cara! Non abbiamo paura di te!” esclamò, ragionevolmente arrabbiata.
La figura si palesò.
Il ragazzo era alto, piuttosto muscoloso. Mi colpirono gli occhi azzurri, limpidi come il cielo. I capelli erano biondi, i lineamenti abbastanza delicati. Aveva un’aria stranamente familiare.
“Non voglio combattere” affermò facendosi avanti.
Le sue parole erano contraddette dalle mani che tenevano strette l’elsa di uno spadone. Era ben armato per essere uno che non aveva intenzioni bellicose. Rimase a una distanza di sicurezza.
“Hai piazzato tu la trappola?” gli domandò Feron.
“Sì, volevo solo catturare la mia cena” spiegò lo sconosciuto.
“Volevi mangiarmi?”
Altelha era sconvolta.
“Certo che no! Speravo di catturare un nug, non una persona”
Dunque era un cacciatore. Ma cosa ci faceva in quella landa sperduta? Il suo aspetto non era quello di un barbaro, anzi, sembrava piuttosto… raffinato. Il suo accento poi… era di Orlais!
“Cosa ci fa un orlesiano nei boschi del Ferelden?” chiesi incrociando le braccia.
“Non penso di dovervi spiegazioni” rispose duro.
“Ma se per colpa tua sono rimasta appesa a testa in giù come un salame!” replicò l’elfa.
“Forse avresti dovuto stare più attenta” ribattè lui.
“Non ha tutti i torti” constatai rivolgendomi ad Altelha.
Il ragazzo abbassò la guardia e si avvicinò lentamente all’elfa.
“Comunque ti chiedo scusa” disse con un inchino, cambiando completamente atteggiamento, “a una fanciulla bella come te non dovrebbero accadere certe cose”
Gli orlesiani erano abituati a essere formali, gentili, ipocriti. Altelha comunque sorrise, imbarazzata.
Poi lo straniero venne verso di me e si prostrò in un baciamano. Non era una cosa rara a Orlais, ma era la prima volta che qualcuno rivolgeva a me un saluto del genere.
“Mi chiamo Deleric” si presentò, guardandomi negli occhi.
Ero a disagio. Aveva uno sguardo intenso, mi scrutava attentamente. Mi conosceva? Impossibile. Eppure l’avevo già visto. Evitai di chiederglielo ma non sapevo se c’era da fidarsi.
Feron notò lo scambio di sguardi.
 “Credevo che gli orlesiani fossero incapaci di usare le armi. Quella la porti per bellezza?” lo provocò il ladro indicando la sua arma.
“Mi stai sfidando, selvaggio?”
Selvaggio?
Guardai Feron, convinta che non l’avrebbe presa bene. Invece si mise a ridere. Una risata di pancia, che mi sorprese. Poi partì un dialogo tra i due decisamente ancora più inaspettato.
“Per favore, non ti sfiderei mai. Potresti spezzarti un’unghia, principessa”
“Come osi, sottospecie di Hurlock!”
“Chiedo scusa per averla offesa, sorella!”
“Adesso basta!”
Deleric sguainò la spada e in contemporanea Feron sfilò i suoi pugnali dai foderi.
Avrei voluto vedere cosa sarebbe successo, ma prima che uno dei due potesse sferrare un fendente, un ululato interruppe quell’interessante spettacolo: tre grossi lupi affamati ci attaccarono.
 
 
******************************************
 
La pioggia li colse alla sprovvista. Una cascina abbandonata offrì loro un riparo improvvisato. Non prima che si inzuppassero completamente, comunque.
Lavriella e Zevran si stavano dirigendo verso Orzammar. Si erano recati all’accampamento Dalish cercando indizi sull’elfa che aveva aiutato Connor a scappare. In effetti i Dalish raccontarono di un’ elfa incontrata nella foresta che aveva detto loro che era diretta alla città nanica per coronare il suo sogno d’amore. Era da sola quando l’avevano incontrata ma non potevano escludere del tutto che viaggiasse in compagnia. Aveva detto che stava scappando da qualcuno e poi si era volatilizzata. In effetti Orzammar era una scelta intelligente, le autorità del Ferelden non avevano potere in quel luogo. Era probabile che quella fosse la stessa elfa vista nella torre.
Non era molto, era davvero un indizio blando, ma Lavriella si attaccava a ogni barlume di speranza.
Zevran continuava ad assecondarla, incapace di rifiutarle il suo aiuto.
E così si erano ritrovati lì, bagnati fradici, nel bel mezzo del nulla.
“Stai tremando” constatò lui osservando la donna cercare invano di riscaldarsi camminando avanti e indietro in quel piccolo casolare.
“Ho freddo…” rispose lei, riuscendo a muovere a stento le labbra ormai diventate violacee.
“Dobbiamo riscaldarci o moriremo congelati. Togliamoci questi vestiti” propose lui.
In un altro contesto, sarebbe suonata una proposta indecente, e non si poteva escludere del tutto che lo fosse, ma Lavriella sapeva che aveva ragione, tenere addosso i vestiti bagnati non li avrebbe aiutati.
Annuì. “Voltati” gli chiese.
Non appena si fu girato, portando le mani alla chiusura del corsetto, Lavriella cominciò a scioglierne i lacci. Ma tremava troppo e l’operazione le risultava difficile.
Zevran si sfilò la corazza di cuoio e le vesti di lino, rimanendo seminudo, coperto solo da un leggero strato di stoffa avvolto  intorno alla vita. Anche così la temperatura corporea non si sarebbe alzata, serviva una fonte di calore. Sul pavimento c’erano dei pezzi di legno, residuo di una probabile visita precedente. L’elfo si chinò a raccoglierli ma sembravano troppo umidi per essere accesi. Ci provò comunque. Estrasse dalla bisaccia la pietra focaia e tentò una, due volte, prima di essere interrotto da un lieve sussurro.
“Zev…”
L’elfo si voltò appena in tempo per vedere la sua amata regina accasciarsi al suolo, svenuta.
Subito si diresse verso di lei e la prese tra le braccia, cercando di risvegliarla. Era gelida, doveva fare qualcosa per lei.
La spogliò velocemente sbarazzandosi delle vesti zuppe, poi estrasse i teli per le tende dallo zaino. La avvolse nel tessuto, ma non bastava a riscaldarla. Avevano anche delle pelli. Magari avrebbero dovuto usarle prima per ripararsi dalla pioggia, ma il temporale li aveva colti di sorpresa e non erano riusciti a prenderle prima di ritrovarsi già bagnati.
Dunque la coprì con la pelle di lupo e si dedicò ad accendere il fuoco. Era inutile, quei pezzi di legno non erano asciutti. Non si sarebbero mai accesi. Pensò di dare fuoco a qualcos’altro, magari ai suoi vestiti, ma la fiamma non sarebbe durata molto. Riflettè sul da farsi, ignorando il freddo che sentiva a sua volta, poi capì che l’unica soluzione era quella a cui aveva pensato sin da subito ma non aveva il coraggio di attuare: sdraiarsi accanto a lei e stringerla tra le sue braccia.
Aveva paura. Paura di non riuscire a resistere, paura che sarebbe tornato a galla quello Zevran spietato, paura che il suo cuore avrebbe subito un’altra, pesante ferita. Paura che lei l’avrebbe allontanato, stavolta per sempre. La guardò. Guardò il suo viso sempre più pallido e le sue labbra sempre più livide… non poteva permetterlo. Non importava cosa sarebbe stato di lui, avrebbe fatto di tutto per lei, anche morire.
E così lo fece. Morì, dentro di sé. Morì abbracciandola, stringendola forte, inebriandosi del suo profumo, stando sopra di lei e guardandola persa nell’oblio, morì baciando quelle labbra socchiuse, morì accarezzando la sua pelle morbida e i suoi capelli umidi. Ancora un altro bacio, un solo. Il suo viso tra le mani, il seno premuto contro il suo torace, i fianchi invitanti… Sì, ora le labbra erano più calde, il viso non era più così pallido. I suoi baci funzionavano, doveva continuare, doveva riempirla di baci, doveva, doveva!
Ma…
Ma che stava facendo? Come poteva approfittarsi di lei in quel modo? Ecco Zevran il Corvo, ecco Zevran il Verme.
“Perdonami” sussurrò trattenendo a stento le lacrime, senza sapere se lei potesse sentirlo o meno.
Scivolò di fianco a lei, continuando ad abbracciarla, ma stavolta non si lasciò andare. Si impose di resistere, come faceva da tanti, troppi anni ormai. L’importante era che lei stesse bene, che si risvegliasse, il resto non contava.
Ricordò quando, anni prima, era caduto nello stesso errore e si era illuso di porvi rimedio una volta e per tutte lasciandola, andando via.*
Non c’era riuscito, non l’aveva mai dimenticata, era tornato e ora era di nuovo lì a chiedersi se un giorno sarebbe stata proprio lei a mandarlo via, definitivamente. Non avrebbe potuto darle torto, anche lui odiava sé stesso. E poi, cosa avrebbe fatto? Avrebbe continuato a struggersi per una donna che non avrebbe mai avuto? Che non l’avrebbe mai amato? La risposta era molto chiara.
Si addormentò, mentre la cingeva con un braccio per trattenerla vicino al suo corpo, per riscaldarla, per salvarla. Un intento nobile, se non avesse tratto tanto infimo piacere e enorme sofferenza da un gesto apparentemente altruistico, ma che in realtà racchiudeva desideri reconditi.
Quando riaprì gli occhi non riuscì a vedere nulla. Era completamente buio, notte fonda, senza luna. Sentiva una presenza accanto a sé, dei respiri rassicuranti. Lavriella dormiva ancora, ma adesso stava bene, il pericolo dell’ipotermia era scongiurato per fortuna, era calda. Lo abbracciava, il capo poggiato sul suo petto,  le braccia intorno al suo torace. Non si sentiva più il rumore della pioggia, ma un cinguettio annunciava che l’alba non era lontana.
Zevran restò immobile, incapace di interrompere quel momento, maledicendo l’oscurità che gli impediva di distinguere la sue bella addormentata riposare sul suo cuore. Non dovette attendere a lungo. Mezz’ora dopo, i primi raggi luminosi filtrarono attraverso le fragili pareti di legno, permettendogli di distinguere la figura avvinghiata a lui. Le braccia flessuose, il capo che si alzava e abbassava ad ogni suo respiro, le onde corvine sparse sulla sua schiena nuda, la pelle lattea, luminosa, adornata da piccole lentiggini. Rimase a contemplarla, come ipnotizzato, per ore.
Ma quella magia fu interrotta. Lavriella si svegliò.
“Mmmm….amore mio…” sussurrò nel dormiveglia, stringendosi ancora di più a quel corpo maschile. Poi d’un tratto si rese conto che qualcosa non tornava. Spalancò gli occhi e constatò che quello non era suo marito.
“Zevran! Ma cosa…?” si alzò di scatto, accorgendosi solo in quel momento di essere completamente nuda. Un rossore violento invase le sue gote. Afferrò il telo su pavimento e lo avvolse intorno al suo corpo, scoprendo quello dell’elfo, nudo a sua volta.
“Oh, Creatore! Ma che è successo? Che cosa hai fatto?” chiese sconvolta.
“Ma come? Non ricordi nulla?” scherzò lui. “Eppure mi hai detto che è stato fantastico, che non avevi mai provato sensazioni simili… l’ hai già dimenticato?”
“Ma che dici? E’ impossibile, io non ho mai…” si interruppe, notando lo sguardo divertito dell’amico.
“Oh, mi prendi in giro… ma comunque non ho ancora ricevuto una spiegazione valida per questa… situazione!”
Lavriella era visibilmente agitata e imbarazzata. Se solo avesse saputo… saputo quanto la voleva, saputo dei suoi baci, saputo che si era approfittato di lei e che aveva perino pensato di arrivare fino in fondo… l’avrebbe odiato. Non poteva. Non poteva dirglielo.
“Calmati. Non è successo niente, a parte il fatto che sei svenuta per il freddo e io ti ho salvato la vita riscaldandoti col mio corpo. Era l’unico modo”
“Oh… ora ricordo. Ci stavamo togliendo i vestiti bagnati. Dunque ti devo la vita. Ancora una volta mi hai salvata. Io… ti ringrazio, e ti chiedo scusa se ho dubitato di te”
Zevran rise.
“Dubitare di me? Mia cara, non sarebbe un errore, tutti dubitano di me, anche tu dovresti. Sono un assassino spietato, un ladro, un donnaiolo… perché mai non dovresti dubitare di me?”
“Perché ti voglio bene. E tu ne vuoi a me. Siamo amici. Ecco perché. In nessun caso so che tu faresti qualcosa che mi possa recare dolore. Non è la prima volta che affido la mia vita nelle tue mani. E non è la prima volta che parliamo di questo… io lo so che oltre all’assassino, al ladro e al donnaiolo, c’è una persona che mi capisce, forse più di chiunque altro, anche più di mio marito. Tu non mi faresti mai del male. Non mi tradiresti mai”
In quel momento, ancora una volta, Zevran si vergognò. Non era mai stato il tipo da pentirsi delle sue azioni, e questo infatti non accadeva praticamente mai, ma con lei… con lei era del tutto diverso. Si vergognava, si pentiva, piangeva anche… per lei. Non meritava la sua fiducia. Era un codardo, un egoista, un approfittatore. Se solo avesse saputo. Se solo si fosse resa conto di quanto era andato vicino a ferirla, di quanto già l'avesse tradita, sporcata con le sue luride bramosie.
“E’ vero. Non potrei mai tradirti”
Ipocrita. Smidollato.
“Adesso però rivestiamoci” suggerì Lavriella, che intanto teneva lo sguardo basso tentando di non soffermarsi a guardare quel corpo perfetto. “Mangiamo qualcosa e rimettiamoci in marcia”
L’elfo annuì, rialzandosi e infilandosi i vestiti ormai asciutti.
Poco dopo abbandonarono la cascina per poi rimettersi in marcia. Il sole era alto nel cielo.


*Se vuoi sapere di che momento si tratta, leggi la ff di approfondimento: "Quella volta che ho creduto di poterti dimenticare ma sono tornato da te"

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Capitolo 12
*** Orzammar ***


Il lupi non avevano fatto bene i loro conti. Avevano attaccato il gruppo sbagliato: una maga, due ladri e un abile guerriero. Deleric era capace di combattere, non c’era dubbio, e avrebbe sicuramente dato del filo da torcere a Feron se la sfida fosse cominciata davvero.
“E’ solo rimandata” si erano detti prima di uccidere quelle bestie rabbiose, ma il confronto non era mai avvenuto e  Deleric si era unito al nostro gruppo.
“Perché vuoi viaggiare con noi?” gli avevo chiesto quando lui aveva manifestato l’intenzione di restare.
“Perché tu mi ricordi una persona, una persona che sto cercando”
Chi fosse la persona che gli ricordavo, non me l’aveva voluto dire. Comunque mi sembrava una motivazione del tutto insufficiente. Non aveva nemmeno voluto dire cosa ci facesse da solo nel Ferelden. Sapevo solo che era un cadetto e che era arrivato qui a cavallo, senza scorta, ma l’animale era rimasto gravemente ferito e aveva dovuto abbatterlo. Avvertii sofferenza in lui mentre raccontava della perdita del suo prezioso animale. Evidentemente lo considerava più di una semplice cavalcatura. Forse un amico… che cosa sciocca, come si poteva considerare amico un animale? Non ero nemmeno sicura che si potesse davvero essere amici delle persone. Comunque io non mi fidavo affatto di lui. Un orlesiano, per lo più ricco, un cadetto per giunta.
Mi aveva visto usare i poteri da maga, ero stata costretta dopo che un lupo mi aveva colta di sorpresa, azzannandomi il braccio. Il dolore lancinante mi aveva fatto reagire d’istinto, avevo lanciato contro la belva un quadrello arcano e mi ero curata immediatamente la ferita.
La cosa non era sfuggita agli occhi di Deleric che ovviamente, dopo lo scontro, mi fece parecchie domande.
“Ma tu sei un eretica!”
“Brillante deduzione” osservai.
“Com’è possibile che tu non sia al circolo? Sei fuggita? O non ci sei mai stata?”
“Non sono mai riusciti a rinchiudermi, per fortuna. Credo che ucciderei chiunque ci provasse”
Cercai di assumere un atteggiamento minaccioso pronunciando quelle parole. Credevo che avrebbe iniziato a darmi dell’Abominio, ma Deleric non sembrò intimorito, anzi, stranamente, approvò.
“Ne avresti tutte le ragioni, privare una persona della sua libertà ne uccide lo spirito. Allo stesso modo in cui la mancanza di cibo ne uccide il corpo”
Rimasi stupita dalla sua idea, anche se in effetti non era così distante dalla mia. Credevo sarebbe stato il solito orlesiano bigotto e viziato, invece era del tutto diverso da come me l’ero immaginato. Forse. Non lo conoscevo ancora abbastanza bene per esserne certa.
 
“Perché hai accettato di farlo venire con noi? Non mi fido di lui” mi chiese Feron, una volta soli.
La verità era che non sapevo rispondere a quella domanda e la cosa mi irritava, tanto che me la presi anche con il ladro.
“Se non ti sta bene sei libero di andartene quando vuoi, sei tu che hai insistito per venire con me” dissi pentendomi nell’istante stesso in cui parlai.
“Hai ragione” si limitò a rispondere. Poi dopo qualche secondo di silenzio in cui tenne lo sguardo basso, continuò. “Ma sai, a me piacerebbe rivedere Orzammar, e dubito ci siano molte altre carovane disponibili. Quindi credo che sopporterò la presenza di quel bell’imbusto e continuerò a viaggiare con voi”
Sorrise. Il suo bel sorriso. Fui sollevata che non avesse poi preso così male la mia risposta sgarbata. Dovevo ancora imparare le buone maniere, mia madre non era di certo l’insegnate adatta per quel genere di cose. Forse avrei dovuto imparare da Deleric. Lui sì che ci sapeva fare. Era un nobile, un nobile orlesiano.
In ogni sua frase c’era quasi sempre un ‘per favore’ o un ‘grazie’. Poi insisteva col volerci aiutare a portare i nostri zaini, almeno il mio e quello di Altelha. A volte lo trovavo insopportabile, altre volte invece era piacevole ricevere quelle attenzioni. Una volta aveva persino steso il suo mantello su una pozzanghera per poterci permettere di attraversare quel punto senza sporcarci. Altelha non se l’era fatto ripetere due volte, anche se le sarebbe bastato un balzo per superare l’ostacolo. Poi Deleric mi aveva guardato tendendomi la mano, con l’intento di aiutarmi facendomi da appoggio, sotto lo sguardo incredulo di Feron. Per tutta risposta io mutai la mia forma in quella di un gatto, saltando agilmente la pozza di fango. Lo sguardo incredulo diventò quello di Deleric, mentre quello di Feron si trasformò in uno divertito. Infatti non riuscì a trattenere una risatina, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del guerriero.
 
 
Orzammar non era più tanto lontana. Distava qualche ora di viaggio e il buio ci aveva costretti a fermarci, nonostante Altelha insistesse per continuare. Si convinse solo quando Feron le fece notare che il suo innamorato avrebbe voluto vederla in forma, riposata e con i capelli in ordine, non dopo ore e ore di viaggio e veglia ininterrotta. Il suo aspetto non ne aveva giovato e magari il nano ci avrebbe ripensato.
“Ma come ti permetti? Gulliack mi amerebbe comunque, a prescindere dal mio aspetto fisico!”
“E’ per questo che ogni sera prima di andare a dormire ti impiastricci la faccia di fango?” le chiese.
“Non capisci niente, quella è una maschera di bellezza!”
“Dunque ho ragione, ci tieni a essere bella per lui” concluse, facendole notare l’incoerenza nei suoi comportamenti.
Altelha si rassegnò a dargli ragione, quindi montò la sua tenda e si ritirò immediatamente dopo cena per occuparsi ancora una volta della pelle del suo viso.
Io rimasi sola con Deleric accanto al fuoco. Di solito mi piaceva stare davanti a quelle rassicuranti fiamme fino a tarda notte, da sola, immersa nel silenzio interrotto solo dallo scoppiettio dei tizzoni e dagli innocui animali notturni. Quella volta però Deleric decise di restare sveglio ancora un po’.
Ne approfittai per rivolgergli qualche domanda e saperne un po’ di più su di lui.
“Ti ha mandato l’impero a cercare questa persona?” gli chiesi, consapevole che i cadetti dedicavano le proprie vite a servire Orlais.
“In realtà no. Sono partito contro il volere di tutti. Ho abbandonato mia madre e mio fratello… ne sono dispiaciuto ma la vita del cadetto non fa per me. Ho visto troppe volte cosa può fare la corruzione del potere anche al più puro dei cuori”
Avevo visto anch’io in effetti di cosa fossero capaci i cadetti. Io stessa ci ero passata. Mia madre in quel caso intervenne per difendermi. Avrei potuto difendermi da sola, certo. Ma se avessi usato i miei poteri probabilmente mi sarebbe accaduto molto di peggio.
Un cadetto mi aveva vista al mercato di Val Firmin, mentre osservavo dei bellissimi nastri per capelli che non avrei mai potuto comprare,  sia perché non potevo permettermeli, sia perché mia madre me li avrebbe buttati via. In effetti aveva ragione, erano stupidi, solo un inutile vezzo. Il cadetto si avvicinò. Comprò il nastro più costoso che c’era e me lo porse. Io fui abbagliata da quel pezzo di stoffa lucente e anche da quel dono inaspettato. Allungai una mano verso il nastro, incerta. Poi lo afferrai e tentai, maldestramente, di indossarlo. Il cadetto mi aiutò, dicendomi che mi stava benissimo. Poi mi fece cenno si seguirlo. Mi rifiutai e lui provò a trascinarmi con la forza. Urlai, ma nessuno venne in mio soccorso. I cadetti erano autorizzati a prendere qualunque cosa volessero e chiunque volessero, anche con la forza, se questi apparteneva a un ceto minore.
Mia madre dovette intervenire prima che lo fulminassi con una scossa elettrica davanti a tutti.
“Mio signore” gli disse, “ la ragazza è troppo giovane e inesperta, non è all’altezza di uomo come voi, avete bisogno di una donna capace di soddisfare tutte le vostre voglie”
Sorrise, maliziosa, cosciente del suo fascino. Non aveva altro modo, di fronte a tutte quelle persone, per potermi venire in aiuto.
Il cadetto indugiò sulla scollatura profonda della bellissima donna che aveva di fronte e lasciò andare la ragazzina che teneva per un braccio. Poi seguì la misteriosa sconosciuta.
Mia madre prima di andare con lui mi ordinò sussurrando di correre subito a casa assicurandomi che nessuno mi seguisse. Feci come mi aveva detto, trasformandomi in un animale al riparo da occhi indiscreti, per evitare di essere seguita. Lei tornò poche ore dopo. Non mi disse nulla, solo prese il nastro tra i miei capelli  e lo gettò tra le fiamme del fuoco che avevo acceso per preparare la cena.
 
“Quindi sei un disertore? Un fuggitivo?” constatai.
Deleric annuì.
“Non siamo così diversi in fondo” concluse. “Entrambi siamo in fuga ed entrambi inseguiamo un sogno”
Era vero. Solo non capivo come facesse lui a sapere della ragione del mio viaggio.
“Io non ho mai parlato di un sogno. A cosa ti riferisci?”
“Al tuo scopo. C’è una ragione se sei qui con queste persone, mi sbaglio? So solo che vuoi andare a Denerim. Ma indubbiamente ci sarà qualcosa o qualcuno in quella città che vuoi raggiungere a qualsiasi costo. Il tuo sogno”
Quelle parole mi toccarono. Perché volevo conoscere mio padre? Me l’ero chiesta, certo, ma mai prima di allora avevo realizzato che il mio sogno non era esplicitamente conoscere lui, quanto sentirmi parte di qualcos’altro, di una famiglia. Volevo una famiglia, oltre a mia madre. Sapevo che non sarebbe mai stato possibile ricongiungere il miei genitori, allora perché sentivo quel bisogno?
Ripensai a Liraya Hawke e al suo Fenris, ai loro bambini, a quanto li avevo invidiati per avere dei genitori che si amavano, seppure non capissi esattamente cosa significasse, e che erano uniti. Poi mi resi conto che non avevo invidiato solo i bambini.
Così ebbi la risposta alla mia domanda: volevo conoscere la mia famiglia perché volevo una famiglia mia. Un giorno, speravo non lontano,  l’avrei costruita.
 
 
I cancelli di Orzammar erano sorvegliati da una guardia.
“Non potete entrare senza un lasciapassare” ci comunicò.
“Ma Gulliack, della casata dei Dorbin, mi sta aspettando!” incalzo Altelha, ormai trepidante. Aveva passato tutta la mattina ad acconciarsi i capelli in almeno una decina di modi diversi, per poi tornare alla pettinatura di partenza.
“Ragazzina, non farmi perdere tempo, non conosco nessun Gulliack e la casata Dorbin non esiste”
“Cosa?” Altelha era semplicemente scioccata, e io forse più di lei. Eravamo arrivati fin lì per nulla?
 “Ma non è possibile! Fatemi entrare! Vi state sbagliando!” esclamò al limite dell’esasperazione.
La guardia non voleva saperne, quando qualcuno intervenne in nostro aiuto.
“Lasciali passare, sono con me”
 
Orzammar non era affatto come me l’ero immaginata dai racconti di mia madre.
Trasudava forza, energia, rigore e tenacia. Ogni angolo omaggiava la pietra in cui era stata scavata e la costanza di ogni nano nell’ onorare le sue origini.
La sala dei Campioni ricordava al popolo che chiunque poteva diventare un esempio per i propri simili con l’impegno e la perseveranza, tranne, ovviamente, i senza casta.
Il sistema delle caste era piuttosto ingiusto. Un qualunque passo falso poteva far perdere ogni diritto a una persona, a cominciare col nascere nella famiglia sbagliata. Un altro passo falso era quello che portava fuori da Orzammar. Oltrepassare il confine con la pietra significava perdere il rispetto e il nome. Era davvero assurdo. Ci vedevo così tanta ipocrisia… lavorare sodo per diventare qualcuno e perdere tutto per motivi futili.
Ma il nano che ci aveva fatti entrare invece non aveva perso il rispetto dei suoi, sebbene non appartenesse più ufficialmente a una casta. Un caso curioso. Quando seppi chi era capii il perché.
“Vedo che ti sei fatto molti amici, Scheggia. L’ultima volta che ti ho visto stavi sfuggendo a una folla inferocita” disse il nano rivolgendosi a Feron.
“Se non sbaglio quella stessa folla inseguiva anche te!” rispose l’umano imitando il tono sarcastico dell’amico. “Mi sorprende che alla fine non ti abbiano preso”
“In effetti sono più veloce di quel che sembra”
Feron rise di gusto, probabilmente ricordando quell’avventura.
Era davvero un nano particolare, non aveva la solita barba a cui ero abituata. E poi aveva una strana arma.
“Caspita, la tua balestra è enorme!” constatò Altelha, interrompendo quel giro tra i ricordi.
“Di’ ciao, Bianca” rispose Varric mostrando l’elaborata arma di legno pregiato.
“Hai dato un nome alla tua balestra? Bizzarro” Deleric sembrava stupito. Eppure a Orleis davano nomi  e nomignoli a qualsiasi cosa, persino alle proprie scarpe.
“Non ci hai ancora detto perché ci hai aiutati ad entrare” intervenni io, curiosa.
“L’ho fatto per Scheggia. Il vostro amico è un tipo a posto. E poi ho sentito che state cercando un certo Gulliack”
Sentendo quel nome il viso di Altelha si illuminò.
“Lo conosci? Dove si trova?” chiese con crescente apprensione.
“Conosco un solo Gulliack e per quanto ne so non appartiene a una casta”
 
Il distretto della Polvere era un luogo sudicio, cupo, molto diverso dal quartiere che ci aveva accolti. Era lì che vivevano i senza casta, coloro che non avevano il rispetto degli altri nani. Essere un senza casta significava non essere accettato, e quindi l’unico modo per guadagnarsi da vivere restava darsi al crimine. Nessuno avrebbe offerto loro un lavoro e di sicuro, invece di morire di fame, la maggioranza sceglieva una vita illecita, piuttosto che di stenti.
Alcuni facevano eccezione però. Erano brave persone, ritrovatesi all’improvviso a vivere in quel modo grazie a un sistema cieco e  obsoleto.  Una di queste era Gulliack.

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Capitolo 13
*** Gulliack ***




Al contrario di quello che credessi, Altelha lo perdonò. Perdonò la bugia del ragazzo che amava, sebbene l’avesse sparata proprio grossa. Al suo posto io probabilmente mi sarei arrabbiata, l’avrei vista come una mancanza di rispetto e di fiducia. Perché non aveva rivelato subito di essere povero, invece di fregiarsi di un titolo che non aveva?
Credevo che Altelha fosse semplicemente una ragazzina immatura e viziata, invece mi insegnò qualcosa che non avevo mai considerato prima.
“Lo capisco” mi disse quando le chiesi come mai non se la fosse presa, “anche io vivo emarginata e ho molti amici che si vergognano delle proprie umili origini e agli estranei raccontano di essere dei Dalish. Io non sono così, ma comprendo il perché lo fanno. Hanno solo paura di non essere accettati. E Gulliack mi ama talmente tanto che ha avuto paura di perdermi se mi avesse detto la verità”
Il suo punto di vista era sicuramente nuovo per me. Non era tutto bianco o nero, c’erano tantissime sfumature in mezzo. Di certo io non ero abituata alla sincerità a tutti i costi, ma da quello che avevo letto nei romanzi, mentire alla persona amata non era mai un bene, ora invece sapevo che qualche volta poteva dimostrare molto più sentimento di una cruda ammissione di colpa.
Stavo imparando e anche se non volevo ammetterlo, stavo crescendo. Credevo che la bambina fosse Altelha, invece probabilmente ero io.
 
Gulliack era un ragazzo gentile, molto pacato, dai modi garbati ed estremamente timido. Guardava Altelha come se non ci fosse altro al mondo e ogni volta che lei ricambiava lo sguardo, arrossiva e cominciava a balbettare.
Come avevano fatto a giurarsi amore eterno se lui a stento le rivolgeva la parola? Forse era molto meno timido senza altra gente intorno.
“Il mio bisnonno apparteneva alla casata di Dorbin ma mio nonno, unico erede, si innamorò di una senza casta e per stare insieme dovettero lasciare Orzammar… così la casata della mia famiglia si estinse e presto fu dimenticata, ce n’è memoria solo nel Modellatorio, ma non importa più a nessuno”
Era così che Gulliack era diventato un senza casta. Adesso entrava e usciva da Orzammar usando entrate segrete, per lo più battute dai criminali. In uno dei suoi viaggi era arrivato e Denerim e aveva incontrato Altelha. Da allora non aveva mai smesso di pensare a lei.
Quando seppe che Shianni aveva predisposto un matrimonio combinato per la sua amata, quasi ebbe un mancamento.
Decisero che avrebbero dovuto parlare con Shianni e chiarire una volta e per tutte che non si sarebbero mai lasciati e che Altelha non avrebbe sposato nessuno al di fuori di Gulliack.
 
Imboccammo uno dei passaggi segreti per lasciare Orzammar. Usare l’entrata principale a quanto pareva non era una buona idea, Gulliack era ricercato per dei crimini che lui giurava di non aver commesso. In ogni caso si trattava di sciocchezze come furti di qualche pezzo di pane e qualche frutto.
Dovemmo attraversare un tratto delle Vie Profonde, una scorciatoia che nemmeno lo stesso Gulliack aveva mai preso, ma sembrava fosse quella che ci avrebbe portato più rapidamente fuori da Orzammar. Nessuno di noi aveva voglia di prendere la strada più lunga, e Varric si offrì di accompagnarci. Lui aveva già combattuto con le strane creature che le popolavano, sarebbe stato di grande aiuto. Non capivo il motivo di tanta generosità, ma fu chiaro quando gli sentii dire che nelle Vie Profonde spuntava sempre qualche tesoro nascosto o qualcosa di prezioso. Insomma, poteva guadagnarci. Non lo biasimavo di certo, anzi, ammiravo la sua spavalderia.
Le creature che popolavano quelle gallerie erano effettivamente strane e raccapriccianti, oltre che molto aggressive. In particolare i cacciatori oscuri, piccoli carnivori simili ai cuccioli di drago, ci avevano procurato non poche difficoltà. Per fortuna eravamo stati in grado di difenderci, persino Gulliack si era dimostrato un abile guerriero. Il problema principale però era la presenza della Prole Oscura. Un grosso Ogre era riuscito a metterci all’angolo, costringendoci in un vicolo cieco.
Varric esaminò la roccia approfittando del fatto che io avessi temporaneamente immobilizzato l’Ogre con un incantesimo di congelamento.
“Deve esserci un’apertura da queste parti!” affermò sicuro, “Sento dell’aria fresca penetrare da queste rocce”
Cominciò a battere i pugni sulla parete, trovando un punto che sembrava più fragile. Deleric lo aiutò a rompere la pietra con l’elsa della sua spada, Gulliack contribuì con qualche colpo della sua ascia. Anche Feron fece la sua parte. Altelha invece se ne stava immobile, contemplando quell’orrendo mostro ghiacciato. Cercai di partecipare all’apertura del passaggio, quando l’elfa ci mise ancora più fretta.
“Si sta sciogliendo! L’effetto sta svanendo! Presto!”
“Indietro!” urlai. Appena si spostarono scatenai un potente fulmine che trapassò la roccia, formando un buco abbastanza grande da permetterci di passare uno alla volta. Per prima facemmo uscire Althela, poi toccò a me. Gulliack, Feron e Deleric ci seguirono a ruota e per ultimo Varric, che si assicurò con qualche bomba incendiaria che il passaggio crollasse alle nostre spalle.
 
Ci ritrovammo in una foresta innevata. Riconobbi la strada che portava a Haven, ma noi ci incamminammo nel senso opposto stavolta. Dovevamo raggiungere Denerim, finalmente andavamo tutti nella direzione giusta.
Varric ci salutò, aveva svolto i suoi affari a Orzammar e adesso era diretto altrove. Ero contenta di averlo conosciuto. Era decisamente un nano fuori dal comune, e le sue storie erano una più affascinante dell’altra. Speravo di rivederlo, prima o poi.
 
Gulliack e Altelha si tenevano per mano, camminando leggermente isolati dal gruppo, mentre Deleric e Feron stavano ognuno per conto proprio. Io ovviamente mi trovavo in mezzo a quei due fuochi, mi sentivo quasi in imbarazzo certe volte, non avendo modo di riuscire a parlare con entrambi allo stesso momento. Così me ne stavo in silenzio, pensando agli ultimi avvenimenti. L’avevamo scampata bella grazie all’aiuto di Varric. Lo stesso Varric grande amico della famigerata Hawke, che avevo avuto l’onore di incontrare di persona. La sua fierezza mi aveva impressionata. Era povera, isolata, eppure sembrava così felice. Non era sola. E non lo ero nemmeno io in fondo. Quindi perché sentivo quel senso di solitudine? Perché sentivo quel vuoto?
“Sembri pensierosa”
Le parole di Deleric mi colsero alla sprovvista.
“No, io… no. Stavo solo chiedendomi se…”
Interruppi le mie parole. Era pur vero che non sapevo concretamente cosa dire, ma qualcosa aveva catturato la mia attenzione.
Una figura incappucciata procedeva svelta lungo il sentiero, una figura che avrei riconosciuto tra mille. Ne rimasi stupita.
La figura incappucciata aveva sicuramente fretta, non si curò di essere seguita o meno. Aveva qualcosa da fare, forse qualcuno da raggiungere. Ben presto sparì tra gli alberi. Mi avvicinai a Feron.
“L’hai vista?” gli chiesi.
“Sì, l’ho vista. Io… sono contento” sorrise. Un sorriso sincero ma allo stesso tempo velato di tristezza.
“Sei preoccupato per lui?”
“Non dovrei, ma lo sono. Ho paura che soffrirà ancora di più, ma spero di sbagliarmi”
Annuii. Comprendevo le sue paure. Anders era indubbiamente alla fine della sua triste vita e la sua ultima speranza era quella di rivedere la donna che aveva disperatamente amato. E forse sarebbe successo. Forse Hawke stava andando da lui.
 
*******
 
Hawke avvolse le sue cose nella bisaccia, si infilò il mantello e poi baciò i suoi figli.
“La mamma tornerà presto” li salutò. Abbandonò la cascina e fece qualche passo nella neve. Un’altra persona attendeva una sua parola. Negli occhi di Fenris c’era rabbia, tristezza, ma allo stesso tempo rassegnazione. Aveva i pugni serrati lungo i fianchi, lo sguardo basso. Restò immobile quando Hawke lo abbracciò, incapace di guardarla negli occhi, per paura di leggere felicità, la felicità di rivedere Anders. Odiava quel mago, lo aveva sempre odiato quell’abominio, eppure Hawke, la sua Hawke, gliele aveva sempre perdonate tutte, lo aveva sempre aiutato e adesso stava correndo da lui. La paura lo stava divorando. Paura di non rivederla più. Una paura insensata, sapeva che lei non l’avrebbe mai lasciato, eppure non riusciva ad accettare quello che stava succedendo.
“Bada che Bethany non dia fuoco a suo fratello, per favore” gli disse lei senza staccarsi da lui. “ E stai attento a Carver, sai che si ammala facilmente, non farlo uscire senza mantello…”
L’elfo rimaneva impassibile a tutte quelle raccomandazioni. Era in grado di badare ai figli, anche Hawke lo sapeva, eppure doveva dire qualcosa, non poteva lasciarlo senza nemmeno una parola. Ma forse avrebbe fatto meglio a parlare di lui, di quanto lo amasse e di quanto le costasse abbandonarlo anche solo per un po’.
“Perché?” gli chiese lui, interrompendo il suo ostinato silenzio.
Hawke stranamente non seppe trovare una risposta esplicativa.
“Ti amo” gli disse soltanto. “Amo te, amo i nostri figli. Amo la nostra famiglia, la nostra vita. Non cambierei nulla, per niente al mondo. Per nessuno”
Questo avrebbe dovuto rispondere alla domanda di Fenris?
Un bacio mise a tacere tutti i suoi pensieri. Le labbra che tanto amava lo stavano salutando con passione. Gli sarebbero mancate, ma confidava che presto sarebbero state di nuovo sue. La strinse forte, accarezzò quel corpo avidamente, quasi volesse averla lì, per terra, in mezzo alla neve. Ma lei lo lasciò, impedendogli di concretizzare i suoi pensieri. Fece qualche passo indietro, poi gli sorrise.
“A presto” gli disse, prima di incamminarsi verso la sua meta e sparire tra le colline innevate.
 
************
 
Lavriella era sovrappensiero quando inciampò in un ramo. Stava per cadere ma Zevran  l’afferrò al volo.
“Stai attenta! Non vorrei che ti facessi male e dovessi farti da balia di nuovo”
“Scusami, ero distratta”
“A cosa stavi pensando?”
La donna si fermò, indecisa se esporre o meno i suoi pensieri. Poi fece un bel respiro e diede voce alla sua angoscia.
“E se stessimo solo perdendo tempo Zev? E se fosse tutto inutile? Perché mi ostino a cercare qualcuno che non vuole essere trovato? Perché non sono tra le braccia di mio marito in questo momento, godendomi quello che ho?”
Si sedette su una roccia, coprendosi il volto con le mani. “Ho sbagliato tutto, tutto! Sono stata così egoista….”
“Lavri…” Zevran le poggiò una mano sulla spalla. Anche lui credeva che sarebbe stato impossibile trovare Morrigan, ma non sopportava di vedere Lavriella così triste.
“E anche se la trovassi Zev, cosa potrei fare? Cosa farò? Le dirò di sparire di nuovo? Conoscerò suo figlio? Il figlio di Alistair? Come ho potuto privarlo di questa immensa gioia? Sapevamo che per noi sarebbe stato quasi impossibile avere un figlio nostro, eppure io ci ho sempre sperato, ci ho sperato ogni mese, ogni giorno. A ogni ritardo ho fantasticato su come dirgli che finalmente avrebbe avuto il suo erede, il frutto del nostro amore, invece ha sposato una donna sterile, mentre suo figlio è lì fuori da qualche parte! Come ho potuto privarlo di questa felicità? Non avrei mai dovuto accettare il rituale di Morrigan, sarei dovuta morire contro l’Arcidemone!”
“Smettila!” la interruppe Zevran, sconvolto da quelle parole. “Non dirlo nemmeno per scherzo. Cosa avrebbe fatto Alistair se tu fossi morta?”
‘Cosa avrei fatto io se tu fossi morta?’
L’elfo la guardò negli occhi con aria decisa.
“Non voglio più sentirti dire cose del genere, Alistair ti ama, e tu ami lui! Sarete capaci di superare anche questa,  non importa come, risolverete tutto”
Lavriella annuì.
“Io… io lo amo così tanto Zev”
Non era la prima volta che sentiva quelle parole, ma ogni volta lo facevano soffrire come fossero pugnalate.
“Lo amo talmente tanto da essere diventata egoista e stupida. Devo dirgli la verità. Devo farlo. Ma ho tanta paura, ho paura che mi odierà… che mi ripudierà… cosa farò se lui mi lascia?”
Zevran non potè fare altro oltre a quello che faceva sempre: abbracciarla e consolarla.
“Non succederà. Lui non ti lascerà mai, ne sono sicuro. Inoltre se ti lasciasse sarebbe un vero idiota. In effetti lui è un idiota, ma non credo lo sia fino a questo punto…”
Sdrammatizzò, sorridendo. Dava spesso al suo amico Alistair dell’idiota, ma si premurava di non farlo in pubblico. Almeno quello. In fondo lo rispettava…. E lo indiava. Non certo per essere re, ma per avere l’unica cosa che lui desiderasse. E non l’avrebbe mai perdonato se avesse osato fare del male alla sua Lavriella. Sapeva che non sarebbe mai accaduto e l’ultima cosa che voleva era che lei soffrisse, eppure quel pensiero lo elettrizzava. Se Lavriella non fosse più stata la moglie di Alistair, forse lui avrebbe potuto stare con lei, forse avrebbe…
Scacciò dalla mente quei pensieri. Non sarebbe mai successo. Lui stesso non avrebbe mai permesso al re di fare una sciocchezza simile.
“Zev… non mi sento bene…”
Zevran fece appena in tempo a scostarsi prima che Lavriella vomitasse sopra i suoi stivali.
“Accidenti!” esclamò l’elfo, meravigliato. “Che diavolo…”  le posò una mano sulla fronte.
“Mi sembri accaldata, forse hai la febbre. Hai mangiato qualcosa di strano?”
“Forse…sono stai quei funghi?” tirò a indovinare lei.
“Li ho mangiati anche io e sto benissimo, almeno per adesso…”
Lavriella sospirò. Si sciacquò la bocca con un po’ d’acqua, poi sentenziò:
“Sto già meglio… ma voglio andare a casa. Voglio tornare indietro. Da quanti giorni siamo in viaggio?”
“E’ quasi un mese”
“Per quando arriveremo a Denerim, Alistair sarà già tornato dalla fortezza. Voglio andare da lui”
E così quel viaggio stava per concludersi. Non sarebbe più stato solo con Lavriella. Era triste, non poteva negarlo a sé stesso.
Aveva assaporato le sue labbra, accarezzato il suo corpo nudo. Aveva quasi abusato di lei e si odiava per quello, ma non riusciva a cancellare dalla sua mente il ricordo di quegli istanti. Avrebbe voluto che fosse sua, invece ogni volta la incoraggiava a tornare tra le braccia di un altro uomo. Era questo il suo compito, la missione che si era ripromesso di portare sempre a termine. Renderla felice, a qualunque costo.
 

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Capitolo 14
*** Rosso ***


“Andraste!”
La freccia mi sfiorò la spalla, perdendosi poi tra la vegetazione.
Eravamo arrivati da poco ai confini della foresta di Brecilian, a metà del nostro viaggio, quando qualcuno ci tese un’imboscata. Feron aveva assistito alla scena.
 “Stai bene?” mi chiese preoccupato.
“Sto bene. Ma chi…” non ebbi modo di concludere la frase; un’altra freccia si conficcò nel terreno, a pochi passi dai miei piedi.
“Via da qui! Siamo troppo scoperti!” suggerì ragionevolmente Gulliack.
Ci nascondemmo tutti tra gli alberi e i cespugli, abbandonando il sentiero.
Cercammo di capire da dove provenisse l’arciere misterioso, sicuramente era nascosto tra gli alberi, ma non si scorgeva alcuna ombra tra i rami.
Ad un tratto, lo vidi. Un leggero movimento, un riflesso scarlatto.
La terza freccia si conficcò nel tronco dell’albero dietro cui era appostato Deleric.
“Adesso basta!” urlò l’orlesiano. “ Posso capire che tu ce l’abbia con me, ma non hai motivo di attaccare i miei amici. Hai quasi ucciso la ragazza!”
“Non dire sciocchezze, non l’avrei mai fatto” rispose una voce femminile. “Era solo un modo per fermarvi”
I due si conoscevano. La voce femminile aveva un leggero accento orlesiano, ma molto meno marcato di quello di Deleric. Chi poteva essere? Forse un funzionario dell’Impero venuto ad arrestarlo per essere fuggito?
“Che intenzioni hai?” le chiesi, evitando di abbandonare il mio riparo.
“Non voglio farvi del male, voglio solo il ragazzo”
“Scordatelo!” Esclamai, decisa. “E’ evidente che qualunque cosa tu voglia da Deleric, lui non sembra volertela dare!”
“Capisco” riflettè la voce, “quindi hai trovato l’amore Deleric? E’ per questo che non vuoi venire con me?”
La risposta dell’orlesiano fu meno pronta di quanto mi aspettassi.
 “Lei non è la mia compagna. E io comunque non devo dare spiegazioni a te! Vattene da dove sei venuta!”
“Non vado da nessuna parte. Prima devi almeno ascoltare quello che ho da dirti”
La situazione stava diventando pesante. Era ora di finirla. Feron era del mio stesso parere, dunque intervenne.
“Se non ha intenzioni ostili, forse dovresti mostrarti e abbandonare il tuo arco”
“D’accordo. Sono disposta a conversare civilmente, se voi farete lo stesso. Ho la vostra parola?”
Deleric ci fece un cenno che ci convinse ad accettare quelle condizioni.
Uscimmo allo scoperto e l’ombra abbandonò il suo nascondiglio, palesandosi con un balzo che le permise di scendere agilmente dall’albero su cui si era appostata.
Era una bella donna. Non più giovanissima, ma dall’aspetto delicato ed elegante. I capelli vermigli le incorniciavano il viso grazioso e gli occhi chiari gli donavano una strana luce che era in grado di camuffare i segni del tempo.
La osservai bene, sembrava orlesiana a giudicare dalla sua corazza, ma qualcosa mi diceva che aveva passato del tempo nel Ferelden.
Non aveva un aspetto minaccioso, eppure Gulliack strinse a sé Altelha, mentre Feron era pronto a usare i suoi pugnali. Deleric sembrava nervoso, ma le sue mani non si erano dirette all’elsa del suo spadone, non ancora almeno. Io stavo in guardia, ma ero allo stesso tempo curiosa di capirci qualcosa di più.
“Perché hai attaccato  Andraste?” chiese il guerriero alla sua inseguitrice.
“Andraste? E’ così che si chiama lei?” la donna volse il suo sguardo verso di me. Io mi celavo dietro un cappuccio, impedendole di osservarmi bene in viso. La donna continuò.
“Andraste? La sposa del Creatore? A Orlais sarebbe un sacrilegio chiamarsi con il suo nome, non molte persone sono degne di un tale onore”
Sorrise. Non sembrava seriamente disturbata dal fatto che portassi quel nome, ma intuii che provava un profondo rispetto per la figura di Andraste.
“Non hai risposto alla mia domanda” la interruppe Deleric.
“Non l’ho attaccata, volevo solo fermarvi” rispose, senza staccare gli occhi da me. Il suo sguardo in qualche modo mi inquietava, era fin troppo scrutatore.
Poi per fortuna lo distolse dal mio viso e tornò a dedicarsi al motivo della sua presenza nel Ferelden.
“Tua madre è preoccupata per te. Le manchi molto. Tuo fratello chiede spesso di te. Gli abbiamo detto che l’imperatrice ti ha mandato in missione, ma deve essersi accorto di qualcosa, dopotutto tua madre non fa che piangere…”
“Basta così” la interruppe Deleric, “non riuscirai a farmi sentire in colpa più di quanto non mi senta già”.
Il ragazzo abbassò lo sguardo, il suo viso esprimeva qualcosa di molto simile al dolore.
“Quindi non ti importa niente di loro?” infierì ancora la donna, “tua madre e tuo fratello ti amano, ti hanno sempre amato, è così che li ripaghi?”
Deleric la fece parlare, incapace di ribattere. Avevo capito che non aveva nessuna intenzione di tornare a casa, ma quella scelta lo faceva ugualmente soffrire molto.
“Come hai potuto abbandonarli? Tua madre è anziana”, incalzò lei, “e con tuo fratello in quello stato… da sola come può…”
“Smettila!” la interruppi io. Non sapevo bene il perché fossi intervenuta in una questione che non mi riguardava, ma non sopportavo di vedere quell’espressione sul viso di Deleric. Improvvisamente sentii il sangue avvamparmi la faccia, abbassai il cappuccio per cercare di riprendere un colorito normale. La tizia mi aveva davvero innervosita.
“Se Deleric ha scelto di andare via avrà avuto i suoi buoni motivi. Smettila di trattarlo come un bambino disobbediente!”
In fondo anche io ero partita contro la volontà di mia madre, in un certo senso mi rivedevo in quella situazione, solo che mia madre non avrebbe usato certi mezzucci per convincermi a tornare, fare leva sul mio senso di colpa non avrebbe mai funzionato e lei lo sapeva.
Feci qualche passo verso quella donna, ma Deleric mi fermò.
“Andraste… ti ringrazio. Ma sono in grado di cavarmela da solo”
Avevo accusato l’orlesiana di trattare Deleric come un bambino… e io avevo fatto lo stesso. Non ne combinavo una giusta. Annuii e arretrai di nuovo, sotto lo sguardo sorpreso di Feron e Altelha, che, conoscendo il mio carattere impulsivo, già immaginavano di vedere la rossa colpita da qualche raggio magico. Ma stranamente mi ero resa conto del mio errore e per quanto fosse difficile da mandare giù, lasciai perdere e tornai in disparte.
“Non verrò con te. Fattene una ragione” sentenziò il ragazzo.
Ma la donna non rispose nemmeno, si limitò ad annuire mentre invece di osservare il suo interlocutore, osservava me. Sì avvicinò di nuovo, cauta. Non staccava gli occhi dal mio volto.
“Che cosa vuoi?” non potei fare a meno di chiedere, pronta a reagire a qualsiasi attacco.
“Tu sei… una bellissima ragazza”
Allungò una mano, forse per toccarmi il viso, ma Feron, che era accanto a me, coi suoi riflessi svelti le bloccò il braccio afferrandole il polso. Era chiaro che mi avrebbe solo toccato, ma lui non voleva che accadesse.
L’orlesiana si liberò dalla presa, che comunque non intendeva immobilizzarla, e si allontanò da me. Arretrò, quasi spaventata, poi cominciò la sua corsa tra gli alberi, andandosene così come era venuta, silenziosa e veloce.
 
*****
La donna dai capelli ramati  bussò alla porta della casa. La ragazzina le stringeva la mano, cercando un po’ di calore in mezzo a quella gelida distesa innevata. Avevano fatto un lungo viaggio, ma finalmente erano arrivate a destinazione.
La porta ci mise un po’ per aprirsi. Era chiaro che il padrone di casa volesse prima accertarsi di chi ci fosse dall’altro lato. Quando riconobbe la sua voce, l’elfo la fece entrare assieme a sua figlia.
“Mio marito non è potuto venire, io invece ho deciso di prendermi una meritata vacanza, ma qualcuno doveva restare per impedire altri disordini. Ormai Kirkwall è diventata la terra di nessuno, qualcuno deve pur pensare alla città. A volte mi chiedo chi ce lo faccia fare…”
Fenris ascoltava le ultime novità dai Liberi Confini, mentre i gemelli giocavano con Maesie, la figlia di Aveline e Donnic.

Kirkwall orami era in rovina, ma Fenris la ricordava comunque con affetto. Era lì che aveva conosciuto la libertà, che aveva conosciuto l’amicizia, che aveva conosciuto l’amore. Paradossalmente era anche per colpa sua che la città adesso se la passava molto male: dopo la rivolta dei maghi e la destabilizzazione dell’ordine templare il potere non durava mai abbastanza nelle mani della stessa persona. Per fortuna c’erano le guardie cittadine, capitanate da Aveline e da suo marito, che si erano dichiarate indipendenti avevano giurato di servire un codice a cui chiunque poteva appellarsi in caso di contravvenzione. Le leggi esistevano ancora, erano molto chiare, e nemmeno le guardie potevano esimersi dal rispettarle. Non obbedivano alle schiere di visconti che si succedevano alla velocità della luce, ma i tribunali esistevano ancora e avevano giurisdizione anche sulle guardie. In questo modo il pericolo della dittatura era scongiurato, inoltre Aveline era molto attenta nel selezionare le reclute e le teste calde venivano allontanate in modo immediato.

“Ma dov’è Hawke?”
Avrebbe dovuto rispondere a quella domanda, prima o poi. Forse si aspettava di riceverla dai suoi figli, ma quelli non gliel’avevano ancora posta. Invece Aveline voleva sapere dove fosse la sua amica. In fondo era strano che lei se ne andasse in giro. Aveline era venuta a trovarla altre volte e Hawke le aveva sempre detto che non si allontanava mai da quella casa.
Fenris si arrese all’amara verità. Non aveva avuto il coraggio di dirlo ad alta voce prima di allora, ma erano passati già sette giorni. Quanto gli mancava. Non erano mai stati così a lungo lontani da quando si erano trasferiti nel Ferelden.
Sospirò, poi rispose alla domanda.
“E’ andata da lui”, disse solo, a bassa voce, fingendo che la cosa non gli procurasse quella fitta di dolore nel petto che non riusciva a controllare.
Non aveva bisogno di specificare di chi si trattasse. Aveline aveva capito. Abbassò lo sguardo e si limitò ad annuire. Lei non aveva voluto sapere dove si trovasse Anders. Sapeva che il suo senso del dovere l’avrebbe portata ad andare da lui e a pretendere giustizia per Kirkwall, ma non voleva. Per quanto le costasse ammetterlo, in parte capiva Anders. In parte appoggiava quello che aveva fatto. In parte. L’altra parte di lei l’avrebbe visto volentieri rinchiuso fino alla fine dei suoi giorni in un luogo buio e isolato.  Ma era sicura che, ovunque si trovasse, la realtà non fosse molto diversa. Era prigioniero comunque, prigioniero di sé stesso.
Fenris interruppe i suoi pensieri.
“Aveline, io…”
Non lo fece finire.
“Vai. Ai bambini penserò io”
 
*******
L’arciera aveva fretta. Correva in direzione di Denerim. Doveva trovare la sua amica, doveva a qualunque costo arrivare in città e parlare con la regina.
Aveva sempre sospettato che dietro  la scomparsa di Morrigan ci fosse qualcosa. Aveva stretto amicizia con Lavriella in un modo in cui non credeva fosse possibile, eppure dopo la battaglia contro l’Arcidemone, l’eretica era scomparsa senza lasciare traccia.
E lei conosceva Lavriella abbastanza da credere che l’avrebbe cercata, se non avesse saputo il perché della fuga.
 
La notte prima della battaglia finale, Leliana aveva visto la sua amica piangere.
“Sei preoccupata per domani?” le aveva chiesto, sedendosi accanto a lei, davanti a un grosso camino acceso.
“Io… scusami” aveva risposto la ragazza asciugandosi le lacrime, “domani è un giorno importante, si deciderà il futuro dell’intero Ferelden e… io non so se potrò reggere questo peso tutto sulle mie spalle. Ho paura di non esserne in grado”
Le fiamme illuminavano il salone vuoto, una pace surreale proveniva da quei riflessi dorati, mentre fuori si preparava una sanguinosa battaglia.  
“Lo capisco. Ma ricordati che non sei da sola, sei stata capace di radunare un esercito, hai tanti alleati e soprattutto tanti amici”
Le aveva poggiato una mano sulla spalla. Le voleva molto bene. La considerava un’amica, anche se le era capitato di pensare a loro due come a qualcosa di più, ma era cosciente che per Lavriella era diverso, e per quanto talvolta fossero deboli i suoi pensieri, aveva accettato la realtà e non sperava assolutamente in qualcos’altro.
 “E poi hai Alistair” aveva continuato, “lui divide questo fardello con te. Perché non vai da lui? Forse vi farebbe bene stare insieme stanotte…”
Aveva tentato di consolarla, eppure a sentir nominare Alistair, gli occhi di Lavriella si erano inondati nuovamente di lacrime.
Aveva pensato che avessero litigato. Tuttavia il giorno dopo avevano combattuto, più uniti che mai, e avevano vinto. Durante i festeggiamenti avevano annunciato ufficialmente il loro matrimonio e sei mesi dopo si erano sposati.
 
Aveva sentito molte storie sui custodi grigi. Non era chiaro come mai fossero necessari per abbattere gli Arcidemoni, dicevano che avesse a che fare con la capacità di avvertire la Prole Oscura, ma doveva esserci dell’altro. Storicamente, i custodi che avevano affrontato quei potenti draghi non erano mai sopravvissuti, pur riuscendo a sconfiggerli. Lavriella era stata la prima a sferrare il colpo mortale e a non riportare danni. Forse era semplicemente un caso. O forse no.
Il dubbio era sempre rimasto nel cuore di Leliana. C’era qualcosa che non la convinceva, ma per rispetto nei confronti della sua amica, non aveva indagato, non aveva mai chiesto.
E adesso aveva visto lei. Una ragazza che somigliava a Morrigan in un modo impressionante. Ma i suoi occhi… i suoi occhi non erano quelli della Strega delle Selve. Erano gli occhi di qualcun altro. Erano gli occhi di Alistair.

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Capitolo 15
*** Notte ***


Erano passati sette giorni. Aveva viaggiato senza fermarsi quasi mai. Di notte riposava molto poco, preferiva camminare, arrivare il più presto possibile. Non sapeva perché avesse intrapreso quel lungo viaggio, perché per la prima volta aveva abbandonato il suo compagno e i suoi figli, eppure sentiva di doverlo fare. Quindi procedeva veloce lungo il suo cammino, illudendosi che prima sarebbe arrivata, prima sarebbe tornata dalla sua famiglia.
Aveva sempre saputo dove si trovasse lui. Non ne aveva mai fatto parola con Fenris, ma Liraya sapeva dove si nascondeva Anders. Era stato Varric a dirglielo, quella volta che si erano incontrati dopo tanti anni. Da allora aveva rivisto Varric altre volte, ma mai aveva avuto il coraggio di cercare Anders.
Gli aveva risparmiato la vita. Perché doveva sdebitarsi e combattere, si era detta. O forse era per un altro motivo? Era lei a sentirsi in debito con lui. Tra di loro c’era stato solo uno sciocco bacio. Eppure… eppure era stato uno dei suoi rimpianti più grandi. Non sarebbe dovuto accadere. Anders non sarebbe dovuto andare da lei quella notte, lei non avrebbe dovuto cacciarlo via…
Era tutto sbagliato. Amava Fenris, da impazzire. Ma il pensiero di Anders l’aveva tormentata per tutto quel tempo. Credeva che se ne sarebbe dimenticata prima o poi, che fingere che non esistesse avrebbe risolto il problema, che il suo senso di colpa sarebbe stato lenito dal passare degli anni. La verità era che lei lo aveva abbandonato. Sapeva che lui se lo meritava. Anders stesso lo aveva ammesso, ne era cosciente e avrebbe accettato persino la morte per mano sua. Ma lei si era limitata a voltargli le spalle e ad abbandonarlo ad un destino di cui si era lavata completamente le mani. Si sentiva una codarda, un’egoista. Razionalmente aveva tutte le ragioni del mondo per essersi comportata così. Ma il suo cuore le diceva altro.
 
Le rovine non avevano un aspetto molto diverso da quello che aveva immaginato. Era da poco diventato buio e la luce di un fuoco proveniente da una delle finestre, rendeva tutto inquietante. Le pareti semicrollate, le statue danneggiate, i rampicanti che le soffocavano, sembravano quasi prendere vita seguendo la danza altalenante delle fiamme.
Nascosta nel suo mantello, silenziosa come un gatto, Hawke si mosse in direzione di quelle fiamme, cercando un’ entrata.
La soglia era di fronte a lei quando esitò. Voleva davvero entrare? Poteva davvero andare da Anders dopo tutti quegli anni e presentarsi lì come nulla fosse? Che cosa avrebbe dovuto dire? Come avrebbe reagito lui? Era davvero la cosa giusta?
Una voce la distrasse dai suoi pensieri. Era una risata. La sua risata. Dopotutto, era ancora capace di ridere. Questo stranamente la rincuorò. Ma Anders non era solo, c’era qualcuno con lui. Ecco, un’altra risata, un’altra voce che lei avrebbe riconosciuto tra mille.

*********
 
“Ti devo una spiegazione” mi disse Deleric, non appena ci fummo accampati per la notte.
Avevo pensato che forse mi sarei dovuta scusare per il mio comportamento, invece fu lui a farlo.
“Scusami se mi sono rivolto a te in quel modo. Anzi, le tue intenzioni erano buone e io non ti ho nemmeno ringraziato”
Fui stupita. Sapevo che in realtà avevo sbagliato io, eppure lui si scusava e mi ringraziava. Ero confusa.
“Non c’è alcun bisogno di ringraziarmi” risposi sbrigativa, molto più interessata al resto della storia, “ma mi farebbe piacere sapere chi fosse quella donna”
Mi accompagnò accanto al fuoco, dove ci sedemmo e consumammo un breve pasto. Poi, approfittando del fatto che fossimo soli, cominciò a raccontare.
“Quella donna si chiama Leliana. Lavora per mia madre, e per chiunque abbia i soldi necessari per pagarla. E’ una brava donna, non accetta missioni illecite nonostante tutti sappiano del suo passato burrascoso con la legge di Orlais. E’ una sorta di guardia del corpo, se così vogliamo chiamarla. Mia madre l’ha mandata a cercarmi”
Leliana. Un nome che non mi era del tutto nuovo. Ma dove l’avevo sentito?
“Tua madre non accetta il fatto che tu sia partito?”
“In effetti no. E’ sempre stata contro questa mia decisione. Non voleva perdermi. Crede che possa capitarmi qualcosa e che non tornerò mai più a casa. Come posso biasimarla?”
Annuii.
“Lo capisco. Anche io sono partita contro il volere di mia madre”
“Allora saprai cosa si prova sapendo di aver lasciato una donna in balia dell’incertezza e della paura”
“In realtà mia madre non è quel tipo di persona. Non credo che in questo momento si stia tormentando domandandosi quale sorte mi sia capitata…”
“Non dire così. Non conosco tua madre, è vero, ma sono sicuro che le manchi”
Quella rivelazione mi lasciò piacevolmente sorpresa. Magari era solo una frase di circostanza, ma forse, dopotutto, aveva ragione. Magari mia madre era davvero in pensiero per me, ecco perché, ne ero sicura, mi seguiva da non troppo lontano. Era strano, ma era una sensazione che mi riscaldava dentro, mi faceva sentire bene.
“ E tuo fratello?” chiesi trasportata dall’empatia. “Anche lui si preoccupa molto per te?”
Lo sguardo di Deleric divenne cupo.
“Mio fratello… è molto malato” mi confessò. “Da ragazzino è caduto da cavallo e ora è costretto a letto, completamente paralizzato dal collo in giù”
Sospirò. Si passò una mano tra i capelli, poi continuò.
“Nostro padre è morto anni fa. Io sono il fratello maggiore e l’ho abbandonato. Lui ha solo me e mia madre. E io l’ho abbandonato”
Era chiaro che si sentiva molto in colpa. Ma era altrettanto chiaro che quella decisione aveva richiesto molto coraggio.
“Non l’hai abbandonato. Hai solo deciso che anche tu hai diritto a vivere la tua vita”
Deleric alzò lo sguardo, che fino a quel momento aveva tenuto basso, perso nel terreno incolto sotto i nostri piedi. Mi guardò negli occhi, incapace di fare altro. Quell’azzurro limpido mi abbagliò.
“Inoltre quando riuscirai a trovare quello che stai cercando, tornerai da lui. Ti sei preso solo una vacanza, ti sei solo ricordato che esisti anche tu e che rischiavi di soffocare sotto tutto quel peso. Hai deciso di abbandonare quel peso per qualche tempo, non la tua famiglia. La tua famiglia non è un peso per te”
Le mie parole fluirono incapaci di essere trattenute. Non so come fossi giunta a quelle considerazioni, ma ero convinta di quello che dicevo mentre lo dicevo.
Deleric non rispose. Si limitò a prendere la mia mano tra le sue. La baciò. Poi mi augurò la buona notte e si ritirò nella sua tenda.
Era la seconda volta che mi baciava la mano. La prima volta era stato un gesto puramente formale, ma questa volta mi era sembrato diverso. Forse stavo solo lavorando di fantasia. Non vedevo nessun’altro sveglio, erano tutti nelle proprie tende, dunque spensi il fuoco e andai a dormire anch’io.
 
Dei passi mi svegliarono. C’era qualcuno fuori la mia tenda. Mi destai, rimanendo appostata, in silenzio, per capire che intenzioni avesse il visitatore indesiderato.
“Andraste!” sussurrò una voce familiare. “Andraste sei sveglia? Devo parlarti”
Aprii la tenda e feci entrare Altelha.
“Che succede?” le chiesi preoccupata.
“Io devo parlare con te, devo parlare con una donna… è una questione… delicata”
Non riuscivo proprio a capire di cosa volesse parlare con me. Ero indubbiamente una donna, ma non credevo che avremmo potuto discorrere di tematiche femminili. Non ero avvezza a frivolezze come le acconciature più alla moda o le ciprie più setose.
La osservai. Sembrava in imbarazzo.
“Non so proprio come possa aiutarti, me ne intendo poco di cose da donne…”
“Lo so! Non sono qui per parlarti di profumi orlesiani, per quello sarei potuta andare da Deleric. Solo… solo voglio parlarti di… quello che prova una donna in certi momenti…”
Non riuscivo proprio a seguire il discorso.
“Vedi… quando un uomo e una donna… decidono di… conoscersi meglio e…”
Non ero certo famosa per la mia pazienza.
“Vieni al punto!” la incitai.
“Oh, insomma, d’accordo. Io vorrei tanto passare la notte con Gulliack!”
Ero esterrefatta. Sesso? Stava parlando di sesso? A me? Io ne sapevo davvero poco dell’argomento, non avevo davvero idea di cosa potessi dirle…
“ Dovresti dirlo a lui, non a me”
Sbattei le palpebre un paio di volte, ancora incredula.
“No! Cioè sì! Cioè… gliel’ho detto. Ma lui non ne vuole sapere…”
Questa sì che era bella. Un ragazzo che rifiutava un rapporto sessuale. Da quello che mi aveva insegnato mia madre, nessun uomo rifiutava un’offerta così generosa.
Rimasi in silenzio, mentre Altelha continuava il suo discorso.
“Lui dice che vuole aspettare il matrimonio. Dice che mi desidera tantissimo, ma che dobbiamo essere sposati prima, per rispetto verso i nostri antenati e verso mia madre. Ci tiene a farle una bella impressione. Io gli ho detto che tanto lei già lo odia a prescindere, perché per colpa sua non sposerò l’uomo che lei ha scelto per me, ma lui insiste. Vuole fare le cose per bene. Vuole la sua benedizione!”
Mi veniva da ridere. Cercai di non farlo ma forse un mezzo sorriso dovette scapparmi, perché l’elfa mi guardò male.
“La sua benedizione?” ripetei. “E’ assolutamente ridicolo. Non avete bisogno della benedizione di nessuno”
“Quindi secondo te il mio desiderio non è sbagliato?”
“Perché mai dovrebbe essere sbagliato? E’ un desiderio normale, naturale. Tutti fanno sesso. Gli uomini, gli animali. E’ l’istinto”
“Ma per me non si ratta solo dell’istinto. Io sono innamorata di lui. Lo amo e non posso fare a meno di desiderarlo. Non posso aspettare di amarlo in base a un consenso. Nessun altro può avere giurisdizione sui miei sentimenti”
Chissà se quello che stava dicendo era vero. L’amore era così? Qualcosa privo di regole, di razionalità? Anche Feron mi aveva confermato che l’amore era come lo descriveva Altelha, come lo descrivevano i menestrelli nelle loro canzoni. Quanto poco ne sapevo!
“Tu… l’hai mai fatto?” mi chiese infine.
“Fatto cosa?”
“Sesso. Hai mai fatto sesso?”
La domanda mi spiazzò.
“No. Mai” risposi, fingendo di non esserne estremamente incuriosita.
“Perchè non l’hai mai fatto?”
“Non ho mai sentito questa esigenza, l’istinto di accoppiamento non mi ha mai…”
“Non sei mai stata innamorata” mi interruppe. “Vedrai che quando ti innamorerai, comincerai a provare questo desiderio”
Sorrisi, incerta. Era una conversazione molto strana, ma, se non altro, mi aveva aiutato a capire un po’ meglio il parere delle altre persone sul sesso e sull’amore. Quello di mia madre non mi sembrava più l’unico punto di vista possibile.
“Credo che parlerò di nuovo con Gulliack, proverò a spiegargli che lo amo troppo per continuare ad aspettare, sperando che ceda, prima o poi. Tanto, con o senza mia madre, ci sposeremo lo stesso una volta giunti a Denerim”
“Forzarlo però potrebbe essere controproducente” suggerii. “Fai bene a dirgli cosa pensi veramente, ma se lui non se la sente non puoi continuare a insistere. Si tratterebbe solo di aspettare qualche settimana, no?”
“Hai ragione… io voglio che sia assolutamente perfetto. E che lui ne sia convinto. Gli parlerò, ma farò in modo che si senta libero di decidere…”
Improvvisamente si bloccò.
“Hai sentito?”bisbigliò dopo qualche secondo.
“Sentito cosa?”
I sensi di Altelha erano più sviluppati dei miei. Aveva un udito più fine, grazie al suo sangue elfico.
“Passi” sentenziò. “Forse quattro o cinque persone. Indossano corazze pesanti, sono armati!”
Adesso cominciavo a distinguere anche io qualche suono.
“Avvertiamo gli altri!” affermai, precipitandomi fuori dalla tenda.
L’elfa raggiunse l’alloggio di Gulliack, mentre io mi precipitai nella tenda più vicina alla mia.
“Feron, svegliati. Abbiamo compagnia!”
Il ladro non se lo fece ripetere due volte, sembrava che fosse già sveglio. Si alzò immediatamente e cominciò a prepararsi in tutta fretta. Ignorai in suo corpo semi nudo e mi recai nell’ultima tenda.
“Deleric!”
Ma Deleric non era lì.
 
 
I templari ormai ci avevano accerchiati. Erano più di cinque, una quindicina in tutto, quello che avevamo sentito io e Altelha era solo il primo plotone.
Avevano tentato di catturare l’elfa, dicendo che doveva essere lei l’eretica che cercavano. Io sapevo che non si trattava di Altelha. Loro cercavano Merrill, e cercavano me. Non potevo permettere che facessero del male a lei che non c’entrava niente. Quindi rivelai i miei poteri nel tentativo di salvarla. Riuscii a strapparla dalle grinfie di un templare, ma Feron mi rimproverò.
“Perché hai usato la magia? Ora sanno che sei un’ eretica, sei stata stupida! Ci avremmo pensato noi a salvarla!” disse riferendosi a sè stesso e a Gulliack.
Era sinceramente preoccupato, ma con o senza poteri, i templari ci stavano comunque sopraffacendo. E di Deleric nessuna traccia.
“Quel figlio di una cagna ci ha traditi!” continuò il ladro. “Lo sapevo! Mai fidarsi di un orlesiano. Loro e la… loro fissazione per chiesa!”
Non potevo credere che fosse davvero così. Eppure i fatti indicavano proprio un suo tradimento. Com’era possibile che i templari ci avessero trovati lì, nel bel mezzo del nulla, senza che avessero ricevuto una qualche soffiata? E che guarda caso Deleric fosse sparito poco prima che loro arrivassero?
Non capivo perché mi stupissi. Il tradimento è nella natura umana, lo sapevo bene, mia madre me ne aveva ampiamente parlato, e talvolta l’avevo anche visto coi miei occhi… ma poche ore prima mi ero sentita vicina a Deleric come non mi era mai capitato prima. Forse ero solo arrabbiata e delusa per aver creduto che potesse essere un vero amico. In fondo stavo riponendo la mia fiducia praticamente nei confronti di estranei. Nessuno di loro aveva un motivo valido per essere mio alleato. Così come non lo avevo io. Ma nonostante ciò io non avevo intenzione di abbandonarli o tradirli. Anzi, rischiavo la vita per loro. Me ne sarei potuta andare in qualunque momento, e invece ero lì a combattere, così come i miei compagni. I mie i amici. Anche Deleric aveva rischiato la vita per noi. Non capivo… finchè tutto non fu chiaro.
 
*****
 
“Lo sapevo, hai la febbre alta”
“Sto bene” rispose Lavriella scostando la mano del suo amico dalla propria fronte. ”E’ solo colpa di quei dannati funghi!”
“Io dico che è colpa della tempesta di quella notte. Ti ricordo che sei quasi morta”
“Sto bene! Ora smettila di stressarmi, ti preoccupi troppo…”
“Forse. O forse dovresti riposarti. L’accampamento Dalish non è lontano”
Lavriella cercava di nasconderlo, ma era stremata. Le emozioni dell’ultimo periodo erano state piuttosto violente, e lei si sentiva stanca. Molto stanca. L’unica cosa che desiderava in quel momento era un letto caldo. All’improvviso andare dai Dalish le sembrò una buona idea.

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Capitolo 16
*** Sangue ***


“Come fai a sapere queste cose?”
“Sono una veggente… è mio compito sapere certe cose”
La donna si avvicinò sinuosa all’orlesiano, facendo ondeggiare i suoi fianchi con grazia.
“Sei innamorato di lei, vero?”
Deleric respinse quelle insinuazioni con fin troppa decisione.
“Ti sbagli, e comunque non sono affari che ti riguardano, dimmi solo come possiamo sfuggire all’agguato”
“Vi aiuterò a respingerli, portami all’accampamento”
“E in cambio? Cosa vorresti?”
“Venire con voi. Siamo diretti verso la stessa destinazione”.
La maga voleva dunque unirsi al gruppo.
“Perché mai? Se sei in grado di aiutarci, sarai in grado di viaggiare da sola, di difenderti da sola”
“I tuoi dubbi sono giustificati, ma le strade che portano a Denerim sono pericolose per una donna sola, nonostante i miei poteri. Non posso sempre controllare le mie previsioni, potrei essere colta di sorpresa anch’ io come tutti voi”
Il suo interlocutore sembrava titubante.
“Se vi ho visto nella mia visione”aggiunse mostrandosi completamente sincera, “ci sarà di sicuro un motivo, non mi succede di averne per caso. E confesso che sono curiosa di scoprire quale sia”
La donna sorrise, guardando il ragazzo negli occhi, sicura di sé.
“Ma adesso dobbiamo andare” continuò, “non abbiamo più molto tempo, i templari stanno arrivando”
 
 
Ormai non sembravamo avere più una via d’uscita. Erano in troppi. Certo, eravamo riusciti sopraffarne alcuni, ma ne rimaneva un numero consistente. Vedere i miei incantesimi per loro fu la conferma definitiva che eravamo io e Altelha le fuggitive ricercate. Beh, avevano ragione solo in parte.
Difatti uno di loro si chiese dove fosse l’eretico che era scappato con noi, e un altro gli rispose che glielo avremmo confessato volentieri una volta catturate. Perfetto. Ci avrebbero anche torturate. Ma non me ne sarei stata lì con le mani in mano, avrei combattuto fino alla fine.
Non ero certo una che si lasciava scoraggiare da un numero maggiore di nemici, eppure in quel momento qualcosa in me mi fece desiderare, implorare forse, che arrivasse qualcuno a toglierci dai guai. Sapevo che mia madre ci osservava, ma allora perché non interveniva? Possibile che mi fossi sbagliata? Possibile che avesse deciso di starsene a guardare? Mi avrebbe fatta catturare dai templari? No, piuttosto mi avrebbe uccisa con le sue mani, ne ero certa. Forse voleva solo vedere fino a che punto sarei arrivata con le mie sole forze. Forse era quello.
Ma io non temevo solo per me stessa. Altelha rischiava grosso, e con lei Gulliack, che non avrebbe permesso a nessuno di farle del male a costo della vita. E Feron… il ragazzo che era stato pronto a sacrificarsi per me, una sconosciuta, pur di farmi uscire dall’oblio. Il ragazzo che ancora una volta era lì e cercava di proteggermi con tutte le sue forze. Più di una volta si era messo tra me e i nostri assalitori. Non capivo perché fosse così avventato, così sciocco.
Proprio cercando di difendermi un fendente lo raggiunse in un fianco, provocandogli una ferita piuttosto seria.
“Andraste, scappa!” mi urlò, accasciandosi a terra. “Vai via da qui, se ti catturano ti uccideranno!”
Altelha e Gulliack in qualche modo erano riusciti ad allontanarsi dalla battaglia, avevano la possibilità di mettersi in salvo, ma nonostante ciò si erano fermati come a volermi aspettare.
Avrei dovuto abbandonare Feron al suo destino per fuggire dai templari?
Mi tornò in mente quel ragazzino che abbandonai a Val Royeaux, quel ragazzino ferito. Non potevo farlo di nuovo, non potevo ancora una volta convivere con lo stesso rimorso. Sapevo che ciò che contava era solo la mia sopravvivenza, mi era stato insegnato sin da piccola: sopravvivere, a qualunque costo. Tuttavia mi precipitai ad aiutare Feron. D’istinto corsi accanto a lui e lo presi tra le braccia.
“Non ti lascio qui, posso guarirti e lo farò”
Ignorai le sue proteste e poggiai la mia mano sullo squarcio, affondandola nel suo sangue.
Ne aveva perso molto, era estremamente pallido, non ero abituata a vederlo in quello stato. Era a un passo dalla morte eppure continuava a dirmi di lasciarlo lì, di mettermi in salvo. Poggiò la sua mano sulla mia. Poi smise di ribellarsi. Lo sguardo si perse nel vuoto. Chiuse gli occhi.
Se n’era andato? Non potevo permetterlo.
“Feron!” lo chiamai. Ma lui non mi sentiva più.
Intensificai la potenza dell’incantesimo di guarigione, intenzionata a fare di tutto per riportalo indietro.
“Feron, rispondimi!”
Sentii una strana sensazione. I miei occhi… i miei occhi si erano annebbiati. Li sentivo gonfi, mi bruciavano. Poi scivolò qualcosa sulle mie guance.
Perché ancora una volta Feron aveva preferito sacrificarsi per me? Perché era così dannatamente altruista dietro a quella sua aria strafottente?
“Torna da me…” sussurrai, ormai priva di energie. L’incantesimo si stava affievolendo. Ero completamente spossata. Feron non accennava a riprendersi.
La mia mente vagò tra mille pensieri.
Perché Feron era rimasto al mio fianco? Avrebbe potuto fare come Deleric, sparire nel nulla e lasciarsi tutto alle spalle…
E perché Deleric ci aveva abbandonati? Perché ci aveva addirittura denunciati?  
La risposta alle mie domande non si fece attendere molto.
 
Non feci caso alla spada che stava per affondare nel mio collo. Era successo tutto così in fretta che non mi resi conto di essere ancora in pericolo. Forse non mi importava. Tenevo Feron stretto a me. Non avevo più la forza per continuare con l’incantesimo. E probabilmente sarebbe stato comunque inutile. La ferita sembrava guarita ma… dalla morte non si può guarire, nemmeno con la magia. Avrei potuto usare la magia del sangue, ma ne avrei fatto uno zombie; il ragazzo che conoscevo non sarebbe più tornato.
Il templare alzò le braccia impugnando la sua arma. Probabilmente mi avrebbe uccisa sul posto senza nemmeno interrogarmi. Per fortuna non ebbi modo di saperlo.
Sentii appena Altelha che mi urlava di stare attenta, quando, alzando lo sguardo, notai il mio aggressore crollare davanti a me, folgorato da un incantesimo.
Magia? Ma chi poteva essere stato?
“Madre?” mormorai.
Mi voltai e vidi Deleric avanzare accompagnato da una donna. Quella non era mia madre. Non sapevo chi fosse, ma evidentemente era un’eretica come me.
Si lanciarono nella battaglia. La maga era davvero molto potente e contribuì significativamente ad abbattere i nemici. Rincuorati, anche l’elfa e il nano trovarono il coraggio di ricominciare a combattere.
Ero come intontita. Deleric era tornato. Forse non ci aveva traditi, forse era solo andato a cercare aiuto? Ma come faceva a sapere che sarebbero arrivati i templari? Perché non ci aveva avvertiti?
“Stai bene?” Mi chiese mentre schivava i colpi avversari.
Ero incapace di rispondere. Osservavi lui, osservai la maga, Gulliack, Altelha. Osservai Feron, inerte, col viso bagnato dalle mie lacrime.
Avrei dovuto rispondere che stavo bene, ma nessun suono uscì dalle mie labbra. Perché ero così sconvolta?
Non riuscivo a staccare gli occhi da quel volto cereo.
All’improvviso mi sentii afferrare. Una mano si era posata sulla mia spalla e mi stava scuotendo.
“Andraste, sei ferita?”
Deleric era riuscito a raggiungermi. Guardò me e poi guardò Feron, io ricambiai il suo sguardo.
L’espressione del guerriero sembrava mostrare profondo rammarico. Anche lui era dispiaciuto per Feron, ne ero convinta. In quel momento capii. No, non poteva essere stato lui a tradirci. C’era sicuramente una spiegazione a tutto quello che era successo.
Ricaccia indietro le lacrime. Non ero abituata  a versarne, non riuscivo nemmeno a ricordare l’ultima volta che avevo pianto. Non potevo lasciarmi andare, la situazione stava volgendo a nostro favore, dovevo dare il mio contributo. Lasciai il corpo che stringevo adagiandolo a terra con delicatezza, poi mi alzai, decisa a porre fine a tutto ciò.
“So bene Deleric. Adesso pensiamo a eliminare i nostri nemici”
 
Detto fatto. Non ci volle molto per abbatterli tutti. Ero arrabbiata, furiosa. Ero passata dall’essere catatonica all’essere implacabile. Combattei con una collera mai provata prima, trovando forze dentro di me che non credevo di possedere. Mi trasformai in un ragno gigante e feci letteralmente a pezzi alcuni templari. Non meritavano di meno. Poi individuai quello che aveva colpito Feron.
Non dimenticherò mai quella faccia. Quegli occhi terrorizzati di fronte a una bestia che non si aspettava di vedere e che non avrebbe mai avuto la possibilità di battere.
Mi accanii su di lui. Riacquistai la mia forma umana quando ormai il suo corpo era a brandelli, ma non mi fermai. Continuai ad infierire, ancora e ancora, dilaniandone la carne con le mani nude, in una sorta di stato di trance. Urlavo e colpivo, incapace di smettere.
Qualcuno dovette riportarmi alla realtà. Deleric mi trascinò di peso lontano da quel corpo straziato, nonostante mi opponessi e scalciassi con tutte le mie forze. Il ragazzo tentò di calmarmi. Mi abbracciò, mi strinse, poi mi accarezzò i capelli dicendomi che era tutto finito, che avevamo vinto, che non eravamo più in pericolo. Continuò a rassicurarmi, mentre finalmente riacquistavo lucidità e mi rendevo conto di quello che avevo appena fatto.
Non potevo credere di aver perso in quel modo la ragione. Che mi era successo? Non mi era mai capitata una cosa del genere. Di sicuro il templare se lo era meritato, ma tutta quella violenza ingiustificata… non era da me. Non ero io quella, non ero io a controllare il mio corpo, ero come posseduta. I miei compagni mi avevano vista in quello stato che nemmeno io sapevo spiegare. Forse era stata la morte di Feron a spingermi fino al limite. Feron era morto e io non avevo potuto salvarlo, non avevo potuto fare niente, tranne che vendicare la sua morte nel modo peggiore possibile…
Le braccia che mi cingevano erano calde. Notai la differenza con quelle di Feron che avevo stretto poco prima. La presa si allentò, mi ero calmata, non c’era più bisogno di trattenermi.
Mi staccai da Deleric. Eravamo entrambi sporchi di sangue. Probabilmente in maggioranza era dei templari, eppure sapevo che su di me non c’era solo sangue nemico, ma anche quello di un amico. Guardai la mano che avevo usato per guarirlo, la stessa mano che poi l’aveva vendicato. Non riuscivo ancora ad accettare la cosa ma trovai la forza per parlare.
“Io… vi chiedo scusa. Ho… ho passato ogni limite”
Abbassai lo sguardo, mortificata.
“Ma adesso sto bene. Mi sono… mi sono ripresa”
Scostai i capelli dal viso. Mi ricadevano scompigliati sulla faccia e sulle spalle.
Deleric sembrava molto preoccupato. Lo ignorai. Non avevo voglia di dare o sentire spiegazioni in quel momento.
“Andraste…”
Una voce richiamò la mia attenzione.
“Andraste, vieni qui”
Altelha mi stava chiamando.
Mi diressi verso di lei, che si era inginocchiata accanto a Feron, insieme alla maga sconosciuta.
Mi inginocchiai anch’io vicino a loro, sotto lo sguardo incredulo di Gulliack e Deleric.
“Andraste…” continuò l’elfa indicandomi Feron, “guarda… respira!”
 
*************
 
Hawke rimase appostata nell’ombra finchè la persona che era assieme ad Anders non abbandonò l’edificio. Aveva ascoltato per un po’ la conversazione, poi un gattino dal pelo tigrato aveva cominciato a strofinarsi sulle sue gambe e a fare le fusa. Non voleva rischiare di essere scoperta. Accarezzò il micio, poi si allontanò in fretta, nascondendosi tra gli alberi.
Anders stava parlando di lei. Dapprima di quando avevano aiutato un mago un po’ imbranato ad abbandonare Kirkwall. Emile, si chiamava. Un mago fuggito dal circolo che voleva disperatamente combinare qualcosa con una ragazza.
 Aveva riso, ricordando come la sua ospite avesse rifiutato l’invito di Hawke ad esaudire quel desiderio.
“Era troppo anche per me” aveva affermato Isabela. “Sono buona col prossimo, ma non fino a questo punto”.
E così Isabela stava bene e sapeva dove trovare Anders. Magari non era la prima volta che andava da lui.
Hawke non aveva saputo più nulla di Isabela da quando si erano salutate prima della partenza per il Ferelden. La piratessa era salpata a bordo della sua nave, verso nuove avventure, mentre lei sarebbe andata via per sempre dai Liberi Confini insieme a Fenris.
Chissà come se l’era passata in tutti quegli anni. Di sicuro ne aveva di storie da raccontare. E forse di tanto in tanto veniva a raccontarle ad Anders, che ormai non aveva più avventure sue da condividere.
“Ricordi com’era bella quella sera, all’Impiccato, quando ci riunimmo per festeggiare la vittoria contro l’Arishok?” aveva sentito dire poco prima, con la voce musicale di Anders, di cui adorava i toni armoniosi.
“E’ vero. Hawke è sempre stata molto bella. Pensa che anche io ci avevo fatto un pensierino una volta”
Hawke aveva sorriso ascoltando quel commento, riuscendo a stento a trattenere una risata.
Isabela era sempre stata molto schietta. Non aveva peli sulla lingua e diceva sempre con chiarezza quello che pensava. Proprio per questo era apprezzata e rispettata da tutti i membri del gruppo (a parte alcuni banali screzi con Aveline), nonostante spesso quello che pensava avrebbe fatto arrossire una cortigiana.
“Lo so, lo so. Ti ricordo che non sei esattamente una donna discreta” l’aveva canzonata Anders, scherzando.
“Senti chi parla, ma se non facevi altro che struggerti per lei, giorno e notte! Quando venivo a trovarti alla clinica ti trovavo sempre con aria trasognata e dalla tua bocca uscivano sospironi grossi come la mia nave”
Isabela aveva la risposta pronta. “Inoltre ti ricordo che tutti sapevano della tua enorme cotta, persino Hawke. E Fenris. Forse per questo ti odiava così tanto”
Quella di Isabela voleva essere una battuta ma aveva ottenuto l’effetto contrario. Era seguito un silenzio, interrotto poi da parole appena sussurrate.
“Diceva di odiare i maghi… Ma Hawke non si può odiare. Si può solo amare”
Un sospiro.
“Non posso biasimarlo”
In quel momento una palla di pelo aveva deciso di strusciarsi sui suoi stivali, impedendo alle lacrime di Hawke di sgorgare.
 
 
“E così ti sei decisa a venire a trovarlo?”
Isabela l’aveva scovata, sebbene avesse tentato di nascondersi bene.
“Ti sei accorta che vi stavo spiando?” chiese Hawke, meravigliata.
“Ho un udito molto fine, dovresti saperlo” rispose facendo spallucce.
Isabela le stampò un bacio sulle labbra per salutarla.
La maga abbracciò la sua amica. Non si vedevano da anni. Doveva ammetterlo, le era mancata.
 “Mi sei mancata anche tu” disse la ladra quasi leggendole nel pensiero. “Però adesso smetti di stringermi altrimenti penserò che tu abbia cambiato gusti”
Hawke rise assieme a lei, notando ancora una volta che non era affatto cambiata.
Poi d’un tratto il discorso tornò serio.
“Perché non vai da lui?” le chiese la donna dalla pelle ambrata. “E molto triste… e solo. Lui… sta per morire”
Quelle parole penetrarono nel suo cuore come lame affilate.
“Non so nemmeno perché sono qui. Volevo andare da lui, ma non so darmi una motivazione valida…”
“Hai bisogno di un motivo? Non puoi semplicemente seguire il tuo istinto?”
Hawke sospirò.
“L’istinto mi ha portata fin qui. Ma adesso? Che dovrei fare? Presentarmi da lui e dirgli: ‘Ehi ciao, scusa se ti ho snobbato anni fa pur sapendo che avevi bisogno di me, ma eccomi qui, facciamo pace?’. No, non funziona così”
“E perché no? Chi decide che non funziona così?”
La campionessa di Kirkwall non seppe rispondere a quella domanda, l’aveva colta alla sprovvista. Avrebbe dovuto aspettarselo da Isabela.
“Senti, è chiaro che ti senti in colpa. E che essere qui e parlare con lui non ti laverà la coscienza”
Isabela aveva centrato il punto. “ Ma forse potresti fargli quest’ultimo favore. Forse se ne andrebbe più serenamente…”
Hawke ripensò alla lettera che lui gli aveva mandato.
“Non sono sicura che vedermi potrebbe essere un bene per lui… e se gli facesse solo del male?”
“Quindi hai paura? E’ quella a frenarti? Hai paura che ti rinfacci la sua situazione e ti accusi di averlo abbandonato?”
“No… sinceramente so che me lo meriterei. Anzi, mi farebbe persino piacere se lui potesse sfogarsi in questo modo. Ma so che non accadrebbe. Lo conosci… lui...”
Isabela annuì.
“Lui non ti incolpa di nulla. Ritiene di essere l’unico responsabile del suo destino”
“Per questo non posso. Non posso andare da lui solo per… pietà. Non sarebbe giusto. Non posso trattarlo in questo modo, non posso fargli anche questo”
“Lo capisco” la rassicurò la rivainiana.  “Eppure sei venuta qui. Hai sentito il bisogno, dopo tutto questo tempo, di avere un contatto con lui. Tu gli vuoi bene, è chiaro, e proprio per questo vuoi evitargli di rivivere ancora una volta la vostra separazione”
Isabela era una donna all’apparenza frivola. In realtà era molto saggia. Non aveva avuto una vita facile e aveva avuto a che fare con tutti i tipi di persone. Aveva acquisito una certa esperienza e una certa empatia. Era brava a capire gli altri e ad aiutarli a vedere meglio dentro di loro.
La sua conclusione era esattamente quello che Hawke stava provando ma era incapace di esprimere con le parole. Le aveva reso tutto chiaro.
 
Le due donne passeggiarono assieme per un po’. Si raccontarono parte delle proprie vite, a cominciare dal giorno dopo il loro addio. Hawke le disse dove si trovava casa sua, invitandola a venire a trovarla.
“Come mai sei sparita?” le chiese poi.
In fondo vedeva Aveline e Varric abbastanza spesso, ma di Isabela e Merrill aveva perso le tracce. L’elfa era partita con la piratessa, ma poi si erano separate.
La rivainiana in seguito, in uno dei suoi viaggi sulle rive fereldiane, aveva conosciuto un ragazzo giovane e prestante che era stato il suo amante per un po’. Questo ragazzo conosceva Anders molto bene e l’aveva portata da lui quando, per caso, aveva saputo che lei era la stessa Isabela di cui parlava spesso il suo amico. Aveva saputo da Anders che Varric stava bene e che Hawke e Fenris erano da qualche parte ai confini occidentali del Ferelden.
“Sarei voluta venire a trovarti, ma l’ultima volta che sono venuta da Anders, non sapeva esattamente dove abitassi”
Evidentemente Varric alla fine aveva vuotato il sacco, anche se Hawke l’aveva pregato di non dire mai all’eretico dove si trovasse lei. Infatti non si era stupita troppo quando aveva ricevuto quel messaggio. Aveva subito capito chi l’aveva informato. Dopotutto Varric era un gran chiacchierone.
Hawke sorrise a quel pensiero. Si era praticamente catapultata in un viaggio lungo e pericoloso, lasciando la sua famiglia, e ora che era arrivata, se ne sarebbe andata così com’era venuta: silenziosamente e in fretta.
Non le restava che tornare indietro, riabbracciare i suoi figli, riabbracciare Fenris, che, seppur con riluttanza, aveva capito, o almeno aveva accettato ancora una volta le sue scelte.
Aveva sentito la voce di Anders, seriamente provata, ma aveva sentito anche la sua risata. Non aveva avuto il coraggio di affacciarsi per rivedere il suo viso, poiché non aveva avuto il cuore di rischiare di farsi vedere da lui.
“Ti accompagnerò fino all’accampamento Dalish” asserì Isabela quando Hawke espresse il desiderio di un luogo in cui poter riposare un po’, “ma sono attesa altrove. Dovrò andarmene, ma ti prometto che verrò a trovarti presto”
 
Anders rimase solo, a scrutare il vuoto. L’entrata della sua dimora era avvolta dall’oscurità. Ne era appena uscita Isabela ma qualcosa non tornava. Isabela non era una maga, eppure Giustizia nel corso della serata aveva avuto un fremito, aveva avvertito tracce di magia.
Ser Pelosotto si avvicinò al suo padrone, col suo miagolio soave e il pelo arruffato da una mano gentile.
Anders  portò i suoi palmi al volto. Qualcosa scorreva sul suo viso…  Si abbandonò, incapace di non lasciarsi andare ad un pianto disperato. Alcune gocce caddero sul gatto accovacciato sulle sue ginocchia.
Le osservò, poi guardò le sue mani.
Rosso. Rosso sangue.

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Capitolo 17
*** Sadine ***




Com’era possibile? Feron… era ancora vivo?
“Sei stata tu a riportarlo indietro?” chiesi alla maga sconosciuta, “come hai fatto? Che incantesimo hai usato? Lui… non respirava! Lui… se n’era andato!”
Ero agitata, esterrefatta, sconvolta.
Il ventre di Feron si alzava e si abbassava ad  ogni suo respiro, il viso aveva ripreso colore e la sua espressione sembrava serena…
“Io non ho fatto proprio niente”  mi rispose l’eretica. “Nemmeno io ho il potere di riportare indietro dalla morte, sebbene sia molto potente, come hai potuto constatare”
La guardai meglio. Era molto bella anche se non più giovanissima. Sulla trentina, avrei detto.
Di sicuro era anche molto schietta e cosciente delle sue capacità. Probabilmente sarebbe andata d’accordo con mia madre, o molto più probabilmente avrebbero incendiato l’intera foresta di Brecilian nel tentativo di  stabilire chi di loro due fosse più forte.
“Devi essere stata tu a guarirlo” continuò, “evidentemente hai soltanto creduto che fosse morto”
“Ho sentito che può succedere” mi spiegò Gulliack, “il cuore può fermarsi per qualche istante e poi ripartire…”
Possibile che mi fossi sbagliata? Sembrava incredibile eppure non ero mai stata così felice di aver commesso un errore. Non mi interrogai ancora molto sulla faccenda, non mi importava. Quello che contava era che Feron fosse ancora vivo.
“Che cosa è successo?” mi chiese non appena aprì gli occhi.
“Sei solo morto per un po’” riuscii a dirgli con un filo di voce. “Ma adesso sei qui”
Sorrisi.
D’istinto si portò una mano al viso e con l’altra toccò il fianco, laddove prima c’era la ferita.
“Tu… mi hai guarito”
Si alzò lentamente, con l’aiuto di Gulliack.
Scossi la testa.
“Non so nemmeno come abbia fatto. Credevo di non esserci riuscita”
“Dovresti avere più fiducia nelle tua capacità” intervenne Deleric, avvicinandosi a noi.
“Fermo dove sei orlesiano!” gli intimò Feron. “Ci hai traditi!”
Sembrava completamente ristabilito, ma adesso stava già tentando di attaccar briga di nuovo.
Deleric si immobilizzò, più che altro stupito per quella accusa.
Altelha spiegò che invece era stato dalla nostra parte.
“Abbiamo battuto i templari grazie al suo aiuto e a quello di questa signora”
Solo in quel momento Feron si accorse della nuova arrivata.
“Mi chiamo Sadine” si presentò lei. “Sono una veggente e ho ‘visto’ l’arrivo dei templari. Ho promesso il mio aiuto al ragazzo e ho mantenuto la parola. Adesso tocca a voi”
Guardammo tutti Deleric con aria interrogativa.
Intanto il sole stava sorgendo all’orizzonte.
“Ieri notte” cominciò a raccontare l’orlesiano, “non riuscivo a dormire. Avevo troppi pensieri per la testa, l’incontro con Leliana mi aveva scosso e poi…” si interruppe per un attimo, guardandomi con aria triste,  “e poi ho deciso di fare una passeggiata per schiarirmi le idee. Ho camminato per un bel po’. Ho visto una luce, un fuoco, e mi sono avvicinato, per capire chi fosse: nemico o amico. Ho incontrato Sadine che mi ha detto che eravamo in pericolo. A quanto pare ha delle visioni. Mi ha proposto di aiutarci, in cambio vuole venire con noi a Denerim. Mi è sembrato uno scambio equo”
“E tu ti sei fidato?” chiese Feron, sbalordito.
“Sono solo una donna, che avrei potuto fare? Mangiarvi?” si difese la maga con un sorriso. “E’ pur vero che destreggio la magia ad alti livelli, ma anche voi avete una maga potente, vi sareste saputi difendere benissimo”
“Non con uno stuolo di templari armati fino ai denti che ci stava massacrando!”rispose il ladro, palesemente infastidito.
“Non hai visto di cosa è capace. I suoi poteri ci saranno molto utili!” controbatté Deleric, sfidando ancora Feron.
“Resta il fatto che ci hai messi in pericolo!”
“Ingrato!”
“Incosciente!”
 Eravamo alle solite. Feron e Deleric stavano litigando. In un certo senso la cosa mi rassicurava, eravamo di nuovo un gruppo, avevo temuto che in un istante fosse cambiato tutto e invece eravamo di nuovo tutti assieme.
La discussione andò avanti per qualche minuto. Chissà per quanto avrebbero continuato ancora se Sadine non fosse intervenuta.
“Adesso basta!” li sgridò, quasi come fossero due bambini. “Non ha importanza chi abbia ragione o chi abbia torto. L’importante è aver vinto, in un modo o nell’altro. Dovremmo riposarci per qualche ora e poi riprendere a viaggiare”
“E se i templari tornassero?” chiese Altelha, ancora spaventata da quello che era accaduto.
“Non torneranno” rispose sicura la donna. “Te lo assicuro”
“Ma…”
“L’ho visto nella mia visione”
La sua visione era senz’altro un argomento interessante.
Gulliack e Altelha rimasero ad ascoltarne la descrizione quasi incantati.
Feron le stava prestando più attenzione di quello che volesse mostrare mentre io voltavo le spalle e mi incamminavo verso la parte opposta dell’accampamento. Non potevo starmene lì circondata da quei corpi straziati, straziati da me.
Non ero impressionata, conoscevo la morte. Fin da piccola mia madre me l’aveva presentata come parte della vita stessa. Ero stata a caccia, avevo ucciso degli animali, ne avevo visto i cadaveri decomposti in giro per la foresta. Ma non avevo mai ucciso in modo così cruento.
Non avevo mai ucciso un uomo.
Mi ero difesa, certo, mi avrebbero fatto forse di peggio. Ma avevo bisogno di lavare via quel sangue. Quel sangue che mi ricordava cosa stavo per perdere e in che modo avevo reagito. Avrei avuto tempo per conoscere Sadine più avanti, decidere se fidarmi o meno, ma in quel momento volevo svuotare completamente la mia mente.
 
Eravamo accampati vicino a un piccolo ruscello. Continuai a camminare fino a raggiungerlo. Mi inginocchiai sulla sua riva e mi specchiai. Era limpido come il cielo. Io invece non avevo un bell’aspetto, quello che vidi quasi mi spaventò. E l’odore…
Immersi le mani nell’acqua ghiacciata e strofinai con forza. Lavai via il sangue di Feron e i brandelli di carne del suo assalitore. Poi mi portai l’acqua al viso. Tentai di togliere quell’orrore dalla fronte, dai capelli, mentre chiudevo gli occhi e pensavo a Feron, a quante cose avrei voluto dirgli mentre lo stringevo tra le braccia e al perché non riuscissi a dirgliele ora che si era risvegliato…
Sfregai, continuai a sfregare, incurante del bruciore che sentivo sul viso. L’importante era togliere, togliere, togliere… sentii dei passi dietro di me. Mi voltai di scatto, col viso arrossato e gli occhi gonfi.
Deleric si sedette accanto a me. Avrei preferito stare da sola, ma la sua presenza non mi disturbava. Tra le mani aveva un telo di stoffa pulito. Me lo porse.
“Grazie” sussurrai.
Tamponai il viso e i capelli, poi mi sorpresi a inspirare il profumo della stoffa, pulito e confortante.
“Non l’avevi mai fatto, vero?” mi chiese.
Non capii.
“ E’La prima volta che uccidi qualcuno” precisò.
Abbassai lo sguardo, intravedendo ancora una volta la mia immagine riflessa. Andava molto meglio, almeno all’esterno. Dentro mi sentivo un disastro.
“Sì” riuscii a dire soltanto. Era così evidente?
“So quello che stai provando. Non ti consolerà sapere che ti stavi solo difendendo. E non lo dimenticherai mai”
Quello era poco ma sicuro. Non avrei mai dimenticato gli eventi di quel giorno. Non avrei potuto neanche volendo.
Lo guardai, in attesa. Sembrava stesse ricordando qualcosa in particolare, forse la prima volta che era successo a lui. Sapevo che me l’avrebbe raccontato.
“Mi ero arruolato da poco, io e alcuni miei compagni eravamo in una taverna, ci avevano concesso una licenza. Un balordo che aveva bevuto troppo incominciò ad inveire ad alta voce contro la chiesa, contro l’imperatrice. Erano solo le farneticazioni di un ubriaco, io avrei fatto finta di non sentire, ma i miei compagni, fin troppo ligi al dovere, decisero che quel fatto non poteva restare impunito. Presero di peso quel poveraccio e incominciarono a pestarlo davanti a tutti, come niente fosse. Non eravamo in uniforme, ma la gente sapeva chi fossimo, tranne forse quel povero ubriacone. Nessuno osava fermarli, erano cadetti e i cadetti avevano il privilegio di poter massacrare chiunque non fosse di sangue nobile”
Fece un bel respiro, lo sguardo perso all’orizzonte, poi continuò.
“ Ma io non potevo assistere senza fare niente. Cercai, pacificamente, di dirgli che non c’era bisogno di continuare, che quell’uomo aveva imparato la lezione, ma uno di loro, quello più sadico, temuto anche dagli altri, mi intimò di tacere, insultando me e la mia famiglia, dicendo che mia madre era una donna di malaffare e che ci eravamo meritati la disgrazia capitata a mio fratello, mentre continuava a picchiare quel malcapitato. Io stupidamente reagii dandogli una spinta che lo fece cadere a terra. Gli altri si fermarono per assistere alla scena. Gli tesi la mano, in segno di scuse, ma lui sfoderò un pugnale. Schivai qualche affondo, ma ero disarmato. Tentai di difendermi, ricavandone qualche taglio superficiale. Non so come a un certo punto mi ritrovai supino, con lui che stava per avventarsi su di me. Accanto avevo una bottiglia rotta, caduta probabilmente da uno dei tavoli che avevamo rovesciato lottando. L’afferrai e d’istinto colpii il mio aggressore. Il colpo gli fu fatale. Recisi la sua gola con un taglio profondo. Lo guardai morire tra rantoli e convulsioni per interminabili istanti di agonia. Se non l’avessi fatto sarei morto, ma non dimenticherò mai quell’ espressione contorta, l’istante in cui la vita abbandonò quel corpo. Ero stato io a farlo accadere”
Quel racconto mi fece capire quanto peso si portasse sulle spalle, oltre alla situazione difficile con la sua famiglia, aveva vissuto più di quanto avrei mai immaginato. Non era il solito orlesiano viziato, ma questo mi era chiaro già da tempo.
“E gli altri cadetti? Non ti fecero arrestare? Non testimoniarono contro di te?” chiesi, stupita.
“No. Credo che in fondo gli avessi fatto un favore. Lo seguivano perché lo temevano. Nessuno di loro si precipitò ad aiutarlo vedendolo moribondo e tirarono un sospiro di sollievo quando lui esalò l’ultimo. Testimoniarono che mi ero difeso, che avevo agito in modo legittimo. Gli avventori fecero altrettanto. In fondo era la verità, ma il senso di colpa non mi ha mai abbandonato”
Mi sentivo esattamente così, in colpa. Mia madre mi avrebbe deriso. Forse anche io l’avrei fatto un giorno. Ma in quel momento ero convinta che quello che mi aveva detto Deleric era vero, che mi sarei sempre sentita in quel modo.
“Allora come si fa a superarlo?” gli domandai.
“Non si può. Si può solo imparare a conviverci”
Non dissi niente. Il silenzio era molto più esplicativo di qualunque frase potessi pronunciare. Restammo seduti a lungo senza dire una parola, guardando il sole farsi alto nel cielo e alcune nuvole scure fare capolino.
Deleric però all’improvviso interruppe quel silenzio rassicurante.
“Andraste io… quando ci siamo incontrati per la prima volta, ti ho detto che mi rammentavi qualcuno, ricordi?”
“Sì, lo ricordo” risposi evitando di richiedergli chi fosse, visto che non me l’aveva voluto dire la prima volta. Ma volevo saperlo.
“Ti va di ascoltare un’altra storia del mio passato?”
Annuii, sperando che la mia curiosità fosse soddisfatta.
“Cinque anni fa mi trovavo assieme a mia madre e a mio fratello al mercato di Val Royeaux, era un giorno come tanti, eravamo ragazzini. Accompagnavamo mia madre a fare compere. Mio fratello aveva ricevuto in dono un cavallo per il suo compleanno. Era la prima volta che lo cavalcava, ma diceva di volergli molto bene. All’epoca era poco più che un bambino, aveva solo undici anni e io ne avevo quindici. Stavamo ridendo, non ricordo per cosa, eravamo sereni e non ci aspettavamo di certo quello che sarebbe accaduto. Improvvisamente il cavallo si imbizzarrì e scaraventò mio fratello a terra. Purtroppo cadde molto male, battendo la schiena su dei sassi”
Era una scena che stranamente mi sembrava di aver già visto. Nella mia mente si affacciò una sorta di reminiscenza…
“Inizialmente nessuno lo soccorse, la gente di Orlais è famosa per farsi gli affari propri quando c’è da dare una mano e per essere sempre in prima linea quando c’è da spettegolare sugli affari altrui”
Accennò un sorriso sprezzante, scuotendo la testa, ancora disgustato da quell’indifferenza.
“ Mi guardai intorno mentre mia madre implorava aiuto e notai l’unica persona che sembrava preoccupata per quello che era successo. Era una fanciulla, forse della mia età o appena più giovane. Era con una donna, probabilmente sua madre. Aveva mosso qualche passo verso di noi, ma sua madre l’aveva tirata a sé impedendogli di avvicinarsi. Era solo una ragazzina, non avrebbe di certo potuto fare nulla per mio fratello, eppure il suo interessamento fu molto di più di quello che fecero gli altri. La guardai per un lungo istante, finche sua madre non la portò via”
Non potevo credere alle mie orecchie.
Possibile che stesse parlando di me? Quella ragazzina ero io? Suo fratello era quel ragazzo il cui pensiero mi tormentava ancora?
“Dopo un tempo che mi sembrò infinito  si fece avanti un guaritore che sentenziò che non c’era niente da fare, le ferite erano troppo gravi, non erano state prese in tempo. Oltre al danno, la beffa. Sarebbe stato un miracolo se fosse anche solo sopravvissuto. Da quel giorno mio fratello è rimasto paralizzato. Non potevo darmi pace. Non riuscivo a capire perché il cavallo si fosse imbizzarrito. Mia madre lo fece abbattere, ma non era colpa sua, povera bestia, probabilmente qualcosa lo aveva spaventato. Ma c’era anche un altro pensiero che mi ossessionava. Chi era quella fanciulla? Tempo dopo mi recai di nuovo al mercato per cercarla. Domandai a tutti i venditori, ma nessuno sembrava ricordarla. Alla fine un uomo mi disse di ricordarsi di una donna e di una giovinetta che corrispondevano alla descrizione, frequentavano il mercato molto raramente, a suo dire probabilmente perché erano straniere. Diceva di aver sentito parlare la donna con accento fereldiano”
Non potevano essere tutte coincidenze, era incredibile, ma stava proprio parlando di me. Ecco perché avevo avuto la sensazione di averlo già visto da qualche parte quando ci eravamo incontrati.
 “Dunque questo è tutto ciò che so di lei. Della ragazzina sconosciuta che oggi sarà diventata una donna. E così sono partito. So che è sciocco da parte mia credere di poterla ritrovare, non so dove si trovi e probabilmente non vive nemmeno qui, potrebbe trovarsi in Orlais o ancor più probabilmente quell’uomo al mercato si è sbagliato. Eppure essere nel Ferelden mi fa sentire più vicino a lei, al pensiero che forse un giorno la rincontrerò. Io… vorrei dirle grazie per aver mostrato pietà nei confronti di mio fratello… grazie perché nei suoi occhi ho visto il suo animo gentile e questo è stato un pensiero che mi ha dato molta forza, sapere che esistono ancora persone capaci dei sentimenti più puri mi ha aiutato più di quanto si possa credere”
Quanto si sbagliava.
Non ero gentile, non ero pura, ero solo un’egoista come tanti. Avrei potuto aiutare davvero suo fratello, avrei potuto guarirlo se solo mi fossi avvicinata in tempo, ma non l’avevo fatto. E sapevo che era stato meglio per me non averlo fatto, ma quanta sofferenza avevo causato?
Non potevo restare ancora lì ad ascoltare, a sostenere il suo sguardo, mi vergognavo. Poco prima aveva visto il mio lato peggiore, un lato che nemmeno sapevo di avere, mi aveva vista in preda a una spietata furia omicida e non aveva battuto ciglio, mi era stato accanto e mi aveva aiutata a calmarmi. Anche adesso mi aveva consolata, leggendomi dentro, capendo perfettamente il mio stato d’animo.
Non potevo dirgli la verità. Non potevo confessargli che quella ragazzina ero io, che avevo abbandonato suo fratello al suo destino e che adesso mi sentivo meschina e traditrice.
Gi restituii il telo umido.
“Adesso è meglio che vada a stendermi un po’, sono stanca” dissi tutto d’un fiato, mentre mi alzavo.
Mi sentii afferrare il polso.
“Aspetta!”
Deleric aveva un’espressione affranta, come se fosse lui a sentirsi in colpa per qualcosa.
“Andraste, non credevo che avrei mai più visto occhi meravigliosi come quelli della ragazzina di cui ti ho parlato. Ma poi ho visto i tuoi. Sono così simili! Dentro leggo lo stesso… amore”
Mi tirò a sé. Prese il mio viso tra le mani. Poi mi baciò.
 
 
***************************
 
“Ha la febbre alta, ma si riprenderà”
La guardiana Dalish rassicurò l’elfo sulle condizioni della sua regina. Zevran non si era staccato nemmeno per un momento dal suo capezzale, in quella tenda buia. Non si erano mai mossi di lì, l’umana era caduta quasi subito in un sonno profondo, dettato dalla malattia. Il suo accompagnatore vegliava su di lei da ore, senza osare allontanarsi, quindi Lanaya pensò di portargli un pasto caldo.
Lanaya era un’amica, conosceva bene Zevran e conosceva Lavriella. Gli elfi li avevano aiutati a fermare il flagello, ma in cambio loro avevano liberato per sempre la foresta dalla maledizione di Zanne Lucenti.
Da allora i rapporti con i sovrani del Ferelden non si erano mai interrotti e i Dalish, sebbene sempre isolati nella foresta e lontani dall’artificio dell’uomo, erano meno diffidenti verso gli shem-len e in generale verso gli estranei al clan. Lanaya era saggia, aperta, e non fomentava odio e vecchi rancori, piuttosto aiutava a superarli.
Era strano comunque avere degli ospiti, soprattutto umani, ancora più strano era stato ricevere contemporaneamente altre visite inaspettate.
Non era la prima volta che i Dalish avevano a che fare con Isabela, stavolta però si era portata dietro un’altra donna. Garantiva per lei e gli elfi si fidavano della piratessa, la conoscevano e sapevano che era un’amica del mago che si nascondeva nelle rovine, inoltre non aveva mai portato guai nonostante fosse il tipo da attirarne parecchi. Lanaya si augurava che non fosse quella la prima volta, ma guardando negli occhi azzurri della nuova arrivata, potè leggere tutta la sofferenza che vi si nascondeva. Era una donna che aveva bisogno di pace, sollievo dal suo tormento.
Le avrebbe fatto bene stare un po’ di tempo all’accampamento. La foresta sapeva, la foresta sentiva. C’era uno spirito in pena, avrebbe trovato conforto nel rumore del vento tra le foglie, nell’odore della pioggia.
Si preparava un altro temporale.
“Resto con te ancora un po’, dopotutto mi fa bene riposarmi, stanotte l’abbiamo passata in bianco” annunciò Isabela, quando Hawke si sistemò nella sua piccola tenda.
“Ma non avevi fretta di andare via?” le chiese l’amica.
“Vero, ma posso permettermi di tardare un poco”
Hawke sorrise. Era la solita incostante Isabela.
Le due donne non avevano parlato con nessuno tranne che con la guardiana. La piratessa si era limitata a salutare con un sorrisetto malizioso e un cenno della mano un giovane elfo che sembrava avere un debole per lei (almeno a giudicare da come la guardava quelle rare volte che passava di lì), ma che era troppo timido per farsi avanti. Era meglio così, in fondo Isabela non voleva approfittare troppo dell’ospitalità dei Dalish, non fino a quel punto. Aveva promesso ad Anders di comportarsi bene.
Sì addormentò quasi subito accanto a Liraya, che non riuscì comunque a chiudere occhio. Quando il sonno la sopraffece il sole era ormai alto nel cielo e le nuvole si apprestavano a scaricare il loro ingombrante fardello.

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Capitolo 18
*** Temporale ***


Un profumo delicato, fiori di campo sferzati da un vento fresco in contrasto col calore di quelle labbra morbide, umide come rugiada mattutina, dolci come nettare. Lo scrosciare costante dell’acqua; la luce offuscata da un cielo velato da nuvole.
Chiusi gli occhi.
Le sue labbra erano posate sulle mie, in un bacio dolce ma anche intenso.
Pensai alla prima volta che avevo ricevuto un bacio. Era stata Merrill a darmelo, ma le motivazioni erano sicuramente differenti. Si era trattato di un addio, di un saluto fugace, una dimostrazione di amicizia.
Con Deleric sembrava molto diverso. Non so descrivere esattamente cosa provai in quell’istante, il cuore mi batteva all’impazzata, desideravo scappare, andare il più lontano possibile, non sapevo come reagire, cosa fare, nemmeno cosa pensare. Non ero io quella che se ne stava inerme a subire gli eventi, eppure me ne stavo lì pietrificata, aspettando che finisse. Non ero contrariata, ero profondamente turbata.
Dopo attimi che mi parvero interminabili, Deleric si staccò da me. Sentii un brivido, il vento mi investì rimarcando l’interruzione di quel caldo contatto.
Riaprii lentamente gli occhi, non senza timore di incontrare i suoi. Non avrei saputo cosa dirgli, e il silenzio non era una buona alternativa. Evitai di incrociare il suo sguardo e corsi via in direzione dell’accampamento, assalita da un turbinio di emozioni contrastanti.
Potevo dire che quello era stato il mio vero primo bacio.
Ero arrabbiata perché mi era stato rubato, ero stata colta alla sprovvista, ma allo stesso tempo ero eccitata dalla nuova esperienza che avevo appena vissuto. Ero a disagio per quello che avrebbe potuto significare, per come mi sarei dovuta comportare, per quando sarei stata di nuovo da sola con lui e avrei dovuto spiegare le ragioni della mia fuga improvvisa, ma meravigliata per l’ebbrezza che mi aveva procurato.
Era profondamente ingiusto. Mi sentivo violata.  Ma non ne avevo motivo. Avevo avuto interminabili secondi per interromperlo ma non l’avevo fatto. Inoltre non ero esente da colpe, ancora riflettevo su quella rivelazione scioccante.
Aveva pensato a me per quasi cinque anni, era qui perché cercava me e io ero così vigliacca da non dirgli che mia aveva trovata, che quella ragazza ero io e che non ero la figura liliale che aveva immaginato, non avevo il coraggio di infrangere la bella immagine che aveva di me, di infrangere i suoi sogni.
Ma soprattutto mi chiedevo perché mi avesse baciata.
Mia madre avrebbe detto che il ragazzo aveva solo voglia di sfogare i suoi istinti, eppure sentivo che c’era qualcosa di diverso. Deleric non sembrava avere quelle intenzioni. Certo, era un uomo, e come ogni uomo aveva i suoi bisogni, ma sembrava una spiegazione troppo semplicistica, ero convinta che fosse più di quello. Se avesse voluto approfittarsi di me avrebbe potuto farlo, io non avevo opposto la minima resistenza. Rabbrividii a quel pensiero. Cosa sarebbe potuto succedere? La cosa mi inquietava. Se avesse provato di nuovo a baciarmi? Se si fosse spinto anche oltre? Come mi sarei comportata? Avrei reagito?
Mi ponevo molte domande, incapace di darmi una risposta, la qual cosa mi spaventava anche di più, per quanto fosse possibile. Proprio poche ore prima avevo parlato di sesso con Altelha e avevo detto di non avere nessun interesse in merito, eppure in quel momento ci pensavo, pensavo che sarebbe potuto accadere e provavo sgomento non necessariamente correlato al rifiuto dell’idea.
 
Il vento era diventato decisamente più freddo. Ma io sentivo caldo.
Il primo sguardo che incrociai arrivata all’accampamento fu quello di Feron.
“Che fine avevi fatto? Non ti ho vista andare via. Sadine ha raccontato della sua visione, avresti dovuto vedere Gulliack e Altelha, sembravano due bambini a cui stessero raccontando una fiaba!”
Mi sorrise, ma cambiò espressione quando notò il mio turbamento.
“Cos’hai? Sei tutta rossa… non ti senti bene?”
Allungò una mano e la posò sulla mia guancia.
“Sei accaldata…” constatò.
Allontanai repentinamente la sua mano, con uno scatto fin troppo plateale.
“Sto bene!” Esclamai con tono di voce agitato come il mio stato d’animo.
Parve meravigliato dal mio atteggiamento non proprio accomodante, tanto che arrivò a scusarsi.
“Mi dispiace, non volevo infastidirti. In realtà io volevo parlarti…”
Si interruppe, osservando qualcosa alle mie spalle.
Mi voltai e vidi Deleric arrivare dalla stessa direzione da cui ero arrivata io. Avanzava verso di noi.
Spalancai gli occhi, sperando che la presenza di Feron lo facesse desistere dall’avvicinarsi, e mi voltai nuovamente verso il mio interlocutore, il cui atteggiamento mutò.
Non so cosa avesse pensato in quel momento ma fece qualche passo indietro, incapace di staccare gli occhi dall’orlesiano.
“Adesso vado”  disse, prima di andare verso la sua tenda “ho bisogno di dormire”
Mi aveva appena detto di volermi parlare e andava via? Non capivo.
Ero di nuovo sola e volevo evitare di affrontare una qualsiasi discussione con Deleric. Sapevo che prima o poi avrei dovuto parlargli di nuovo, ma non in quel momento, proprio non me la sentivo. Mi recai verso la mia tenda, sperando che chiudendola per bene avrei chiuso per un po’ là fuori anche tutte le mie emozioni, gli eventi che avevano scosso quella notte e quella mattina, irrompendo nella mia vita come un temporale estivo.
 
Alcune ore dopo il cielo era diventato buio, coperto da pesanti nuvole cariche di pioggia.
“Abbiamo finito gli impiastri curativi e le erbe per ottenerli” mi annunciò Altelha, “ma all’accampamento Dalish dovremmo trovare le scorte che ci occorrono”
Annuii.
Dovevamo rimetterci in viaggio, anche se il tempo sembrava stesse diventando avverso, ma non potevamo restare ancora lì, quel posto ormai era diventato asfissiante.
I Dalish non erano lontani, ne avremmo approfittato per trovare riparo in caso di pioggia. A quanto aveva raccontato Altelha, gli elfi erano diventati molto più accomodanti e gentili con gli umani di quanto non fossero prima del Flagello.
Sfruttai quei momenti per scambiare qualche parola con Sadine.
Feron sembrava essersi chiuso in un mutismo ostinato, non aveva più detto una parola da quando si era ritirato nella tenda e ora viaggiava da solo in cima al gruppo, Gulliack e Altelha camminavano mano nella mano e io facevo di tutto per evitare Deleric, che se ne stava da solo, a pochi passi da me e Sadine, gettandomi un’occhiata di tanto in tanto, che io fingevo di non notare.
Sadine mi parlò della sua visione, di come ci avesse visti e fosse curiosa di sapere il perché le fossimo apparsi, poi mi spiegò il vero motivo del suo viaggio.
“Ho una figlia” mi disse, “che non vedo da anni. Purtroppo circostanze avverse ci hanno separate ma io non vedo l’ora di riabbracciarla, la sto cercando… potrebbe essere ovunque ma so che la rivedrò”
“Come fai a esserne certa? L’hai visto in una visione?” chiesi, meravigliata da tanta sicurezza.
“No, il nostro incontro non l’ho ancora visto, ma ho visto qualcosa che mi ha portato a credere che potrò incontrarla presto”
“E cosa sarebbe?”
“Ho visto mia nipote. Se arrivo a lei, rivedrò anche sua madre”
Quello che diceva aveva senso. Certo sembrava abbastanza giovane, ma doveva aver avuto sua figlia in età adolescenziale, e anche per sua figlia doveva essere stato così. Tutto sommato era plausibile, anche mia madre mi aveva avuta presto e in teoria io avrei potuto già avere dei figli, rendendola nonna.
Non le chiesi quei particolari, mi sembravano troppo personali, non eravamo ancora a quel livello di confidenza, ma pensai che eravamo tutti alla ricerca di qualcuno o qualcosa.
Sadine cercava sua figlia, Altelha e Gulliack cercavano la benedizione di Shianni, io cercavo mio padre, Deleric cercava la ragazza del mercato e Feron… Feron chi o cosa stava cercando?
Mi resi conto che non lo sapevo. Aveva svolto la sua missione per Anders, ma poi aveva continuato a viaggiare con noi. Possibile che andasse anche lui a Denerim?
Dovevo togliermi quel dubbio, dovevo chiederglielo. Inoltre volevo capire il perché del suo strano atteggiamento.
Ci fermammo qualche minuto per riposarci e consumare un pasto veloce, così ne approfittai per avvicinarlo.
Mi sedetti accanto a lui, all’ombra di un grosso albero. Inizialmente non sembrò dare peso alla mia presenza, poi però si voltò verso di me. Non potei fare a meno di porgli delle domande.
“Andrai di nuovo da Anders? Il suo alloggio non è lontano” constatai.
Finalmente sentii di nuovo la sua voce, anche se si prese qualche istante per valutare la risposta da darmi.
“Ci ho pensato, ma non credo di essere io la persona che voglia accanto a sé in questo momento. Se Hawke fosse ancora lì?” sorrise, anche se era un sorriso carico di nostalgia e apprensione, “Non vorrei disturbare”.
“Tu pensi che sia andata da lui perché lo ami?” chiesi, titubante.
“No. Lei ama Fenris, mi pare chiaro. Però nel suo cuore c’è posto anche per Anders, sebbene lei abbia voluto negarlo con tutta sé stessa”
“Che strano atteggiamento” osservai, “perché negare di provare dei sentimenti? Fanno parte della natura umana, prima o poi saltano fuori e non c’è modo di arginarli, tanto vale accettarli fin da subito e conviverci giorno per giorno”
Ero brava a parlare. Predicavo bene, razzolavo male. In quel momento una discussione sui sentimenti era proprio l’ultima cosa di cui avevo bisogno e soprattutto l’ultima cosa su cui avevo le idee chiare.
“Scusami, non so quello che dico, non dovrei parlare di cose che non conosco” affermai infine.
“Sei sicura di non conoscere questi sentimenti?” mi chiese guardandomi negli occhi, “sei davvero sicura di non sapere cosa sia l’amore?”
Non riuscivo a comprendere il perché di quella domanda. Cosa voleva sapere esattamente? Ero stata proprio io a chiedergli una volta cosa fosse l’amore, se fosse uguale a quello cantato dai menestrelli, e lui mi aveva risposto di sì e mi aveva abbracciata… senza che io capissi realmente il motivo di quel suo gesto. Sapeva che per me era tutto nuovo, incerto, eppure adesso stava insinuando qualcosa, nella sua voce risuonava un certo rimprovero o forse rammarico. Dovevo vederci chiaro.
“Ma cosa…” sentii dei passi alle mie spalle.
“Andraste…”
Deleric ci aveva raggiunti.
Mi parve di notare sul volto di Feron un’espressione irritata. Si alzò e si allontanò, lasciandoci soli.
 
Sapevo che prima o poi ci saremmo parlati di nuovo, ma non speravo tanto presto.
Deleric rimase in piedi, di fronte a me.
“Scusami, non sono stato un gentiluomo, sono stato impulsivo e ho sbagliato, perdonami” mi implorò.
Non sapevo che dire, non mi aspettavo delle scuse. Voleva dire che non aveva avuto realmente intenzione di baciarmi? Che aveva agito d’istinto? Che per lui quel bacio non aveva significato niente?
Non sapevo se essere delusa o sollevata.
Feci spallucce, fingendo indifferenza.
“Non è successo niente, un bacio non ha nessun significato” sentenziai.
A quel punto si mise in ginocchio.
“Ne ha eccome. Quel bacio per me ha significato tanto. Io… credo di amarti, Andraste. Come il Creatore ama la sua sposa,  il poeta ama la sua musa, il menestrello ama il suo liuto…”
Mi aveva appena paragonata a un liuto?
Scoppiai in una risata. Era la dichiarazione d’amore più strampalata che avessi mai sentito, nonché l’unica rivolta a me. Era venuto fuori l’orlesiano, quello abituato a parole pompose e gesti plateali, ma io non desideravo avere a che fare con quel Deleric, preferivo quello spontaneo, sensibile, vero.
Risi, anche per scaricare la tensione e l’imbarazzo che mi aveva procurato la consapevolezza che lui provasse per me tali sentimenti. Aveva usato la parola amore. Non volevo sminuire la natura del suo affetto, eppure mi sembrava così impossibile, ero sicura che se avesse saputo la verità mi avrebbe odiata, il suo amore non poteva essere sincero, anche se probabilmente pensava che lo fosse.
La sua espressione di certo era cambiata. Mi aveva aperto il suo cuore e io avevo risposto ridendogli in faccia. Abbassò lo sguardo, incerto.
Mi affrettai a scusarmi.
“Perdonami, non avevo intenzione di deriderti, ma io non sono quel tipo di donna che ha bisogno di essere adulata, ti preferisco schietto e impulsivo”
Nei suoi occhi si riaccese la speranza.
Non avevo finito.
“Comunque sono  stupita… Non mi aspettavo una… dichiarazione… io… sono confusa. Stamattina sono scappata via perché… mi hai colta alla sprovvista e… beh… era la prima volta che mi trovavo in una situazione simile”
Decisi di essere completamente onesta, in fondo gli dovevo almeno quello.
“E’ stato il tuo primo bacio?”
Annuii, al limite dell’imbarazzo.
“Ti ho sottratto il primo bacio. Ti chiedo di perdonarmi. Eppure non vorrei che fosse il primo e l’ultimo che tu mi abbia concesso. Vorrei che fossimo più di semplici compagni di viaggio, mi piacerebbe che tra noi ci fosse qualcosa di speciale come per Gulliack e Altelha. Io sono innamorato di te. Tu provi qualcosa per me?”
Ecco che si insinuava di nuovo dentro di me quella tremenda sensazione di disagio, battiti accelerati, viso rosso e fiato corto. Non potevo credere che stesse accadendo proprio a me. Non ebbi il coraggio di dargli una risposta chiara, non sapevo cosa avrei dovuto dirgli.
Lui capì.
“Promettimi solo che ci penserai e che mi darai una risposta. Io aspetterò”
Mormorai un “D’accordo”.
Senza dire un’altra parola si alzò e raggiunse gli altri, piuttosto lontani da noi, nascosti alla vista da una vegetazione incolta.
Inspirai lentamente. La seconda dichiarazione era stata senz’altro migliore e anche più diretta. Di sicuro non mi lasciava indifferente.
Aveva paragonato quello che avrebbe voluto a quello che avevano l’elfa e il nano. Ma loro avevano intenzione di sposarsi…. Eppure non ero sicura che si riferisse a quello, cosa desiderava esattamente? Era innamorato di me… ma di chi era innamorato? Della ragazza che aveva conosciuto nell’ultimo periodo o di quella vista al mercato cinque anni prima?
Pensai che mi facevo troppe inutili domande, che forse avrei dovuto lasciarmi trasportare dagli eventi, godermi il momento piuttosto che continuare a rimuginare.
Avevo proprio bisogno di parlarne con qualcuno, magari con mia madre. Mi avrebbe fatto sicuramente riflettere sull’assurdità dell’amore e sulla necessità di non complicare il tutto con i sentimenti. A suo dire ci si poteva divertire anche senza provarli.
Mia madre mi mancava. Dovevo ammetterlo. Pensare a lei mi fece stare meglio.
Eppure il pensiero di avere un compagno non mi abbandonò.
Rovistai nella mia bisaccia e trovai il prezioso dono che avevo ricevuto all’inizio della mia avventura.
Infilai l’anello di legnosilvano all’anulare sinistro, come facevano le donne fidanzate o sposate. Lo osservai, fantasticando per qualche istante, poi conclusi che era decisamente uno spreco tenerlo nascosto in una bisaccia. Era un vezzo, forse l’unico che avessi, ma mi piaceva tenerlo al dito e lì lo lasciai.
“Che bell’anello che hai!” si complimentò Altelha non appena lo vide.
Ci eravamo appena rimessi in viaggio e io avevo cercato di avvicinarmi di nuovo a Feron, che però mi aveva palesemente ignorata. Camminavo qualche passo dietro di lui, quando Altelha mi aveva raggiunto.
“E’ un regalo?” mi chiese.
“Sì”
“Ma è stupendo, deve valere molto, la persona che te l’ha regalato deve tenere molto a te”
“E’ così” risposi sorridendo.
“E anche tu tieni a lei?”
“Certo” non potei fare a meno di ammettere. Avrei tanto voluto rivedere Merrill.
Feron si fermò in modo che potessimo raggiungerlo, poi mi prese la mano e osservò l’anello, come per sincerarsi del suo valore o della sua stessa esistenza.
“Congratulazioni” disse secco, prima di rimettersi in marcia a passo svelto, senza darmi nemmeno la possibilità di chiedergli a cosa si riferisse.
 
 
Un temporale accompagnò il nostro ingresso all’accampamento Dalish. La guardiana ci accolse un po’ stranita, forse non si aspettava di ricevere visite, dopotutto dovevano essere rare, ma conosceva Altelha e ci diede ospitalità assegnandoci una tenda per le donne e una per gli uomini.
In un certo senso fui sollevata da quella separazione forzata, in quel modo avrei potuto stare lontana da Deleric il più possibile per riflettere in pace, anche se più mi sforzavo di riflettere, più mi rifiutavo. Non volevo pensarci.
Mi accasciai sul giaciglio di foglie secche, stremata, e cercai di vuotare la mente da tutto quello che era successo quella notte e quella mattina, dal pensiero che avrei potuto perdere qualcuno per sempre, dal mio primo omicidio, dal mio primo bacio. Dalla dichiarazione d’amore di Deleric e dallo strano comportamento di Feron, dalla nuova arrivata che aveva il dono della preveggenza. Chiusi gli occhi, considerandomi al sicuro. Mi addormentai.

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Capitolo 19
*** Incrocio ***


I miei incubi furono interrotti poche ore dopo da alcune risatine. Non pioveva più, non sentivo più il rumore dell’acqua infrangersi sui teli scuri. Mi guardai attorno. Altelha e Sadine stavano ancora dormendo, ma da fuori proveniva una voce conosciuta.
Feron stava parlando con una donna, forse un’elfa? A giudicare da quello che diceva era un’elfa piuttosto disinvolta per essere una Dalish.
“L’ultima volta che ci siamo visti non indossavi tutti questi vestiti” aveva detto la voce femminile.
“Tu invece non ti disturbasti nemmeno a togliere i tuoi” aveva replicato il ladro.
Mi sistemai in fretta i capelli con le dita e mi sciacquai la faccia nel catino che ci avevano messo a disposizione, poi aprii la tenda e andai fuori per vedere di chi si trattava.
“Andraste! Siediti accanto a noi!” si affrettò a dire Feron quando mi vide apparire. “Voglio presentarti una persona speciale”
Il mio sguardo si rivolse alla donna. Non era un’elfa, era un’umana. Non era giovanissima ma di sicuro molto attraente e procace. Aveva labbra carnose, seni prosperosi, gambe ben tornite. E non faceva mistero dei suoi doni, mostrandoli con abiti succinti e fascianti.
“Lei è la mia amica Isabela, ci siamo conosciuti anni fa, per un certo periodo siamo stati…” si interruppe, quasi incerto se continuare o meno.
“Avanti” intervenne lei, “dillo pure, non me ne vergogno mica, ce la siamo spassata assieme, sotto e sopra coperta!”
“La mia bella piratessa non rimpiange di aver perso tempo con un giovane ladro sbarbatello?” la stuzzicò lui.
“Come potrei? Sei stato il mio allievo migliore… poi però ho dovuto farti andare per la tua strada”
Rise sguaiatamente, mentre Feron esprimeva sarcastico il suo disappunto.
“Ma come? Io ti amavo, hai spezzato il mio cuore, non te ne ricordi più? Era solo sesso per te?”
La naturalezza con cui usavano parole come sesso e amore mi stupì. Non mi aspettavo che Feron prendesse quelle cose così alla leggera. Questa Isabela di sicuro sapeva come far divertire un uomo, ma Feron non mi era mai sembrato il tipo da prestarsi a simili giochetti.
Ma dopo tutto cosa ne volevo sapere io? Sapevo solo che l’idea mi infastidiva.
“Ammettilo, il tuo amore per me non avrebbe mai potuto sostituire quello per Anders” insinuò lei.
Feron si fece immediatamente serio.
“Come sta?” le chiese, sicuro che fosse stata a trovarlo.
“Molto male. Non credo che sopravvivrà a lungo”
Ne approfittai per intrufolarmi nel discorso, sedendomi accanto a loro.
“Anche tu conosci Anders?” chiesi ingenuamente alla donna.
“Scherzi?” si intromise Feron, “non hai mai sentito parlare di Isabela, il terrore dei mari conosciuti? A Kirkwall è una leggenda. Per colpa sua l’Arishock ha distrutto mezza città e ucciso centinaia di persone!”
“Ehi! Per merito mio Hawke è diventata campionessa!” esclamò lei.
“Cosa che non le è servita a molto quando Meredith ha invocato l’annullamento del circolo”
“Beh quello è un merito che non va attribuito a me, e tu lo sai bene”
Non capivo se stessero litigando o stessero scherzando. Il sorrisetto di lei mi fece propendere per la seconda opzione.
Poi, d’improvviso, l’espressione della donna mutò.
“Ma quell’anello… io lo conosco! Dove l’hai preso?” mi chiese con espressione sbalordita, osservando la mia mano.
Feron mi anticipò.
“Gliel’ha donato il suo fidanzato. Un orlesiano, sai, gusti sfarzosi...”
Eh? Fidanzato? Ma chi…? Feron era convinto che fosse stato Deleric a darmelo?
“Ma che stai dicendo? Non ho nessun fidanzato!” affermai quasi arrabbiata per quella supposizione.
“Ma se l’ho visto inginocchiarsi davanti a te. E ora hai un anello al dito”
Aveva tratto la sua conclusione. Dunque ci aveva visti?
“Beh ti sbagli, non me l’ha regalato lui” mi affrettai a dire, sorvolando sul perché si fosse inginocchiato, “questo me l’ha regalato una mia cara amica”
“Per caso il suo nome è Merrill?” Hawke era uscita dalla tenda e ci aveva raggiunti appena in tempo per sentir nominare la sua vecchia amica.
Non sembrò stupita di rivederci, non quanto noi di vedere lei almeno, mentre ero sicura che Feron avrebbe voluto farle mille domande.
“Ci conosciamo già” spiegò poi seraficamente a Isabela, che indicò Feron facendo l’occhiolino alla sua amica.
“Davvero? Dunque conosci anche il giovanotto aitante di cui ti ho parlato?”
Poi a sua volta mi pose di nuovo la stessa domanda.
“Te l’ha regalato Merrill?”
“Sì” risposi stupita. La conoscevano? “Come fate a saperlo?”
Mi spiegarono del loro rapporto con Merrill. Lei e Hawke non erano andate sempre d’accordo ma Isabela aveva saputo mediare tra le due parti e alla fine si era creato un’amicizia indissolubile.
“Mi ha detto che era la cosa più preziosa che possedesse” raccontai loro. “Che gliel’aveva donato una persona per lei molto importate”
Riportai  il mio vissuto con Merrill, descrivendo il legame che si era creato e la felicità che aveva negli occhi quando stava tra le braccia di Connor.
“Io l’ho aiutata a realizzare il suo sogno e lei ha voluto ripagarmi in qualche modo. Se avessi saputo che per lei era così importante, avrei rifiutato”
“Se ha voluto darlo a te vuol dire che per lei sei importante, non sminuire il vostro rapporto” disse infine Hawke. “E poi a lei andava largo” sdrammatizzò, sorridendo.
“E così la gattina ha trovato l’amore, eh? Chi l’avrebbe mai detto!” commentò Isabela.
“Bene, mi piacerebbe restare qui ma devo proprio andare, mi sono trattenuta più del dovuto. Ma posso rimanere ancora un po’,se hai voglia di rivangare i vecchi tempi lontano da occhi indiscreti…” disse poi rivolgendosi a Feron.
Lui scosse la testa. “E’ una offerta invitante mia gentile signora, ma mi vedo costretto a rifiutare”
“Lo sospettavo”
Si alzò nell’istante in cui io tirai un sospiro di sollievo. Certo era bella, e anche sfacciata. Non si era fatta troppi problemi a proporre a Feron un rapporto sessuale, era evidente che certi argomenti non la mettevano a disagio. Forse sarebbe stata il tipo di donna che mia madre avrebbe apprezzato, fuori dagli schemi, dalle convenzioni, che faceva sesso per divertimento e non per amore come tutti si sforzavano di ostentare.
Ma il pensiero che l’avesse fatto proprio con Feron mi disturbava. Avevo sentito una fitta allo stomaco quando lei gliel’aveva riproposto e avevo ricominciato a respirare quando lui aveva rifiutato.
Isabela mi salutò e mi abbracciò sussurrandomi un “Prenditi cura di lui”.
Rimasi alquanto perplessa, che aveva voluto dire?
La piratessa poi salutò la sua amica, dicendole che le sarebbe mancata ma che sarebbe andata a trovarla presto, scherzando persino su quanta voglia avesse di rivedere l’ elfo sexy che viveva con lei.
  Quando Isabela fu andata via anche Liraya Hawke espresse il desiderio di ritirarsi, ma Feron la trattenne. A quel punto mi sentii di troppo e mi allontanai, lasciandoli parlare in pace del loro amico comune.
 
Era passato del tempo. Sadine era rimasta nella tenda, sembrava amare starsene per conto proprio, non la biasimavo di certo. Gulliack e Deleric si occupavano di contrattare col mercante per acquistare gli impiastri e il cibo, mentre Altelha raccontava una fiaba ad alcuni bambini. Avevano tutti qualcosa da fare. In un certo senso ero lieta di avere del tempo solo per me stessa.
Ne approfittai per fare un giro nell’accampamento. Non ero mai stata tra i Dalish prima di allora, per me era tutto nuovo, interessante, da scoprire. Ebbi modo di parlare con un elfo armato di arco e frecce, che mi spiegò il valore che veniva attribuito alla caccia come rito di passaggio per l’età adulta. Un altro invece mi istruì su quanto speciale fosse il legame con la foresta e le sue creature, in particolare con gli halla, bestie che non avevo mai visto prima. Erano fiere, eleganti, pure.
Provai l’impulso di tramutarmi in una di loro e correre libera per la foresta, inseguendo il suo richiamo. Non sapevo dove mi avrebbe portata ma desideravo abbandonarmi a quella pace, quella tranquillità che mi trasmetteva. Ero nata in una grotta in mezzo al nulla, lì ero cresciuta. Mi sembrava quasi di essere tornata a casa.
Vidi un’elfa che trasportava un vassoio dal contenuto fumante. A giudicare dall’odore, probabilmente radici bollite e spezie. Non sapevo se fosse un pasto o un unguento curativo, ma la vidi entrare in una grossa tenda situata al lato dell’accampamento opposto a quello in cui era il nostro alloggio.
Istintivamente mi avvicinai a quella tenda e attesi che l’elfa ne uscisse. Non appena mi vide, prese a giustificarsi, quasi mortificata.
 “Ci sono così tanti visitatori oggi, non siamo abituati a riceverne, spero che la nostra ospitalità sia stata adeguata. Vi occorre forse qualcos’altro?”
“Abbiamo tutto ciò che occorre, non preoccupatevi, non ve n’è motivo” la tranquillizzai, poi la mia attenzione si rivolse di nuovo alla grossa tenda.
“Chi alloggia qui?” le chiesi, curiosa.
“E’ un’ospite particolare, al momento non gode di buona salute e non può abbandonare il giaciglio, ma di sicuro non è una persona qualunque, non per gli she- ehm, gli umani, almeno. Anche per noi Dalish è una persona importante, seppur per motivi diversi”
La mia curiosità si fece più viva.
“Qualcuno di importante? E di chi si tratta?” chiesi con più insistenza.
“Io…non so se ve lo posso dire…beh, nessuno mi ha esplicitamente vietato di farlo dopotutto… ma sì, che c’è di male in fondo. Dovete sapere che in questa tenda alloggia Lady Cousland, l’eroina del Ferelden, nonché regina…” disse, quasi con tono reverenziale.
Rimasi basita. Non potevo crederci. La regina era lì? A un palmo dal mio naso? Se lei era lì forse c’era anche…
“E non è venuta sola…” continuò l’elfa, alimentando il mio sospetto.
Ebbi un tuffo al cuore. Possibile che la mia ricerca fosse finita? Mio padre era lì? A pochi passi da me? L’uomo che sognavo di incontrare da quando ero bambina era proprio lì? Era giunto il momento che aspettavo da sempre?
Sentii le mie gambe tremare. Ero sicura che avrebbero ceduto se l’elfa non avesse continuato a parlare.
“E’ venuta qui accompagnata  dal suo amico, quell’elfo biondo, Zevran mi pare”
Avevo sentito parlare di Zevran da mia madre. Un tipo simpatico, pareva. Ma in quel momento non era mia priorità incontrarlo.
Mio padre non c’era. Nonostante ciò non mi ero ripresa del tutto, avevo ancora voglia di scappare lontano, sebbene fosse proprio quello il mio scopo, trovare il re del Ferelden. La regina avrebbe potuto portarmi da lui, eppure non potevo presentarmi come nulla fosse, non avevo il coraggio di confrontarmi con lei in quel momento. Che le avrei potuto dire? ‘Sono la figlia bastarda di vostro marito’?
Sapevo che era una brava persona. Persino mia madre la stimava, la considerava la sua unica amica.
Ma dubitavo che mi avrebbe accolta a braccia aperte.
Dovevo andarmene, stare il più lontano possibile da lei, scappare, e in fretta.
“Ora però ha la febbre alta. Il suo amico dice che hanno mangiato strani funghi. La guardiana afferma che è una semplice febbre, ma secondo me c’è dell’altro…”
“Si rimetterà” intervenne Lanaya, interrompendo lo scorrere fluente delle parole di quell’elfa chiacchierona.
La guardiana ci aveva viste parlare e aveva pensato di intervenire per rassicurarmi sulla sorte della regina.
“Le basterà un po’ di riposo” continuò. “Puoi andare Calaeris” disse poi congedando la sua sottoposta.
Avrei voluto congedarmi anch’io, invece Lanaya mi trattenne.
“Volete incontrare la regina?”
Espressi diniego scuotendo la testa.
“Eppure credevo foste qui per questo”
Perché lo pensava?
“Io… vi ringrazio per l’ospitalità, ma ora dovremmo andare” mi affrettai a dire. Volevo lasciare quel luogo il prima possibile.
“Capisco. In tal caso, vi auguro di fare buon viaggio”
Mi allontanai da quella tenda, quell’insieme di teli il cui contenuto mi aveva resa pavida e timorosa, e raggiunsi i miei amici. Sembravano tutti pronti a partire, per fortuna. Hawke stava salutando Feron e Altelha, io mi accodai ai saluti e la vidi sparire dietro la sua tenda. Poco dopo ci raggiunsero anche Gulliack e Deleric. Sadine ancora non si vedeva.
“Dobbiamo andarcene” annunciai, decisa.
Nessuno protestò, sembravano avere tutti fretta di andare via per un motivo o per un altro.
Finalmente Sadine abbandonò la tenda, anche lei già pronta.
Ringraziammo la guardiana per l’ospitalità e riprendemmo il nostro cammino.
Era rimasta qualche ora di luce, presto ci saremmo dovuti accampare di nuovo, ma non aveva importanza, avevamo abbastanza scorte, ci eravamo riposati e rifocillati, non avevamo motivo di attendere oltre.
 
 
Non appena ne ebbi occasione, cercai di restare sola con Feron.
Mi aspettavo che volesse rivedere di nuovo il suo amico, così gli chiesi se ne avesse l’intenzione.
“Sono sicuro che non vuole che io lo veda nello stato in cui è ridotto adesso” mi aveva risposto.
Aveva gli occhi lucidi, lo capivo. Non l’avrebbe più rivisto, preferiva ricordarlo cosciente, forte, non consumato dal quel male.
Eravamo seduti davanti al fuoco.
Deleric mi aveva stranamente evitata per tutto il tempo, forse non voleva mettermi pressione, mi aveva promesso che avrebbe aspettato e lo stava facendo. Si era allontanato subito dopo aver cenato. Gli ero sinceramente grata.
Avevo visto Gulliack e Altelha andare a dormire assieme. Magari lei era riuscita a convincerlo a non aspettare oltre per consumare il loro rapporto.
Sadine si era ritirata molto presto. La sua tenda non era proprio vicina alle nostre, amava starsene per i fatti suoi.
Mi era sembrato il momento giusto per potermi avvicinare al mio compagno di viaggio, al mio amico Feron.
 
“Ero sinceramente innamorato di Isabela, così come lo ero di Anders” mi raccontò.
“Anders? Ma lui è…”
“Un uomo?”
“Non fraintendermi, non mi disturba la cosa, solo che non me l’aspettavo…” mi giustificai, seppur colta alla sprovvista.
“E’ comprensibile, la cosa sorprese anche me. Credo che fosse più un sentimento dovuto alla riconoscenza. Non c’è stato mai niente di fisico, solo amore spirituale. Mi sentivo devoto a lui, per quello che aveva fatto per me, per quello che era stato in grado di fare, per il coraggio che aveva avuto nel prendere decisioni difficili e conviverci per il resto della vita. Lo ammiravo  e forse ho confuso quei sentimenti con l’amore. Ero giovane… e mi struggevo per qualcosa che non capivo. Poi incontrai Isabela”
Accennò un sorriso malinconico.
“Per lei ho provato tutto. Passione, smania, desiderio. Amore spirituale, amore fisico. Mi concedevo totalmente a lei e lei si concedeva totalmente a me. Sapevo che per lei era solo sesso eppure mi sentivo fortunato, una donna così affascinante aveva scelto proprio me come compagno di letto e questo mi bastava. Sono stati mesi intensi, pieni, poi però le nostre strade si sono separate. Lei si era resa conto che per me era diventato qualcosa di più e ha voluto troncare”
Allungò le mani verso la fiamma, scaldandone i palmi. Stette in silenzio ancora qualche istante, poi continuò.
“Ci ho sofferto ma l’ho ringraziata. Con lei ho avuto una vita avventurosa, ho imparato molto, ma non è quella la vita che voglio. Sono stanco di dover ricorrere a mezzucci non sempre leciti per sopravvivere. E’ stato bello divertirsi, lo ammetto, ma adesso voglio una vita stabile, voglio una donna che mi ami davvero. Una casa in cui ritornare dopo essermi spaccato la schiena nei campi, un focolare acceso e un sorriso che mi aspetti la sera. Sono un abile ladro, ma sono anche un uomo…un uomo con dei sogni” abbassò lo sguardo, poi gettò un ramo sul fuoco, per ravvivarlo.
Provai una sorta di empatia inspiegabile. Lo capivo, ero anche io così, ero fuggita da una vita di solitudine, volevo anch’io avere qualcuno, avere una famiglia, avere un uomo.
“Posso chiederti perché mi abbracciasti quella sera? Te ne ricordi?” chiesi senza rifletterci troppo.
Sorrise.
“Certo che lo ricordo. Quella volta…mi rammentasti me stesso. Il me stesso di qualche anno fa. Quando ancora pensavo fosse tutto bianco o tutto nero. Ma tu al contrario di me impari in fretta, non hai paura di sbagliare e riesci a cogliere le sfumature, se ti vengono mostrate. C’è tanta ingenuità in te, inesperienza, eppure sei una ragazza, una donna anzi, forte,  intelligente, caparbia, ma conservi un velo di innocenza. Sei priva di malizia, sei sincera, dici tutto quello che ti passa per la testa senza farti problemi. Sei… sorprendente”
No, decisamente non stava descrivendo me. Non mi rispecchiavo nelle sue parole. L’innocenza non era una qualità che mi distingueva… non sapeva quanto male avessi fatto.
“Ho ucciso un uomo” confessai, di getto. “E ho causato molta sofferenza a un altro”.
“E allora? ”
Mi spiazzò. Pensavo sarebbe rimasto scioccato, invece non lo sembrava affatto.
“Non sono innocente come credi… non hai visto di cosa sia capace. Quello che ho fatto stamattina…io…”
Mi impedì di continuare.
“Grazie” mi disse prendendomi la mano.
La sua era così calda…
“Non lo avevo ancora fatto” proseguì. “Non ti avevo ancora ringraziata. Grazie per avermi salvato la vita. Per avermi riportato indietro. Ho creduto davvero che sarei morto, ma tu ancora una volta non mi hai abbandonato”
“Io non…”
‘Non me lo merito’ avrei voluto dirgli. Eppure non me la sentii di interrompere quel momento, la sua presa gentile, la mia immagine riflessa in quelle iridi smeraldo… Se ero egoista come credevo, dovevo anche approfittare di quegli attimi in cui mi sentivo veramente bene, e quello era uno di quegli attimi che avrei desiderato durassero a lungo.
Quindi rimasi in silenzio, perdendomi nei suoi occhi.
Fu lui a interrompere l’idillio.
“Ora è meglio che vada a dormire” disse alzandosi. “ A domani” mi salutò.
Una folata di vento mi investì facendomi rabbrividire nonostante il fuoco acceso.
Da non molto lontano, qualcuno ci aveva spiati.
 
 
 

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Capitolo 20
*** Giusto ***


Ancora quegli incubi. Un enorme drago, orde di prole oscura. Invocavano il suo nome. Una sensazione di angoscia ed esaltazione al contempo. Le Vie Profonde lo stavano chiamando. Poi all’improvviso lo scenario cambiava, diventava tutto confuso, annebbiato, i Prole Oscura si trasformavano in demoni. Era l’Oblio quello e il suo amico nonché nemico non era in grado di aiutarlo. Una parte di lui si sentiva a casa, l’altra avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto per non provare più quella sensazione di vuoto.
Aprì gli occhi, con la speranza di scacciare quelle immagini dalla sua mente, ma non ci riuscì, erano immagini troppo vivide, reali. La fine stava arrivando.
Era passato un altro giorno e Anders peggiorava sempre più. Ogni tanto le epistassi gli davano un po’ di tregua, ma poi ricominciavano più copiose di prima.
Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato presto, sapeva che sarebbe morto da solo, sapeva che era ciò che si meritava. Era diventato un custode grigio solo per sfuggire al circolo e poi era diventato un terrorista per lo stesso motivo. Si chiese come sarebbe stata invece la sua vita se fosse rimasto al sicuro, nella torre. Che pensiero sciocco. Al sicuro? Aveva tentato in tutti i modi di fuggire dal circolo e aveva perorato la sua causa fino a quel momento, e in punto di morte stava forse rinnegando tutto quello che aveva fatto?
E poi se fosse rimasto al circolo la sua vita sarebbe stata ben più vuota. Non si sarebbe mai innamorato, non per davvero. Non l’avrebbe mai conosciuta.
Ecco che ricominciava a scorrere.
Si portò un fazzoletto al viso e trattenne il fiato. Guardò la stoffa. Candida. Era stata solo un’impressione.
Purtroppo anche gli incantesimi di guarigione stavano perdendo la loro efficacia, ormai non funzionavano più. I suoi poteri lo stavano abbandonando, così come la sua linfa vitale. Aveva a malapena la forza di accendere un fuocherello, per questo faceva in modo che la fiamma non si spegnesse mai, tenendo le torce sempre accese. Era rimasto un solo ramo. Avrebbe voluto cercarne altri, ma non era riuscito a muovere un passo verso la foresta, se ne stava lì, seduto a terra, aspettando il buio.
Poi, all’improvviso, un rumore. Una presenza. La figura si nascondeva nell’ombra. Ma Anders aveva capito immediatamente di chi si trattasse.
“Sapevo che ti avrei rivisto” affermò con il suo ultimo sorriso beffardo, “il destino è crudele. Ma forse non è ancora troppo tardi per dirti quello che penso…”
 
Aveva viaggiato in fretta. Non aveva quasi riposato. Doveva raggiungerla. Ma per quale motivo? Cosa voleva fare? Fermarla? Impedirle di vederlo? Ucciderlo prima che lei potesse essere solo sfiorata da quelle mani sudice, abbagliata da quel sorriso ipocrita, abbindolata da quell’impostore? No. Hawke non era stupida. Non sarebbe caduta nei suoi tranelli. Inoltre aveva già fatto la sua scelta diversi anni prima.
Sapeva che non l’avrebbe mai lasciato, eppure quello stupido sentimento di gelosia misto a disprezzo per quel mago che li aveva traditi tutti, lo portava a fare i pensieri più squallidi e Hawke non se lo meritava.
Allora perché era lì?
Dopo tutti quegli anni sentiva che quella storia non era chiusa. Forse non era lì per Hawke, era lì per sé stesso. Aveva bisogno di fare chiarezza, di capire fin dove il suo odio l’avrebbe spinto.
Fenris aveva trovato il suo rifugio.  Non era stato facile, per una volta Varric aveva tenuto la bocca chiusa, almeno con lui, anche se sapeva che Liraya era a conoscenza di dove fosse, non era tanto ingenuo.
Spesso si svegliava di soprassalto con la paura che lei fosse fuggita durante la notte per andare da lui. Era un pensiero sciocco eppure riusciva a turbargli il sonno. In quei casi gli bastava aprire gli occhi e vederla dormire accanto a lui, allora si rasserenava e si rendeva conto che lei non sarebbe mai stata capace di fargli questo. L’amava. Si amavano. Lo sapeva bene e aveva smesso di chiedersi da tempo il perché. Non perché lui amasse lei, ma perché lei avesse scelto lui. Non credeva di meritare tanto, eppure Hawke era stata capace di cambiarlo, di mitigare l’odio che gli avevano insegnato a provare, di credere finalmente di meritare qualcosa di bello, la cosa più bella che potesse immaginare. L’amore, una famiglia, una casa. Bethany. Carver. Hawke.
 
Aveva sentito la giovane elfa che era venuta con lo strano gruppo, parlare della foresta di Brecilian, venivano da lì, dunque Anders doveva essere da quelle parti.
Qualche ora prima aveva incontrato una Dalish alle porte della foresta. Le aveva detto apertamente che cercava l’eretico fuggitivo. All’inizio l’elfa era stata titubante, ma poi lui le aveva raccontato che era uno dei suoi compagni di Kirkwall e che era anche lui in fuga assieme ad Hawke e agli altri.
Sperò che gli credesse, e infatti fu così. Probabilmente l’elfa pensò che nessuno avrebbe rischiato di spacciarsi per un fuorilegge e poi la solidarietà elfica aveva fatto il resto. Evidentemente per lei un umano, per quanto ben accetto, era sempre meno importante di un elfo.
Gli aveva indicato dove andare e lui l’aveva trovato.
Era quasi buio. Un palazzo in rovina. In un certo senso gli si addiceva. Anders in fondo un tempo doveva essere stato una roccia, prima che crollasse sotto il peso di Giustizia. Non l’aveva mai ammesso ad alta voce ma aveva ammirato il suo coraggio, la sua storia prima di fare lo sbaglio più grande della sua vita. Aveva anche lui deciso di fuggire da un destino già segnato, fatto di prigionia, schiavismo. Non poteva biasimare di certo il circolo per aver tentato di tenere rinchiuso un soggetto come quello visto ciò che era stato capace di fare, ma adesso capiva, dopo aver conosciuto Hawke, dopo averla amata, che la magia non è sempre qualcosa che ti rovina la vita. Sorrise a quel pensiero. Aveva anche una figlia maga. Chi l’avrebbe mai detto. In fondo la magia era anche nel suo sangue… sua sorella stessa era una maga.
Aveva ripensato più volte a lei. L’aveva uccisa con le sue mani. Non se ne pentiva, ma doveva farci i conti tutti i giorni. A volte era facile distogliere il pensiero, altre volte invece trovava conforto solo tra le braccia di Hakwe. Non doveva dirle niente, a lei bastava guardarlo per capire cosa gli stesse passando per la testa e dopo tutti quegli anni aveva ancora la pazienza di avvicinarsi, accarezzarlo e farlo sentire al sicuro.
Quanto l’amava. E quanto era fortunato. Anders non lo era stato altrettanto.
 
 I passi riecheggiarono nell’oscurità.  La sua voce li accompagnò.
“Sapevo che ti avrei rivisto”
Fenris fece il suo ingresso nella stanza. In mano aveva dei rami raccolti nella foresta. Li gettò nel fuoco, senza dire una parola. Quando la stanza fu più illuminata, potè vedere bene in viso Anders. Ebbe quasi un sussulto nel vederlo in quello stato. Il volto era scavato, consumato dallo spirito che lo possedeva forse, gli occhi arrossati, ridotti a piccole fessure cerchiate di nero. Eppure sorrideva.
“Il destino è crudele, ma forse non è troppo tardi per dirti quello che penso…”
Fenris lo interruppe con una smorfia di disgusto, distogliendo gli occhi da ciò che rimaneva di lui.
“Quello che pensa un abominio non è affar mio”
“Però sei venuto qui”
“Non sono venuto per te” affermò sprezzante l’elfo.
“Lo so. Ma lei è già andata via. Allora perché sei ancora qui?”
Hawke era già andata via. Dunque si erano visti? Cosa si erano detti? Cosa era successo?
Non avrebbe voluto farsi tentare dalla gelosia in quel momento. Dubitava fortemente che tra i due fosse accaduto qualcosa, eppure una sorta di fitta allo stomaco non potè impedirgli di farsi quelle domande.
Non dovette umiliare sé stesso e Hawke ponendole. Anders lo anticipò, con quella sorta di arroganza che gli era sempre appartenuta.
“Non hai nulla da temere, non ci siamo nemmeno incontrati. E’ venuta qui, ma non ha mai varcato quella soglia”
Nelle sue parole c’era un misto tra rammarico e gioia. Era talmente difficile indovinare cosa stava provando in quel momento che Fenris non ebbe la forza di rinfacciargli che sapeva benissimo quanto Hawke lo amasse e che di sicuro non l’avrebbe mai tradito.
“Non ti ho chiesto niente” disse solo.
“Lo so. Ma non mi hai nemmeno risposto”
Il silenzio che seguì sembrò più lungo di quanto non fosse in realtà.

******************************************************
 
Quando riaprì gli occhi le sue pupille non riuscirono a catturare nessuna immagine. Era completamente buio, ma ben presto si abituò a quell’oscurità. C’era una presenza accanto a lei, non si era sentita sola nemmeno per un attimo. Allungò una mano e accarezzò quei lunghi capelli biondi, così soffici, così familiari. Ne sentiva il profumo. Fieno, misto a erba e terra. Era un odore pungente, ma non fastidioso. Era un odore che conosceva bene e in cui si rifugiava quando il suo cuore era attanagliato da troppi pensieri. Bastava un abbraccio, quell’odore l’avvolgeva e lei si sentiva immediatamente meglio. Anche adesso si sentiva meglio, la febbre doveva essere calata.
Zevran stava dormendo al suo capezzale.
Giocherellò ancora un po’ con quei capelli dorati, poi tentò di alzarsi senza fare rumore, per non svegliarlo. Era brava a muoversi furtivamente, ma non avrebbe potuto ingannare i sensi dell’elfo.
“Come ti senti?” bisbigliò lui ancora assonnato, senza abbandonare la sua posizione.
“Sto bene” rispose Lavriella, “ma ho decisamente bisogno di fare un bagno”
“Indubbiamente puzzi” sentenziò lui.
Una smorfia di disappunto apparve sul volto della regina e Zevran non potè fare a meno di levare il capo dalle coperte per guardarla. La sua Lavriella era decisamente tornata. L’aveva fatto preoccupare, ma adesso sembrava completamente guarita, tanto da avere la forza di lanciargli un guanciale in faccia per la sua battuta poco gradita.
“Non c’è bisogno di sottolinearlo!” disse stizzita, mentre si rialzava, non senza difficoltà. In effetti le girava ancora un po’ la testa, tanto che Zevran dovette sorreggerla finchè non dichiarò di potercela fare da sola.
 
Due giorni dopo Lavriella si era completamente ripresa. Adesso se ne andava tranquillamente a spasso per l’accampamento e raccoglieva scorte per ripartire prima possibile.
Fu mentre raccoglieva delle radici che incontrò Hawke.
Entrambe sapevano bene chi fosse l’altra. La fama di Hawke era giunta fino a Denerim in diverse occasioni. Alistair l’aveva persino incontrata a Kirkwall, descrivendone poi l’aspetto fiero ed elegante e l’arguzia e l’intelligenza. Lavriella aveva persino provato un’effimera fitta di gelosia sentendo parlare in quel modo di lei da suo marito. La ragazzina di Lothering era diventata una celebrità nei Liberi Confini… per poi diventare una ricercata. Si vociferava che fosse tornata nel Ferelden, ma non credeva di certo di ritrovarsela di fronte. Comunque lei non aveva nessun interesse nell’imprigionarla, sapeva bene che certe volte si doveva giocare sporco per uno scopo superiore. Di certo non approvava la distruzione della chiesa e la morte di tante persone innocenti, ma era consapevole che non era stata colpa di Hawke e che gli eventi l’avevano semplicemente travolta costringendola a fare una scelta. Aveva scelto di difendere i più deboli. Non poteva biasimarla. Lei stessa aveva cercato di impedire l’annullamento del circolo del Ferelden, non sarebbe stata tanto ipocrita da incolpare qualcun altro di aver agito allo stesso modo.
Hawke conosceva il volto della regina, sebbene avesse incontrato di persona solo il re. Il ritratto dell’eroina del Ferelden era giunto anche a Kirkwall, tutti erano a conoscenza delle sue gesta, chiunque l’ammirava e le era riconoscente per aver ucciso l’arcidemone. Non aveva paura che potesse rivelarsi una nemica, nessuno meglio di lei poteva capire quanto costasse prendere delle decisioni difficili a discapito di altri.
C’era una sorta di empatia tra loro.
In un certo senso le loro vite si erano sfiorate, incrociandosi da lontano tramite eventi e persone in comune. Solo che si erano concluse in modo differente. Lavriella era amata da tutti e accolta a braccia aperte ovunque andasse, mentre Hawke era costretta a nascondersi e a vivere nell’ombra. Ma Hawke non invidiava la popolarità di Lavriella. C’era passata e sapeva quanto pretendessero gli altri da chi avesse una posizione importante, in un certo senso dover fuggire e nascondersi era stata la sua salvezza. Apprezzava la sua vita tranquilla, anche se certe volte il continuo doversi nascondere era pesante. Ecco perché se ne andava liberamente in giro per l’accampamento Dalish senza mantello e cappuccio, nonostante il freddo.
Le due donne, quasi come fossero vecchie amiche, si soffermarono a chiacchierare, sorprese di scoprire quanti eventi comuni avessero segnato le loro vite tramite intrecci inaspettati.
 
Quella mattina Zevran aveva deciso di unirsi ai cacciatori e aiutarli per ripagare la loro ospitalità, Fenris invece, stava cercando ancora la sua compagna, dopo aver seppellito Anders.
 
 
“Sono qui per me stesso” gli aveva risposto infine.
“Il solito egoista…” sospirò Anders, mentre la consueta espressione dura si stagliava sul volto dell’elfo.
“Senti chi parla” si affrettò a rinfacciargli Fenris, ma il mago non colse la provocazione.
“Ascolta” gli disse invece, “voglio dirti che ti ammiro, e che ti ringrazio”.
Di sicuro l’elfo non se l’aspettava. Restò in silenzio, in attesa che Anders continuasse.
“Hai fatto per Liraya più di quanto avrei mai potuto fare io. Posso ammettere senza rimpianti di essere felice che ci sia tu al suo fianco, per quanto la ami… l’avrei solo fatta soffrire.”
‘Non ti rendi conto che l’hai comunque fatta soffrire?’ avrebbe voluto dirgli Fenris. ‘Lei soffre per te’
Quella consapevolezza era simile a una stretta al cuore, sembrava che qualcuno gliel’avesse afferrato come aveva fatto in passato lui coi cuori di molte persone.
Ma per quanto odiasse o avesse odiato Anders, non riuscì a dirgli che ormai il danno era fatto. Che Liraya versava ancora lacrime per lui. Non sarebbe stata una gioia, un motivo di orgoglio. Fenris sapeva che ciò avrebbe solo distrutto quel che rimaneva di Anders. Era quello che aveva sempre desiderato, cancellarlo dalla faccia della terra, eppure era lì… incapace di arrecargli altra sofferenza. Avrebbe potuto, ma non voleva. Era veramente cambiato.
Parlarono per delle ore, discorrendo di eventi passati ma soprattutto di Hawke, di quanto fosse ancora incredibilmente bella e forte, spavalda, decisa.
Poi le epistassi ricominciarono e la luce del fuoco si affievolì.
Fenris non avrebbe mai pensato che avrebbe condiviso quel momento con colui che aveva odiato in tutti quegli anni, non avrebbe mai pensato di confortarlo in silenzio nei suoi ultimi istanti di vita, né avrebbe mai pensato di piangerlo. Una lacrima scivolò sul suo viso quando pronunciò quelle parole.
“Lei non ti ha mai dimenticato”
Ma non seppe dire se Anders le avesse sentite o meno. Quella confessione gli era costata molto, per quanto fossero parole dette a un moribondo. E quella lacrima che cadde su quel viso ormai spento, fu il concretizzarsi di mille angosce ed emozioni contemporanee.
Anders era morto, tra le sue braccia.
Fenris non riusciva che a pensare a Hawke. Non riusciva che a pensare a sé stesso. Un misto tra sollievo e paura. Terrore per come avrebbe preso lei quella notizia. Sollievo perché finalmente quello spettro era uscito dalle loro vite eppure tristezza perché una parte importante di lui se n’era andata per sempre.
Nel Ferelden era usanza bruciare i morti, ma un fuoco di quelle dimensioni avrebbe potuto attirare degli elfi e non voleva dissacrare con una folla di curiosi gli ultimi istanti col suo ex compagno di avventure.
Così si occupò del corpo nel solo altro modo che conosceva, scavando una buca abbastanza profonda da poter seppellire le spoglie, che ricoprì poi con delle pietre. Su una delle pietre più grandi incise una scritta:
‘Qui riposa il Giusto, ove Vendetta non trovò pace’

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Capitolo 21
*** Farfalla ***


All’alba si incamminò nell’unico altro posto in cui avrebbe potuto sperare di trovarla. Sarebbe potuto tornare a casa e aspettare di rivederla presto, ma la conosceva bene. Immaginava quanto stesse soffrendo, quanto avesse bisogno di stare da sola e sapeva che si sarebbe presa del tempo per sé. Fenris avrebbe voluto lasciare a Liraya tutto il tempo di cui necessitava, ma chi avrebbe lenito le sue ferite? Chiedeva solo di riabbracciarla per un momento, poi sarebbe stato in silenzio e sarebbe andato via se solo lei gliel’avesse chiesto.
Si avventurò nella foresta e non passò molto prima di incontrare un gruppo di Dalish a caccia. In compagnia dei magnifici Halla, si muovevano con grazia scagliando frecce e catturando prede che difficilmente qualcun altro avrebbe potuto soggiogare. Ad accompagnare quei fieri cacciatori c’era un altro elfo. I suoi occhi attenti gli suggerirono che quello non era un Dalish, sebbene fosse altrettanto agile. Indossava costose vesti da città, eppure non sembrava neppure uno degli elfi dell’enclave. Il servitore di qualche nobile forse? E cosa ci faceva nella foresta? Era scappato? Quasi Fenris provò simpatia e solidarietà per quello sconosciuto, ricordava benissimo cosa significasse essere uno schiavo e anche se nel Ferelden la schiavitù era illegale, erano in molti a trattare gli elfi come reietti.
Si avvicinò cautamente al gruppo, proprio mentre questo era intento ad osservare silenziosamente un cervo. L’animale però fu spaventato da quella nuova presenza che gli passò troppo vicina, e scappò rapido verso la salvezza.
Un malcontento si diffuse tra i cacciatori, che però si zittirono immediatamente quando Fenris palesò il suo aspetto simile al loro.
“Colpa mia,” ammise, “vado a riprenderlo!” e con uno scatto si lanciò all’inseguimento dell’animale, che dopo non molto ritornò sotto forma di carcassa, trascinato dall’improvvisato cacciatore.
I complimenti degli altri non si fecero attendere, in particolare l’elfo biondo, quello che sembrava di città, si disse davvero piacevolmente sorpreso e gli chiese il motivo del suo vagabondare.
Fenris gli spiegò che stava cercando qualcuno e poi gli chiese perché invece lui era scappato dalla città.
Zevran rise nel sentire quella strana domanda.
“Non sono certo un fuggitivo! Non nel senso che intendi tu, almeno. Come te, anch’io sto, o meglio, stavo cercando una persona. Ma vieni, andiamo all’accampamento, sono convinto che la mia compagna di viaggio sarà entusiasta di conoscerti, non si trovano molti guerrieri con le tue capacità, potrebbe persino offrirti un lavoro”
Lavoro? Non era di certo quello che cercava, ma gli vennero in mente le avventure assieme a Hawke, dove per guadagnarsi il pane c’era sempre bisogno di sporcarsi un po’ le mani.
“Ho smesso con la vita del mercenario” affermò, “ma sono comunque curioso di conoscere questa persona, da come ne parli sembra sia qualcuno di importante”
E poi si trovava all’accampamento, forse sarebbe stata lì anche la sua Hawke, o qualcuno poteva averla vista.
Così seguì quegli elfi, ritenendo di non essere in pericolo, vista la ben nota solidarietà elfica che aveva sperimentato più volte. In ogni caso si sapeva difendere.
 
Aveva indovinato. Non era in pericolo. E soprattutto aveva ritrovato Hawke.
Quando lei lo vide, non potè fare a meno di chiedersi che cosa ci facesse lì, ma non riuscì a proferire parola. Si zittì completamente, interrompendo la conversazione con lady Cousland.
“Zevran, ben tornato!” esclamò quest’ultima, osservando l’amico avvicinarsi al piccolo bivacco.
Zevran? Possibile che…
Hawke rimase a dir poco esterrefatta quando lo vide avanzare assieme a Fenris. Ma il suo primo pensiero andò ai suoi figli.
“I bambini?” chiese al suo compagno, ancora troppo distante per riabbracciarlo.
“Stanno bene, sono con Aveline”
Un sospiro di sollievo abbandonò le labbra di Hawke, che poi si aprirono in un sorriso, mentre muoveva quei pochi passi che ancora la separavano da lui.
Lo strinse forte a sé. Le sembrava di non vederlo da anni, anche se in realtà erano passate nemmeno due settimane.
“Fenris, io…”
“Fenris? Dove ho già sentito questo nome?”
Zevran osservò meglio la donna che era in compagnia di Lavriella e allora la riconobbe.
“Hawke! Qual buon vento mia cara!” e si fiondò ad abbracciarla, noncurante di averla separata dalla stretta del suo compagno.
La maga sbattè le ciglia un paio di volte, ancora incredula.
“E’ incredibile rivederti, dopo tutti questi anni!” continuò lui. “Hai conosciuto Lavriella? E Lui invece, chi è? Il tuo nuovo amante?”
Fenris alzò un sopracciglio, chiedendosi come quell’elfo potesse conoscere la sua Liraya. Improvvisamente non gli era più tanto simpatico.
“E’ un piacere anche per me rivederti” farfugliò lei, soffocata in quell’eufemisticamente stretto abbraccio.
Quando riuscì di nuovo a respirare, potè finalmente dare spiegazioni.
“Ho conosciuto lady Cousland proprio stamattina, ci siamo sorprese a chiacchierare e abbiamo scoperto di avere molte cose in comune, tra cui te, a quanto pare”
“Mi ricordo quando mi raccontasti di averla incontrata!” intervenne Lavriella rivolgendosi a Zev, “ dicesti che era una donna incredibile. In effetti anche mio marito lo confermò”
“Ma dubito che tuo marito abbia conosciuto Hawke nel modo in cui l’ho conosciuta io” sottolineò Zevran non distogliendo gli occhi dalla maga.
“Che ne dici di rinvangare i vecchi tempi?” le propose facendole l’occhiolino.
Hawke rise a quella proposta. Erano finiti i tempi in cui cercava consolazione in effimere notti di piacere, mentre invece il suo amico non sembrava affatto cambiato.
“Non penso sia il caso” rifiutò sorridendo.
Adesso lei aveva Fenris… a proposito, non gliel’aveva ancora presentato.
 “Lui è il mio compagno, Fenris. Non so se ti ricordi, te ne avevo parlato durante… uhm, il nostro incontro…”
Sì, la situazione era decisamente strana.
 “Hmmm… ora che mi ci fai pensare, certo! Fenris! Ecco dove l’avevo sentito! Era quello il nome che hai sussurrato un paio di volte mentre ti stavo sopra durante uno dei miei massaggi…”
“Tu cosa?” sì inalberò il guerriero, stringendo l’elsa della spada.
Zevran sembrò non notare quella tensione.
“Dunque alla fine sei riuscita a conquistarlo! Non avevo dubbi, nessuno potrebbe resistere alle tue avances”
Allungò una mano per accarezzarle una ciocca. Ma prontamente Fenris gliela bloccò, afferrandogli il polso.
“Cos’è questa storia?” chiese con un tono che non nascondeva affatto il suo stato d’animo.
“Beh, mio caro” spiegò Zev liberandosi dalla presa, “ricordi quando avesti la brillante idea di lasciare questa splendida creatura? Diciamo che non ha pianto tutte le sere da sola”
Gli scappò una risatina, anche se sapeva che non era proprio il caso visto che aveva capito quanto fosse suscettibile Fenris.
“Oh, Creatore!” esclamò Hawke quasi esasperata. Non aveva mai parlato di Zevran a Fenris. Non perché avesse ritenuto fosse meglio nasconderglielo, ma solo perché non pensava che fosse una cosa importante. In fondo in quel periodo si erano lasciati…anzi, lui l’aveva abbandonata e lei aveva sofferto molto.
Intanto Lavriella assisteva a quel teatrino con gli occhi spalancati, assolutamente stupita.
“E’ successo talmente tanto tempo fa… nemmeno me lo ricordo…” tentò di giustificarsi Liraya.
L’assassino sospirò.
“Oh, tesoro, così mi offendi! Vuoi dire che non sono un amante indimenticabile?", domandò scuotendo il capo per esprimere il suo disappunto. Poi continuò, con voce sensuale: "Ad ogni modo io ricordo ogni particolare… sicura che non vuoi che ti rinfreschi la memoria?”
“Adesso ti ammazzo” decretò Fenris, pronto a sguainare la spada.
“Ehi ehi! Calmiamoci! Non c’è bisogno di usare questi paroloni!”
Zevran rise di pancia e poi chiese scusa.
“Ovviamente sto scherzando, non che mi dispiacerebbe riavere Hawke per una notte, ma rispetto il vostro legame” e nel dire quelle ultime parole si incupì, pensando a quanto gli costasse rispettare un legame che teneva lontano da lui l’unica donna che riuscisse ad amare.
Ad ogni modo, dissimulò in fretta con un altro dei suoi ammalianti sorrisi.
La regina non aveva osato interrompere, anche se avrebbe avuto mille domande da porre. E così tra Zev e Hawke c’era stato qualcosa… sentì uno strano sussulto allo stomaco nel pensarci, ma la sensazione scemò quasi immediatamente.
Lanaya si stava avvicinando a lei con aria seria, sembrava volesse comunicarle qualcosa di estremamente importante.
Anche Zevran ascoltò quello che aveva da dire, stringendo la mano della regina ogni qualvolta leggeva il turbamento di lei nel sentire quelle parole.
Fenris e Hawke invece, si ritirarono in tenda.
Hawke teneva lo sguardo basso mentre Fenris le diceva che Anders era morto.
Restò in silenzio, immobile, come pietrificata. Non aveva il coraggio di levare gli occhi e incontrare quelli della persona che amava, non aveva il coraggio di piangere un altro uomo tra le sue braccia. Eppure non potè resistere troppo a lungo. Le lacrime sgorgarono incontrollabili fino a quando lui l’abbracciò e le permise di lasciarsi andare in un pianto liberatorio fatto di singhiozzi e rimorsi.
Era sempre stata forte, non aveva mai permesso alle emozioni di prendere il sopravvento. Aveva perso tante persone e non aveva mai versato tutte quelle lacrime. Si era sempre tenuta tutto dentro, ostentando cinismo, nascondendo dietro una battuta o una risata tutte le sue pene. Adesso però, quel pianto era una sorta di liberazione, un sollievo. Era affranta, pentita, distrutta, eppure… si sentiva più leggera. Avrebbe finalmente smesso di chiedersi che cosa avrebbe dovuto o potuto fare di diverso e avrebbe semplicemente accettato gli eventi, quella realtà che le era sembrato di portare sulle spalle, come un peso che non era mai riuscita a scrollarsi di dosso.
‘E’ finita’ si disse, pensando che non avrebbe mai più sentito quella risata che aveva ascoltato qualche sera prima. Mai più.
Sì addormentò tra le braccia del suo unico amore, mentre questi le accarezzava i capelli. Per una volta era lei a sembrare fragile, per una volta toccava a lui rassicurarla e farle sentire tutto il suo amore.
Fenris la capiva. Sebbene stesse male per quelle lacrime versate per un altro, capiva cosa stesse provando. Hawke aveva sopportato molto, troppo. Quante volte era caduta? Quante volte si era rialzata, noncurante delle ferite? Adesso poteva lasciarsi alle spalle tutto quello che era successo, era un nuovo inizio, una rinascita. Osservò il suo forte bruco dormire tra le sue braccia che fungevano da bozzolo, pensando che al risveglio avrebbe spiccato il volo una splendida farfalla.
 
Lavriella aveva finalmente capito. Non stava cercando Morrigan, stava cercando sua figlia. La figlia di Alistair. L'eretica aveva partorito una femmina dunque, che, da quanto le aveva raccontato Lanaya, era uguale a sua madre. Era lei quindi a essere stata vista al circolo e alla ‘Principessa viziata’.
Credeva di essere preparata a qualunque cosa, ma la notizia di averla sfiorata la spiazzò. Che cosa avrebbe fatto se avesse incontrato la ragazza? E perché Morrigan non era con lei? Adesso sapeva che si accompagnava a due ragazzi umani, un’ elfa e un nano, e anche a un’altra maga, una donna adulta, che però non corrispondeva alla descrizione di Morrigan. Lanaya se la ricordava bene e aveva giurato che non fosse lei.
“Da quel che ho capito, erano diretti a Denerim” le comunicò la guardiana.
“Zev, dobbiamo raggiungerla!”
Gli occhi imploranti di Lavriella non gli permisero di rifiutarsi di accondiscendere. La mano stretta alla sua, lo sguardo spaventato, la richiesta di aiuto. Per lei era importante che lui fosse lì. E il suo ego era rinfrancato da quella consapevolezza. In fondo era egoista e non ragionò immediatamente sulla potenziale pericolosità di quell’incontro tanto voluto dalla sua regina.
“Nelle tue condizioni non è saggio affaticarsi così tanto” le consigliò invece Lanaya.
“Sto bene” rispose Lavriella, “non preoccuparti”.
Ormai era guarita da qualche giorno, si sentiva piena di energie. Piuttosto pensava a quando avrebbe incontrato il frutto di quella magia del sangue. Nella bambina era confluita l’anima dell’antico Dio, lei lo sapeva, ricordava perfettamente le parole di Morrigan e ancora adesso la terrorizzavano. Eppure aveva accettato… e aveva avuto tanti anni di felicità assieme a Alistair. Ma a che prezzo?
“Chiederò l’aiuto di Hawke, lei è una maga, potrebbe esserci utile…”
“Hai intenzione di affrontare la figlia di Morrigan?” chiese Zevran allarmato.
“Non lo so, cioè no! Ma non so che intenzioni abbia lei. Perché va a Denerim? E se volesse….”
Le parole non abbandonarono le labbra serrate in una smorfia di angoscia.
‘… se volesse incontrare suo padre?’
 
 
 
 
Erano passati due giorni da quando ci eravamo lasciati alle spalle l’accampamento Dalish, e da quando avevo parlato per l’ultima volta con Feron. In realtà non avevo parlato più con nessuno. Era calato uno strano silenzio, ognuno stava per conto suo. La cosa non poteva che farmi piacere, avevo realmente bisogno di stare da sola. Ero confusa, preoccupata, provavo una serie di emozioni che non avevo mai sperimentato. Da un lato c’era l’angoscia per l’incontro con mio padre: avevo quasi rischiato di scontrarmi con sua moglie e la cosa mi aveva atterrita, come avrei reagito davanti a lui? Dall’altro lato invece c’erano i sentimenti che provavo, sconosciuti ma che avevano a che fare con l’innamoramento. Io e Deleric ci eravamo baciati, si era dichiarato innamorato di me e io non sapevo se ridere della cosa o lasciarmi coinvolgere. E poi c’era Feron…
E gli incubi. Tormentavano ogni mio sonno ormai.
Me ne stavo in solitudine, camminando in fondo al gruppo, quando Deleric mi affiancò.
“Come stai?”mi chiese.
Che domanda assurda.
“Sto bene, non si vede?”
“Smettila di fingere, so che c’è qualcosa che ti turba”
Mi fermai, stupita. Allo stesso tempo non avevo voglia di dare spiegazioni.
“E’ così evidente?” domandai, accennando un sorriso.
“Non so se lo è anche per gli altri, ma per me sì. Ti sei isolata da quando abbiamo lasciato l’accampamento Dalish, a parte quella serata che hai passato in compagnia di Feron…”
“Ci hai spiati?”
“No, cioè sì, vi ho visti insieme” ammise, “ma non era di questo che volevo parlarti”
“Sentiamo allora” dissi senza troppa convinzione.
“E’ successo qualcosa all’accampamento? Mi sei sembrata sconvolta, sei voluta ripartire in tutta fretta e non mi sei sembrata più a tuo agio da quella mattina”
E così l’aveva notato. Era sempre così attento o lo era solo quando si trattava di me? Non gli posi quella domanda e non gli diedi nemmeno una risposta.
“Io non ho voglia di parlarne” dissi solo.
“Capisco” rispose, deluso, “ma se cambi idea voglio che tu sappia che io per te ci sono e ci sarò sempre”
Sempre… che parola sopravvalutata.
“Nulla è per sempre” sentenziai. “Ogni cosa a questo mondo succede un numero limitato di volte e poi finisce”
Il mio cinismo non lo disorientò.
“Non sono d’accordo, ci sono cose che non finiscono mai. Ad esempio il sole non smetterà mai di sorgere”
“Ma prima o poi smetteremo di vederlo” tagliai corto. Non avevo intenzione di intavolare una discussione su un argomento controverso come l’eternità.
“E che mi dici dell’amore allora? Gli uomini smetteranno mai di amare? Anche dopo la nostra morte , qualcun altro continuerà a farlo”
Il suo ragionamento non mi sembrava del tutto sbagliato, ma ero alquanto scettica.
“Non so nulla sull’amore, non è un argomento che tratto spesso e a dire il vero, non mi interessa”
Fui fredda, distaccata. Sapevo cosa provava per me ma non potei evitare di ferirlo. Forse ne avevo l’intenzione, o forse ero solo stanca di non sapergli dire cosa realmente provassi.
“Per te è uno scherzo vero? Credi che quello che provo per te non sia reale, sia solo passeggero? Un capriccio di un momento?”
Il suo tono era piuttosto duro, pensavo che non l’avrei mai visto così. Era arrabbiato.
Lo sguardo deciso, la mano determinata a non lasciarmi andare. Mi afferrò il polso e mi obbligò a seguirlo.
I nostri compagni erano andati avanti senza di noi, anche se non erano molto lontani.
Deleric mi portò fuori dal sentiero, tra la fitta vegetazione, e mi parlò chiaro.
“Ti avevo detto che ti avrei dato del tempo per riflettere. Dunque la tua risposta è che non sei interessata all’amore?”
Mi aveva messa alle strette, non sapevo cos’altro avrei potuto dirgli, quindi imbeccai la via più facile.
“Sì. Non mi interessa l’amore”
“Eppure sembri molto interessata al tuo bel ladro”
Feron? Cosa c’entrava lui? Era solo una questione di gelosia?
“Oh certo, tipico degli uomini pare. In presenza di un altro maschio hanno il bisogno di stabilire il loro dominio. Perché non lo sfidi a duello? E’ il classico comportamento di molti animali” lo sbeffeggiai, sarcastica.
Mi aveva trascinato in una conversazione che non volevo affrontare, si era dimostrato tanto sensibile da capire che ero turbata, e adesso non capiva che più insisteva, più avrebbe ricevuto delle risposte prive di ogni minimo tatto.
Eravamo molto vicini, e soli.
Mi guardò dritto negli occhi, poi poggiò le mani sui miei avambracci, stringendo come per assicurarsi che non potessi scappare da un momento all’altro. Ma non sarei mai scappata, ormai mi sentivo sfidata e non avrei ceduto.
Mi aspettavo che mi urlasse in faccia la sua rabbia e la sua frustrazione per il rifiuto. Invece mi sorprese dandomi un bacio. Non era uguale al precedente, dolce e tenero, bensì era appassionato e avido, vigoroso e sofferto.
Mi lasciò completamente in balia delle emozioni per qualche secondo, poi mi ripresi, ritrovandomi stretta a lui, accorgendomi che ancora una volta non avevo saputo respingerlo. Avevo invece ricambiato, le mie mani stavano toccando la sua schiena, curiose come lo ero io di esplorare un corpo così diverso, sconosciuto e attraente.
“Cosa mi dici della tua reazione allora?” non mancò di farmi notare lui. “Davvero non ti interessa tutto questo?”
Abbassai lo sguardo e le mani, cercando le parole adatte, ma per quanto cercassi non le trovai.
“Il fatto che ci baciamo significa necessariamente che siamo innamorati? Potrei essere attratta da te, ma non innamorata di te” decretai.
“Che vuoi dire?”
“Esistono relazioni  intrattenute per puro piacere fisico” rimarcai.
“Ed è quello che tu cerchi? E’ questo quello che vuoi Andraste?” chiese quasi con una nota di rimprovero.
“Io non cerco nulla! Non accusarmi di cose a cui non ho nemmeno mai pensato!”
Quella situazione mi sembrava paradossale. Stavamo litigando, ma per cosa poi? Non riuscivo a cogliere il senso di tutto ciò. Baciarlo era stato bello, ma… non ero pronta ad affrontarne le conseguenze.
“Voglio solo stare da sola, voglio solo che mi lasci in pace!” esclamai esasperata.
La presa si allentò. Mi lasciò andare, poi mi diede le spalle.
“Scusami, non avrei dovuto insistere” dichiarò frettolosamente. “Non posso certo obbligarti a provare qualcosa per me, consideriamo l’argomento chiuso, non ti infastidirò più. Sei d’accordo?”
Non aspettò nemmeno che mi dichiarassi d'accordo.
“Vieni, raggiungiamo gli altri” disse avviandosi a passo svelto verso il gruppo.
Non lo vidi  in faccia, ma giurerei che la sua voce avesse tremato.
Ero stata molto dura con lui. Ma almeno ero stata chiara. Mi domandai se quello che gli avevo detto fosse davvero quello che volevo.
Non seppi rispondere.

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Capitolo 22
*** Denerim ***


Leliana fu ricevuta con tutti gli onori, mentre cercava una scusa da riferire ad Alistair per la sua visita improvvisa.
Aveva raggiunto il palazzo apprendendo che il re era tornato proprio il giorno prima. Aveva rischiato di non trovare nessuno. A quanto pareva la regina era in viaggio, accompagnata da Zevran.
 
“Sono venuta a trovare Lavriella, ma a quanto pare avrei dovuto avvisare” disse col suo solito tono docile, seduta a un tavolo imbandito di prelibatezze.
“Anche per me è stata una sorpresa, ho saputo che sarebbe partita solo dopo che l’aveva fatto” confermò Alistair.
“Non sai dove posso trovarla?” gli chiese l’orlesiana.
“L’ultima volta è stata vista a Redcliffe, ma la notizia risale  parecchi giorni fa. Nella sua missiva ha specificato che sarebbe stato un viaggio non troppo lungo…confido che sia sulla strada del ritorno”
Il re sembrava preoccupato, ma ci teneva a non darlo a vedere.
Leliana si chiese se fosse più preoccupato per l’incolumità della sua regina o per il fatto che viaggiasse sola con Zevran, ma evitò di domandarlo.
“Ti dispiace se aspetto a palazzo il suo ritorno?” disse invece, impaziente di parlare con la sua amica della scoperta che aveva fatto. Era convinta che Alistair fosse all’oscuro di tutto. Lo conosceva bene e sapeva che se avesse saputo di avere un figlio da qualche parte, avrebbe passato la sua vita a cercarlo.
“Certo che no, sarai una gradita ospite. E’ deprimente cenare da soli in una sala che potrebbe contenere centinaia di persone”
Leliana si guardò intorno e si chiese come mai non ci fosse tutta la gente che di solito circonda un sovrano.
“ E i tuoi consiglieri dove sono? E i lacchè?”
“Ho congedato tutti per stanotte, per farli riposare dopo il faticoso viaggio che abbiamo affrontato. Anche loro hanno diritto di stare con le proprie famiglie. C’è solo la servitù, anche se io non uso mai questo termine… è un po’ offensivo, non trovi?” ridacchiò il re, sorseggiando una coppa di vino.
“Preferisco chiamarli ‘collaboratori’, ma non tutti sembrano capire, così cerco di ricordare i nomi, togliendomi dall’imbarazzo di doverli definire con un termine sbagliato”
Era proprio da Alistair preoccuparsi di una cosa del genere. Era così dannatamente altruista, faceva di tutto per non mettere a disagio persino i domestici.
Quando terminarono di mangiare, si sedettero di fronte al grosso camino, lo stesso davanti al quale Leliana quasi vent’anni prima aveva consolato Lavriella alla vigilia della battaglia contro l’Arcidemone.
“Avresti mai pensato che avresti sposato l’amore della tua vita  e saresti diventato re?” gli chiese la donna, ricordando quante ne avevano passate assieme.
“Se ripenso a quei giorni… no, non ci avrei mai pensato. Credevo che sarei diventato un templare e mi sarei rincitrullito col lyrium. Non avrei mai creduto di essere felice…”
Sebbene fosse convinto di quello che dicesse, nella sua voce sembrava esserci una nota malinconica. Qualcosa lo affliggeva.
“Porti un gran peso sulle tue spalle” considerò Leliana, osservando le fiamme danzare.
“Per fortuna non devo portarlo da solo” rispose il re, pensando alla sua regina.
Dov’era lei? Che stava facendo? Perché era partita così all’improvviso? Quando avrebbe potuto riabbracciarla? Gli mancava da impazzire. I doveri da re li tenevano spesso lontani eppure lui non si era mai abituato a quell’assenza. Invidiava Zevran. In quel momento era con lei… era sempre con lei quando lui non poteva. Aveva accettato la cosa, anzi, l’aveva persino incoraggiata, ma non poteva evitare di stare male pensandoli assieme. Si fidava di Lavriella, forse non si fidava di sé stesso. Prima o poi sarebbe impazzito di gelosia e avrebbe allontanato Zevran dal palazzo, impedendogli di rivedere sua moglie per sempre. Così facendo le avrebbe fatto del male e sapeva che non se lo sarebbe mai perdonato.
Leliana indovinò i suoi pensieri e gli poggiò una mano sulla spalla.
“Presto sarà di ritorno” lo consolò, anche se non servì a molto.
Alistair annuì, cercando di tirare fuori nuovamente il suo solito sorriso.
“Ma adesso parlami un po’ di te, non ci vediamo da molto tempo. Hai notizie interessanti?”
Sapeva che il re si riferiva a notizie riguardanti Orlais, eppure fu tentata di rispondergli di sì, che aveva da dirgli qualcosa di molto importante e che era necessario che lui sapesse tutta la verità.
“Sì” rispose seria, “l’imperatrice ha adottato un altro cagnolino, si chiama Merville”
Non potè fare a meno di scoppiare in una risata.
“Questa sì che è una notizia, però la mia  è ancora più interessante” affermò il re. “Indovina chi è tornata nel Ferelden?”
Leliana non dovette attendere che il mistero fosse svelato, conosceva la risposta.
“E’ tornata Morrigan”
*********************************
 
“Non te lo chiederei se non fosse importante” le aveva detto la regina.
Ed effettivamente la questione sembrava importantissima, una faccenda molto più grossa di lei, pensò Hawke.
Anche stavolta era riuscita a cacciarsi in un probabile bel guaio, ma doveva ammettere che quella vita le mancava. Apprezzava la pace e la tranquillità che aveva vissuto con la sua famiglia fino a quel momento, ma sentiva dentro di lei una strana eccitazione, scariche di adrenalina che la incitavano a lanciarsi in quella nuova avventura. Forse era per via degli eventi che aveva appena vissuto. La morte di Anders l’aveva sconvolta più di quanto avesse mai creduto, aveva bisogno di buttarsi in qualcosa che la distraesse, che le confermasse che era ancora in grado di affrontare qualunque avversità. Certo, le mancavano i suoi figli, ma Fenris si era dimostrato disponibile, sarebbe tornato da loro e li avrebbe portati dai Dalish per non approfittare troppo della disponibilità di Aveline, poi avrebbe raggiunto la sua compagna a Denerim.
Dunque avevano a che fare con la magia del sangue, un antico Dio, lo spirito di un Arcidemone a quanto ne sapevano, e tutto ciò era racchiuso in quella ragazza dall’aspetto innocente che avevano conosciuto. A Hawke non era mai sembrata così pericolosa. Sapeva che era una maga, ma non credeva fosse così potente. Forse la ragazza non conosceva il suo vero potere o era davvero brava a fingere.
E i suoi compagni di viaggio? Conoscevano a sua vera natura? Sembrava davvero incredibile, forse Lavriella si era sbagliata, ma ormai Liraya era decisa a scoprirlo.
Erano in viaggio da parecchi giorni, erano quasi arrivati nella capitale, quando Lavriella ebbe un malore e furono costretti a fermarsi.
Zevran era molto affettuoso con lei, Hawke l’aveva notato. Sapeva che lui era innamorato, anche dopo tutti quegli anni, sebbene non fosse mai stato ricambiato. Capiva bene come si sentiva, ma l’idea che soffrisse da tutto quel tempo l’atterriva, lei era riuscita a stare con Fenris alla fine, ma Zevran… era condannato all’infelicità.
La su regina stava riposando. Era quasi svenuta per la stanchezza, lui se lo sentiva, non si era ancora ripresa da quella brutta febbre. Stava vegliando su di lei quando sentì una mano gentile poggiarsi sulla sua spalla. Zevran alzò gli occhi e incontrò quelli di Hawke. Occhi limpidi in cui avrebbe voluto perdersi volentieri per non pensare a quanto gli facesse male non poter guardare troppo a lungo quelli scuri di cui si era innamorato.
“Non sei mai riuscito a dimenticarla, vero?”
“Come avrei potuto?”
Zevran posò la sua mano su quella di Liraya. Non avrebbe voluto dimostrarsi così fragile, eppure con Hawke si sentiva libero di esternare le sue emozioni, lei era l’unica a sapere cosa provasse davvero, nonostante si fossero incontrati solo una volta.
Erano così simili.
 
 
Denerim era una grande città. Non maestosa come Val Royeaux, di certo meno sfarzosa e appariscente, eppure aveva qualcosa di incredibilmente regale e imponente. Forse la presenza stessa del palazzo reale le conferiva dignità e valore.
Il mercato non era particolarmente ampio ma era molto fornito, c’erano persino banchi che vendevano merci orlesiane.
Mi sorpresi a sorridere osservando i nastri colorati e i profumi esposti. In fondo mi mancava il mio Paese, per quanto il Ferelden fosse molto più simile alla mia natura selvaggia e ribelle.
Pensai a mia madre, anche lei mi mancava molto. Eppure, per tutto il viaggio avevo avuto la sensazione che fosse molto più vicina di quanto non sapessi.
“Ti piacciono i nastri?” mi chiese Feron, osservandomi mentre ne accarezzavo il tessuto setato.
“Sono molto belli, ma non fanno per me”
“E perché no? Secondo me quel colore ti donerebbe”
Ne indicò uno alla mia destra, di un intenso blu acceso.
“Sei diventato un esperto di moda?” risi, continuando a prenderlo in giro, “Tu e Deleric potreste aprire una bottega di prodotti di bellezza”
Si incupì non appena nominai il biondo e a dire il vero lo feci anch’io. Dopo la discussione di qualche giorno prima, non ci eravamo più rivolti la parola e io mi sentivo incredibilmente in colpa.
Mi ripetevo che non ne avevo nessun motivo, ma non potevo togliermi dalla testa il fatto che Deleric stesse soffrendo ancora una volta per la mia vigliaccheria. La prima volta non avevo avuto il coraggio di aiutare suo fratello, adesso invece non avevo il coraggio di essere sincera con lui.
Non ero sicura di amarlo, e questo probabilmente significava che non l’amavo. Osservavo la gioia e la certezza di Altelha e Gulliack, non avevano mai esposto dubbi sui loro sentimenti, e ripensavo spesso anche a Merrill e al suo Connor. Non avevano mai messo in discussione ciò che provavano, io lo facevo di continuo.
Invece di dirgli chiaramente che non ero innamorata di lui, gli avevo detto che non mi interessavano certe cose, quando invece la mia curiosità era tutt’altro che assopita.
Incrociai lo sguardo dell’orlesiano, dall’altro lato della bancarella. Lo distolsi immediatamente, poi mi congedai da Feron e andai da Sadine. Stava comprando delle pozioni curative, mentre l’elfa e il suo fidanzato se ne stavano in un angolino confabulando sul da farsi. Erano indecisi se andare subito all’enclave per parlare con Shianni o aspettare ancora.
“Hai già rintracciato tua nipote?” chiesi alla maga, curiosa di sapere cosa avrebbe fatto una volta riabbracciata la sua famiglia.
“Non ancora. Credo mi convenga chiedere udienza a palazzo per avere un elenco degli abitanti”
Annuii. Intanto la sua risposta mi aveva ricordato il vero motivo per cui anche io ero lì. Ero finalmente giunta a Denerim dopo un lungo e faticoso viaggio e ancora non mi accingevo a fare quello per cui ero venuta. Anche io avrei dovuto chiedere udienza a palazzo, avrei dovuto chiedere di vedere il re in persona.
Feci un profondo respiro e tentai di impedire alle mie gambe di tremare a quel pensiero. Con mio grosso stupore, ci riuscii.
In quel momento era inutile rimuginarci troppo sopra, era meglio affittare una stanza in una locanda e riposarsi, magari fare un bel bagno rilassante. Dopo una notte passata senza la paura di essere attaccata,  avrei di sicuro ragionato più lucidamente.
“Dovremmo cercare una locanda” annunciai quindi, mostrando palesemente il mio stato di stanchezza con un paio di sbadigli ben piazzati. Non volevo parlare più con nessuno, desideravo ancora una volta la solitudine.
“Hai ragione, domani penseremo al da farsi, adesso riposiamoci” confermò Sadine.
Andai dai due fidanzatini comunicando loro la nostra decisione, mentre lei avvisò Feron e Deleric. Tutti furono d’accordo sul riposare tranquillamente per la notte e rimandare a domani qualunque incombenza.
Altelha ci parlò di una locanda frequentata da gentiluomini e dame altolocate, 'il Nobile tormentato'. Per quanto preferissi un ambiente più semplice, dovetti arrendermi alla bellezza e alle comodità di quella stanza profumata di gelsomino e violetta.
Per fortuna c’erano abbastanza sovrane e abbastanza camere perché ognuno di noi avesse la propria privacy. A quanto pareva non era una stagione in cui nel Ferelden si amasse viaggiare. Gli avventori erano pochi e il locandiere accettò di fittarci le camere a un prezzo contenuto.
Mi addormentai su quelle coperte di broccato mentre la luce delle candele si affievoliva lasciandomi preda dei miei soliti incubi.
 
“Come sarebbe a dire due settimane?” domandai incredula.
“E’ il tempo necessario, ragazza” rispose flemmaticamente il funzionario al quale avevo chiesto di poter incontrare il re. Non si era disturbato nemmeno a guardarmi in faccia. Non che fosse semplice,  me ne andavo in giro incappucciata: come accadeva spesso, quel giorno pioveva.
Ci eravamo recati a palazzo di buon ora, ma a quanto pareva, non era cosa facile incontrare il sovrano.
Non eravamo certo gli unici a volerlo vedere. Dovevano esserci parecchi problemi se il re aveva tutte quelle richieste di udienze.
Dapprima mi arrabbiai, ma poi fui sollevata. Da un lato forse era un bene avere dell’altro tempo per prepararmi, mai poi mi dissi che avevo avuto diciotto anni per prepararmi a vedere mio padre, era ridicolo che titubassi ancora in quel modo, dopo tutta la fatica che avevo fatto per arrivare fin lì.
Sospirai, comunicando agli altri che non c’era altro da fare che aspettare.
Sadine apprese la notizia facendo spallucce, mentre Feron e Deleric non batterono ciglio. In fondo ci avevano solo accompagnate, non avevano alcun interesse ad incontrare il re. In effetti non capivo perché stessero ancora con noi a Denerim. Potevo immaginare che Deleric non andasse via perché teneva a me, nonostante l’avessi disilluso, ma Feron?
Anche Altelha e Gulliack avevano pensato di incontrare il re. Se avesse interceduto in prima persona per il loro matrimonio, di sicuro Shianni avrebbe dovuto arrendersi. E Altelha era abbastanza sicura che il sovrano si sarebbe prestato ad aiutarli, se non lui, di certo la regina sarebbe stata dalla loro parte.
Non le dissi che probabilmente la regina non sarebbe stata in città, non avevo detto a nessuno che si trovava dai Dalish solo pochi giorni prima.
Stavamo andando via quando Altelha urtò contro una specie di gigante, l’uomo più alto che avessi mai visto. A dire il vero non sembrava esattamente umano. Doveva essere un qunari, ma non aveva l’aspetto tipico di quel popolo. Era grosso sì, ma non aveva le classiche corna e la pelle particolarmente grigiastra. Lo si sarebbe scambiato per un umano se non avesse superato di due o tre spanne almeno tutti i presenti.
Dopo esserci scusati, lo osservammo entrare a palazzo come nulla fosse, mentre io e il mio gruppo avremmo dovuto aspettare due settimane.
Due settimane… cosa avrei fatto in tutto quel tempo?
 
 
Il qunari si fermò ad ammirare il dipinto esposto nell’anticamera del salone. Non l’aveva mia visto prima, sembrava fosse nuovo.
“Un eccellente esempio di uso dei chiaroscuri” commentò una voce familiare alle sue spalle.
Sten incrociò lo sguardo di Leliana e annuì.
“Sai se questo è per me?” le chiese, indicando il dipinto.
“Credo di sì, Lavriella raccoglie qui tutti i quadri che ha intenzione di regalarti, non penso che questo farà eccezione, ma non possiamo domandarglielo per il momento, non è in città”
Una specie di grugnito espose il suo disappunto. Non l’aveva mai detto chiaramente, ma Sten doveva essere molto affezionato a Lavriella. Leliana lo aveva sempre sospettato.
“Ma potrai parlare con Alistair” lo in formò, “è a palazzo, anche se come al solito è molto impegnato”
Di sicuro Alistair non avrebbe fatto aspettare Sten e l’avrebbe ricevuto subito, appena avesse saputo che era arrivato in città. Non che il qunari amasse chiacchierare, le conversazioni si limitavano a qualche domanda e a qualche risposta evasiva, solitamente in monosillabi. Con Lavriella invece le cose cambiavano un po’. Sten si apriva di più, se così si poteva dire.
Il gigante fece una strana domanda.
“Con la strega ha già parlato?”
Leliana sbattè le ciglia un paio di volte.
“La strega? Ma chi…?”
Poi capì a chi si riferiva.
“Morrigan? L’hai vista? Dove? Quando?”
“Qui fuori” si limitò a dire il qunari, però poi aggiunse un commento molto strano.
“Le streghe non invecchiano”
E Leliana capì. Capì che non poteva aspettare che Lavriella tornasse. Doveva raccontare tutto ad Alistair.
 
 

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Capitolo 23
*** Verità ***


La locanda era semi deserta. C’era solo il nostro gruppo, più un paio di avventori, le cameriere e l’oste. Le voci risuonavano in quello spazio seppur non molto grande e le risate riempivano lo spirito così come la birra i boccali, che venivano prontamente vuotati dopo l’ennesima manifestazione di allegria.
Da quel che si era lasciata sfuggire Altelha, pareva che alla fine Gulliack avesse ceduto alle sue avances e l’argomento di conversazione quindi riguardava i piaceri della vita: soldi, cibo e sesso parevano le cose che più esaltavano qualunque persona, mentre a me erano totalmente indifferenti visto che ero abituata a fare a meno anche del cibo all’occorrenza.
Mia madre era stata un’insegnante rigida, non avevo mangiato per giorni quando cercavo di imparare a mutare la mia forma, il cibo mi avrebbe distratto e lei voleva che mi concentrassi al massimo. Al quinto giorno ce l’ho fatta e ho capito che pensare di ricavare piacere da qualcosa ci distrae dal vero scopo per cui ne abbiamo bisogno. In quei giorni avevo fame, sì, ma sapevo che non sarei morta in così poco tempo, volevo solo provare piacere nel saziarmi e placare quel senso di vuoto allo stomaco.
Gli avari fanno la stessa cosa: accumulano e accumulano denaro senza nemmeno sapere cosa farne, lo posseggono e basta, senza averne un reale bisogno.
E il sesso… il sesso serve a riprodursi, proprio non comprendevo perché fosse così decantato.
“A questo punto mi piacerebbe provare a farlo per capire come mai dicono sia così bello” proclamai senza riserbo alcuno, palesando la mia totale estraneità a qualunque cosa fosse l’accoppiamento tra esseri umani.
Per un attimo calò il silenzio nella sala, tutti, persino l’oste, mi guardarono con l’espressione di chi aveva sentito parlare in una lingua straniera e adesso cercasse di capire cosa fosse stato detto.
Poi gli estranei finsero di disinteressarsi distogliendo lo sguardo dal nostro tavolo e tornando ai propri affari, ma giurerei che stessero ancora ben attenti ad ascoltare.
Altelha sbattè le ciglia un paio di volte prima di aprire la bocca per parlare, solo che fu preceduta dal suo fidanzato.
“Ma per fare l’amore devi amare l’altra persona, non è qualcosa che va fatto solo per curiosità…” esclamò Gulliack inizialmente con disinvoltura, poi, incrociando gli occhi dell’elfa, arrossì e abbassò lo sguardo, pronunciando le ultime parole quasi in un sussurro.
“E perché mai?” risposi con sincera incredulità, “non si tratta solo di un piacevole atto fisico fine alla continuazione della specie?”
Nessuno osò rispondere, solo Deleric mi guardò in un modo strano, quasi con disprezzo, come se avessi affermato chissà quale ignobile infamia, prima di chiedermi se ero mai stata capace di provare dei sentimenti.
Il suo sarcasmo era evidente. Non avrei dovuto, almeno a giudicare da quel che diceva lui, eppure mi sentii ferita. Sarebbe stato davvero comodo essere senza cuore.
Dissimulai aprendomi in una grassa risata.
“Magari non capisco nulla di sentimenti, ma non mi arrogo il diritto di giudicare gli altri sul loro modo di intenderli” risposi con ancora il sorriso sulle labbra.
Feron, forse d’istinto, mi prese improvvisamente la mano che tenevo poggiata sul tavolo, e me la strinse.
Probabilmente aveva intuito che in realtà le parole di Deleric mi avevano scalfita più di quanto intendessi far notare. Quel contatto in effetti mi rassicurò, sentii la sua solidarietà, la sua vicinanza oltre quella fisica. Dunque ricambiai, stringendo a mia volta quella mano premurosa.
L’orlesiano non fece a meno di indugiare sulle nostre dita intrecciate, per poi alzarsi e abbandonare il tavolo, non senza portare con sé l’ennesimo boccale ancora pieno.
Lo osservammo ritirarsi nella sua stanza, mentre noi altri completammo la cena quasi in silenzio. Solo Sadine mi chiese delucidazioni sul perché stessi cercando di parlare col re, ma le dissi semplicemente che dovevo riportargli un messaggio per conto di una persona. La persona in causa era mia madre e il messaggio era qualcosa del tipo ‘ecco tua figlia’, ma questo evitai di specificarlo, giacchè mia madre stessa non aveva mai avuto intenzione di essere mittente di tale missiva.
Dopo cena andai a letto cercando di addormentarmi il prima possibile per non pensare, oltre a quello che sarebbe successo una volta incontrato mio padre, a tutte le emozioni che mi accompagnavano e mi avevano accompagnata in quel lungo viaggio, eppure, nonostante la comodità dell’alloggio, non avevo sonno, ero tormentata da una strana inquietudine, avevo bisogno di chiarire le cose con Deleric.
Era notte inoltrata quando mi recai alla sua porta e bussai con tocco lieve, per non svegliare gli altri.
“Avanti” disse senza nemmeno chiedere chi fosse.
Era seduto alla scrivania. Accanto a lui, il boccale e delle giare, forse vuote.
“Che ci fai qui?” mi chiese evidentemente stupito per la mia presenza ingiustificata.
“Sono venuta per parlare con te”
“E cosa abbiamo da dirci?” chiese sprezzante.
“Hai bevuto?” domandai retoricamente.
“Un po’, ma non abbastanza per dimenticare come mi sento. Non sarai qui per farmi la predica?”
“No, non sapevo nemmeno che avessi ordinato dell’altra birra…”
“Allora cosa vuoi da me?”
Il suo tono gelido mi lasciava interdetta, non ero abituata a sentirlo così freddo, lontano.
Per rimediare a quella distanza chiusi la porta alle mie spalle e mi avvicinai. Mi sedetti sul letto, di fronte a lui.
“Voglio parlare con te” ripetei, decisa a vuotare il sacco una volta per tutte.
“Potresti parlami domani, non sono in vena di intavolare una conversazione”
“Forse lo saresti, se ti interessasse quello che ho da dire”
“Sei venuta per chiedermi di toglierti le curiosità che hai sul sesso?”
Si alzò di scatto, facendomi sussultare, per poi sedersi accanto a me. I suoi occhi azzurri mi scrutavano, un sorriso malizioso fece capolino sulle sue labbra. Era diverso, non era il solito Deleric. Lui non era abituato a ferire le persone.
Sostenni comunque il suo sguardo, senza alcun imbarazzo.
“Non sono qui per questo”
“Peccato, perchè io ti desidero... così tanto”
Che mi desiderasse ormai lo sapevo, quello che non sapevo invece è che mi sarei ritrovata sdraiata sul letto, lui sopra di me, mentre mi baciava ora le labbra, ora il collo, e accarezzava delicatamente parti del mio corpo che nessuno aveva mai osato sfiorare. Lo incoraggiai a continuare, non opponendo alcuna resistenza.
Una serie di brividi percorse la mia schiena e mi abbandonai per un lungo istante a quelle piacevoli sensazioni, avvertendo uno strano calore invadere il mio ventre e un desiderio di lasciarmi completamente andare.
Forse era davvero arrivato il momento di togliermi tutte le curiosità che avevo sul sesso, ma invece di approfittarne pensai che per Deleric fosse qualcosa di molto più importante che un mero atto fisico, non potevo sfruttare lo stato in cui era e ciò che provava per me, dovevo dirgli la verità, dovevo dirgli che era tutta colpa mia se suo fratello era malato.
“Devo dirti una cosa” mormorai senza troppa convinzione.
“Puoi dirmela dopo? O forse non ti piacciono i miei baci?” domandò conoscendo già la risposta. Non l’avevo mai respinto e avevo invece sempre ricambiato quelle sue manifestazioni di affetto.
“Forse non ti piace quando ti accarezzo?” chiese sfiorando una zona sensibile.
Un leggero gemito sfuggì dalle mie labbra. Mi piaceva, eccome.
“So di non avere molta esperienza” sussurrò al mio orecchio, tra un bacio e l’altro, “ma farò di tutto perché sia così bello da farti desiderare che accada di nuovo…”
Era un’aspettativa fin troppo allettante, ma sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, nonostante il mio corpo lanciasse segnali del tutto diversi.
“Aspetta!” trovai la forza di chiedergli, ricorrendo all’ultimo scampolo di lucidità rimastomi.
Per un attimo levò il capo dal mio petto ormai semi scoperto, per guardarmi negli occhi.
“So che non mi ami, Andraste… non mi importa per ora, ma forse, un giorno… ”
Non era ciò che volevo dirgli, ma riconobbi il vero Deleric: un ragazzo dolce, insicuro, che ora tentava di apparire forte e sprezzante. Il mio silenzio però diede conferma alle sue parole, e i suoi baci ripresero a infuocarmi. Non sarebbe importato nemmeno a me dell’amore, se solo non mi fossi sentita così stupidamente in colpa, convinta del fatto che lo stessi ingannando.
“Ero io quella ragazzina!” confessai di getto, “Ero io! Avrei potuto aiutare tuo fratello, avrei potuto guarirlo, ma non l’ho fatto!”
Alle mie parole Deleric mi lasciò andare immediatamente e balzò in piedi, guardandomi come se avesse un fantasma di fronte a sé.
“Non ho intenzione di giustificarmi, avrei voluto aiutarlo, ma se mi fossi esposta mi avrebbero catturata e adesso sarei rinchiusa in una torre, oppure morta!”
Lui rimase in silenzio, senza interrompermi, ma con un espressione tale da farmi dubitare che mi stesse realmente ascoltando. Comunque continuai a parlare.
“D’istinto mi sarei precipitata a guarirlo, ma mia madre me lo ha impedito, l’hai visto tu stesso, e sono convinta che sia stata la scelta migliore per me”
Evitai di dirgli che il ricordo di quel giorno mi stava ancora tormentando, che mi sentivo in colpa per non avere aiutato quel ragazzino che avevo condannato a una vita infelice, e con lui tutta la sua famiglia.
“Quindi come vedi la ragazza che hai tanto idealizzato non esiste, siamo tutti egoisti a questo mondo,  ognuno pensa per sé ed è giusto che sia così” affermai convinta.
Restai immobile qualche secondo, aspettando una qualunque sua reazione.
Mi sarei aspettata collera, tristezza, grida, aggressività.
Non una parola lasciò le sue labbra fino a quando mi sollevai dal letto e mi avvicinai a lui, sostenendo il suo sguardo, con espressione ferma, decisa a non mostrarmi fragile come in realtà mi sentivo in quel momento.
“Vattene” mi intimò con un filo di voce.
Ecco, me lo aspettavo, certo, eppure andai in pezzi lo stesso, come se una freccia avesse trapassato il delicato cristallo di cui era formato il mio cuore.
Mi sistemai le vesti senza obiettare, e abbandonai la sua stanza senza pretendere null’altro.
Nel corridoio incrociai Feron. Mi aveva sicuramente vista uscire dalla camera di Deleric, ma non mi importava. Così come non mi importava che avesse notato anche delle lacrime rigarmi le guance.
Poco dopo, dal mio letto, sentii la porta della camera di Deleric sbattere e dei passi veloci, i suoi passi, raggiungere l’uscita della taverna.
 
**********************
 
“Forse non sei ancora guarita del tutto”
Zevran era molto preoccupato, la sua regina arrancava a ogni passo. Era visibilmente provata, si sentiva continuamente stanca e continuava ad accusare nausee e capogiri.
“Sopravviverò” lo rassicurava lei, se così si poteva dire, ogni qualvolta lui manifestava apprensione per le sue condizioni.
Liraya osservava divertita quelle scenette che si ripetevano a cadenza regolare, a ogni  sospiro che lasciava le labbra di Lavriella. Le sembrava quasi di rivedere Fenris quando si era comportato allo stesso modo nei suoi confronti.
“Denerim non è lontana” continuava a ripetere la regina, fino quando la città non fu davvero di fronte a loro.
 
“La regina è tornata!” annunciarono al castello, mentre Leliana entrava nelle stanze reali per parlare con Alistair. Un messo la precedette, avvisando il re che la sua sposa chiedeva di vederlo.
Adesso che Lavriella era tornata, forse non era il caso di parlare con lui, doveva avvertire piuttosto la sua amica. La rossa scese nel salone con meno fretta del re a dire il vero.
Quest’ultimo si precipitò da sua moglie come se avesse creduto fino a quel momento che non l’avrebbe più rivista.
“Amore mio!” lo chiamò lei prima di gettarsi tra le sue braccia. Le era mancato terribilmente.
Alistair abbracciò la sua regina, respirando il suo profumo come fosse un candido giglio, e mentre la teneva stretta il suo sguardo incrociò quello dell’elfo che era appena entrato nella stanza.
Zevran osservò a distanza l’incontro tra i due consorti. Come al solito vedeva lei tra le braccia di un altro. Col tempo avrebbe dovuto fare meno male, si sarebbe dovuto abituare… e invece…
Cercò di non pensare alla fitta allo stomaco e avanzò verso la coppia per salutare a sua volta il re, accompagnato da Liraya.
“Hawke! Incredibile! Cosa ci ti porta a Denerim?” esclamò Alistair sorpreso, dopo aver salutato Zevran con un freddo cenno del capo.
La maga evitò di dare una risposta diretta. Lavriella per fortuna le venne in aiuto mentre divagava apprezzando l’architettura della città, la bellezza del paesaggio e il calore della gente.
“L’ho invitata io, ma se non ti dispiace vorrei che ne parlassimo domani, adesso sono davvero stanca e vorrei andare a dormire” spiegò la regina. Non era ancora pronta a raccontargli tutta la verità e a quanto pareva lui non aveva ancora incontrato la ragazza. Prima voleva godersi l’ultima notte di serenità assieme a lui. L’ultima notte… forse l’indomani l’avrebbe ripudiata e allontanata per sempre, o peggio ancora l’avrebbe tenuta con sé ma ignorata per il resto della sua vita.
Lavriella non potè trattenere la sua sorpresa nel vedere Sten e Leliana. Corse ad abbracciare l’amica e salutò gentilmente il qunari, poi lo portò ad ammirare i dipinti che aveva scelto per lui. Il gigante apprezzò molto, anche se come al solito non lo diede a vedere, poi si ritirò nella stanza che avevano preparato per lui. Sarebbe partito pochi giorni dopo, aveva detto. Certo era di poche parole, eppure Lavriella apprezzava quella compagnia silenziosa ma allo stesso tempo presente e persino ingombrate. Con Sten  si sentiva stranamente al sicuro e in un certo senso era grata che fosse lì come suo sostegno, sarebbe stato utile nel caso ci fossero stati problemi. Sperava che non l’avrebbe giudicata e sarebbe stato dalla sua parte, in fondo aveva giurato di esserle fedele e i suoi giuramenti erano a vita.
Ma era presente anche Leliana. Per quanto fosse felice di vederla, sapeva che lei non avrebbe approvato la sua scelta. Certo, la stessa Leliana non era perfetta ed aveva infranto un mucchio di regole e di leggi, ma la sua fiducia nella Chiesa le diceva che avrebbe trovato il ricorrere alla magia del sangue un atto aberrante. E non aveva tutti i torti.
Eppure… con chi avrebbe potuto confidarsi, se non con lei? Certo, ne aveva parlato con Zevran e lui aveva capito, anzi, era grato che avesse preso quella decisione e che non avesse sacrificato la sua vita, ma forse le serviva un punto di vista femminile. Hawke non aveva osato esprimersi, ma aveva acconsentito ad aiutarla. Chi altri aveva lei? Shianni? Lanaya?  No, aveva bisogno di parlare con una donna che avesse vissuto fianco a fianco con lei, che avesse combattuto con lei e che sapesse cosa si provasse a dover scegliere tra la propria vita e un bene superiore. Lei era stata codarda e aveva scelto per sé stessa, magari Leliana non lo sarebbe stata. Doveva parlarle.
L’orlesiana l’attendeva nel salone ormai vuoto, davanti al camino.
“Devo parlarti” si dissero quasi contemporaneamente, appena la regina entrò nella stanza.
Lavriella la invitò a parlare per prima e ben presto scoprì che l’argomento era lo stesso che aveva intenzione di affrontare lei.
“E’ la figlia di Alistair, vero?” bisbigliò la rossa, quasi come se i muri potessero avere orecchie.
Lavriella si limitò ad annuire e ad abbassare lo sguardo. Si aspettava di essere sgridata, di essere chiamata irresponsabile, incosciente, vigliacca, quasi come fosse una bambina disobbediente, invece non un solo rimprovero uscì dalle labbra dell’amica. Solo un sospiro e una domanda che non trovò risposta:
“E adesso?”
Adesso lo avrebbe detto ad Alistar, gli avrebbe raccontato ogni cosa, pensò la regina.
Le lacrime sgorgarono ancora una volta inarrestabili, poi si fece consolare dalle braccia della donna della quale aveva dubitato fino a pochi istanti prima, raccontandole tutta la verità. Era stata comprensiva, o almeno così le era sembrato. Si augurò di aver sbagliato a non riporre la sua fiducia anche nei confronti di Alistair, ma dentro di sé sentiva che con lui sarebbe stato diverso, molto diverso.
 
“Non voglio sapere dove siete stati, né cosa avete fatto” disse il re all’elfo che l’aveva raggiunto in camera dopo che l’aveva fatto chiamare, “voglio solo sapere se è stata una sua idea portarti con sé o se hai insistito tu per andare con lei”.
Quel piccolo dettaglio era l’unica cosa che gli interessava?
Zevran alzò un sopracciglio, meravigliato da quanta fiducia avesse Alistair non tanto in sua moglie, quanto in lui. Come poteva sapere che non si era approfittato di lei? Forse lo pensava ma non voleva saperlo. Non poteva biasimarlo.
“E’ stata una sua idea” confessò non senza soddisfazione, prendendosi una piccola rivincita sull’uomo che suo malgrado lo teneva lontano dalla realizzazione del suo unico sogno.
Il re tacque, gli occhi nocciola bassi e il viso inespressivo.
“Ma c’è qualcosa che devo assolutamente dirti” continuò l’elfo, “Lavriella non sta bene”
La preoccupazione si fece visibile sul volto del re.
“Che vuoi dire?”
“Ha avuto una forte febbre, si è ripresa ma da allora continua ad avere nausee, capogiri, debolezza… un giorno pare stare bene, come oggi, ma il giorno dopo sta male di nuovo. Lei continua a dire che non è niente ma io sono spaventato…”
Sì, era spaventato, non semplicemente preoccupato. L’idea di perderla lo sconvolgeva a tal punto che aveva deciso di parlarne a suo marito per paura che lei gli tacesse i suoi sintomi e li trascurasse fino a che fosse stato troppo tardi. Forse a lui avrebbe dato ascolto. Si morse le labbra ammettendo con sé stesso ancora una volta che Lavriella dava più importanza a suo marito che al suo amico elfo, come d’altronde doveva essere.
“Grazie per avermelo detto” si limitò a rispondere il re, “domani la farò visitare da un guaritore, adesso, per favore, vai”
Lo congedò dandogli le spalle. Era geloso di Zevran, ma non era una novità. L’idea che sua moglie si fidasse a tal punto di lui da volerlo con sé ovunque andasse lo faceva impazzire, sempre che l’elfo avesse detto la verità -aveva notato il ghigno soddisfatto quando gli aveva confermato che era stata lei a chiedergli di accompagnarla-, ma la notizia che lei stesse male offuscò quel sentimento. Le avrebbe chiesto spiegazioni quella notte stessa, anche se lei voleva rimandare la chiacchiere al giorno dopo.
 
Era molto tardi quando Lavriella finalmente entrò nella sua camera, gli occhi gonfi e l’aria provata, comunque bellissima nella sua lunga camicia da notte.
“Zevran mi ha detto che non stai bene…” accennò Alistair. Avrebbe continuato a chiedere se lei non l’avesse zittito con un bacio.
“Sto bene, ma rimandiamo le discussioni a domani, ti prego” lo implorò, “adesso ho voglia di farti capire quanto mi sei mancato” aggiunse portandolo a sdraiarsi sul letto e mettendosi a cavalcioni su di lui.
Alistair non riuscì ad opporsi a quel desiderio, slacciò i suoi pantaloni e sollevando appena la morbida seta della camicia scivolò dentro di lei, mentre un gemito accompagnò quel movimento sapiente del bacino che lo accolse avido di piacere.

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Capitolo 24
*** Sorriso ***


Quando aprì gli occhi la sua regina non era accanto a lui, nel grande letto della loro camera.
Si erano addormentati, esausti, dopo aver fatto l'amore, rinviando ogni preoccupazione al giorno successivo, ma il primo pensiero di Alistair ora era sincerarsi delle condizioni di salute di sua moglie. Con suo grande stupore, però, non l'aveva trovata al risveglio. Avrebbe voluto iniziare la giornata accarezzando la sua guancia delicata ma evidentemente si era alzata presto. Sembrava volesse evitare a ogni costo di affrontare quella conversazione. Forse perchè non trovava il coraggio di arrecargli un dolore... stava davvero così male?
Si vestì in tutta fretta e andò a cercarla. Probabilmente era andata a trovare i bambini.
 
Goldanna si era trasferita a palazzo con i suoi figli subito dopo il matrimonio reale. Nonostante non avesse simpatia per suo fratello, essere la sorella del Re aveva i suoi vantaggi. Aveva capito subito che Alistair avrebbe fatto di tutto per lei, per l'unico legame di sangue che gli restava, e ne aveva approfittato. Era stata abbandonata dal marito dopo la nascita dell'ultima bambina e le serviva disperatamente aiuto, l'orgoglio non le avrebbe dato da mangiare. Ben presto però avere buon cibo, bei vestiti e una bella casa per sé e i suoi cinque figli non fu più la sua unica ambizione. Il re non aveva eredi e questo, di fatto, designava come suo successore uno dei suoi nipoti. Sarebbe diventata Regina Madre un giorno, magari non troppo lontano.
Alistair provava affetto per i suoi nipoti. Due maschi e tre femmine, due delle quali, di 24 e 22 anni,  erano già sposate da tempo. La più piccola, quasi diciannovenne, sarebbe andata presto in sposa a un ricco Lord, sempre che non fosse scappata come le altre due che avevano avuto matrimoni abbastanza sfortunati, essendosi rifiutate di seguire i consigli spassionati dello zio e della madre stessa, che le voleva sposate a dei nobili.  Le ragazze erano tanto carine quanto sciocche: quegli uomini, due cugini, avevano fiutato l'affare e non se l'erano lasciato sfuggire, ingravidandole anzitempo. I mariti sfaccendati si erano dunque infine trasferiti al castello, non potendo offrire alle mogli una vita dignitosa, ma in cambio avevano donato alle consorti due bambini ciascuna.
I maschi erano altrettanto frivoli e superficiali. Il più grande era interessato solo a inseguir gonnelle e di sposarsi o quantomeno studiare per prepararsi a sedere sul trono non ne voleva sapere, nonostante avesse già 26 anni. Il secondo invece aveva 20 anni, amava blaterare di guerre e battaglie e diceva di voler diventare un soldato, eppure durante un banale allenamento si era graffiato una guancia e lo spavento era stato tale da farlo fuggire a piagnucolare dalla madre, che aveva inveito contro la sventurata guardia che aveva osato sfigurare il suo bambino, arrivando perfino a pretendere dal Re che fosse severamente punita. Non era stato facile riuscire a calmarla e a convincerla che erano incidenti che potevano capitare. Era dovuta intervenire Lavriella, che le aveva parlato con quel suo fare persuasivo, incantando soprattutto il nipote che aveva soggezione o forse una sorta di debole per lei, e la faccenda era stata archiviata.
Comunque generalmente Goldanna non sopportava la cognata, nonostante andasse spesso a trovare i nipoti e i pronipoti, ma faceva buon viso a cattivo gioco, non aveva altra scelta.
Ogni giorno presenziava alle udienze, se non altro per avere qualcosa su cui spettegolare poi con le figlie e le dame da compagnia, e la invidiava, seduta su quel trono accanto al Re che presto avrebbe potuto essere riservato alla madre del sovrano. Sapevano tutti che i Custodi grigi non vivevano a lungo...

Quel giorno Lavriella non era passata dai bambini. Alistair la cercò ovunque, non si era presentata nemmeno a colazione. Stava per bussare alla porta dell'unica stanza che non aveva controllato, rifiutando fino a quel momento l'idea che potesse essere lì e venendo a patti con la consapevolezza che fosse il luogo più probabile in cui trovarla dopo i recenti avvenimenti, quando si rese conto che non era chiusa a chiave. Spalancò la porta e vide la sua regina tra le braccia di Zevran, stretta a lui in un abbraccio che lo colpì come un pugno allo stomaco.  C'era un sorriso su quelle labbra. Un sorriso non sprezzante come al solito, sulle labbra di quell'elfo.
Dal corridoio un paggio avvertiva il Re che le udienze stavano per cominciare.
Alistair richiuse velocemente la porta, senza dire una parola, così come l'aveva aperta, nell'istante in cui sua moglie si accorse dell'intrusione.
La presenza dei paggi nel corridoio la fece desistere dall'inseguirlo, ma era sicura che la scena a cui aveva appena assistito lo avesse sconvolto.
 
***************
I giorni erano volati. Non avevo più visto Deleric, ma me lo aspettavo. Avevo distrutto in un solo istante anni di illusioni, di sogni, avevo strappato via il senso del suo viaggio e ciò che gli aveva dato la forza di andare avanti gli ultimi cinque anni.
Non credevo che sarebbe successo, ma mi mancava, mentre osservavo il soffitto dal mio letto alla locanda. Era notte fonda, la luce di una candela mi permetteva di distinguere i particolari di quella stanza diventata ormai familiare. C'erano i mobili pregiati in legno, le coperte di broccato, le lenzuola di fine lino... e c'era il ricordo di Deleric su lenzuola altrettanto morbide, il suo profumo, i suoi baci e le sue carezze...
Senza che me ne rendessi conto, iniziai a sfiorare i punti che aveva sfiorato lui. Accarezzai il mio corpo imitandone il tocco leggero ma deciso, ripercorrendone lentamente la traiettoria, le dita esploratrici, spingendomi dove nemmeno lui era arrivato, sotto i tessuti che mi coprivano, alla ricerca di un piacere che non avevo mai assaporato. Un flebile gemito abbandonò le mie labbra, un attimo prima che bussassero alla mia porta.
Feron dovette intuire il mio imbarazzo, visto che il rossore sul mio viso era palese anche alla fioca luce della candela.
"Andraste, ti senti bene?"
Lo rassicurai e dopo qualche profondo respiro domandai il motivo della sua visita.
"Ero solo preoccupato per te. Domani è il grande giorno... finalmente c'è l'udienza."
Annuii.
"Non riesco a dormire. Non so nemmeno perchè sia così nervosa. Dopotutto che ho da perdere?"
'Non avevo un padre prima, non avrò un padre nemmeno dopo, se mi rifiuterà' aggiunsi nei miei pensieri. Non sapevo ancora esattamente se gli avrei confessato tutto o mi sarei limitata semplicemente a guardarlo, sul suo trono, in quegli occhi che dicevano così simili ai miei.
"Ti capisco, non succede di certo tutti i giorni di incontrare un re. La tua ansia è comprensibile, ma vedrai che andrà tutto bene" mi consolò Feron.
Gli permisi di sedersi sul letto accanto a me e lui mi chiese ciò che non volevo sentire e che avevo sperato di evitare in tutti quei giorni.
"Cosa è successo tra te e Deleric? Perché è andato via?"
Il suo tono era incerto. Sembrava allo stesso tempo curioso di saperlo e spaventato dall'eventuale risposta.
Mi strinsi nelle spalle, cercando di assumere un'espressione neutra. La verità era che mi sentivo in colpa e tuttavia anche arrabbiata. Come pensavo, amava solo il ricordo di una ragazzina che non era mai esistita, il viaggio insieme non lo aveva portato ad amare la vera Andraste, non contavo nulla per lui una volta dimostrato che non corrispondevo all'ideale che si era costruito negli anni.
"Perché eri in camera sua?" incalzò Feron.
"Ero andata a parlare con lui ma era ubriaco... e ha pensato che fossi andata per fare l'amore con lui"
Il ladro balzò in piedi.
"Cosa ti ha fatto quel verme? Perché non me lo hai detto? Ti giuro che lo troverò e lo ammazzerò!"
Lo guardai accigliata.
"Sei alquanto offensivo. Dai per scontato che io non fossi d'accordo, e poi dovresti sapere che se lo avessi voluto morto, ci avrei pensato io stessa. Per favore, ora torna a sedere accanto a me"
Lui obbedì.
"Quindi voi avete...?" non completò la frase.
Scossi il capo. "Non è successo. Anzi, a dire il vero, sono stata io a fargli del male" ammisi infine, a lui e a me stessa.
Feron sembrava perplesso. Si scusò per il suo comportamento di poco prima, poiché memore delle mie lacrime aveva pensato al peggio ed era scattato in lui un istinto di protezione che riservava a tutte le persone a cui teneva. Provò a chiedermi in che modo avessi ferito Deleric, ma io cambiai rapidamente argomento, evitando anche di dirgli che in realtà ci era mancato poco affinché passassimo la notte insieme. Rispettò la mia reticenza e non insistette, poi tirò fuori un pacchetto dalla tasca.
"Questo è per te"
Me lo porse, con il suo bel sorriso e gli occhi smeraldini, resi lucenti dalla fiammella.
Presi il pacchetto, alquanto stupita, ed esaminai il contenuto: il nastro blu che avevo visto al mercato appena arrivati a Denerim. Mi illuminai. Non avevo osato ammetterlo prima, ma quel nastro mi piaceva. Non dissi nulla, ma lasciai che me lo mettesse al collo, annodandolo con un grazioso fiocco. Stonava un po' con gli abiti semplici che indossavo, ma non importava.
Mi avvicinai allo specchio e mi ammirai, in un guizzo di vanità che mi ero concessa ben poche volte.
"Sei bellissima" sentii alle mie spalle.
Feron si era avvicinato e se ne stava in piedi dietro di me, a sorridermi attraverso lo specchio, e io indugiai più del dovuto non su me stessa ma sui suoi occhi, e le sue labbra...
Un altro passo, mi cinse delicatamente la vita. Avvicinando il viso al mio orecchio, sussurrò il mio nome.
"Andraste, io..."
Non gli permisi di finire la frase. Mi voltai e lo baciai.
 
 
 
 
 
 
 
Eccomi qui, dopo fin troppi anni dall'ultimo capitolo. Avevo interrotto la ff dopo aver perso il computer su cui avevo già scritto un altro paio di capitoli e tutti gli appunti sulla storia. Ma in questi ultimi tempi ho sentito di nuovo l'esigenza di scrivere e più che altro di portare a compimento qualcosa che avevo iniziato e mai finito. Essendo passato tanto tempo, faccio fatica a ricordare molti piccoli particolari dell'universo, ma ho cercato e cercherò di restare coerente e convincente. Spero ci sia ancora qualcuno a cui il mio ritorno sia gradito e spero di essere ancora all’altezza.

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Capitolo 25
*** Udienza ***


Era come cadere nel vuoto. Una strana sensazione allo stomaco, mai provata prima. Fino a quel momento, non avrei mai creduto che mi sarei lasciata andare così facilmente, ma non trovavo una ragione logica per resistere a quel piacere che ormai agognavo da tempo. Le sue mani scivolavano sulla mia schiena e le sue braccia mi cingevano in una stretta che ricambiavo avidamente, premendo il mio corpo contro il suo. Mi accorsi che tremavo. Ero turbata, sì, da quanto fosse tutto al di là delle mie aspettative, così bello che non riuscivo a smettere di baciarlo o a staccarmi da lui. Fu Feron a farlo.
“Andraste, sei sicura?”, mi chiese, mentre tenendolo per mano lo accompagnavo verso il letto.
Non ero mai stata così sicura. Mi rendevo conto che finalmente non ero più solo una spettatrice passiva, non era stato il mio primo bacio ma stavolta avevo preso io l’iniziativa.
“Tu e Deleric… io non voglio essere un ripiego”, aggiunse quasi in un sussurro.
Scossi la testa, in un movimento deciso.
“Non lo sei. E’ con te che voglio stare”
Avrei dovuto specificare “per stanotte” o “per tutta la vita”? Quello non lo sapevo nemmeno io. Sapevo invece che desideravo Feron con tutta me stessa, probabilmente dalla prima volta che lo avevo visto, solo che ci avevo messo troppo a capirlo.
Mi sdraiai sul letto, lasciandogli slacciare i pantaloni mentre sfilavo la mia camicia. Pochi istanti e sentii il suo corpo nudo avvinghiarsi al mio e le sue labbra infuocate indugiare sul mio collo, sul seno, sul ventre.
Le mie mani gli accarezzarono le spalle, per poi risalire e sciogliere la sua treccia. I capelli selvaggi profumavano di pioggia, di terra, e acqua. Era il lago Celestine, ero a casa. Chiusi gli occhi e affondai le dita in quei morbidi fili di seta.
I brividi, i gemiti, le mie cosce ricoperte di baci, la sua lingua inaspettatamente insinuata dove non avrei mai osato immaginare… non avevo mai provato nulla di simile. Mi sentivo diversa, ero davvero Andreste? Quella stessa ragazza cresciuta in una grotta, circondata solo da boschi e animali, il cui l’unico contatto umano era stata una madre che l’aveva sempre messa in guardia da tutti quei sentimenti che stava provando in quel momento? Perché non era solo mero piacere, no, per quanto intenso fosse.
Ne fui certa nel momento in cui lui entrò dentro di me, in quel mio sussulto mi sentii rinascere. Mi sentivo, per la prima volta, viva.

**********************

“Alistair! Aspetta!”
Lavriella alla fine aveva deciso di riconcorrere il suo Re, ma non era riuscita a fermarlo. Non si era voluto fermare, in realtà, perché sebbene avesse un bel po’ di vantaggio, l’aveva sentita, ne era sicura. Ma l’aveva ignorata. Le udienze stavano per iniziare, non avrebbe più avuto occasione di parlare in privato con lui, se non a fine giornata.
Fu raggiunta da una dama di corte che le annunciava di aver ricevuto l’ordine di scortarla nelle sue stanze, per essere visitata da un guaritore. Ma la Regina non ne volle sapere, non se ne sarebbe stata buona nelle sue stanze in attesa che il marito terminasse i suoi impegni. Voleva presenziare accanto a lui, come aveva sempre fatto, e non avrebbe certo iniziato quel giorno a cambiare le sue abitudini. Inoltre era preoccupata per tanti motivi: la probabile presenza in città della figlia di Morrigan -la figlia di Alistair, doveva iniziare a venire a patti con questa precisazione-, ciò che aveva visto suo marito poco prima e infine le sue condizioni… che non potevano essere trascurate o taciute ancora per molto.
Si cambiò velocemente d’abito e raggiunse la sala del Trono, dove il Re si era già seduto. Prese posto accanto a lui, ma non la degnò di uno sguardo. Sapeva che Alistair era testardo quando voleva, ma sembrava quasi crudele quella sua freddezza, stavolta. Era conscia che non le avrebbe tenuto il muso per sempre, tuttavia gli doveva una spiegazione, anzi, più di una… Si vergognò di aver pensato che fosse lui quello crudele. Se gli avesse davvero spiegato tutto, avrebbe avuto ragione a non guardarla in faccia mai più.
Senza proferire parola, abbassò lo sguardo e attese in silenzio lo svolgersi delle incombenze reali.

***************

Hawke era arrivata da qualche ora a Denerim, quando Fenris l’aveva raggiunta. Si erano dovuti fermare parecchi giorni per via della salute di Lavriella e il viaggio era durato più a lungo de previsto.
“Stanno bene, sono con Lanaya al campo Dalish” la riassicurò, senza che lei nemmeno dovesse chiedere.
Hawke annuì, rimirando il grande camino del salone che andava svuotandosi. Le ricordava quello di casa Amell, che era poi diventata casa sua, anche se per troppo poco tempo, in cui ora viveva Varric.
“Sentiranno un po’ la nostra mancanza, ma saranno anche felici di conoscere tante nuove persone e di poter giocare con altri ragazzini della loro età”. Sorrise al suo bell’elfo. “Inoltre potranno finalmente scorrazzare indisturbati senza che nessuno gli dica continuamente di stare attenti agli eretici pazzi”, lo canzonò scherzosamente.
I bambini non erano abituati a stare a lungo da soli, erano cresciuti coi loro genitori e le poche visite erano comunque sempre di altri adulti, a parte Maisie, e supervisionate da mamma e papà. Hawke immaginò che per loro dovesse essere una sorta di esperienza formativa, gli avrebbe fatto bene e li avrebbe aiutati ad abituarsi di più al mondo. Non sarebbero stati nascosti sulle montagne per sempre, avevano diritto a vivere la loro vita come meglio credevano, quando sarebbero stati abbastanza grandi da provvedere al loro stessi. Certo, Bethany non avrebbe avuto esattamente la strada spianata, dato il suo dono, ma sarebbe diventata una donna in gamba, aveva molta fiducia in lei, così come in Carver. Presto sarebbe cresciuto e sarebbe diventato anche lui un abile guerriero, come suo padre. Già molte volte Carver aveva mostrato interesse e aveva chiesto a Fenris di insegnargli a combattere e, seppur ancora con difficoltà, aveva iniziato a imparare le prime posizioni, mentre Bethany con Hawke si allenava a controllare la sua magia.
Non li avevano mai forzati, comunque, ad addestrarsi. Erano ancora piccoli, dopotutto, ma il loro interesse era genuino. Buon sangue non mente, si ripeteva sempre Hawke, guardandoli fare progressi. E un giorno avrebbero spiccato il volo anche loro. L’unica cosa che sperava era che fossero felici e liberi di scegliere che vita vivere.
“Mi sei mancata da morire”, le confessò Fenris. La guardava con quegli occhi grandi, intrisi di desiderio e dolcezza.
“Adoro quando mi guardi come un Mabari guarda un osso di agnello”, lo punzecchiò Liraya.
L’elfo incrociò le braccia, alzando un sopracciglio.
“No? Non è vero? Oh, Fenris, come puoi negarlo, suvvia, smettila di sbavare…”
C’era solo un modo per zittirla per quanto adorasse sentire tutte quelle sciocchezze -che non erano poi così lontane dalla realtà- e così passò all’azione: d’impeto, l’elfo la prese e la strinse tra le braccia, baciandola con foga. Lei riusciva a scatenare davvero il Mabari o forse il lupo che era in lui, un lupo che non bramava sangue o vendetta, un lupo che bramava solo le sue labbra, le sue carezze, soltanto le sue: lei era l’unica che potesse renderlo mansueto e tuttavia non aveva nulla a che fare con l’asservimento imposto da Danarius. Era stato lui a scegliere la sua “padrona”, eppure solo con lei si sentiva libero, divorandola di baci.
Mordicchiò le sue labbra e il suo collo, mentre le mani si insinuavano sotto la camicia fino a stringere quel seno florido, finché si rese conto che quella sala comune non offriva esattamente la giusta discrezione. Uno dei servitori aveva la mascella spalancata e se ne stava immobile ad assistere allo spettacolo, mentre un’altra si copriva il viso tutto rosso.
Erano ospiti della Regina e per tanto si trovavano al palazzo reale. Appena arrivati e già rischiavano d’essere cacciati.
“Dovremmo calmare i bollenti spiriti” ridacchiò Hawke, accortasi dello scalpore che avevano suscitato.
“I-io… hmmm, penso tu abbia ragione” rispose Fenris, facendo faticosamente un passo indietro.
“Dunque, io e te a Denerim… senza bambini… completamente soli. Non succedeva da anni, ci sono tante cose che potremmo fare, eri mai stato qui? Ovviamente no, certo che no, potremmo visitare la città” propose lei.
Fenris annuì visibilmente deluso, per poi ritrovarsi poco dopo con Hawke nella stanza che aveva assegnato loro la Regina, sudato e ansimante, soddisfatto per aver fatto l‘unica cosa a cui aveva pensato durante il tragitto tra la foresta di Brecillian e Denerim.
“Visitare la città…” Hawke scoppiò in una risata. “Ci avevi creduto davvero?”
“Per un attimo sì, ma ero sicuro che alla fine avremmo trovato qualcosa di più urgente da fare.” Le accarezzò i capelli, spostandole la solita ciocca irriverente dal viso.
“Ah, ma se vuoi possiamo davvero uscire di qui e andare a visitare il magnifico e sterrato cortile della chiesa, penso manchi giusto qualche altro schizzo di fango per adeguare finalmente i miei stivali alla raffinata moda della capitale”
Gli sorrise sorniona, riprendendo a baciarlo dappertutto, finché lui non fu di nuovo sopra di lei.
“Vista una chiesa, le hai viste tutte”, le rispose, sollevandole le gambe sulle sue spalle.
 
Era già mattino.
Avevano dormito poco, avevano sentito il bisogno di esserci l’uno per l’altra. Era passato molto tempo da quando erano stati in una stanza tanto spaziosa e sfarzosa, si erano abituati a una vita frugale ma non c’era nulla di male a godersi un po’ di lusso, in memoria dei vecchi tempi. Mentre si vestivano, si sentirono un po’ in colpa per non aver portato anche i bambini a godere di quelle stanze con tappeti morbidi e tende di velluto, e quel cibo ricco e disgustosamente buono.
“Se sapesse che abbiamo mangiato queste ciambelle senza di lei, Bethany ci darebbe fuoco”, affermò Hawke con aria abbastanza seria.
Stavolta fu Fenris a sdrammatizzare. “Stai forse ammettendo che non siamo bravi a cucinare?”  
Le sorrise e le baciò una guancia. “Torneremo presto da loro vedrai”
Sapeva che le mancavano i figli, era normale, per quanto fosse felice di stare per un po’ da sola con lui. Del resto, per Fenris era lo stesso.
Non sapevano ancora esattamente cosa li attendesse. Non avevano modo di prevederlo e l’attesa avrebbe potuto essere snervante, per fortuna avevano dimostrato di saperla ingannarla bene, finché era arrivato il momento di raggiungere Lavriella.
Fu detto loro che la Regina era nella sala del trono per le udienze, così la raggiunsero e si accomodarono sulla balconata, accanto a Goldanna, presentatale come la sorella del Re. Non aveva certo dimenticato che in teoria erano ricercati, godevano comunque della protezione dei sovrani, ma era meglio non suscitare inutile scalpore e presentarsi con nomi falsi. Per quanto fosse peculiare l’aspetto di Fenris, finché se ne stava avvolto in un mantello poteva facilmente passare inosservato, mentre lei ormai non corrispondeva più all’immagine scolpita nei ricordi di chi aveva visto il suo volto tanti anni prima, dopotutto era invecchiata, anche se, a sentire Fenris, era ancora stupenda come quando si erano conosciuti. E poi non aveva più l’abitudine di andarsene in giro coperta di sangue.

******************

Non avevo chiuso occhio. Il sole non era ancora sorto, ma entro poche ore sarei stata all’udienza.
Ero nervosa, sebbene la notte con Feron fosse stata la più bella della mia vita. Lo osservavo dormire, con la treccia finalmente sciolta, i capelli sparpagliati come piume di corvo, il petto statuario che si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro.
La notte più bella della mia vita e anche la più spaventosa. Non sapevo cosa mi sarei dovuta aspettare l’indomani. Cosa avrebbe pensato mio padre di me? Avrei trovato le parole per dirgli che ero sua figlia? Di certo non ero un tipo troppo timido, ma non sarei stata da sola, ci sarebbero state decine di persone. E se ci fosse stata anche la Regina? Lei… lei che sapeva…
Immaginai che non la prendesse bene, che mi dicesse di sparire per sempre, e che mio padre ridesse voltandomi le spalle mentre il portone si richiudeva sulla mia faccia. Scivolai in un breve sonno tormentato, dove un’immensa rabbia si impadroniva di me e mi portava a distruggere il massiccio portone e uccidere chiunque mi si parasse davanti, per poi arrivare al trono e guardare negli occhi il Re e la Regina, così piccoli e insignificanti al mio cospetto, formiche, ecco cosa sembravano, prima che una zampa deforme e artigliata li calpestasse, mentre un ruggito riecheggiava dalle mie fauci.
Fui svegliata da Feron, che mi guardava con aria preoccupata.
“Stai bene?”
Ero ancora confusa, le emozioni del sogno faticavano a dissiparsi.
“Stavi urlando” mi spiegò con apprensione, asciugandomi con un lembo del lenzuolo il sudore che imperlava la mia fronte.
“Sì… sto bene, scusami se ti ho svegliato”
Mi sollevai in cerca della brocca d’acqua. Quando ebbi bevuto un paio di sorsi, tornai tra le braccia di Feron, stringendolo a me, mentre il battito del suo cuore calmava il mio respiro. Mi abbracciò con dolcezza, accarezzandomi i capelli. Solitamente non avevo bisogno di rassicurazioni, ma quel semplice gesto mi sembrò così necessario e così indispensabile da atterrirmi. Il suo abbraccio aveva davvero tanto potere su di me? E se gli fosse successo qualcosa? Ricordavo ancora bene cosa avevo fatto quando avevo creduto di averlo perso. Avevo di nuovo voglia di fare l’amore con lui, ma stavo perdendo il controllo. Probabilmente lo avevo già perso. Riflettei su quanto mi fossi svelata con lui, quanto gli avessi permesso di entrare a fondo nella mia intimità e quanto fossi stata fragile sotto quelle carezze. Non era solo il mio corpo ad essere nudo, lo era la mia anima, la mia persona, i miei pensieri. Spogliata di tutto ciò in cui avevo creduto fino a quel momento. Non potevo permetterlo. Aveva ragione mia madre, l’amore era un costrutto per sciocchi e illusi, dovevo smettere di affidarmi a quel sentimento.
Lo respinsi gentilmente, lasciando andare quella stretta rassicurante, e gli dissi che volevo restare sola. Sembrò sorpreso, se non sconcertato dalla mia richiesta, ma non disse nulla, si limitò a rivestirsi e andare in camera sua. Sarebbe fuggito anche lui come Deleric? A quel pensiero sentivo uno strano dolore nel petto, come se qualcuno vi avesse infilato la mano e lo stesse stringendo talmente forte da stritolarlo.
 
**************************

“Quella notte, con Morrigan, com’è stata?”
La domanda lo colse alla sprovvista. In una breve pausa in quella lunga mattinata, non avrebbe potuto mai immaginare di dover rievocare un così lontano ricordo, di cui, per altro, aveva evitato di parlare per quasi vent’ anni.
“Come…? Avevi detto che non me lo avresti mai chiesto e che non lo volevi sapere”
Lo sguardo confuso del Re le lacerò l’anima. Perché lo stava torturando così? Perché si stava torturando così? Cosa mai avrebbe cambiato sapere cosa aveva provato con lei? Forse, se gli fosse piaciuto, si sarebbe sentita meno in colpa? Avrebbe giustificato in qualche modo la sua tremenda bugia? Avrebbe segnato un punto su un immaginario tabellone per cui si sarebbero potuti dire pari? No. Era stata lei a convincerlo a farlo, tutto quello che era successo a partire da quella notte era soltanto colpa sua.
Alistair non aveva risposto alla domanda di Lavriella. Né ne aveva poste altre. Restò nel suo silenzio. Finché un pensiero si affacciò nella sua mente. Un pensiero tremendo, che avrebbe voluto cacciare via con tutte le sue forze, ma che ormai era impossibile da mandare via. Glielo aveva chiesto perché forse adesso aveva finalmente pareggiato i conti? Si era sentito in debito con lei per anni per quella notte. Aveva fatto di tutto per farsi perdonare anche se lei non glielo aveva mai fatto pesare, anzi si era sempre scusata per avergli chiesto di fare qualcosa di così sgradevole per lui e lo aveva sempre ringraziato per aver accettato e salvato le loro vite, seppur non avesse mai compreso bene in che modo fosse accaduto. Ma sapeva quanto lo amava e sapeva, come del resto era per lui, quanto fosse terribile il solo pensiero di immaginarlo tra le braccia di un’altra e si erano accordati sul non pensarci e non parlarne mai più. Si era adoperato affinché lei non avesse mai dubbi sul suo amore per lei, sul suo desiderio per l’unica donna che aveva mai voluto nel suo letto e avrebbe sempre scelto per tutta la vita, ma gli impegni dovuti alla Corona e all’Ordine dei Custodi Grigi lo avevano portato a starle spesso lontano, a trascurarla... Cos’era successo mentre era in viaggio con Zevran? No, non poteva dubitare il quel modo della sua Regina, non di nuovo*, anche se in quella occasione non aveva mai dato voce a quei pensieri, che erano sfumati rapidamente.
Eppure non aveva mai dubitato di lei quando erano due semplici Custodi Grigi: l’aveva sempre seguita ovunque e si era affidato a lei per ogni decisione. Ricordò quando aveva visto quella rosa a Lothering e aveva immediatamente pensato a lei. Era ancora la sua bella rosa, delicata ma allo stesso tempo così resistente, così perfetta, sbocciata in un mondo corrotto, tuttavia splendente e rigogliosa. E adesso non riusciva nemmeno a guardarla negli occhi, qualcosa in lei sembrava cambiato, sembrava urlargli che lei non lo amava più, che aveva finalmente ceduto a quell’amore passionale e così intenso che non aveva nessun paragone, consapevole di quanto Zevran anelasse ad ottenerlo. O forse stava semplicemente impazzendo, forse era la corruzione dei Prole Oscura, forse gli incubi delle ultime notti erano davvero il Richiamo.
Tornò a sedersi sul trono, la sua Regina accanto a lui, e le udienze ricominciarono.

****************

Pioveva. Quale novità. Mi recai all’udienza avvolta nella mia pesante mantella col cappuccio. Con mio immenso sollievo, Feron non mi aveva abbandonata, ma accadde comunque qualcosa di inaspettato: Deleric ci stava attendendo all’entrata del palazzo. La mia sorpresa si unì a quella degli altri, tutti iniziarono immediatamente a chiedergli dove fosse finito per tutto quel tempo e lui rispondeva vagamente, ma non sembrava più così arrabbiato, nemmeno nei miei confronti. Mi guardò e mi sorrise, per poi avvicinarsi ed abbracciarmi. Un breve abbraccio, che però mi fece capire che non provava risentimento.
“Come stai?” mi chiese dopo avermi lasciata andare.
“Ero preoccupata per te” mi limitai a rispondere.
“Ti devo delle scuse. Ero quasi al confine con Orlais, quando ho capito quanto stupido fossi stato e sono tornato indietro. Ci ho riflettuto a lungo e ho concluso che ti ho addossato aspettative e illusioni, prendendomela con te quando la realtà non ha corrisposto con la mia fantasia“.
Deglutì, come per mandare giù un boccone amaro. Mi prese leggermente da parte e abbassò la voce.
“Le tue parole mi hanno fatto male, la tua rivelazione è stata scioccante, ma sono stato davvero ingenuo e per nulla indulgente. Ti capisco… E ci tengo a dirti che quello che provo per te non è cambiato. Spero potrai perdonarmi”
“Sono io che ti devo delle scuse. Avrei dovuto farlo”, dissi di getto.
“Cosa?”
“Avrei dovuto salvare tuo fratello. Non importa a quale costo. Avrei dovuto farlo”
Mi ritrovai a trattenere le lacrime.
La sua espressione si addolcì. Mi strinse nuovamente a sé, stavolta più a lungo, come se non si aspettasse le mie parole, ma lo rincuorassero. Ricambiai l’abbraccio. Ero felice che Deleric fosse tornato e che mi avesse perdonata. Mi sentivo, almeno in parte, più leggera.
Presi le sue mani nelle mie.
“Devo dirti un’altra cosa…”
Mi presi un momento, poi gli sussurrai qualcosa all’orecchio. Feron ci guardava in silenzio, incrociai brevemente il suo sguardo e sentii una fitta al cuore. Era triste. Lo avevo confuso, forse deluso. Dovevo parlargli e spiegargli le mie ragioni, che nemmeno io capivo bene. Mi ero sempre proclamata così aperta nel parlare di sentimenti, ma in quel momento non avrei trovato le parole, a breve avrei visto mio padre e mi sentivo sopraffatta. Deleric per un attimo rimase in silenzio. Abbassò lo sguardo e infine annuì. Aveva capito. Lo ringraziai. Sarebbe comunque venuto all’udienza insieme a noi.
Mi avvicinai a Feron e quando stavo per dirgli come stavano le cose, sentii il mio nome. Mi stavano chiamando per entrare nella sala. Era giunto il momento tanto atteso.
Ci chiesero di lasciare le armi all’ingresso e così facemmo. Cosa avrei dovuto aspettarmi? Ogni passo verso la sala del trono mi sembrava più incerto e pesante, ogni mio pensiero era incentrato sulle parole che avrei dovuto usare o sulla possibile reazione del Re. Perché desideravo così tanto che mi accettasse? Non lo sapevo, eppure eccomi lì, in quell’immenso salone illuminato da decine di candelabri e finestroni in cima all’altissimo soffitto. Delle balconate laterali permettevano ai nobili di assistere alle udienze comodamente seduti, mentre i popolani si accalcavano in piedi nelle navate secondarie e vicino al portone. In fondo alla stanza vi era il trono, avvicinandomi lentamente iniziai a distinguere le due figure principali: Il Re e la Regina del Frelden, mio padre e sua moglie.
 

“Il mio nome è Andraste”
Un brusio si diffuse, lo capivo, il mio nome non era affatto usuale.
“Maestà, voi conoscete mia madre, si chiama Morrigan.”
Abbassai il cappuccio, rivelando chiaramente il mio volto e la palese somiglianza con la loro vecchia amica.
 Il Re parve seriamente sorpreso, mentre la Regina mi fissava con gli occhi spalancati.
“Vorrei chiedervi un’udienza privata, qualora fosse possibile…”
Mi prostrai in un goffo inchino.
E così quello era mio padre. Sollevai lo sguardo quel tanto che bastava per guardarlo bene, per la prima volta in vita mia. Non era tanto vicino, ma potevo distinguere bene i suoi lineamenti. Me li ero sempre immaginati più spigolosi, più duri, più segnati dal tempo e dalle preoccupazioni, mentre quel viso invece era gentile, deciso sì ma assai meno spaventoso di quanto avessi mai creduto.
“Non c’è niente che tu non possa dire qui in questa sala” intervenne bruscamente la Regina.
Forse voleva impedirmi di rivelare la mia identità, come potevo biasimarla, in fondo? Eppure mia madre l’aveva descritta come una persona dal cuore d’oro. Ero certa che sapesse chi ero ma mi guardava con disprezzo, o forse non era disprezzo, no… era paura. Era chiaro che non avesse mai trovato il coraggio di parlare a suo marito di me.
Comunque, se conosceva mia madre, avrebbe dovuto sapere che mi avrebbe insegnato a non starmene buona e zitta, indipendentemente dalla presenza altrui. Se voleva che parlassi davanti a tutti, l’avrei accontentata.
Si rese conto infatti quasi immediatamente del suo errore. La vidi mordersi le labbra ma ormai era troppo tardi, il Re aveva annuito alle sue parole quasi automaticamente, quindi non avevo scelta. Evitai di insistere e raccolsi tutto il mio coraggio, ignorando il cuore che mi martellava nel petto.
“Sono qui perché non ho mai conosciuto mio padre”.
La Regina scattò in piedi, posando una mano sulla spalla del marito, non saprei dire se per distoglierlo dal sentire il resto o semplicemente per reggersi in piedi.
“Oh… e tuo padre è a Denerim?” rispose lui, quasi divertito. “Per il Creatore, diamo un premio a quell’uomo che ha avuto il coraggio di fare una figlia con…” si interruppe sul finale della sua battuta, spegnendo l’iniziale sorriso che lo aveva portato a empatizzare col malcapitato caduto sotto le grinfie della bellissima ma insopportabile eretica. Per quanto lei lo avesse sempre insultato dandogli più o meno velatamente del babbeo, era stato capace di fare due più due, ma era troppo turbato per non necessitare di conferme.
Gliele diedi io.
“Mia madre mi ha detto che una notte di 19 anni fa, prima del vostro matrimonio, in seguito a un vostro fugace incontro, sono stata concepita io.”
Il vociare divenne molto più intenso, la gente era sconvolta dopo avermi udito pronunciare quelle parole. Ma la più sconvolta era la Regina che a stento sembrava reggersi in piedi, pallida come un cencio. Il Re sembrava ancora frastornato.
“State dicendo che siete m-mia figlia?”
Si alzò, abbandonando la stretta della moglie, e mi venne lentamente incontro, come per osservarmi da vicino e cercare una qualche somiglianza, ma non sapevo cogliere in quel volto incredulo un segnale di gioia o di rabbia.
“Dov’è tua madre?” Chiese infine con tono pacato, dando adito alla folla di bisbigliare che il Re non aveva in fondo negato di aver passato una notte 19 anni prima con la Strega delle Selve.
Goldanna aveva fatto due rapidi calcoli. Una figlia bastarda, l’unica figlia del Re. La successione dei suoi eredi era in pericolo, doveva assolutamente fare qualcosa.
“La figlia della Strega è venuta a reclamare il trono!” Urlò.
“Dobbiamo catturarla! Vuole uccidere il Re! Vuole usurpare il trono!”
Le sue urla ben presto si unirono ad altre, mentre il panico dilagava tra i nobili e i popolani presenti, creando un coro di ingiurianti e complottisti che avevano già fatto di me un pericoloso nemico, complici le leggende sulle Selve Krokari.
“A MORTE!” Tuonò Goldanna, quasi con la bava alla bocca, sostenuta da altre voci, tanto che le guardie mi si avvicinarono, pronte ad afferrarmi al minimo segnale del Re. E per un attimo anche io pensai che lo avrebbero fatto. Tutto si svolse in pochi istanti: Feron e Deleric accorsero al mio fianco, per quanto fossero sbalorditi dalla mia dichiarazione, mentre anche Gulliack e Altelha si rivolsero al Re in mia difesa, pregandolo di non farmi del male. Solo Sadine, che tra i miei compagni di viaggio era evidentemente la più furba, se ne stava in disparte ad assistere allo spettacolo.
“A morte!” Ripeté il coro.
Avrei dovuto fulminare tutti e scappare senza voltarmi indietro? La rabbia e la paura stavano prendendo il sopravvento su di me, mi sentivo messa alle strette. Sentii una scarica percorrermi l’intero corpo, un’energia pronta ad esplodere, ma che per fortuna si spense quando il coro si interruppe.
“Adesso Basta!” Sentenziò il sovrano. “Fate silenzio! Guardie, tornate immediatamente al vostro posto!” Sembrava furioso. Si rivolse alla voce che aveva dato inizio a quel putiferio. “Come osate voi, sorella, arrogarvi il diritto di richiedere la morte per una giovane ragazza che non ha commesso alcun crimine? Vi consiglio di pensarci bene prima di rifare simili scenate!”
Quello che ancora non sapevo era che fu proprio in seguito alla prima visita a sua sorella che mio padre, grazie alla sua amata Custode, capì che avrebbe dovuto essere più assertivo e deciso, cambiando atteggiamento e lavorando sul suo bisogno di approvazione. Ciò lo aveva reso più sicuro di sé e un Sovrano più volenteroso, cosa che inizialmente nemmeno egli stesso si aspettava, avverso com’era all’idea di salire al trono.
Uditi gli ordini, le guardie immediatamente fecero un passo indietro, così come anche i miei compagni.
“Ma Maestà! La somiglianza è innegabile, è vostra figlia bastarda! E sappiamo bene che i bastardi possono salire al trono facilmente nel Ferelden”.
Stavolta il vociare era contro Goldanna. Aveva rivolto un grave insulto allo stesso Re, che bastardo o meno che fosse, era comunque molto amato dal popolo e dalla sua corte, e che era salito al trono appoggiato e acclamato, dopo aver battuto a duello e giustiziato a ragione il traditore Loghain Mac Tir. Dunque la donna fece in fretta a rendersi conto dell’errore e tentò di correggere il tiro.
“Perdonatemi Maestà, intendevo dire che…” parve riflettere su una scusa plausibile, “Non possiamo essere certi che non voglia farvi del male, e non avendo voi dei figli, si rischierebbe di destabilizzare il Ferelden. Ricordate che anche la moglie di vostro fratello cospirò per uccidervi e usurpare il vostro trono?”
Non era un esempio calzante ma era vero, Anora, nonostante la clemenza di Alistair, dopo aver giurato che non avrebbe mai avuto alcuna pretesa, riuscì ad ordire un piano che per vendicarsi di suo padre, che per poco non portò a termine, anche a rischio di scatenare una guerra civile. Il tutto si concluse con l’esilio di Anora e dei pochi che l’avevano appoggiata. In seguito giunse la notizia che era morta a causa di una forte febbre e qualcuno sospettò che fosse stato il Re ad avvelenarla, ma i sospetti non furono mai supportati da prove e restò soltanto il vile pettegolezzo di qualche sciocco ubriacone.
Hawke, che per tutta la mattina aveva avuto modo di capire come fosse fatta la dolce cognatina di Lavriella, avendola udita ciarlare, spettegolare, criticare tra i denti tutti, sovrani compresi, e, al contrario esaltare costantemente i suoi pargoli, la interruppe, sarcastica. “Che c’è? Paura che vostro figlio non erediti il trono?” In fondo, più guardava Andraste e più le sembrava solo una ragazza innocente e priva di cattive intenzioni, anche se, avendo conosciuto Flemeth, sapeva che l’apparenza poteva ingannarla.
Messa alle strette, Goldanna si apprestò a moderare i toni, per non esporsi ulteriormente.
 “Maestà, indubbiamente non è il caso di decidere di condannare a morte la ragazza in questo momento, ma auspicando che questa faccenda sia chiarita al più presto, nel frattempo suggerisco umilmente di rinchiuderla nella torre.”
Nella torre? Volevano davvero imprigionarmi? O quella donna, la mia cara zia, voleva solo prendere tempo per farmi fuori in un secondo momento?
Guardai negli occhi mio padre, quel padre che stava esitando a rispondere. Ero sconcertata, ma mi prese una mano, il primo vero contatto con lui dopo 18 anni. La mano era calda, un po’ ruvida, ma la stretta era rassicurante, in un modo che non riuscivo a spiegarmi. Stava per trascinarmi di persona in prigione o voleva proteggermi? Sentivo, o forse speravo con tutto il cuore, che non mi avrebbe mai dato in pasto alla folla. Tuttavia non potevo averne ancora la certezza. Fece per parlare, quando una voce intervenne con decisione e fermezza.
 
Non si era sentita così spaventata nemmeno di fronte all’Arcidemone. Si sentiva svenire. Il sostegno di suo marito le venne a mancare dal momento che lui abbandonò il trono per guardare da vicino sua figlia.
 Si sentì per un momento sollevata dalla piega che stavano prendendo gli eventi: nulla sembrava presagire un pericolo imminente, Morrigan non era entrata in scena, e la corte era completamente contro la ragazza. Un’antipatia viscerale per quella giovane si era impossessata di lei, come un tarlo malvagio che le impediva di ragionare lucidamente. Stava forse desiderando davvero che fosse condannata a morte? Fino a che punto il suo egoismo avrebbe spinto le sue decisioni? Certamente non poteva in ogni caso dirsi salva da ripercussioni, perché suo marito avrebbe chiesto spiegazioni e probabilmente l’avrebbe odiata per sempre. Aveva già sbagliato, e tanto. In ogni caso il suo Re l’avrebbe biasimata. Ma quella era la figlia della sua cara amica, un’amica che le aveva salvato la vita, e di suo marito, l’uomo che amava di più al mondo e che di sicuro non si sarebbe mai ripreso da una tragedia simile, se fosse accaduto qualcosa al sangue del suo sangue. E, dopotutto, la ragazza per quanto ne sapeva era innocente, non aveva chiesto lei di venire al mondo, la responsabilità era soltanto sua. Per fortuna quel sollievo malevolo durò per un frangente molto breve. Sentì che doveva intervenire, non era nella sua natura restare a guardare davanti alle ingiustizie, o, peggio, avallarle. Lei non era così. Non era quella la donna di cui Alistair era innamorato.
“No! Nessuno rinchiuderà quella ragazza.”
La Regina aveva ripreso il suo colorito e non tremava più. Adesso parlava in modo perentorio, non tollerando più nessuna interruzione. Del resto, quando alle udienze parlava la Regina, non tanto spesso, in realtà, tutti pendevano dalle sue labbra e persino il Re non poteva fare a meno di appoggiare qualunque sua decisione.
“Lasciatela stare, la ragazza non ha fatto nulla di tanto grave. E che sia o meno la figlia del Re non ha nessuna importanza. Non è e non sarà comunque l’erede al trono. Sua maestà ha un altro figlio, un figlio legittimo. Sono incinta.”


*Riferimento alla FF di approfondimento "Quella volta che ho creduto di poterti dimenticare ma sono tornato da te"

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