Marchiato a sangue

di Flexum Sci_Fi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Parte Terza ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

Dalla biblioteca dell’Alta Confraternita dei Cacciatori.

Corsia 3, scaffale 2, ripiano 4.

Parte Prima

Lo sconosciuto aveva un aspetto estremamente inquietante: la sua snella figura era avvolta in un lungo cappotto scuro, la sua folta capigliatura corvina era mossa dalla fredda brezza che spirava nel vicolo. Il pallore cadaverico, le strette pupille cerchiate di rosso: metteva i brividi soltanto a guardarlo. Da quando aveva smesso di sussurrare minacce nei miei confronti, sulla strada era calato il silenzio. Terrorizzato, abbassai lentamente la pistola senza distogliere lo sguardo dallo sconosciuto, che sembrava essere divertito dal timore che incuteva: le sue sottili labbra scarlatte si dischiusero in un ghigno malefico che rivelò una fila di denti aguzzi e bianchissimi. Prima ancora che il mio braccio destro fosse totalmente abbassato, il mostro scomparve. Qualcosa mi colpì alle spalle, proprio in mezzo alle scapole. Un secondo dopo mi ritrovai ad assaporare il mio stesso sangue, con la faccia premuta sull’asfalto; a partire dal naso spappolato, un’ondata di dolore bruciante si diffuse in tutto il corpo. La risata annichilente del mostro riecheggiò fra le mura degli edifici circostanti: mentre le energie mi abbandonavano del tutto, gli echi della risata si fecero sempre più distorti, dopodiché non vidi altro che l’oscurità più assoluta, e sulla strada tornò a regnare il silenzio.

Quando ripresi i sensi aprii gli occhi e sobbalzai: mi trovavo faccia a faccia con un cadavere infestato dai vermi. Non urlai neppure: non ne avevo le forze. Con il cuore che batteva a mille, strisciai lontano da quell’orrore e mi sforzai di mettermi seduto. Albeggiava: in lontananza si udivano i rumori della città che si risvegliava lentamente dal torpore notturno. Attraverso le ciglia incrostate di sangue rappreso vedevo a malapena, ma riuscii a scorgere la mia pistola, sull’asfalto, distante alcuni metri dal punto in cui mi trovavo. Strisciando miseramente, raggiunsi l’arma e me n’impadronii: il mio buon senso suggeriva che quella fosse la giusta mossa da fare prima di compiere qualsiasi altra azione. A quel punto, muovendomi lentamente iniziai scrutare i dintorni. Nel vicolo, io e il cadavere putrescente eravamo soli: si trattava del corpo di un senzatetto, avviluppato in una larga e lercia giacca zuppa di sangue scuro. Lo stesso sangue formava un’ampia pozza sul pavimento, al livello del suo addome: quando me ne resi conto ricordai con sgomento il terribile modo con cui il barbone era stato ucciso.

Nella mia mente si formò l’immagine del mostro col gomito piegato ad angolo retto, l’avambraccio parallelo al terreno, le dita tese e le unghie aguzze protratte verso il pezzente. L’uomo arretrava in preda al terrore e supplicava lo sconosciuto di non ucciderlo: la tragedia si consumò nel momento in cui rivelai la mia presenza. L’oscurità fu squarciata dal fascio luminoso della mia torica: quando il disco di luce comparve sul muro, a sinistra del barbone, lo sconosciuto trasalì e sbudellò il poveraccio con un solo affondo dei propri artigli. Ancora inconsapevole della natura sovrumana del misterioso individuo, corsi nella sua direzione, convinto di poter prevalere su di lui per il semplice fatto di possedere una pistola. Mentre mi avvicinavo al mostro con l’arma spianata, urlavo pesanti insulti nei suoi confronti, intimandogli di arrendersi. Prima ancora che il cadavere del senzatetto avesse avuto il tempo di afflosciarsi al suolo, il suo uccisore era scattato verso di me coprendo in un istante la discreta distanza che c’era fra noi. Sopraffatto dall’orrore, feci cadere la torcia al suolo; quella rimbalzò un paio di volte sull’asfalto e si spense con un suono di vetri infranti. Il vicolo piombò nell’oscurità più totale: riuscivo a malapena a scorgere la sagoma antropomorfa del mostro, il quale sembrava invece vederci benissimo. Egli era enormemente compiaciuto dell’espressione inorridita che avevo assunto dal momento in cui aveva iniziato a descrivermi nei dettagli i modi con cui avrebbe potuto farmi fuori. Il tremito che scuoteva ogni fibra del mio essere si faceva più forte ad ogni parola pronunciata dal malvagio individuo, finché che ad un certo punto fui costretto ad abbassare l’arma con cui lo stavo puntando. Fu allora che, accertatosi del fatto che non rappresentavo alcuna minaccia, il mostro si avventò su di me facendomi finire al tappeto.

Quando controllai le tasche della mia giacca, scoprii che non mi era stato sottratto alcunché; tuttavia, né la ricetrasmittente, né il cellulare davano segni di vita, e lo stesso valeva per l’orologio che portavo al polso sinistro. Era come se fossi stato investito da un forte campo magnetico che aveva mandato in tilt tutti gli apparecchi elettronici che avevo con me. Che tutto questo centrasse col misterioso avvenimento della notte precedente? L’unico modo per mettersi in contatto con la centrale era trovare una cabina telefonica o qualcosa del genere. Mi misi in piedi e fui colto da un capogiro, dunque mi avvicinai alla parete e arrancai verso la strada principale, già inondata dalla luce arancione dell’alba. Varie volte rischiai di inciampare nell’immondizia sparsa sul pavimento, ma in qualche modo riuscii a raggiungere la strada senza mai finire carponi in mezzo alla sporcizia. Raggiunta la strada, mi scontrai con qualcuno. Se io mi limitai a sussultare, quel qualcuno fu spaventato a morte dalla mia comparsa improvvisa, e lanciò un urlo. Scoprii di essere finito addosso ad un’attraente ragazza in tenuta da jogging: quando si accorse che indossavo la divisa, si rilassò, ma tornò presto ad accigliarsi, vedendo com’ero ridotto. Effettivamente non dovevo essere proprio un bello spettacolo, col naso deforme, il volto ricoperto di sangue secco e l’uniforme deturpata da strappi e macchie. Nessuno di noi sapeva cosa dire, così ci guardammo: io con l’espressione di un cane bastonato, lei con aria interrogativa e ancora un po’ spaventata. Finalmente, dopo alcuni secondi, mi decisi a rompere il silenzio:

- Ehi! Scusa se ti ho spaventata. Per caso hai con te il cellulare?

- Ma che diavolo ti è successo? – disse lei, aggrottando a fronte e abbozzando un sorriso, mentre s’infilava una mano nella tasca a marsupio del maglione verde acceso che aveva addosso.

- Non mi crederesti se te lo dicessi – iniziai – E’ proprio questo il motivo per cui mi serve un telefono al più presto. Devo chiamare subito in centrale per mettere al corrente i miei colleghi di quello che è accaduto.

L’espressione della ragazza tornò ad essere seria:

- E’ successo qualcosa di grave?

- C’è un corpo in fondo a quel vicolo – dissi, sospirando.

- Oh. Un cadavere, vuoi dire? – la sua voce si fece flebile.

Annuii gravemente e presi il cellulare che la ragazza mi stava porgendo: la ringraziai, dopodiché digitai il numero di emergenza e chiesi l’intervento immediato di una volante.

Quando le restituii il telefono, lei si arrischiò a chiedere se poteva vedere il corpo.

- Non credo sia una buona idea: è morto in modo orribile, in un bagno di sangue – risposi.

- Ma come? – fece lei, incerta – Non sei stato tu ad ucciderlo? Non era un criminale? – poi arretrò di qualche passo, come colta dal sospetto che il criminale fossi io.

Scossi la testa:

- No – dissi, e strinsi i denti come per impedire a me stesso di aggiungere particolari al quadro della situazione, già sconvolgente di per sé.

- Se non hai lottato perché sei ridotto così? – fu la domanda successiva.

- Non ho detto di non aver lottato. Il compito principale degli agenti di polizia è proteggere la gente, non far fuori i criminali – chinai la testa, amareggiato, e aggiunsi con voce sommessa - Anche se spesso le due cose coincidono.

- Quindi non sei riuscito a svolgere il tuo compito, giusto? – disse la ragazza.

- Tante grazie per avermelo rinfacciato! – esclamai, ironicamente.

- Hai ragione, mi spiace – si scusò lei, e nel frattempo aveva mosso qualche passo verso il vicolo.

- Ehi! Dove credi di andare? – feci io.

Con un sorriso nervoso, la ragazza confessò:

- A vedere il luogo del delitto. Non ti dispiace se ci do un’occhiata, vero?

- Certo che mi dispiace! – esclamai – Non è certo il tipo di spettacolo che piacerebbe ad una come te.

- Credi davvero di sapere cosa mi piace o cosa non mi piace, solo perché abbiamo parlato per qualche minuto? – domandò lei con stizza, ma sempre con un debole sorriso sulle labbra – Allora, forza: se non c’è alcuna legge che te lo impedisce, accompagnami a dare un’occhiata al corpo. O forse hai paura?

Io sollevai le spalle e la guardai:

- Ok, mi arrendo. Ti porterò a vedere il corpo, purché tu mi stia vicina e, in caso di pericolo, faccia tutto ciò che ti dico senza discutere.

- Quindi hai paura per davvero, agente? – pronunciò quest’ultima parola con tono canzonatorio.

Decisi di non rispondere alla sua domanda: credo che se mi fossi difeso sarei apparso infantile e probabilmente le avrei dato una soddisfazione che non intendevo darle. Tuttavia non volevo nemmeno procurarle un dispiacere, così l’accompagnai verso il luogo del misfatto. Mentre camminavamo in silenzio, pensai alla singolare curiosità della ragazza; ci riflettei e nella mia mente si formò il germe di una battuta spiritosa che riguardava l’argomento. S’impossessò di me il desiderio morboso di dar sfogo alla mia vena comica. E così, quando raggiungemmo il corpo, indicandolo, dissi:

- Perché t’interessa tanto vedere un cadavere? – e allora mi accorsi che ciò che stavo per dire non era affatto divertente – Hai forse delle tendenze necrofile?

La ragazza fece una smorfia e mi guardò di traverso, poi si sforzò di emettere una risata che suonasse la più ironica possibile. Infine sorrise sinceramente e disse:

- Dunque era questo il pensiero che ti frullava per la testa mentre camminavamo? Ecco il perché del tuo sorrisetto idiota!

La sua sincerità mi fece avvampare per l’imbarazzo, ma al tempo stesso tirai un sospiro di sollievo: per un momento, dopo aver pronunciato le fatidiche parole, avevo pensato che si sarebbe infuriata e se ne sarebbe andata.

Finalmente, smettemmo di punzecchiarci e volgemmo la nostra attenzione al cadavere, che fino ad allora avevamo ignorato del tutto. Mi accorsi fin da subito che qualcosa non andava, ma la ragazza mi anticipò di parecchio: nel momento in cui io intuii che c’era qualcosa di strano, lei aveva già capito tutto ed era pronta ad enunciare la sua tesi al riguardo:

- Questo corpo è in fase di decomposizione avanzata; la morte sembra risalire ad almeno tre giorni fa – e il sorriso, che non aveva mai abbandonato il suo viso luminoso, si spense proprio in quell’istante – Tuttavia questo non coincide con la tua versione dei fatti.

Mi trovavo assolutamente d’accordo con lei: il solo motivo per cui non me n’ero accorto prima era che appena appena dopo essere rinvenuto ero troppo frastornato per constatarlo. Aggrottai la fronte, assalito da un dubbio:

- A cos’è dovuta tutta questa professionalità? – mi riferivo all’estrema precisione con cui la ragazza aveva stimato il momento del decesso.

In tutta risposta, lei mi porse la mano e finalmente si presentò:

- Laura Dever, studio Medicina Legale presso l’università di questa cittadina.

- Ah, ecco che tutto si spiega… - dissi, dopodiché mi presentai a mia volta e le strinsi la mano con decisione.

Mentre il rumore delle sirene si diffondeva nella fredda aria mattutina, Laura mi guardò molto seriamente e disse:

- Quando hai detto che è successo tutto questo?

- Credo che sia accaduto tutto ieri notte. Un individuo misterioso ha assalito il barbone ed io sono intervenuto per sistemare le cose. Tuttavia la mia intromissione è servita soltanto a far ammazzare il poveraccio e a procurarmi le ferite che vedi. Poi sono svenuto, e ho ripreso i sensi pochi minuti prima che c’incontrassimo  – risposi.

- Ne sei proprio sicuro? Potresti essere rimasto privo di sensi per più di un giorno. Oggi è mercoledì quattordici, sai?

- Non ne ero sicuro, dato che ho orologio e cellulare fuori uso. Ma ora che me lo dici, sono certo che risalga tutto a ieri.

- Allora ci dev’essere qualcosa che non va: questo corpo sembra essere privo di vita da circa settantadue ore – osservò Laura, evidentemente preoccupata.

- Sarà meglio che raggiunga i miei colleghi -  dissi – Si staranno chiedendo dove sia finito – poi mi avviai verso la strada e intimai alla ragazza di starmi sempre vicina.

- Ma tu zoppichi! – esclamò lei – Perché non l’ho notato prima? – chiese, più a se stessa che a me.

- Perché fino ad un attimo fa credevo che il dolore si fosse placato. Ma è tornato tutto in una volta, all’improvviso – le risposi, ansimando per la fatica.

- Vieni qui, reggiti a me – disse lei, offrendomi un braccio.

Insieme, arrancammo lungo il vicolo, e quando raggiungemmo la strada trovammo due volanti e un’ambulanza parcheggiate lungo il marciapiede. Le sirene tacevano, ma i lampeggianti continuavano a spargere i loro bagliori azzurri sui muri dei palazzi circostanti. Molte finestre si erano aperte con largo anticipo rispetto alla consuetudine, e numerosi spettatori assonnati osservavano la scena da posti privilegiati. Altre persone erano addirittura scese in strada per ottenere dagli agenti informazioni sull’accaduto. Anche certi passanti s’erano fermati, incuriositi dalla presenza dei mezzi di soccorso. Contai complessivamente tredici persone; fra di esse riconobbi Exley e Carson, due agenti miei colleghi, e il Capitano Lansdale. Nella folla spiccavano anche le uniformi sgargianti di tre soccorritori: due uomini e una donna.

Sempre appoggiandomi al braccio di Laura, mi avviai verso il gruppetto di persone. Ero tutto assorto nei miei pensieri: provavo mentalmente le parole con cui avrei spiegato la situazione al Capitano. Per questo sobbalzai quando una mano mi si appoggiò sulla spalla e una voce chiamò il mio nome con un’inflessione interrogativa. Mi girai di scatto e mi trovai faccia a faccia con un giovanissimo agente che conoscevo soltanto di vista. Quando l’agente ebbe avuto conferma che ero veramente colui che stava cercando, mi disse di seguirlo: il Capitano voleva parlare con me al più presto, ed era infuriato per non avermi trovato nel punto concordato. Effettivamente, quando guardai con più attenzione in direzione di Lansdale, mi accorsi che era scuro in volto e continuava a guardarsi intorno. Affrettai il passo e mi feci strada fra la gente, raggiungendo il Capitano solo al costo di lasciare indietro Laura, la quale si unì alla folla, desiderosa di seguire le indagini dal vivo.

- Si può sapere dov’eri finito? – mi aggredì immediatamente il Capitano –  Ti abbiamo cercato dappertutto! Dove diavolo è il cadavere?

- Mi scusi, Capitano. Sono tornato sulla scena del crimine per accertarmi di alcuni particolari – mentii – Il cadavere si trova in fondo a quel vicolo, comunque -  dissi, indicando la giusta direzione con la mano sinistra.

Ma l’attenzione di Lansdale era rivolta altrove: guardava in direzione dei soccorritori.

- Il ferito è qui – disse loro, e quelli ci raggiunsero in pochi secondi. Lo stesso fecero Exley e Carson, i quali mi rivolsero un rapido saluto e si diressero verso la scena del crimine, indicata loro dal Capitano.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


q

Parte Seconda

Quella sera rincasai all’ora che di solito segnava l’inizio del mio turno di lavoro. Erano le sei, e solo mezz’ora prima ero uscito dall’ospedale, dov’ero stato trattenuto per tutto il giorno per una serie di controlli. Il mio naso era risultato palesemente rotto, mentre non sembrava che ci fossero altre ferite gravi. Ero tappezzato di bende e cerotti, e man mano che l’effetto dell’anestetico si attenuava, il dolore al naso si faceva sempre più acuto. Non avevo nessuna voglia di mangiare, così mi svestii e mi buttai a peso morto sul letto. Mi addormentai subito e sognai cose tremende. Vidi Laura che strillava per il terrore: il cadavere del barbone si era svegliato e la strattonava per la gamba, affondando le unghie bluastre nei suoi polpacci. Io non potevo far altro che restare a guardare: ero paralizzato dalla scena orribile che mi si prava davanti. Avvertivo un forte dolore all’addome: un dolore pulsante che m’impediva di respirare e si diffondeva lentamente in tutto il corpo, come veleno. Quando l’urlo di Laura si fece troppo acuto per essere sopportato, anche il dolore aveva raggiunto l’apice.

Mi svegliai di soprassalto e la mia mano scattò verso l’interruttore sulla parete, alla mia destra. La lampada crepitò e si accese lampeggiando. Mi accorsi di essere in un bagno di sudore: le coperte del letto erano umide e fredde. Feci per alzarmi, ma non ci riuscii: sentii sopraggiungere nuovamente il dolore allo stomaco. Guardai in basso e notai un grosso cerotto che si stava scollando dalla mia pelle, all’incirca all’altezza del diaframma. Il dolore proveniva da lì: strappai il bendaggio e notai che il livido da esso celato era peggiorato notevolmente, assumendo un’inconsueta colorazione rosso vivo. Con un rumore secco, la lampada si spense e la stanza piombò nel buio. La cosa strana era che l’ematoma restava ben visibile anche nell’oscurità più totale: prestando maggiore attenzione mi accorsi  che non era veramente il livido ad emettere quella sinistra luce rossastra. Ciò che riluceva nelle tenebre era uno strano simbolo contenuto nel livido. Feci per toccare il segno misterioso e fu come essere trapassato da parte a parte da un proiettile. Una fitta di dolore lancinante attraversò il mio corpo a partire dal livido. Subito dopo si udì un fruscio e nella stanza risuonò una risata agghiacciante. La mia mano scattò nuovamente in direzione dell’interruttore della luce, lo premette varie volte, ma non ci fu verso di far accendere la lampada.

La risata spaventosa squarciò nuovamente il silenzio: era un suono familiare. Per la precisione, era quella dell’assassino della notte prima. Ne ero certo. Cercando di nascondere la paura con la spavalderia, urlai:

- So perché sei qui! Sei venuto per completare il tuo lavoro! Vuoi forse uccidermi? Sappi che non ti sarà così facile! – con un movimento fulmineo, presi la pistola dalla mensola accanto al mio letto, tolsi la sicura e puntai l’arma dove credevo si trovasse il mostro. Questa volta non esitai nemmeno per un secondo: accertatomi che il misterioso individuo si trovasse di fronte a me, sparai quattro colpi in direzione della sua testa. La tenue luce dei lampioni che filtrava dalle fessure delle persiane mi permise di assistere allo scatto impressionante che fece il mostro per evitare i proiettili. Esso scomparve e ricomparve dopo una frazione di secondo nei pressi della finestra: il suo corpo ostacolava l’ingresso di gran parte dei raggi luminosi. Sparai ancora e i vetri andarono in frantumi.

- Non sono qui per ucciderti – l’abominio era ricomparso alle mie spalle: accovacciato sul letto, mi sussurrava nell’orecchio con voce stridente.

Io scattai in piedi, prendendo le distanze dal letto, poi, puntandolo con la pistola, gridai:

- Allora cosa vuoi da me?

- Voglio che tu diventi una parte di me! – sentenziò il mostro.

- Chi sei? – urlai – Si può sapere cosa diavolo sei?

- Sono un essere umano. Esattamente come te – fu la sua risposta.

Feci una smorfia e dissi:

- Non credo proprio che ti crederò. Ma ora dimmi cosa significa “voglio che diventi una parte di me”? Se non hai intenzione di uccidermi, qual è il tuo scopo?

- Fai troppe domande, ragazzo. Tutto ciò che ti serve sapere è che, volente o nolente, diverrai una parte di me. O di noi, a seconda dei punti di vista.

- Voi? E chi sareste voi? – lo sfidai.

- Noi siamo il popolo della notte. Unisciti a noi e diverrai immensamente potente.

- Mai! – urlai, in preda al panico.

- Hai tre giorni per scegliere la tua risposta definitiva. Tornerò.

Il mio indice destro premette nuovamente sul grilletto e un proiettile andò a conficcarsi nel muro che era stato alle spalle del mostro. Aprii e chiusi gli occhi numerose volte: il bastardo era sparito di nuovo.

Mezz’ora dopo, quando mi fui arreso all’idea che non sarei più riuscito ad addormentarmi, mi alzai dal letto gemendo per il dolore che mi pervadeva il corpo. Tentai di accendere la luce, ma l’ennesimo fallimento mi convinse che la lampada doveva essersi fulminata. Mi diressi verso il bagno: una volta raggiunto l’armadietto dei medicinali, ne estrassi un blister di pastiglie antidolorifiche. Mentre ne sgranocchiavo una, tornai nell’altra stanza e presi il net-book da sotto il letto: mi sedetti sul materasso e, col piccolo computer appoggiato sulle gambe, iniziai la mia ricerca.

Uscii prestissimo, appena dopo l’alba. Scendendo le scale mi resi conto che ero stato uno stupido a pensare che la mia discussione col mostro potesse essere passata inosservata: giunto all’ingresso incappai in uno sparuto gruppetto di inquilini del palazzo che stavano parlando con evidente preoccupazione dei rumori che avevano udito la notte scorsa. Quando passai vicino a loro, quelli mi lanciarono occhiate sospettose, talvolta addirittura ostili. Sospettavano di me perché ero probabilmente l’unico a possedere una pistola in tutto l’edificio; se si fossero accorti della mia finestra rotta avrebbero fatto un macello. Il buon senso suggeriva che avvertissi i miei vicini di pianerottolo del pericolo che correvano a causa dello psicopatico che voleva uccidermi. Ma dopo l’ultimo incontro con lo squilibrato avevo deciso di tenere tutto per me e risolvere la faccenda per conto mio, senza nemmeno coinvolgere gli altri agenti di polizia, che pure erano coinvolti nella faccenda dal momento in cui erano intervenuti sulla scena del delitto, il giorno prima. Avrei convissuto col terribile presagio di morte che incombeva sulla mia testa, nessuno avrebbe mai saputo quale oscuro destino mi spettava. E nessun medico sarebbe mai stato informato della preoccupante degenerazione che aveva subito il mio livido. La faccenda riguardava solo me e il mostro: l’avremmo risolta io e lui, faccia a faccia, entro lo scadere del terzo giorno. Mi resi conto che la consapevolezza di avere i giorni contati mi permetteva di mettere tutto me stesso in ogni cosa che facevo: se il fine era quello di salvarmi da morte certa, non avevo paura di spendere tutte le mie energie, rischiare la vita o infrangere le regole.

Una volta giunto alla stazione di polizia feci una scoperta sconcertante. Stine, un agente della scientifica, inorridì non appena nominai il caso dell’omicidio. Quando si fu riavuto, mi disse di seguirlo. Non mi anticipò nulla, ma si capiva che la situazione era grave. Una volta entrati nell’obitorio, camminammo rapidamente e superammo un paio di tavoli sui quali erano stesi cadaveri coperti da teli grigi. Sul terzo tavolo era adagiata una coperta floscia, vuota. Turbato dalla scoperta, feci per chiedere:

-          L’hanno trafugat… - pensando di sapere chi era il colpevole.

-          No – m’interruppe Stine scuotendo il capo con aria grave, dopodiché scostò il telo rivelando l’ammasso di poltiglia rivoltante che grondava dai bordi del tavolo – si è dissolto.

-          Come diavolo è successo? – sbottai.

-          Quando ieri il corpo è arrivato in centrale, il processo di decomposizione era già in stato avanzato. Inizialmente abbiamo sospettato che l’omicidio fosse avvenuto alcuni giorni prima del ritrovamento del corpo, ma poi ci siamo resi conto della velocità con cui i tessuti organici si stavano distruggendo. Allora abbiamo capito che il decesso non poteva essere avvenuto che poche ore prima.

-          È quello che dico anch’io – risposi – Ho assistito all’omicidio, e posso garantire che è tutto accaduto circa trenta ore fa.

-          A questo punto, non posso che darti ragione – disse Stine.

-          Già ieri mattina avevo notato qualcosa di anomalo nel processo di decomposizione – aggiunsi io, ricordandomi improvvisamente delle stime fatte da Laura – Il corpo era infestato dai vermi e dalle mosche già poche ore dopo l’assassinio.

Un’ora dopo ero fuori dalla centrale e mi dirigevo con passo svelto in direzione di un vicino negozio. Lì mi sarei procurato tutto l’occorrente per mettere in atto il mio piano. Avevo prelevato tutti i soldi che potevo dallo sportello bancomat, e in casa non avevo lasciato che pochi inutili spiccioli: ma valeva la pena di spendere così tanto? Se mi fossi salvato avrei impiegato un bel po’ per rimettere in sesto le mie finanze. Ma poi capii che il mio reale obbiettivo non era salvarmi la vita, ma fare luce sul mistero del mostro, anche a costo di morire. A quel punto mi decisi ad entrare nel negozio: spinsi la porta ed entrai. Mi avviai verso il bancone, dietro il quale si ergeva la figura imponente di Jim, il gestore; ci stringemmo la mano in segno di saluto, dopodiché iniziammo a parlare di affari. Comprai uno zaino e degli abiti resistenti di foggia militare. Lo zaino lo riempii con numerose razioni di cibo in scatola, una torcia elettrica, una corda robusta, una coperta termica, un binocolo e un kit per il pronto soccorso. Acquistai anche le armi e le munizioni adatte alla caccia di animali di grossa taglia. Poi diedi i soldi a Jim e me ne andai. Abbandonai la città.

Sapevo che non sarei più tornato: mentre guidavo verso l’ignoto pensavo a tutto ciò che mi lasciavo alle spalle. Pensavo a tutto ciò che non avrei mai più visto. Soprattutto pensai ad un certo numero di telefono: quello che mi aveva dato Laura al termine di una giornata passata a farmi compagnia in ospedale. Il numero che avrebbe potuto trasformare la mia vita da vicolo buio a strada illuminata. Stringendo i denti per non sentire la nausea, tolsi il biglietto dal cruscotto dell’auto e l’appallottolai furiosamente. Lo lanciai fuori dal finestrino e proseguii a velocità sostenuta per poche altre centinaia di metri, dopodiché accostai a bordo strada. Posai la fronte sul volante, e serrai i pugni appoggiati sulle cosce, artigliando il duro tessuto dei pantaloni. Piansi silenziosamente, scosso da terribili tremiti, pervaso da un freddo mortale, col cuore stretto in una morsa glaciale. Rimasi in quella posizione per una quantità indeterminata di tempo: il cielo, plumbeo come la mia anima, divenne rosa, poi violaceo, infine si tinse di nero e fu come se un sipario fosse stato calato nuovamente sulla mia misera esistenza. Ma c’era qualcosa che rendeva questa seconda volta molto peggiore: la prima volta erano stati i miei genitori a farlo per me. Questa volta toccava a me abbassare il sipario. Solo e soltanto a me.

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Capitolo 3
*** Parte Terza ***


3

Parte Terza

In piedi sui pedali, mulinavo le gambe spingendo la mia bici alla massima velocità: avevo un terribile fiatone e provavo una dolorosa fitta al petto, ma non potevo fermarmi. Non sapevo il motivo, ma dovevo fuggire: la strada sembrava non voler finire mai, e la sensazione di pericolo non mi abbandonava. Il borsone della palestra rimbalzava a destra e a sinistra ad ogni pedalata e sembrava pesare una tonnellata. Me ne sarei sbarazzato volentieri, ma avrei dovuto fermarmi per farlo, e non riuscivo a smettere di muovere le gambe. Ero pervaso dal terrore e dentro di me urlavo senza emettere alcun suono. Di solito impiegavo cinque minuti a rincasare dall’allenamento, mentre questa volta stavo impiegando… Da quanto tempo pedalavo? Non ne avevo la minima idea. Eppure era la strada giusta. Solo un po’ più lunga del solito. Molto di più. Poi finalmente accadde qualcosa e fu rotta la monotonia snervante della fuga immotivata. La ruota anteriore si bloccò, come se una mano invisibile avesse tirato il freno. La bici s’impennò ed io fui sbalzato in avanti. Caddi a terra e il dolore esplose, distorcendo la mia percezione visiva. Quasi subito dopo la caduta comparve un uomo. Emerse dalla penombra e camminò con calma verso di me. La sua estrema posatezza mi fece capire immediatamente che non era lì per prestare soccorso, come avevo pensato inizialmente. L’individuo si mise a parlare, e la sua voce era una lama di ghiaccio. Allora mi resi conto che era a causa sua che stavo fuggendo. Non riuscivo a trovare una logica a tutto ciò, ma ero sicuro che fosse così. Non ero in grado di ragionare, persino il dolore era scomparso: dentro di me c’era spazio solo per l’orrore. Mentre assorbivo le terribili parole dello sconosciuto, la mia vista si faceva confusa, sempre di più, finché il buio fu totale.

Una notte mi svegliai in preda ai brividi e con un forte senso di nausea: ero nuovamente pervaso dal terrore e a causa delle ingessature non riuscivo a muovermi, né ad emettere alcun suono. Pochi secondi  dopo udii un rumore: un tonfo sordo. Cercai di chiamare i miei genitori, ma la mia voce non aveva consistenza. Urlavo, ma dalla mia bocca non usciva nulla più che l’aria. L’aria che pian piano stava venendo a mancare. Soffocavo. Stavo per morire. Iniziai ad agitarmi nel letto, come prigioniero delle lenzuola. Poi il tonfo si ripeté. Ancora e ancora. Il suono si fece più forte e divenne prolungato: era come se qualcuno stesse scuotendo le persiane. Fuori dalla finestra, qualcuno o qualcosa stava tentando di divellere le imposte. Fissai le tende con gli occhi sbarrati, ormai rassegnato al mio destino. Il legno esplose dietro i vetri e quelli furono polverizzati dall’impatto. Una sagoma scura apparve sulla soglia e i suoi occhi luccicarono nel buio. Mentre il misterioso visitatore si faceva strada verso di me, i miei appelli silenziosi furono finalmente esauditi, e la porta che dava sul corridoio si aprì. Mio padre entrò gridando e brandendo un bastone.

Anche il mattino del funerale si rivelò una terribile esperienza. Ero in chiesa, seduto su una delle panche della prima fila, e assistevo distrattamente alla predica del prete. Nella mia testa frullavano mille pensieri terribili e non riuscivo a smettere di piangere. Casualmente mi girai e lanciai un’occhiata alle mie spalle. Fu con tremendo sconcerto che mi resi conto di chi sedeva nella fila dietro la mia, fra le altre persone. Era esattamente dietro di me. Mi stava fissando. Tornai a girarmi verso l’altare, ma sentivo il suo sguardo trafiggermi la schiena. Sentii il bisogno di urlare, ma riuscii a trattenermi. Inchiodai i piedi al terreno e strinsi i pugni lungo i fianchi, serrando con forza gli occhi. In preda al panico, non mi resi conto che il mio respiro era divenuto molto rumoroso: indispettita, mia madre si girò verso di me ed iniziò a scrollarmi con forza, perché la smettessi. Era abituata a queste mie crisi, ma non aveva mai imparato a conviverci: ogni volta che mi capitava dovevo aspettarmi, il giorno successivo, di essere trascinato a forza dallo psicologo per far luce sulla faccenda.

-          Smettila! – sibilò mia madre – Abbi rispetto per tuo padre. È morto.

-          Pensi che non lo sappia? – mugolai.

Poi non riuscii più a trattenermi e mi alzai dalla panca, urlando per la disperazione. Con un balzo raggiunsi il corridoio della navata centrale e zoppicai verso il portale della chiesa.
Un attimo prima che uscissi, una risata malefica risuonò fra le pareti del luogo sacro. Era la stessa risata che avevo udito quando mio padre era stato ucciso. In pochi istanti rivissi quella terribile notte di pochi giorni prima, quando le persiane della mia stanza erano state divelte e sulla soglia era comparso il mostro.

Il giorno del mio undicesimo compleanno fu il più triste della mia vita. Addirittura peggio del funerale, svoltosi un paio di settimane prima. Peggio ancora della notte in cui mio padre fu ucciso dall’uomo abominevole. Io e mia madre ci trovavamo nella mia cameretta. Lei era scura in volto mentre riponeva i miei abiti negli scatoloni dopo averli tolti dall’armadio. Io, con le lacrime agli occhi, accumulavo tutte le mie cose in una cassa di plastica.

-          Ho fatto, mamma – annunciai.

Anche lei aveva appena finito di svuotare l’armadio, ma non mi rispose. Si limitò a sollevare lo scatolone e ad abbandonare la stanza. Io la seguii spingendo la cassa di plastica più velocemente che potevo, ma lei accelerò ed io rimasi indietro. Quando arrivai all’ingresso, mia madre aveva già caricato lo scatolone sul camion. Vedendomi, lei si avvicinò e sollevò la mia cassa. Ripose anche quella, dopodiché mi ordinò di salire in macchina. Lei andò a chiudere la porta di casa, poi si recò presso l’abitacolo del camion e disse al guidatore che poteva partire, infine mi raggiunse in macchina e mise in moto. Partimmo. Lei guidava in preda all’ansia: spingeva eccessivamente l’acceleratore e affrontava le curve troppo aggressivamente. Ero seriamente preoccupato per la nostra incolumità e non riuscivo a smettere di singhiozzare.

-          Ehi, ma la vuoi smettere? – disse lei, visibilmente infastidita – Si può sapere cos’hai?

-          Io non voglio andarmene da casa! – esclamai.

-          Se non avessi fatto tutta quella scena, ora saremmo ancora a casa. È solo colpa tua se ci troviamo in questa situazione.

-          Non è vero! – urlai, in preda alla rabbia.

-          Non ho deciso io di abbandonare la casa, così all’improvviso. È stata la polizia a imporcelo – si difese lei.

-          Bugiarda! Ti odio!

Mi svegliai di soprassalto urlando. Mi trovavo nella mia auto. Non in quella di mia madre. Lei era morta da ormai tredici anni. E mio padre da diciannove anni. Era stato tutto un sogno. Un orrendo sogno in cui avevo rivissuto i giorni peggiori della mia vita. Dopo il trasloco, io e mia madre avevamo tagliato i ponti con tutti i nostri conoscenti e avevamo cambiato i nostri nomi, su raccomandazione dell’FBI. C’eravamo ricostruiti una vita in un paese molto lontano da quello da cui provenivamo. Avevamo vissuto tranquillamente per sei anni, poi lei era caduta in depressione ed era morta pietosamente nel giro di pochi mesi. Da allora in poi vissi da solo e i brutti ricordi legati al periodo passato andarono via via scolorendosi, finché scomparvero del tutto senza lasciare alcuna traccia. Succede spesso quando si subisce un trauma particolarmente forte: la mente, per difendersi, cancella tutti i ricordi ad esso correlati. Così si spiegava il perché dei vuoti di memoria di cui avevo sofferto negli ultimi anni. Il mostro mi aveva lasciato in pace per parecchio tempo, ma nel momento in cui era ricomparso, il passato mi aveva sommerso come un’ondata d’acqua gelida.

Così ora sapevo con cosa avevo a che fare: un maniaco, probabilmente non umano, che mi perseguitava da quando ero bambino. Rassicurante! Ma non c’era tempo da perdere: avevo un obbiettivo, e niente e nessuno mi avrebbe impedito di raggiungerlo. Per di più, quel giorno c’era un bel sole caldo ad illuminare la strada: non avrei più ceduto allo sconforto. Dunque, premetti la suola dello stivale sulla tavoletta dell’acceleratore e ruotai il volante per tornare in carreggiata, ripartendo alla volta dell’ignoto.

Giunsi a destinazione al tramonto. Stava dunque per concludersi il secondo giorno. Non avevo tempo da perdere. Attraversai il paese guidando a bassa velocità, superai il centro cittadino e mi addentrai nella fitta giungla  di cemento della periferia. Era lì che si trovava il mio obbiettivo. Il covo dei Cacciatori si nascondeva proprio fra gli anonimi palazzi fatiscenti che iniziavo ad intravedere in quel momento. Quella notte, malgrado il sonno, mi trattenni al Bar J. Harcker, punto di ritrovo di certi misteriosi individui che con ogni probabilità erano quelli che stavo cercando.

 

Fine

 

Si conclude così il diario dell’ennesimo sciagurato perseguitato dai vampiri che viene a cercare aiuto presso la Confraternita. Quei poveracci non sanno che i Cacciatori sono un gruppo chiuso, che non accetta reclute. Fino alla fine del secolo scorso erano ben pochi gli estranei che venivano a farci visita, ma con l’avvento dell’era informatica e di internet è cambiato tutto. Ora abbiamo numerosi visitatori ogni anno, e siamo costretti a sbarazzarcene, perché nessuno deve sapere di noi, che difendiamo gli umani nascondendoci nell’ombra. La mossa più efficace sarebbe certamente quella di cancellare dalla rete le pagine che ci riguardano, ma sappiamo che tanto verrebbero riscritte nel giro di poco. Dev’esserci una talpa nell’organizzazione. Oppure là fuori c’è una spia che sa fare il suo lavoro maledettamente bene. Altrimenti non potremmo spiegarci il motivo per cui trapelano tutte queste informazioni sul nostro conto.

Il tonto che ha scritto questo diario era talmente disperato da credere seriamente che un’organizzazione segreta importante come la nostra potesse scrivere l’indirizzo della propria sede su una pagina di internet. È proprio vero che la paura di morire porta a fare le cose più assurde. Questo ha addirittura speso una fortuna per procurarsi gli strumenti adatti (per modo di dire) alla caccia del vampiro. Sperava di poter entrare nella Confraternita. E invece è morto. Ma tutto questo è solo un bene per lui: se fosse stato il vampiro ad ucciderlo, la sua morte sarebbe stata lenta e dolorosa. Inoltre, togliendo la vita a quel poveraccio, abbiamo fatto un nuovo passo verso la vittoria sul popolo della notte. Infatti, ogni vampiro nasce con l’obbiettivo di uccidere un umano in particolare, e fintantoché l’omicidio non sarà compiuto, il vampiro in questione non raggiungerà la sua piena maturità. Uccidendo l’uomo che ha scritto questo diario abbiamo di fatto precluso la via dell’immortalità al vampiro che gli stava dando la caccia. Tale vampiro vivrà una misera vita da umano e morirà come tutti gli altri. I vampiri che invece riescono ad uccidere il loro obbiettivo e a prosciugarne le vene ottengono immenso potere e diventano particolarmente duri a morire. Negli ultimi dieci anni abbiamo fatto lo stesso scherzetto a circa un centinaio di vampiri.

Archivierò questo diario su uno scaffale della mia preziosa biblioteca, e spero che in futuro qualche giovane Cacciatore farà tesoro della storia che narrano queste pagine, e perché no, magari anche del commento che ho aggiunto io.

T. J. Smallwood, XXXII Bibliotecario dell’Alta Confraternita dei Cacciatori

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