I Lost Myself After You're Gone

di Ginx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Central Park ***
Capitolo 3: *** 2. Quinn's back ***
Capitolo 4: *** 3. Monday ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 


































 


-Grazie a daisyNAKJM per la copertina

 

 

 

Autore: Ginx

(rompi)Beta: ValeLenee

Pairing: mostly Faberry

DisclaimerNo, no, no. Non ieri, non oggi, né domani né mai. Solo, no. Li porto tutti a fare un giretto per un po', giusto il tempo per farmi sussurrare le loro storyline e poi le restituisco ai RIB. Ma no, non mi appartengono. #truestory

Note: Future!Fic

Avvertenze: Questa storia riprende fatti accaduti in Glee solo e soltanto fino alla 3° stagione, ovviamente cambiati ma non in modo esagerato.

Ci vediamo in fondo ;)



 

Prologo
 

Una nuvola di cappelli rossi si alza verso l'alto e poi ricade lentamente sul vasto tappeto di erba sintetica.
Alla fine ci siamo, ce l'abbiamo fatta: ci siamo diplomati.
Ammetto che con tutto quello che è accaduto durante quest'ultimo anno avevo decisamente rinunciato ad avere un diploma. Invece no. Sono qui, sono libera.
Cerco tra la folla di ragazzi euforici i miei compagni del Glee Club, trovandoli tutti sollo al palco eretto a centro del campo da football in occasione della cerimonia, pronti per la nostra ultima esibizione come membri delle New Direction; appena riesco ad arrivare da loro comincio ad abbracciarli tutti, uno ad uno, congratulandomi.

Cosa avrei fatto senza questi ragazzi straordinari? Ci sono stati sempre per me, mi sono stati vicini nei momenti più belli e, soprattutto, nei momenti più brutti che ho vissuto in questo liceo. Non so che fine avrei fatto se le nostre vite non si fossero incrociate.
Lo so che tra qualche giorno, ognuno di noi prenderà la propria strada per chissà dove. Probabilmente non ci incontreremo per molto tempo. Forse ci capiterà di vederci per caso al supermercato o per la strada, quei pochi di noi che avranno la fortuna di ritrovarsi nella stessa città. Probabilmente, le uniche occasioni in cui ci ritroveremo tutti insieme saranno le cene di classe, tra non si sa quanti anni.
Ma non importa. Niente, nemmeno il tempo potrà cancellare le esperienze che abbiamo.
Loro sono la mia famiglia, una famiglia migliore di quella che mi ha cresciuta per tutti questi anni, e io non li scorderò mai.

Mi libero dalla stretta di Tina, che non smette di piangere da quando ci siamo seduti sulle sedie di plastica bianca in attesa di ricevere il nostro diploma, e improvvisamente mi rendo conto che non li ho salutati tutti:  manca la persona più importante, quella che è riuscita a rendere quest'anno migliore di quello che possa sembrare. Era seduta davanti a me, secondo l'ordine alfabetico, durante la consegna ma riusciva comunque a guardarmi con la coda dell'occhio da cerbiatta, regalandomi uno dei suoi meravigliosi sorrisi che concede solo a me. Ma ora che ci penso, non ricordo di averla vista dopo che aveva ritirato il suo diploma.
Dov'è?
Mi volto verso la folla e mi alzo sulla punta dei piedi, cercando di vedere oltre le persone, ma rinuncio subito: il gruppo di ragazzi è troppo fitto e uniforme per riuscire a trovare qualcuno, specialmente lei.
Questo pensiero mi fa sorridere, mentre comincio a muovermi tra le persone, facendo lo slalom tra le persone. Se mi allontano riuscirò a vedere meglio, anche se sarà comunque difficile riuscire a vederla.
E invece, appena un ragazzo abbracciato a sua madre si sposta, liberandomi la visuale, il mio sguardo la trova subito: si trova sotto all'albero vicino all'angolo più lontano del campo da football, baciata da un raggio di sole che la fa sembrare l'apparizione di una dea greca, e sono quasi certa che anche lei mi stia guardando.
Comincio ad allontanare con violenza le persone che mi separano da lei e, appena mi libero la strada, comincio a correre nella sua direzione, quasi potesse sparire da un momento all'altro, ricambiandole il sorriso enorme che mi rivolge.

Più mi avvicino e più mi rendo conto che è la donna più bella che io abbia mai visto: indossa un abito blu in stile anni '50, una fascia d'argento sotto il seno che si intona ad un paio di ballerine dello stesso colore, i capelli stretti in due trecce perfette che la fanno sembra una bambina. La mia bambina.
E, non faccio in tempo a trovarmi a pochi passi da lei che subito ho l'impulso di gettarle le braccia al collo. La stringo a me, affondando il viso nell'incavo della spalla, inspirando a pieni polmoni il suo profumo. Dio quanto lo amo, così dolce e fresco che riesce a farmi impazzire.
Restiamo in questa posizione per un po' di tempo, mi sembra quasi che si sia fermato. Potrei restare così per sempre.
Ma la sua presa si scioglie e io tiro su la testa, lasciandole un leggero bacio sulla guancia e trovando subito i suoi occhi, incatenandoli con i miei.
Sento che è il momento. Prendo un respiro profondo e infilo la mano nella tasca della tunica di polistirene, chiudendo le dita sul piccolo cubo di velluto, tirandolo fuori; abbasso lo sguardo e glielo porgo, mentre fisso la punta delle mie scarpe. Sento la scatolina scivolare dalla mia mano, lo scatto del coperchio di velluto che si apre e lei che trattiene il respiro.
Alzo lentamente gli occhi per scorgere la sua espressione e la tensione, che non avevo sentito accumularsi nel mio stomaco, sciogliersi alla vista del suo viso illuminato di felicità.
All'interno della scatolina c'è un piccolo anello di oro bianco con un rubino a forma di cuoricino incastonato al centro della fascetta.
Gliel'ho comprato durante un pomeriggio di spese folli insieme a Santana, presa da un attacco di euforia, ma subito dopo me ne ero pentita per paura che poteva essere troppo per lei. Ma lo sguardo entusiasta che ha quando sposta lo sguardo su di me mi fa capire che è stato stupido avere così tanta paura di darle quel regalo regalo.
Timidamente alzo la mano sinistra, mostrandole che all'anulare ne indosso uno identico.
Il suo sorriso si allarga ancora di più. Ma c'è qualcosa che non va: non è un sorriso che le coinvolge anche gli occhi.
Sento il mio viso farsi teso e vedo che anche la sua espressione cambia insieme alla mia, si fa più seria.
«Q, io devo andare.» mi dice, passandomi delicatamente una mano sulla guancia.
Sono confusa. Dove va? La festa non è finita, dobbiamo fare ancora la nostra esibizione e poi c'è il pranzo di fine anno.
La guardo, sento di aver un punto interrogativo stampato in faccia. La mia espressione le fa abbassare lo sguardo e, solo in quel momento, noto una valigia rosa accanto a lei.
Che sta succedendo? Le do un piccolo colpetto sul braccio, per farla continuare. Lei e la sua maledetta suspance da diva.
«Noah ha ricevuto una proposta per un contratto discografico. Sembra che un pezzo grosso della musica era presente alle National ed era interessato a noi. Potrebbe anche non farsene niente, alla fine, ma ha detto che ha bisogno di me per farcela. All'inizio non volevo, ma adesso.. lo sai no, io-» non finisce la frase. E forse è meglio così, perché adesso ho veramente paura di quello che potrebbe dire.
«Beh, è sempre stato il mio sogno, no? Andare via da Lima per trovare la mia occasione. Quindi.. ho accettato di partire con lui.» conclude, senza alzare lo sguardo.

Mi sembra di trovarmi in un sogno, sembra che tutto questo non stia succedendo a me.
Ci metto un po' ad assimilare le sue parole e, quando lo faccio, mi sembra di riportata violentemente alla realtà.
Non ci a credo. Se ne va. Anzi, se ne sta andando. Adesso.

Le lacrime cominciano a rigarmi il viso ancora prima che io riesca a fermarle. Lei alza il viso e subito un'espressione colpevole le si dipinge sul volto.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto. Puck mi aveva persino proibito di salutare i ragazzi, di salutare te, perché, te l'ho detto, non è niente di certo e, soprattutto, perché così è più facile partire e lasciarsi tutto alle spalle. Ma non potevo andarmene via e lasciarti così, senza nemmeno un saluto o una spiegazione. O senza averti dato questo.» aggiunger tutto d'un fiato, tirando fuori, da non capisco dove, una scatolina rosa con un fiocco celeste sopra.
Mi asciugo le guance con la manica della tunica, sporcandola di trucco nero; senza guardarla, prendo la piccola scatola quadrata che tiene in mano e la apro: all'interno, poggiata su un cuscinetto bianco, c'è una catenina leggera alla cui fine è appeso un ciondolo d'oro bianco a forma di R, ricoperto di piccoli diamanti che brillano al sole.
Accenno un mezzo sorriso. È bello.
«Così avrei sempre qualcosa di mio con te, nel caso non dovessi tornare.» sussurra.

È fatta. La realtà dei fatti mi piomba addosso come un macigno. Ho realizzato a pieno quello che sta per succedere.
Sta andando via. Non si sa dove, non si sa per quanto tempo. Va semplicemente via. Con Puck. Senza di me.
Inizio a singhiozzare, incapace di trattenermi.

Non la vedo muoversi, ma sento il calore delle sue mani che mi premono sulle guance e la leggera forza che mi costringe ad alzare il viso.
«Ehi, ehi, ehi. Piccola. Non piangere, ti prego.» mi dice, scostando una ciocca di capelli biondi appicciata allo zigomo dalle lacrime. «Prometto che tornerò da te. Presto.» aggiunge. «Ti amo.» sussurra poi.

È la fine. Questo non posso veramente sopportarlo. Scaccio le sue mani con uno strattone e mi volto, senza guardarla.
Comincio a correre per il campo, verso l'uscita, i singhiozzi che mi scuotono il petto e la vista offuscata dalle lacrime. Rischio più volte di cadere ma non mi fermo fino a quando non raggiungo il cancello e poi comincio a correre più veloce, anche se sento i polmoni scoppiare.
Non ho idea di dove sto andando, ho solo bisogno di scappare dal vuoto che sta crescendo lentamente dentro di me, di allontanarmi il più possibile da quel campo. Dalla mia vita.
Dal mio amore.
Da Rachel.

Si svegliò bruscamente nella sua camera da letto, spaesata; sentiva il volto gonfio di pianto, i polmoni scoppiare e le gambe farle male. Dei singhiozzi fortissimi le squassavano il petto, tanto che dovette nascondere il viso nel cuscino, per soffocarli ed evitare di svegliare la bionda che dormiva accanto a lei.
Era sconvolta, ma un unico pensiero riuscì ad attraversarle la mente:
“Avevi promesso che saresti tornata.”.

 

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Gina's Corner:

Hi everyone!
Benvenuti nella mia prima long! =)

Per quelli di voi che momentaneamente sono “ What the fuck is this shit?” devo spendere due parole.
Questa storia è nata come una semplice shot Beth/Brittany perché penso che quelle due abbiano la stessa mentalità xD
Poi lentamente si è evoluta in una storiella Faberrittana di qualche capitolo, con la mia piccola Beth a fare la loro bimba viziata.
E infine è diventata una long fatta e finita.

Non so esattamente cosa ne sia uscito fuori. E non so neanche perché ho scritto tutto ciò, ma va bene u.u

Premetto che ci sono quasi tutti i personaggi ma non compariranno subito, perché questa storia è scritta da prima che arrivasse Rory, quindi fatevi due conti u.u
So, scoprirete tutto nei prossimi capitoli. Ma ricordate.. tutto cambia e niente resta uguale xD
Si accettano scommesse! *inserire Fred e George qui*

Vorrei ringraziare Valelenee (aka my Big Sister) in particolareper aver amato la mia storia come io non avrei mai potuto farlo xD
Senza di lei, questa storia non ci sarebbe mai stata. Grazie per il tuo aiuto Boo! <3

Spero che mi facciate sapere con una piccola recensione! Anche le critiche sono ben accette, aiutano sempre a migliorare il modo di scrivere e di impostare i capitoli :)

P.S. Cercherò di aggiornare regolarmente, studio e resto permettendo .-.

And that's how Gina sees it ;)

Peace and Love.

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Capitolo 2
*** 1. Central Park ***


1. Central Park
 
Quinn non sapeva quanto tempo era rimasta a fissare il soffitto. Le sembravano passate ore.
Le lacrime non accennavano a diminuire e delle fitte acute alle tempie annunciavano un bel mal di testa dovuto al pianto. 
La ragazza si asciugò il viso con una manica del pigiama rosa e si voltò lentamente sul fianco destro, cercando di leggere le cifre luminose sul display della sveglia coperta dai libri. 
I numeri verdi semi nascosti segnavano le 7:33.
Ci pensò su un momento, poi decise che sarebbe stata una pessima idea provare a riaddormentarsi, quando ancora le ronzavano in testa le immagini del suo ultimo sogno. Scalciò via le coperte da sopra di sé e rabbrividì, sentendo l'aria fredda della stanza sfiorarle le caviglie, i polsi e ogni parte del suo corpo non coperta dal pigiama. Sbadigliando, fece leva su un braccio e si mise a sedere sul bordo del letto, facendo attenzione a non svegliare l'altra occupante che dormiva profondamente in una posizione scomposta. Si guardò intorno per qualche minuto e poi si alzò, stiracchiandosi braccia e gambe; si infilò la vestaglia azzurra poggiata sulla sedia e aprì appena la persiana. La luce troppo forte la costrinse a chiudere gli occhi, in un primo momento, ma dopo averli riaperti rimase incantata, poggiata al davanzale: era una fresca domenica mattina a New York, il primo fine settimana di febbraio; dalla finestra della sua casa si vedeva quasi tutta la Columbus Ave e la leggera brezza che attraversava la strada scompigliava le lucide foglie degli alberi, portando con sé l'odore dell'erba appena tagliata. Era la prima giornata calda e soleggiata del mese, nell'aria si sentiva il profumo della primavera quasi alle porte, accompagnato dal lieve cinguettio degli uccellini che si svegliavano e dal vociare dei primi bambini nei parchi.
La via iniziava a popolarsi di persone: chi andava a lavoro, chi approfittava della giornata per fare jogging e chi, come lei, si godeva semplicemente il sole prima di iniziare la mattinata.
Quinn chiuse gli occhi, beandosi della sensazione del tepore del sole sulla sua pelle e il venticello che le scompigliava i capelli corti; inspirò profondamente il mix di odori che era tipico di New York, unito al profumo dei fiori che aveva piantato nel fazzoletto di giardino davanti casa.
 
Sospirando, la ragazza chiuse la finestra e tirò su le lenzuola a ricoprire la bionda che giaceva sul letto a mo' di stella marina, camminando poi in punta di piedi verso la cucina. 
Quest'ultima era un caos totale: da un lato del tavolo la tovaglia era ancora accartocciata, in attesa di essere ripiegata; dall'altro erano sparsi documenti, fatture e bollette che doveva finire di sistemare; il lavandino era ancora pieno dei piatti della cena precedente e sul pavimento erano sparpagliati dei colori a pastello e dei fogli bianchi. La sera prima era crollata sul divano, esausta, e non era riuscita a sistemare la casa, trovando a malapena la forza per spostarsi in camera.
Con un gemito di sconforto, Quinn si appuntò mentalmente di non permettersi più di rimandare le pulizie: se c'era una cosa che detestava, era l'odore di detersivo e candeggina di prima mattina.
Sospirando si rimboccò le maniche, svogliata, e prese a insaponare i piatti per poi infilarli nella lavastoviglie. Strofinò con cura ogni scodella, cercando di allontanare i pensieri, concentrandosi sui movimenti circolari della spugnetta, e sul sistemare in ordine le ciotole nel cestello; regolò le impostazioni di lavaggio, mise il sapone nell'apposita vaschetta  e fece partire l'apparecchio, canticchiando tra sé.
Tutto pur di impedire alla sua mente di vagare sul sogno della notte precedente. Sul ricordo di quell'anno. Sul ricordo di lei. 
Gettando uno sguardo al grande orologio a muro accanto alla porta, iniziò a preparare il latte e il caffè per la colazione, non volendo rischiare ti fare troppo tardi; accese la caffettiera e, aspettando che la spia rossa lampeggiasse, prese il latte dal frigorifero e lo mise a riscaldare nel bollitore; infilò la cialda nella caffettiera e spinse il tasto di accensione. Concentrandosi sul ronzio della macchina, sistemò i documenti sparsi sopra il tavolo in una cartellina azzurra, che ripose in uno scaffale accanto al corridoio. Per un secondo il suo sguardo cadde sulla foto accanto al mobile: il Glee Club al completo, il giorno del diploma.
“Dio, se mi mancano.”  pensò Quinn con un sorriso malinconico. Era da quando era scappata da Lima, sette anni prima, che non aveva più contatti con loro. Spesso si sorprendeva a chiedersi che cosa stessero facendo in quel momento, il loro lavoro, la loro vita. La piaceva immaginarsi insieme a loro, creare dei discorsi che avrebbero fatto se lei non fosse fuggita a causa del dolore. Ma la sua immaginazione correva sempre troppo veloce e non riusciva mai a fermarsi prima di arrivare a lei. Le era ancora doloroso pensare soltanto il suo nome e, quando riaffioravano i ricordi dell'ultimo anno di liceo passato con lei, i sospiri quando si erano concesse l'una all'altra per la prima volta, i baci dentro i bagni durante i cambi delle ore, le lacrime iniziavano ad uscire dai suoi occhi prima che riuscisse a fermarle. 
Il beep della caffettiera la riportò bruscamente alla realtà. Ringraziando il cielo, corse a spegnere sia il bollitore del latte, sia la caffettiera, riuscendo per un pelo a non far traboccare il liquido sul fornello. Mentre aspettava che il caffè si freddasse, prese la tovaglia e la ripiegò nell'apposito cassetto; poi prese due tazze dallo scolapiatti. In una, tonda e rossa, ci versò un'abbondante quantità di caffè, che addolcì con un cucchiaino di zucchero e un goccio di latte; nell'altra, bianca e nera a forma di mucca, versò il latte che mescolò con un cucchiaio di cacao dolce e un cucchiaino di zucchero.
Mentre girava il cucchiaino nella tazza, un movimento alle sue spalle la fece sobbalzare: seduta su una sedia accanto al tavolo c'era una figurina arruffata, gli occhietti verdi gonfi di sonno e i riccioli biondi scompigliati.
«Dio Beth, mi hai spaventata.» ansimò Quinn, portandosi una mano al petto.
La sua bambina. La sua gioia, la sua luce, la sua piccola ricciolina bionda. Sempre così silenziosa, come un gatto, che riusciva sempre a coglierla di sorpresa. La ragazza sorrise, accarezzandole i capelli.
Beth si stropicciò il visino e sbadigliò, rivolgendo poi alla madre un sorriso assonnato. La piccola inclinò la testa da un lato, allargando il sorriso e sbattendo le ciglia.
«Buon giorno anche a te, piccola.» sorrise Quinn, prendendo le due tazze e portandole al tavolo, facendo attenzione a non far cadere il latte. Diede un bacio sulla fronte della bambina e raccolse velocemente i fogli e i colori, che poggiò su un lato del tavolino.
«Allora, stamattina vuoi cereali o biscotti?» chiese la bionda, aprendo la dispensa. La bambina si strinse nelle spalle e ci pensò un momento; poi rise, di una risata silenziosa ma genuina. Anche la madre rise. «Ok, ho capito. Biscotti come tutte le mattine.» disse prendendo il baratto colorato. «Pensavo che avevi voglia di cambiare.» aggiunse sedendosi a tavola, accanto alla bambina.
Rimasero un po' in silenzio, mentre Quinn sorseggiava il suo caffè e Beth intingeva i biscotti nel latte. 
«Hai dormito bene nel letto di mamma?» domandò la bionda. 
La bambina annuì, masticando il biscotto. Come la madre, anche lei si era addormentata sul divano e Quinn aveva deciso di farla dormire assieme a lei. Accarezzò i riccioli della bimba, osservando i lineamenti del suo viso; crescendo le assomigliava sempre di più: il naso, gli occhi, erano i suoi. E crescendo assomigliava sempre di più al padre: nei sorrisi che le rivolgeva, nella sua imprevedibilità e in certi suoi atteggiamenti, vedeva il ragazzo ai tempi del liceo. Beth era l'unica cosa che la teneva ancora legata al suo passato. 
Scosse leggermente la testa, per scacciare i pensieri. Sul volto della bambina si dipinse un'espressione interrogativa. 
«Non è niente tesoro, tranquilla.» sorrise la bionda, bevendo un altro sorso del suo caffè. «Allora cucciola, ti va di venire a lavoro con me oggi?» domandò poi. Beth sfoggiò un sorriso luminoso e annuì, finendo in un attimo il latte. 
 
Quinn sospirò. Quella cosa andava avanti da sette anni; gli sguardi, le espressioni del viso, i sorrisi della piccola dicevano tutto quello che lei si rifiutava di dire a parole. Perché Beth, la sua gioia, la sua piccola bambina perfetta, non parlava. Mai. 
Nonostante la portasse in terapia da mesi, nonostante secondo i testi effettuati dai migliori medici dell'ospedale in cui lavorava, la piccola fosse perfettamente in grado di parlare, nonostante il QI che si era dimostrato nettamente superiore agli standard per la sua età, Quinn non riusciva a non preoccuparsi, a non chiedersi perché mai la sua piccola non parlasse. 
Non una sola parola, un verso, un qualsiasi segnale che indicasse che la sua gola fosse ancora in grado di produrre suoni articolati. Se non fosse stato per le canzoni che ogni tanto canticchiava a bocca chiusa, andando dietro alla mamma che cantava per farla sorridere, avrebbe pensato che fosse muta. 
Era ancora molto piccola quando Shelby, in una mattina di agosto, si era presentata a casa sua con il fagottino rosa tra le mani e una borsa di vestiti stretta in mano, dicendo che non poteva più prendersi cura della piccola. A quel tempo la biondina, che aveva a malapena due anni, faceva solo qualche versetto e qualche gorgoglio tra le risate, prima di chiudere definitivamente la bocca e non riaprirla più. Non una volta in sette anni, nemmeno durante i pochi pianti in cui era scoppiata da quando viveva con la sua madre naturale. 
Forse, aveva sempre pensato con terrore, era lei la causa del suo rifiuto di proferire parola?
Beth scese dalla sedia, interrompendo il flusso di pensieri di Quinn, appoggiò la tazza dentro il lavandino e si diresse in bagno saltellando. La bionda più alta la guardò con un sorriso, vedendo i suoi piedini paffuti scivolare appena sul pavimento liscio del corridoio. 
Dopotutto, pensò, finché fosse rimasta felice e serena, finché i medici avessero continuato a dirle che non si trattava di un problema organico, né psicologico, ma solo di una scelta, consapevole o meno, lei poteva restare tranquilla e godersi la sua piccola bambina dai riccioli dorati.
 
Quinn guardò l'orologio sopra la cappa di metallo. Le 7:58, non era ancora in ritardo.
Finì il suo caffè e, canticchiando a bassa voce, sciacquò le tazze e le mise nello scolapiatti. 
Finito di sistemare la cucina, si dedicò velocemente alla camera da letto: tirò le coperte e infilò i cuscini dietro la testiera bianca, poi prese gli abiti in fondo al letto e li ripiegò nei loro cassetti. Sentì la porta del bagno aprirsi e Beth camminare verso la propria camera, pronta per vestirsi.
Aprì l'armadio, prese un paio di jeans a sigaretta, una maglietta di cotone rossa e nera, infilandosi dentro il bagno ora libero. Si infilò dentro la vasca e lasciò scorrere l'acqua calda lungo il proprio corpo, concentrandosi nel rilassare una parte del corpo alla volta. 
Cercava di non pensare a nulla, solo al calore dell'acqua che iniziava a dare benefici, schiarendosi la mente e lasciandosi cullare dal dolce massaggio del getto caldo sulla pelle; quando uscì dalla doccia, era decisamente molto più rilassata rispetto a prima e nell'umore giusto per iniziare la giornata.  Si avvolse in un asciugamano e si lavò velocemente i denti, vestendosi e truccandosi in fretta. 
La bionda uscì dal bagno e si guardò nello specchio a busto intero che stava nel corridoio; si girò e rigirò un paio di volte, guardandosi da ogni angolazione, anche se le importava poco del suo abbigliamento perché a lavoro indossava sempre il camice; soffiò un bacio e un sorriso al proprio riflesso allo specchio, e prese i cappotti dall'armadio.
In salotto, Beth la aspettava seduta sul divano, già vestita con un abito giallo a maniche lunghe, le calze bianche e un paio di scarpe argentate.
«Sei pronta paperella?» le domandò la madre, alludendo al vestito della figlia e tendendo la mano verso la bambina. Quest'ultima scese velocemente dal divano, ridendo per il come era stata chiamata e si lasciò vestire da Quinn, che sorridendo le infilò il cappotto e le legò la sciarpa al collo. Uscendo di casa, la bionda chiuse la porta a chiave e prese la mano della bimba bionda, percorrendo in fretta il vialetto. Quinn si strinse nel cappotto: c'era il sole, ma il vento freddo del mattino pungeva sul viso, facendole pizzicare il naso. 
Fece scattare la chiusura centralizzata della sua Golf nera, affrettandosi per non far prendere troppo freddo alla sua bambina; aprì il sedile del passeggero, vi fece sedere Beth e la legò al seggiolino, per poi entrare anche lei in macchina. Diede un ultima sistemata al caschetto specchiandosi nello specchietto retrovisore e poi avviò il motore. 
Per un po' l'unico rumore furono le fusa della macchina; Quinn cercava di concentrarsi il più possibile sulla guida, lanciando di tanto in tento un'occhiata alla bambina seduta dietro di lei, ma i ricordi riaffioravano nell'esatto momento in cui si distraeva leggermente dalla strada. 
«Ti va di cantare un po'?» chiese la bionda alla figlia, cercando per l'ennesima volta di indirizzare i suoi pensieri altrove. Beth spostò lo sguardo da fuori il finestrino al riflesso della madre e sorrise di rimando.
Quinn ci pensò un momento, poi prese un respirò profondo e iniziò a cantare.
 
«You can buy your hair if it won’t grow 
You can fix your nose if he says so 
You can buy all the make-up that M.A.C. can make 
But if you can’t look inside you 
Find out who am I to 
Be in a position to make me feel so damn unpretty.»
 
La bambina canticchiava a bocca chiusa, seguendo il ritmo con la testa e alzandola leggermente nelle note alte. Le era sempre piaciuta quella canzone, era stata la sua ninna nanna per molto tempo, prima che iniziasse ad amare le storie che inventava la mamma. 
Dal canto proprio, quella era la canzone preferita di Quinn; era l'unico ricordo suo che non la faceva soffrire tremendamente. Ricordava come se non fosse passato neanche un giorno loro due sedute sugli sgabelli, che si guardavano con le lacrime agli occhi; quel giorno lei le aveva chiesto, davanti a tutto il Glee, di essere ufficialmente  la sua ragazza. Era stato il giorno più bello di tutta la sua vita, non sarebbe mai riuscita a dimenticarla. 
 
Cantarono per altri dieci minuti, finché Quinn non parcheggiò nel parcheggio a più piani dell'Hospital for Special Surgery.  
Lì sotto faceva veramente freddo e, prima di scendere dall'auto, la ragazza strinse bene la sciarpa di Beth; poi la prese per mano e chiamò l'ascensore. Durante l'attesa, la bambina tirò delicatamente la maglietta  alla madre, per farsi prendere in braccio; la bionda sorrise e l'accolse tra le sue braccia, posandosela su un fianco.
«Va bene, ho capito.» sorrise, stampando un bacio leggero sulla guancia della bimba e entrando dentro l'ascensore. «Sai quale tasto devi premere.» concluse, capendo al volo le intenzioni della figlia, che sorridendo e sbattendo le ciglia premette il dito contro il tasto del quinto piano.
Fecero il loro ingresso nella sala d'attesa del reparto pediatria giusto in tempo per l'inizio del turno di Quinn. Fece scendere la bambina dalle sue braccia, timbrò il cartellino e andò verso il suo armadietto.
«Quennie!» la chiamarono da dietro, facendola sobbalzare. 
“Fantastico.” pensò scocciata la bionda, prendendo sbuffando le chiavi dell'armadietto dalla borsa nera. Sentì che la bambina si nascondeva piano piano tra le sue gambe e il metallo freddo.
«Ciao Jenny.» salutò la ragazza, senza tentare di nascondere il fastidio. 
Jennifer era un'infermiera alta, sulla trentina, con lunghissimi capelli neri e occhi di azzurro chiarissimo. Lavorava lì da prima dell'arrivo di Quinn, a cui non era mai stata simpatica. Avevano sempre avuto turni opposti, quindi la bionda la doveva sopportare solo per i cinque minuti del cambio turno, ma le bastavano e le avanzavano.
«Visto che oggi è domenica, ho cambiato il turno. Lavoriamo insieme, sei contenta?» la informò la mora, battendo le mani come una bambina.
«Mmh..» annuì la bionda, tirando fuori il camice azzurro dall'armadio e soffocandoci dentro un sospiro esasperato. Quella giornata non sarebbe passata mai.
Jenny sbuffò per lo scarso entusiasmo della collega, notando poi una piccola figura dietro a Quinn. 
«Hai portato la tua cucciola!» esclamò scompigliando i morbidi riccioli di Beth.
«Già, non volevo lasciarla con la baby sitter.» spiegò velocemente la bionda, prendendo in braccio la figlia. Beth incatenò i suoi occhi smeraldo in quelli di Quinn, piagando appena la testa scocciata.
«Lo so.» mimò la bionda con le labbra, dirigendosi verso il banco bianco della sala d'attesa e accomodandosi su una delle due poltroncine, seguita subito dopo da Jenny.
Beth si accomodò su uno sgabello dietro la mamma, prendendo un foglio bianco dalla stampante vicino al computer e una delle matite contenute in un barattolo rosso. Quinn osservò per qualche minuto la bambina, per poi ordinare i documenti sparsi sul bancone.
«Non mi sembri in vena di chiacchierare oggi.» commentò l'infermiera più anziana, innervosita dall'atteggiamento poco partecipativo della collega.
«Sono molto stanca.» rispose Quinn vaga. «Potresti portare questo modulo al dottor Jonson?» aggiunse poi, porgendole un foglio. Jenny si alzò, scansando con forza la sedia.
Quinn sospirò, accarezzando la testolina della figlia, che alzò lo sguardo dal suo foglio; il suo sguardo era piano di comprensione e conforto. 
Spesso la bionda pensava che sua figlia fosse l'unica che l'avrebbe mai capita veramente. Involontariamente, le sue labbra si tesero in un sorriso.
«Ce la possiamo fare. Insieme.» mormorò, sentendo i tacchi della collega che si avvicinavano sempre di più.
 
*** 
 
Quinn timbrò di nuovo il cartellino, stavolta più spensierata di prima, con la bambina addormentata in braccio: Beth si era addormentata sullo sgabello verso mezzogiorno e la madre l'aveva sistemata su una delle poltroncine della sala d'aspetto. 
La ripose delicatamente nel seggiolino, facendo attenzione a non svegliarla mentre le allacciava le cinture; poi si infilò a sua volta in macchina, salutando Jennifer. Non si pentiva di non essere stata molto educata con lei, almeno non le aveva rivolto la  parola per cinque ore.
L'orologio della radio segnava le 13:32. Ci voleva troppo per andare a casa e mettersi a cucinare; no, voleva fare una sorpresa alla sua bimba, visto la bellissima giornata. Così, deviò verso Central Park, accompagnata dal respiro pesante della piccola.
Si fermò in un parcheggio aperto, poco distante dal posto dove andavano sempre.
Lo aveva visto per la prima volta durante il soggiorno delle Nazionali, assieme a Santana e Brittany subito dopo essersi tagliata i capelli, ed era stata felice di ritrovare qualcosa di familiare dopo che si era trasferita. Si trovava davanti al The Lake, il lago più piccolo del parco, ed era formato da un ampio spiazzo arancione nel centro del quale troneggiava la Bethesda Fountain; a destra si trovava una pista ciclabile dove ragazzi con biciclette, skateboard e pattini a rotelle potevano divertirsi senza preoccuparsi delle automobili. A sinistra, accerchiato da pini secolari e panchine di legno, si trovava un piccolo parco giochi per bambini, dove Quinn poteva lasciar giocare Beth e supervisionarla anche stando seduta.
Se ricordava bene, poco più in la, c'erano una serie di pizzerie, ristornanti e fast food, che facevano proprio al caso suo.
Scese dall'auto e si sfilò il cappotto: iniziava a fare veramente caldo. Poi, aprì il posto del passeggero e, il più delicatamente possibile, la prese in braccio.
«Beth, cucciola?» sussurrò la mamma nell'orecchio della bambina, che si voltò verso di lei e aprì gli occhi verdi, gonfi di sonno come la mattina.
«Ciao dormigliona.» la salutò la bionda, dandole un bacino sul naso. «Andiamo a mangiare?»
Beth annuì e sorrise assonnata, infilando il viso tra la spalla e il collo della mamma, provocando dei brividi sulla sua pelle.
Quinn si incamminò verso la piazza, accompagnata dal respiro pesante della bimba, guardandosi intorno. Il parco, baciato dal sole, era ancora più bello del solito; le folte chiome verdi degli alberi, ancora bagnate  a causa dall'ultima pioggia, provocavano dei strani giochi di luce sul terreno. A quanto pareva non erano state le uniche a sfruttare quella giornata splendida, come era ovvio: c'erano persone che prendevano il sole sdraiate su degli asciugamani sul prato, bambini che giocavano a nascondino dietro agli alberi, signore anziane che chiacchieravano felici mentre tiravano le molliche di pane ai piccioni, ragazze che si allenavano, percorrendo la pista apposita.
All'improvviso una ragazza in particolare attirò l'attenzione di Quinn: era di bassa statura, con lunghi capelli castani e gambe corte e carnose. Alla bionda gelò il sangue nelle vene.
“Non può essere.. lei.” pensò la bionda, affrettando il passo, cercando di raggiungerla e contemporaneamente di non svegliare Beth. Ma all'improvviso la ragazza svoltò in un'altra strada, interrompendo l'inseguimento della bionda, che scosse la testa sorridendo tristemente. 
Non poteva essere lei. Lei non sarebbe mai tornata.
 
Sovrappensiero, arrivò nella piazza arancione; nello spiazzo risuonava il vociare delle persone accompagnato dal rumore del lago in sottofondo. Quinn si avviò in un altra strada, dove sicuramente avrebbe trovato qualche pizzeria.
«Amore?» chiamò la bionda, accorgendosi dell'assenza del respiro della bambina sul suo collo. Beth fece capolino da sopra il suo petto, osservando la mamma con i suoi occhioni verdi.
«Hai finito di dormire? Sei proprio come un ghiro dormiglione!» le disse la mamma, facendo il solletico alla bimba, che rise (ovviamente in silenzio) di gusto; poi si divincolò delicatamente, cercando di farsi mettere a terra. La bionda fece scendere la bambina dalle sue braccia e le sfilò il capottino blu e infilandoselo sotto il braccio.
«Allora, micia, ti va una pizza?» chiese Quinn dopo qualche minuto, spostandole i capelli sudati dalla fronte. Beth annuì lentamente, anche lei incantata dal paesaggio. La bionda si ricordò di una pizzeria che faceva pizze tonde di ogni tipo, quindi la cercò un po' con lo sguardo tra gli altri negozi. 
Quando riconobbe l'insegna verde, che recitava “Il pizzaiolo italiano” accelerò il passo; entrarono e subito furono investite da una fresca ventata che portò con se l'odore della mozzarella e dell'origano.
Una cameriera, alta e con lunghi capelli rossi, venne loro incontro con un sorriso.
«Salve.» salutò cordiale.
«Buon pomeriggio. Potremmo avere un tavolo per due, per favore?» domandò Quinn educatamente.
«Certo. Se volete seguirmi.»rispose la cameriera, guidandole verso il tavolo più vicino all'enorme vetrata che illuminava tutta la stanza e prendeva tutto il paesaggio.
«Cosa vi porto da bere?» domandò ancora la cameriera, sorridendo alla bionda. Quest'ultima guardò Beth, che inclinò, come suo solito, la testa da un lato.
«Aranciata e acqua, per favore.» rispose Quinn, sorridendo di rimando. La cameriera scomparve con un sorriso dietro una porta marrone ciliegio.
«Mai qualcosa di salutare vero?» domandò la bionda alla figlia,alludendo alla sua passione per l'aranciata. Beth rise, scuotendo la testa. La bionda sorrise, appoggiando la giacca della figlia su una sedia accanto alla sua e poi prese il menù verde sul tavolo.
C'era una lista varissima di pizze: c'erano le più comuni, come la margherita, la boscaiola, la quattro formaggi, altre che la bionda non aveva mai sentito nominare, piene di ingredienti strani.
«Immagino che neanche nei gusti della pizza sei cambiata vero?» chiese Quinn, chiudendo il menù e appoggiando il mento su un pugno. Beth però non rispose e spostò lo sguardo verso fuori dalla vetrata, mentre la cameriera appoggiava le due bottiglie sul tavolo, facendo sobbalzare Quinn.
«Ditemi, avete già deciso che cosa ordinare?» domandò, sfilando dalla tasca del grembiule bianco, un notes e una matita.
«Grazie. Allora, per lei una margherita con prosciutto crudo e olive.» iniziò Quinn, facendo l'occhiolino alla figlia . «Per me una capricciosa. Se possibile senza carciofini e uova, e con salame piccante.» aggiunse poi, tornando a guardare la rossa. Questa, annotò velocemente sul taccuino e poi alzò lo sguardo, tornando a fissare la bionda.
«Ve le porto subito.» disse, per poi avvicinarsi all'orecchio di Quinn.
«Sai, le ragazze madri sono veramente sexy.» soffiò, con voce seducente. La bionda raddrizzò la schiena, sbarrando gli occhi e voltandosi lentamente verso la cameriera, che si allontanava con un sorriso malizioso.
Non era più abituata a quel genere di complimenti. Aveva i brividi sulla pelle e, voltandosi verso la figlia, la trovò che si reggeva la pancia, non riuscendo neanche a respirare a causa della sua risata muta. Quinn incrociò le braccia, riducendo gli occhi ad una fessura.
«La vuoi smettere?» domandò stizzita dopo qualche minuto, visto che la bambina non riusciva a frenare le risate. Beth prese un respiro profondo, asciugandosi una lacrima sull'angolo dell'occhio verde.
«Tutta tuo padre.» borbottò Quinn e la bambina annuì, con aria fiera.
Una fitta al petto le fece perdere il fiato, mentre i pensieri correvano subito a cosa implicava per lei il concetto di “Puck”: Beth, come prima cosa; poi morte, tradimento, strappamento di genitali a morsi... e ovviamente lei.
Scosse la testa,decisa a concentrarsi su altro. Solo in quel momento notò che il locale era quasi vuoto, eccetto loro e un altro paio di persone, cosa strana visto che erano in piena ora di pranzo. Si versò un bicchiere di aranciata, sotto lo sguardo corrucciato di Beth.
«Sono arrabbiata con te, mi devi un bicchiere .» borbottò Quinn, sorridendo nel bicchiere.
La porta della cucina si aprì con un cigolio e vi spuntò la cameriera, che portava in mano le loro due pizze.
«Una margherita mista per la bimba.» disse poggiando il piatto davanti a Beth, che inspirò a pieni polmoni.
«E una capricciosa piccante per te dolcezza.» aggiunse poi, rivolta a Quinn. La rossa si allontanò, accarezzandole seducentemente il braccio. La bionda si voltò imbarazzata verso il suo pranzo, giusto in tempo per vedere la figlia che ricominciava, muta, a ridere.
«Quando hai finito, mangia che si fredda.» borbottò la ragazza, prendendo un tracio di pizza e infilandoselo in bocca, dimenticando, a causa della rabbia, che era bollente.
 
«Il conto prego.» disse la bionda, dopo l'ennesimo sorriso malizioso della cameriera.
Beth bevve l'ultimo sorso dell'aranciata, mentre la mamma tirava fuori il portafoglio dalla sua borsa, sperando di avere contanti.
La cameriera tornò con un libricino marrone, poco più piccolo del menù. Al suo interno c'era il foglio del conto e un piccolo post-it giallo, con sopra scritto “Syu” e un numero di telefono. La bionda infilò la banconota nel libricino e si lasciò cadere il foglietto giallo nella tasca, con un sospiro; rivestì Beth e uscì dal locale, facendo suonare di nuovo i sonagli attaccati all'architrave.
Subito, la piccola allungò il passo, piazzandosi davanti alla mamma, a braccia conserte e un sopracciglio alzato.
«Era maleducazione buttarlo di fronte a lei.»  si difese la bionda capendo subito a cosa alludeva la figlia.
In realtà, quella ragazza non era male. Tanto lei non sarebbe mai tornata. Perché doveva attaccarsi ad una promessa fatta anni prima, che era stata infranta?
Ormai erano sette anni che la aspettava, che vedeva il suo viso ovunque, che popolava tutti i sui sogni. Per quale motivo? 
Lei aveva ricominciato la sua vita ed era ora che Quinn facesse lo stesso.
Prese per mano la bimba, che, sospirando, riprese a camminare assieme alla mamma.
La bionda si bloccò di nuovo, guardando prima in direzione del parcheggio e poi in direzione dello spiazzo arancione. Ci pensò su qualche momento, poi guardò la figlia.
«Che ne dici di andare al parco?» domandò la bionda. Non aveva la minima voglia di tornare tra le quattro mura della sua casa con quella giornata semplicemente stupenda.
Beth annuì seria e le diede le spalle, iniziando a camminare verso la piazza. 
Anche se il parco e le panchine intorno ad esso erano piene, il primo di bambini urlanti, le seconde di genitori che ad ogni movimento dei figli si sbracciavano per farli calmare, Quinn notò con piacere che la sua panchina e la cesta della sabbia erano vuote.
Con un sorrisetto soddisfatto si sedette sul legno umido, poggiando i due cappotti al suo fianco e poggiò le mani sulle spalle di Beth.
«Dovrò dire addio per sempre a questo vestito.» sussurrò, son finta voce dispiaciuta. Sapeva per esperienza che, qualsiasi capo di abbigliamento indossasse la bimba, vecchio o nuovo, non usciva intero dalla cesta della sabbia.
Beth le fece la linguaccia e corse verso il suo gioco preferito, mentre Quinn si poggiava sulla spalliera della panchina; cerco con lo sguardo il lago, cercando di scorgerlo tra il mare di teste che affollava lo spiazzo. La rilassava osservare l'increspatura dell'acqua e i giochi di luce che il sole provocava su di essa, e in quel momento aveva veramente un gran bisogno di rilassarsi.
Mentre continuava ad allungare il collo e scorgere uno squarcio dello specchio d'acqua, il movimento di una treccia scura catturò la sua attenzione. Di nuovo, il sangue le si gelò nelle vene.
“E se fosse veramente...” pensò, cercando di scorgere il viso della ragazza, purtroppo costantemente coperto da una ciocca più corta dei capelli scuri.
La fissò per una paio di minuti, sperando che da un momento all'altro cambiasse direzione e si mostrasse, fino a quando lei non inciampò nelle gambe di una ragazza china sul bordo del lago e, nel rialzarsi, mostrò un tenero naso alla francese un una paio di occhi verdi smeraldo
Sospirò, delusa. Ma che cosa le saltava in testa?
Lei non sarebbe tornata, aveva ricominciato la sua vita.
Tornò con lo sguardo alla cesta della sabbia e, per poco non svenne: Beth era sparita. 
Si alzò con uno scatto, il cuore a mille, lo sguardo che saltava da una persona all'altra, in cerca della testa riccioluta della figlia.
«Beth?» urlò, con tutto il fiato che aveva in corpo, spostando violentemente la gente che intralciava la sua visuale, beccandosi i peggiori insulti.
La cercò e la chiamò, fino a quando la vide che camminava tranquillamente verso  la fontana. Quinn corse verso di lei, prendendola in braccio da dietro e stringendola forte a sé.
«Ma cosa ti salta in mente?» la sgridò, incatenando i suoi occhi furenti in quelli verdi della bimba. 
La figlia non si mosse di un millimetro e indicò con la manina paffuta la ragazza bionda davanti al bordo di marmo. 
Quinn si calmò, confusa.
«Vuoi che ti porti da quella ragazza?» chiese. La  piccola annuì decisa, divincolandosi per scendere dalle braccia della mamma, che la mise a terra e si lasciò portare.
Non capiva per niente cosa, in quella ragazza, potesse attrarre Beth. In effetti era vestita in modo stravagante: aveva lunghissimi capelli biondi e indossava una maglietta lunga e grigia, a mezze maniche; un paio di shorts verde lime, che le arrivavano a poco meno di metà coscia, con delle perline attaccate tutto in torno ai bordi; un paio di calzettoni a strisce viola e azzurri, con due pon pon che pendevano e un paio di Nike bianche, con i lacci arancioni.
Beth  si avvicinò lentamente alla ragazza e, timidamente, le diede un paio di colpi sulla spalla.
La bionda si voltò, rivelando un viso infantile e un paio di occhi blu profondissimi.
Quinn sgranò gli occhi. Era lei.
«Brittany?»

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Gina's Corner:  Eccomi qui, con il primo capitolo! 
 
È un pochino corto, ma il resto continua nel prossimo capitolo. Mi pareva giusto farmi rosicchiare un po'=)
 
Ringrazio le persone che  hanno letto e messo tra le seguite/preferite/ricordate  il prologo!
Anche  se è una sola recensione, immagino che sia perché non era un capitolo soddisfacente e non perché non piace!
Ok, mi sono capita da solo XD
 
Non mi piace moltissimo, preferivo la prima versione, ma la mia scartavetra ovaie adorata sorellina ha detto che era migliore così. Dice che i suoi consigli sono oro per noi giovani scrittori .-.
Date la colpa a lei se non vi piace u.u
 
Non ho nient'altro da dire, fatemi sapere con una piccola frasetta che ne pensate e se ci sono domande, I'm there =)
 
And that's how Gina sees it.
Peace and Love ;)
                                                                                                                                                                                                                                                                

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Capitolo 3
*** 2. Quinn's back ***


2. Quinn's back

 

La bionda si voltò, rivelando un viso infantile e un paio di occhi blu profondissimi.
Quinn sgranò gli occhi.
Non ci poteva credere. Era lei.
«Brittany?»

 

 

La ballerina sbatté per un paio di volte gli occhi azzurri, confusa.
Quando riuscì a mettere a fuoco la persona davanti a lei, un sorriso a trentadue denti le si stampò sul viso.

«Oh mio Dio, Quinn! Sei tu!» esclamò, saltando addosso alla più bassa, facendole rotolare entrambe per terra.
«Oh mio Dio! Oh mio Dio! Oh mio Dio! Non riesco a crederci!» urlò, mentre tutte le persone si giravano verso di loro. «Sei veramente qui! Non sei una mia immaginazione! Oh, per tutte le papere del mondo!» aggiunse, tastando tutte le parti del corpo sotto di lei a cui riusciva ad arrivare.
Quinn dal canto suo, non riusciva a vedere più niente, a causa dell'enorme pancia della ballerina.
«Britt, ti prego! Non respiro!» ansimò la più bassa, cercando far spostare la ragazza sopra di lei, seduta esattamente sul suo petto.
«Ops, perdonami!» esclamò la ballerina, scendendo da sopra all'amica con un agile balzo e aiutandola a rialzarsi.
Quinn si ripulì i pantaloni dalla terra e poi osservò la bionda. Non era cambiata affatto in sette anni: gli stessi enormi occhi blu, pieni di innocenza e allegria, le stesse cosce sode da ballerina e i muscoli delle braccia, lo stesso sorriso allegro, gli stessi lunghissimi, scintillanti capelli biondi, le stesse costellazioni di lentiggini intorno al naso.
L'unica cosa che stonava era l'enorme rigonfiamento sulla pancia.
«Britt, sei incinta.» disse sorpresa la ragazza, spalancando gli occhi e indicando l'addome della più alta.
«Già! Troppo bello vero?» rispose lei entusiasta, picchiettandosi la pancia.
«Sei veramente incinta.» aggiunse Quinn, sbattendo gli occhi.
«Sì!» esclamò la ballerina, che iniziava a pensare che gli orchetti avessero invaso la testa di Quinn.
«Veramente molto incinta!»
«Sì Quinn, sono sei mesi che mi hanno infilato dei semi di cocomero nello stomaco.» concluse la ballerina, incrociando le braccia scocciata.
Calò il silenzio tra le due, ognuna fissava l'altra.
«Quinn?» chiese Brittany preoccupata di averla offesa, vedendo che la bionda non reagiva.
«B... tu... Mi sei mancata!» esclamò la più bassa, gettando di nuovo le braccia al collo all'amica, mentre Beth batteva le manine, sorridendo.
«Anche tu Q, a tutti noi.» disse Brittany, accarezzando dolcemente il caschetto dell'amica. Quinn allontanò il viso dalla spalla della ballerina.
«Noi?» chiese, confusa.
«Sì! Tutti noi del Glee! Sono sette anni che ti cerchiamo!» le spiegò la bionda, sedendosi su una panchina. «Quando sei sparita assieme a lei-» disse indicando Beth con un piccolo broncetto- «-ti abbiamo cercato per tutta Lima, ma era come se Mamma Odi ti avesse fatta scomparire.».
Quinn sorrise afferrando subito l'allusione a “La Principessa e il Ranocchio”.
«Perdonami, avevo bisogno di allontanarmi per un po'.» le spiegò la bionda, abbassando gli occhi. «Di scappare da tutto ciò che...» aggiunse, prima di afferrare bene la frase dell'amica.
«Aspetta, sei rimasta in contatto con loro? Tutti loro?» domandò , per poi scuotere la testa e bloccare le labbra della ballerina che stava per ribattere. «Ok, aspetta. Ti va di parlarne davanti ad una cioccolata calda?» aggiunse in seguito, prendendo per mano Beth e tendendo l'altra a Brittany, che la prese tutta contenta.


Erano ormai le quattro del pomeriggio, e le tre ragazze erano sedute da Starbuks ognuna con la propria tazza fumante davanti. Brittany e Beth avevano ordinato un frappuccino e un muffin, mentre Quinn aveva preso il solito the.
La ballerina morse il suo enorme dolcetto, sorridendo alla bambina che si era impiastrata tutta il viso.
«Allora, ti ricordi di me, piccola Bambi?» chiese Brittany a bocca piena, ridendo del viso impiastrato della bambina. Beth annuì alzando il polso, dove c'era un piccolo ciondolino a forma di mucca, che le era stato regalato da Brittany per il suo terzo compleanno.
La ballerina rise, alzando il polso a sua volta per mostrarle lo stesso bracciale.
Quinn guardava quella scena, sorridendo. Aveva sempre immaginato una scena simile, e ora le sembrava così spontanea e genuina, come se la vedesse tutti i giorni.
«Ma che cosa hai fatto in questi sette anni?» le chiese la ballerina, scompigliando i capelli a Beth.
«Niente. Ho trovato un lavoro come infermiera, mi occupo di Beth e passo le giornate a rimpiangere il mio passato.» rispose Quinn, senza tanti giri di parole. Sapeva che l'amica poteva capirla.
«Ti giuro Q, abbiamo provato a chiamarti e a spedirti delle lettere con il computer, ma non rispondevi. Poi tua mamma ci ha detto che eri partita.» sussurrò Brittany. 
«La colpa non era la vostra. Avevo solo bisogno di stare da sola.» la rassicurò. «Allora, racconta. Che cosa fai di bello?» domandò poi, bevendo un sorso della sua bibita.
«Ho un negozio di abiti.» rispose la bionda, mandando giù un boccone. «Io e Tubb inventiamo i disegni, e Kurt lo fa nascere da un pezzo di stoffa!» esclamò entusiasta, per poi abbassare la voce. «Sono sicura che viene aiutato dalle fatine.» annuì seria.
Quinn rise, tornando subito seria dopo la faccia corrucciata della ballerina.
«Allora, raccontami degli altri.» le chiese la più bassa, poggiando la schiena contro il divanetto. Si prospettava un lungo discorso.
«Oh sì! Siamo una grande famiglia! Enorme!» iniziò la ballerina ingoiando il boccone. «Come comincio? Giusto! Santana!» pensò poi, con aria sognante. «Lei è la luce dei miei occhi. È una giornalista sportiva, spesso lavora con la coach Sylvester. Anche se non c'è quasi mai, mi racconta tutto quello che fa, quando facciamo il bagno insieme, e anche alla nostra bambina».
La più bassa provò una punta di gelosia. Loro erano riuscite a d essere felici, avevano una famiglia, tornavano l'una dall'altra. Lei non era neanche riuscita a far restare il grande amore della sua vita accanto a lei.
«Quando faccio i miei esercizi di ballo inizia ad urlare perché dice che le ho tolto tutta la parte liquida dell'osso per restare incinta e ora le tolgo la vita a forza di spaventi. Non capisco cosa vuol dire, io ballo e basta.» le spiegò poi Britt ridendo.
«Perdonami, tu sei incinta e balli?» domandò Quinn confusa.
«Certo! Tutte le mattine, dopo la colazione inizio con la danza step e le flessioni; dopo pranzo faccio gli esercizi di yoga con la Wii e dopo cena mi metto un po' a ballare. Ogni tanto cambio parte della giornata però sì, lo faccio.» rispose, mordendo il suo muffin, come se fosse la cosa più normale del mondo.
«E poi Mike!» riprese con entusiasmo la ballerina, senza lasciare all'amica il tempo di stupirsi della sua spericolata routine. «Lui è come un fratello! Quando Sannie non c'è, viene sempre da me a farmi compagnia. Lui mi fa ballare senza problemi.» rise, ripensando. «Lui fa quel lavoro strano, quello che assomiglia al frutto.» aggiunse, puntandosi un dito sulla testa.
«L'avvocato.» disse Quinn sorridendo.
«Sì, lui! Lavora insieme a Finn! Li devi vedere, sembrano due pinguini vestiti a sera!» concluse soddisfatta.
«Wow, non ce lo vedevo proprio Finn come un avvocato!» esclamò Quinn, sorseggiando il suo tè.
«Vero! Lui si è sposato l'anno scorso con Tina! Mike dico, non Finn. Non credo che a Finn piaccia Tina, ma a lui non piace nessuna perché ha sempre quel muso lungo. O forse è solo il suo viso a essere di forma strana. Comunque, dicevo, è stato un matrimonio asiatico, proprio come lo immaginavamo al liceo. Hanno anche una bambina, Jenna, che è bellissima! Ama gli unicorni quasi quanto me, infatti Tina dice che la colpa è la mia perché le raccontavo degli unicorni che mi intrecciano i capelli la mattina.» aggiunse, imbronciandosi. Beth sorrise, annuendo.
«Anche a lei piacciono gli unicorni. Ne ha tre di peluche.» tradusse la madre, accarezzando i capelli della figlia.
«Che belli! Me li fai vedere un giorno?» chiese Brittany congiungendo le mani. Beth annuì ridendo, silenziosamente, come una pazza.
«Ti ringrazio!» esclamò la ballerina, tornando a guardare l'amica. «Dicevamo. Kurt lavora con me, anche se lui è uno stilista. Il nostro negozio si chiama Hummel-Pierce Stile e sono tutti abiti di marche importanti!» riprese. «Lui è sposato con Dave, che è uno di quei medici che fa nascere i bambini. Ha detto che sarà lui a sgonfiarmi il pallone che ho nello stomaco!» annuì, tamburellando sul rigonfiamento. «Hanno anche una bambina, ed è la bambina più viziata del mondo ed è strana: parla come se avesse trent'anni, a volte non la capisco nemmeno io. Una donna l'aveva abbandonata nell'ospedale dove Dave lavora quando aveva solo due anni. Lui l'ha presa e l'ha portata a casa, il giorno del compleanno di Kurt. Da allora nessuno dei due la lascia sola.» aggiunse, bevendo la sua cioccolata calda.
«Che tenerone che è Dave, è proprio un peluche!» esclamò Quinn, ricordando come si era dimostrato dolce quando si era dichiarato a Kurt.
«Vero! Lui lavora con Artie, che cura i bambini. Il suo ufficio è un vero e proprio parco giochi! Lo devi vedere.» continuò la ballerina, finendo con un morso il suo muffin.
«Lui e Sugar stanno insieme quattro anni, anche se, come ricorderai bene, avevano fatto un po' tira e molla al liceo. Lei è una parrucchiera molto brava, fa delle acconciature bellissime!».
«Sam è uno di quelli che vende le case.» continuò «È stato uno dei primi a trasferirsi a New York, ed è stato lui a vendere una casa a tutti noi. Dice che le persone che hanno bisogno di una casa gli ricordano la sua famiglia. Lui e Mercedes sono sposati, ma si amano come se fossero ancora al liceo, te li ricordi? Anche loro hanno un bambino, Alex, ed è un amore. È l'unico maschietto e ha solo un anno, infatti Mercedes ha smesso di lavorare perché si voleva occupare solo del suo piccolo gnometto.» raccontò.
«Anche Rory è con noi. Lui ha il pub Pot' O' Gold, dove noi ci rincontriamo due volte a settimana. Prima Finn lo aiutava un po', ma ora che ha un lavoro fisso ci va solo di sera.».
«Wow, come sono cambiate le cose in sette anni.» sospirò Quinn.
«Già. E c'è ancora di più!» esclamò la bionda «Ci sono anche Blaine e Sebastian ma neanche noi li vediamo spesso. Sebby è un modello di biancheria intima.» ridacchio, abbassando poi la voce. «Kurt ha le sue riviste chiuse nel cassetto dell'ufficio.» le disse. «Purtroppo è sempre in viaggio, quindi lo vediamo pochissimo. Blaine invece lavora a Lima da Gap e viene a trovarci insieme al ragazzo. La prima volta che ci siamo rincontrati, li abbiamo invitati ad una delle nostre cene. Dave ha urlato per tre ore, dicendo che non avrebbe mai permesso che Kurt stesse nella stessa stanza di Blaine. Ha detto che non gli importava se era fidanzato, doveva comunque stare lontano da suo marito, perché a causa sua aveva passato l'inferno. Kurt ha provato a farlo ragionare, dicendo che amava solo lui e che non gli importava più dell'altro ragazzo, ma Dave si è infuriato ancora di più dicendo che provava ancora qualcosa per quel “piccione con i capelli finti” e glielo stava nascondendo.» rise Brittany scuotendo la testa e accarezzandosi la pancia, mentre Quinn e Beth ascoltavano il racconto come se si trattasse di un film particolarmente avvincente. La bionda ci sapeva fare con i racconti.
«Alla fine San è riuscita a convincerlo a partecipare alla cena, ma non con le maniere buone. Ha giurato che se avesse rovinato la serata a tutti, avrebbe organizzato una serata solo per Blaine e Kurt. Lui si è lasciato convincere, ma ha borbottato per tutta la serata e ha costretto Kurt a mangiare in braccio a lui dalla parte opposta del tavolo rispetto al ragazzo, seguendolo ovunque andasse.» Brittany rise, insieme a Quinn e Beth.
«Sarebbe molto bello rincontrarvi tutti.» sospirò la più bassa, con un sorriso malinconico.
«Ci farebbe molto piacere. Sono sette anni che ti aspettiamo.» rispose con altrettanta tristezza la ballerina.
Quinn sentiva una domanda premere per uscire da quando B aveva aveva iniziato il racconto, ma aveva paura di rimanere delusa dalla risposta. Aveva paura degli effetti che avrebbe provocato in lei, se la risposta era quella che temeva. Non capiva se l'amica avesse parlato di tutti tranne che di loro due volontariamente, perché voleva evitare l'argomento, o perché, semplicemente, non erano compresi nel pacchetto della "grande famiglia"
«B... anche... insomma... anche Puck e...» iniziò, torturandosi le mani, notando il sussulto della ballerina. Non ce la faceva, persino dire il suo nome le faceva male, non ci riusciva. Sospirò, guardando con occhi supplichevoli la sua ritrovata amica.
«Oh, ma non ti ho fatto vedere le foto!» esclamò Brittany, dandosi una pacca sulla testa. Prese l'enorme borsa viola e iniziò a frugare, infilando quasi tutta la testa dentro.
Sì, vuole evitare l'argomento” concluse Quinn con un sospiro.
«Dove ho messo il portafoglio?» borbottò Brittany, iniziando a tirare fuori buste di caramelle, bastoncini di zucchero e pupazzetti dalla borsa. «Lee-lee ti ricordi dove ho messo il portafoglio?» domandò poi, rivolta alla sua pancia.
Beth guardò la mamma con aria interrogativa, che le rispose mimando con le labbra 'è normale che parli con la sua pancia, è Brittany' poi spostò lo sguardo sull'amica.
«Lee-lee?» domandò Quinn.
Brittany uscì fuori dalla borsa e la guardò come se le avesse domandato la cosa più ovvia del mondo.
«Leya Sophie.» rispose la ballerina. «È il nome che io e San abbiamo dato alla bambina. Lei le voleva dare un nome spagnolo, perché diceva che voleva che la nostra
bambina fosse attaccata al suo mondo, e io la volevo chiamare Sophie. Alla fine, li abbiamo scelti entrambi, perché nessuna delle due voleva rinunciare al nome.» sorrise.

«È veramente un bellissimo nome.» le disse Quinn, mentre Brittany ricominciava a svuotare la sua borsa.
«Eccolo!» esclamò la ballerina, sventolando un portafoglio a forma di papera, da cui sfilò quattro pezzi di carta.
«Lei è Jenna, ha due anni!» disse la bionda, mostrando la prima foto. Ritraeva una bambina mora che sembrava la sorella gemella di Mike. Aveva un paio di codine strette in due elastici rosa. Gli occhi marroni leggermente a mandorla erano del padre, come le labbra rosa. Il nasino invece era della mamma, piccolo e a patata.
«Wow, è uguale a Mike.» commentò la ragazza, mentre Brittany cambiava immagine.
«Lei è Emily. Lei è la più grande dei bambini, ha otto anni.» spiegò la ballerina. Se non fosse stato per gli occhi azzurri e i lunghi riccioli l'avrebbe scambiata per Beth.
Gli occhi assomigliavano a quelli della ragazza di fronte a lei, solo che quelli della bambina erano più chiari e i lunghi e disordinati riccioli cadevano sul cuscino.

«Oh, mio Dio che bella!.» disse Quinn, mentre osservava un'altra foto.
«Lui è il piccolo Alex.»
La più bassa rimase stupita. Essendo il figlio di Mercedes, si era immaginata un bambino con la pelle scura, invece il bambino aveva la candida pelle del padre. Per il resto, i capelli a caschetto, i grandi occhi marroni, il naso piccolino e la bocca carnosa, aveva ripreso dalla mamma.
«E lei, è la mia Lee- lee.» concluse Brittany, mostrandole il fermo immagine di un ecogramma. Si distingueva perfettamente la testa e una manina vicino al naso, mentre la bimba era intenta a succhiarsi un pollice.
«È veramente bellissima!» le disse Quinn, dandole un bacio sulla guancia. Poi tornò seria. «Brits, ascoltami.» riprovò, ma Brittany alzò una mano.
«Cameriera!» chiamò, ma la più bassa le bloccò la bocca con un dito.
«Ascolta!» esclamò. «Anche Puck e... insomma... loro sono qui?» domandò poi, faticando a trattenere l'espressione di dolore a ripensare a loro due.
«Mi dispiace Q. nessuno ha più avuto contatti con Puck e Rachel.» iniziò, ma vide il sussulto dell'amica al nome della ragazza. «Insomma, sono spariti proprio come te. L'ultima volta che l'ho vista è stato il giorno del diploma.» rispose la ballerina, abbassando la sguardo. «Lei era in lacrime, aveva detto che tu eri scappata perché stava partendo con Puck. Aveva detto di dirti che le saresti mancata, e che sarebbe tornata da te il prima possibile. Aveva lasciato anche una lettera, ma noi avevamo pensato che avevi ricominciato la tua vita, così l'abbiamo lasciata a tua madre.» confessò.
Quinn cercò di mascherare la delusione di quella risposta dietro ad un sorriso. Non capiva se sperava che lei fosse a New York, insieme a loro, o se non era l'unica che l'aveva vista l'ultima volta sette anni prima.
«Tranquilla B. Non è colpa tua.» la rassicurò accarezzandole i capelli. «L'ho superata.» aggiunse. Beth la guardo, incrociando le braccia e alzando un sopracciglio. La madre le fece segno di tacere, mentre l'amica le sorrideva debolmente.
Quinn lanciò uno sguardo all'orologio, sospirando.
«Sono già le cinque e mezza...» osservò stiracchiandosi. Brittany sbarrò gli occhi.
«Le cinque e mezza?» esclamò nel panico. «Oh mio Dio. Santana sarà a casa tra venti minuti!» aggiunse, rimettendo gli oggetti sul tavolo dentro la borsa.
«Brit, calma!» le disse la più bassa, cercando di bloccare quell'uragano biondo.
«Devo prendere il biglietto dell'autobus e devo raggiungere la fermata!» continuò, infilando la borsa nella spalla. «Arriverò in ritardo e Santana si arrabbierà e inizierà a urlare in spagnolo e non mi parlerà.» gemette.
«Ti accompagno io se vuoi.» propose Quinn, riuscendo finalmente a catturare l'attenzione dell'amica.
«Lo faresti veramente?» le domandò la ballerina.
«Vieni, ti porto alla macchina.» rispose sorridendo, prendendo la borsa e uscendo dal locale, seguita dalle altre due.
Arrivarono al parcheggio in un attimo, con Brittany che osservava l'orologio ogni due secondi. Quinn allacciò velocemente Beth al seggiolino e poi salì nell'abitacolo, seguita dalla ballerina.
«Dove abiti?» le domandò la più bassa, avviando il motore e facendo retromarcia per uscire.
«Long Island.» rispose la bionda, che ballava sul sedile sull'orlo delle lacrime.
Quinn sgranò gli occhi, stringendo il volante per non lasciarselo sfuggire. Se ricordava bene, ci volevano quaranta minuti per raggiungerlo.
«Scusami, come sei arrivata qui allora?» chiese ancora.
«Mi ha accompagnato Mike prima di andare a lavoro.» rispose la bionda.
Il silenzio scese nella macchina.
Brittany tamburellava le dita sulla pancia, mordendosi un labbro, mentre osservava l'orologio sul cruscotto della macchina; Beth si aggrappava al seggiolino mentre
Quinn superava di gran lunga il limite di velocità. Il rumore delle dita della bionda le dava sui nervi, dove assolutamente trovare un modo per farla distrarre. 
Pensò a qualcosa che avrebbe catturato l'attenzione della ballerina e che l'avrebbe fatta smettere di fare quel suono con le dita.
L'idea le venne in mente mentre superavano Centra Park, i pensieri rivolti al giorno delle loro prime Nazionali. Osservò l'amica di sottecchi e prese un respiro profondo.

 

*In the middle of the night, I’m in bed alone
Don’t care if you’re glass, paper, styrofoam
When I need some water, baby *

 

Brittany sorrise, riconoscendo subito le note della sua canzone.
«Te la ricordi ancora?» le domandò la ballerina ridendo.
«Come potrei dimenticarla? È una delle canzoni preferite di Beth!» rispose la più bassa, prendendo un' altro respiro.

*You’re the only thing, I wanna put them in
My cup, My cup
Sayin’ “what’s up?”
To my cup
My cup
More of a friend than a silly pup
My cup *

 

Stavolta cantavano tutte e tre. Insomma, Beth mimava muta le parole della canzone, muovendo la testa a ritmo, come la mattina, mentre le altre due intonavano le canzone.
Allungarono la durata dell'ultima nota, scoppiando poi a ridere
«Io e Artie avevamo provato per mesi e io ero terrorizzata, perché gli orchetti mi avevano fatto i dispetti ed ero sicura che avrei sbagliato.» le spiegò la ballerina sorridendo.
«Oh, me lo ricordo. Tutti erano rimasti scioccati quando avevi detto che l'avresti voluta cantare alle Nazionali.» le disse ridendo Quinn. «L'unica a cui piaceva era Santana.»
La bionda rise, mentre l'altra sorrideva soddisfatta: era riuscita a distrarla dal ritardo e aveva percorso il tragitto in venti minuti.
«Siamo arrivate.» le fece notare la ragazza al volante, imboccando la strada per entrare nel quartiere. «Dimmi dove devo svoltare andare.» le chiese poi.
Brittany si fece seria, cercando di ricordare quello che le aveva detto Santana per trovare la sua casa. Doveva girare dove c'erano tre di quelle grosse scatole che mangiano le buste.
«Qui, penso.» le disse la ballerina, riconoscendo la via. «La terza casa a destra.» aggiunse.
Quinn si fermò davanti ad un palazzo bianco.
«Eccoci.» disse, per poi indicare una finestra al terzo piano. «Io abito lì».
«Sono felice di averti ritrovata B.» le disse la più bassa dolcemente.
«Anche io Q, mi sei mancata.» ripose Brittany, abbracciandola. «Senti, ti andrebbe di venire alla nostra cena venerdì?» le chiese poi, infilandosi la borsa sottobraccio.
«Sei sicura?» domando Quinn «Sei sicura che mi rivogliano?»
«E' ovvio. Sei una di noi.» sorrise la ballerina. «Ci vediamo alle sette davanti al Pot'o'Gold okay? E' sulla Lexington, è tutto verde, lo riconosci subito.» le disse la
ballerina, dandole un bacio sulla guancia e uscendo dalla macchina il più velocemente possibile.

Quinn aspettò che l'amica entrasse dentro il portone, poi lanciò uno sguardo alla finestra e ripartì.
Era sicura che, quando Brittany aveva indicato il suo appartamento, una figura con i capelli scuri si era allontanata dal vetro.
 

//

 

Le due bionde rientrarono a casa che erano le sei e mezza passate.
Quinn era esausta. Aveva bisogno di sdraiarsi sul divano e di non pesare assolutamente a niente. Erano successe troppe cose tutte insieme, il suo cervello aveva bisogno di riordinare lentamente i pensieri.
Appese i due cappotti sull'attacca panni e ripose le scarpe nella scarpiera.
«Allora amore. Facciamo il bagnetto e poi guardiamo un film?» le chiese la madre, prendendo le loro ciabatte dal tappeto.
Beth annuì, dirigendosi verso la sua camera, mentre Quinn si infilava nel bagno. Accese lo scaldabagno e aprì l'acqua della vasca, aspettando che si scaldasse. Poi chiuse il buco dello scarico con il tappo e rovesciò un po' del sapone preferito della figlia, all'olio di avocado e burro di karitè.
Beth fece la sua comparsa, avvolta nell'accappatoio verde. Quinn le sorrise, prendendo in mano una paperella di gomma e un orsacchiotto, sempre di gomma.
«Papera o orso?» le chiese con un sorrido.
La bimba prese la papera e la poggiò sul pelo dell'acqua.
«Più chiara non potevi essere.» sorrise la mamma, spogliando la bambina e infilandola dentro l'acqua saponata.
Era impressionante quanto spesso Beth potesse assomigliare a Brittany. La sua passione per le papere, alcune delle sue espressioni, le sue risate mute.
«Troppo calda?» le domandò la mamma, facendo scorrere l'acqua sui capelli della bambina. Beth scosse la testa, schizzando acqua su Quinn, mentre giocava con il pupazzetto.
Quinn le insaponò i capelli, scuotendole, a momenti, un po' più forte, per farla ridere.
«Cosa vuoi mangiare per cena?» le chiese, prendendo una scodellina e rovesciando l'acqua sulla testolina di Beth. La piccola osservò la madre, alzando un sopracciglio.
«Hai ragione. Oggi abbiamo mangiato come due piccoli tacchini.» le disse Quinn, ridendo e facendo il solletico alla figlia. Beth, in tutta risposta, mise le mani a coppa e le lanciò l'acqua, inzuppandola.
Quinn si alzò di scatto, scuotendo le mani e i vestiti mentre la bambina rideva, sbattendo le mani sull'acqua.
«Sei una piccola peste. Non ho nient'altro da aggiungere.» disse la mamma, prendendo la spugna a forma di pesciolino da sopra all'angoliera di metallo. «Quei pochi anni con tuo padre hanno avuto troppa influenza su di te.» borbottò poi, porgendole la spugna. Mentre Beth si insaponava il corpo ridendo, Quinn prese il balsamo e la spazzola e prese a spalmare la crema bianca sui capelli della bambina, alternando il movimento mano-spazzola.
"Troppi anni con tuo padre. Troppo pochi con lei." pensò, stappando la vasca e riaprendo l'acqua, aiutando la bionda a mettersi in piedi. Le sciacquò velocemente il corpo e poi le massaggiò i capelli, cercando di eliminare ogni traccia di balsamo dai morbidi riccioli biondi. Strinse le due manopole dell'acqua e appoggiò il soffione sopra ad essi; poi prese l'accappatoio da sopra il lavandino e ci avvolse la bambina, stringendola tra le sue braccia.
«Lo sai che ti voglio bene, vero?» le disse dolcemente, strusciando il suo naso contro quello della figlia, che annuì sorridendo.
«Ferma qui, che vado a prendere il pigiamino.» le disse, facendola sedere sul ripiano del mobile e scomparendo dietro la porta bianca. Entrò nella camera azzurra accendendo la luce; si diresse verso il comodino e prese dal cassetto un paio di mutandine, una canottiera e un paio di calzini con le papere disegnate sopra, poi prese un pigiama, con la stessa fantasia, da sotto il cuscino e tornò in bagno.
Beth osservava la lampada sul soffitto, muovendo piedi e testa a ritmo di una musica a lei sconosciuta. Rimase per qualche secondo sulla porta, ad osservarla. Come le sarebbe piaciuto sapere a cosa pensava, sentire la sua voce, sentirla ridere...
Spesso si ritrovava a pensare che, se l'avesse lasciata a Puck, magari non sarebbe cresciuta in quel modo, non sarebbe stata così riservata, così... muta. Era sempre stata gelosa del loro legame, perché tra padre e figlia c'era una sintonia che lei non poteva capire.
Quinn si avvicinò alla bambina, tirando fuori un asciugamano dal mobile.
«Forza passerotta, giù la testa.» le disse, avvolgendole la testa nella spugna soffice; poi l'aiutò a mettersi in piedi sul ripiano. Le sfilò l'accappatoio, con cui asciugò con cura le parti del corpo della bambina ancora bagnate, la aiutò a infilarsi la biancheria e la mise in piedi sul tappeto.
«Ora ci asciughiamo i capelli e poi vai a scegliere il film, ok?» le disse la mamma, tirando fuori il phon e la spazzola.
La bambina aveva dei capelli talmente fini e pochi che non le ci volevano mai più di cinque minuti per asciugarli.
«Ecco fatto. Pulita, lavata e stirata.» concluse Quinn, qualche minuto più tardi, dando un bacio sulla fronte a Beth che le sorrise e uscì dalla stanza bianca.
La bionda ripose l'asciugacapelli nel proprio cassetto, sciacquò i bordi della vasca dai residui del sapone e andò nella sua camera. I jeans le sembravano una gabbia da cui non vedeva l'ora di liberarsi. Gettò la maglietta e i pantaloni sopra al cesto dei panni sporchi, senza neanche controllare che lo avesse veramente centrato, e si infilò una tuta comoda e la maglietta del pigiama. Legò i capelli in una piccola coda, lanciò uno sguardo alla sua immagine riflessa nello specchio raggiunse la figlia in sala. La bambina era seduta davanti al mobile della televisione, il cassetto dei CD aperto, e trafficava con le scatoline di plastica cercando l'oggetto del suoi interesse.
«Cosa cerchi cucciola?» le chiese la mamma, inginocchiandosi accanto alla bambina e cercando di capire quale cartone volesse vedere.
Beth scosse la testa, sventolando la custodia di “Cars” e infilando il dischetto nelle lettore DVD. La bionda si diede della stupida: sapeva che se voleva vedere qualcosa di diverso dal cartone che stavano per guardare e Mulan, doveva sceglierlo lei. Erano i due che preferiva la bambina e li vedeva almeno tre volte a settimana. A testa.
«Quante volte lo hai visto questa settimana? Trentadue?» le sorrise, accomodandosi vicino a lei sul divano. Beth rise muta, poggiando la testa sulle cosce della mamma e sdraiandosi sulla penisola. Avviò il cartone da sola, regolò il volume e appoggiò i telecomandi sul bracciolo, mentre Quinn spegnava la luce dall'interruttore accanto al divano. Appena rimasero al buio, la mente della ragazza si scollegò completamente. Cercava di concentrarsi sulle immagini che scorrevano sullo schermo, ma il suo cervello non le obbediva. Le rimbombavano in testa le parole di Brittany: “Ci farebbe molto piacere. Sono cinque anni che ti aspettiamo.”
Non riusciva a capire. Aveva trattato tutti malissimo, tutti in modi diversi e peggiori. Aveva picchiato Santana, aveva urlato contro Mike, Artie e Kurt che erano venuti a consolarla, aveva insultato Dave e Mercedes. E aveva ferito tutti quando era scappata dicendo che la loro compagnia la feriva troppo. Perché sarebbe dovuta mancare a qualcuno?
La prima settimana dopo la sua partenza era rimasta rinchiusa dentro la sua camera, al buio, con la voglia di continuare a vivere che diminuiva di ora in ora. Non aveva mai pensato che una persona potesse contenere così tante lacrime, che il ticchettare dell'orologio potesse assomigliare ad un martello pneumatico, che la sua stanza potesse diventare la sua unica ancora di salvezza. Aveva riflettuto molto durante quelle eterne giornate. Pensava che se avesse tagliato tutti i ponti che la collegavano a lei, sarebbe riuscita a dimenticarla e a smettere di soffrire a causa sua, e alcuni di quei ponti erano i suoi amici. Stava per ripensarci quando Shelby le ave riportato la bambina. La piccola Beth allora era l'unica persona che le tenesse compagnia senza ucciderla dentro, anche se a malapena si teneva in piedi. Ma aveva bisogno di uscire di casa, di allontanarsi da sua madre e i sui sguardi compassionevoli, dall'angolo dove si era rannicchiata per una settimana, e tutto in quella piccola città sapeva di lei: il parco dove passeggiavano tutti i pomeriggi, la scuola, la sua casa dove avevano passato la loro prima notte insieme, anche la musica, tutto le ricordava lei, e non poteva sopportarlo. Così, da perfetta vigliacca, era fuggita senza dire niente a nessuno.
Lentamente i suoi occhi si chiusero, il cervello si staccò dal resto dal mondo e lei volò via.


Central Parck è caotico anche ora. Ormai non ci stiamo più dentro.
Sono sdraiata sul bordo della fontana a prendere il sole, un paio di occhiali scuri che mi proteggono gli occhi.
Poi una sensazione di bagnato parte dalle mie cosce bollenti e mi tiro su. Beth è davanti a me sorridente con le manine sporche di sabbia sulla mia pelle.
Non posso fare a meno di sorriderle mentre infilo le gambe nell'acqua e le sciacquo. Beth mi imita ridacchiando e poi inizia a schizzarmi bagnando tutta la gonna rossa che indosso. La prendo in braccio e le do un colpetto sul naso.
«Smetti di bagnarmi o la Coach Sylvester mi farà fare giri di campo extra.» le dico, mentre raccolgo la maglia della mia divisa e la metto sotto braccio.
«Scusa mamma.» risponde Beth con la voce squillante, scalciando per essere messa giù. Sorrido al suo tono acuto e l'accontento, poggiandole i piedi a terra e rinfilandomi il top della divisa.
Poi la prendo per mano e apro la porta di casa.
Vedo Syu che mi aspetta dietro l'isola della cucina, un piatto della mia pizza preferita davanti.
«Bentornata. Ho preparato la cena.» mi dice sorridendo.
Aggrotto le sopracciglia confusa mentre osservo le sue labbra aprirsi e chiudersi, ma un ronzio fastidioso mi tappa le orecchie.
«Devo lavare Beth.» dico rinunciando a decifrare le parole.
Entro nel bagno e vedo Beth dentro al lavandino intenta a giocare con l'acqua.
«Non bagnare il pavimento.» provo a dirle, ma non riesco a sentire le mie parole.
Il ronzio diventa sempre più forte, tanto che devo tapparmi le orecchie. La bambina sbuffa e indica qualcosa dietro di me.
Mi volto e vedo Jenny seduta sul divano, intenta a parlare parlare parlare. Il ronzio si trasforma in una serie di frasi, ordini, consigli senza senso. Vorrei chiuderle la bocca, ma ricordo che al lavoro devo mantenere la calma.
Infilo le mani nel camice e scendo le scale, cercando di ignorare la ragazza che aveva preso a cantare. Non capiva le parole, ma sentiva di conoscere il motivetto.
Entro nel salotto, ma la musica fastidiosa ancora arriva alle mie orecchie sovrapposta ad altri rumori che vengono da un lato della stanza.
Vedo Brittany che saltella su un palco, imitando delle immagini che vede scorrere sullo schermo della TV.
«B, cosa stai facendo?» le chiedo, non riuscendo di nuovo a sentire la mia voce.
La ragazza mi dice qualcosa, ma non riesco a capirla con i rumori del suo gioco e la voce di Jenny.
«Andiamo nell'altra stanza, non ti capisco con Jenny che continua a cantare.» provo a urlarle, sperando che riesca a sentirmi.
Lei si volta verso di me e mi fissa con aria confusa.
«Chi è Jenny?» chiede, massaggiandosi l'enorme pancia.
Improvvisamente riesco a capire le parole della canzone e rimango un po' stordita: perché quella donna conosce “Don't rain on my parade”?
«Nessuno.» sussurro risalendo lentamente le scale.
La voce sta cambiando, non è più roca e tagliente, ma è morbida e perfetta.
Entro in cucina e vedo LEI che tira fuori la pizza dal forno, il ciondolo con la stellina d'oro che le brilla sul petto.
«Ciao amore.» sorride. «Te l'avevo detto che sarei tornata.»
Le sorrido di ramando e il mio cuore batté più forte.
«Lo so, torni sempre da me.»
Aggrotto le sopracciglia. Quella non è la mia voce.
Mi giro e il mio cuore si spezza di nuovo.
Puck è lì.
Beth in braccio e un sorriso felice sul viso.
Registro vagamente il bacio che lei gli da sulla guancia, concentrata sulla visione di mia figlia che canta in braccio a lui.
Li osservo impotente mentre la raggiungono. Lui le da un bacio sulle labbra e la prende per mano, accompagnandola verso la porta, mentre un raggio di luce, fa illuminare l'anello alla sua mano.

 

Si svegliò. Nel suo salotto. A New York.
Beth era davanti a lei, che le tendeva la manina paffuta. La madre si guardò un po' intorno confusa, notando la televisione spenta e la luce della camera della bambina accesa.
«Scusa amore, non c'era bisogno che mi svegliassi.» le disse la bionda, stiracchiandosi. «Vieni, andiamo a letto.» aggiunse, alzandosi dal divano bianco e dirigendosi verso la camera della bambina. Beth si infilò sotto le coperte, stringendo il suo unicorno di peluche. Quinn le rimboccò le coperte, sistemando bene il piumone sotto il lenzuolo. La bambina si scopriva spesso durante la notte e la bionda non voleva che si prendesse un raffreddore. Le diede un bacio sulla fronte, infilando le coperte sotto il materasso. «Buonanotte micia, sogni d'oro.» le disse, spegnendo la lampada e uscendo dalla stanza.
Quinn entrò nella sua camera, sedendosi sul bordo del suo letto. Osservò la sua immagine riflessa nello specchio di fronte a lei. Subito notò un flebile bagliore provenire dal suo collo. La collana a forma di R, l'unica parte di lei che le era rimasta.
Non ce la fece più.
Si strinse le ginocchia al petto, ci poggiò il mento sopra e iniziò a piangere. Come sempre il suo ricordo aveva riempito la sua giornata, da quando si era svegliata a quando andava a dormire. E come sempre, appena rivedeva nei suoi ricordi i morbidi capelli castani e i profondi occhi scuri, le lacrime le pizzicavano gli occhi e riusciva raramente a trattenerle tutto il giorno. Spesso accadeva per cose stupide, come guardare la foto nel corridoio, ritrovare l'anello con il cuore rosso dentro il cassetto della biancheria o semplicemente, guardarsi allo specchio e vedere il suo pegno d'amore.
I singhiozzi le squassavano il petto, impedendole quasi di respirare; cercava di reprimerli il più possibile possibile, nascondendo il viso tra le ginocchia, cercando di non svegliare la bambina. Perché ancora ci stava male? Erano passati cinque anni, e soffriva come se fosse appena accaduto.
Il cigolare della porta che si apriva, la costrinse ad alzare lo sguardo. Beth era sulla soglia, con il cuscino e il suo pupazzo in mano, che fissava la mamma con uno sguardo compassionevole. La bambina salì sul letto, poggiando tutto nella sua parte di materasso, e gattonò sulle coperte verso la mamma, inginocchiandosi dietro la bionda e stringendole le piccole braccia paffute intorno al collo. Quinn le strinse il polso con la mano, baciandole le fossette sotto le dita, cercando si sopprimere i singhiozzi senza successo.
«Per-perdona-mi.» singhiozzò la bionda, voltandosi verso la piccola. Beth scossa la testa con un sorriso, staccandosi dal collo della mamma e dando qualche colpetto al materasso, invitandola a sdraiarsi accanto a lei. Quinn le rivolse un debole sorriso, tirando via l'elastico che le teneva il corto caschetto e infilandosi sotto le coperte, senza neanche infilarsi il pezzo sotto del pigiama, alzandole leggermente per far entrare la biondina. Questa si rannicchiò contro il petto della mamma, ignorando i singhiozzi che, man mano, diminuivano di intensità. Quinn nascose il viso nei capelli della figlia, come un cucciolo in cerca di coccole, e lei strinse le braccia intorno al collo della mamma. Beth rimaneva sempre l'unica persona che la capisse fino in fondo.

 

***

 

Brittany chiamò l'ascensore, pregando le fatine che arrivasse velocemente. Odiava prendere quella brutta scatola di ferro, ma era stanca e non riusciva a fare tre piani di scale a piedi. Non aspettò nemmeno che le porte scorrevoli si aprissero completamente, ci entrò velocemente e premette più volte il tasto con il 3 luminoso sopra. Se Santana avesse scoperto che era uscita da sola, avrebbe ricominciato ad urlare, lanciando brutte parole a divinità di più religioni nella sua lingua natale. Non sopportava quando la latina le urlava contro. Sobbalzò quando l'ascensore partì verso l'alto e si appoggiò contro alla parete, con gli occhi chiusi, cercando di immaginare le fatine che volavano felici con le farfalle. La campanella annunciò l'apertura della porte e la ballerina uscì velocemente da quella scatola infernale, trovandosi subito di fronte al portoncino del suo appartamento, ricominciò a fregare nella borsa, sperando che gli orchetti non avessero fatto uno dei loro tanti scherzi. Toccò con la mano un pupazzo morbido che riconobbe subito come il portachiavi; tirò fuori le chiavi tintinnanti e le fece girare nella toppa velocemente, aprendo la porta.
«Brits?» la chiamò una voce dalla cucina e Brittany non poté fare a meno di rabbrividire. Santana era tornata, e aveva imparato a temere quella nota di rabbia e isteria nella sua voce.
«Sono io San.» rispose, lasciando la borsa sul tavolino del telefono. sentì il rumore dei tacchi della latina avvicinarsi sempre di più e Santana fece il suo ingresso nel salotto, bellissima come sempre.
«Dove sei stata?» le chiese, mettendo le mani sui fianchi e battendo nervosamente il piede contro il parquet.
«Al... parco.» disse la ballerina vaga, riguardandosi bene dallo specificare il nome del parco in cui aveva passato la mattina e gran parte del pomeriggio. Avanzò qualche passo timido verso la ragazza, sentendo il bisogno di sentire il respiro caldo della latina sulla sua pelle candida.
«E come ci sei arrivata al parco?» chiese ancora la mora, fingendo di non vedere la bionda che si muoveva nella sua direzione, alzando un sopracciglio.
«Mi ha accompagnato Mike... » sussurrò, avvicinandosi ancora verso la sua fidanzata, che però le mise una mano sul seno, impedendole di avanzare ulteriormente.
«Non mentire. Mike oggi doveva lavorare.» sibilò la latina, incrociando le braccia. Brittany valutò le possibilità che aveva. Non poteva mentirle, perché prima o poi, avrebbe scoperto la verità. Ma se le avesse detto che era stata da sola tutto il giorno, si sarebbe sicuramente infuriata.
«Infatti ero da sola...» confessò infine, fissando la punta bianca delle sue scarpe. Santana le diede le spalle con uno scatto, alzando braccia e occhi al cielo.
«Madre de Dios, Brittany!» urlò, come previsto, nella sua lingua.«Quante volte ti ho detto che non voglio che esci da sola? Quante? Cosa faresti se, per sbaglio cadessi, ah? Se inciampassi? Faresti del male a te, a me e a Lee-Lee!» aggiunse, iniziando a borbottare una sequela di imprecazioni in spagnolo, finché un piccolo singhiozzo non la fece smettere di colpo. Si voltò lentamente verso Brittany, trovandola con il volto rigato dalle lacrime e le braccia strette sulla pancia.
«Io... avevo solo bisogno di prendere un po' di sole...» sussurrò la ballerina, talmente piano che la latina fece fatica a sentirla. Si diede della stupida e si avvicinò alla sua piccola pulcina, avvolgendola con le sue braccia scure.
«Perdonami B. Ti prego.» le disse Santana, poggiando la guancia sulla fronte della ragazza. «Sai quanto divento ansiosa quando si tratta delle due persone più importanti della mia vita.» aggiunse, accarezzando l'addome gonfio della ballerina. Brittany annuì, nascondendo il viso nei capelli scuri della bionda.
«Odio quando fai gli occhi alla “Gatto con gli Stivali” solo per farmi smettere di rimproverarti.» borbottò la latina stampando un bacio sulle labbra alla bionda facendole tornare il sorriso.
«Senti, che ne dici se ti preparo un bel bagno caldo e poi ci facciamole coccole sul divano?» le chiese ancora Santana, prendendola in braccio e trasportandola fino alla porta bianca del bagno, mentre Brittany rideva di gusto.
Guardò la biondina a spogliarsi riempiendo, per un secondo, i sui occhi di quella visone celestiale.
«Come sei tornata a casa, tesoro? L'ultimo autobus è passato mezz'ora fa» le chiese con finto disinteresse, porgendole l'accappatoio giallo e la biancheria. Brittany abbassò lo sguardo per un momento.
«Debby. Aveva portato suo figlio al parco.» rispose velocemente la ballerina, infilandosi dentro il bagno. Santana sorrise. La sua ragazza non sapeva dire le bugie. E si dimenticava sempre che la loro segretaria non guidava, era rossa ed era single. Rimase un minuto a riflettere poi andò in camera, si sfilò jeans e maglietta e prese da sopra il comodino il piccolo cellulare bianco. Digitò velocemente tre parole, aspettando la attesa chiamata della fidanzata.
«San, vieni a fare il bagno con me?» chiamò , come se avesse letto nella mente della latina. Cercò velocemente il nome nella rubrica e gettò il cellulare sul letto, incamminandosi verso quello che sarebbe stato un lungo e sospirato bagno.
Il piccolo schermo era ancora illuminato quando Santana entrò nella stanza.

 

Quinn è tornata”
Invio in corso

 

 

 

Gina's Corner: Secondo capitolo!

 

Ok, non è proprio il secondo terzo. Diciamo che è la seconda parte del primo/secondo, ma pensavo ( e quando dico pensavo, vuol dire c'è lo zampino di una certa scassapalle aiutante .-.) che diviso in due parte avrebbe fatto più effetto.


Tranquilli, il sogno di Quinn non è una stronzata (anche se lo sembrerebbe) per allungare il capitolo. Tutto ha un perché logico.


Non so da dove diavolo sia uscita la fine Brittana stile “Ritorno al Pomeriggio (?)” ma mi serviva questa fine così... misteriosa u.u


Ve lo dico subito, non mi piace per niente e, se non ci avessi passato più di due lunghissimi mesi sopra, lo riscriverei tutto.


Grazie alle persone che hanno messo questa storia nelle preferite/seguite/ricordate, quelle che la leggono e la recensiscono e quelle che la leggono e basta. Vi adoro <3


Emily Sarah? O.o Il mio cervello si friggerà prima o poi .-.

 

And that's how Gina sees it.

Peace and Love ;)

 

 

P.S= Siete curiosi di vedere i piccoli bambini? Diciamo che io ho trovato quelli che fanno al caso mio ù.ù

 

Jenna Choen Chang-Chang

Allora, cosa dire della piccola asiatica? Essendo la figlia di Mike non posso fare altro che amarla con tutta me stessa *-*
Inoltre, sono sicura che questa foto sia stata fatta apposta per me (anche se è nella mia testa è più piccolina), visto che questa caramellina me la immaginavo proprio così =')

Alex Evans Jones

Il piccolo Alex con le labbra del padre... Non parlerà molto, perché ha solo pochi mesi, ma servirà un po' più in la...

Emily Hummel Karosfky

Ok, io questa bambina la AMO! *______*
Secondo me è la mia invenzione meglio riuscita!
E' più grande rispetto a come la vediamo qui e non è così... tenera. Vi dico solo che nel prossimo capitolo, in quel piccolo paragrafo in cui compare, imparerete ad amarla (o a odiarla, punti di vista xD) e che assomiglia molto ad uno dei nostri protagonisti preferiti!

Inoltre, avrei anche la sweet Leya Sophie ma.... perché rovinarvi la sorpresa?
La vedrete più in la =D


 



 

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Capitolo 4
*** 3. Monday ***


3. Monday

 

Cercò velocemente il nome nella rubrica e gettò il cellulare sul letto, incamminandosi verso quello che sarebbe stato un lungo e sospirato bagno.
l piccolo schermo era ancora illuminato quando Santana entrò nella stanza:


Quinn è tornata”
Invio in corso

 

 

 

Dave uscì dalla doccia, avvolto nell'accappatoio azzurro.
Una doccia calda alle sette del mattino era una delle cose che amava fare appena sveglio. Nella stanza c'era un tasso di umidità e nebbia da far invidia ad una nuvola, così il ragazzo aprì la piccola finestrella, per evitare i rimproveri del marito quando sarebbe toccato a lui utilizzare il bagno. Uscì dalla camera e passò davanti alla cucina, sicuro di trovare Kurt che consumava la sua solita colazione a basso contenuto calorico e sbuffava sulle sue abitudini troppo mattiniere.

Si affacciò sulla soglia ma non c'era nessuno.
Eppure, prima di andare a farsi la doccia, era sicuro di averlo svegliato.
Continuò la sua camminata, raggiungendo la camera da letto.
Kurt era sdraiato su un fianco e dava le spalle alla porta; il respiro era pesante e da sotto le coperte si intravedevano a malapena i capelli e il movimento della spalle. L'ex Titans non poté fare a meno di sorridere.
E poi dice che se dorme troppo gli vengono le rughe.” pensò, avvicinandosi di soppiatto al comodino per prendere dal cassetto una canottiera e un paio di boxer. Cercando di non fare rumore si vestì velocemente e salì sul letto, scivolando silenzioso nella sua metà del materasso ghiacciata e avvicinandosi al marito addormentato, posandogli le labbra sotto all'orecchio.
«Kurt, amore?» sussurrò Dave, dando un leggero scossone al ragazzo sotto le coperte. «Tesoro, faremo tardi a lavoro.» continuò. Gli scoprì il viso, contemplando quei lineamenti che amava con tutto se stesso, iniziando a ricoprirlo di bacini sulla guancia sempre più vicino alle labbra.
Il respiro del più piccolo si fece meno regolare e le labbra si arricciarono leggermente agli angoli, ma gli occhi restarono serrati. Era sveglio ma non aveva la benché minima intenzione alzarsi dal letto e iniziare la mattinata.
Dave ridacchio decidendo che era ora di mettere a punto il piano a cui stava lavorando da settimane.
Cercando di non scoppiare a ridere, fece leva sul braccio e si tirò su, lo sguardo rivolto verso il grande armadio bianco
«Ok, dorme come un sasso. Puoi uscire.» sussurrò, cercando di sembrare il più serio possibile. «Non farti vedere e ricordati di prendere le mutande che hai lasciato in bagno ieri sera.» aggiunse, schioccandosi un sonoro bacio sulla mano.
Vide con la coda dell'occhio che il ragazzo aveva aggrottato gli occhi e stretto le labbra, così iniziò a contare mentalmente fino a cinque.
1...” pensò, tirando un grosso sospiro sognante, riuscendo a stento a non scoppiare a ridere.
2... 3... 4...” continuò fino a quando Kurt non scattò seduto, lanciando occhiate infuriate al più grande.
«Certo! Bel modo di ripagare quattro anni di matrimoni, bravo!» sbottò lui, incrociando le braccia. «Non puoi usare questi metodi infantili per farmi svegliare. E poi, non puoi tradirmi in casa mia senza che io me ne accorg...» iniziò ad aggiungere, prima che Dave gli prendesse il viso tra le mani e lo baciò dolcemente.
«Buongiorno mio unico e insostituibile amore...» ridacchiò l'ex giocatore sul viso del marito, incatenando i loro occhi.
«Sei un ruffiano. Odio quando fai il bambino in questo modo.» sbuffò il più piccolo, allacciando le mani dietro al collo del marito..
«E io adoro quando ti arrabbi per queste cose...» sorrise l'altro, riprendendo a baciarlo. «Dai, seriamente pensi che io possa tradirti? Non sono così scemo da portare un uomo in casa nostra, al massimo lo porto in un motel.» rise poi, stringendo le mani dietro la schiena dell'altro.
Kurt era già pronto per un'altra serie di rimproveri quando Dave lo sollevò senza sforzo e bloccò la via d'uscita delle parole.
Le loro lingue si intrecciarono, i loro respiri si mescolarono, mentre Dave lo poggiava sul tappeto bianco davanti all'armadio.
«Ti amo. Non ti tradirei mai perché sei l'unico uomo con cui voglio passare la vita.» disse il più grande stringendolo a sé.
«Ti amo anch'io, scimmia pelosa.» rise l'altro, alzandosi in punta di piedi e lasciando l'ultimo bacio sulle labbra del marito, rimanendo di nuovo intrappolato tra le braccia di Dave e tra quelle mani enormi che vagavano sul suo corpo.
«Io sveglio Emily. Tu prepari la colazione.» soffio lui, uscendo dalla stanza.
Kurt rimase immobile, frastornato. Prima o poi, quel ragazzo lo avrebbe fatto impazzire. Scosse la testa, cercando di fermare la giostra che era diventata e si avvicinò verso il grande armadio bianco che ricopriva l'intera parete davanti al letto, cercando qualcosa di leggero da mettersi. Era una giornata molto calda, stranamente, essendo le sette del mattino e la prima settimana di febbraio, così il ragazzo optò per una canottiera grigia di cotone aderente e una tuta nera larga, molto strano per i suoi standard modaioli. Lanciò uno sguardo allo specchio sull'anta e uscì dalla stanza, rivolgendo un sorriso al marito che apriva lentamente la porta della camera da letto della loro piccola.
Dave sorrise di rimando facendo scivolare lentamente la porta sui cardini, attento a non farla scricchiolare e preparandosi al secondo round. Anche se non erano geneticamente imparentati, Emily aveva un sonno molto simile al suo, il che voleva dire che se fosse esplosa una bomba avrebbe continuato a dormire indisturbata. Si avvicinò al piccolo letto rosa, intravedendo appena i ricci biondi della bambina.
«Emily, passerotta?» chiamò il ragazzo, appoggiando i pugni sul materasso e sporgendosi fino a vedere il piccolo viso della figlia.
La bambina grugnì piano e si girò verso il padre, senza smettere di dormire.
Dave ridacchiò facendo scivolare le mani tra il materasso e il piccolo corpicino arruffato, sollevandola senza sforzo e appoggiandola contro il suo petto enorme. Gli spostò i morbidi riccioli dal viso, stampandole un leggero bacetto sulla fronte, mentre lentamente si aprivano gli occhi verdi della piccola.
Emily si guardò intorno, confusa e assonnata, cercando di capire su quale universo si trovasse.
«Buon giorno micia.» la saluto il padre, sorridendo dolcemente.
«'Gionno pa..» sussurrò la bambina, allacciando le mani intorno il collo del padre per cercare di mettersi in una posizione più comoda e poggiando il viso sulla sua spalla allenata. Dave strinse le mani sotto il sedere della figlia per sorreggerla e uscì dalla stanza.
Già dal corridoio furono investiti dall'odore di frittelle e caffè appena fatti.
Kurt stava versando la spremuta d'arancia nei bicchieri sopra l'isola, mentre dai piatti usciva una lieve linea di fumo. Il più piccolo si voltò verso di loro, sorridendo.
«Buongiorno pasticcino.» salutò, prendendo a sua volta in braccio la bambina. «Come hai dormito?» chiese poi, dandole un bacio sulla guancia paffuta.
Emily annuì, stropicciandosi gli occhietti e sporgendosi per farsi mettere seduta al suo posto. Anche David la imitò, annusando a pieni polmoni l'odore delle cialde e delle uova.
Erano sette anni che Kurt cucinava sempre due tipi di colazione, cinque da quando Emily era entrata a far parte della loro famiglia: caffè, spesso sostituito dalla spremuta, cialde e uova, anche se protestava sempre che erano una bomba per il colesterolo, per Dave; latte, fette biscottate con marmellata o Nutella e cialde per Emily e una semplice barretta energetica, con un frutto e una spremuta per se stesso.
Dave addentò una frittella, facendo vagare lo sguardo dal marito alla figlia.
«Passo a prendere Artie a casa oggi, abbiamo i turni coincidenti.» disse il più grande, rivolto verso l'altro, che annuì, voltandosi verso la piccola.
«Allora tu vai da nonno Burt e poi ti vengo a prendere io.» spiegò, infilando in bocca l'ultimo pezzo della sua barretta ai frutti di bosco e cereali.
«Ma oggi dovevo andare da zia Santana!» protestò la bambina, facendo cadere il pezzo di biscotto dentro la tazza.
Ecco, aveva ripreso il suo naturale tono acuto di protesta a soli cinque minuti dalla sveglia. Doveva essere un record mondiale.
«Non si può.» disse il ragazzo scuotendo la testa. «San oggi è a lavoro tutto il giorno, quindi le lezioni di spagnolo sono rimandate a domani.»
La bambina sbuffò, appoggiando la testa su una mano e spezzettando nervosa una fetta biscottata. Dave osservava la scena, ridendo. Quei due avevano lo stesso carattere: più la piccola cresceva, più assomigliava ad una Rachel Berry in miniatura, troppo simile a Kurt. E poi, Emily odiava imparare la lingua natale della sua migliore amica, ma ci andava volentieri perché era innamorata di Brittany e dei suoi modi da bambina pazza. Kurt, dal canto suo, era iperprotettivo nei confronti della piccola e le voleva un mondo di bene, anche se spesso e volentieri si inquietava e finivano col litigare.
L'ex giocatore sorseggiò il suo tè, facendo scorrere lo sguardo sul corpo del marito. Da quando lo conosceva, era sicuro di non averlo mai visto vestito in abiti così.. comuni, e, doveva ammetterlo, gli piaceva un sacco. Anche se la canottiera era nascosta da un grembiule rosa, poteva perfettamente vedere come si adagiava sull'addome muscoloso di Kurt, facendolo impazzire. Aveva un braccio intorno al petto, appena sotto il gomito dell'altra che stringeva una mela. Possibile che facesse diventare sexy anche fare una cose semplice, come mangiare un frutto? Lo prendeva sempre in giro, dicendogli che aveva la sensualità di un cucciolo di foca, ma in quel momento doveva ricredersi. Sentiva il bisogno di accarezzare quei muscoli, di divorare quella labbra fine, di sentire il respiro sulla sua pelle. Emily appoggiò rumorosamente la tazza sul piatto, guardando con aria di sfida il padre, riportando l'altro alla realtà.
Dave continuò imperterrito a guardare il marito, rivolgendosi verso la figlia.
«Ems, vai a vestirti che ti porto a scuola.» gli disse, dando un ultimo morso alla sua cialda. La piccola bionda sbuffò, scendendo dallo sgabello per sparire dietro al muro. I due uomini rimasero in silenzio, ognuno nei propri pensieri. Kurt si voltò verso il marito, intercettando il suo sguardo.
«Perché mi fissi?» gli domandò, incapace di nascondere un sorriso.
«Perché penso che tu sia l'uomo più sexy che io abbia mai incontrato.» rispose il più grande con voce maliziosa, alzandosi e avvicinandosi lentamente al ragazzo. Il sorrido di Kurt sparì lentamente, quando capì che cosa aveva in mente l'altro.
«D, no... Emily è di là...» mormorò provando a indietreggiare, trovandosi con la schiena contro il muro. L'altro annuì, avvicinando le sue labbra a quelle dell'altro, trasportandolo in un bacio appassionato. Il più basso cercò di sgusciare via dalla presa del maritò, ma rinunciò lasciandosi guidare dalla passione e dal corpo dell'altro. Dave sorrise nel bacio, vittorioso, facendo scivolare la mani sotto alla maglietta grigia, accarezzando quei piccoli bozzi eccitanti, facendo gemere il ragazzo sotto di lui. Lo prese in braccio, senza interrompere il contatto delle loro labbra, facendolo sedere sull'isola; fece scivolare la sua mano ancora più su, fino al collo dell'altro, mentre con la lingua tracciava una linea dalle labbra piccole all'orecchio, mordicchiando il lobo. Kurt era in estasi, le mani sul petto del marito e le gambe intorno al suo bacino, sentendo la lingua infuocata dell'altro che giocava con il suo orecchio.
«David.. no..» sospirò non appena una mano del suo fidanzato non si avvicinò pericolosamente all'elastico dei suoi pantaloni. L'ex Titans gli intimò il silenzio sulle labbra, riprendendo a baciarlo con passione, mentre scavalcava i boxer del marito.
«Ehm, papà?» chiamò una vocetta dietro di loro. In un secondo, i due uomini si staccarono, rossi di vergogna, cercando di riavviare i loro respiri. Emily era sulla soglia, vestita di tutto punto per la scuola, con le braccia incrociate e un sopracciglio leggermente alzato.
«Si tesoro?» rispose Dave, torturandosi le mani imbarazzato.
«Invece di pomiciare con papà, perché non mi accompagni?» domandò sarcastica la bambina, dirigendosi verso il portone.
Kurt sorrise avvicinandosi e inginocchiandosi davanti alla piccola, osservando con occhio critico il suo abbigliamento . Il grembiule non copriva perfettamente il vestitino arancione di Emily, accompagnato da un paio di calze bianche e un paio di stivaletti dorati. La figlia lo fissava storta, con le mani poggiate sui fianchi.
«Hai il gusto estetico di tuo padre.» sospirò il ragazzo, scuotendo la testa. «Lo sai che l'arancione non sta bene con la tua carnagione.» aggiunse prendendola in braccio.
La bambina scosse la testa, in un turbinio di riccioli biondi, gesto che gli ricordava troppo bene la sua migliore amica
«Allora, le solite raccomandazioni. Cerca di non fare niente che potrebbe ferirti.» cominciò il ragazzo, sfiorando le guance rosee della piccola.
Faceva sempre così, tutte la mattine prima di accompagnarla a scuola. Almeno, faceva così da quando un giorno, mentre era a lavoro, ricevette una chiamata da un'agitata maestra della scuola dell'infanzia.


Kurt sbuffa. Il telefono quel giorno ha deciso di non dargli pace come quell'incapace della segretaria, che non aveva la minima idea di come si trasferisse una telefonata da un telefono all'altro. Perché l'aveva assunta?
Ah sì. Brittany l'aveva assunta.
Si avvicina per l'ennesima volta alla scrivania davanti al suo ufficio e alza la cornetta, mentre con lo sguardo fulmina la donna bruna dietro il banco.
«Kurt Hummel.» risponde e cerca il più possibile di nascondere il tono scocciato nella sua voce.
«Signor Hummel, sono Alicia, la maestra di sua figlia.» dice la donna all'altro capo del telefono. Sembra agitata e questo allarma subito il ragazzo.
«Salve. Mi dica pure, è successo qualcosa?» domanda, sperando vivamente che la sua farfallina stia bene.
«In effetti... sì. Dovrebbe venire qui immediatamente.» inizia Alicia, cercando di rimanere il più calma possibile. «Emily si è tagliata un dito mentre girava le pagine di un libro e...».
Kurt prende un sospiro di sollievo. Era semplicemente un taglietto, niente di grave.
«Non si preoccupi signora, non c'è nulla di cui preoccuparsi.» risponde, maledicendo il gigantesco tasso di preoccupazione delle donne.
«No, signor Hummel, c'è molto di cui preoccuparsi. Il sangue non si ferma, Emily ha perso i sensi e diventa sempre più bianca.»


Quel giorno aveva seriamente rischiato di impazzire e di far impazzire Dave, urlando contro l'infermiera che non voleva portarlo da Emily.
Quel giorno i due ragazzi vennero a sapere che la loro bambina, la luce dei loro occhi, aveva l'emofilia, il che voleva dire che ogni minuscola ferita avrebbe potuto mettere fine alla sua vita.
Da qui, la sequela di raccomandazioni tutte le mattine.
La figlia annuì, accarezzandosi le pieghe del grembiule.
«Poi, cerca di non far arrabbiare le maestre e di non insultare nessuno dei tuoi compagni.» concluse, mettendola a terra.
«Se se lo meritano non è colpa mia.» disse la bambina, alzando il naso all'insù.
Rachel bionda.» sospirò l'ex giocatore, prendendo la felpa gialla poggiata sopra alla sedia e dando un leggero bacio al marito. «La colpa è tua.»
Il più piccolo mise un leggero broncio, riuscendo a malapena a trattenere le risate. In realtà, non vedeva l'ora di sentire di nuovo le mani grandi del ragazzo vagare sul suo corpo, ma conosceva troppo bene l'autismo del marito quando si trattava di regole stradali e sicurezza in macchina. Ci avrebbe messo le ore per tornare a casa e lui non aveva tutta la mattina.
«Facciamo così, se mi prometti che farai il bravo e che sarai a case in un quarto d'ora, ti farò ripetizioni su un argomento.» disse malizioso, facendo roteare le chiavi della Ford Fiesta del marito, sorridendo.
«Emily, corri in macchina.» esclamò Dave, prendendo l'oggetto luccicante dalle mani dell'altro e uscendo dalla casa, seguito a ruota dalla bambina.
Kurt sorrise soddisfatto, infilando tutto ciò che aveva utilizzato per la colazione nella lavastoviglie, per poi farla partire; lanciò uno sguardo veloce alle lancette nere, che segnavano le sette e diciassette, e bloccò di colpo.
Doveva assolutamente controllare che Brittany fosse a lavoro. Quel giorno dovevano mandare i progetti e i modelli per la loro prossima collezione, e qui fogli erano nelle manine della sua collega. Era più o meno una settimana che li avrebbe dovuti revisionare e farli diventare materiali, ma era impossibile; non capiva se erano gli ormoni della gravidanza o quelle vitamine che prendeva ogni venti minuti, ma Brittany si comportava da bambina più del solito.
Senza pensarci alzò la cornetta bianca del telefono, componendo il numero che conosceva a memoria ma si sentì uno stupido subito dopo il primo squillo.
Si era completamente dimenticato che alla ballerina era severamente vietato rispondere al telefono, Santana era sempre stata ferma su questo punto. La sua collega diceva che spesso la latina riceveva telefonate strane, a cui, se lei era a portata di orecchio, rispondeva nella sua lingua natale prima di spostarsi nella stanza più vicina. Britt aveva paura che Santana non la volesse più a causa della maternità, ma avevano tutti sostenuto che non era umanamente possibile che la mora pensasse lontanamente di vivere senza di lei.
Kurt, effettivamente, aveva chiesto spiegazioni su queste telefonate misteriose alla latina, spiegando i timori di Brittany, e lei si era giustificata dicendo che erano telefonate di sua madre a cui lei preferiva rispondere in spagnolo.
La voce registrata di Santana lo fece sobbalzare, interrompendo il filo dei suoi pensieri.


Siamo Santana e Brittany. Forse non siamo in casa o, più probabilmente, siamo troppo impegnate e non abbiamo voglia di rispondere. Lasciate un messaggio dopo voi-sapete-cosa.”


Kurt attaccò il telefono sbuffando.
In alcuni casi non capiva chi, fra le due, si comportasse dalla bambina più piccola. Ricordava perfettamente il giorno in cui Santana aveva portato a casa il nuovo apparecchio telefonico, dopo che l'altro era finito nel raggio d'azione della ruota senza braccia della bionda diventando un ammasso di rottami informi.
La latina aveva passato l'intera giornata a registrare messaggi su messaggi, nel vano tentativo di farne uno decente, dopo che la sua ragazza aveva deciso di distrarla ogni volta che provava a registrarne un altro.
Quindi, erano venute fuori registrazioni del tipo:
Siamo Santana e... Brittany! Scendi dal tavolo, non puoi fare la verticale lì sopra!”
Casa Lopez-Pierce. Avete chiamato Auntie Tana e... Britt? Perché sei ricoperta di cioccolato? Tu-tu-tu-tuuuuuu.”
Ciao. Oh. Siamo Brittany e... Ah, Tana, più forte, proprio lì.”- dopo quella aveva veramente voluto farsi trapiantare le sue bellissime orecchie- e cose del genere.
Alla fine aveva optato per il classico “Lasciate un messaggio dopo il beep” ma lo aveva detto così tante volte che Brittany, presa da un momento di infantilità pura e semplice, l'aveva minacciata dicendo che se avesse detto beep un'altra volta avrebbe smesso di fare quelle acrobazie, quelle che a Santana piacevano tanto, fino alla nascita della bambina.
Come il manuale di sopravvivenza citava, Santana era come le lucertole: aveva bisogno di un corpo caldo sotto (o sopra, il più delle volte – anche se questo non doveva saperlo nessuno) di lei per riuscire a digerire, quindi aveva fatto una registrazione definitiva e aveva finito la serata con i classici fuochi d'artificio.
Il ragazzo scosse la testa, ridacchiando, tornando subito alla telefonata appena conclusa.
Non sapeva se interpretare la non risposta come un segno positivo o negativo. Santana doveva essere uscita da almeno mezz'ora e, quando lei non c'era, Brittany rispondeva sempre al telefono e quindi poteva essere già a lavoro; oppure poteva darsi che la sua svampita collega non avesse risposto al telefono perché era in giardino a cercare le sua fatine scomparse o in camera cercando di svegliare quella palla da cannone del suo gatto.
Appoggiò la schiena conto al muro bianco. Non aveva la mi minima idea sul da farsi: poteva restare a casa, fare le faccende di casa e tutti i suoi rituali mattutini senza fretta, e andare a lavoro in orario; oppure poteva anticipare il turno, assicurarsi che Brittany avesse portato i modelli e salvare la loro sfilata. Sbuffò ancora. Odiava andare di fretta.
Presa una decisione, si chinò a prendere le crocchette della sua norvegese, non stupendosi di non vedere la sua piccola Liza dal pelo lungo e bianco comparire tra le sue gambe, probabilmente stava dormendo sul letto di Emily. Ripose la busta sotto allo sportello dell'isola e corse in bagno.
Come al solido suo marito aveva trasformato la stanza in un piccolo mare al chiuso, spalancando la finestra nel vano tentativo di nascondere la nebbia che aveva creato.
Tu e le tue stupide docce calde del mattino.” pensò il ragazzo, prendendo il vasetto della sua crema rigenerante e iniziando a spalmare l'intruglio bianco sul suo viso con movimenti circolari. Quel giorno doveva rinunciare a gran parte dei suoi trattamenti e questo lo infastidiva molto, ma non poteva rinunciare alla sua crema alla seta e vaniglia. Operazione completata aprì l'acqua della doccia, svestendosi mentre essa si riscaldava. Non aveva neanche il tempo di farsi un bagno come si deve, il suo bagno mattutino. Gli veniva da piangere, mentre entrava nella cabina e faceva scorrere l'acqua sul suo corpo.
Era una cosa che adorava, prendersi la sua mezz'ora per rilassarsi nella doccia o nella vasca, si sentiva sempre rilassato dopo un bel bagno caldo. Sentiva la crema scivolare via e, con essa, tutti i problemi che avevano affollato la sua mente in quella mattina appena iniziata.
Tenne la testa sotto il getto per un paio di minuti, concentrandosi sulla sensazione dell'acqua calda sul suo corpo, finché il rumore dello sportello della doccia che si apriva non lo fece sobbalzare e sorridere.
«E tu eri quello che viaggia sempre sotto il limite di velocità.» commentò, appiattendosi contro il muro per far entrare il suo uomo dentro il piccolo abitacolo. «Che cosa hai fatto, hai noleggiato una Ferrari?» aggiunse, allacciando le mani intorno al collo di Dave e depositando una scia di baci sulla sua spalla.
«Non potevo andare piano sapendo che tu eri qui tutto solo che mi aspettavi.» rispose l'uomo, impossessandosi delle labbra del marito.
Kurt sorrise tra quelle labbra, sentendo il corpo bollente di Dave che si incatenava al suo, in contrasto con le mattonelle fredde dietro la sua schiena. L'ex giocatore lasciò le labbra morbide del ragazzo, tracciando una linea con le sue fino al lobo candido, stringendolo delicatamente tra i denti.
«Direi di ricominciare da dove ha lasciato stamattina, professore...» mormorò, premendolo ancora più contro il muro.
Il più piccolo fremette quando una mano bollente prese a vagare sulla sua schiena, graffiandola delicatamente, mentre l'altra scivolava silenziosa fino alla sua intimità. Quando sentì Dave sfiorarlo, le sue labbra erano troppo occupate con le labbra del marito per far traboccare il gemito che stava per uscire.

 

//

 

Kurt parcheggiò davanti al portone di ingresso della sua azienda, senza riuscire a smettere di sorridere. Neanche il semaforo rotto, il traffico del lunedì mattina, la segretaria che non riusciva a capire che quello davanti alla porta d'ingresso era il suo parcheggio, poteva rovinare gli effetti benefici di una lunga doccia con il suo ragazzo.
Attraversò le porte scorrevoli quasi saltellando per la felicità e chiamò l'ascensore, ignorando totalmente al lentezza di quell'affare. Anche se doveva percorrere due paia di rampe di scale e che per le sue gambe perfette e i suoi addominali favolosi sarebbero state un tocca sano, preferiva di gran lunga quella scatola di metallo che spesso e volentieri aveva rischiato di lasciarlo sospeso per aria.
Entrò in quell'abitacolo e si fermò un momento davanti alla pulsantiera.
Era tutta la mattina che era in agitazione per la consegna dei modelli e sarebbe stato meglio andare direttamente all'ultimo piano, dove c'erano i loro uffici, per togliersi definitivamente il pensiero.
Il malumore per le azioni della sua amica stava riprendendo il sopravvento, e non era un buon segno. Se non l'avesse trovata dritta davanti alla porta con i modelli in mano, avrebbe cominciato una discussione che avrebbe demolito tutto il quartiere.
Premette il pulsante e aspettò, battendo il piede a terra. In fondo quella strada se l'era scelta da solo, non era mica solo colpa della collega.
Ricordava benissimo il giorno il cui la bionda era venuto a chiedere aiuto a lui, fresco di laurea in arte e moda, per gestire il negozio di abiti che aveva intenzione di aprire.
Si era fatto spiegare tutto, per filo e per segno, e l'idea sembrava ottima. Il primo piano sarebbe stato dedicato solo agli abiti per uomini e donne di ogni età: dai meravigliosi lunghi abiti classici e gli smoking, ai comuni vestiti per tutti i giorni; il secondo piano sarebbe stato dedicato agli accessori: borse, scarpe, occhiali, cinture e chi più né ha più né metta; l'ultimo piano sarebbe stato dedicato ai suoi uffici: il laboratorio per i modelli, la sartoria e la stanza dove provavano con le modelle i giusti abbinamenti tra i vestiti che lui disegnava e gli accessori.
All'inizio aveva accettato volentieri di dissolvere le preghiere di Brittany, fino a quando lei non aveva scoperto di essere incinta e la parte più bambina di lei, quella che avevano avuto il dispiacere di conoscere al liceo, tornasse di nuovo.
Era tornata distratta, sempre in ritardo, sia per il suo turno di lavoro sia con la consegna dei suoi modelli.
Tre mesi, solo tre mesi e tutto quella tortura di risate, pianti e ormoni a go-go sarebbe finalmente finita. Questa era l'unico motivo per cui continuava a sopportarla.
Quando le porte si aprirono sul suo ufficio celeste, Kurt aveva i nervi a fior di pelle e una sola nota negativa, anche se insignificante, avrebbe potuto farlo esplodere come una bomba atomica, causando danni a chiunque a qualunque cosa si trovasse sul suo raggio di sterminio.
Uscì dall'ascensore a passo di carica, senza preoccuparsi di sostarsi per non investire le collaboratrici, e attraversò la porta che lo portava nella all del suo ufficio.
Solo una linea sottile di vetro ora lo separava da Brittany, e sentiva di poterlo infrangere senza sforzo con un acuto alla Diana Ross, ma non in senso canoro.
Elisabeth, la sua segretaria, notò già che l'umore del proprio capo era più nero di un pennarello a spirito.
Kurt la ignorò totalmente, fino a quando non aveva poggiato la mano sulla maniglia di metallo del suo ufficio.
Si voltò verso la segretaria e, con uno sguardo stile “se i miei occhi fossero frecce, saresti ridotta ad uno scolapasta”, la fulminò.
«Hai tre secondi per levare le briciole di quel biscotto pieno di calorie che stavi mangiando tre secondi fa, altrimenti ti licenzio.» sibilò tra i denti, entrando nel proprio ufficio.


Rimase inchiodato sulla porta, lo sguardo che passava dal pacchetto di patatine fritte e unticce buttato sulla sua moquette alle gambe della ragazza poggiate sopra alla sua scrivania da 10.000 dollari.
Prese un grosso respiro, cercando di ignorare l'odore della busta di carta ai suoi piedi.
Conta mentalmente fino a cento.” pensò, muovendo un passo verso la sua cattedra. “C'è una latina che potrebbe evirarti se osi far mettere a piangere la sua ragazza.” si disse, oltrepassando le patatine.
No, fino a cento non ti calmerà. Enuncia tutti le canzoni di Funny Girl dalla prima a l'ultima.”.
Un sospiro profondo provenne dalla sua meta, facendolo bloccare di colpo.
Si permette anche di sospirare! Vorrei prenderla e sbatterla al...” urlò mentalmente, prima di fermarsi e riflettere ancora. “Non farlo, devi mantenere la calma. Enuncia tutte le attrici che hanno interpretato Maria dalla prima all'ultima.” si disse ancora, muovendo l'ultimo passo.
Girò intorno alla scrivania lentamente, trovando la bionda “seduta” in una posizione semplicemente assurda, persino per il soggetto interessato.
Le lunghe gambe erano lasciate inerti sulla scrivania, le cosce erano poggiate sullo schienale della poltroncina rivolto contro il tavolo, seminascoste dall'enorme pancia della ragazza; il sedere era l'unica cosa che doveva stare esattamente al proprio posto sul cuscinetto nero, mentre il busto era lasciato penzoloni con la testa che poggiava a terra e i capelli lunghi sparsi sul pavimento. Aveva gli occhi chiusi e, se non fosse stato per le braccia che ogni tanto si muovevano, sembrava stesse dormendo.
Kurt era sconvolto. Si appoggiò al piano bianco accanto a lui, cercando di non esplodere. Prese un respiro profondo e si schiarì la voce per catturare l'attenzione della bionda.
Brittany spalancò gli occhi blu voltandosi lentamente verso il ragazzo.
«Cosa diavolo stai facendo?» domandò Kurt, sperando che il nervosismo non trapelasse ad ogni sillaba.
La ballerina fece un altro sospiro, spostando lo sguardo verso l'enorme finestra davanti a se.
«Wow, il mondo ha tutta un'altra prospettiva visto da qui.» spiegò, chiudendo di nuovo gli occhi.
«Cosa diavolo stai dicendo?» chiese ancora il ragazzo, ancora più confuso. Spesso non riusciva a capire ciò che diceva e spesso non si preoccupava neanche di tradurle, ma quella era totalmente assurda.
«Non lo so.» concluse Britt, tirandosi a sedere normalmente come se il ragazzo fosse appena entrato dalla porta. «Cosa ci fai qui?» domando, sistemando i fogli sul tavolo. «Oggi toccava a me aprire, no? Ho ricontrollato i turni stamattina.»
«B, i modelli per la sfilata dovevano essere consegnati oggi.» spiegò esasperato, pronto alla risposta che stava per sganciare.
«Vero!» esclamò la ragazza, scendendo dalla sedia e accovacciandosi a terra (Kurt non riusciva a capire come, vista dell'enorme pancia) e prese dei rotoli bianchi da sotto la scrivania.
«Stavo cercando il mio pacchetto di patatine e credo di averli lasciati qui sotto quando ho battuto la testa.» disse, infilandosi sotto la scrivania e riuscendo, con i capelli tutti scompigliati e con i rotoli tutti stropicciati. «E mi sono ritrovata a guardare fuori tutta la contrario.»
Il ragazzo si posò una mano sulla fronte, facendo un grosso respiro.
«Ehi Kurt, che suc...» disse la bionda preoccupata, interrotta dal dito del ragazzo che si posava sulle sue labbra.
Pensa ai tuoi genitali. Pensa a Dave. Enuncia tutti i musical di Barbra dal più vecchio al più recente.” pensò lui, evitando di urlarle in faccia a Brittany.
Distese le dita davanti al suo viso pallido, reclamando quegli... stracci che erano diventati i modelli per la loro sfilata. La ballerina glieli porse, saltellando sulle ginocchia e battendo le mani eccitata; Kurt sapeva che quell'atteggiamento non poteva portare nulla di buono e aveva quasi paura ad aprire quei rotoli.
Fece scorrere lentamente le dita sulla carta, aprendola di qualche centimetro.
Vedo dell'arancione. Può anche non essere troppo male.”
Altri cinque centimetri.
Vedo una zampa palmata. Inizio ad aver paura.”
Ultimi cinque centimetri.
Quello è un becco? E quelle sono ali gialle? Oh piccolo Bambin Gesù.”
«Mio Dio Brittany! Cos'è questa roba?» gemette Kurt disperato a vedere papere su tutti i rotoli di carta.
«Sono papere e anatroccoli. Perché, non si capisce?» domandò la ragazza, sedendosi sulla sedia.
«E perché sono sulla mia collezione primavera ed estate, Brittany?» domandò il più piccolo, cercando di respirare e mantenere la calma.
«Non sei per niente informato sulle tendenze della primavera.» si imbronciò Brittany. «Il giallo e l'arancione sono i colori dell'estate quest'anno e per la linea dei bambini le papere sono perfette.»
«E perché stiamo facendo una linea per bambini, Brittany?» chiese ancora Kurt, richiudendo lentamente i modelli.
«Perché io sono incinta.» rispose la ballerina, come se fosse una risposta ovvia.
«E perché questo mi dovrebbe interessare, Brittany?»
«Perché possiedo il negozio di abiti e ho il 50% delle decisioni sui modelli. E smetti di ripetere il mio nome in continuazione, mi stressa.» commentò Brittany, incrociando le braccia sul pancione.
«Mai quanto lo sono io ora... Brittany.»
La bionda fece per ribattere quando il suo telefono squillò, in una parte indefinita del suo corpo.
«Quante volte ti ho detto che odio che si usino i cellulari nel mio ufficio, Brittany?» Kurt era al limite della sopportazione ormai.La sua collega gli fece una linguaccia e tirò fuori il cellulare da dentro il reggiseno, sorridendo nel leggere il nome sullo schermo.
«Chiunque sia non ti conviene risp-»
«Tana!» rispose Brittany, poggiando le gambe sulla scrivania di fronte a lei.
Kurt impallidì e fece tre passi in dietro, con gli occhi spalancati rivolti verso i modelli, un sorriso terrorizzato sul volto.
Era ufficiale, quella sarebbe stata la sua fine.
«Sì, sono al lavoro. Kurt mi stava dicendo qualcosa sui modelli per la sfilata.» rispose la ragazza, giocando con una ciocca ribelle dei lunghi capelli biondi.
In quegli anni di esperienze di vita fuori dalla scuola, Kurt aveva appreso un paio di regole di sopravvivenza. Una di quelle era che Brittany ha sempre ragione.
E se quella terribile arma di distruzione chiamata Santana fosse venuta a sapere che stava alzando la voce con la sua fidanzata, sarebbe diventato Kate Hummel entro la fine della giornata.
Sì, si era sempre sentito un po' più femminile del normale, ma alcune parti ancora gli necessitavano. Quindi, doveva darle un'altra possibilità se voleva restare tutto intero.
Si avvicinò alla scrivania bianca, prese i cinque rotoli di carta e si sedette sulla poltroncina davanti a lei.
Chiuse gli occhi e, mentre le dita scorrevano sulla superficie ruvida e mostravano il primo modello, fece appello a tutto il suo spirito di stilista.
«Certo che gli piacciono, perché non dovrebbero?» ridacchio Brittany, strizzando l'occhio al ragazzo.
Kurt sorrise forzato, mentre scartava immediatamente i modelli delle tutine per i neonati. Non erano niente male, ma non poteva mica far sfilare un bambino di due mesi solo perché lei era incinta.
Non aveva un buon presentimento su quei modelli.
Il secondo abito era semplice, niente di particolarmente strano. Era il classico prendisole senza maniche, morbido e di una stoffa color giallino appena trasparente. Sopra il seno c'erano tre bottoncini a forma di zampa di papera ed era separato dal resto del corpo da una cinta arancione; anche il disegno del busto e della gonna consisteva in un numero spropositato numero di zampine palmate l'una sovrapposta all'altra che dava quasi l'impressione di un disegno geometrico. Il tutto era abbinato ad un grosso cappello di paglia e un paio di grossi occhiali da sole gialli con le lenti arancioni.
Il ragazzo doveva ammettere che non era poi così male anzi, era un'idea originale. Forse doveva dare un po' più di fiducia allo spirito creativo di Brittany.
Incuriosito, passò al secondo foglio e, mentre ammirava il completo formato da una canottiera gialla sotto una maglia bianca e larga e un paio di pantaloncini corti, la bionda chiuse la chiamata con la sua fidanzata e fissò i suoi occhi blu sul suo collega.
«Allora? Proprio non vanno bene?» domandò con un piccolo broncio, sapendo già di aver vinto.
«Dio, come ti odio Brittany.» sospirò Kurt, richiudendo i modelli e poggiandoli sulla scrivania. «Ok, come vuoi chiamare questa collezione?» domandò poi, chiamando la segretaria con l'interfono.
«Duckies!» esclamò la bionda eccitata e lui alzò gli occhi al cielo disperato: aveva dovuto immaginarlo.
«Non c'è nessuna probabilità che tu cambi il nome vero?» chiese, sapendo che avrebbe perso definitivamente quel poco di dignità che gli era rimasta.
«No.»
«Neanche cambiare il giallo o l'arancione con un altro colore?»
«No.»
«Neanche levare le piume dal collo dell'abito lungo?»
«No. Dai Kurtie, ti sei mai pentito di avermi lasciato fare?» domandò la ragazza, avvicinandosi a lui.
«Devo veramente risponderti?» rispose sarcastico lui.
Brittany sfoderò di nuovo il suo miglior broncio e, mentre si osservavano, nella mente di Kurt prese a scivolare un pensiero che non gli piaceva affatto. Stava per fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.
«Elisabeth?» sospirò, chiedendo gli occhi e appellandosi ad ogni fibra del suo essere per trovare la forza da fare quello che andava fatto. «Porta i modelli in sartoria.»

 

//

 

Brittany uscì vittoriosa dall'edificio, inforcando gli occhiali e osservando la sua mano destra dove, come sempre, era segnata una piccola cartina dell'isolato; confrontò il puntino giallo sul suo indice con il palazzo grande davanti a lei, cercando di ricordare se doveva andare verso il pollice o verso il mignolo per tornare a casa.
Dopo accurati minuti di riflessione decise di seguire il suo mignolo, al massimo avrebbe fatto il giro dell'isolato e sarebbe poi tornata indietro. Non le avrebbe fatto male, con tutti quei chili che stava mettendo su in quel periodo.
Mentre trotterellava sul marciapiede, controllò che sulla mano sinistra fosse ancora visibile la lista della spesa per quella sera: la sua serata speciale con Santana.
Voleva farsi perdonare, nonostante il fantastico sesso di perdono nell'acqua, per la litigata del giorno prima.
Così aveva deciso di organizzare una cena romantica con un finale a dir poco.... wanky come avrebbe detto Santana; aveva comprato le candele, i fiori, e si era fatta spiegare da Mike e Tina come si cucinava la lasagna, che sapeva essere il piatto preferito della latina, e gli ingredienti da prendere al supermercato, di cui avevano fatto la mappa sul dorso della mano.
Era per questo che non le erano bastate per fare la cartina per tornare a casa.
Ad un certo punto si bloccò, annusando l'aria come un segugio; si girò con un sorriso enorme, individuando il carretto degli hot-dog dall'altra parte della strada.
Improvvisamente si ricordò una cosa importante: stava morendo di fame.
Sicuramente Santana non le avrebbe mai lasciato mangiare quel genere di panino con maionese, senape e ketciup tutto insieme. Ma, Santana non poteva vederla in quel momento.
Con un'enorme sorriso rivolse uno "Shh" alla sua pancia e trotterellò verso il carretto bianco.


Cinque minuti dopo la biondina stringeva in mano un panino disgustosamente gigantesco, ripieno di salse di ogni tipo che sembrava volessero esplodere da un momento all'altro.
«Allora Leyuzza mia, pronta per la pappa?» domandò, tendendo poi l'orecchio verso la sua pancia. «Lo sapevo. Bont appettité! O, come si dice.» aggiunse, dando poi un enorme morso all'altrettanto grande hot-dog.
Con un mugugno di apprezzamento e con le guance rigonfie a causa del boccone, riprese a camminare verso il grande supermercato, decisa a non distrarsi più fino a quando non avrebbe portato a termine la sua “missione”. Leccò un grosso rivolo arancione che scivolava lungo il morbido pane e diede un altro enorme morso, quasi la metà di quello che era rimasto, e svoltò l'angolo.
Trotterellò lungo la strada, continuando a fermare le goccioline colorate che di tanto in tanto uscivano fuori dal panino, e, improvvisamente, si bloccò; fece un paio di passi all'indietro e voltò di scatto tutto il corpo. Un sorriso sornione le si dipinse sul volto.
«Pasticceria.» mormorò tra sé e sé mentre gli occhi blu guizzavano da destra a sinistra per controllare che nessuno la stesse osservando.
Prese a camminare davanti alla vetrina come se si trovasse lì per puro caso, mentre si succhiava entrambe le labbra e contemplava le cibarie nel negozio.
Sicuramente Santana non le avrebbe mai permesso di guardare, figuriamoci mangiare, un'enorme ciambella ripiena di crema o panna o cioccolato e ricoperta di tanto, tanto zucchero. Ma, Santana non era lì in quel momento.
Con un sorriso gigantesco, infilò l'ultimo pezzo dell' hot-dog in tasca, rivolse un altro "Shh" alla sua bambina ed entrò nel negozio.


Dieci minuti dopo Brittany sedeva soddisfatta sulla panchina davanti alla pasticceria, succhiando dalle dita i residui di senape e cioccolato e massaggiandosi la pancia con l'altra mano, impiastricciando tutta la canottiera bianca.
«Allora cucciolina mia, ti è piaciuto?» chiese, leccandosi le labbra alla ricerca degli ultimi resti della sua colazione ritardata/pranzo anticipato «Infatti, per questo non lo diremo alla mamma, vero?» continuò strofinando il naso sul grosso rigonfiamento; poi si alzò, stufa di avere le mani tutte appiccicose di zucchero che si incollavano ovunque e si avvicinò alla fontanella danti a lei.

Prese a strofinarsi le mani con cura, eliminando in fretta ogni traccia del cibo che aveva mangiato, sciacquandosi poi anche il viso, sicura che al suo solito si era “sbrodolata come un bambino piccolo”, come diceva sempre la sua San; si asciugò sui pantaloncini e poi prese un grosso respiro, le mani poggiate sui fianchi. Doveva smetterla di distrarsi e fare quello per cui era veramente uscita quella mattina . Basta distrazioni.
«LeeLee, è ora della spesa.» disse canticchiando, portandosi poi la mano destra al volto. Immediatamente i suoi occhi si spalancarono e un'espressione corrucciata si dipinse sul suo volto.
«Mappa.» sussurrò contemplando il palmo della sua mano perfettamente pulito. Era nei guai. Grossi guai. Molto grossi.
Incrociò le braccia al petto e lanciò un'occhiataccia alla fontanella nera.
«Stupida acqua.» commentò «Potevi dirmelo prima?» aggiunse, facendo la linguaccia in direzione dell'oggetto inanimato.
Continuando ad osservare la fontana con disprezzo, prese il piccolo cellulare argentato da dentro il reggiseno e cercò il numero che le serviva in rubrica, avviando poi la chiamata.
Non appena sentì l'avvio della conversazione, le risate di Mike le riempirono la testa.
«B, ti amo. Sappilo.» commentò il ragazzo cercando di parlare tra uno sghignazzo e l'altro. «Tina, paga!» urlò poi alla moglie.
Brittany sbuffò e iniziò a battere il piede per terra, sentendo la risposta di Tina che proveniva da un punto lontano della loro lussuosa casa.
«Non è possibile. Si è persa di nuovo? Le ho fatto le mappe sulla mano!» rispose l'asiatica con una voce esasperata.
«Meno chiacchiere e più contanti.» ridacchiò il ragazzo.
«Quando avete finito di prendermi in giro, mi servirebbe aiuto.» commentò la bionda con un broncio.
«Lo so B. Ma con tutti i soldi che mi fai guadagnare diventerò ricco epotrò comprarmi il ruolo di avvocato migliore dell'anno.» rispose, per poi bloccarsi un momento. «Ops. Fatto senza soldi. Comunque dove ti trovi ora?»
«Non ne ho la più pallida idea, altrimenti non ti avrei chiamato e non avrei fatto spendere i soldi a Tina.» rispose Brittany, iniziando a camminare avanti e indietro.
«Sei davanti a qualche negozio, immagino? O ti sei trasferita nel deserto e non me lo hai detto?» disse Mike con una finta voce offesa, facendo ridacchiare la biondina.
«Sono davanti ad una gelateria.» rispose lei, grattandosi il naso.
«Oh congratulazioni. Sei ufficialmente in Italia per me. Brittany non c'è una sola gelateria al mondo.»
«Ce la faresti arrivare pur di spillare soldi a me.» borbottò Tina.
«Tesoro, per favore. Sto cercando di far tornare in America la nostra povera B.» rispose il ragazzo con una finta voce sconvolta. Brittany se lo immaginava, con una mano sul cuore e una delle sue stranissime facce che associava a quel tono di voce. «Allora come si chiama questa prestigiosa gelateria italiana ce ti ha attratto lì?» aggiunse l'asiatico, interrompendo i film mentali che la bionda stava facendo su di lui.
«Scemo. Sono davanti a ”Le Choccolat”. Mi sono persa Mike, vero? Non tornerò mai più dalla mia Santana e lei non vedrà mai LeeLee e....» iniziò Brittany spaventata per venire interrotta dall'ennesima risata fragorosa dell'amico.
«Meno male, non sie in Italia. E poi B? Guarda a sinistra.»
La ballerina girò la testa nella direzione che le aveva detto il ragazzo e sorrise.
«Oh, il supermercato! Mike sei meglio di un navigatore!» esclamò saltellando.
«Lo so B, meglio di un costoso navigatore riprodotto in Cina.» rise l'asiatico «Ora vado B, devo dare la pappa a Jenna. Ci sentiamo.»
«Ehm, Mike?» chiese lei timida, grattandosi la testa mentre si avvicinava alle porte del grande negozio.
«B?»
«Non è che rimarresti in linea con me? Sai, non ho più la mappa del supermercato e tutti quei scaffali alti, pieni di cose mi confondono.»
«Tina? Paga!» chiamò Mike, ricominciando a ridere.
«Non ci posso credere. Non scommetterò mai più con te.»

 

//
 

Brittany rotolò sul tappeto di casa con tutte le buste della spesa.
Perché gli orchetti avevano deciso di rompere l'ascensore e non far aprire la porta del loro appartamento proprio quel giorno? E perché Tubb non capiva che non si doveva addormentare sullo zerbino?
La ballerina si mise a sedere, massaggiandosi la pancia con un piccolo broncio.
«Ahio.» mormorò, osservando il contenuto delle sue tre buste della spesa riversato sul pavimento.
Forse avrebbe dovuto dare ragione a Mike e prendere solo quello che serviva per preparare la cena a Santana, rinunciando a tutti gli altri vari dolci e salatini di cui aveva voglia. Sicuramente sarebbe stato più facile portare solo la mezza busta per tutte quelle scale.
«Scusa Leya. Non volevo farti male.» disse alla sua pancia, massaggiandola dolcemente. «Dai, sistemiamo queste cose e prepariamo la sorpresa a Mamma Tana, ok?» domandò, alzandosi con uno scatto e stiracchiandosi le braccia.
Chiuse la porta con un piede e poi trotterellò fino al divano, afferrando il telecomando e accendendo la grande TV; la accese e cambio velocemente una serie di canali, fino a trovare quello che le interessava: la sua San avrebbe fatto l'intervista di lì a qualche minuto.
Rifece il percorso al contrario fino alla cucina, accompagnata dalle parole del servizio che stava andando in quel momento, e scavalco l'ammasso di scatole e barattoli che le intralciavano il passaggio per arrivare al frigo.
Sapeva che doveva metterla a posto e iniziare a preparare la lasagna, ma non aveva voglia. E, sopratutto, aveva fame. Purtroppo sapeva perfettamente che Santana aveva nascosto tutto ciò che ci fosse di dolce in quella casa. Lei e le sue stupide preoccupazioni.
Osservò le buste per un paio di minuti, in lotta con se stessa sul decidere se iniziare a mangiare tutte le schifezze che aveva comprato oppure decidersi a preparare la lasagna alla sua ragazza. Oppure....
Con un sorriso gigantesco saltellò sul posto e riprese il cellulare da dentro il suo reggiseno e premette il tasto della chiamata rapida. Dopo un paio di squilli, sentì il segnale dell'avio di chiamata.
«Ti prego dimmi che non ti sei persa per tornare a casa B.» esordì Mike ridacchiando.
«No, tranquillo.» rispose la biondina ridendo assieme a lui. «Ehi M, per caso devi andare a lavoro ora?» chiese poi, tornando seria. Per quanto le consentiva il suo carattere.
«No, avrei dovuto, ma Finn ha detto che la causa è saltata quindi sto tornando a casa. Perché?»

«Sai, le ricette mi confondono e non vorrei fare un disastro visto che è per Santana.» disse, con quella voce che sapeva conquistare chiunque.
«Peccato che non c'è Tina. Mi dovrebbe altri venti dollari.» rispose lui ridendo. «Sono da te tra 5 minuti. Mr Lasagna Master sta per venire lì e cucinare, mentre tu mangi.» concluse e attaccò.
Brittany chiuse il telefono soddisfatta. Era bravissima in questo: costringere la gente a fare quello che voleva lei, quando voleva lei.
Con la stessa sensazione di vittoria di quella mattina, prese il barattolo di yogurt alle banane dal frigo, le barrette ai cereali da una delle buste abbandonate sul pavimento e si andò a sedere sul divano, pronta per lo spettacolo della sua bellissima donna che parlava in TV.
«E ora andiamo da Santana Lopez e dalla campionessa del suo 10° Premio Nazionale per la sua squadra di cheerleader, Sue Sylvester. Santana.» disse la presentatrice bionda per poi fare posto alla sua bella latina.
Involontariamente Brittany sorrise, un sorriso che solo la sua Santana poteva strapparla. Specialmente in quel momento: i lunghi capelli castani legati in due codine alla base della testa, la giacchetta della Cherioos indosso sopra ad un paio di jeans scuri. Era semplicemente magnifica.
«Grazie Nancy.» disse Santana avvicinandosi poi alla loro ex coach. «Allora Sue, il 10° titolo nazionale. Si sente fiera della sua squadra?» domandò.
Brittany non riusci ad afferrare le parole della Sylvester, troppo impegnata ad osservare il corpo sinuoso della sua donna e il movimento delle sue labbra carnose.
Così tanto che quasi non si accorse, dopo che la sua ragazza aveva ripreso a fare domande, di un piccolo calcetto proveniente dalla sua pancia.
La cosa la lasciò un attimo sbigottita, poi sorrise.
«Lo so, LeeLee. Anche io sono fiera della tua mamma» sussurrò, accarezzandosi la pancia.
Con tempismo perfetto, il campanello suonò tre secondi dopo la fine del servizio di Santana. Brittany saltellò fino alla porta e appoggiò l'orecchio sul legno.
«Chi è?» chiese cercando di captare i movimenti.
«Sono io e sono venuto a fare un gioco con te.» rise Mike da dietro la porta.
«Mi dispiace, non conosco nessun Io e non posso parlare con gli sconosciuti.» rispose la bionda, cercando di trattenere le risate.
«Avanti B, prima che faccio la muffa.» commentò l'asiatico, picchiettando sulla porta.
Brittany aprì il portone e sorrise al suo amico, vestito come un pinguino in fuga dal suo paese.
«Come farei senza di te?» chiese.
«Non lo so. Forse moriresti.» rispose sarcastico, per poi infilare le mani sotto i bottoni della camicia bianca. «Allora, baby, sei pronta a ballare?» chiese, aprendo con uno scatto la stoffa e facendo saltare tutti i dischetti di plastica.
Brittany scoppio in una risata genuina, facendogli segno di entrare.
Si prospettava un lungo e divertente pomeriggio.

 

***


Santana varco il ponte con un sospiro. Era stufa di stare dentro quella macchina e stufa di stare sotto al sole. Voleva solo tornare a casa, dalla sua piccola biondina.
Per tutto il corso di quella lunghissima giornata non aveva smesso di pensare a lei: a cosa stesse facendo, a cosa stesse pensando... Non ci poteva fare niente. L'aveva stregata.
Girò la curva che portava al suo quartiere e tirò un grosso sospiro di sollievo nel vedere le case e i negozi che ormai conosceva bene.
Come la gioielleria. Quella gioielleria davanti alla quale passava tutti i giorni per andare a lavoro, quella gioielleria che le affollava la mente da due settimane. Infatti, alla vista dell'insegna luminosa le ritornarono in mente tutti i pensieri che aveva scatenato e, soprattutto, le domande che aveva portato.
Fermò la macchina davanti al negozio, osservando i gioielli esposti in vetrina.
Era pronta? Era ora?
Sì, insomma, ormai erano più di otto anni che stava con Brittany e l'amava alla follia. Non era ora di fare il grande passo?
Non c'era una data di scadenza, che ti imponeva di sposarti dopo un tot di anni di fidanzamento altrimenti di saresti dovuta lasciare ma, perché non farlo?
Brittany sarebbe stata per sempre la sua ragazza, avevano una bambina in arrivo, perché non farla diventare sua moglie?
Ritorno alla prima domanda: era effettivamente pronta?
Scese dall'auto, mossa più da un'azione involontaria che da un vero e proprio comando partito dal suo cervello, e si avvicinò alla vetrina.
Cercava di immaginarsi la sua biondina con uno di quegli anelli che vedeva esposti, tutti troppo grandi e troppo “sofisticati” per lei, mentre attraversavano la navata di una chiesa mano nella mano.
Avanti, sei Santana Lopez di Lima Adjens e hai paura di comprare un anello e fare la proposta alla tua ragazza?” pensò, avvicinandosi alla porta con passo di carica; fece per aprire la porta, ma si bloccò. No, non era per lei. Si voltò e ritornò alla macchina. E si bloccò di nuovo.
Era pronta?
Questa forse era la domanda più difficile a cui aveva dovuto rispondere.
Poggiò la fronte contro il tettino freddo della sua auto e prese un grosso respiro; poi si rialzò, ritornò a passo di carica alla porta ed entrò.
Il negoziante, dall'altra parte del bancone, la osservava come se fosse appena entrata una pazza nel suo negozio.
Santana si lisciò le pieghe della maglietta, alzando leggermente il mento come era solito fare, e si avvicinò a piccoli passi.
Ok , respira. Ora ti avvicini, gli chiedi se ha un anello, lui dice di no e tu torni a casa. Non scappare come una codarda.” pensò tra sé, mentre riduceva la distanza tra lei e l'uomo.
«Buona sera signorina. » salutò cortesemente lui, senza abbandonare la sua espressione preoccupata. «Come posso esserle utile?»
«Salve. Un anello, se possibile.» rispose la latina, sentendosi molto stupida: cosa era entrata a fare lì, a comprare limoni?
«Certo signorina, ma, mi perdoni la domanda indiscreta, non toccherebbe all'uomo comprare l'anello di fidanzamento?» chiese il negoziante, facendole segno di seguirlo.
Santana si limitò ad incrociare le braccia e a rivolgergli una delle sue peggiori occhiatacce che, se avessero potuto lo avrebbero incenerito.
«Allora, a cosa stava pensando?» domandò ancora lui, distogliendo subito lo sguardo dagli occhi scuri della ragazza e iniziando a frugare nei cassetti.
«Non lo so.» rispose Santana, fissando lo sguardo sui riflessi che creava la luce sulle piccole pietruzze incastonate negli anelli. «Qualcosa di semplice e speciale.»
L'uomo ci stette a pensare per un momento, poi tirò fuori tre scatoline di velluto grigio e le aprì in fila sul bancone.
La prima conteneva un anello semplicissimo: un cerchio d'oro bianco con un piccolo diamantino sopra. La latina lo scartò subito, era troppo scontato.
Il secondo era il fratello dell'altro, solo che il metallo si andava ad intrecciare sotto la piccola gemma.
Il terzo fu quello che la rapì totalmente: il cerchio era classico, solo più fino rispetto agli altri; il diamantino al centro era piccolo e, intorno ad esso, i suoi simili minuscoli si andavano ad intrecciare intorno ad esso, fino a formare i petali di un piccolo fiore.
Santana lo prese e se lo portò vicino al volto. Era perfetto per la sua Brittany.
«Questo.» decise senza pensarci due volte, perché sapeva che, se lo avesse fatto, si sarebbe voltata e sarebbe uscita dal negozio.
«Ottima scelta.» disse l'uomo, riponendo le altre scatole e andando verso la cassa.
La latina lo seguì, fissandosi la punta delle scarpe.
Era pronta.
Era pronta per passare il resto della sua vita con la donna che amava. Un po' meno pronta a proporglielo, ma pronta a farlo.
E se B dicesse di no?” Santana venne presa dal panico. Non aveva mai pensato che magari per la sua paperella fosse un passo troppo difficile.
Si bloccò con la mano in cui stringeva la carta di credito sospesa per aria, sotto gli occhi nuovamente preoccupati del negoziante.
«Cos'ha da guardare?» disse la latina, consegnandogli, con un grandissimo sforzo interiore, la carta per il pagamento e prendendo in mano la bustina che conteneva l'anello, che sembrava pesare due quintali.
«Grazie e buona serata.» disse l'uomo, riconsegnandole la sua carta di credito.
Santana annuì e gli voltò le spalle, ancheggiando fino alla porta e cercando di ignorare la gigantesca insegna che le sembrava avere in testa. O, perlomeno, sulla mano.
Salì nella macchina e poggiò delicatamente la bustina blu sul sedile del passeggero, come se ci fosse una bomba che stava per scoppiare.
Accese il motore e partì, superando di gran lunga il limite di velocità nei 500 metri che la separavano dalla sua casa.
Si sentiva maledettamente a disagio. E come se quell'anello riuscisse ad intrappolare tutti gli sguardi delle persone che incontrava per strada.
«Diamine, che cavolo avete da guardare?» disse ad alta voce dopo che l'ennesimo autista l'aveva squadrata. Era sicuramente perché sapevano che stava facendo qualcosa che non doveva fare.
O, magari perché stava infrangendo parecchie regole della strada.
Entrò nel parcheggio del suo palazzo e fermò la macchina nel posto auto riservato a lei; rimase per un paio di minuti a fissare il parabrezza, con la testa piena di nuove domande, sentiva il ronzio di quelle che la tormentavano di più vicino alle orecchie.
Glielo avrebbe chiesto quella sera?
Doveva dirlo a qualcuno o tenerselo per se?
Poggiò la testa sul cruscotto e sospirò. Quella sera lo avrebbe chiesto a lui, l'unico che riusciva ad aiutarla veramente.
Sì, lui l'avrebbe consigliata nel modo giusto. Dopo averla sfottuta per una paio di minuti. O un paio d'ore. O un paio di mesi.
Dopotutto, lui conosceva Brittany come nessun altro.
Con un sorriso, prese il pacco bomba dal sedile accanto a lei e uscì dalla macchina.


Dieci minuti dopo infilò la chiave nella toppa, il fiato corpo a causa della stupida ascensore che non voleva funzionare. Forze quel ciccione che fumava come una ciminiera del capo condominio doveva imparare come si facevano le cose a Lima Adjens. Insieme al gioielliere.
Sentiva le risate provenire dall'interno ma non erano solo di Brittany; aprì la porta e quasi le caddero le braccia per quello che vide: la sua cucina era tutta imbrattata: farina, uovo e sugo erano spiaccicati ovunque e, quello che le fece cadere la mascella insieme alle braccia, furono due paia di gambe che spuntavano da dietro al divano beige.
«Ma che caz...spiterina sta succedendo qui?» domandò poggiando la borsa sopra al tavolino dell'ingresso. Le risate si spensero subito mentre le gambe bianche ( e nude?) che conosceva bene tremarono leggermente.
«Mike. Penso che sia Santana.» mormorò Brittany.
L'altro paio di gambe (nude) tremarono a causa di una risata.
«Già, penso che sia lei.» ridacchiò il ragazzo.
«Secondo te ci a visto?» chiese la bionda, iniziando lentamente a piegare le gambe.
Santana si avvicinò come un gatto al divano, cercando di non ridere e di non urlare dalla rabbia nello stesso momento.
«Direi di sì.» concluse lei, poggiandosi alla spalliera del sofà per osservare meglio i due amici che, decisamente contro i suoi ordini, stavano facendo una verticale a tempo (aveva visto il timer a forma di papera accanto al bracciolo).
Brittany poggiò i piedi sui morbidi cuscini del divano e, con non si sa quale mossa inventata sul momento, fece una specie di ponte e si sdraiò sul divano. Mike la seguì poco dopo.
«Ciao amore.» sorrise la bionda, sbattendo le ciglia.
«B, quante volte ti ho detto che non devi fare queste cose? Almeno, non ora che hai la nostra Leya Sophie nella pancia?» chiese Santana esasperata, portandosi una mano alla fronte mentre fissava i suoi occhi scuri in quelli chiari della sua ragazza.
Brittany mise il suo miglior broncio, cercando di nascondere un sorrisetto, e si portò le mani alla pancia.
«Ahi.» sussurrò, vedendo la latina fare velocemente il giro del divano e sedersi accanto a lei.
«Oh scusa B, non volevo essere cattiva con te. Ti fa male?» Santana iniziò a riversare preoccupazioni sotto lo sguardo compiaciuto della biondina.
Brittany sapeva perfettamente che un qualsiasi segno dalla loro LeeLee, vero o finto che fosse, la faceva addolcire come un pezzo di cioccolato. Strizzò l'occhio a Mike che, con una risata soffocata, raccolse i suoi vestiti dal pavimento e si avvicinò in punta di piedi alla porta.
«Scusa, scusa scusa... asiatico non ti conviene muovere un altro passo.» concluse Santana, passando dal tono dolce e carino a quello che faceva paura a chiunque, senza neanche voltarsi a guardarlo.
Si alzò e incrociò le braccia, guardando Mike con quello sguardo che avrebbe ucciso.
«Quante volte ti ho detto che non le devi far fare queste cose?» disse, battendo il piede sul pavimento.
«Io? Io non sono un Mike.» disse il ragazzo, voltandosi poi a cercare qualcosa da imitare. «Io sono... un attaccapanni!» concluse, alzando le braccia come l'asta di metallo che si trovava dietro a lui.
Santana sospirò mentre Brittany ridacchiava sul divano, portandosi la mano vicino al viso e sventolandola dall'alto in basso mimando un “Abbassa le braccia” con le labbra. Mike eseguì, sfoggiando la più buffa delle sue facce.
La latina non poté fare a meno di sorridere, fino a quando non si accorse dell'abbigliamento dei due.
Mike era praticamente nudo, se non fosse stato per la cravatta sugli addominali lisci, i boxer a coprire quello che dovevano coprire, il calzino sinistro e la scarpa destra. Senza calzino. Come aveva fatto a togliersi il calzino senza togliere la scarpa?
Brittany invece indossava solo la biancheria intima e le pantofole a forma di panda.
«C'è qualcosa che dovete dirmi?» disse Santana, facendo guizzare lo sguardo dalla bionda all'asiatico.
«Oh, ho chiesto a Mike di aiutarmi a fare la lasagna per farti una sorpresa. Lui ha detto che era il più bravo, che non gli serviva neanche di vedere la ricetta, e io gli ho fatto levare un pezzo del vestito ogni volta che aveva bisogno di vederla. E io avevo caldo.» disse Brittany d'un fiato, spalancando le labbra in un sorriso.
«Hai cucinato la lasagna... per me?» chiese l'altra, chinandosi di nuovo vicino a lei.
«Sì. Perché so quanto ti piace e volevo farmi perdonare per la lite di ieri.» ripose la bionda.
«Ti amo così tanto.» disse Santana, dandole un dolcissimo bacio sulle labbra.
«Ehm, in realtà io e il forno abbiamo cucinato la lasagna. Lei mangiava» commentò Mike, mentre si rinfilava i vestiti. «Ok, io torno a casa.» aggiunse, vedendo che le due ragazza erano troppo impegnate a succhiarsi la faccia.
«Ciao.» sussurrarono all'unisono, una sulle labbra dell'altra.
Rimasero a guardarsi per qualche minuto, in quel modo in cui solo loro potevano osservarsi
«Allora paperella bella, cosa hai fatto oggi?» chiese la latina, rompendo il silenzio.
Brittany si irrigidì subito e distolse lo sguardo dal viso della sua donna.
«Niente.» disse, dandole le spalle.
«B...»
«Ok è vero, ho mangiato un hot-dog pieno di tutte le salse che tu non vuoi che io mangi.» disse la ballerina, scoppiando in lacrime.
«B, volevo solo...» provò Santana ma la sua ragazza ormai era partita.
«E ho anche mangiato una ciambella ripiena, anche se tu mi avevi detto di non farlo.» urlò poggiando poi un dito sulla sua pancia. «Ed è tutta colpa di Leya Sophie!»
«Perché mentre mangi è LeeLee e dopo che lo hai fatto è Leya Sophie ed è colpa sua?» ridacchiò Santana sedendosi accanto a lei e costringendola a guardarla.
«Beh... è colpa tua che l'hai messa qui dentro.» commentò la bionda prima di riprendere. «E poi, ho ricattato Kurt anche se tu mi avevi detto che non era bello e, durante il terzo anno, quando abbiamo litigato perché volevo cantare il duetto con te, mi sono alleata con Rachel per far ingelosire te e Quinn e durante l'ultimo anno...» disse prima di ritrovarsi un dito scuro a serrarle le labbra.
«Volevo solo dirti che mi sei mancata.» disse Santana, dandole un leggero bacio sulla fronte. «Allora questa magica lasagna?»
Brittany si asciugò le lacrime e le fece un sorriso, alzandosi dal divano e trotterellando fino in cucina.


Santana si svegliò. Dovevano essere le due di notte passate.
Si sentiva tutta indolenzita. E affamata.
Brittany non le aveva neanche permesso di finire la cena che le era saltata addosso e l'aveva trascinata nel loro letto. Era molto brava a farsi perdonare.
Si voltò su un fianco, ritrovandosi davanti una nuvola di capelli biondi arruffati, che si alzavano e si abbassavano al ritmo delle spalle.
Era pronta ad averla al suo fianco per il resto della vita, e non come ragazza ma come moglie?
Decisamente sì. Ma doveva comunque dirlo a lui.
Quante ore indietro erano? Otto, sette? In entrambi i casi era sicuramente sveglio.
Fece per alzarsi, quando una manina la spinse di nuovo indietro.
«Sai che oggi, mentre guardavo la tua intervista, LeeLee mi ha dato un calcio?» sussurrò la ragazza bionda, con la voce assonata.
«Veramente? Dopo aver sentito la mia voce?» chiese Santana. La loro bambina aveva avuto una reazione nell'ascoltarla alla TV.
Brittany annuì con un sorriso, appoggiando il mento sulla sua spalla.
«Ti amiamo entrambi. E amiamo la tua splendida voce. »
La latina sorrise nell'oscurità. Lo stava dicendo solo perché voleva fare un altro round.
Ma lei non poteva, doveva chiamarlo. Anche se, lui poteva aspettare la mattina dopo per prenderla in giro. Guardò con uno sguardo disperato il computer che l'aspettava sulla scrivania, poi la sua donna nel letto.
Guardò lo schermo nero. Guardò i graffi sulle braccia di Brittany. Guardò la webcam che aspettava di essere accesa. Guardo Brittany leccarsi le labbra.
Ma non poteva, doveva fare quella telefonata, era importante. Con tutto quello che stava succedendo, con Quinn tornata, doveva telefonare. E poi voleva sapere come stava. Deva davvero alzarsi e fare quella telefonata.
«Tana?» miagolò la bionda socchiudendo gli occhi, facendosi camminare due dita sulla pancia prima di farle sparire velocemente oltre l'elastico delle proprie mutandine.
Santana sussurrò un “Al diavolo.” e tornò tra le braccia della sua donna.

 

 

 

Gina's Corner:Gina's Corner: IO ODIO QUESTA M***A DI CAPITOLO!

 

Salve lettori :)

 

Come avrete già capito io e questo capitolo non ci intendiamo.
Non so nemmeno se sia molto utile. Non so nemmeno se sia un capitolo.
E' da gennaio che ci lavoro, scrivevo una riga e poi lasciavo perdere .-. Stupido .-.

Ho seriamente pensato di smetterla e di non scriverla più, perché è stato come i mesi di gravidanza, il parto e la depressione post partum tutte insieme .-.

Per tutti quelli che si aspettavano la cena, mi dispiace. Non potevo accontentarvi subito =)

 

Non chiedetemi il perché della parte Kurtofsky iniziale, o il perché della parte Bike in mezzo.
Non chiedetemi niente che riguardi questa cosa =)

L'unica cosa positiva è Emily, la mia personal Blond!Rachel. Tanto ammore per lei u.u


Per il resto fa palesemente schifo. Quindi se volete tirarmelo dietro e smettere di leggere la storia fate con comodo.
Lo farei anche io.


Inoltre, ho finito i capitoli messi da parte. Con la Pezberry per il concorso di La_Ari e Gleekpanda non ho avuto il tempo di scriverlo.
Quindi bho, non so quando ci rivedremo.

Infine (me ne vado, lo prometto) un saluto alla mia Boo/Beta/PR/sister che mi guarda da Milano.
Un grazie a lei che mi ha letteralmente costretto a continuare questa storia.
Hi my Boo! <3 *agita la manina*

 

Ok, people. Ci si vede =)

 

And that's how Gina sees it!

 

Love! (niente Peace dopo questa cosa. Non me la merito .-.)


 

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