Happily Ever After

di theOldEnnui
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***
Capitolo 5: *** Cinque ***



Capitolo 1
*** Uno ***


HAPPILY EVER AFTER

1.

 

È un giorno come tutti gli altri al 221B di Baker Street e John Watson se ne sta spalmato sopra la sua poltrona preferita ad affogare gli ultimi reticenti brandelli di sonno nella sua consueta dose di tè mattutino, mentre con occhio distratto sbircia, da quasi un quarto d'ora, la prima pagina del Mirror: ormai l'ha imparata a memoria, ma gli manca la forza necessaria per persuadere il suo braccio a muoversi e girarla.

Ieri in ambulatorio è stata una giornata campale: per via di una meschina ondata di influenza, che ha mietuto vittime finanche fra i membri stessi dello staff medico, il buon dottore ha dovuto raccapezzarsi fra starnuti e scartoffie tre ore più a lungo del solito. Quando poi Sarah – impietosita - si è decisa a lasciarlo andare a casa e dopo un interminabile viaggio in metropolitana è finalmente arrivato a spalancare la porta del 221B, solo per scoprire Sherlock intento, per inspiegabili ragioni, a srotolare metri e metri dell'intestino di quello che forse un tempo era stato un maiale sopra al tavolo della loro cucina, John non è riuscito a produrre più di un grugnito scontento ed un'espressione a metà fra una smorfia di disgusto e uno sbadiglio, prima di voltare i tacchi e trascinarsi in camera, segretamente grato alla ripugnante visione per aver trucidato ogni focolare d'appetito che minacciava di germogliargli nello stomaco ed avergli così risparmiato la fatica di dover ordinare la cena.

Oggi avrebbe dovuto essere il suo giorno libero, ricorda John con amarezza, ma il Dottor Cooper è capitolato sotto i colpi dei virus, lasciando scoperto un turno, e quando Sarah gli ha proposto di sostituirlo lui non ha potuto fare a meno di accettare: i soldi in più guadagnati con gli straordinari gli fanno davvero comodo, considerata la disastrosa situazione in cui versa il suo conto in banca e, fra le altre cose, lui e Sherlock sono in ritardo sull'affitto di quasi due settimane- dio benedica la Signora Hudson per non aver ancora fatto pressioni. Perciò al diavolo la stanchezza, addio agognato pausa dalle recriminazioni di bellicosi vecchietti coi reumatismi e benvenute imminenti otto ore di interminabile tedio.

John trasale appena quando la porta della stanza di Sherlock si apre con un tonfo e una manciata di secondi dopo il detective fa il suo ingresso in sala in uno sfarfallio di tessuto blu e riccioli sorprendentemente vaporosi.

«Oh.» commenta, una volta avvedutosi della sua presenza. «Sei già sveglio. Perché sei già sveglio?» mormora fra sé, acuminando lo sguardo nella sua tipica posa da sto per dedurre ogni tuo più turpe e recondito segreto e non c'è niente che tu possa fare per impedirmelo.

«Devo coprire un collega alla clinica» lo informa l'altro in fretta, provando un infantile e francamente spropositato senso di soddisfazione al pensiero di aver sottratto al suo tronfio coinquilino l'ennesima opportunità di mettere in mostra il suo genio. Le labbra di Sherlock si piegano in una curva oltraggiata, mentre un rapido lampo di rimpianto per l'occasione appena perduta attraversa i suoi occhi. John sorride.

«Mh.» commenta con risentita magniloquenza il detective, prima che le sue meningi sempre in corsa vengano raggiunte da un nuovo pensiero che spodesta tutti gli altri e lo spinge ad affondare una mano nella tasca della sua vestaglia. John lo scruta con mite curiosità mentre lui, col volto contorto in una maschera di pura concentrazione, lotta per trovare ciò che sta cercando nel marasma di oggetti che ha stipato lì dentro, ma il caos regna sovrano e l'operazione si protrae per un'abbondante manciata di secondi, durante la quale il buon dottore è troppo assorto nella contemplazione dell'indaffarata creatura che gli si staglia dinnanzi per accorgersi in tempi utili del nugolo di elucubrazioni moleste che ha preso a raddensarsi dentro alle pareti della sua scatola cranica e quando, fra un sorso e l'altro del suo Earl Grey, si ritrova a meditare dio, quei riccioli, come vorrei toccarli per lo sventurato è già troppo tardi per sperare di poter riprendere in mano le redini della propria coscienza e impedirne il deragliamento. Un secondo John sta pensando: sembrano così morbidi e sono così lucidi e così ben delineati e-- e il secondo dopo le sue corde vocali decidono di travalicare il giudizio del cervello e: «Sherlock,» formulano a tradimento «hai fatto qualcosa ai capelli?»

Sherlock si immobilizza, interrompendo per un attimo il suo ossessivo raspare e da dietro le lunghe ciglia gli scocca un'occhiata che appare quasi di sorpresa, mentre un piccolo spasmo compiaciuto fa tremare le sue labbra ed ognuno dei suoi muscoli facciali prende a lottare contro il sorriso che sta spingendo in tutta evidenza per affiorare.

John tuffa in fretta gli occhi dentro alla sua tazza e senza capire bene il motivo si ritrova ad arrossire. Vanitoso bastardo, rimugina fra sé.

«Ieri sera te ne sei andato prima che potessi darti questo» dichiara il pavone, che è finalmente riuscito a scovare l'oggetto della sua ricerca e dopo averlo estratto con tripudio dal buco nero in cui era imprigionato glielo ha tirato addosso, mancando il suo tè di una frazione di centimetro e solo per grazia divina.

È una piccola scatolina nera ed elegante che John si rigira fra le mani con circospezione diverse volte. La annusa. Se la porta vicino all'orecchio e la scuote.

Siccome in seguito alla sua ponderata analisi non riscontra nessun ticchettio sospetto, nessun effluvio potenzialmente nocivo gli offende le narici e l'apparenza della cosa in sé è abbastanza innocua, il buon dottore decide di accontentare Sherlock e aprirla.

John Watson è stato vicino alla morte in diversi momenti nel corso della sua vita e tutte le volte, mentre il suo corpo è sottoposto ad ogni genere di stress, la sua mente è calma e distante, e si affolla di ogni sorta d'immagini bizzarre, fantasie deliranti, ricordi distorti – a volte terribili, a volte rassicuranti. Oggi, per sciagura, hanno vinto i terribili, e mentre si contorce sopra la sua poltrona preferita, tossendo fuori anche l'anima per colpa di un sorso di tè che, sconvolto dal contenuto della scatola, è inciampato ed è finito a rotolargli giù per la laringe, John Watson si ritrova davanti agli occhi il faccione tondo e mellifluo di Mycroft Holmes che ghigna lezioso e ripete in un loop interminabile a quando il lieto evento? A quando il lieto evento? A quando il lieto evento?

«Sher-- » l'ennesimo conato di tosse lo interrompe, «Sherlock...? Sherlock cos'è questo?» ruggisce una volta recuperato il parziale dominio sul proprio apparato fonatorio «Mi sembra un anello... è un anello? Sherlock è un anello? Perché mi hai dato un anello? Dio, non sarà mica una fede nuziale? Perché diavolo-- Sherlock...? Sherlock!»

Controvoglia Sherlock riemerge dalla cucina, luogo in cui si era ritirato subito dopo aver effettuato la consegna, con un paio di occhiali di protezione in bilico sul naso e un grembiule schizzato di misteriosi umori allacciato in vita. Aggrotta la fronte in quella che appare una sincera esibizione di perplessità e dice: «John, non andare nel panico. Ne abbiamo diffusamente discusso ieri pomeriggio- non hai sollevato nessuna obiezione, dunque ho supposto che andasse bene anche per te.»

«Andasse bene? Andasse bene cosa? Sherlock, ero al lavoro ieri pomeriggio!» rantola brusco e disorientato il dottore.

«Be', non è di certo un problema mio questo»

Mai, nemmeno nel corso di tutte le sue passate avventure, l'imprudente esistenza di Sherlock Holmes è stata più vicina all'essere brutalmente stroncata di quanto non lo sia in questo momento: «Sherlock!» tuona terribile il capitano John Hamish Watson, quinto reggimento dei fucilieri di Northumberland.

L'esacerbante creatura sbuffa e si toglie gli occhiali con gesto secco, prima di lasciarsi cadere con ostentata teatralità sulla sua poltrona: «È per il caso Champion», dichiara.

«Il caso Champion. Bene.» ripete con lentezza il buon dottore, tentando di calmarsi e raccogliere le idee «Il suicidio?» s'informa poi, alzando un sopracciglio.

Il viso del detective si contorce in una smorfia indignata, mentre è costretto a contemplare le sempre sconcertanti proporzioni della ottusità umana e un sibilo a metà fra un sospiro affranto e una risata di scherno gli si forma in gola: «Non è stato un suicidio!»

«Lestrade la pensa diversamente.»

«Per favore, sappiamo entrambi che Lestrade è un idiota.»

«Sarà, ma è l'idiota che ti lascia avere accesso alle scene del crimine, ai cadaveri, alle prove, che ti fa importunare i testimoni, che ti permette di investigare, che--»

«Sì, bene, mi ricorderò di spedirgli una cartolina di auguri il prossimo natale, allora.»

John grugnisce esasperato e rotea gli occhi, ma decide di lasciar correre, almeno per questa volta, la sfacciata assenza di creanza di cui Sherlock sta facendo sfoggio, giacché il desiderio di scoprire cosa diamine abbia a che fare con lui e con il suo coinquilino una fede nuziale lo sta divorando: «Spiega, ti prego» dice, agitando la scatolina.

«Credo che la disposizione d'animo di Lestrade nei miei confronti continui a non essere delle migliori, sai, per via di quella faccenda dell'urina finita nel suo caffè e siccome quell'uomo manca totalmente di professionalità non ha voluto ascoltare le mie teorie sul caso Champion. In questo periodo sono impegnato con uno studio sulle proprietà corrosive dei succhi gastrici dei suidi, quindi non mi pesava molto la prospettiva di aspettare uno o due giorni perché Lestrade si rendesse conto che senza il mio aiuto non ha la più pallida idea di dove sbattere la testa e corresse qui per implorarmi di colmare le spaventose lacune lasciate aperte dalla stupidità sua e del suo team, ma poi mercoledì sono stato contattato da Cornelia Champion, la madre della vittima – anche lei crede che il figlio non si sia suicido, anche se ho il forte sospetto che la sua convinzione in merito abbia radici molto meno scientifiche della mia. Mi ha chiesto di indagare sulla sua morte, dal momento che Scotland Yard è troppo ottusa per riconoscere un caso di omicidio quando se lo trova sotto il naso. Si è offerta di pagare cinquecento sterline subito e altre mille una volta che il caso sarà concluso. Ho accettato, so quanto ti preoccupi di banalità come il denaro-- pensavo ne saresti stato felice.»

John è, effettivamente, felice dell'insperata entrata, ma continua a non vedere come tutto ciò si colleghi all'anello. «Be', bene. Era una vita che non accettavi un caso che venisse retribuito.» dice, «Ora ti spiacerebbe passare alla parte in cui mi spieghi per quale ragione sto tenendo in mano una fede nuziale?»

Sherlock sbuffa e lo guarda con lo stesso misto di esasperazione e tiepido affetto che un insegnate rivolgerebbe al più tonto fra i suoi allievi: «Sono moderatamente convinto che l'omicidio di Champion sia il terzo di una serie. Prima di lui sono stati uccisi Charlotte Evans e Michael Powell, l'arma del delitto è cambiata ogni volta, ma il killer è lo stesso. Non è un professionista, è probabile che quello della Evans sia stato il suo primo omicidio, ma non è del tutto nuovo all'uso della violenza, la premeditazione è minima, è disorganizzato, ma fino ad ora è stato abbastanza sveglio da non lasciare indizi utili sui corpi e sulle scene. Sospetto che il movente sia di matrice omofoba e credo ci siano buone possibilità che il killer stesso tenti di nascondere una forma di omosessualità repressa.»

Sherlock smette di parlare e lo guarda speranzoso. John ha sentito parlare degli omicidi di Charlotte Evans e Michael Powell e sa esattamente quello che l'altro sta aspettando. Siccome un angolo della sua mente formicola con una contenuta dose si curiosità e sospetta che il detective non arriverà mai al punto se la sua necessità atavica di dimostrare il prodigio della propria intelligenza non verrà al più presto esaudita decide di accontentarlo: «Matrice omofoba?» domanda sorpreso «Ma nessuna delle vittime era gay-- se non sbaglio secondo i giornali Powell era addirittura sposato»

Il detective batte le mani una volta e con un guizzo entusiasta si accovaccia sulla poltrona: «John, John, John!» cantilena fingendo disappunto «È davvero possibile che tu sia così cieco? Powell era sposato, è vero, e secondo la moglie era a Londra per affari, ma è stato ritrovato alle cinque di mattina con la testa spaccata in un vicolo due strade a sud di uno dei più famosi gay-club di tutta la City e in abbigliamento molto poco professionale, stando a quanto riportato sul rapporto di polizia-- »

«Lestrade non ti ha chiamato per il caso Powell, tu come fai a sapere cosa dice il rapporto di polizia?» interloquisce ingenuo il dottore.

Sherlock tace e inarca con eloquenza un sopracciglio.

«Giusto.» mormora John scuotendo la testa. «Charlotte Evans?»

«Intratteneva palesemente una relazione di carattere sentimentale con la donna con cui divideva l'appartamento, nonostante tentasse di tenerlo nascosto ai genitori. E per quanto riguarda Champion la sera prima del ritrovamento del suo cadavere è stato visto lasciare un pub in compagnia di un uomo alto, robusto e coi capelli scuri, che sospetto sia il nostro killer. In più mentre perlustravo il suo appartamento nel cassetto del suo comodino ho trovato un vibratore viola di considerevoli dimensioni-- non sarò un esperto in materia, ma dubito molto che l'armamentario tipico dell'eterosessuale medio comprenda oggetti simili. Sbaglio, forse?»

John è troppo impegnato ad accendersi in rapida sequenza di quindici differenti tonalità di rosso per degnarlo di una risposta, così Sherlock prosegue indisturbato, mentre l'impressione vaga di un ghigno ammorbidisce la sua apparente impassibilità: «Ho notato che ogni singolo articolo riguardante gli omicidi della Evans, di Powell e di Champion apparso sul Daily Mirror – e credimi, non sono stati niente affatto pochi, la stampa ha uno spiccato gusto per il macabro – è stato scritto dalla stessa persona, ed in ognuno ho riscontrato un velato sottotono di ostilità nei confronti delle vittime. La cosa mi ha incuriosito, così ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che Vincent Teale, il giornalista che si è occupato degli articoli, ai tempi del college è stato iscritto a movimenti estremante conservatori, ha preso parte a numerose risse e all'età di ventidue anni è stato condannato per aggressione nei confronti di un attivista per i diritti degli omosessuali. Sembrava che dopo la condanna si fosse calmato, ma meno di un mese prima dell'omicidio di Charlotte Evans sua figlia ha fatto coming out-- davvero, potrebbe essere più chiaro di così?»

«Pensi che sia stato Teale? Hai qualche prova, oltre alle tue supposizioni?»

«Non ancora, John: è per questo che a partire da domani per una settimana tu sarai mio marito. L'anello serve a quello»

John sta per annuire comprensivo e dire qualcosa di innecessariamente lusinghiero sulle sue strabilianti capacità deduttive, che di certo gli permetteranno di scoprire qualcosa di utile in men che non si dica, quando il senso della frase appena pronunciata lo colpisce improvviso e disorientante come una pallonata dietro alla testa. Il dottore sgrana gli occhi, poi apre la bocca, ma siccome non sono mai nate parole in grado di raccontare il suo attuale stato d'animo la richiude. Aggrotta la fronte e alza un sopracciglio.

Sherlock, che essendo Sherlock è una creatura grandemente osservante, si avvede del figurato ma imponente punto interrogativo che incombe sopra la testa del suo coinquilino e decide di avere pietà di lui: «Teale è stato fuori città fino ad oggi, quindi malauguratamente non ho ancora avuto modo di incontrarlo di persona per confermare le mie deduzioni, ma ho incontrato sua moglie-- una donna insipida che gestisce un salone di parrucchiera piuttosto rinomato,» il detective fa una breve pausa durante la quale si scosta con allusiva noncuranza una ciocca scura dalla fronte. John ha voglia di prenderlo a schiaffi. «Mi ha confidato che fra lei e il marito le cose non vanno molto bene nell'ultimo periodo e che quindi da domenica, per cercare di sistemare le cose, prenderanno parte ad un programma di terapia di coppia che l'anno scorso in una settimana ha salvato il matrimonio della sua migliore amica. L'occasione era perfetta John, sarebbe stato da stupidi non coglierla!»

«Che cos'hai fatto, Sherlock?» domanda l'altro chiudendo gli occhi, perché l'orrenda verità gli sta danzando in topless proprio sotto al naso.

Sherlock ghigna sghembo e mefistofelico prima di parlare: «Le ho detto che anche fra me ed il mio partner c'è stata una certa tensione di recente e lei è stata così gentile da passarmi una brochure» la vilissima entità si allunga per frugare velocemente sul tavolino alla loro destra e quando torna a sedersi composto sta porgendo a John un appariscente volantino rosa ed azzurro al cui centro campeggia incoraggiante la promessa Happily Ever After. «Pensaci, John! È perfetto! Non solo avrò modo di confermare le mie deduzioni, ma se siamo fortunati magari Teale proverà addirittura ad ucciderci!»

Se siamo fortunati. John scuote la testa e dice: «Assolutamente no.»

«Non puoi rifiutarti, ho già prenotato.»

«Senza dirmi niente?»

«Te lo sto dicendo adesso!»

Il soldato dentro John scalpita per venir fuori e dimostrare a Sherlock che non è saggio giocare con la pazienza di un capitano dell'esercito di Sua Maestà, ma evidentemente la dea bendata ha preso in simpatia il detective, perché giusto un secondo prima di detonare John registra con la coda dell'occhio un'immagine del quadrante dell'orologio che porta allacciato al polso: otto e tredici minuti.

Sarah gli staccherà la testa.

Con un esibizione di ammirabile agilità il dottore balza in piedi, facendo cadere a terra, nella foga, la sua tazza. «Non è finita qui!» ringhia tentando di schivare i cocci mentre caracolla verso il bagno, imprecando a denti stretti per tutto il tragitto.

Non ha bisogno di vederli per sapere che gli occhi di Sherlock sono puntati su di lui e stanno sorridendo laconici. Dannatissimo bastardo, pensa.

 

 

____

NOTE: duuunque. Innanzitutto se siete giunti fin quaggiù onore a voi, temerari! 
La storia sarà una piccola long gioiosa e spensierata, perché fa troppo caldo per produrre qualsiasi altra cosa. Secondo i miei calcoli (ma non fidatevi troppo-- faccio ancora le addizioni usando le dita XD ) dovrebbe comprendere all'incirca cinque/sei capitoli eee poi bò D:
Il primo capitolo funge un po' da introduzione, spero che la parte in cui Sherlock prende a parlare del caso non sia stata troppo pesante, noiosa e/o inverosimile-- questa non sarà per nulla un case!fic, perché me ne mancano assolutamente le capacità, però ci tenevo a salvare un po' le apparenze u_u

Mmh... basta. Al prossimo capitolo!

*lancia cioccolatini in giro*

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Capitolo 2
*** Due ***


2.

 

John tenta di nascondere un sorriso compiaciuto quando l'aria immobile all'interno dell'auto freme con la frustrazione di Sherlock, che si lascia andare ad uno sbuffo seccato prima di rassegnarsi all'evidenza dei fatti: la cortina di mutismo dietro alla quale il buon dottore si ostina a restare asserragliato non è destinata a dissolversi da sola. Esercitando una notevole violenza sul proprio orgoglio il detective depone le armi e si decide a parlare per primo: «John?» domanda, e John registra con irraccontabile soddisfazione la nota di sottile incertezza che increspa la sua voce, «John siamo quasi arrivati, mettiti l'anello», gli intima.

Per tutta risposta il dottore si muove appena sul seggiolino, tentando di rendere ancora più evidente la sua totale disaffezione nei confronti della faccenda, aumentando il volume del suo silenzio e continuando a tenere gli occhi ostentatamente incollati sugli alberi che si inseguono svelti fuori dal vetro.

«Non essere infantile!» lo rimprovera esasperato il detective.

Senti da che pulpito viene la predica!, avrebbe voglia di rimbeccarlo lui, ma farlo vorrebbe dire parlare e parlare vorrebbe dire accontentare Sherlock e accontentare Sherlock vorrebbe dire arrendersi e per il Capitano John Watson, quinto reggimento dei Fucilieri di Northumberland, arrendersi non è mai un'opzione. Be', quasi mai: quando si tratta di Sherlock Holmes, in effetti, il Capitano Watson si scopre ad arrendersi con notevole frequenza-- la realizzazione è particolarmente fastidiosa e contribuisce a cementare la volontà dell'ex soldato di non arretrare di un passo dalle sue posizioni.

«Per l'amor del cielo, John! Dobbiamo solo fingere di essere una coppia in crisi, tutta quest'esibizione passivo-aggressiva di risentimento mi pare un tantino esagerata-- credo che tu ti stia immedesimando un po' troppo nel tuo ruolo» sbotta Sherlock irritato, dopo che l'ennesima manciata di minuti silenti è trascorsa, per poi esalare rumorosamente dal naso ed aggiungere, mentre una smorfia di qualcosa di indefinibile, a metà fra il dolore fisico ed il disgusto, gli deforma il viso: «Per favore.»

John grugnisce e, malgrado tutte le sue migliori intenzioni, si trova costretto a gettare la spugna: «Tu mi hai rapito, Sherlock!» tuona accusatore, voltandosi con uno scatto improvviso per poter scoccare al suo insopportabile compagno di viaggio l'occhiata più trova del suo repertorio.

«Questo non è del tutto esatto» si difende senza gran mordente quello, troppo compiaciuto con se stesso per essere riuscito ad infrangere il muro del silenzio per indignarsi a dovere davanti alla mancanza di accuratezza messa in mostra dell'altro.

«Hai ragione, riformulo.» concede John, stirando le labbra in un sorrisetto di affetta accondiscendenza «Mi hai fatto rapire. Dagli scagnozzi di Mycroft. Va meglio così?»

All'incirca due ore prima, di ritorno da una spedizione da Tesco, ciondolando sotto il peso di tre borse tracimanti di generi alimentari ed improbabile materiale per esperimenti, John era stato avvicinato da un'elegante macchina nera che lui, in una sconsiderata esibizione di audacia, aveva deciso di ignorare, giacché proprio non si sentiva dell'umore adatto per fare da testimone all'ennesimo delirio di onnipotenza del maggiore dei fratelli Holmes, ma non era riuscito a mettere in fila nemmeno tre passi oltre al veicolo in attesa che un energumeno in un impeccabile completo scuro gli si era parato davanti, uscendo fuori da chissà dove, e gli aveva intimato con perentoria cortesia di salire in macchina, se non le dispiace Dottor Watson, grazie mille.

Con le braccia indolenzite dal peso delle borse e blandito dalla sottaciuta promessa del passaggio in auto sino a Baker Street che arrivava sempre, una volta conclusa la consueta gita turistica in qualche desolato parcheggio alla periferia della città, il buon dottore si era lasciato manovrare senza troppe resistenze oltre la portiera. Gli ci erano voluti alcuni secondi per rendersi conto che qualcosa non andava, che non c'era nessuna segretaria di ghiaccio armata di Blackberry seduta di fianco a lui, ma quando la realizzazione lo aveva colpito s'era dovuto servire di ogni oncia di forza di volontà presente nel suo corpo per trattenersi dal lapidare con la nutrita selezione di ortaggi appena comprata il molto compiaciuto Sherlock Homes che gli ghignava obliquo e trionfante accanto.

«Nessuno ha rapito nessuno. Sei salito in macchina di tua spontanea volontà» puntualizza ora quello e a John, intrappolato dalle sue parole in un parossismo di furia e sconcerto, non resta che inarcare un sopracciglio incredulo. «Non guardarmi come se fosse colpa mia. Sei tu che mi hai costretto: non volevi sentire ragioni! E ora, per via della tua cocciutaggine, devo un favore a Mycroft-- spero davvero che tu sia soddisfatto, John.»

Sarò soddisfatto, vorrebbe rispondergli lui, quando stringerò in pugno i sanguinolenti brandelli delle tue interiora, ma la macchina si ferma e: «Siamo arrivati!», li avverte l'autista.

Il buon dottore prende un respiro profondo e si arrende di nuovo, lasciando senza ulteriori proteste che Sherlock si appropri rudemente della sua mano sinistra e faccia scivolare la fede lungo il suo anulare, prima di spalancare la portiera e scendere dall'auto.

 

Se mai la felicità dovesse decidere di incarnarsi in un edificio John crede che ci siano buone possibilità che la sua scelta ricada sul delizioso, piccolo cottage che ospita al suo interno la clinica per amori in crisi Happily Ever After, per sempre felici e contenti, o rimborsati!, che con i suoi muri di graziosi mattoni a vista, risaliti da diligenti fronde rampicanti e sovrastati da un tetto di ordinate tegole rosse, sembra proprio essere stato appena vomitato nel mezzo della campagna inglese direttamente dalle pagine di una favola. Il buon dottore studia con occhio critico l'ameno quadro che gli si presenta davanti, mentre un'eufonica sintesi di aromi floreali gli invade le narici e l'autista scarica i loro bagagli – due valige di pachidermiche dimensioni e un trolley, nota distratto: il minimo indispensabile per una settimana lontano da casa, secondo Sherlock Holmes. Chissà, rimugina fra sé John, se il suo sequestratore si è ricordato di lasciare un posticino là dentro anche per le sue cose. Se non lo ha fatto probabilmente il buon dottore sarà costretto a ucciderlo. Ma se invece lo ha fatto vuol dire che Sherlock è entrato nella sua stanza, ha aperto il suo armadio, ha frugato nei suoi cassetti, ha stretto fra le mani la sua biancheria-- il pensiero produce qualcosa dentro John, qualcosa che non è proprio indignazione per la completa assenza di rispetto per la privacy altrui, qualcosa che per un attimo incrementa la sua frequenza cardiaca e che annulla gli effetti refrigeranti della brezza serale che ha preso a spettinare le chiome degli alberi e i riccioli di Sherlock. Qualcosa che John deglutisce e decide, con stoicismo da vero soldato, di ignorare.

«Allora?» lo chiama impaziente il detective che, quando il dottore si riscuote, ha già iniziato ad avventurarsi lungo il grazioso vialetto di ciottoli che conduce all'entrata del cottage, trascinandosi dietro il trolley e lasciando a lui l'enorme privilegio di occuparsi del resto delle valige. John per un momento è sopraffatto dal grande peso dell'onore che gli è stato con tanta magnanimità concesso, e barcolla e grugnisce, mentre con la grazia di un orso che tenta di cimentarsi in un valzer arranca dietro a Sherlock.

«Buonasera e benvenuti all'Happily Ever After!» li accoglie con rituale cortesia una donna appollaiata dietro ad un bancone di marmo rosa. È bionda, con degli enormi occhioni verdi un po' sporgenti e una camicetta scarlatta, dotata di una munifica scollatura che è, in tutta evidenza, circondata da un potentissimo campo magnetico-- John se ne rende conto quando sente i piccoli aghi calamitati nascosti dietro alle sue pupille fremere febbrili nel disperato sforzo di prevaricare il ferreo divieto che la sua coscienza si è auto-imposta e cedere al suo richiamo. Non è che nel complesso la trovi particolarmente attraente, ma è vinto dalla forza dell'abitudine e dalla filantropica disinvoltura con cui lei sta mettendo in mostra le sue considerevoli qualità, quindi non combatte quando sente il suo sorriso da rimorchio premere per affiorare. «Buonasera... Nancy» dice, dopo essersi sporto un poco sul bancone per decifrare le lettere svolazzanti incise sulla targhetta dorata che Nancy porta appesa sul petto. «Io sono John--»

«John Watson, sì» risponde pronta lei, piegando le labbra all'insù con lentezza predatoria e fissandolo dritto negli occhi «E Sherlock Holmes, suppongo» aggiunge dopo poco, voltandosi verso Sherlock. «Vi stavamo aspettando, le altre coppie sono già tutte arrivate»

Il detective fa una smorfia un po' inquietante che nelle sue intenzioni, forse, dovrebbe assomigliare ad un sorriso e dichiara con voce di velluto, torreggiando da sopra la spalla sinistra di John, che sarebbero arrivati prima, se solo qualcuno non fosse stato così difficile da convincere.

John pensa che Sherlock è così vicino, dietro di lui, che gli basterebbe muovere un po' il braccio per assestargli una gomitata fra le costole e farlo sembrare un incidente, ma stringe e rilassa le dita della mano sinistra un paio di volte e riesce a scacciare la tentazione. «Se qualcuno la piantasse di prendere tutte le decisioni da solo e si decidesse per una volta ad ascoltare la mia opinione sulle cose--» inizia a dire, ma le ultime parole vengono inghiottite dal rombo oltraggiato della voce di Sherlock, che gli assicura che: «Se qualcuno avesse opinioni degne di essere ascoltate, almeno una volta ogni tanto, sarei più che lieto di farlo»

«Se qualcuno la smettesse di essere un così fastidioso bastardo per tutto il tempo forse--» abbaia in risposta John, ma la sua accalorata recriminazione viene stroncata a metà dal trillo cristallino di una risata, che fa scattare le teste del buon dottore e della malvagia entità vessatrice alle sue spalle simultaneamente nella direzione del suono.

«Oh!» miagola con divertita indulgenza Nancy, dopo essersi resa conto di essere divenuta il nuovo centro di attenzione nella stanza, «Siete adorabili, proprio una bella coppia!»

John non pensa, la sua bocca si apre in un riflesso pavloviano e sputa fuori parole che ormai sono più un proforma che una vera e propria negazione-- sono passati eoni dall'ultima volta in cui le ha pronunciate armato dell'ingenua speranza che qualcuno le credesse autentiche: «Non siamo una co--» inizia a ringhiare sulla difensiva, ma dietro di lui Sherlock si fa impercettibilmente più vicino ed il buon dottore viene folgorato dalla consapevolezza che invece sì, lo sono. Solo per finta, chiaro, ma lo sono. Si schiarisce la gola per prendere tempo, in cerca di un po' di ispirazione per aggiustare il tiro: «Non... intendevo che... ecco... non... non siamo poi così belli» farfuglia sorridendo debolmente, preda di un vago imbarazzo, ma nel complesso soddisfatto dalla propria prontezza di spirito.

Nancy ammicca, un po' complice e un po' lasciva e dice: «Io credo che lo siate»

Sherlock sbuffa, spingendo John di lato per piazzarsi di fronte all'amichevole receptionist: «Possiamo avere le chiavi della nostra camera?» le chiede con sbrigativa cortesia.

«Oh, certo!» risponde lei studiando per un attimo il monitor del computer, per poi abbassarsi per aprire un cassetto e da lì estrarre una chiave appesa ad un enorme cuore rosso e passarla a Sherlock «Stanza numero cinque, al piano di sopra, in fondo al corridoio. Avete tempo fino alle sette per sistemare le vostre cose, poi dovrete scendere per fare la conoscenza delle altre coppie e naturalmente per la cena e poi da domani mattina inizierà-- » Nancy si interrompe quando il rumore di una porta che sbatte avverte lei e John che Sherlock ha lasciato la hall. Senza avere neanche la decenza di portare con sé quanto meno il dannato trolley, nota il buon dottore.

«Sherlock!» ruggisce a vuoto, più per scaricare la frustrazione che aspettandosi davvero una ricomparsa da parte dell'altro. Masticando a denti stretti una tanto creativa, quanto irripetibile selezione di anatemi John lancia a Nancy un'occhiata di scuse, raccoglie i bagagli e pencolando si getta all'inseguimento del suo migliore amico.

La clinica per amori in crisi Happily Ever After, per sempre felici e contenti o rimborsati! vuole mettere a suo agio i cuori tormentati che si affidano alle sue cure, per questo fa di tutto per mantenere un aspetto accogliente e un po' rustico. John pensa che gli interni siano una perfetta rivisitazione in chiave solo un poco più pretenziosa della vecchia casa di campagna dei suoi nonni, e proprio come nella vecchia casa di campagna dei suoi nonni anche qui è presente un'impervia ed arzigogolata scalinata in legno che conduce al piano di sopra e fatalmente manca ogni traccia di un ascensore.

Quando John se ne avvede riesuma il turpiloquio che era appena riuscito a placare ed inizia ad arrampicarsi rassegnato.

È troppo assorbito dal tentativo di non ruzzolare giù per rendersi conto del fatto che dietro l'ennesima curva delle scale lo sta attendendo in agguato una figura alta e scura-- realizza la cosa solo quando si ritrova spalmato contro una familiare camicia viola e la voce di Sherlock – e un'inattesa e debilitante ondata del suo odore – gli si rovescia addosso: «Durante la nostra permanenza qui incontrerai altri esemplari umani di sesso femminile, John. Pensi di riuscire a tenere sotto controllo le tue ghiandole salivali?» dice il detective, rigido e severo, mentre incombe su John ancora più del solito, avvalendosi della sleale collaborazione dei gradini, «Dovresti far finta di essere innamorato di me, dobbiamo essere convincenti se vogliamo attirare l'attenzione di Teale-- come può credere che siamo una coppia se tu continui a sbavare su ogni strategico accumulo di tessuto adiposo in cui ti imbatti?»

Il buon dottore è preso in contropiede, perché sì, Sherlock ha un punto, ma se pensa di potersela cavare così dopo averlo abbandonato da solo con quelle valige piene di sassi si sbaglia di grosso, e apre la bocca per rispondere, senza sapere bene cosa dire, ma a Sherlock sembra non interessare la sua replica, perché si è già voltato e sta risalendo svelto le scale. Quando arriva in cima John deve ancora chiudere la bocca. «E per la cronaca,» aggiunge, prima di sparire dietro l'angolo del corridoio «non le piaci veramente, è solo lusingata perché crede di essere riuscita a fare colpo nonostante tu sia gay.»

«Non sono gay!» scatta subito lui, come un giocattolo a molla.

 

Quando, un'indefinita quantità di tempo dopo, il buon dottore riesce finalmente a portare a termine la scalata ed ansimando raggiunge la sua meta, Sherlock, che per qualche inspiegabile ragione se ne sta con un orecchio appiccicato alla parete, in ginocchio sul singolo, minacciosissimo letto matrimoniale che troneggia al lato opposta della stanza, gira un poco la testa nella sua direzione e lo contempla di sbieco con un'occhiata di distaccata sufficienza, prima di grugnire con scherno alla sua apparenza trafelata e poi, come se niente fosse, tornare a rivolgere tutta la sua attenzione al muro.

John sbatte le palpebre un paio di volte e si costringe a staccare gli occhi dal suo coinquilino e dal letto – dal suo coinquilino sopra al letto – per esplorare la stanza: è grande, luminosa, ma non abbastanza interessante per impedire alla sua mente di deragliare.

Ovviamente il letto è uno solo-- sono sposati, che cosa si aspettava?

Ma non è un problema, davvero.

John, ha già dormito accanto ad altri uomini. Un sacco di volte.

Farlo con Sherlock non gli crea assolutissimamente alcun tipo di fastidio.

«Perché--» inizia a chiedere, nel tentativo di rompere il silenzio e di rimbrigliare i suoi pensieri «perché hai un orecchio attaccato al muro?»

Il detective gli lancia uno degli sguardi che adopera di solito quando contempla la pochezza del genio altrui e il dottore pensa per un attimo che la sua domanda verrà ignorata, ma poi l'altro sbuffa e dice: «Perché oltre a questo muro c'è la stanza di Vincent e Susan Teale. Sto ascoltando,» non è ovvio? aggiungono i suoi occhi roteando eloquenti.

 

Sherlock continua ad ascoltare fino a quando non è ora di scendere per la cena.

John disfa le valige e scopre che, grazie al cielo, Sherlock si è ricordato di lui.

 

«Susan!» cinguetta giulivo il detective, facendosi largo con grazia fra la piccola folla che anima la sala in cui sono stati radunati per la cena «È incantevole rivederti!»
La donna bassa e pasciuta a cui Sherlock è arrivato alle spalle trasale ed emette un acuto uh! di sorpresa, prima di piroettare su se stessa per identificare il suo molestatore: «Sherlock!» dice sorridendo, dopo essersi portata con teatralità una mano sul petto, come a rassicurare il suo trepido cuore che niente di male sta per succedere «Mi hai fatto paura!» lo canzona.
«Oh, non era mia intenzione!» si scusa lui, e sembra genuinamente mortificato «Susan, questo è John Watson, mio marito-- John, questa è Susan Teale, è lei che mi ha parlato di questo posto, sai amore

John pensa che certe parole pronunciate dalla bocca di Sherlock suonino davvero assurde, per questo ci sono ottime probabilità che il buon dottore sarebbe scoppiato a ridere in faccia ad un potenziale serial-killer e alla sua dolce metà, se solo una mano non fosse atterrata sulla sua spalla e delle lunghe dita affusolate non avessero preso ad accarezzargli i capelli alla base della nuca in una studiata esibizione di indolente affetto.

Un lungo brivido denso gli striscia giù per la spina dorsale e John si sforza di annuire, e di sembrare interessato, e di tenere il passo con la conversazione che si sta dipanando davanti a lui, ma Sherlock continua a muovere pigramente le sue dita meschine e pensare e concentrarsi e respirare non sembrano più attività tanto indispensabili.

«Oh, tuo marito?» sta dicendo lontana anni luce la voce della signora Teale «Non avevo capito che il tuo partner fosse un uomo...»

«Problemi?» domanda Sherlock aggrottando la fronte ed arrestando d'improvviso le sue carezze sul collo di John, che viene brutalmente riportato alla realtà.

«No, no-- certo che no» si affretta ad assicurare Susan, incurvando nervosa le labbra tinte di un'improbabile tonalità di rosa ed allungando una mano per stringere forte quella dell'uomo alto, massiccio ed in apparenza molto poco rilassato che le sta accanto «Lui... lui è mio marito, Vincent-- Vince, loro sono Sherlock Holmes e John Watson»

«È un vero piacere fare la sua conoscenza, Vince» dice con lentezza Sherlock, e a John non piace per nulla il velluto del suo tono e la scintilla di interesse che si accende dietro gli occhi scuri di Teale mentre il suo sguardo invadente e contrito percorre con discrezione la figura sottile del detective.

 

Il resto della serata è una vera agonia.

Sherlock propone ai loro nuovi amici di dividere un tavolo durante la cena, ma la signora Teale declina perché malauguratamente, dice, sono già stati incastrati dai coniugi Mitchell, che sono davvero spocchiosi, ma ormai è fatta e piantarli in asso sarebbe proprio scortese. Il detective annuisce comprensivo, e dopo aver preso commiato trascina John alla ricerca di una postazione da cui riesca ad avere una buona visuale del suo sospettato ed una volta che l'ha trovata passa la seguente ora e mezza in silenzio, a fissare con sfacciata insistenza un potenziale serial-killer, mentre il buon dottore, accanto a lui, è lasciato a tirare le fila dell'impacciata conversazione che la bicentenaria coppia seduta davanti a loro sta cercando di intavolare.

Per tutta la durata della cena Sherlock non fa che invadere il suo spazio personale, dispensando tocchi e carezze distratte e sporgendoglisi contro per sussurrargli all'orecchio inezie come “questo Roast beef è disgustoso” con la sua voce intollerabile e bassa, per poi allontanarsi, sorridere malizioso e subito dopo correre con la coda dell'occhio a monitorare la situazione al tavolo dei Teale.

John non può fare a meno di sospirare con sollievo e di pensare grazie a dio! quando la donna dall'imponente permanente bionda che si è presentata come la loro terapista proclama la fine della serata e invita le coppie a tornare nelle loro stanze per un buon sonno.

Ma poi il dottore si ricorda del letto e pensa-- a niente, assolutamente a niente.

Perché mai dovrebbe pensare qualcosa di un letto, e di Sherlock, e di Sherlock sopra a un letto?

 

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NOTE

Ehilà! Questo capitolo è arrivato più tardi di quanto avrei voluto, ma in questi giorni la malvagissima RL ha reclamato la mia attenzione con una certa insistenza, lasciandomi poco tempo per scrivere, poi mi sono fatta prendere dall'ansia da prestazione e niente, una cosa tira l'altra e sono passate la bellezza di due settimane-- proverò a sfornare il prossimo con un po' più di rapidità, ma non assicuro nulla perché, ecco, come diceva qualcuno io sono quel dannato tipo di persona che scrive a fatica sette parole e poi ne cancella cinque D:

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e-- basta. Ringrazio tanto tutti quelli che hanno letto e leggeranno, i miei amici, i miei genitori, mia nonna che mi segue sempre da casa e il mio cane, soprattutto il mio cane, cosa farei senza di lui? *rotola via*

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Capitolo 3
*** Tre ***


3.

 

Dopo quasi due ore passate a fissare il buio con gli occhi sbarrati e la coscienza fastidiosamente vigile, John inizia a percepire il tiepido e più che benvenuto richiamo del sonno formicolare languido dietro alle sue palpebre. È allora, proprio quando è sull'orlo del precipizio e si sta giusto risolvendo a prendere l'ultimo, decisivo passo, che un suono bizzarro squarcia il silenzio e una mano invisibile gli atterra rudemente sulle spalle e lo strattona senza grande garbo, costringendolo ad arretrare e strappando via ognuna delle sue sfinite sinapsi dal piacevole stato di torpore in cui si stava crogiolando.

John si volta di scatto verso il suo compagno di letto, mentre col giudizio ancora ottenebrato dal sonno tenta di dare un senso alla realtà: tre quarti del materasso su cui sta giacendo sono occupati da una creatura che assomiglia in maniera davvero sorprendente al suo magnifico, elegante e sussiegoso migliore amico.

La creatura in questione è addormentata.

La creatura in questione ha un adorabile aspetto indifeso.

La creatura in questione sta russando.

Date queste premesse è del tutto evidente che la creatura in questione non può in alcun modo essere il suo migliore amico-- John deve mordersi la lingua per non scoppiare a ridere quando recupera sufficiente padronanza sulle sue virtù cognitive per realizzare che, in effetti, la creatura in questione lo è.

La scoperta di una verità tanto incredibile lascia il buon dottore diviso fra ilarità, sorpresa e una buona dose di turbamento: lo Sherlock Holmes russante non è certo un animale che compare in molti bestiari ed avere il privilegio di poterlo studiare tanto da vicino produce effetti curiosi sulle sue viscere.

John ascolta attento e rimugina sulla questione fino a quando non è costretto ad ammettere a se stesso che i suoni che scaturiscono dall'ignaro detective non sono poi così fastidiosi, e nemmeno del tutto sgraziati: ovviamente Sherlock, essendo Sherlock, è in grado di cimentarsi in ogni genere di attività, non importa quanto bassa o prosaica, e produrre sempre e comunque risultati accattivanti.

Il dottore sospira, chiude gli occhi e si lascia cullare dal rantolio profondo che riverbera dalla gola dell'altro tutte le volte che inala e dal piccolo sbuffo compiaciuto che lo scuote tutte le volte che lascia andare l'aria dai polmoni.

Sherlock Holmes russa, medita assonnato fra sé, e la rivelazione è di gran lunga più sconvolgente di quanto non siano mai state tutte le sue prodigiose deduzioni, perché il fatto che Sherlock russi è la prova ultima che, nonostante l'apparenza mendace, il cervello più brillante del Regno Unito è solo un altro piccolo, banale, difettoso essere umano e che è qui, proprio accanto a lui, ed è vero, e basterebbe solo allungare un poco una mano per poterlo toccare, se solo John volesse-- e perché mai dovrebbe volere una cosa simile?

Nessuna ragione, chiaro. Infatti non la vuole, proprio per nulla.

Ma se volesse – non che voglia - sarebbe davvero così facile... non gli costerebbe praticamente nessuno sforzo, gli basterebbe spostare appena il braccio e--

Sherlock, sotto le coperte, si agita e gli tira un calcio contro alla gamba.

John impreca a mezza voce, ed è di nuovo più sveglio che mai. Ogni traccia dell'insalubre delirio pre-onirico da cui è appena stato assalito viene provvidenzialmente spazzata via dal dolore, dalla frustrazione, dalla brama improvvisa di porre fine all'esistenza di Sherlock.

 

Mancano dodici minuti alle quattro del mattino quando Morfeo, mosso da pietà, si decide a degnarlo di una visita. Malauguratamente, però, non può trattenersi a lungo giacché, lo avverte, la vita della divinità è dura e lui è davvero oberato di impegni, così da qualche parte, attorno alle sei e mezzo, l'impietosa creatura gli sorride cordiale e prende commiato, ignorando ognuna delle sue accorate rimostranze.

John grugnisce con disappunto quando, a dispetto di tutti i suoi sforzi, si ritrova di nuovo cosciente, spalmato sopra ad un materasso che, a quanto pare, durante la notte ha preso la sua povera schiena in grande antipatia.

Sa bene di non trovarsi nel suo letto, ma ai suoi neuroni, ancora intontiti dal sonno, sfuggono il come ed il perché nascosti dietro a questo fatto. Sarebbe saggio, si dice, aprire gli occhi e guadagnare attraverso la vista qualche notizia in più, ma oltre alle sue palpebre le prime luci dell'alba hanno già preso a sfavillare con feroce intensità e John ha davvero poca voglia di sottoporre le sue ancora assonnate pupille al supplizio che seguirebbe l'adempimento di tale proposito, così decide di accontentarsi delle informazioni che riesce a carpire attraverso gli altri sensi.

Non sono molte, in verità, e per nulla conclusive.

La stanza è silenziosa. Un formicolio bizzarro gli solletica il collo, percepisce uno strano peso sullo stomaco e si accorge di avere perso ogni sensibilità al lato destro del corpo. L'aria è pesante, impregnata di sonno e di un odore curiosamente familiare e rassicurante che tuttavia John non è in grado di identificare con precisione.

Mosso dalla volontà di fare chiarezza in proposito il buon dottore inala profondamente e le sue narici risucchiano, oltre ad una considerevole ondata del misterioso afflato, anche un solleticante sfarfallio di riccioli.

John starnutisce e spalanca gli occhi.

Sherlock mugugna indignato.

John realizza che durante il suo breve soggiorno nel regno dell'incoscienza è stato sepolto vivo e a tradimento sotto ad un consultive detective-- qualcosa di molto simile al terrore gli ghermisce con ferocia le budella.

È già stato in situazioni di pericolo mortale prima. Il segreto per sopravvivere è mantenere la calma.

John è bravo a mantenere la calma.

Serra gli occhi e prende un bel respiro, poi ne prende un altro, un altro e un altro ancora, fino a quando non riesce a riportare la sua frequenza cardiaca sotto i novanta battiti al minuto. Solo allora inizia a muoversi, tentando con cautela di sgusciare fuori dalla presa di Sherlock senza svegliarlo, ma il bell'addormentato non si dimostra granché cooperativo e rende la sua impresa più ardua del previsto: quando lo sente muoversi il detective stringe riflessivamente la mano che ha adagiato sul suo petto, catturando salda nel pugno la stoffa della sua maglietta e scivolandogli, per dispetto, ancora più addosso-- se tutta quanta l'aria dei suoi polmoni non fosse evaporata come per magia quando Sherlock ha nel frattempo deciso di premere il volto nell'incavo del suo collo, mormorando compiaciuto, ci sono ottime probabilità che John ne avrebbe sprecata buona parte sciorinando un'interminabile sfilza di anatemi: la decenza ed il pubblico decoro sono davvero molto grati all'inconscio del detective per essersi risolto ad agire come ha agito.

«Sherlock?» lo chiama esitante il dottore, perché il suo braccio destro è stato imprigionato sotto al corpo dell'altro per una considerevole quantità di tempo e lui quasi non se lo sente più, ma non è ancora del tutto convinto che l'imbarazzo che seguirà al risveglio dell'amico in questa posizione sia preferibile all'amputazione di un arto. «Sherlock... Sherlock!» ripete con più urgenza, perché il suo respiro è caldo e umido contro alla pelle sensibile del suo collo e l'imbarazzo che seguirà al risveglio di Sherlock in questa posizione è senza dubbio preferibile all'imbarazzo che seguirebbe al risveglio di Sherlock in questa posizione se John avesse un'erezione.

La carcassa accanto a lui mugugna vaga, ma oltre a ciò non da alcun segno di essere la dimora di un'entità senziente.

«Sherlock, spostati» prova di nuovo lui, tentando di spingerlo via, ancora con un certo garbo-- nell'operazione una delle gambe di Sherlock scivola fra le sue e per un attimo il suo cervello va in cortocircuito, «Sherlock!» ruggisce allora, scrollandoselo di dosso con isterica efficienza.

John rotola giù dal letto e mentre arranca disperato, nel tentativo di mettere più distanza possibile fra lui ed il suo dannato coinquilino, inciampa nella giacca scura del completo che Sherlock ha indossato ieri sera e di cui si è disfatto con infingarda noncuranza non appena è rientrato. Il tavolo al centro della stanza gli fornisce un appiglio sufficiente per non sfracellarsi al suolo, ma ci si abbatte contro con tale foga che il poveretto barrisce in oltraggio ed arretra di svariati centimetri.

«John?» biascica bassa e arrochita dall'inattività la voce del Male.

John piroetta su se stesso e si volta verso Sherlock, che è disteso in obliquo sul materasso e lo sta fissando con sguardo appannato: «Cosa?»

«È veramente necessario tutto questo trambusto?»

Il buon dottore non risponde, ma raddrizza la schiena con grande dignità e si premura di riposizionare il tavolo producendo la maggior quantità di rumore possibile, prima di tuffarsi in bagno e chiudere a chiave la porta.

 

«Bene, possiamo iniziare! » squilla entusiasta Margaret, la terapista, aggiustandosi gli occhiali sul naso.

Sono in una sala alta e dalle finestre enormi, seduti in cerchio assieme ad altre tre coppie: Susan e Vincent, i coniugi bicentenari con cui hanno cenato ieri e due anonimi sconosciuti-- lei si studia le unghie con aria annoiata, lui si lancia nervose occhiate intorno.

«Vorrei che per cominciare ognuno di voi mi raccontasse, con onestà, che cosa si aspetta da questa terapia, quali sono gli obbiettivi che vorrebbe raggiungere assieme al suo partner...» dice Margaret mentre, alla ricerca della sua prima vittima, fa vagare lo sguardo fra di loro con lentezza calcolatrice e sorprende John nel mezzo di uno sbadiglio. «John, vuoi partire tu?» domanda spietate e retorica, perché è più che ovvio dal rictus di costipato sgomento che ha immobilizzato i suoi muscoli facciali che no, John non vuole partire ed è altrettanto chiaro dall'incoraggiante ma perentorio sorriso di miele che Margaret gli sta rivolgendo che la possibilità di rifiutare non è contemplata.

«Io... ahem-- sì...» esordisce il dottore, fornendo alle sei paia di orecchie in ascolto un mirabile esempio della sua profonda competenza nel campo delle arti oratorie «Io, ecco... non-- non mi aspetto niente di speciale... solo-- » dice, mentre con un'occhiata obliqua e velata di disperazione tenta di convincere Sherlock a prestargli soccorso, ovviamente invano: il bastardo se ne sta seduto accanto a lui e si limita a fissarlo con quella che sarebbe una perfetta maschera di impassibilità, non fosse per lo scintillio divertito che anima le sue iridi e che colpisce John dritto, dritto nel sistema nervoso. «Solo-- sì... mi aspetto solo-- solo di... di sistemare le cose con Sherlock?» azzarda, sperando che sia una risposta accettabile.

Margaret annuisce indulgente e scribacchia qualcosa sul suo taccuino.

Il buon dottore sospira tentando di mascherare il sollievo e il disagio, si dimena con discrezione sulla sua sedia e del tutto casualmente il suo gomito collide col costato di un certo consultive detective.

Sherlock sibila di dolore e lo incenerisce con gli occhi.

John tenta di mordere indietro un sorriso compiaciuto.

Margaret li redarguisce con uno sguardo severo e procede col suo interrogatorio.

 

La seduta va avanti lenta e noiosa, tanto che per qualche folle istante il buon dottore si ritrova addirittura a rimpiangere i suoi incontri con Ella: anche loro erano lenti e noiosi, ma almeno durante quelli i suoi padiglioni auricolari non erano costantemente seviziati da invettive al vetriolo e affranti piagnistei contro e di emeriti sconosciuti.

Quando il ragazzo seduto di fronte a lui erutta in singulti disperati, accusando la sua imbarazzata dolce metà di non essere più la stessa John decide, per amore della sua sanità mentale, di scollegare il cervello.

Il suo sguardo distratto erra attraverso la stanza per un'imprecisata quantità di tempo ed avrebbe continuato a vagabondare oltre se solo i suoi occhi non fossero inciampati in una visione stranamente fastidiosa: Vincent Teale sta guardando verso Sherlock, le iridi scure assorte e fameliche, la bocca socchiusa piegata in una curva lubrica e il lampo della lingua che di tanto in tanto saetta fra le labbra sottili. Che le speculazioni che in questo momento stanno facendo danzare le sue cellule grigie non siano delle più vereconde è abbastanza ovvio.

Qualcosa ruggisce dentro a John.

Qualcosa di insensato, primitivo e feroce. Qualcosa che fa vibrare ognuno dei suoi muscoli col notevole sforzo di restare fermo, di non scattare in azione, prendere in spalla Sherlock e trascinarlo in un posto distante un milione di anni luce da Teale e dai suoi occhietti viscidi e spudorati. È qualcosa che il buon dottore riconosce, che alberga da sempre nelle profondità del tuo cassa toracica, ma di cui spesso di dimentica, perché passa la maggior parte del tempo in uno stato di innocuo letargo e che, ne è ben consapevole, non dovrebbe risvegliarsi con tanta fierezza davanti alla visione del suo migliore amico che viene fatto oggetto di una grandemente inopportuna, ma comunque silente e platonica ammirazione.

In ogni caso, si dice John, va bene essere gelosi adesso. Sta solo recitando una parte, si è solo immedesimato un po' troppo nel personaggio, non è come se fosse geloso per davvero-- è solo per finta. Se Sherlock fosse suo il buon dottore disapproverebbe con tutte le sue forze lo sguardo che Teale gli sta rivolgendo e probabilmente si sentirebbe in dovere di fare qualcosa e siccome in questo momento Sherlock è suo – solo per finta, ma comunque suo - John decide di agire e con simulata noncuranza lascia scivolare una mano eloquente e possessiva sopra al ginocchio del suo migliore amico.

Teale si avvede del gesto con un po' di lentezza, perché è impegnato a contemplare la lunga linea del collo di Sherlock, ma una volta recepito il segnale sposta la sua attenzione su John, che dall'altro capo del cerchio di sedie lo fissa con occhi impassibili ed un sorriso di letale cortesia disegnato sulle labbra. Il potenziale assassino sorride di rimando e mantiene lo sguardo per una manciata di secondi, ma quando il ragazzo della coppia accanto a lui esplode ancora una volta in un pianto dirotto sfrutta l'occasione per una ritirata dignitosa ed ostentando un interesse francamente smisurato per le disgrazie del poveretto lo elegge nuovo beneficiario di tutte le sue attenzioni.

John è soddisfatto, e lo rimane fino a quando non lancia un'occhiata alla sua sinistra e si accorge che Sherlock ha assistito alla silenziosa tenzone che si è appena disputata fra lui e Teale, allora smette di essere soddisfatto ed inizia a sentirti stupido, perché la sua mano è ancora sul ginocchio di Sherlock, e forse dovrebbe rimuoverla, ma Sherlock non si sta lamentando e comunque è tutto solo per finta quindi-- «John, vuoi iniziare tu anche questo giro?»

Margaret deve averlo preso proprio in antipatia, rimugina il buon dottore mentre annuisce e fa una smorfia: «Certo, io-- scusa, non ho capito bene cosa...»

Margaret scribacchia sul suo taccuino e quando parla di nuovo il suo tono è così pregno di disapprovazione che riesce quasi a farlo sentire in colpa per non aver ascoltato una solo parola pronunciata durante l'infernale seduta: «Ho chiesto che ognuno di voi raccontasse del momento in cui ha capito di essere innamorato dell'altro, John. Ti sarei davvero, davvero grata se prestassi attenzione almeno un pochino»

È come tornare a scuola-- è peggio di tornare a scuola.

La sua mano è ancora sul ginocchio di Sherlock e sarebbe senza dubbio opportuno che la togliesse da lì, si dice, ma non fa in tempo, perché il bastardo ha percepito il suo disagio e appena comincia a ritirarla, in uno scatto felino, la intrappolata sotto la sua: «Non essere timido caro, su!» cinguetta con un sorriso affettuoso e posticcio.

John pensa a come sarebbe facile ucciderlo nel sonno, questa notte, ma John non è un uomo cattivo e allora aggiusta il tiro dei suoi pensieri e pensa a quanto sarebbe semplice riprenderlo mentre russa come un ghiro per poi inviare il video a Lestrade, Anderson e tutti gli yarders.

Margaret sta tamburellando gli artigli laccati di rosso sul bracciolo della sedia.

Il buon dottore si schiarisce la gola e dice: «Io... non mi ricordo. È successo gradualmente-- non c'è stato un momento preciso»

Margaret fa una smorfia e scribacchia sul taccuino, John deve soffocare l'impulso di strapparglielo di mano e buttarlo fuori dalla finestra: «E per quanto riguarda te, Sherlock, invece?» domanda la donna.

Sherlock finge di ponderare con attenzione il quesito per alcuni secondi: «Be', ci ho messo un po' a rendermene conto» ammette «Penso di averlo realizzato un giorno in cui John era in soggiorno a fare qualcosa di estremamente futile e noioso come guardare la tv e io ero in cucina a fare un esperimento, poi il microonde è esploso e John è corso a controllare che non fossi ferito, si è abbandonato al turpiloquio per dieci minuti buoni e poi, mentre si lamentava di quanto fossi sconsiderato, ha preso a ripulire tutto. Mentre lo guardavo mettere a posto quel disastro ho pensato che... ho pensato-- sì... » Sherlock fa spallucce e agita sbrigativamente una mano nell'aria.

«Molto bene» si compiace Margaret, e il detective improvvisa un sorrisetto timido. «Susan, cosa ci racconti ti te?»

John si ricorda l'incidente del microonde.

È tutto solo per finta, ma il suo stomaco si annoda.

Mentalmente il buon dottore impreca.

 

«Credo che Margaret mi detesti»

«Mh» commenta Sherlock, evidentemente molto perturbato dalla questione.

Dopo la seduta hanno pranzato e poi sono stati spediti in camera per prepararsi alle attività del pomeriggio. Appena varcata la soglia della loro stanza il detective si è gettato sul letto, ha congiunto le dita sotto al mento ed ha preso a fissare il soffitto con feroce intensità.

John, seduto su una delle sedie attorno tavolo tenta di leggere il giornale, ma tutto quel silenzio lo distrae. Azzarda un colpetto di tosse.

Sherlock non ha nessuna reazione.

«Allora... hai fatto colpo su Teale» constata con casualità.

«Mh» commenta il suo loquacissimo interlocutore.

John sbuffa, ma proprio mentre sta per rinunciare e la sua attenzione ha incominciato a migrare da Sherlock di nuovo verso il giornale il detective scatta a sedere e annuncia: «Così non va... dobbiamo trovare un modo per spingerlo ad agire.»

«A tentare di ucciderci, vuoi dire.»

Sherlock rotea gli occhi, seccato da quella precisazione superflua, e dice: «Sì, John, esatt-- Oh! Perfetto, è perfetto! Susan e Vincent staranno in camera questo pomeriggio per eseguire gli esercizi di fiducia che Margaret gli ha assegnato alla fine della seduta!»

Il buon dottore aggrotta la fronte, senza capire. Il detective ignora il suo smarrimento e prosegue: «Va' a dire a Margaret che ho un forte mal di testa e che non me la sento di prendere parte all'escursione e che quindi non parteciperai nemmeno tu, perché senza di me la tua presenza sarebbe ovviamente senza scopo-- vai John, forza!»

«E dovrei fare una cosa simile perché...?»

Sherlock ghigna diabolico: «Ho appena avuto un'idea.»

 

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NOTE: nooo, non sono assolutamente passate sedici ere geologiche dall'ultimo aggiornamento... la vostra percezione dello scorrere del tempo deve essere un po' sfasata!
Seriamente-- imploro la clemenza della corte, cose malvagie sono accadute alla mia connessione. La buona notizia è che nei lunghi e tristi pomeriggi solitari tagliata fuori dal mondo e senza accesso ad internet non ho avuto granché da fare, quindi la prossima parte è pronta e la posterò a breve u_ù Sempre grazie infinite a chi ha letto e a chi ha commentato, spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento, in caso contrario potete pomodoromarciarmi quanto volete, me lo merito di sicuro D:
Tanto amore ♥

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Capitolo 4
*** Quattro ***


4.

 

Sherlock Holmes e le sue idee.

John si domanda come diamine sia possibile che da neuroni così inconfutabilmente arguti scaturiscano in continuazione idee altrettanto inconfutabilmente stupide. È un paradosso interessante, qualcuno dovrebbe davvero scriverci sopra un trattato di metafisica.

«No, Sherlock» dice, «Nemmeno per sogno, nemmeno fra un milione di anni. No... solo-- no.»

Il problema, quando ti metti in testa di negare qualcosa a Sherlock Holmes, è che lui è Sherlock Holmes e - davvero - non esiste organismo vivente in questo mondo, ed in ogni altro del creato, in grado di sottrarsi alla sua volontà, perché lui è il dannato Sherlock Holmes, buon dio!, e il dannato Sherlock Holmes riesce sempre ad escogitare una maniera per ottenere che la realtà si pieghi ai suoi capricci.

John è facile da far piegare, nonostante i continui rimproveri ed i borbottii seccati, per lo meno la maggior parte delle volte e specialmente quando le pretese avanzate dal detective non rappresentano un rischio immediato e diretto per la loro incolumità ed anzi potrebbero contribuire a mettere in salvo esistenze altrui.

Oggi, però, davanti ad una richiesta così assurda e fuori luogo John non ha nessuna intenzione di cedere, non importa con quanta insistenza Sherlock continui a tormentarlo, non importa quel broncio infantile, per metà affranto e per metà oltraggiato e sopra ogni altra cosa non importano quei grandi, subdoli occhioni imploranti che lo stanno trafiggendo da parte a parte da interminabili minuti, ormai.

«Andiamo, John!» dice il suo persecutore e John scuote la testa per dare più enfasi al suo rifiuto e gli ripete con ammirabile stoicismo che: «Nemmeno fra un milione di anni, te l'ho detto, Sherlock.»

Il broncio si accentua, i mefistofelici bulbi oculari intensificano le loro silenti suppliche.

John tentenna.

Lo squalo fiuta l'odore dell'incertezza e attacca spietato: «Teale è fuori dal suo ambiente, se non facciamo qualcosa potrebbe non agire mai! Ci sono delle vite in ballo, John!»

Il buon dottore fa una smorfia, si passa la lingua sulle labbra, sbuffa e poi concede: «Oh, e va bene, va bene! Facciamo questa cosa-- ma nessuna parte di te sarà inserita dentro ad una parte di me, faremo il contrario o niente »

Il detective batte le mani entusiasta e sorride compiaciuto: «Perfetto!»

 

 

John non ha mai fatto sesso con un uomo, prima.

John non ha mai voluto fare sesso con un uomo, prima-- e anche adesso, ovviamente, anche adesso John non desidera in alcun modo fare sesso con un uomo.

Ma Sherlock è sul letto, di fianco a lui, e sta dicendo: «Oh, John! Sì... così!» e non è che la qualità di voce che sta usando sia particolarmente seduttiva, anzi è alta e sguaiata, ma ai margini lascia trapelare le tracce di un inconfondibile affanno e il letto sotto di loro cigola e – buon dio - adesso Sherlock sta ansimando e John non ha davvero mai voluto fare sesso con un uomo prima, ma Sherlock non è un uomo, è Sherlock e John chiude gli occhi e vorrebbe tapparsi le orecchie, perché così. Non va. Bene.

«John? John, tocca a te» lo chiama impaziente da qualche parte alla sua destra la voce del detective, questa volta bassa e fatale, e lui è percorso da un brivido lungo e meschino, che non si lascia scrollare via, ma che sguscia sinuoso fino al suo inguine e lì si aggrappa tenace.

Un piccolo gemito di frustrazione gli sfugge dalle labbra serrate e Sherlock sussurra: «Più forte, John-- più vocale»

John respira, si schiarisce la gola e tenta: «Oh, Sherlock...»

«Con un po' più di sentimento?»

«Oh, Sherlock!» riprova allora «Oooh, Sher-- »

Sherlock fa una smorfia scontenta e lui ammutolisce: «Grazie al cielo non sei una donna – sì John! Così, più forte! – chissà l'orgoglio di quanti uomini avresti mandato in frantumi con i tuoi orgasmi simulati-- oooh, John! Sei così grande!»

John sbatte le palpebre.

Se tutto il sangue del suo organismo fosse distribuito equamente e non stesse facendo a gara per raggiungere una certa, specifica estremità del suo corpo è più che probabile che davanti ad un simile exploit il buon dottore sarebbe morto dall'imbarazzo, o quantomeno soffocato dalle risate, ma grazie al cielo allo stato attuale delle cose il suo cervello è leggero, rarefatto e totalmente inetto alla formulazione di qualsivoglia riflessione coerente.

Sherlock prosegue la sua arringa del tutto imperturbato e con una serietà marziale, che cozza in maniera davvero bizzarra con l'assurdità della situazione, gli intima: «Tu pensa a far cigolare il letto, io mi occupo del resto. Credo sia meglio se vogliamo mantenere una parvenza di realismo-- oh, sì! Più veloce, più veloce!»

John esegue ubbidiente, troppo frastornato per obiettare o lamentarsi, e prende a muoversi con moderata enfasi, fino a che gli squittii della rete non sono sincronizzati agli ansiti spudorati di Sherlock.

Il buon dottore incolla gli occhi alla parete di fronte e respira, ma accanto a lui il Male continua a emettere versi subdoli e lascivi nella speranza che al di là dal muro Teale li percepisca e decida di fare qualcosa in proposito, rivelando così la sua vera natura di psicopatico. Una curiosa macchia di muffa a forma di elefante riesce a catturare il suo interesse per una celestiale manciata di secondi, ma la distrazione non dura lungo, perché i versi proseguono, e si fanno sempre più malvagi e nefasti, crescono di intensità e continuano a parlare a parti di lui che dovrebbero avere orecchie calibrate per captare ben altre frequenze e-- buon dio! Aveva capito da subito che si trattava di una pessima idea, non appena Sherlock aveva aperto bocca, prima ancora che emettesse mezzo suono, lo scintillio nei suoi occhi lo aveva avvertito che il detective non stava tramando niente di buono ed ora eccola, inutile, indesiderata e fastidiosamente concreta, che di attimo in attimo cresce e rende i suoi pantaloni sempre più scomodi, la conferma che un soldato non dovrebbe mai e poi mai dubitare del proprio istinto.

John serra strette le palpebre e continua a respirare. Ha passato una vita intera a farlo, com'è possibile che all'improvviso le logiche nascoste dietro ad un meccanismo tanto familiare gli appaiano così oscure?

Accanto a lui Sherlock persiste con indefessa diligenza.

Le profondità della sua psiche devono essere infestate da un qualche tipo di istinto masochistico latente, perché tutto d'un tratto il buon dottore è assalito dal bisogno impellente di vedere. Come se mantenere il controllo non fosse già abbastanza difficile così.

John deglutisce e soppesa la questione. Probabilmente Sherlock è distratto, immerso nella lettura dell'ingombrante manuale di apicoltura che ha trascinato sul letto mentre si preparava all'azione. Un'occhiata veloce e di sfuggita dovrebbe essere possibile senza danni collaterali. John decide di azzardare.

Il libro è aperto sulle gambe del detective, ma completamente orfano di attenzioni.

Il buon dottore avverte una contrazione alla bocca dello stomaco e un'altra un po' più in basso mentre si rende contro che Sherlock lo sta guardando-- lo stava guardando-- lo ha guardato per tutto questo tempo?

Un enorme qualcosa gli ostruisce la laringe quando l'altro tace all'improvviso e un silenzio alieno e denso si impadronisce della stanza.

Si scrutano per qualche istante, poi Sherlock muove le labbra, sta per dire qualcosa, ma John non ha nessunissima intenzione di ascoltarlo in questo momento: è confuso e non c'è abbastanza aria nel mondo e se il cuore non la smette di rimbalzargli con tanta foga nel petto probabilmente è solo questione di attimi prima che il suo sterno vada in frantumi e – buon dio! – ha un erezione.

Sherlock se ne è accorto. Sherlock deve essersene accorto. Sherlock è Sherlock, ovviamente se ne è accorto.

Fra una frazione di secondo dirà qualcosa sulla falsa riga di “sono lusingato dal tuo interesse, ma devi sapere che mi ritengo sposato col mio Lavoro” e John dovrà cedere all'urgenza di tirargli un pugno in faccia, perché tutto questo disastro è soltanto colpa sua e delle sue stupide idee e del suo stupido Lavoro e – buon dio – vuole baciarlo, come è possibile?

«Devo andare in bagno.» dice prima che la situazione degeneri, con una voce così ruvida che lui stesso stenta a riconoscerla come propria.

Non gli importa di essere ovvio, vuole solo infilarsi nel dannato bagno e rimanerci rinchiuso per il resto della sua vita; vuole solo ritardare il più possibile il momento in cui Sherlock sorriderà il suo sorriso di artificiosa cortesia e declinerà coi suoi modi freddi e un po' impacciati un'offerta che John non gli ha nemmeno fatto.

 

 

Quando riemerge dal bagno, quasi un'ora dopo, Sherlock è nascosto dietro allo schermo del suo portatile, e non dice una parola.

Lui esce e passa il resto della giornata appeso al bancone della reception a chiacchierare con Nancy.

 

 

«Come va la testa, Sherlock? Stai meglio?» esordisce Margaret all'inizio della loro seduta di terapia privata, la mattina dopo.

Sherlock sorride e annuisce.

John non riesce ad impedirsi di arrossire.

«Bene, allora possiamo cominciare, che ne dite?»

Margaret si sistema gli occhiali sul naso, scorre fra le pagine del suo taccuino e si getta in un soliloquio sull'importanza della volontà e dell'impegno di cui è imperativo che entrambe le parti della coppia siano armate quando si propongono di uscire da una crisi.

John non può fare a meno di sentirsi tirato in causa dalle occhiate persistenti ed allusive che lei continua ad indirizzargli ogni pochi secondi: quella donna lo odia, non ci sono dubbi.

«Ora vorrei che ognuno di voi confidasse all'altro con sincerità e senza paura di ripercussioni qual è la cosa di lui che lo infastidisce maggiormente. Guardandovi negli occhi, mi raccomando. John, vuoi cominciare tu?»

John grugnisce il suo entusiastico assenso.

Sono seduti su un divanetto rosso, piccolo e scomodo. Per riuscire ad esaudire i desideri di Margaret e mettersi l'uno di fronte all'altro sono costretti a contorcersi un poco e la coscia destra di Sherlock finisce premuta contro alle sua ginocchia. È un contatto innocente e questo non è il momento di farsi prendere dal panico, ma è proprio necessario per l'organismo del suo dannato coinquilino impegnarsi tanto nel processo di termogenesi?

Il buon dottore tenta di mascherare il disagio e decide che non ha nessuna intenzione di guardare la meschina entità negli occhi – dall'incidente del giorno prima ha cercato di evitarlo il più possibile – così, con discrezione, punta lo sguardo da qualche parte nei paraggi del suo orecchio sinistro e dice: «Qualcosa che mi irrita di Sherlock? Direi che c'è l'imbarazzo della scelta»

Sherlock soffia in oltraggio.

«John,» lo riprende Margaret con severità «non serve essere sgradevole. Scegli una cosa e dilla, per favore»

«Bene!» morde lui impermalito «La cosa che mi infastidisce di più di Sherlock è senza dubbio Sherlock.»

Il detective si esibisce in una plateale roteata di bulbi oculari e commenta piccato: «Oh, davvero esplicativo, John, i miei complimenti»

John serra strette le labbra, incrocia le braccia sul petto e non risponde.

Margaret li osserva, scribacchia sul taccuino e dice: «Avverto una notevole ostilità scorrere fra voi. È successo qualcosa che vi va di condividere?»

«No, grazie» sputa fuori in fretta il dottore.

La donna arriccia il naso e lo incenerisce con uno sguardo risentito, ma poi annuisce affettata: «D'accordo, come preferite-- procediamo, allora. Sherlock, è il tuo turno. »

Sherlock le indirizza un sorrisetto veloce, poi riporta la sua attenzione su John e annuncia in tono deliberatamente provocatorio che la cosa che lo infastidisce di più di lui, oltre alla sua provata ottusità, è senza dubbio il fatto che è sempre, costantemente preoccupato di quello che pensa la gente.

«Io non sono preoccupato di quello che pensa la gente-- e poi lei ha detto una cosa, tu ne hai appena dette due!»

«Oh, ma per favore! Tu hai detto Sherlock e Sherlock non è nemmeno una cosa, Sherlock sono io!»

«È perché sei tu che mi irriti, Sherlock! Con tutto il tuo-- essere Sherlock»

«Oh be', grazie. Se proprio lo vuoi sapere neanche tutto il tuo essere John è sempre così piacevole da sopportare!»

Margaret ruggisce: «Ora basta bambini!» ed entrambi ammutoliscono. La donna rimane in silenzio a fissarli per un'esasperante quantità di tempo, poi parla, e naturalmente si rivolge a John: «John, come ti senti nei confronti della tua sessualità?»

«Benissimo» si affretta a rispondere lui.

«Mi sembra di aver percepito che la tua omosessualità ti provochi-- »

Prima che il suo cervello abbia una chance di intervenire la sua bocca ringhia: «Io non sono omosessuale!» Margaret inarca un sopracciglio inquisitore e John balbetta: «Volevo dire-- ecco... di solito non... gli uomini... ma Sherlock-- »

«Ah, capisco. Sherlock è stato il tuo primo uomo?»

Il buon dottore arrossisce, il che è stupido, perché è tutto solo per finta e non c'è alcun motivo di arrossire: «Sì, primo e unico.»

Margaret studia cogitabonda i suoi appunti per qualche attimo e poi domanda: «Posso chiedere qual è il vostro rapporto con le manifestazioni pubbliche d'affetto? Sherlock, come si comporta John nei tuoi confronti davanti ad altre persone?»

«Oh,» trilla l'infame bastardo fingendo smisurata afflizione «si rifiuta anche solo di tenermi la mano!»

«E questo ti fa sentire male? Non desiderato, non è così?»

«Oh, sì. Moltissimo!»

John serra le palpebre e respira: uccidere Sherlock davanti ai suoi occhi non farebbe davvero nulla per migliorare la bassissima opinione che Margaret si è formata di lui.

La donna continua ad annotare dati misteriosi sul suo taccuino, poi si sistema di nuovo gli occhiali e dice: «John, come ti sentiresti se ti chiedessi di baciare Sherlock?»

«Cosa?» tossisce il buon dottore, che si è strozzato con la sua propria saliva e sta combattendo una feroce battaglia contro la morte per soffocamento.

«Ho detto: come ti sentiresti se ti chiedessi di baciare Sherlock?» ripete lei, mentre contempla con gelido ed imperturbabile distacco la sua agonia.

«Come? Adesso? » rantola la grama creatura, tentando di riguadagnare il controllo sul proprio respiro.

Il capo ricciuto di Margaret ha un piccolo scatto impaziente, mentre le sopracciglia le balzano verso l'alto e lei sgrana leggermente gli occhi: e quando, se no? sta dicendo seccata la sua faccia, «Se non è troppo disturbo» miagolano con ben simulata cortesia le sue corde vocali.

«Davanti a te?»

Un sospiro sconsolato e i suoi lineamenti vengono attraversati da un lampo di qualcosa che assomiglia davvero molto al dolore fisico: «Sì, John»

John aggrotta la fronte. Sa bene che la rappresentazione di sé che sta fornendo in questa conversazione non è delle più brillanti, ma ci sono cose su cui è necessario fare assoluta chiarezza, a discapito anche della propria reputazione: «Sulle labbra?»

Margaret si sta preparando ad esalare l'ennesimo quando Sherlock scatta in piedi e col volto deformato in una smorfia complicata dichiara: «Tutto questo è assurdo! Come crede che una cosa del genere possa risolvere i nostri problemi? Se proprio vuole vedere due uomini che si baciano le consiglio di guardare un porno gay!»

John sbatte le palpebre perplesso, una sola volta. Non fa in tempo a riaprirle che Sherlock è sparito e nell'aria riecheggia il fragore della porta dello studio di Margaret che viene spalancata e chiusa senza grande garbo.

Passano alcuni secondi di silenzio interdetto, poi il buon dottore fa un gesto vago nella direzione dell'uscita: «Penso che dovrei andare a vedere... »

La donna davanti a lui appare in stato di shock, ma annuisce.

 

 

Sherlock sta marciando a passo spedito lungo al corridoio, John scorge la sua figura allampanata sparire dietro ad un angolo del muro e si getta al suo inseguimento.

«Sherlock! Sherlock!» lo chiama irritato e col fiato corto, perché le gambe del detective sono inverosimilmente lunghe e, siccome il bastardo pare affetto da una bizzarra forma di sordità selettiva che gli ha impedito sinora di percepire gli strepiti di John che da lontano gli intimava di rallentare, il buon dottore è stato costretto a mettersi a correre per raggiungerlo.

«Cosa?» domanda con sorpresa innocenza l'infame dopo che il suo inseguitore gli è arrivato alle spalle e l'ha afferrato per un braccio con l'intento di arrestare la sua avanzata.

«Cosa diavolo è stato quello?» ruggisce il buon dottore mentre Sherlock inarca un sopracciglio con tiepida curiosità. «Quello cosa?» domanda, e pare in tutta onestà non averne idea.

John spalanca la bocca e la richiude, preda di un ammutolente sconcerto: «Quello!» tuona con encomiabile eloquenza una volta recuperato l'uso della parola.

Il suo migliore amico aggrotta la fronte, assottiglia gli occhi, inclina la testa di lato.

«Quello, Sherlock, quello!» ripete allora lui, frugando nel suo thesaurus mentale alla ricerca di un termine più appropriato «Quel-- quella-- quella scenata! Davanti a Margaret!»

«Oh, quello!» esclama il detective, finalmente illuminato «Non c'è di che!»

«Cosa?» squittisce confuso John e l'esasperazione fa suonare la sua voce di un'ottava più acuta.

Sherlock fa una smorfia, perché detesta quando l'inettitudine del genio altrui lo costringe a ripetersi: «Non c'è di che» scandisce lento, poi ci pensa un po' su e chiarifica: «L'ho fatto per salvare la tua virtù»

«La mia-- cosa? Be', grazie tante, ma non ce n'era davvero bisogno»

Il detective sbuffa una mezza risata scettica, invade lo spazio personale di John e mentre incombe su di lui lo trafigge con uno strano sguardo, un po' ironico e un po' qualcos'altro, di natura indisitnguibile: «Ah no?» domanda beffardo «Non dirmi che eri pronto a commettere un simile turpe atto di vilipendio nei confronti della tua eterosessualità!»

John arrossisce e vorrebbe prenderlo a pugni, perché è ovvio che il bastardo sta deliberatamente mettendo il dito nella piaga, adesso: «Sarebbe stato solo un bacio» dichiara raddrizzando le spalle e puntando gli occhi dritti in quelli di Sherlock, l'espressione impassibile che usava durante le partite a poker con i suoi commilitoni e una bizzarra nota di sfida nella voce.

Le iridi del detective sono intese e molto, molto vicine e stanno vagando veloci e concentrate sul suo volto alla ricerca di indizi del tutto superflui, perché a John ormai è chiaro che lui ha capito-- deve aver capito-- chiunque avrebbe capito. John è stato così ovvio. «Non sapevo saresti stato disposto» dice arrestando finalmente il suo sguardo, proprio dentro a quello di John.

Oh, ma per favore! vorrebbe dirgli lui e invece sorride, un sorriso tirato, per nulla felice e un poco ostile: «Sarebbe stato solo un bacio» ripete compunto.

Le labbra di Sherlock tremano agli angoli con l'impressione di un broncio: «Ovviamente» proferisce rigido, prima di voltarsi e riprendere a camminare, come se niente fosse successo.

«Dove stai andando adesso?» gli abbaia dietro il buon dottore.

«Ho bisogno di un po' d'aria» annuncia lui, in una strana inversione di ruoli.

 

___

NOTE: avrei voluto aspettare di avere pronto il cinque prima di dare alle stampe questo capitolo, tanto per non interrompere il circolo virtuoso, ma in questi giorni non sono riuscita a scrivere nemmeno un po', però volevo pubblicare prima della fine del secolo e allora sì, eccomi qui-- sempre che EFP me lo permetta: sono tipo tre giorni che provo, ma ho problemi ad accedere D:
Poi che dire? La diabolica idea di Sherlock non era tanto difficile da indovinare e in generale la storia non è che abbia una gran trama, ma mi fa davvero un piacere gigantesco che fino ad ora vi sia piaciuta-- sono un'insicura cronica, spero solo di non deludervi u__ù
Come sempre grazie per aver letto e commentato, siete tutti bellissimi e mi rendete iperansiosa, ma tanto, tanto, tanto felice! u_ù
Un bacione! 

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Capitolo 5
*** Cinque ***


Mi vergogno quasi a postare dopo tutto questo tempo, ma ho passato un periodo di totale costipazione creativa e scrivere questo capitolo è stata un'impresa da titani... per farvi capire: sono rimasta ferma tipo due mesi e mezzo sulle prime cento parole. DD: Mi auguro taaaantissimo che il prossimo (che se non mi parte la logorrea – come è mezzo successo in questo – dovrebbe essere anche l'ultimo) arrivi un po' prima, ma nel caso in cui no, colgo l'occasione per augurarvi buon natale, buon anno, felice befana e gioiosa pasqua, già che ci siamo v_v
Spero di non aver mandato troppo ooc le mie due bestioline preferite e che tutta la self-indulgent crap di cui è disseminato il capitolo non sia troppo self-indulgent e che soprattutto non sia troppo crap e poi basta-- come sempre grazie mille a chi ha letto, leggerà e un cestino pieno di arcobaleni e imperituro amore a tutti quelli che non hanno peso la speranza.

Un abbraccio!

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5.

 

Nancy sta combattendo contro un pomodoro riottoso, che sguscia fra le foglie di insalata nel suo piatto e proprio non ne vuole sapere di lasciarsi infilzare. John la osserva distratto e annuisce, mentre lei gli racconta dei miracoli del pilates e finalmente, con una forchettata trionfale, riesce ad arrestare i tentativi di defezione del machiavellico frutto.

Sherlock sembra essersi dissolto nel nulla. Il buon dottore ha perso le sue traccie pressappoco tre ore e trentasette minuti or sono, quando il grande detective lo ha piantato in asso nel mezzo del lungo corridoio che si dipana dalla porta dello studio di Margaret e poi si biforca, e si biforca, e si biforca, in un dedalo intricato che continua a srotolarsi in apparenza all'infinito.

John non è per niente disturbato dalla prolungata irreperibilità del suo coinquilino: l'idiota ha ogni diritto di disertare la sua compagnia ed il pranzo, e di lasciarsi morire di stenti, se davvero ne sente l'inclinazione-- e poi non è mica come se John avesse trascorso buona parte delle passate tre ore e trentasette minuti ad occhieggiare con nevrastenica aspettativa il suo cellulare, nella speranza – rivelatasi vana – che il dannato marchingegno si decidesse a squillare e a portargli notizie di un certo consulting detective...

Se per qualche inesplicabile ragione Sherlock sente il bisogno di evitarlo, che faccia pure. John è molto più che felice di riuscire finalmente a passare una quantità di tempo che superi i dieci minuti senza che nessuna super-umana intelligenza aliena si lasci andare alla necessità di vomitargli addosso oltraggiate riprensioni sulla pochezza del suo ingegno. E se Sherlock si aspetta che sia John a fare il primo passo e ad andarlo a cercare per prodigarsi in scuse, come accade ogni volta che hanno un alterco, be' allora può continuare ad aspettare per il resto dell'eternità, perché John non ha nessunissima intenzione di accontentare l'insopportabile bastardo per l'ennesima volta, tanto più che non saprebbe per cosa fare ammenda, considerato che non ha idea del motivo per cui abbiano litigato e, in effetti, ora che si ritrova rimuginare sulla questione, non è nemmeno del tutto certo che il bizzarro scambio di battute di cui sono stati protagonisti fuori dallo studio di Margaret possa essere considerato un litigio vero e proprio. È indubbio, in ogni caso, che durante quella conversazione – e possibilmente anche da prima – qualcosa fra loro sia andato in qualche misura storto, lo testimonia la morsa che da un po' tempo a questa parte prende a tormentare le interiora del buon dottore con impietosa tenacia ogni volta che, per distrazione, il filo delle sue elucubrazioni finisce per ingarbugliarsi attorno al pensiero di Sherlock-- oh, ma non importa quanto la dannata morsa sia fastidiosa e gli comprima il petto e gli mozzi il respiro: John è più che deciso a non muovere un solo dito in proposito-- è il turno del grande detective di impegnarsi per raddrizzare la situazione. Il buon dottore smetterà di pensare a lui precisamente ora, finirà il suo pranzo, chiacchiererà con Nancy e poi si ritirerà in camera per leggere un libro o, ancora meglio, per torturare i suoi neuroni con qualche programma tv particolarmente stupido, solo per l'intima soddisfazione di sapere che se Sherlock fosse presente disprezzerebbe con tutto se stesso la natura delle sue scelte ricreative.

Con l'umore corroborato dal motivante monologo interiore che si è appena auto somministrato John Watson, esemplare campione di coerenza, alza la testa e si guarda fieramente intorno per la prima volta da quando ha messo piede nella sala da pranzo e in meno di una frazione di secondo tre ore e trentasette minuti di accalorato soliloquio mentale vengono spazzate via da un'ondata di terrificato sconcerto: la signora Teale è seduta ad un tavolo in fondo alla stanza e sta chiacchierando cordiale con una delle tante, anonime coppie che infestano i dintorni.

Il suo fianco è fatalmente sguarnito di accompagnatore.

John impreca, ma si impone di mantenere la calma.

Non c'è ragione per leggere presagi nefasti dietro alla vaporizzazione all'unisono di Sherlock e del potenziale serial-killer da cui l'idiota ha tentato di farsi ammazzare per i passati tre giorni: può benissimo trattarsi di una coincidenza-- si tratta senza dubbio di una coincidenza.

Magari Teale è solo un po' in ritardo, a conti fatti il pranzo non è iniziato da molto, oppure ha avuto un piccolo diverbio con la sua dolce metà ed è per questo che non le è seduto accanto, sono una coppia in crisi, dopotutto. In fondo è probabile che il vecchio Vincent sia qui, da qualche parte, accasciato su una sedia a tentare di annegare le amarezze della vita coniugale dentro ad una bistecca al sangue e sul fondo di una nutrita sequenza di bicchieri di vino. Il fatto che John abbia scandagliato l'intera area per ben due volte e ancora non sia riuscito ad individuarlo non vuol dire nulla, e anche nel caso in cui volesse dire qualcosa, lasciarsi assalire dal panico non sarebbe di nessun aiuto. Ora, da bravo soldato, prenderà un bel respiro e chiuderà gli occhi per un secondo e se quando li riaprirà l'universo avrà deciso di perseverare nella sua cocciutaggine e di continuare ad apparire caparbiamente scevro da serial-killer e consulting detective allora John agirà, ma con lucidità e freddezza. Manderà un messaggio a Sherlock e se dopo una ragionevole quantità di tempo non avrà ricevuto risposta avvertirà la polizia, poi si impegnerà a scovare Teale e una volta che l'avrà trovato procederà ad estirpare dal suo corpo, ad una ad una, tutte le sue appendici.

Il buon dottore è pronto per scattare in azione, ha già estratto il cellulare dalla tasca, le sue dita stanno scalpitando sulla tastiera e lui sta per alzarsi dal tavolo e precipitarsi fuori dalla sala quando, con soprannaturale tempismo, Teale e Sherlock fanno il loro insperato ingresso: sono insieme e vivi.

Ma soprattutto insieme.

E anche vivi, certo-- il che è innegabilmente un conforto, ma comunque non basta a cancellare il fatto che siano insieme e questo no, non è un conforto. È l'esatto opposto di un conforto, in effetti.

John è in tempesta. Da qualche parte dentro di lui collera e sollievo sono nel mezzo di un feroce colluttazione: il sollievo è forte, ma la collera di più ed è sleale e atavicamente predisposta ad avere la meglio in questo tipo di situazione, i conflitti sono il suo elemento naturale e per quanto il sollievo sia tenace, è chiaro fin quasi da subito che è destinato a soccombere, così quando Sherlock prende commiato da Teale con un sorriso ed uno studiato sfarfallio di ciglia, e in una dozzina di passi raggiunge il tavolo di John e si lascia cadere sulla sedia accanto a lui, il sollievo decide - con ammirabile ragionevolezza - di riconoscere la propria sconfitta e farsi da parte senza ulteriori proteste.

«Oh, Sherlock!» cinguetta gaudente Nancy, dopo averne registrato l'approdo «Finalmente!»
John scocca alla creatura un'occhiata in tralice e infilza con innecessaria veemenza un pezzo della sua bistecca. Vorrebbe dirgli: “dove diavolo sei stato?” e “sei un idiota incosciente!” e “devi smetterla di fare cose stupide come sparire con un tizio sospettato di omicidio per un'intera mattina senza avvertire nessuno!” e “avresti dovuto chiamarmi!” e “se non la pianti di fare cose simili giuro che recupero un paio di manette e ti ammanetto a me per il resto dell'eternità!”, ma decide di rimanere zitto e di concentrarsi sul suo pranzo. Sherlock detesta venire ignorato.

«Dov'eri finito? John era così preoccupato!» lo rimprovera Nancy.

Il volto del detective si contorce con parodistica enfasi in una maschera di rammarico e le sue corde vocali vibrano di mortificata innocenza mentre lui inquisisce: «Lo era?»

«Per nulla!» abbaia John e le parole gli rotolano fuori dalle labbra così in fretta e con così tanto malcelato livore che nemmeno una confessione avrebbe potuto farlo apparire più colpevole, «Non ero preoccupato» rincara poi in un borbottio stizzito, con gli occhi piantati dentro al piatto, come a cercare di convincere della cosa la sua insalata. Anche se non la vede, percepisce ugualmente la soddisfazione che solletica gli angoli della bocca di Sherlock e li persuade ad arricciarsi.

«Oh, e invece lo eri!» lo canzona Nancy, assestandogli uno scherzoso colpetto sulla spalla.

John accoltella una foglia di lattuga e ringhia indispettito: «No che non lo ero!», ma ci sono cose che non puoi fare se sei John Watson, non importa quanto nero sia il tuo umore, e in cima alla lista c'è senza dubbio essere scortese con una bella ragazza. Così mosso unicamente dalla sua ancestrale propensione cavalleresca ed in alcuna misura spinto all'azione dalla volontà prosaica e meschina di suscitare fastidio ed indignazione nell'imperturbabile animo del suo altero coinquilino, John alza lo sguardo su Nancy e le sorride fingendo vago imbarazzo prima di sporgersi un poco nella sua direzione e confidarle: «Ad essere sinceri non mi ero nemmeno accorto che non ci fosse-- con te a tenermi compagnia come avrei potuto? Quando sei in una stanza accorgersi di qualsiasi cosa oltre ai tuoi bellissimi occhi è praticamente impossibile»

Nancy gli scocca un nuovo, languido colpo sulla spalla e si lascia sfuggire una risatina lusingata, che tenta di compensare subito dopo aggrottando la fronte in artefatto rimprovero ed esclamando severa: «John!»

Sherlock, accanto a lui, emette un suono a metà fra uno sbuffo e un grugnito sarcastico, ma dando prova di inusuale assennatezza decide di astenersi dall'articolare a parole lo sdegno che pure, in tutta evidenza, sta ribollendo dentro di lui.

John esulta fra sé e sé, per qualche ragione ineffabilmente compiaciuto.

Nancy riesuma il suo panegirico sulle meraviglie del pilates e il convivio procede tranquillo per alcuni minuti, almeno fino a quando la sventurata fanciulla si trova di nuovo costretta a fronteggiare l'insubordinazione dell'ennesimo piccolo pomodoro malefico, che rotola e sguscia e ingaggia una tenzone senza quartiere contro gli artigli della sua forchetta.

E poi succede.

Quando il fatto si consuma John è ancora troppo impegnato a crogiolarsi nell'abbraccio caldo della soddisfazione per preoccuparsi di quello che sta accadendo davanti al suo naso, ma le sue orecchie, guidate dall'inerzia dell'abitudine, registrano ugualmente i rumori che si inseguono attorno a lui: prima il suono umido delle grinfie metalliche che affondano nella salma della bacca ribelle, seguito subito da un inarticolato gorgheggio di tripudio che, in meno di una frazione di secondo, si tramuta in un rantolo d'orrore, mentre nello stesso momento, da qualche parte al suo fianco, si leva un grugnito oltraggiato e dopo un attimo di silenzio immobile la voce di Nancy si affretta querula ad assicurare: «Oh, Sherlock mi dispiace, non l'ho fatto apposta!»

John alza lo sguardo, incuriosito.

Il grande detective sta trapassando Nancy con un'occhiata mortale, i connotati macchiati da un'espressione torva che oscilla indecisa fra sdegno e sconcerto, mentre l'alabastro impeccabile della sue pelle viene deturpato dal lento trascinarsi delle interiora del pomodoro spirato che gli sono zampillate in faccia dopo che la malaccorta guerriera gli ha inferto il colpo fatale.

Il buon dottore pondera l'affresco che gli si presenta dinnanzi per una manciata di secondi prima di venire sopraffatto da una travolgente ondata di ilarità che lo costringe a premersi con fermezza una mano contro la bocca per attutire i latrati sguaiati che hanno preso a rincorrersi fuori dalle sue labbra.

Sherlock lo pugnala con le stalattiti acuminate nascoste dentro alle sue iridi, prima di proferire con solenne e dignitosa lentezza: «Non è divertente.»

John ride più forte.

Un'ombra pericolosa attraversa il viso del detective, il buon dottore fa appena in tempo a registrarla che l'altezzosa creatura si sta sporgendo in avanti, sta afferrando il bicchiere di vino che John si è versato a inizio pasto e che è ancora per metà pieno e con un gesto secco del polso glielo sta svuotando in faccia.

Il capitano Watson boccheggia incredulo dinnanzi ad un simile affronto.

Ci sono almeno tredici modi in cui potrebbe porre fine all'esistenza di Sherlock Holmes senza nemmeno doversi muovere dalla sua sedia.

Il capitano Watson inala e stringe i pugni finché le sue nocche non sono bianche, poi esala e si costringe a rilassare le mani. Ripete il procedimento un imprecisato numero di volte.

Non ne vale la pena, si dice.

Il capitano Watson si alza in piedi e a passo di marcia lascia la sala da pranzo.

 


 

Chiaramente Sherlock è tormentato da prepotenti tendenze autodistruttive.

La cosa è più che ovvia per John, dopo tutto ciò che ha potuto osservare di lui giunti a questo punto della loro affiliazione: i trascorsi con la droga, lo sconsiderato abuso di cerotti alla nicotina, l'entusiastica leggerezza con cui si getta fra le braccia di ogni sorta di pericolo, la negligenza con cui si dedica ad attività essenziali per la sopravvivenza come dormire e mangiare, e ora questo, che è a tutti gli effetti un aperto tentativo di suicidio. Non c'è nessuna possibilità al mondo che l'uomo più osservante del Regno Unito abbia mancato di cogliere i segni, tutt'altro che velati, della funestissima disposizione d'animo che ha spinto John ad andarsene, eppure ora eccolo qui, solo un'esigua manciata di minuti dopo, che apre la porta della loro stanza e sguscia oltre la soglia-- se non è desiderio di morte questo...

Il buon dottore ringhia a mezza voce, attinge a piene mani dal pozzo quasi prosciugato del suo autocontrollo e con uno scatto rabbiosa si volta verso il muro per risparmiare alla sua retina l'odiosa visione di Sherlock che se ne sta in piedi imbambolato all'altro capo della stanza e lo fissa con un immobile e immenso paio di occhioni blu.

«John», chiama il temerario, ma John lo ignora.

La sua faccia è appiccicosa e la dannata camicia è fradicia e pesante e aderisce alla sua pelle come se avesse intenzione di usurparne l'ufficio e ad ogni respiro le sue narici vengono assaltate da esalazioni etiliche che, con spiacevole vividezza, gli riportano alla mente ricordi del periodo più buio di Harry. John vuole solo farsi una doccia e resistere alla tentazione di strangolare Sherlock. Le sue dita si avventano sui bottoni, ma la collera le rende maldestre e loro inciampano un paio di volte nelle asole, mentre lui grugnisce frustrato e vomita fra i denti un'irripetibile successione di anatemi.

«È stato necessario» chiosa impettita e severa la voce del suo coinquilino, dopo qualche attimo.

«Necessario?!» tuona il buon dottore, che con iraconda efficienza riesce finalmente a strapparsi di dosso la camicia, la appallottola e dopo aver piroettato su se stesso, la scaglia in faccia a Sherlock. «Ti prego,» intima, «spiegami come»

«Hai riso di me!» accusa quello risentito, mentre lotta e trionfa contra il suo aggressore di stoffa che, sconfitto, si accascia al suolo.

«Tu-- » boccheggia John, incapace di trovare una parola in grado di catalizzare tutto il suo sdegno «Bambino!» sputa fuori, stringendo i pugni e raddrizzando la schiena, pronto per affrontare la litigata epica che certo sta per consumarsi fra loro... ma Sherlock se ne è andato. Non fisicamente – è ancora là, in piedi vicino alla porta – tuttavia è chiaro che la conversazione ha perso ogni interesse per lui e che il favore delle sue irrequiete meningi è stato catturato da qualcos'altro-- qualcos'altro che, a quanto pare, si trova sulla spalla sinistra di John.

Il buon dottore viene all'improvviso assalito dalla consapevolezza di essere a torso nudo, con la dannata cicatrice che fa invereconda mostra di sé, mentre le scrupolose pupille del suo coinquilino ne divorano ogni centimetro, con la stessa rapita concentrazione che sono solite riservare solo alle scene di crimini particolarmente interessanti.

John non si vergogna della sua cicatrice, nonostante sappia bene che – in effetti – la cosa non sia un decoro particolarmente gradevole alla vista, però preferisce non esibirla, non per non offendere il suo narcisismo, ma per un bislacco ed illogico senso di possessività: quel geroglifico di carne annodata è suo, così come è suo il dolore che racconta. John non pensa che qualcuno possa arrivare a decifrarlo, nemmeno lui ci è riuscito del tutto, ma l'uomo è un animale curioso e supponente per natura, che adora illudersi di sapere dare un senso alle tragedie altrui e se gliene venisse lasciata l'occasione non potrebbe fare a meno di tentare di capire e necessariamente di fraintendere, per questo John preferisce tenere la dannata cicatrice per sé e risparmiarsi la curiosità morbosa e la pietà. Da quando è tornato dall'Afghanistan non l'ha ancora mostrata a nessuno-- e ora Sherlock Holmes si sta avvicinando e si sta piegando in avanti per poterla esaminare con più accuratezza e il buon dottore quasi non è sorpreso di notare che la cosa non lo infastidisce quanto sarebbe opportuno che facesse.

Vorrebbe essere in grado di recuperare un po' dello spirito bellicoso che lo ha animato fino a qualche attimo prima e ringhiargli contro qualche pugnace recriminazione sulla sua sfacciata assenza di rispetto per le più elementari norme della prossemica, ma dopo tutto quello che è successo fra loro negli ultimi giorni, avere Sherlock così vicino è paralizzante. Sembra sacrilego anche solo il pensiero di spezzare l'incantesimo con cui le iridi febbrili del detective stanno strappando via dalla sue pelle dati e informazioni rilevanti e dai suoi polmoni ogni singola goccia di ossigeno-- ma poi Sherlock alza una mano e la muove cauta verso la sua spalla e John è assalito da qualcosa che assomiglia al panico, perché per qualche ragione pare essersi convinto che se quelle dita bianche e affusolate lo toccassero l'universo potrebbe finire, quindi – non per codardia, ma per umanitarismo – fa un passo indietro e dice: «Sherlock...»

Il detective ritira la mano e si raddrizza in fretta, come un bambino colto in flagrante mentre tenta di trafugare l'ultima fetta di una torta proibita, lo fissa con un'espressione insolita - incerta e appannata – e apre la bocca per dire qualcosa, ma rimane in silenzio.

John si lecca le labbra, esita, stringe i pugni e poi se ne va in bagno per farsi la dannata doccia.

 

 

 

Una manciata di ore più tardi Sherlock si rigira nel letto senza riuscire a trovare pace.

Il buon dottore sbuffa spazientito e strattona il lenzuolo con brusca eloquenza.

L'irrequieta creatura grugnisce in disappunto, ma dopo qualche attimo il fruscio convulso delle coperte si arresta-- dodici secondi di silenzio benedetto e poi la voce del detective fa breccia nel foschia del suo dormiveglia e John si ritrova a pensare che dopotutto, con un po' di impegno, potrebbe benissimo riuscire ad ucciderlo e a farla franca. Ha delle conoscenze fra gli Yarders, in fondo-- magari non Lestrade, ma Donovan e Anderson sarebbero senza dubbio disposti a chiudere un occhio.

«Colpo sparato da vicino,» proclama il suo tormentatore, come se stesse riprendendo in mano le redini di una conversazione appena interrotta e non barbaramente lacerando la quiete della notte col suo poderoso baritono «da non più di due metri, alle spalle, dall'alto verso il basso, la traiettoria suggerisce che tu fossi a terra, inginocchiato, curvo su un paziente, suppongo.»

Ovviamente Sherlock deve esibire il suo genio e ricevere un'appropriata dose di encomi e lusinghe prima di poter dormire sonni tranquilli: «Straordinario» biascica il buon dottore, senza grande trasposto. Non è che non sia impressionato, ma sono quasi le due di mattina e lui si sente ancora più confuso del solito e tutto quello che vorrebbe fare adesso (oltre che disintegrare il suo coinquilino) è rotolare nel dolce oblio dell'incoscienza.

«Qualche centimetro più a destra e saresti morto» lo informa piatta e distante la voce del detective, dopo un lungo silenzio.

John fa una smorfia nel buio, perché davvero-- come se non lo sapesse. «Ma non è successo», assicura piccato.

«Ma avrebbe potuto» ribatte Sherlock, in un mormorio sommesso che pare essere evaso dalla prigione delle sue labbra quasi per errore. Il suo tono non crepita di giusta irritazione per essere stato contraddetto da una mente tanto più elementare della sua, né al suo interno v'è traccia della solita, meritata pretesa di avere l'ultima parola-- John è stupito e gira la testa sul cuscino per guardarlo e tentare di dare un senso a quell'anomalia. La maggior parte del suo volto è solo un'ombra più densa fra altre ombre, tutto quello che il buon dottore riesce a distinguere è il contorno malfermo e volubile del naso e della bocca, appena imbronciata, e lo scintillio degli occhi sbarrati e fissi sul soffitto sopra di lui, che viene incrinato, di tanto in tanto, dal rapido fluttuare delle palpebre che tentano, risolute e discrete, di dissipare il velo di angoscia che è sceso ad offuscare la loro impassibilità.

Lo spettacolo è destabilizzante e se non fosse già sdraiato forse John avrebbe bisogno di sedersi. Non ha mai dubitato davvero l'affetto di Sherlock, ma poterlo constatare ora – palpabile e inaspettato – ha ripercussioni impreviste su di lui. Una forza misteriosa gli strizza le viscere e lo costringe a voltarsi su un fianco, ad allungare una mano e a farla scivolare, cieca ed esitante, sopra alle coperte per saggiare lo spazio vuoto fra i loro corpi, alla ricerca di un punto di contatto: «Ma non è successo» ripete di nuovo, più piano, dopo che le sue dita si sono chiuse leggere e rassicuranti attorno al polso del suo migliore amico.

Sherlock trasale un poco, sorpreso, e lascia cadere il suo sguardo dal soffitto sulle loro mani. Il profilo lungo ed elegante del suo collo trema, mentre lui deglutisce ed il suo pomo d'Adamo sale e si abbassa con surreale lentezza.

«Londra ha più di otto milioni di abitanti», dice. La sua voce, bassa e roca, vibra attraverso il materasso e sguscia lungo la spina dorsale di John e poi discende di nuovo – lenta – in un brivido. «C'erano molte più probabilità che tu morissi in guerra piuttosto che--» Sherlock deglutisce ancora e con piccoli movimenti incerti volta il palmo verso l'alto, fa combaciare ognuna delle loro falangi, poi si forza a continuare, «che quel giorno--» mormora, e nell'oscurità le sue labbra sono percorse da uno spasmo indecifrabile-- una smorfia, o un sorriso, «Piuttosto che-- che tu incontrassi Mike Stamford»

Il cuore di John inciampa, poi si rialza e inizia una corsa forsennata che lo conduce su, sempre più su, e lui all'improvviso se lo ritrova intrappolato in gola, che si dimena e scalcia e pretende finalmente la sua libertà ed è solo con uno sforzo sovrumano che riesce a non sputarlo fuori assieme alle parole che sta pronunciando ora, con voce impastata: «Forse, ma--»

«Lo so, lo so: ma l'hai incontrato e adesso sei qui» lo taglia corto il detective, sbuffando oltraggiato al pensiero che il buon dottore abbia ritenuto necessario rimarcare a suo beneficio una simile ovvietà. «Però è un anomalia statistica», mentre parla allaccia le loro dita assieme e stringe forte. «Ci sono così tanti modi in cui avrebbe potuto non succedere.»

Sherlock alza lo sguardo, dalle loro mani agli occhi di John, che per parte sua sta cominciando ad avere seri problemi a respirare in maniera normale, mentre percepisce con chiarezza l'ineluttabile annegare del suo buon senso sul fondo dell'oceano in tempesta nascosto dentro alle iridi dell'altro. Si schiarisce la gola e dice: «Sherlock...», le dita strette fra le sue si divincolano e scivolano caute lungo al suo palmo, fino a raggiungere il polso e lì si fermano, premute contro alla vena, «Sherlock, mi stai prendendo il polso?»

«La tua frequenza cardiaca è accelerata» accusa lui in un sussurro.

John ruota la mano e le sue dita imitano la posizione di quelle dell'altro. Sotto i suoi polpastrelli il cuore del grande detective è un ballerino goffo, che si sta esibendo in un valzer frenetico e disordinato: «Anche la tua», lo informa.

Smascherati, si sorridono e rimangono a scrutarsi in silenzio attraverso il velo della notte per-- ore? muniti? secondi? Il tempo diluisce e perde ogni forma mentre loro aspettano di scoprire chi dei due sarà il primo a cedere, perché ormai – e lo hanno capito entrambi – un cedimento è inevitabile.

Il buon dottore è moderatamente certo che sarà lui.

Districa il suo sguardo da quello dell'amico e lo lascia precipitare giù, sulle sue labbra perfette, che sembrano cogliere il movimento, e si dischiudono appena. Un'offerta?

John si muove in avanti, e poi esita.

Sherlock deglutisce e prende un bel respiro, poi allunga il collo e preme la sua bocca contro quella dell'altro. Il contatto è fugace e il detective batte in ritirata prima che il suo oppositore abbia modo di contrattaccare. John pensa che questa sia una strategia di battaglia davvero meschina, così blocca con una mano il volto del fuggitivo per arrestarne il ripiegamento e si getta all'inseguimento del bacio. Quando lo cattura il nemico non oppone alcuna resistenza, anzi sembra più che entusiasta di capitolare-- con una mano gli si aggrappa alla spalla e lo trascina sopra di sé, mentre in un attimo di tregua sussurra: «Finalmente»

Finalmente, concorderebbe il buon dottore, se soltanto in questo momento il pensiero di separarsi dalle labbra che ha fatto prigioniere, anche solo il tempo necessario per esalare il suo accordo, non risultasse così fantascientifico, perché – insomma – è notte e sono su un letto, e ci sono polpastrelli affamati che mordono la carne della sua schiena e dei suoi fianchi, e il corpo sotto al suo spinge e si inarca per ottimizzare i punti di contatto, e lui sta baciando Sherlock Holmes e Sherlock Holmes lo sta baciando e lo sta attirando contro si sé come se avesse in progetto di non lasciarlo andare mai più e se anche fosse questa la sua intenzione, rimugina, lui non avrebbe davvero nulla da ridire.

Da un lato John può percepire con spaventosa nitidezza l'inabissarsi del suo autocontrollo, dall'altro nel suo cervello ottenebrato si fa largo il gracchiare flebile di un neurone superstite, che gli sta intimando di darsi un contegno, di comportarsi da uomo e non da sedicenne con l'ipofisi in subbuglio e di fermarsi prima che la situazione precipiti. L'amicizia che lo lega a Sherlock è una delle cose più importanti della sua vita, rischiare di comprometterla per un accesso di dissennatezza sarebbe imperdonabile, oltre che sciocco. Devono prenderla con calma, essere sicuri di volere le stesse cose, devono ragionare a mente fredda e alla luce del giorno e, soprattutto, devono farlo lontani dal letto.

John fa perno sulla sua intorpidita forza di volontà e interrompe il bacio.

«Domani» ansima contro alle labbra di Sherlock, che tuttavia non sembrano molto interessate a stare ad ascoltare quanto ha da dire, e stanno tentando di rincorrere la sua bocca e quando la sua mano arriva a frenare la loro avanzata si lasciano sfuggire un piccolo mugolio scontento, «Domani mattina parliamo di questa cosa» continua il buon dottore mentre fa scorrere la punta del pollice sul labbro inferiore del detective, «Dobbiamo parlarne bene» mormora distratto, rapito da quella morbidezza umida. Sherlock lo scruta per un attimo con uno sguardo annebbiato, ma sorprendentemente intenso, poi annuisce e accenna un sorriso. John preme le loro fronti insieme, alla ricerca di un po' di risolutezza e ripete: «Domani ne parliamo e poi... »

Sherlock annuisce ancora, gli ruba l'ennesimo bacio e promette: «Domani.»

 

 

Naturalmente la mattina dopo, quando il buon dottore apre gli occhi, accanto a lui non c'è traccia di nulla che assomigli ad un consulting detective.

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