Avalon is not a myth

di AltheaM
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte di Luna Rossa ***
Capitolo 2: *** Non è possibile ***
Capitolo 3: *** Diavolo Rosso ***
Capitolo 4: *** 699 Hela ***
Capitolo 5: *** Nel buio ***



Capitolo 1
*** Notte di Luna Rossa ***


CAPITOLO 1

Notte di Luna Rossa

 

Notte fonda. 

L'ululato del vento sfrecciava rapido fra le fronde degli alberi, scuotendole irruentemente e lasciando dietro di sé una pioggia di fruscianti foglie. Il cielo notturno si era tinto di un nero profondo, dal quale a fatica qualche stella riusciva ad emergere, segnalando la propria esistenza al mondo solo per un breve attimo, prima di tornare ad immergersi in quell'oscurità densa. 

Quella notte indossava vesti impregnate di un presagio di morte. Alitò la sua presenza spettrale su tutta la valle, investendola con il suo fiato rigido, freddo. 

L'aria si appesantì di un pungente sapore metallico, mentre le nuvole, che si accalcavano frettolose le une sulle altre in quel nastro buio, minacciavano pioggia, trattenuta a stento nei loro ventri gonfi color della calce.

Passi frettolosi, quasi affannati ruppero il silenzio della foresta, risvegliando bruscamente gli spiriti assopiti che risiedevano in quel luogo di ombre. La fanghiglia umida che ricopriva il terreno si stendeva come un tappeto di colla che rendeva difficoltosa, quasi impossibile quella corsa disperata; dalla terra emergevano le schiene nodose di alcune radici, ostacolo invisibile in quella notte di tenebre. Nel buio se ne scorgevano appena i contorni, resi noti dal pallido e roseo raggio di luna che di tanto in tanto si faceva spazio tra le nuvole inconsistenti, regalandole un fugace attimo di visibilità. I suoi occhi si muovevano frettolosi da una parte all'altra di quella camera oscura, ricercando un minimo respiro di luce; il fiato le si rompeva in gola, mentre il petto s'incendiava per la fatica. Ogni minima fibra del suo corpo urlava di dolore.

Sola nel buio della notte, nella foresta che sin da piccola aveva sempre temuto e nel quale non aveva mai osato addentrarsi, qualsiasi paura l'aveva ora abbandonata, rimpiazzata da un rombante desiderio di sopravvivenza; nelle orecchie ovattate pompava il suono impazzito del suo cuore che batteva ad un ritmo incostante, affannoso, disperato, mentre il rantolo rauco che le si rompeva sulla bocca, esplodeva nel silenzio della notte. 

La mente, aggrovigliata in una matassa di pensieri caotici, tentava di orientarsi in quell'intricato telaio di rami e ombre, senza riuscire a trovare una via di scampo. E mentre la paura s'impadroniva lentamente dei suoi occhi, un ramo sporgente le agguantò la caviglia, facendola cadere rovinosamente nel fango. 

Un balugino squarciò l'oscurità del cielo, precedendo una scrosciante pioggia di acqua gelida che si riversò irruentemente su tutta la valle, soffocando con il suo precipitare metallico ogni altro suono. Le lacrime cominciarono a scivolare su quelle guance impallidite dalla fatica e dalla paura, mentre le prime gocce le bagnavano il corpo paralizzato. A stento riusciva ancora a respirare, non trovando la forza di rialzarsi. Per un attimo la sua mente fu percorsa dal terribile pensiero di rimanersene così, immobile nel fango…Non le importava di essere trovata. In quel momento il dolore, la fatica, la paura, si erano spente, come se qualcuno avesse soffiato sulla fiamma di una candela, lasciando solo il fumo a riempire l'aria. Lei era fumo, leggero e invisibile. Il fango, la pioggia, il buio di quella notte avevano spento in un attimo tutta la sua vita, lasciando di lei solo un corpo pesante riversato sul terreno. 

Le lacrime cominciarono a mischiarsi alle gocce di pioggia che le picchiavano sul viso, mentre singhiozzi sempre più irruenti le salivano alla gola, rendendola incapace di trattenerli. Il petto le si chiudeva in una morsa stringente, mentre il dolore le esplose nel petto, invadendo tutto il corpo. Quella notte aveva perso ogni cosa. La sua corsa non l'avrebbe aiutata a fuggire da questo, né da chi aveva ingaggiato una crudele caccia all'uomo per scovarla e dalla quale non sperava di uscire vittoriosa. Nei suoi occhi bruciavano ancora vivide le fiamme che aveva visto avvolgere quella che per diciassette anni era stata la sua casa, nella gola ancora il sapore dell'urlo disperato che aveva lanciato dal giardino nel tentativo di farsi sentire da Alun, intrappolato in quella brace incandescente; non ricordava oramai da quanto tempo corresse. Le sembravano ore, giorni…Il tempo si dilatava, come se si sciogliesse al calore del ricordo di quell'incendio che aveva distrutto il luogo della sua infanzia. 

Si strinse il petto, cercando di controllare l'esplosione di singhiozzi che rimbombava tra i fusti degli alberi secolari, un richiamo che avrebbe attirato inequivocabilmente il suo inseguitore. 

Doveva rialzarsi. Doveva correre e allontanarsi da quel posto.

Lo sapeva, ma non riusciva a fare altro che riversare su di sé un indicibile dolore per quello che aveva perso, il quale sembrava tramutare ogni fibra del suo corpo in osmio, così pesante da renderle difficoltoso anche solo aprire gli occhi.

"Enid"

Un sussurro. Il cuore esplose in un forte battito, ma il corpo non accennò a muoversi. Le sembrò che quel suono provenisse da un angolo remoto della sua mente, uno scherzo della disperazione che oramai l'assaliva. Lasciò che dalle labbra trapelasse solo un debole mugolio, mentre il macigno sul suo petto si faceva sempre più pesante…Enid. 

"Enid!"

Socchiuse gli occhi. Un rumore, più rauco stavolta, sovrastò la voce nella sua testa, costringendola a guardarsi intorno. L'aveva di nuovo immaginato? Passi. Secchi, che si rompevano nelle pozze formatesi sul terreno, infrangendo i logori specchi d'acqua incapaci di riflettere il nero denso di quella notte. Istintivamente si rannicchiò le gambe al petto, trattenendo il fiato, e appiattendosi il più possibile contro il tronco di un albero vicino. Quasi senza accorgersene si portò una mano alla bocca, pronta a soffocare eventuali rantoli traditori, mentre con gli occhi tentava di scorgere in quella fanghiglia un qualsiasi oggetto che la potesse aiutare ad allontanare il suo inseguitore.

"..Enid"

La voce si vece più strisciante, lenta, soppesando consciamente le lettere che componevano quel nome. Il suo nome. Un nodo si strinse alla gola, mentre le sue orecchie non riconoscevano in quelle parole un tono amichevole. Che il suo inseguitore l'avesse raggiunta? Il pompare sordo del cuore ovattò oltremodo il suo udito, rendendole difficoltoso anche solo orientarsi. Avvertì l'impulso di strisciare nelle ombre verso un luogo più sicuro, ma non riusciva a comprendere da dove provenisse quel richiamo stridulo. Lasciò roteare lentamente la testa sulle spalle, facendosi più vicina al tronco dell'albero, e gettò uno sguardo alle sue spalle nel tentativo di scorgere anche solo un minimo movimento, od ombra.

"Enid…Eccoti qua, Enid"

Il sangue le si raggelò nelle vene all'udire il ripetere ossessivo il suo nome, con tono malizioso. Con un balzo fulmineo un'ombra scura ed imponente le apparve davanti al volto, strappandole un grido di terrore. Uno scintillio tradì la presenza di un dente d'oro, mostrandole in tutta la sua orrida dentatura la bocca di quell'essere sogghignante.

"Ti ho trovata."

Riuscì a sibilare, prima di stendere la mano sulla sua caviglia, afferrandola con una violenza spropositata. D'istinto Enid si gettò indietro, annaspando con le mani nel fango alla ricerca di un qualsiasi oggetto cui appigliarsi, mentre le gambe si agitavano in una spasmodica raffica di calci che, però, andò a vuoto, lasciando che fosse il buio il suo solo rivale.

"Smettila di agitarti…O la morte di tuo padre non sarà l'unico dolore di questa notte!" 

Ruggì feroce la belva, tornando a puntare il volto contro il suo. La vicinanza riversò nel suo naso un fetido odore di sporco e alcol che la colpì violentemente. Si portò una mano al volto, nel tentativo di ridurre quel contatto sgradito. Una risata grassa e maligna si sciolse nel silenzio, accompagnata dal rombo di un tuono che illuminò il cielo, permettendole di vedere i lineamenti di un volto divorato dalle fiamme, dove l'unico occhio ancora vigile, di un insolito colore scarlatto, era fisso su di lei, irradiando un intenso raggio di luce. Si lasciò scivolare un grido che andò ad alimentare la risata di quell'essere. Poi il silenzio. Un rumore metallico attraversò rapido la foresta; uno scintillio calò rapido sull'ombra, portando via con sé i residui di quella risata crudele. Enid avvertì la morsa sul suo piede allentarsi. Approfittò per strisciare via, rialzarsi e riprendere la sua corsa, ma qualcosa la bloccò. O meglio, qualcuno.

"Enid! Enid sono io!"

Gridò qualcuno, mentre lei aveva già cominciato a menare pugni.

"Enid fermati! Sono io, Blez!"

Quella voce. Enid si fermò di colpo, mentre i suoi occhi si riempivano di nuove lacrime. Cercò nella notte i lineamenti di quel viso che le era così familiare, sorridendo scioccamente dall'ombra in cui lui non poteva vederla; poi si gettò contro il suo petto, abbandonandosi ad un insensato attimo di felicità, dimenticando tutto quello che era successo.

"Enid devi andartene! Ne stanno arrivando altri…Vai, io cercherò di trattenerli il più possibile!"

"Andarmene, e dove?"

Esplose, allontanandosi da lui e guardando in faccia il fratello.

"Io non vado da nessuna parte, non senza di te!"

Sentenziò con una voce tremula e poco convincente il solito cliché. Blez sorrise dolcemente. Non lo vide, ma sentì la sua voce farsi più calda, mentre una mano umida le carezzava il viso.

"Devi farlo…Non posso lasciare che tu ti consegni nelle mani di quegli assassini! Tieni, mettilo al collo, ti aiuterà, quando sarà il momento."

Disse, consegnandole fra le mani un medaglione d'oro, logorato dal tempo.

"Ho promesso a nostro padre che ti avrei protetta."

Aggiunse, con un tono dolce, quanto sofferente. Si strinse a lui, ricacciando dalla mente il ricordo del volto di Alun divorato dalle fiamme. Nel silenzio di quell'abbraccio, delle grida rauche echeggiarono tra i fusti degli alberi, rompendo la magia di quell'attimo. Blez la scansò dal proprio petto, afferrandola sulle spalle e costringendola a ricercare i suoi occhi color topazio, occhi che conosceva bene, fieri e orgogliosi, nonostante nascondessero sul fondo una scintilla d'infantile tenerezza.

"Va'….Lasciati guidare dal medaglione…Lui ti indicherà la strada. Non guardarti indietro, per nessun motivo. Corri, corri più veloce di quanto tu abbia mai fatto!"

E fu con queste parole che Blez la spinse via fra la boscaglia, dandole le spalle ed estraendo dal fodero l'antica spada che Alun aveva custodito così gelosamente per tanto tempo, in una teca sopra il caminetto. Ma queste cose oramai non avevano più alcuna importanza.

"Vai!"

Gridò con un tono rabbioso, senza nemmeno voltarsi. Enid, con il dolore nel cuore, cominciò a correre. Dietro di lei, i suoni sordi di una battaglia, il cozzare fragrante delle spade, le grida di morte….Poi uno sparo. Il cuore raggelò in un battito lento, ma potente, paralizzandole le gambe. Non voltarti. Le aveva detto. Non voltarti per nessun motivo. E mentre la pioggia tornava a cadere più violenta sulla foresta, coprendo con il suo manto i rivoli di quello scontro, Enid aveva ripreso a correre. 

Correva, stringendo assiduamente fra le mani quell'oggetto, l'unica testimonianza della famiglia che un tempo aveva avuto e che si era lasciata alle spalle, in quella notte di sofferenza e di terrore. Lo stringeva, pregando che accadesse qualcosa, che apparisse un segno ad indicarle la via da seguire, che la strappasse da quelle ombre per ricordarle il calore della luce; lo portò al petto, premendolo con insistenza, biascicando una vecchia preghiera che aveva udito spesso dire da Alun, in quelle notti in cui la luna rinunciava alle sua candide vesti color del latte, per tingersi di un rosso vermiglio. Alzò gli occhi: la luna non c'era quella notte. Non c'erano stelle, né cielo, solo un turgido ammasso di nuvole. Pronunciò quelle poche parole che riusciva a riportare alla memoria, rafforzando la presa sul medaglione, rinvigorendo la stretta sul petto. Le sussurrava. Le urlava. Poi tornava a dirle nella sua testa. Ma non accadeva nulla. Avvertiva il freddo del metallo fra le dita…Solo il freddo. 

Una luce abbagliante attraversò il cielo, preannunciando il rombo del tuono che sarebbe seguito, simile ad un cane da caccia che inseguiva la sua preda. Alzò gli occhi verso il cielo, invocando la luna, pregando che uscisse fuori dal suo manto di nuvole, per regalarle un sorriso di luce. Riusciva a scorgerne a malapena il dorso sferico, irradiato da un debolissimo nastro vermiglio, che lottava contro quella coltre oscura per tenderle la sua mano candida. Nei suoi pensieri, evocava il ricordo di Alun intento a bearsi della sua visione lattiginosa. 

"La luna, Enid….Quando ti senti persa, guarda la luna"

Ricordava quelle parole. E quando la luna non vuole mostrarsi? Si chiedeva. 

Un calore intenso penetrò fra le dita, avvolgendole il braccio, quasi lo stesse immergendo in una vasca colma d'acqua. Abbassò repentinamente gli occhi, arrestando la sua corsa. 

"Il medaglione!"

Proruppe, senza riuscire a controllarsi. Il medaglione. Brillava. Uno scintillio debole, ma pur sempre un segno. Cominciò a camminare lentamente, avvertendo il calore farsi sempre più vivido e la luce aumentare d'intensità. Che si stesse avvicinando a qualcosa? Nella notte tempestosa, uno strano rumore metallico cominciò a sprigionarsi dalle sue mani, come fosse il richiamo lanciato dal medaglione alla sua segreta metà che cercava di ritrovare nel buio di quella foresta. Accelerò. I passi s'impastavano sempre più velocemente in quella poltiglia fangosa, mentre le gote le si accendeva di un rosso pallido per la gioia. In un attimo si ritrovò a correre, stavolta con una nuova speranza nel cuore. Un sorriso le si accese spontaneo sul volto, mentre finalmente sentiva di aver ritrovato la strada. Seguiva quel bagliore, quel suono, senza domandarsi dove stesse andando, sicura che quel posto sarebbe stato un luogo sicuro. Il medaglione la condusse lungo la foresta, costringendola a volte a scansare cespugli, a districarsi fra i rami bassi di alberi che erano cresciuti vicini, come volessero scaldarsi nelle notti più gelide. Continuò a correre, fin quando non si ritrovò in una piccola radura celata dietro un sipario di foglie che ondeggiavano all'unisono dalla chioma folta di un salice. Superò quell'ingresso, bloccandosi per lo stupore che le accese ciò che vide. Le fronde lì intorno crescevano fitte a formare una volta ampia, impedendo che quel luogo venisse contaminato dalla furia della pioggia. A terra, l'erba cresceva di un rigoglioso verde smeraldino, cingendosi del colore argenteo di sporadici fiorellini che si stiracchiavano dal terreno morbido, troppo timidi per mostrare il loro cuore aureo. Enid saggiò con i piedi quel tappeto soffice, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, stordita dall'incanto misterioso che quel posto esercitava su di lei. Il tempo lì sembrava non essersi mai addentrato, lasciando che ogni cosa si ricoprisse di un velo etereo che sapeva di eternità. Il suo viso di porcellana venne dolcemente accarezzato da una brezza fresca, estranea al temporale che nel frattempo imperversava al di fuori di quelle mura di rami e foglie. Un piccolo giardino segreto che cresceva incontaminato nel cuore di un'oscura foresta, ignorato dal resto del mondo. Era un'idea che suonava dolce alle orecchie di Enid. Forse lì non l'avrebbero trovata. Il flusso calmo dei suo pensieri venne introdotto da uno stridio acuto che proruppe dalla sua mano. Roteò rapidamente gli occhi sul medaglione che ora rifulgeva di luce più che mai…E bruciava. Il suo calore cominciò a farsi intenso, insopportabile, quasi stringesse fra le dita un tizzone ardente appena rapito dal ventre di un fuoco. Lo lasciò cadere a terra, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore, mentre si guardava la mano marchiata dal dorso di quell'oggetto che aveva inspiegabilmente preso a roteare. 

"Che diavolo sta succedendo?" 

Domandò alla brezza di quel luogo, tramutata in un turbine di vento caldo che aveva il suo perno nel medaglione. Il suono ora si faceva più nitido…Era la nenia che stava cantando poco fa! Ma la voce che la cantava era diversa, rauca e tenebrosa. Le corolle argentee dei fiori si spensero, lasciando che il sole di quel luogo fosse l'oggetto che ora vorticava splendente al centro della radura, facendo tremare la terra. Le gambe deboli di Enid cedettero, ed in breve si ritrovò in ginocchio sull'erba fredda. Non riusciva a non guardare quell'insolito spettacolo di luce che le si stava aprendo davanti. La nenia riempiva ogni angolo di quel luogo, rimbalzando tra da un ramo all'altro, come impazzita. 

Diverse tonalità cominciarono ad aggiungersi alla voce che prorompeva dal medaglione e le scosse cominciarono a farsi più intense. La terra, nel centro esatto della radura, si spaccò. Enid cominciò ad avere paura. Cosa stava succedendo? Cos'era quel posto? Si coprì il volto con una mano, lasciando, però, che un occhio continuasse a guardare attraverso le fessure create fra le dita. Dal cuore di quella spaccatura, cominciò a crescere, a risalire qualcosa, richiamato dalla voce del medaglione come fosse il macabro canto di una sirena. Le parole celtiche della nenia erano scandite con precisione ritmica, ma Enid ne ignorava totalmente il significato. 

Un pozzo, o per lo meno questo le sembrò di veder riemergere dalle profondità della terra. I mattoni bianchi riverberavano la luce del medaglione, assorbendola e facendola propria, indossando un candido manto di luce che rifulgeva in tutta la radura, riempiendola. Poi tutto tacque. Il medaglione cadde a terra, ma non smise di brillare, anche se il suo oro si era improvvisamente raggelato, permettendole di prenderlo in mano. Lo arraffò con una rapidità insolita, spinta dalla curiosità di comprendere da dove fosse sprigionato tutto quello spettacolo. Lo rigirò fra le mani, riscontrandovi solo un comune, magico medaglione ricco di intagli. Confrontò i segni che quell'oggetto le aveva lasciato sul palmo con quelli che riportava sulle sue due facce spendenti. La carne della sua mano si era improvvisamente cicatrizzata, lasciandole un simbolo incomprensibile, un marchio, che non ricordava affatto gli intarsi sul medaglione. Sbarrò gli occhi.

"Costa sta accadendo?"

Domandò ancora una volta al vento, che lasciò dietro di sé una risposta di silenzio. Rivolse gli occhi a quello strano pozzo riemerso da chissà dove, nelle profondità, con un certo timore. Aveva paura che qualcos'altro di magico stesse per accadere. Ma non accadde nulla. Si avvicinò con passi lenti, attenta a studiare le immobili mosse della cavità dalla quale proveniva l'eco di gocce che precipitavano s'uno specchio d'acqua. Raccolse il coraggio, stringendo le voluminose labbra rese violacee dal freddo e dalla pioggia, e si affacciò a guardare. Non c'era acqua. Solo buio. Rimase attonita…Da dove proveniva, allora, il rumore? Cosa diavolo era quel pozzo? E perché era apparso lì? Cosa c'entrava con il medaglione? Perché Blez glielo aveva dato? La magica apparizione di un pozzo senz'acqua, dagli insoliti rumori non l'avrebbe di certo salvata dalle ombre che la stavano cercando! Blez pensava veramente che qualche foglia messa qua e là l'avrebbe resa invisibile ai loro occhi assassini? Domande, rabbia e paura si mescolarono dentro di lei, scaraventandola in uno stato di confusione dal quale non riuscì a riemergere, lasciandovisi sprofondare. Troppe cose stavano accadendo quella notte, troppi orrori aveva visto…Ed ora, la magia. Medaglioni marchianti, pozzi che emergono dal terreno come fossero piante…Troppo. Non poteva, non ci riusciva. E mentre la sua mente era intenta a incolpare la serie di avvenimenti che la volevano protagonista di un copione che lei non aveva mai letto, l'aria intorno a lei cominciò a cambiare, mentre la luce, l'eternità di quel luogo si affievolivano a poco a poco, come indebolite. Ma Enid era troppo indaffarata a prendersela con il corso degli eventi per rendersene conto. Un taglio netto recise la chioma del salice, provocando un improvviso inaridimento della radura, spogliando i rami delle loro fronde protettive e facendo ricadere la pioggia su di lei. Si voltò terrorizzata, pronta a fuggire.

"Enid….Già te ne vai? Ma come...Siamo appena arrivati."

Biascicò una voce maliziosa dall'ombra. Ua balugino rosso. La gola le si strinse in un urlo che non riuscì a pronunciare, mentre cominciava ad indietreggiare davanti all'infittirsi di quelle ombre. L'aria si accese nel suono ruvido delle spade sguainate, mescolandosi al puzzo che aveva già sentito, ma che ora si amplificava facendosi più intenso. Blez, era morto. Lo sapeva, ora ne era certa. Quell'intensa luce rossa la ricordava bene. Le lacrime cominciarono a rigarle il volto, mentre con le gambe urtò il bordo del pozzo. Era in trappola. Era sola. Il panico l'attanagliò, come una tagliola che si chiude all'improvviso, tagliando ogni via di fuga.

"No, no mia piccola Enid, non piangere. Che scortesi che siete, l'avete spaventata!"

La beffeggiò quella voce rauca e viscida, mentre alle sue spalle si accendeva un macabro coro di risoli. Il cuore le pulsò nelle tempie, annebbiandole la mente, al sentire i passi di quegli esseri farsi più vicini, più numerosi. La fanghiglia tornò a ricoprire ogni cosa, coprendo l'incanto che vi era stato in quel luogo. 

"Avanti Enid…"

"Smettila di dire il mio nome!"

Gridò in preda alla paura contro un nemico invisibile, annidato nell'ombra. Una risata sottile. Silenzio. Il suo respiro sferzava l'aria piovigginosa.

"E come dovrei chiamarvi, sacerdotessa?"

Le rimbeccò l'altro, più ruvido nel tono.

"Che diavolo state dicendo? Chi siete?"

Domandò, spostando gli occhi nell'oscurità alla ricerca di quel balugino, di qualcosa che le desse anche solo minimamente l'idea di che cosa si ritrovava davanti.

"Questo non ha alcuna importanza…Ciò che conta è che ora voi siete in possesso di una cosa che mi appartiene."

Lo scintillio rosso si riaccese su di lei, segnandole il corpo malamente coperto da una vestaglia bianca ormai inzuppata di quell'acqua amara che ricadeva dal cielo. Enid rafforzò la presa sul medaglione.

"Ora, se non vi dispiace, direi che possiamo anche smetterla con i giochi."

Il tono tornò ad essere autorevole, perdendo qualsiasi vena di cortesia.

"Datemi quell'amuleto, o verrò a strapparvelo io stesso dalle vostre dita irrigidite dalla morte!"

La sua voce esplose in un ruggito feroce, carico di rabbia. Li sentì avanzare in gruppo, mentre lei non poteva andare oltre. Era con le spalle al muro. Si guardò dietro. Gli alberi ergevano con i loro fusti ingrossati dal tempo feritoie invalicabili, impedendole una qualsiasi fuga.

"Deduco che abbiate fatto la vostra scelta, sacerdotessa."

Sibilò il mostro dalle ombre, sentenzioso. Aveva mai avuto scelta? Si chiese nell'ultimo attimo di lucidità che le rimase. Uno scatto. Urlò istintivamente, sentendo la terra mancarle sotto i piedi. Con un urto violento, era stata scaraventata nella gola del pozzo, tra le cui pareti risuonava il suono spezzato delle sue grida terrorizzate. Cominciò a precipitare, sentendo il medaglione scivolarle dalle mani. Tese le dita, nel tentativo di afferrarlo, vedendo l'orribile mostro affacciarsi dalla cavità, esplodendo in un urlo di rabbia mentre cercava anch'esso di afferrare l'oggetto. Si allungò. Lo prese. Poi il buio. Nelle orecchie il suono della nenia che Alun cantava tutte le notti in cui la luna si vestiva di vermiglio…E quella notte la luna era rossa.

 

Il sole sorse pigro quella mattina, stiracchiando i suoi intensi raggi lungo il cielo, incendiandolo di un bagliore roseo, prima di lasciar emergere il suo dorso dorato dalle acque del mare. La sua luce calda andò rapida a picchiettare sulla sua finestra, penetrando nella stanza e illuminandola. Qualcuno, dall'altra parte dell'universo, si stava svegliando.

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Capitolo 2
*** Non è possibile ***


CAPITOLO 2

Non è possibile


Il ventilatore roteava annoiato dall'alto del suo trono, sbuffando nella stanza un'impercettibile alito di vento, troppo appesantito dagli anni e dalla ruggine per poter potenziare la propria gittata d'aria. Le sue pale storte e mal ridotte annaspavano faticosamente in quella danza circolare, accompagnate nel loro moto dal cigolio acuto delle giunture sconnesse che si spargeva nel silenzio come la polvere soporifera di Morfeo, conciliando il sonno.
I primi raggi del nuovo giorno penetrarono nella stanza attraverso le tapparelle socchiuse, gettandosi sul legno chiaro del pavimento in un gioco di luci ed ombre, rincorrendosi a vicenda. L'aria trascinava con sé la dolce brezza marina; il suo odore salmastro scivolò delicatamente nella stanza, solleticandogli il naso, ma senza disturbare il sonno in cui era sprofondato.
Il lenzuolo scuro ricadeva quasi completamente sul pavimento, spiegazzato, lasciandogli nuda la schiena resa muscolosa dai pochi anni di accademia che si era concesso, che si sollevava vigorosamente al ritmo del suo respiro; una mano veniva fatta penzolare pesantemente dal bordo del materasso, una bandiera troppo rigida per poter sventolare con grazia. La fronte non ancora sfiorata dagli anni si corrugava al susseguirsi rapido dei sogni, rilassandosi di tanto in tanto per mostrare i lineamenti di un giovane cresciuto troppo in fretta, nascosti sbadatamente da un ciuffo ribelle color della terra che ricadeva al centro del viso.
Il suono del suo respiro riempiva i vuoti lasciati dallo scricchiolio del ventilatore, improvvisando una stonatissima e sgangherata orchestra, diretta dal ticchettio metallico di una sveglia vicina, nascosta sotto una maglia stropicciata.
Nella pace e nel silenzio di quel momento, in cui ogni preoccupazione era lontana, in cui il dormire assumeva un sapore dolce e piacevole come il miele, la voce di sua madre proruppe acuta, completamente scordata ed estranea all'armonia del suo sonno.
"Jim! Jim, svegliati! Ho bisogno di te!"
Un mugolio di fastidio gli sbuffò dalle labbra sottili, mentre tentava di sfuggire a quella voce penetrante ricacciando la testa sotto il morbido cucino, chiudendo gli occhi a forza nella speranza di non lasciarsi sfuggire i frammenti di quel sogno che già si stava scomponendo. Premette forte le mani sulle orecchie, per ricreare quell'atmosfera pacifica.
"Jim Hawkins!"
Nome e cognome. Bene, non era ancora totalmente arrabbiata, per esserlo veramente avrebbe dovuto dire, o meglio gridare…
"James Pleiadi Hawkins!"
…Anche il secondo nome. Andato. Il sogno a cui aveva tentato di riaggrapparsi era ormai definitivamente andato.
Si sollevò sui gomiti infastidito, massaggiandosi le tempie nel tentativo di far mente locale, mentre con calma socchiudeva gli occhi rossi per la stanchezza. Le iridi si accesero subito di un intenso turchino, sfiorate dalla delicatezza dell'alba, spiccando come due pietre preziose sul viso olivastro e glabro; la testa era un groviglio confusionario e i muscoli appesantiti dal sonno non ne volevano sapere di mettersi in moto. Si stiracchiò in un nuvolo di gemiti, tirandosi su a sedere e lasciando penzolare le gambe dal materasso, i piedi che sfioravano appena il pavimento. Si massaggiò la faccia intorpidita, abbandonandosi a sonori sbadigli che gli deformavano la mandibola, e cominciò a spaziare con lo sguardo, riconoscendo gli oggetti che affollavano la sua stanza.
Stropicciandosi gli occhi si alzò in piedi, mettendo in tensione la muscolatura della schiena, e deambulò alla ricerca dei suoi stivali.
"Jim!"
"Arrivo mamma!"
Rispose senza alcuna enfasi, la voce rauca che gli grattava la gola. Nella penombra, dove le pale del ventilatore si allungavano lungo le pareti creando un cadenzato movimento di luce, cominciò lentamente ad infilarsi una maglia sgualcita, che scivolò pigramente sul petto, sfiorandolo lentamente fino ai fianchi sottili, con una carezza trattenuta. Si trascinò davanti ad uno specchio, nell'intento di dare un ordine a quella fontana di ciuffi ribelli che ricadevano in ogni direzione, Con gli occhi ancora socchiusi, cominciò ad infilarsi le dita fra i capelli, domandoli.
Colpi alla porta. Forti. Disaccordi. Spazientito si diresse verso di essa con le labbra pronte ad esplodere in una polemica, quando la porta si aprì violentemente e un frastuono indicibile invase la stanza.
"Buongiorno Jim, mio piccolo amico umanoide! Sveglia, sveglia!”
Una raffica di parole lo investirono, stordendolo, rimbombando nella sua testa amplificata e rimbalzando rapidamente fra le pareti della camera. Con gli occhi, Jim seguiva i movimenti caotici e goffi del robot che aveva appena fatto il suo rumoroso ingresso nella camera, gesticolando come un ossesso e mettendo mano su qualsiasi cosa gli capitasse a tiro in un trionfo di cigolii metallici, mentre dalla bocca larga uscivano una cascata di parole, discorsi, privi di qualsiasi nesso logico, che si susseguivano rapidi senza dare alla mente il tempo di registrare o, comunque, crearsi un "filo" da seguire.
"Ben…"
Lo chiamò, cercando di intrufolarsi in quel monologo metallico, ma senza alcun successo. Il robot si aggirava noncurante, sollevando e mettendo in disordine cose, sedendosi e poi rialzandosi dal suo letto, muovendosi come una vera e propria pallina impazzita.
"Jim amico mio, lasciati dire che questa stanza non è di certo un tripudio di eleganza, e con questo non voglio dire che tu non sia elegante, solo la tua stanza…Non lo è. Ripensandoci poi, ha un non-so-che tipico della casa in cui ho vissuto…Sai quando ci siamo conosciuti? Ah, bei tempi…"
"Ben!"
Insistette lui, arrestandosi davanti a lui nel tentativo di mettere fine a quel viaggio logorroico privo di una conclusione. Il robot si fermò, sorridendogli amichevolmente, ammirandolo con quegli occhi smeraldini pieni di una certa tenerezza. Jim non poté non sorridere alla stranezza della sua espressione, appoggiandogli amichevolmente una mano sulla spalla metallica color bronzo e guardandolo con uno sguardo complice. Non si era mai pentito di averlo lasciato vivere nella locanda di sua madre, nonostante alcune mattine le sue irruzioni improvvise e caotiche accendessero in lui il desiderio di cercare qualsiasi circuito lo facesse parlare e strapparlo con forza.
"Dai Ben, andiamocene di sotto!"
Lo incoraggiò, quasi spingendolo via dalla sua camera per paura che, lasciato solo lì dentro, avrebbe potuto avere l'effetto di un tornado di passaggio. Fortunatamente Ben era il tipo di robot in grado di registrare una sola cosa per volta, cosicché bastava poco per distrarlo, facendogli completamente dimenticare quello che stava dicendo o facendo pochi secondi prima.
"Ah! La povera Sarah! E' una mattina intera che urla dicendo 'Jim, Jim, James…' e qualcos'altro, non ho ascoltato bene…Suppongo voglia vederti."
Jim abbozzò un sorrisetto alle parole dell'amico, cominciando a scendere la piccola rampa di scale che lo avrebbe introdotto nel grande salone, ancora vuoto di clienti. Si chiese che ore fossero…Doveva essere estremamente presto se quel luogo non brulicava ancora di bambini isterici e individui dalla dubbia personalità, del suono tintinnante delle posate che sfioravano i piatti e del tremendo risucchio della broda che alcuni visitatori simpaticamente si concedevano. Cercò con lo sguardo la porta che dava in cucina, sicuro di trovare sua madre affaccendata come sempre. Si affacciò un tantino, inondato dal vapore delle pentole che già sbuffavano i loro intensi aromi, ribollendo rumorosamente sotto i coperchi luccicanti, appena appannati da uno strato di vapore. Riconobbe un paio di occhi gemelli che vagavano senza sosta tra gli scaffali ricolmi di ingredienti, mentre dalle labbra sottili e socchiuse rantolavano parole borbottate sottovoce, incomprensibili.
"Mamma…"
"Jim! Quante volte devo chiamarti prima che tu ti svegli? Ho assoluto bisogno di te!"
Esplose la mamma, interrompendolo, con una cadenza polemica, mista ad una melodrammatica disperazione. Jim si appoggiò allo stipite della porta, sorridendo ai movimenti goffi con cui Sarah si muoveva in cucina. Più passava il tempo, più si convinceva che sua madre stesse assumendo il modo di fare caotico di Ben…Di sicuro non erano una coppia ben assortita.
"Devi assolutamente andare al mercato e comprarmi delle cose!"
"Cosa? Al mercato? Ma scusa, non ci sei andata proprio ieri?"
"E mi sono dimenticata delle cose, James."
Tagliò corto la madre, occhieggiandolo spazientita. I fumi di tutto quel cibo la irritavano molto, amplificando il suo solito tono già estremamente nevrotico. Jim la guardò, tentando di dissuaderla con lo sguardo…Il mercato? Non ci sarebbe andato neanche morto!
"Smettila di guardarmi così, non hai altra scelta…O meglio, ce l'avresti se accettassi di rimanere qui mentre io vado a comprare le cose che mi servono.."
Lo rimbeccò allusiva, assumendo quel sorriso compiaciuto e già vittorioso che Jim aveva inequivocabilmente ereditato da lei. Cercò di sostenere il suo sguardo, ma sapeva già che avrebbe perso…
"Ma sì, andremo io e il mio amico Jim! Il mercato, quanti ricordi…Aspetta, no, in effetti non ho molti ricordi…Anzi per niente! Non penso di esserci mai stato.."
Intervenne Ben, sprofondando in un dubbioso monologo con se stesso, mentre Jim si vedeva rifilare la lista fra le mani.
"Mi raccomando, non metterci troppo!"
Gli sorrise la madre, dandogli dei colpetti sulla spalla, prima di tornare alle sue faccende. Jim guardò torvo la sua schiena per qualche secondo, stropicciando la lista fra le dita, mentre Ben al suo fianco, si era improvvisamente esagitato all'idea di andare a fare compere al mercato.
"Rimanere lì a fissarmi con quegli occhi arrabbiati non ti aiuterà con la spesa.."
Lo derise Sarah, abbandonandosi ad un sorrisetto nascosto.
"Andiamo."
Si limitò a dire, dandole le spalle.
 
Il mercato di Montressor era un tripudio di grida, odori e creature di ogni sorta. Per un viandante appiedato non sarebbe stato affatto difficile rintracciarlo, dato che gli effluvi di quel luogo erano percettibili a chilometri di distanza, una scia densa e inconfondibile che portava dritto nel cuore di quel nevralgico formicaio. Le urla dei mercanti si accalcavano le une sulle altre, dando vita ad un insopportabile brusio in cui si alternavano tonalità diverse, cadenzando il tempo ad un ritmo sconnesso, disordinato. Le orecchie, una volta messo piede in quel luogo, venivano bersagliate da una cascata di offerte, prezzi, e gli occhi erano sferzati da una vivida esultanza di colori, così velocemente da intontire ogni senso; il compratore veniva così assalito da un senso di stordimento, cominciando ad aggirarsi smarrito fra quelle cornucopie traboccanti, facile e assai vulnerabile preda agli occhi avidi e privi di scrupoli dei mercanti adocchianti.
Ma Jim non era completamente estraneo a quel labirinto apparentemente privo di una via di fuga.
Sapeva bene come dileguarsi nel caso in cui qualcuno si fosse reso conto del tintinnio nelle sue tasche.
Strinse nella mano la lista di sua madre, dicendosi che sicuramente non gli sarebbe servita, dal momento che si era sforzato di imparare tutti gli oggetti che vi erano stati appuntati durante il tragitto. Si mostrava tranquillo, spavaldo, simile alla persona che era avvezza a girare fra questi luoghi di perdizione, sollevando di tanto in tanto le spalle, lasciando che gli occhi scivolassero da un banco all’altro, senza soffermarvisi troppo, convinto che in questo modo non avrebbe attirato sgradite attenzioni su di sè.
Aveva un piano. Semplice, Diretto. Non lasciarsi intralciare e concludere il prima possibile quella sgradita attività domestica.
Ma Ben non sembrava del suo stesso parere.
“Jim! Jim! Jim!”
La voce metallica del robot esplose al suo fianco non appena incrociarono il primo banco, mentre il ragazzo si sentiva afferrare per la manica della maglia con un’eccitazione tale da non premettere niente di buono. Ben cominciò ad indicare ossessivamente una serie di oggetti luccicanti che avevano attirato la sua attenzione, avanzando con occhi fissi su di essi.
“Ben! Ben lascia perdere!”
Gli sussurrò lui, mentre tentava di liberarsi da quella stretta ferrea, assicurandosi di non aver attirato l’attenzione del venditore. Il robot sembrava, però, essere diventato improvvisamente sordo.
“Ben! Dobbiamo andare!”
Lo sgridò, dimenando il braccio. Gli occhi smeraldini di Ben parevano essersi fatti ancora più grandi, quasi volessero divorare in un colpo solo gli oggetti in esposizione.
“Ben, per la miseria!”
Pronunciò a denti stretti, sentendosi tirare verso il banco con una forza tale da urtarlo. Il mercante rivolse subito lo sguardo accigliato su di lui. Il viso, imbardato di orribili sacche di grasso impietosamente accumulate su ogni lineamento, tanto da renderlo deforme, era tinto di un malsano colorito verdastro, su cui spiccavano due occhi porcini scuri, tenebrosi, che riverberavano una strana scintilla. Jim abbozzò un mezzo sorriso, inarcando con sforzo un anglo della bocca, mentre con gli occhi tornava a cercare il volto bronzeo dell’amico, scomparso.
“Ti interessa la mia mercanzia?”
Ruttò il mercante con una voce ruvida, grassa, che rispecchiava appieno la sua figura cadente e rotonda, avvolta in luridi stracci a righe di cui si era ormai persa ogni traccia di colore.
Jim tornò a fissare il venditore torvo, che aveva ora incrociato le pelose braccia sul petto villoso, piegando in avanti la testa in modo da assumere un’espressione più rabbiosa e gonfiano quelli che forse lui riteneva essere dei pettorali, ma che in realtà avevano più l’aspetto di un seno cadente,
Nella sua testa maledì la sconfinata capacità di Ben di combinare guai, mentre tentava di assumere un’espressione rilassata e disinvolta, reprimendo una smorfia di disgusto che quell’uomo aveva inevitabilmente strappato al suo volto.
Si mise le mani in tasca, alzando le spalle, limitandosi a scuotere la testa con troppo vigore, prima di disperdersi nella fiumana di persone alle sue spalle,  
“Ben!”
Urlò non appena si trovò lontano dagli occhi del mercante, cercando preoccupato l’amico. Volti sconosciuti si susseguivano davanti al suo sguardo, ingombrandolo, rendendo impossibile distinguere la siluette minuta del robot.
“Ben!”
Gridò più forte, convincendosi che le cose non sarebbero andate come si era ripromesso.
 
Lo trovò incollato ad un banco su cui erano esposte strane creature esanimi, con un braccio penzolante lungo il fianco, mentre l’altro sfregava ossessivamente il mento piatto. Jim si avvicinò con espressione esasperata, convinto a strapparlo da qualsiasi idea gli fosse balenata fra i circuiti.
“Ben! Non sai quanto ti ho cercato!”
Lo rimproverò, dandogli una leggera spinta sulla spalla e assumendo un tono sbadatamente polemico. Il robot non lo degnò di uno sguardo, preso com’era nell’esaminare quello che sembrava essere un polpo su cui troneggiava un terzo occhio, lucido come uno specchio.
“Ben!”
Lo riprese di nuovo, afferrandolo questa volta per il braccio meccanico, scuotendolo per evitare di trascinarlo. Ben ruotò gli occhi su di lui con fare annoiato, quasi si stesse chiedendo perché ci avesse messo tanto. Jim si trattenne.
“Andiamo! Siamo qui da mezz’ora e non abbiamo comprato ancora nulla.”
Gli diede le spalle, sperando che il robot l’avrebbe seguito. Il cigolio inconfondibile delle ginocchia bronzee si unì ai suoi passi, confermando che anche stavolta era riuscito a strappare Ben dall’ennesima distrazione. Ma sapeva che sarebbe stato solo per breve tempo, la sua curiosità innata ci metteva ben poco a risvegliarsi…Dovevano sbrigarsi.
Faticò a trovare tutte le cose richieste da sua madre. Le continue interruzioni di Ben e la difficoltà nel trattare i prezzi con i venditori gli avevano fatto impiegare più del tempo previsto. Contro i suoi pronostici, si trovò costretto a ricorrere alla lista in più di un’occasione, depennando ogni volta le merci acquistate per evitare di confondersi; provava un certo senso di imbarazzo nel doversi aggirare fra quei banchi con il foglietto parato, a mo’ di distintivo, davanti al viso, lasciando che fosse questo ad annunciarlo di volta in volta ai mercanti.
Si disse che questa sarebbe stata l’ultima volta. L’ultima. Non sarebbe più andato a fare compere per conto di sua madre. E mentre si avvicinava all’ultimo banco, con le mani già ingombre di sacchi di carta traboccanti, i suoi occhi scorsero qualcosa di inaspettato.
Si fermò di colpo, tornando a guardare con più attenzione, per convincersi che quella che aveva visto…Era veramente una mano! Strizzò gli occhi, corrugando la fronte, mentre il suo viso si tinteggiava di una vivida curiosità. Strinse di più i sacchi con le braccia, per evitare che gli cadessero, senza però distogliere l’attenzione da quell’insolita visione.
Una mano. Bianca. Una mano bianca che spuntava da un vicolo. Aggrottò di più le ciglia. Si disse che forse era solo un ubriacone che la sera prima aveva esagerato con l’alcool e che si era lasciato cadere ovunque si trovasse, colto dall’improvvisa stanchezza. Cosa ci sarebbe stato di strano? Di sicuro, quella era una scena che si era vista più di una volta, e dunque era insensato che lui perdesse tempo a guardare e ad immaginarsi storie. Fece per andarsene, ma il suo istinto lo tenne immobile, ancorato con i piedi in quel punto preciso.
Una mano canuta dalle dita sottili, rese eleganti da un accenno di unghie inspiegabilmente sporche di terra, faceva capolino da un vicolo. L’idea solleticava irresistibilmente la sua curiosità.
Assorto com’era in quella che per lui era un’insolita visione, non si accorse che Ben, interessato dall’attenzione con cui Jim stava fissando il vuoto, gli si era fatto più vicino, cercando di capire dove puntassero quegli occhi turchini. Poi la vide.
“Emh…Quella è una mano?”
Proruppe il robot, quasi facendolo trasalire. Jim annuì sbadatamente, scrollando le spalle deciso a dirigersi verso l’ultimo banco. Ancora una volta, Ben non era d’accordo. Lo vide partire con una certa decisione verso il vicolo, lasciando ciondolare ad ogni passo quelle spalle scheletriche, al ritmo di una canzone che si canticchiava nella testa.
“Ben! Dove stai andando?”
Aveva perso il conto ormai di quante volte avesse pronunciato il suo nome quel giorno. Strinse istintivamente le mani attorno alle buste, sbattendo un piede a terra nell’intento di attirare la sua attenzione.
“Ben, torna qui!”
Gli intimò a denti stretti, per non urlare. Ma Ben si lasciava guidare dalla sua curiosità verso quel vicolo, facendosi sempre più vicino, sempre più smanioso di rivelare qualsiasi essere si nascondesse dietro quello spicchio di mattoni.
“Ben!”
Senza accorgersene, Jim cominciò a seguirlo, mentre il robot voltava l’angolo di quel vicolo. Allora cominciò a correre, preso da una strana paura mista ad ansia. Lo raggiunse. Si fermò di colpo. Le buste minacciarono di cadergli dalle mani, ma la sua presa sicura fu abbastanza repentina da afferrarle in tempo. Gli occhi non riuscivano a staccarsi dalla visione che lo investì.
“Ma….E’…”
“Una ragazza”
Terminò la frase Ben, con tono che tentava di scimmiottare quello di un ispettore. Si portò le dita affusolate alla bocca larga, fingendo di esaminare il corpo fanciullesco che se ne stava supino in una pozza d’acqua, fradicio. Jim lo osservava estasiato, quasi ci fosse qualcosa di indicibilmente magico e appagante in quel profilo di porcellana nascosto da una cascata di ciocche fulve umide. Si riscosse.
“Avanti Ben, andiamo”
Gli disse, tentando di dare le spalle a quel volto candido difficile da scorgere. Ben lo fissò dubbioso. Poi, senza preavviso si piegò e raccolse la ragazza, non senza una certa fatica. La veste logora aderiva completamente a quel corpo minuto, la pelle resa quasi grigiastra per il freddo che aveva dovuto patire. Jim lo fissò sbarrando gli occhi.
“Pronto!”
Squillò Ben sorridente.
“Che stai facendo? Non possiamo portarla con noi!”
“Perché no? Stava qui per terra, non è di nessuno…”
Rispose prontamente il robot, sollevando le spalle, aggrottando la fronte meccanica e fissando gli occhi sull’amico preso da inspiegabili ansie.
“Rimettila dov’era…Non sappiamo nemmeno chi sia!”
Ribatté il ragazzo, cercano di far appello al buon senso di Ben.
“Una ragazza bagnata svenuta dietro un vicolo.”
Jim sentì cadergli le braccia per l’ovvietà di quell’osservazione. Possibile che non capiva?
“Avanti Ben…Insomma…Non puoi andartene in giro a raccogliere ragazze sconosciute nei vicoli!”
Replicò, indicando il corpo esanime che teneva fra le braccia. Ben lo guardò senza capire l’agitazione dell’amico. Poi improvvisamente sollevò le spalle, convinto.
“D’accordo la rimetto apposto!”
Cinguettò, adagiando il corpo a terra. Non appena ebbe sfilato la mano da sotto la spalla della ragazza, un tintinnio curioso riempì il silenzio del vicolo, subito seguito da uno scintillio insolito. Gli occhi di Jim e Ben rotearono all’unisono dietro i movimenti dell’oggetto che sembrava essere scivolato dal corpo della giovane, rimanendo immobili finchè il rumore non tacque.
“Cos’è?”
Chiese Jim, avvicinandosi incuriosito.
“Un medaglione.”
Rispose pronto Ben, rivolgendo subito gli occhi sgranati verso la ragazza.
“Dici che se la scuoto ancora un po’ riusciamo a scoprire qualcos’altro?”
Propose Ben ammiccando, ironizzando un po’.
Ignorandolo, Jim raccolse l’oggetto che era vorticato a qualche passo da loro; lo guardò con curiosità, rigirandolo fra le dita, ispezionando ogni curva che incideva il metallo…Poi un lampo si accese sul suo volto. Si voltò verso la ragazza immobile, così pallida da sembrare morta. Non è possibile. Si disse, aggrottando la fronte, mentre con gli occhi squadrava quel viso nascosto da ciocche arruffate e scombinate, nel tentativo di leggervi qualcosa. Non è possibile.

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Capitolo 3
*** Diavolo Rosso ***


CAPITOLO 3

Diavolo Rosso


La luce entrò vivida ed intensa nella stanza, ricacciando indietro senza alcuna remora ogni traccia di ombra, incedendo con sfolgorante passo fino a sfiorare le pareti, prima di adagiarsi morbidamente sul pavimento di legno, riscaldandolo. Le finestre, sciolte dai vincoli delle tapparelle, vennero spalancate, lasciando che una dolce brezza calda si mischiasse all’aria viziata, ricacciandola fuori.
Uno strano silenzio aleggiava nella camera.
Sarah abbandonò, stanca, la schiena sulla sedia, liberando dalle labbra soffici un sospiro rumoroso, che percosse il mutismo di quegli attimi. La mano sottile salì subito alla fronte, massaggiandola e scoprendola dai ciuffi castani che la ingombravano, nel tentativo di restituire un certo ordine a quella chioma arruffata. Aveva la fronte corrugata, attraversata da piccole rughe che, rapide, correvano ad infossarsi ad ogni minimo movimento del volto, esplicitando sgarbatamente la sua età. Chiuse gli occhi, convincendosi di non volerli riaprire. Il buio la calmava. Il silenzio la consigliava. Ascoltava sbadatamente i battiti leggeri del suo cuore che a malapena le salivano alle orecchie, respirando lentamente per renderli ancora più fiochi. Piano, la fronte si distese.
Un mugugno, Gli occhi chiari di Sarah si aprirono di colpo, correndo rapidi al volto della giovane sconosciuta che se ne stava distesa sul letto, di fronte a lei. Fece subito per alzarsi, preoccupata che si stesse risvegliando. Il volto cereo della ragazza era imperlato di goccioline che scintillavano luminose al tocco dei raggi solari, creando una ragnatela di improbabili stelle sulla pelle candidissima. Si piegò in avanti, su di lei, passandole un panno bagnato sulla fronte nel tentativo di ridurre il calore scottante che emanava. Sarah la vide schiudere le labbra per rigettare un nuovo mugolio, prima di zittirsi. Perlomeno era ancora viva.
Si lasciò ricadere di nuovo sulla sedia, con più pesantezza stavolta, tanto che l’oggetto scricchiolò di protesta. Come gli era venuto in mente a quei due? Presentarsi alla locanda con quella giovane moribonda…Sarah era furiosa. Le gote erano accese di un rosa intenso, facendo risaltare l’azzurro chiaro dei suoi occhi, due cristalli inquisitori che troneggiavano sul suo volto. Contrasse le labbra, mordendole. Eppure, me lo sarei dovuto aspettare, si disse quasi giustificandoli. Jim era sempre stato un ragazzo molto impulsivo; agiva seguendo le regole dettate dal suo cuore e lei ogni volta si era sentita impotente davanti alla determinazione che splendeva in quegli occhi turchini. Sorrise rassegnata a quell’idea , mentre le gote sfumavano nel rosa pallido che le apparteneva.
Osservava in silenzio il corpo della sconosciuta muoversi appena, spinto dai fievoli respiri che le alzavano il petto come se da dentro qualcuno continuasse a bussare seguendo un ritmo irregolare, debole. Aveva la febbre alta. D’altronde l’avevano trovata stesa in un vicolo al freddo, completamente fradicia e con indosso solo una vestaglia strappata e sporca. Sarah si chiese da quanto tempo fosse stata lasciata lì. Occhiaie grigiastre facevano ombra allo sguardo chiuso della ragazza, rendendo il volto scavato, più di quanto già non fosse; le labbra carnose, prima violacee, avevano ora assunto un colorito più vivido, intenso, tinte dal calore del sole che le sfiorava con le sue dita luminose. Sarah si portò lentamente una mano alle bocca, coprendola, mentre gli occhi rimanevano immobili su di lei. Si sarebbe svegliata. Ne era sicura. E allora avrebbero saputo ogni cosa.
 
Ben continuava a ciondolare nel salone ingombro di tavoli spogli, disegnando nel silenzio una sgangherata melodia di cigolii e scricchiolii che accompagnava il passare lento di quei minuti pigri, i quali sembravano aver perso qualsiasi desiderio di rincorrersi sul ventre dell’orologio. Canticchiava tra sé e sé, per intrattenersi, accennando piccoli movimenti con le braccia, completamente scoordinati.
Jim, all’altro capo del salone, se ne stava accovacciato con la schiena contro il muro, le ginocchia contro il petto e tra le mani il medaglione. Non aveva smesso un attimo di fissarlo. Lo rigirava davanti al volto come se ne fosse ipnotizzato, la fronte aggrottata e le labbra serrate. Si era chiuso in un silenzio profondo, riflessivo, immergendosi nei propri pensieri, mentre il riflesso scintillante di quell’oggetto si proiettava nelle sue iridi, impossessandosene. Ben, di tanto in tanto, gettava uno sguardo interrogativo verso l’amico silenzioso, chiedendosi il perché di tutta quella serietà nell’espressione. Ma poi, accorgendosi di aver perso il filo, si distraeva e tornava e intonare per l’ennesima volta, dal principio, la canzoncina con cui si teneva occupato.
Passi per le scale. Jim alzò d’impulso lo sguardo, riconoscendo la siluette della madre avanzare giù per i gradini, verso di lui. Anche Ben si zittì, avvicinandosi. Il ragazzo scattò in piedi non appena Sarah gli fu a pochi passi, gettando gli occhi in quelli gemelli come a volerli interrogare. Lei sorrise dolce.
“E’ ancora incosciente.”
Sentenziò la donna, spostando lo sguardo anche sul robot.
“Ma ha smesso di lamentarsi e la febbre sembra essere scesa.”
Aggiunse per dare sollievo al figlio. Jim annuì, spostandosi a sedere sulla sedia di un tavolo vicino, subito imitato dalla madre.
“Cos’hai in mano?”
Chiese Sarah curiosa, vedendo uno strano luccichio trapelare tra le dita del ragazzo. Jim abbassò sbadatamente gli occhi sulle proprie mani, prima di posare con eccessiva delicatezza il medaglione sul tavolo, davanti alla madre. I due rimasero in silenzio per qualche attimo, studiando l’uno l’espressione dell’altro.
“Dove l’hai preso?”
Domandò Sarah con una nota di allarme nella voce, squadrandolo. Jim si rigirò i pollici, sfoderando la sua solita espressione distaccata, fingendo di guardare altrove.
“Lo aveva addosso la ragazza.”
Bofonchiò, rigettando lentamente la schiena sulla sedia e incrociando le braccia dietro la testa, pensieroso. Gli occhi ricaddero inevitabilmente di nuovo su quell’oggetto che scintillava sul legno del tavolo come una fiamma.
Nel frattempo anche Sarah si era fatta dubbiosa, ma non osava sfiorare il medaglione, incrociando ossessivamente le dita fra di loro, quasi a voler reprimere qualsiasi impulso ad avvicinarvisi.
Un nuovo silenzio si distese sui due, lasciandoli perdersi nei loro pensieri. Jim dentro di sé fremeva, contraendo le labbra spasmodicamente per evitare che le parole gli uscissero di bocca. Nonostante tentasse di mostrarsi indifferente, il suo volto tradiva qualsiasi emozione gli ballasse in petto. Nella testa non riusciva a liberarsi da quell’immagine, che continuava a ripresentarsi ancora e ancora, un flash che non smetteva di esplodere.
“Cosa c’è Jim?”
Domandò infine Sarah, notando come la fronte del figlio sprofondasse, attimo dopo attimo, in un incupimento torvo, corrugandosi come un foglio di carta gettato nelle fiamme. Jim aveva gli occhi totalmente persi nel medaglione, sferzati da un’intensa scintilla di timore, un ricordo antico che affiorava nei meandri della sua mente.
“Ho come la sensazione…”
Cominciò a dire, con la voce grattata dal lungo silenzio.
“Ho la sensazione di aver già visto questo medaglione…”
Pronunciò, lasciando che il termine della frase si perdesse nel silenzio della sala. Socchiuse gli occhi, lasciando le labbra semiaperte, quasi volessero dire di più, mentre le sopracciglia si arcuavano in un’indecifrabile espressione. Sarah si sforzò di capire, ma aveva perso la capacità di accedere ai pensieri di suo figlio molto tempo fa, sentendosi privata di quel dono, ospite indesiderato fra le riflessioni di Jim. Si risolse di appoggiare i gomiti sul legno duro del tavolo, facendo le mani più vicine all’oggetto scintillante davanti a lei.
“Cosa intendi dire? Dov’è che lo hai già visto?”
Domandò indiscreta, lasciandosi sopraffare dal desiderio di sapere, di condividere, di divorare ogni parola gli scorresse nella testa. I silenzi di suo figlio erano indicibilmente pesanti e difficili da sostenere, un macigno che si ingrossava ogni attimo di più, schiacciandola.
Il ragazzo, soggiogato dall’assurdità dei suoi pensieri, ubriacato dall’inebriante contemplazione di quel mistico oggetto che se ne stava inerte proprio davanti a lui, sorrise inaspettatamente, illuminandosi. Poi si fece subito serio, cominciando a scuotere la testa e riducendo gli occhi a due semplici fessure.
“Ma…Non è possibile…”
Sussurrò con un filo di voce, quasi si rivolgesse esclusivamente alle orecchie invisibili del medaglione, ignorando le domande, la presenza stessa della madre.
“Non può essere”
“Cosa Jim?”
Lo interruppe la madre, cercando i suoi occhi, le sue mani. Jim si risolse di alzare lo sguardo, puntandolo in quello della madre con una forza tale da disturbarla, quasi fosse la lama di un coltello che affondava dentro di lei.
“Quel medaglione…Io, l’ho già visto…Sul Pianeta del Tesoro”
Sentenziò infine, con un certo timore nella voce. Sarah sgranò gli occhi.
“Al collo del Capitano Flint.”
Aggiunse poi, con una certa gravità nella voce. Sarah rimase frastornata all’udire di nuovo quel nome…Un nome che sperava di aver seppellito molti anni fa e che oramai riteneva relegato tra le pagine ammuffite di vecchi racconti. Si posò una mano sulla fronte, come a volerla sorreggere.
“Ma le incisioni…”
Continuò Jim, senza badare alla madre.
“Sono diverse.”
“Il Pianeta del Tesoro è stato distrutto, James”
Tagliò corto Sarah, fingendo un sorriso là dove ombreggiava un timore profondo. Jim la osservò stranito. James. Di solito ricorreva al suo nome quando la discussione si stava facendo troppo scomoda e lei voleva troncarla prima di andarvi troppo a fondo.
“Ricordi? Non c’è alcun motivo di tornare a parlarne.”
Aggiunse, sforzando un tono di voce mieloso e stonante.
“Già…Ma mi chiedo come quella ragazza ne sia entrata in possesso…”
“Adesso basta con le cacce ai fantasmi, Jim!”
Si innervosì Sarah, fissandolo autoritaria. Aveva già lasciato una volta che il figlio rischiasse la propria vita per rincorrere un sogno improbabile. Non avrebbe permesso che accadesse di nuovo, che il germe di un’altra fantasia s’insinuasse nella sua testa.
Jim fece per controbattere, quando un grido acutissimo sferzò il silenzio, facendoli sobbalzare. Sgranarono gli occhi all’unisono, ricacciandoli l’uno in quelli dell’altra, mentre le loro mani si afferravano con un istintivo gesto di protezione.
“Dov’è Ben?”
Domandò il ragazzo, guardandosi intorno ed ispezionando la sala da pranzo. Solo in quel momento si accorse del mutismo che l’avvolgeva. Entrambi puntarono lo sguardo verso la cima delle scale.
 
Ben era accantonato in un angolo della stanza, le ginocchia completamente schiacciate contro il petto, e le dita sottili gettate alla rinfusa sulla testa piatta, come a volerle fare da scudo contro le grida che avevano cominciato a piovergli addosso senza preavviso.
Jim lo trovò così non appena fece il suo ingresso nella camera assolata.
Indugiò sulla soglia.
Nella parte opposta della stanza, in piedi sul letto, c’era la sconosciuta,  il volto inghiottito dalla paura e brandente un cuscino dal terribile aspetto innocuo.
Quell’immagine lo paralizzò per lo stupore e per la sua assurdità, rendendolo incapace anche solo di fare un passo, lasciandolo immobile sullo stipite della porta.
“Non ti muovere!”
Gli intimò la giovane, puntandogli contro un dito inquisitore, mentre con lo sguardo continuava a viaggiare da Ben a lui, con una frequenza tale da sembrare una pallina impazzita.
Il corpo minuto era completamente sprofondato nei rigonfiamenti della vecchia camicia da notte, eccessivamente larga per lei, che le ricadeva abbondantemente oltre i polsi, nascondendole i piedi e dandole il buffo aspetto di un orribile copriteiera; i capelli, finalmente asciutti, si arricciavano vaporosi fino al seno, risplendendo, simile ad una corona, di un rosso vivido al tocco della luce del sole che li incendiava.
Un diavolo rosso, pensò istintivamente Jim, ricordando le parole di un vecchio marinaio ubriaco e farneticante che giurava di aver visto una sirena, da qualche parte, chissà dove, nell’universo.
“Jim! Cos’è successo?”
Gridò Sarah raggiungendolo. Anche lei rimase attonita alla vista di quell’insolita scenetta.
“Jim! Jim aiutami!”
Bofonchiò Ben con voce bassa, per paura che la strana ragazza si ricordasse della sua presenza e gli lanciasse ancora contro urla e cuscinate.
“Ben che diavolo ci fai qui?”
Domandò Jim, ridestato. Il robot cercò di alzare le spalle per esplicitare il suo frainteso coinvolgimento in quella faccenda, ma la ragazza, rapida, gli lanciò contro il cuscino, abbandonandosi ad un grido.
“Vuoi calmarti?”
Gli si rivolse Jim spazientito. Il rumore assordante della sua voce cominciava davvero a dargli sui nervi. La ragazza gli puntò contro due iridi di topazio.
“Chi siete? Come sono finita qui?”
Si guardò intorno allarmata.
“Dove diavolo sono?”
Alzò il tono della voce, arraffando un altro cuscino, convinta che in quel modo avrebbe estorto le informazioni che le premeva di sapere.
“Prima devi calmarti…”
“Non dirmi quello che devo fare.”
Gli controbatté lei acida, stizzita da quella che le sembrava un’assurda richiesta. Nel silenzio che seguì quell’attimo una risatina si sparse nella camera e gli occhi di tutti si rivolsero contro il robot, ancora accovacciato nell’angolo.
“Ha carattere la ragazza!”
Si complimentò Ben, prima che il lancio di un altro cuscino lo prendesse in pieno volto, accompagnato dal solito grido. Il robot si coprì di nuovo, rivolgendo lo sguardo implorante verso l’amico.
“Jim, ti prego, falla smettere! Non amo che mi si lancino addosso oggetti contundenti!”
“Era un cuscino, Ben!”
Gli rispose Jim, aprendo le braccia esasperato.
“Ehi, non sono stato invitato per un ‘test morbidezza’, d’accordo?”
Disse Ben stizzito, rivolgendo un’occhiataccia alla ragazza finalmente disarmata. Forte del fatto che i cuscini fossero finiti, si alzò finalmente in piedi con una certa strafottenza nei modi, appoggiando in modo teatrale le mani sui fianchi e fissandola con aria di sfida.
“Ah! Non fai più la dura, ora che non ti rimane più alcun cuscino da tirarmi, eh?”
Ma prima che potesse completare la frase, gli venne scagliato contro un moccoletto che la ragazza aveva trovato appoggiato vicino al suo letto. Il robot svenne a terra in un frastuono di ferraglia.
“Insomma la vuoi smettere di lanciare cose?”
Gridò Jim, indispettito. La ragazza lo fissò con la fronte aggrottata.
“D’accordo adesso diamoci una calmata!”
S’intromise Sarah, mettendosi fra i due.
“Tu”
Disse rivolgendosi al figlio.
“Porta Ben giù di sotto. E tu..”
Aggiunse fissando la ragazza.
“Scendi da quel letto!”
I due rimasero ancora per qualche istante a fissarsi in cagnesco, aspettando che l’altro facesse la prima mossa.
“Intendevo subito!”
Intimò allora Sarah, comprendendo che di quel passo non sarebbero andati da nessuna parte. Trasalendo i due ubbidirono. La ragazza si accovacciò a gambe incrociate sul letto, senza distogliere lo sguardo inquisitore da Jim che, nel frattempo, aveva aiutato Ben a rialzarsi in un nuvolo di balbettamenti senza senso. Uscì dalla stanza con calma.
“Un diavolo rosso.”
Bofonchiò Jim, imitando quel marinaio, prima di chiudere la porta dietro di sé.
 
Ci volle poco prima che Sarah si rendesse conto di quanto fosse stordita e disorientata quella ragazza.
Dopo la furia iniziale si era improvvisamente ammansita, forse persuasa dal suo fare gentile, o forse perché la convalescenza l’aveva privata delle poche forze che le erano rimaste e che aveva sprecato per quella scenata. Qualsiasi cosa fosse, sentì nascere in lei, attimo dopo attimo, un inspiegabile sentimento di affetto, di compassione per quella giovane terrorizzata che la fissava.
“Riesci a ricordare qualcosa?”
Le domandò amabilmente, sedendosi accanto a lei e stringendole le mani con un certo vigore, mentre con lo sguardo si perdeva nel suo volto, in cerca di risposte. La vide scostare lentamente gli occhi verso le proprie mani, quasi mettendosi a ricercare le parole nel lenzuolo sgualcito, increspando eccessivamente la fronte in una dolce espressione di smarrimento.
“Niente…Non ricordo niente.”
Balbettò infine incredula con un filo di voce, le lacrime agli occhi che rivolse immediatamente nei suoi, forse sperando di leggervi conforto, che, però, non trovò.
Ebbe un tuffo al cuore, sentendo il petto stringersi e i muscoli diventare deboli. Sarah le carezzò il volto, preoccupata, cercando di infonderle sollievo.
“Ricordi….Ricordi come ti chiami?”
Chiese già consapevole della risposta, tentando di dare un nome a quel visino spaurito, di una diafana delicatezza. La ragazza scosse la testa spasmodica, lasciando che alcuni ricci le nascondessero il viso, prima di abbandonarsi a rombanti singhiozzi che le si arrampicarono nella gola, soffocandola, mentre ricadeva fra le braccia affettuose di quella donna.
Strinse la mano a voler afferrare le sue vesti, stropicciandole, mentre a stento ricacciava gli occhi fuori dalla finestra, non riconoscendo nulla di familiare in quel paesaggio luminoso, sgombro di nuvole.
Si sentì accarezzare i capelli e la sua testa sprofondò sempre di più in quel petto caldo e profumato, stringendolo, aggrappandosi all’unica cosa che in quel momento le offriva sicurezza, senza riuscire a privarsi dell’ingombrante convinzione di trovarsi sospesa in un luogo che non le apparteneva, che non riconosceva in nessuna cosa.
Tutto questo la terrorizzava, rendendole il respiro affannoso, il cuore tumultuante, lo sguardo lucido e perso. A chi poteva chiedere risposte? Se quella donna veramente non sapeva chi lei fosse, a chi si sarebbe potuta rivolgere? Fu in quel momento che venne assalita da un terribile e galoppante senso di solitudine, di smarrimento, al quale non poteva né sapeva porre rimedio.

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Capitolo 4
*** 699 Hela ***


CAPITOLO 4

699 Hela


Eos sciolse dolcemente la sua rosea chioma.
La osservò, in silenzio, disperdersi fluida nel cielo scuro, sospinta dal vento, mentre affondava distrattamente le lunghe dita nelle ciocche morbide, strappando via le ultime ombre che increspavano il firmamento e lasciando dietro di sé una scia di tenui ed eteree tinte. Era il preludio dell’aurora. Aspettava pazientemente, rivolgendo i candidi occhi all’orizzonte nel tentativo di scorgere il dorso luminoso del fratello incendiare il cielo, cacciandola via con il suo fulgore, troppo accecante per lei. Nell’attesa dipingeva viziosamente bianche striature di nuvole che sferzavano il mattino, alitando dalle suadenti labbra una delicata brezza che sapeva di primavera.
Lentamente i suoi capelli cominciarono a infiammarsi di vividi colori, stendendo sfumature indescrivibili.
In quella mattina di dolce candore, una ragazza se ne stava in silenzio a contemplare il mondo, dall’alto del suo davanzale, simile ad una principessa imprigionata che scruta l’orizzonte in cerca della propria salvezza.
Il vento caldo le sfiorò il viso, scostandole con una carezza i ricci fulvi indomabili che se ne stavano pigramente arruffati sulla fronte. Abbracciò malinconica una gamba, premendola con forza contro il petto, e lasciando che l’altra oscillasse senza vita, disegnando distratti cerchi rotti nel vuoto. I piedi nudi vennero solleticati dalla brezza mattutina.
Aveva il volto disteso, privo di quelle espressioni che avrebbero potuto tradire il nuvolo di pensieri che le ingombravano la mente; fissava determinata un punto imprecisato nel cielo, forse alla ricerca del primo balugino di sole. Di tanto in tanto si bagnava distrattamente le labbra turgide, rese secche dal lungo silenzio nel quale si era esiliata, trattenendo i sospiri che le si accalcavano, mesti, nel petto, sforzandosi di ricacciare indietro quella tristezza che le pesava gravosamente sulle spalle e sul cuore.
Una sensazione, quella, che la soffocava, la stringeva, simile al fastidioso abbraccio di una coperta che riscalda troppo, ma del quale, una volta privi, se ne sente subito il bisogno. Abbassò gli occhi. Delle volte quell’impressione di oppressione si presentava così vivida, così intensa, da renderla incapace di contrastarla. E in quel momento, con il mondo sfiorato dai rosei raggi dell’alba che lo rendevano incredibilmente nostalgico, si sentì sopraffatta.
La ragazza senza nome.
Ecco quello che era.
Nella brezza mattutina, con il cielo che s’incendiava di un turbinio di vivide tonalità calde, la solitudine della propria esistenza si presentò violenta, arricciando le sue labbra e pronta a spegnere con un soffio la meraviglia di quel mattino, lasciandole intorno solo il buio, il vuoto.
La ragazza senza nome, ripeté fra sé e sé, con un sussurro di voce.
Un appellativo scritto indelebile nella sua mente, un manifesto che sentiva di portare inciso sulla pelle e del quale si sarebbe volentieri sbarazzata. E ci aveva provato. Davvero. Ma quello si ripresentava ostinato in ogni suo pensiero o atto, lasciando che dilagasse in lei un inspiegabile impressione di inesistenza.
Socchiuse gli occhi, abbandonando la testa indietro, mentre osservava il sole sorgere pigramente spegnendo le ultime stelle tardive con il suo soffio di luce.
Gli occhi le bruciavano per il sonno di cui si era volutamente privata, mentre la bocca si riempiva dei sbadigli pigri che salivano grattandole la gola, spargendo un po’ di rumore in quel mutismo che oramai si era fatto insopportabile. Prese a respirare con calma, allontanando per l’ennesima volta tutta la tristezza che le si era accumulata nel cuore, lasciando che fosse la brezza del nuovo giorno a trasportarla via con sé, lontano, in quell’universo sconfinato del quale lei riusciva appena a scorgere un lembo dalla sua finestra.
“Già sveglia?”
Quella domanda, quella voce, la fecero trasalire, minacciando di farla cadere dal davanzale. Si aggrappò con forza al legno, quasi d’istinto, mentre in petto sentiva esplodere un tumulto di battiti. Si lasciò sfuggire un gridolino di sorpresa mentre tentava di recuperare stabilità, simile ad una maldestra e sgraziata equilibrista caduta in fallo. Ripresasi, ruotò curiosa lo sguardo sulla soglia della camera, alla ricerca delle labbra che avevano pronunciato quelle parole, intravedendo una sfumata sagoma nera che se ne stava oziosamente addossata sullo stipite, le braccia incrociate e la testa leggermente inclinata. Una smorfia di fastidio le incrinò i volto.
“Potrei farti la stessa domanda…”
Sussurrò con voce secca, accentata di noia, alzando rapidamente un sopracciglio e accennando un sorriso falso, quasi inutile.
Era troppo presto per prendersela con quel ragazzo sbruffone.
Gli diede le spalle senza pensarci, tornando ad ammirare la lenta ed inevitabile fuga dell’aurora che lasciava il posto al nuovo giorno, suo eterno inseguitore, sentendo la mente diradarsi tra quei pensieri tristi, quasi farsi vuota.
Udì i passi del giovane scricchiolare nella stanza, farsi sempre più vicini, ma i suoi occhi erano troppo pigri, troppo stanchi ed arrossati per rivolgergli anche un minimo di considerazione. Non aveva voglia di incrociare quello sguardo cristallino, non voleva vedere la sua bocca, il suo naso, le sue gote...Si sentiva stanca, spossata, e la sola vicinanza con Jim non faceva che amplificare quella sgradita sensazione.
“Posso sedermi?”
Domandò quello non appena le fu a pochi passi. Sentì il profumo della sua pelle invadergli le narici, la sua presenza farsi sempre più intensa, più palpabile.
“No.”
Rispose breve, senza voltarsi, sprofondando di più nella contemplazione del cielo mattutino e sforzandosi di rivolgere la sua attenzione alle nuove tinte con cui il sole lo pennellava. Lo sentì sorridere scocciato, scalpicciare con i piedi sul pavimento.
“Potresti mostrarmi un po’ di cortesia, dato che sono stato io a salvarti!”
Gli ribatté Jim, rimanendo immobile dietro di lei, una mano a mezz’aria che la puntava.
La ragazza si limitò ad alzare le spalle annoiata, immaginando il fastidio che gli infliggesse con quel gesto. Lo sentì sbuffare, agitarsi, trattenersi dal dire qualcosa. Chissà perché sorrise all’idea del suo viso imbronciato, della sua fronte corrucciata, dello stupore che sapeva avrebbe trovato nel suo sguardo, misto ad una lieve scintilla di rabbia. Sorriso che si affrettò a nascondere.
Poi, inaspettatamente, mentre era così presa dai suoi pensieri, anche lui si sedette sul davanzale, ad un’esagerata distanza da lei, fingendo di scrutare l’orizzonte irraggiungibile.
Cercò di ignorare la sua presenza, di riprendere il malinconico filo dei suoi pensieri, ma il suo odore, il suo respiro, così dolcemente irritanti ai suoi sensi, le impedivano di farlo. La sua mente si sgombrava, come il sole, dopo una tempesta, sgomita fra le nubi nell’intento di recuperare il suo splendente trono nel cielo. Lo guardò seccata, contraendo le labbra in maniera alquanto buffa.
“Cosa vuoi?”
Gli chiese scortese, rivolgendo ora il viso, gli occhi, il corpo contro di lui con un vivido accento di fastidio, sperando che avvertisse di non essere affatto desiderato. Jim si limitò a sorriderle. Ma non c’era dolcezza in quel sorriso, solo un manifesto tono di sfida.
“Ora non posso nemmeno sedermi sul mio davanzale?”
“Si da il caso che sia arrivata prima io sul tuo davanzale’.”
Lo rimbeccò stizzita, arricciando il naso, la voce calma che tratteneva un’esplosione di rabbia. Jim la guardò torvo. Possibile che avesse sempre da ribattere quella ragazza?
“Si da il caso che questa sia la mia locanda.”
Gli rispose alzando la voce e puntandosi un dito sul petto ad enfatizzare quanto da lui detto, assumendo la stessa posizione della giovane. Erano due gatti pronti ad azzuffarsi.
“E questa la mia camera!”
Continuò lei con tono più alto, per vincere quello di lui, avvicinando il volto con fare minaccioso. Jim sostenne il suo sguardo corrugando le sopracciglia e stringendo le labbra, molestato da quella indescrivibile cocciutaggine che rimbombava nel tono della ragazza.
“Non vedo scritto il tuo nome da nessuna parte!”
Aggiunse allora, polemico, imitandola.
La giovane si trovò a bocca aperta, per la prima volta incapace di ribattere. Di nuovo, il velo malinconico dei suoi pensieri tornò a gravarle addosso, mentre l’odioso appellativo di “ragazza senza nome” si riaffacciava nel suo animo. Si zittì, ritraendosi, stringendosi il petto in un abbraccio senza affetto, mentre gli occhi scivolavano nuovamente nel paesaggio che si snodava sotto i suoi piedi.
Jim si stupì del suo mutismo, dicendosi in un primo momento che forse ce l’aveva fatta, era riuscito a zittirla; ma non appena scorse quella scintillante goccia rigarle il viso si sentì privato di tutta la soddisfazione di cui era gonfio pochi attimi prima. La guardò senza sapere cosa fare.
“Che fai, piangi adesso?”
Chiese senza capire, la voce balbettante e scortese. La vide sbrigarsi a ricacciare indietro quelle lacrime silenziose, ravvivando la chioma fulva, dissimulando.
“Macché, è solo che…E’ solo che mi è andato qualcosa nell’occhio…”
Arrabattò lei, poco convincente, dandogli le spalle il più possibile.
Lo odiava. Odiava quello stupido ragazzo, il suo modo di fare, le sue parole…Perché era venuto lì? Era così infinitamente divertente ricordarle la tristezza che sembrava averle dato tregua per qualche attimo? Si chiese perché fosse stato proprio lui a trovarla. Sicuramente un energumeno avrebbe avuto più tatto e cervello di lui. Si stropicciò gli occhi con rabbia, sentendo il fastidio per quel ragazzo crescere a dismisura.
Jim la osservò in silenzio mentre si sforzava di evitarlo, di fargli capire quanto non lo volesse lì accanto a lei. E lui se ne sarebbe andato volentieri! Nulla gli premeva di più in quel momento che alzarsi e allontanarsi da quel piccolo congegno ad orologeria con i capelli rossi. Ma aveva fatto un pasticcio, lo sapeva, e sua madre non gliel’avrebbe perdonato se fosse uscito da quella stanza senza prima rimediare.
Si grattò la testa con imbarazzo, guardandosi le punte dei piedi alla ricerca di qualcosa da dire.
Era così complicata! A parlare con lei si sentiva sempre come s’un campo minato. Tendeva l’orecchio alla ricerca di quel “click” che avrebbe innescato l’esplosione. In quel momento sapeva di trovarsi s’una mina con tutto il corpo.
Sospirò pesantemente, prima di riprendere il controllo, e si appoggiò al legno duro della finestra, la fronte inarcata in una ruga di preoccupazione. Poi, senza che si sforzasse, qualcosa da dire lo trovò.
“Hela.”
Pronunciò nel silenzio, senza però preoccuparsi di vedere se lei lo stesse ascoltando.
La ragazza si voltò verso di lui, lo sguardo interrogativo.
“Come, scusa?”
“Volevi un nome…Eccotelo.”
Si sbrigò a dire lui, ricacciando indietro qualsiasi gentilezza. Lei aggrottò la fronte, cercando di capire se nelle sue parole ci fosse una qualche ironia. Jim si sentì oppresso da quel silenzio, troppo denso, troppo greve. Si schiarì la voce.
“699 Hela”
Precisò.
“Era il nome di un asteroide”
“Aste…Aste, cosa?”
Tentò lei di pronunciare, trovando infinitamente strana e quasi buffa quella parola. Jim rise senza volerlo.
“Sai quei corpuscoli celesti che collidono tra di loro…?”
La frase gli rimase in gola quando notò il suo sopracciglio sollevato, chiaro sintomo di una nuova polemica in arrivo. Click. Pensò fra sé e sé.
“Quindi mi stai dicendo che sarei un asteirote!”
“No, non sto dicendo che sei un ‘asteirote’, o ‘asteroide’, dato che è così che si dice…”
La beffeggiò lui, notandola contrarre le labbra. Era a ruota libera. Il pensiero di rimediare al pasticcio che aveva combinato veniva ora, nella sua mente, scavalcato da un’irresistibile desiderio di infastidirla.
“Sto solo dicendo che continui a collidere contro di me, o meglio, contro qualsiasi cosa ti si avvicini. Come un asteroide.”
Aggiunse, notando l’espressione seria che lei si sforzava di mantenere.
“E poi…”
Continuò, tentando di farsi scudo da quegli occhi paglierini che se ne stavano fissi su di lui, quasi fossero quelli di un predatore.
“Quell’asteroide in particolare è perfetto per te.”
“E potrei sapere il motivo, sempre che non ti sia di peso dirmelo.”
Pronunciò monosillabica lei, rimanendo statuaria, immobile nella posizione che aveva assunto.
“Pare porti il nome di un’antica divinità…”
“Ah si, ma non mi dire.”
Rispose sarcastica, risolvendosi di scostare gli occhi da lui, muovendoli da una parte all’altra del paesaggio, senza una meta precisa. L’unica cosa che la premeva era evitare i suoi occhi, convinta che forse, non dandogli confidenza, avrebbe smesso di parlare. Jim se ne accorse.
“Già…Sembra che Hela fosse un’orrenda gigantessa, la regina del regno dei morti.”
Le sussurrò divertito, avvicinandosi il più possibile al suo orecchio. La vide irrigidirsi.
“Ma tu guarda, chi l’avrebbe mai detto che oltre ad un’innata capacità di infastidire la gente, tu possedessi anche il dono di conoscere storie che non interessano a nessuno.”
L’aveva colta sul vivo. Era irritata, agitata come uno sciame di vespe. Jim sentì una risata smuovergli il petto, ma tentò di dissimularla con un colpo di tosse.
“Se hai finito di borbottare a proposito di asteriodi e nomi…io avrei di meglio da fare che starmene qui a sentirti parlare.”
Gli sibilò a denti stretti, sperando che il ragazzo, nonostante la sua ignoranza, cogliesse il manifesto invito di andarsene e la lasciasse sola. Jim indugiò un pochino, ancora divertito, prima di alzarsi e muovere qualche passo verso l’uscio della stanza.
La ragazza si sentì sollevata di vederlo andarsene, dicendosi che ora sarebbe potuta tornare ai suoi pensieri, finalmente libera dalle sue chiacchiere e dai suoi insulti.
Ma quando Jim si trovò a pochi passi dalla porta, parve avere un ripensamento. Senza preavviso, si voltò nuovamente verso la ragazza.
Lei lo avvertì. Il cigolio dei suoi piedi sul legno le si era di nuovo fatto vicino. Lentamente, Jim avvicinò le labbra alla sua faccia, allarmandola. Passò un attimo che parve infinito, in cui il suo respiro caldo, profumato, le solleticò dolce la guancia. Sgranò gli occhi.
“E’ a-s-t-e-r-o-i-d-e…”
Cominciò a sillabarle. La magia di quel momento si frantumò. Lei, presa da un impeto di rabbia ed esasperazione, si voltò di scatto, facendolo trasalire. Il ragazzo esplose in una risatina leggera, mentre si allontanava rapido da lei, richiudendosi la porta dietro le spalle.
Rimase per qualche attimo immobile, gli occhi fissi sul legno che li divideva.
“Che idiota.”
Bisbigliò.
 
L’aria era intrisa di un odore acre e pungente.
Ad ogni respiro, essa penetrava violentemente nelle narici, incendiandole, e affondava silenziosa ma rapida fin nella gola, regalando la spiacevole sensazione di poter assaggiare, divorare gli sbuffi di fumo che continuavano a sorgere dalle macerie, una foresta di spiriti in risveglio.
Di quando in quando un fiocco di cenere sospinto dal vento faceva irruzione in quella scena desolata e distrutta, testimone della furia del fuoco che aveva imperversato fino a pochi attimi prima, aggiungendosi al tappeto cinereo che schiacciava ogni cosa sotto il suo peso inconsistente.
Era denso il silenzio che sovrastava quel luogo, mortale, un mesto canto innalzato a quel mausoleo di rovine e di braci.
Il crepitare delle fiamme era oramai solo un lontano ricordo, giaceva spento sotto un cumulo di polvere calda, quasi fosse la sua tomba.
Nel funereo mutismo di quel luogo cancellato, qualcuno incedeva con passo rabbioso, irrispettoso, calpestando i ricordi che si sfumavano nelle folate di vento, e lasciando dietro di sé un’irregolare scia di orme.
“Voglio che la troviate!”
Gracchiò con voce astiosa, voltandosi di scatto verso una frotta scoordinata di sagome nere, sgraziate, orribili che ricalcavano i suoi passi, tenendosi ad una distanza debita per evitare che la furia di quell’essere li investisse. Il respiro pesante dell’enorme mostro, vestito di un’ampia cappa scura che a stento ricopriva la figura tozza, rantolava a fatica dalle fauci aperte, digrignanti, riempiendo quel luogo con la sua inquietante cadenza.
“Voglio che la troviate e che la riportiate qui, da me.”
Sentenziò a denti stretti e con voce più alta, puntando drammaticamente un dito a terra, come a voler indicare un punto in particolare. La mascella, sospesa, ondeggiava nel vuoto ad ogni rantolo, dandogli un’espressione ancora più deforme e minacciosa. La torma di ombre al suo seguito rimase immobile, impietrita di fronte a quella richiesta, riempiendosi di un bisbiglio ronzante, sempre più forte. L’essere rimase in silenzio a guardarle mentre si agitavano, parlottavano, pur mantenendo gli occhi fissi su di lui. Ruggì.
“Ora!”
La sua voce, roca ma possente, esplose nell’aria con una tale violenza che il tempo sembrò fermarsi, così come anche il cadere lento e leggero dei fiocchi di cenere. Il tramestio si zittì quasi immediatamente.
“La voglio viva.”
Aggiunse tagliente, puntando contro quelle ombre un dito tozzo, a malapena riconoscibile grazie ad un’unghia che cresceva, spezzata, incrostata di un lordo sozzume nero. Lo sguardo del mostro passava in rassegna i volti di quei poveri disgraziati che aveva davanti, accalcati gli uni sugli altri, stretti quasi a volersi far coraggio insieme, perché da soli si era persi. Provò un’improvvisa pena, una compassione per quelle anime tremanti, sentendosi, in tutta la sua possente stazza, un carnefice pronto ad agire. L’idea avrebbe, forse, dovuto stuzzicarlo, renderlo tronfio del potere che aveva su di loro, ma non sortì alcun effetto.
Nell’attimo muto che seguì a quell’ordine sbraitato, così repertorio e minaccioso, si avvertì un agitare di passi che procedeva spedito, forse troppo, verso di lui. Non c’era esitazione, né timore in quello scalpiccio, solo una maledetta fretta che portava i piedi ad impastarsi gli uni negli altri, inciampando.
Il rumore si avvicinava, facendosi più forte, più percepibile, tanto da costringere l’essere a ruotare con calma inquieta la testa verso il suo fianco sinistro, mentre strizzava gli occhi alla ricerca della sagoma che, da un momento all’altro, sarebbe saltata fuori dagli effluvi di fumo. Digrignò i denti, schiudendo le labbra ebbre e sottili.
“L’abbiamo trovato.”
Fu quella frase ad annunciare l’arrivo di un uomo smilzo, dall’andatura ciondolante, intaccata da uno zoppicare evidente. Il mostro rimase immobile a guardare il volto scarno del giovane, tamburellato da eruzioni cutanee di un intenso e malsano colore rossastro, gli occhi porcini che parevano bottoni mal cuciti s’una faccia smunta, quasi alla ricerca di un segno che rendesse plausibili, convincenti quelle parole.
Finalmente le labbra dell’essere si rilassarono in un orrendo sogghigno.
“Portatemelo.”

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Capitolo 5
*** Nel buio ***


CAPITOLO 5

Nel buio


Pioveva.
Gocce diamantine precipitavano fitte dai ventri scuri delle nuvole bitorzolute, regine adipose di un cielo ormai privo di qualsiasi colore. Le poteva sentire picchiettare con insistenza sui vetri delle finestre, come a voler entrare per ripararsi dal vento gelido che soffiava impietoso su Montressor.
Era rimasta immobile a fissare quello spettacolo, così ordinario, eppure segretamente seducente, affondando lo sguardo paglierino in quel manto nebbioso che sembrava avvolgerli.
Aggrottava la fronte pensierosa, mentre i suoi occhi tentavano invano di seguire il percorso rettilineo di quelle gocce, una ad una, e la sua testa si riempiva di reminiscenze.
C’era l’acqua nei suoi ricordi. Tanta acqua.
A volte aveva la sensazione di annegare quando, di notte, essi tornavano a farle visita nei suoi sogni, sfocati.
C’era molta acqua. Troppa.
Nascondeva ogni cosa dietro la sua superficie irrequieta, impedendole di guardare cosa vi fosse sul fondo, di scorgere i frammenti del suo passato che sembravano essere oramai andati perduti. Uno specchio d’acqua torbido, troppo agitato per mostrare le immagini, i segreti che custodiva nel proprio ventre.
C’era solo acqua, così tanta da sommergere la sua mente, da renderla cieca.
La sentiva negli occhi, nella gola, nelle narici, pregne di quel flusso inconsistente che irruente scorreva senza sapere dove sfociare. Era sola in balia di quel mare, trascinata in un punto in cui i suoi piedi non riuscivano più a toccare il fondo sabbioso, sospesa nel fluido, insolitamente leggera.
“Hela!”
Jim la strattonò con sgarbo, minacciando di farle cadere dalle mani i piatti ingombri di strane sostanze viscide, alcune esalanti ancora vita. Esse traballarono pericolosamente, cercando di cogliere l’occasione per fuggire al loro destino, sospingendosi con disperati e affannosi spasmi verso il pavimento. La ragazza si riscosse al suono di quel nome, sentendo l’acqua scomparire, dissolversi, evaporare dai suoi pensieri. Si voltò ancora trasognante, rivolgendo uno sguardo interrogativo verso il ragazzo che l’aveva appena strappata ad un altro dei suoi molti momenti di riflessione, di perdita completa della percezione della realtà.
Hela, saggiò nella bocca dei suoi pensieri, socchiudendo gli occhi, guardando oltre il volto di quel giovane bruno. Era così che Jim aveva cominciato a chiamarla, e con il passare del tempo quello era diventato il suo nome…Era sulla bocca di tutti.
“Montressor chiama Hela!”
Insistette Jim, passandogli una mano davanti agli occhi. La ragazza li sbattè più volte, sorpresa, quasi disturbata.
“Eri finita fuori orbita?”
Scherzò lui, dandogli un buffetto sulla testa e scompigliando la cascata di ricci che lei aveva inutilmente cercato di ordinare in una treccia. Hela arricciò il naso, cacciando fuori la lingua. Routine quotidiana per loro due.
Si trovava lì alla locanda oramai da qualche settimana, ma per quanto si sforzasse, ancora non era riuscita ad adattarsi agli strani individui che erano soliti infestarne la sala da pranzo, inorridendo a volte sotto gli sguardi languidi o strabici in cui incorreva.
Sarah aveva deciso che era rimasta per troppo tempo a letto, e data la sua spiccata incapacità di relazionarsi con gli altri, aveva pensato che, forse, dandole qualcosa da fare si sarebbe calmata. Chiacchiere, aveva pensato lei. Era solo una scusa per costringerla a passare più tempo con quel ragazzo arrogante nell’assurda speranza che smettessero di rimbeccarsi ogni volta che gliene veniva data la possibilità.
Sospirò all’idea, come rassegnata: d’altronde era lei che le forniva vitto e alloggio, il minimo che potesse fare era assecondare quella sua idea stravagante, ingoiare il rospo e continuare a convivere con quella situazione. Ravvivò la presa sui piatti, scrollandosi di dosso la solita malinconia che, di tanto in tanto, amava calare il suo caldo e rincuorante abbraccio su di lei, e ricompose la propria espressione, in modo da sembrare meno stralunata, evitando in tutti i modi il suo sguardo.
Jim, immobile davanti a lei, se ne stava in silenzio a fissarla, cercando nei suoi occhi l’ennesima risposta che Hela gli rifiutava, interrogandosi sul perché quella ragazza apparisse, giorno dopo giorno, sempre più taciturna, più misteriosa…Sempre più maledettamente intrigante. Rimase fermo, mentre lei si staccava dalla sua inerzia e si allontanava a passi rapidi, chinandosi su quegl’indefinibili mostri che troneggiavano con il loro untuoso lardo ai tavoli, spogliandola con sguardi lascivi e maliziosi. Avvertì un’indicibile morsa allo stomaco, un fastidio improvviso, quasi qualcuno avesse deciso di cavarglielo dal ventre e calpestarlo; una smorfia gli venne strappata dal volto, senza che lui potesse controllarla, mentre le sopracciglia si aggrottavano aggressivamente e i denti si serravano come le fauci di una tagliola. Socchiuse le palpebre, sostando con gli occhi su quel lurido individuo che si ostinava a trattenerla al suo tavolo, allungando la mano mutila di tre dita verso di lei e mostrando in un ghigno inquietante una dentatura sporca, ingiallita, segnata da ampi spazi vuoti. Un ringhio gli grattò la gola, sospinto da un istinto quasi animalesco che era avvampato nel suo petto.
“Oh Jim, eccoti qua! Temevo di averti perduto! L’ho trovato Sarah!”
Le urla sconnesse e frenetiche di Ben gli giunsero alle orecchie come il ronzio fastidioso di una zanzara, costringendolo ad abbandonare quella pietosa scena per rivolgergli la sua attenzione che, senza minimo dubbio, si sarebbe comunque preso. Il robot, con il capo coperto da un ampio cappello da cuoco pieno di sbuffi e risvolti, gesticolava animosamente davanti a lui, sfiorandogli a volte il naso di pochissimi centimetri.
Jim fremeva.
Tamburellava sulla coscia con le dita in modo irrequieto, trattenendosi dal guardare Hela per paura della spiacevole sensazione che pareva accendersi in lui ogni volta che la guardava, simile ad un interruttore di cui solo lei era padrona.
“Ma…Ma cosa stai guardando?”
“Mph?”
Rispose quasi di getto lui, aggrottando le sopracciglia in un’esagerata espressione di sorpresa e sporgendosi in avanti con tutto il busto, forse nell’assurda convinzione di potergli nascondere quello che stava avvenendo dentro e fuori di lui. Ben rimase interdetto, comprendendo subito che qualcosa girava macchinosamente nella testa di quel ragazzo.
“Cosa c’è?”
Domandò allora, facendosi più vicino e circospetto, sussurrando con un filo di voce e portandosi la mano davanti alla bocca per coprire le sue parole. Si guardò intorno lentamente.
“Chi o cosa stiamo guardando?”
“Ben che stai dicendo? E perché parliamo così?”
Cambiò subito discorso Jim, assumendo un’espressione falsamente intimidita, imbarazzata, senza però muoversi. Sentiva gli occhi di tutta la sala su di lui. Gli occhi di Hela.
“Non lo so, hai cominciato tu.”
Sbottò allora il robot interrompendo quell’immaginario dialogo segreto, facendo un passo indietro e alzando il tono di qualche ottava. Jim si portò un dito alle labbra facendogli segno di tacere e cominciò a spintonarlo verso la cucina. Come se non fosse abbastanza evidente la sua presenza, ora si metteva anche a gridare! Non riuscì a far a meno di chiedersi se anche le li stesse guadando, se avesse colto quel dolore che gli infliggeva la sua persona ogni volta che qualcuno si fermava anche solo per dirle “ciao”, la sensazione di imbarazzo che gli provocavano quegli occhi a mandorla. Scosse la testa, spingendo Ben farfugliante oltre la porta della cucina, senza però riuscire a trattenersi dal guardarla ancora una volta…Trovando gli occhi di lei a ricambiare i suoi.
Sorpreso, si sbrigò ad entrare, paonazzo in volto, richiudendosi con velocità la porta alle spalle. Il respiro gli si era fatto improvvisamente corto ed il cuore pulsava nevrotico dentro di lui; sentiva caldo. Molto caldo.
“Qualcosa non va Jim?”
Intervenne allora Ben che lo stava studiando da un po’, la voce allusiva. Jim scosse la testa vigorosamente.
“No, è che…Con tutti questi sbuffi e vapori la cucina sembra un dannato inferno.”
Tagliò corto lui, gettandosi sui primi piatti pronti che riuscì a trovare.
“Vai di fretta Jim?”
Chiese il robot. Non lo degnò nemmeno di una risposta.
 
Era sera tarda quando tutti, finalmente, si decisero a pagare ed andarsene. La locanda si svuotò in un fuggi fuggi generale, neanche avessero appiccato un incendio, lasciando la sala nel silenzio più totale. Niente più tintinnii di forchette, o fastidiosi risucchi, nemmeno un bambino a correre all’impazzata fra i tavoli, né rutti sonori a ravvivare l’ambiente. Solo silenzio e buio.
Hela se ne stava appoggiata pesantemente sul manico della scopa in un equilibrio estremamente precario. Sentiva le gambe così affaticate che parevano tremare come fuscelli, incapaci di sostenere ancora il suo peso; i piedi le dolevano atrocemente, quasi qualcuno avesse deciso di riempirli di spilli per scherzo.
Non ricordava di aver mai provato una stanchezza simile, una stanchezza tale da sopraffarla, rendendole difficile anche solo l’abbandonarsi s’una sedia. Sospirò rumorosamente quando infine si concesse un po’ di riposo, rilasciando con sgrazia la schiena e la testa all’indietro, avvertendo i muscoli rilassarsi. Era leggera, eppur estremamente pesante per la fatica su quella seggiolina che doveva aver sopportato corpi più gravosi. Aveva la testa sgombra, ma piena di un nuvolo ronzante di pensieri sconnessi, di memorie di quella serata, di immagini lasciate lì dal caso. Amava ricalcare ogni passo della giornata,fiera di avere finalmente dei ricordi da custodire e sentendosi per qualche istante viva, realmente esistente.
La notte illuminava ogni cosa con il suo pallidissimo bagliore di latte, trasformando la sala in un abisso di legno, tinta com’era di varie tonalità bluastre; di tanto in tanto qualche sfumatura più chiara interrompeva quell’andamento piatto di ombre, quasi mimando l’ondeggiare pigro delle onde.
Distesa nel silenzio, Hela si sentiva come intrappolata in un antico vascello incagliato nelle profondità marine.
“Già finito?”
Domandò Jim, puntuale intruso nei suoi momenti di calma, disturbando la quiete di quel luogo. Senza volerlo, si era lasciata sfuggire uno sbuffo di fastidio, sorpresa dall’incredibile capacità di quel ragazzo di capitare sempre nei momenti in cui preferiva starsene sola con se stessa. Lo sentì ridere, arrestarsi nel buio.
“Scusa, pensavo volessi un po’ di compagnia.”
La rimproverò quasi con tono ferito. Hela non ebbe nemmeno la forza di alzarsi, di ricomporsi, limitandosi solo ad agitare un braccio, facendogli segno di raggiungerla. D’altronde quella sera le era stato stranamente alla larga, non l’aveva infastidita in nessun modo; si sarebbe potuto dire che avesse quasi sentito la sua mancanza…Ma solo un pochino! Sentì di doverglielo quel momento…O meglio, di non poterne fare a meno.
Jim nel frattempo le si era seduto di fronte, racimolando rumorosamente una sedia dal mucchio; le sue ginocchia urtarono delicatamente quelle di lei. Appoggiò infantilmente il volto sullo schienale della sedia, ponendo una barriera fra di loro, come non fosse sicuro di tutta quell’improvvisa “gentilezza”.
Hela sorrise divertita. Che la temesse? Si lasciò scappare un risolino. Contrasse ironicamene le mani a mo’ d’artiglio, mimando il gioco crudele del gatto che stuzzica la sua preda prima di finirla.
“Perché ridi?”
“Perché mi va.”
Disse secca lei, senza troppi giri di parole. Lo sentì muoversi un poco, intravedendo la sua sagoma nel buio. Gli occhi. Non riusciva a vederli. Per la prima volta riuscì a sentirsi a suo agio, non costretta a dover tirar fuori le unghie e starsene sulla difensiva…Forse perché era impenetrabile al suo sguardo. Si rilassò.
“Bella serata…”
“Orribile!”
Commentò subito lei per correggerlo, ricalcando ogni lettera di quella parola con eccessiva teatralità.
“Credevo non fisse più!”
Confessò con tono disperato.
Jim ne rimase, chissà perché, piacevolmente sorpreso; forse fu questo a dargli la spinta per parlare ancora, per insistere, o forse non voleva rinunciare a quel magico momento in cui finalmente lei gli stava veramente parlando, temendo che un qualsiasi silenzio la facesse desistere dal continuare.
“Ho visto che ti sei data da fare con i clienti.”
La imboccò lui, sperando di cavare di più da quelle labbra silenziose, impenetrabili. Hela rise ancora.
“Già, beh…Sai come si dice!”
“Veramente no.”
Rispose subito, troppo velocemente. Seguì un lungo attimo di silenzio.
“Già nemmeno io…Era tanto per dire.”
Borbottò Hela, risollevandosi finalmente da quella sgraziata posizione e portandosi in avanti, appoggiando le braccia sulle gambe, più composta. Lo sentì pericolosamente vicino al suo volto.
Nel buio avvertiva amplificate le proprie sensazioni, quasi esplodessero con veemenza dal proprio cuore per prendere corpo vivo al di fuori di lei. Avvertiva il piacevole tepore del suo respiro accarezzarle gli occhi, che chiuse golosamente, volendolo assaporare appieno; socchiuse le labbra, come a voler restituire quel fiato delicato, mentre i muscoli della schiena si tendevano involontariamente, spingendola verso di lui, verso quella bocca profumata che l’attraeva magneticamente. Strinse i pugni. Prima con forza, poi sempre più piano, mentre il cuore rallentava progressivamente i suoi battiti, dilatando il tempo. Non lo vedeva, eppure avvertiva la sua presenza più tangibile che mai e questo scatenava in lei un turbinio di dolore e piacere che divampava dallo stomaco e sfumava ovunque, fino alla punta dei capelli.
Lentamente avvertì qualcosa sfiorarle il dorso delle dita, leggerissimo, timoroso, come se qualcuno la stesse accarezzando con una piuma. Il sangue si gettò precipitosamente nelle vene, gonfiandole e scaldandole, lasciando dietro la propria corsa un sentiero di brividi. Là, dove i polpastrelli di Jim la stavano sfiorando inesperti, la pelle cominciò a formicolare.
“Sai…”
Bisbigliò, facendo scivolare le dita di lui sulla propria mano, la testa china per evitare di stargli troppo vicina. Ogni ostilità si era improvvisamente spenta nella sua voce.
“Dimmi.”
La incoraggiò lui, tentando di mantenersi il più neutrale possibile, mentre le sue dita la sfioravano con più pressione, avide di sentire quella pelle morbida sotto di loro. La testa era un’esplosione di sensazioni, di emozioni, pensieri, parole, accalcate le une sulle altre senza dargli nemmeno il tempo di capire; le orecchie, incendiate da un calore interno, erano sorde a quello che accadeva intorno, infondendogli un inspiegabile sensazione di vertigine. Poi, senza che se ne accorgesse, la brama di sentirla contro la sua pelle guidò le sue dita fin nei capelli di lei, osando, però, sforarne solo le punte morbide.
Hela aprì gli occhi.
“Forse dovremmo andare a dormire.”
Borbottò tutto d’un tratto, separandosi di scatto da lui, come spaventata da quell’esagerata vicinanza, da quella che ai suoi occhi appariva come una violazione, un eccesso per nulla gradito. Si alzò, ponendo precipitosamente un piede dietro l’altro per aumentare la distanza tra di loro.
Jim rimase in silenzio, sbigottito.
“Sono…Sono molto stanca…D-dovremmo proprio andare.”
Aggiunse sconclusionata, toccandosi i capelli nel punto esatto in cui le sue dita aveva sostato pochi secondi prima, cacciando via ogni traccia di quel contatto.
“V-vabene.”
Si limitò a rispondere lui, ancora scosso. Hela si sforzò a sorridere, dimenticandosi che, in ogni caso, lui non avrebbe potuto vederla.
“Bene…Allora…Buonanotte.”
Arrabattò in tutta fretta, schizzando su per le scale e lasciando dietro di sé solo il rumore di passi frettolosi.
“Buonanotte…”
Bisbigliò Jim soprappensiero, rimanendo con gli occhi fissi, la mano ancora sospesa nel vuoto, tesa verso di lei. Non capiva, non si capacitava di quello che era appena accaduto; non riusciva a cogliere il significato di ogni suo singolo gesto, né la reazione di Hela. Cos’era successo? Com’era finito a ritrovarsi da solo? Cosa aveva fatto per farla fuggire in quel modo? Sentiva che tutte le sensazioni che aveva provato fino a pochi attimi prima si erano come spente, dissolte; Hela aveva premuto l’interruttore e la sua anima si era acquietata. Sbattè le palpebre, chiudendo di scatto il pugno, alzandosi dalla sedia e allontanandosi da essa, quasi conservasse ancora nel legno le emozioni provate in quella manciata di secondi; si passò nervosamente un mano nei capelli, afferrando i pensieri, mettendo ordine in quella testa annebbiata dall’insicurezza.
Non era successo niente. Non era successo proprio un bel niente.
Aveva ragione Hela: doveva andare a dormire. Era stanco e la stanchezza confondeva i suoi sensi e gli faceva credere cose che in realtà non c’erano mai state.
Non era successo nulla. Nulla. Se ne sarebbe andato a letto e domani si sarebbe reso conto che quello che lui aveva creduto “qualcosa” in vero non era “niente”. Nel buio era tutto più confuso. Il buio rendeva le cose misteriose…Cose che alla luce erano, invece, normalissime. Il sole, la mattina avrebbe gettato senso su quei pochi secondi passati insieme a lei e li avrebbe trasformati in normalissimi attimi in cui non era avvenuto proprio…
“Nulla.”
Bisbigliò lui, affrettandosi a salire le scale.
Nulla. Non è successo nulla.
 
Hela se ne stava silenziosamente accovacciata sul proprio letto, le gambe incrociate e la schiena ingobbita dal peso dei propri pensieri. La luce entrava flebile nella stanza, riuscendo a delineare a malapena i contorni delle cose che l’affollavano e, che sonnecchiavano pigramente in ogni angolo; tutto appariva avvolto di una calma strana, piatta, eppure incredibilmente agitata e tesa.
Si sentiva totalmente incapace di muoversi, pietrificata nel suo stesso corpo. I capelli, ormai privati della loro costrittiva acconciatura, ondeggiavano selvaggiamente, danzando sospinti dal vento che soffiava dalla finestra spalancata, forse l’unica cosa veramente mobile in quel momento. Persino nei pensieri si sentiva bloccata. Rigirava distrattamente lo sguardo sul palmo della propria mano, là dove troneggiavano quegli strani simboli che ricordava di aver sempre avuto, ma dei quali non le era mai interessata l’origine. Perché? Si chiese. Eppure erano evidenti, erano lì. Li guardava con insistenza quasi ossessiva: righe biancastre che le deturpavano la mano fino al polso, contornate da un rosso vivido simile a quello della carne; ma non sentiva alcun dolore. Non ricordava di averne mai sentito.
Per quanto si sforzasse, in quel momento non riusciva a suscitare dentro di sé un minimo d’interesse per quegli strani segni, nonostante vi si aggrappasse con tutta la forza, pur di non ritornare al ricordo di quella strana sera. Obbligava i propri occhi a starsene fissi su di essi, la mente a non viaggiare da nessun’altra parte se non lì, stringeva le labbra trattenendo i tremori che le passavano per tutto il corpo. Ma non ci riusciva.
Nel buio le sembrava di scorgere ovunque quella presenza che le faceva vibrare il petto e agitare la mente.
Nel buio sentiva di essere imprigionata nell’istante esatto in cui tutte le sue emozioni erano esplose, invadendola con una veemenza tale da spaventarla.
Nel buio, per la prima volta, le parve di non essere più sola.
Scosse la testa, ridestandosi dalla sua forzata immobilità: che sciocca! Si disse, passandosi stancamente una mano sulla fronte, grattandola nell’intenzione di penetrare nella propria testa, di afferrare ogni cosa e fare pulizia. Si chiese per quale assurdo motivo Jim si fosse comportato in quel modo, perché si fosse preso la libertà di quel contatto, perché fosse rimasto in silenzio. Di nuovo, le mani corsero ai capelli, lisciandoli con vigore ossessivo, come volendone piegare i ricci, ma inutilmente: essi tornavano ogni volta al proprio posto, sempre più voluminosi e morbidi. Voleva cacciare via ogni traccia, ogni ricordo. Domani voleva svegliarsi e far finta che non fosse successo nulla. Nulla.

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