Delitto d'immagine

di Una Certa Ragazza
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Delitto d'immagine ***
Capitolo 2: *** Argeta ***
Capitolo 3: *** Fatto di cronaca ***



Capitolo 1
*** Delitto d'immagine ***


Storiella scritta per passatempo. Mi direte "datti all'ippica", ma non mi piacciono i cavalli XD.





"Il soldato che tutta la notte ballò
vide tra la folla quella nera signora
vide che cercava lui e si spaventò"

                          "Samarcanda", Roberto Vecchioni




Sandra camminava soddisfatta di sé stessa e del resto del mondo, cosa che non le capitava così spesso.
Guardò l’orologio e rallentò il passo. La conferenza dell’egregio dottor Davidson, professore di antropologia, non sarebbe iniziata che da lì a un’ora, e lei aveva tutto il tempo.
Quando dalla via principale tagliò per un vicolo secondario, però, una vaga sensazione di disagio le accarezzò lo stomaco, come un brivido.
Sarà stato perché dall’assolato viale alberato era passata a quel viottolo squallido, dove gli edifici erano così alti e così vicini da soffocare i raggi solari.

Che brutto posto, quel buco dimenticato da Dio e dall’amministrazione comunale, e dire che era a pochi passi dal centro!
Incespicò per evitare una chiazza di una sostanza sospetta – non aveva intenzione di sporcarsi quelle scarpe così eleganti – e successe così. Lo vide.
Era un marocchino o forse un libico o un sudafricano, insomma un negro, e aveva un abito sgargiante arancione e giallo, che spiccava contro i muri grigiastri così tanto da far male agli occhi.
Sandra si bloccò, finse di cercare qualcosa nella borsa e gli lanciò un’occhiata di sottecchi.
In quel momento ebbe la consapevolezza che la stava seguendo.
Il panico le chiuse la gola.
Si voltò e ricominciò a camminare, cercando di calmarsi.
"Ti perdi in un bicchier d’acqua", le avrebbe detto Andrea. "Ti perdi in un bicchier d’acqua", glielo diceva sempre.
Quello lì faceva solo due passi, non era mica un reato. Perché avrebbe dovuto seguire proprio lei, e in pieno giorno, per giunta?
Una serie di situazioni e scenari possibili, mai visti ma dedotti dai titoli del TG, si fecero largo a gomitate nella sua mente.
Oh, sì, di motivi ce n’erano eccome.
"Marocchino accoltella donna quarantenne", già poteva vedere la notizia campeggiare sulla prima pagina di tutti i giornali, e se fosse successo qualcosa di abbastanza strano – se quello dietro di lei fosse stato un serial killer, ad esempio – avrebbero parlato di lei anche in qualche speciale TV in cui la gente si parlava addosso anche se non c’era niente di cui parlare.
E il presentatore avrebbe cercato di calmare le acque, mentre qualcuno di destra avrebbe detto che bisognava rimandare tutti gli immigrati a casa e qualcuno di sinistra avrebbe replicato non c’era alcuna prova che gli immigrati delinquessero più degli altri. Tutti e tre avrebbero detto queste cose perché avevano una parte da recitare, e lei sarebbe diventata un problema tutto sommato marginale, un pezzo di carne congelato in un frigo e allo stesso tempo un numero di pratica schedato in qualche ufficio.
"Ti perdi in un bicchier d’acqua, Sandra. E hai sempre paura di tutto."
Andrea avrebbe pianto, se lei fosse morta o se fosse stata aggredita, e magari anche se fosse andata a finire bene avrebbe capito i rischi che correva lei, una buona volta. Così avrebbe smesso di ricordarle in continuazione quanto fosse sciocca.
Mentre immaginava con dovizia di particolari tutto quello che poteva succederle, Sandra teneva le orecchie ben tese.
Sentiva il passo misurato dell’uomo accompagnarla. Non era così difficile, perché lì c’erano solo loro due.
Metteva i piedi dove li aveva messi lei, la sua presenza la stava comprimendo su sé stessa. Doveva andarsene da lì.
Per fortuna la fine del vicolo era a pochi passi e lì cominciava un’altra strada molto più frequentata.
Sandra accolse con sollievo l’ondata di sole che le si riversò sul viso e la gente con il suo vociare, anche se c'era una bolgia incredibile, perchè era sabato e per qualche ragione c'era pure la banda.
Si fece strada tra la folla come un pesce che sguazza nel mare e, anche se si voltò un paio di volte, dopo un primo guizzo di vestito arancione a poca distanza da lei non lo vide più.
Un centinaio di metri più avanti più avanti la calca cominciò a diradarsi.
Lei allegra, quasi euforica, si voltò come per dire "te l’ho fatta" e se lo vide spuntare fuori dalle ultime propaggini della folla che si allontanava in direzione opposta.
Impallidì.
Si guardò attorno, morsicata da un’impotenza che la teneva rigida al centro del marciapiede, poi si costrinse a riprendere il cammino a passi lunghi e ben distesi.
Sentiva il cuore batterle nelle orecchie, sordo e affannato.
Doveva correre, doveva entrare in un bar, chiamare un taxi e farsi portare a casa.
Ma camminò, ancora e ancora.
Ora che la sua meta le appariva assurdamente priva di significato doveva arrivarci per forza e continuare a camminare.
C’era un senso di ineluttabilità in questo. Lasciarsi scivolare testardamente verso qualcosa che la terrorizzava, come un bambino che si graffia le mani lasciandosi cadere da un albero.
Non era sicura nemmeno lei di quello che poteva e non poteva fare, qualsiasi cosa sarebbe risultata sciocca comunque. Andrea ne avrebbe riso, quando glielo avrebbe raccontato a casa, e lei stava per avere una mezza nevrosi.
Quando se ne rese conto si ritrasse bruscamente dal baratro, cercò di calmare l’ansia.
Pensò alla conferenza. Doveva ridare valore alla conferenza, se voleva mettere a posto le sue fantasie e arrivarci con i nervi intatti.
Pensò all’egregio professor Davidson, dottore in antropologia, che si diceva fosse un vero genio nel suo campo, venuto dal nulla, per di più.
Una sua amica che sapeva bene l’inglese aveva già assistito ad una sua conferenza a New York e le aveva raccontato che era venuto con un vestito talmente particolare, così strano...
Questo però la fece concentrare nuovamente sull’uomo in arancione e si voltò ancora una volta.
Lui era sempre lì, paziente. Non aveva allungato il passo, al contrario di lei, eppure era sempre lì dietro.
Senza più riuscire a trattenere le lacrime e la paura, Sandra si mise a correre.
Svoltò nella via successiva che il suo volto era ormai ridotto ad una maschera di terrore e matita liquefatta.
«Aiuto!» gridò con voce strozzata alle persone che la guardavano un po’sorprese e un po’preoccupate.
«Aiuto! Quel negro...! È dietro l’angolo, aiutatemi, aiutatemi, vi prego!» inciampò, cadde a terra ma sì rialzò.
Bastò questo perché la gente, che nel frattempo si era di nuovo trasformata in folla benché il suo numero non fosse aumentato, reagisse quando comparve l’uomo in arancione.
Aveva sentito le grida e si era messo a correre anche lui.
Nessuno si chiese perché stesse correndo verso Sandra e non per scappare.
Un giovane lo afferrò per la collottola e gli tirò un pugno, mentre l’amico che era con lui lo colpiva allo stomaco.
Gli astanti si trasformarono in una massa confusa e urlante, arrivarono altre persone, altre grida.
«Che succede?
«Quello stronzo di un negro stava aggredendo la signora.»
E giù botte, perché ognuno voleva avere tra le mani il maledetto assassino stupratore scippatore o chissà cosa, visto che nessuno era esattamente sicuro di che cosa fosse.
Quando si ritrassero tutti assieme, come per un muto accordo, il vestito da arancione era diventato rosso scarlatto. Ci fu un trasalimento collettivo. Qualcuno imprecò.
«È morto?» un tale riuscì a fare la domanda che nessuno era riuscito a formulare.
Sandra non sentì la risposta.
Si accorse a malapena di chi si chinava per dare un’occhiata al malcapitato. Aveva preso il portafoglio che era caduto per terra all’uomo e lo aveva aperto, lasciando andare un sospiro che forse era un singhiozzo.
Certo, quell’uomo doveva fare la sua stessa strada per forza.
Era l’egregio dottor Davidson, professore di antropologia. Nazionalità: sudafricana.

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Capitolo 2
*** Argeta ***



Argeta

 

Ogni ingiustizia ci offende,

quando non ci procuri direttamente alcun profitto”

Luc de Vauvenargues

 

Come tutti i giorni Argeta si alzò presto e c’erano già i clacson che suonavano e i freni che stridevano e la tv di quella che aveva affittato la stanza accanto che faceva chiasso. Perché doveva sentire la rassegna stampa del TG alle sei di mattina, lei.

Siccome fuori si gelava, si gelava davvero, decise che per quel giorno poteva anche permettersi di fermarsi strada facendo a prendere un cappuccino nel bar all’angolo che le piaceva tanto, e così tra il barista che sorrideva e il cappuccino che scottava vide l’annuncio:

Ragazzi ITALIANI cercano impiego, si svolgono anche lavori pesanti...” e Argeta strinse più forte la mano sul bordo della tazza perché avrebbe proprio voluto chiamare il numero e dire: «Chiamo per lo sgombero di un magazzino... oh, ma vedo adesso che siete italiani maiuscoli e sottolineati, perciò non se ne fa nulla.»

Ma non fece niente, pagò il cappuccino e tornò sulla strada fredda dove c’era vento e doveva stringere le mani nel cappotto mettendo un grosso scialle attorno alla testa sennò poi le veniva la sinusite e chissà per quanti giorni ne avrebbe avuto.

Mentre andava, poi, i giornali.

Lei i giornali neppure li leggeva, non aveva mica tempo e certo non avrebbe speso tutti quei soldi ogni giorno per un pezzo di carta che la mattina dopo avrebbe dovuto buttare perché le notizie non erano già più le stesse, che parlava sempre delle solite cose solo in salsa diversa, che se proprio le interessava qualche articolo poteva andarlo a cercare su internet.

Però ai titoli più grandi, quelli che si fermava a leggere tutti i giorni mentre andava alla stazione della metro che puzzava e sapeva di sporco, a quelli prestava attenzione e poi le ballavano in testa per tutto il tragitto, e uno dei tanti che vide quel giorno urlava: “carenza di alloggi a causa degli immigrati”.

Non si fermò non controllò ma era, ci avrebbe scommesso, un giornale locale impregnato di nebbia padana e l’articolo poi avrebbe avuto un tono tra il paternalismo sprezzante e la condanna. Il primo sarebbe stato freddo e benpensante e la seconda dura e compiaciuta e probabilmente anche revisionista perché quelli che scrivevano articoli così erano anche revisionisti sicuro e suo nonno partigiano, povero nonno, si rivoltava nella tomba.

Camminava pensando così, Argeta, con le mani ben ficcate nelle tasche e l’ombrello sotto il braccio come una baguette.

E poi, all’improvviso, la figura davanti a lei.

«Dove credi di andare, sporca musulmana?» quel grido e la morsa sul braccio e la strada dove non c’era nessuno come se non fosse abbastanza il buio delle sette di mattina a gennaio.

Cacciò un grido e si divincolò da quell’uomo col cappuccio che puzzava d’alcool e urlò, urlò, urlò, con un vago ricordo di sua madre che quando era piccola le diceva se ti toccano urla urla urla.

«Sta’ zitta, musulmana di merda!» partì uno schiaffo e Argeta neppure lo capì però in qualche modo lo schivò.

«Non sono musulmana. E mollami!» gridò lei, dando uno strattone un po’più forte mentre lo scialle pesante le cadeva sulle spalle e chissà come nel suo alcolismo l’uomo si rendeva conto dell’accento veneto di Argeta o forse solo del fatto che non aveva più la testa coperta, chi lo sa.

«Oh vergine italianissima!» l’uomo fece una specie di inchino sghimbescio, beccheggiò come una barca, si inciampò nei suoi piedi.

Argeta si sentiva come se avesse corso, quando non sai più dove trovare l’aria e i polmoni fanno male, e c’è quel dolore tipo una ferita in gola.

«Permettimi di accompagnarti dove... dov’è che stai andando? C’è brutta gente, in giro.»

Le zaffate di alcool le arrivavano ad onde, una marea di miseria. Non aveva smaltito la sbornia della sera prima oppure si era già ubriacato di mattina presto, in ogni caso che tristezza però chissenefrega, Argeta aveva paura ed era confusa e voleva liberarsi di lui.

«Sono vicina.» mormorò e se ne andò, cercando di non far sembrare che stava scappando, che poi magari quello lì impazziva e gli giravano i cinque minuti, ma allontanandosi il più velocemente possibile.

Rallentò solo davanti al solito chiosco di gelati che a quell’ora era chiuso, però lì in giro c’era un po’di gente e lei poteva stare tranquilla.

La stazione della metro era a due passi, doveva solo entrare e sedersi lì per pochi minuti.

Ed entrò e si sedette, mentre il vecchio accanto a lei borbottava qualcosa sul prezzo dei cavoli e sul fatto che lì nella stazione c’erano sempre più marocchini e un giorno o l’altro gli avrebbero fregato il portafoglio com’era successo al suo amico Gianni, proprio lì, e Argeta non sapeva se diceva tutte queste cose a lei o se parlava tra sé e sé. Forse non lo sapeva neppure lui, il vecchietto le sembrava un po’suonato, anche se non come l’alcolizzato di prima.

Avrebbe potuto non rivolgergli parola, ma c’erano già stati l’annuncio, il giornale e l’ubriaco, perciò quella era una domanda che bisognava fare: «Perché ce l’avete tanto con gli immigrati?»

«Ma non lo vedi che sono dei delinquenti?» rispose il vecchietto tutto orgoglioso ma forse perché nessuno gli dava mai del “voi” e stava ancora cercando di capire come mai «Bisognerebbe rimandarli tutti a casa loro.»

«Non credo che tutti commettano dei reati.»

«Sì, ma come fai a capire chi fa danni e chi no? Nel dubbio rimandiamoli da dove sono venuti, ecco, è questo che voglio dire.»

«Mio nonno era partigiano, e credo che abbia combattuto per la libertà e i diritti di tutti. Lei non è d’accordo con questo?»

«Ma sì che lo sono!» un cliché di vecchietto, un po’bizzoso un po’accomodante «Guarda che io c’ero, piccolo così ma c’ero, e non sono mai stato un fascista: i fascisti ci hanno requisito le pecore, durante la guerra, e il campo e la casa. Ma questa è una cosa diversa.»

«E in che cosa sarebbe diversa, scusi?»

«Eh, ragazza, i partigiani hanno combattuto per la loro patria, mica per qualche straniero. Anzi, hanno cacciato i tedeschi.»

«Cioè, lei dice che i partigiani sono dei nazionalisti?!»

«Nazionalisti, non esageriamo. Nazionalista lo era Hitler. Comunque voi che non c’eravate potete studiare bene la guerra, la storia e tutto il resto, ma esserci era diverso.»

La metro si fermò ed era quella di Argeta. Lei salì, lasciando il vecchio con un cenno che non sapeva neppure lei se voleva essere di saluto o semplicemente di riconoscimento della sua presenza.

Durante la corsa dentro al tubo e le scosse che comunque non ti facevano cadere perché c’era troppa gente a tenerti in piedi Argeta pensò.

Pensò se fosse stata musulmana che cosa sarebbe successo con lo sbronzo.

Cosa sarebbe successo, in generale, se fosse stata musulmana o turca o rumena o qualsiasi altra cosa. Ci sarebbe stata un sacco di gente che la guardava male per strada e che non sarebbe stata disposta a offrirle un lavoro perché non era italiana tutta maiuscola e sottolineata, e che avrebbe scritto su di lei che occupava spazio aria appartamenti ai padroni di casa, e che avrebbe detto a persone sconosciute alle fermate della metro che lei rubava portafogli ai vecchietti.

Ma poi arrivò in ufficio e c’era Simona che interruppe tutto questo, aveva un’aria così cupa ma così cupa...

«Oh, Argeta, sapessi! Vogliono licenziare, daranno il benservito ad un sacco di gente!»

«Che!?» Argeta balbettava, più confusa che preoccupata.

«Vogliono gente che possono pagare meno. Carlo dice che addirittura li pagheranno in nero e che se potesse lo proverebbe e li farebbe arrestare tutti.» Simona emise un respiro rantolante, un respiro da baratro, ed era nell’aria che stava per scoppiare a piangere.

Allora Argeta capì si arrabbiò buttò la borsa sulla scrivania ed esclamò: «Albanesi del cazzo, vengono qui e ci fregano il lavoro!»

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Capitolo 3
*** Fatto di cronaca ***


Ed ecco a voi l'ultimo capitolo della "trilogia". E' molto corto, ma spero che sia intenso: mi è stato ispirato da un fatto realmente accaduto, e sento molto il problema.
Grazie a tutti voi per aver letto e seguito, a presto!
Qui dentro ci sono tematiche che reputo molto delicate, volevo avvisarvi. Credete che sia meglio cambiare il rating in arancione? Fatemi sapere cosa ne pensate!


 

 

Fatto di cronaca

 

La penna stava vagando sul foglio. Non che stesse studiando, naturalmente, ma gli scarabocchi che faceva ai margini del libro di storia le davano almeno l’illusione di fare qualcosa.
Poi gli scarabocchi si trasformavano in frecce e le frecce in commenti.

Seriamente, quel libro era troppo stupido per non scriverci sopra quello che ne pensava della sua storia morta e delle sue frasi piene di fumo. Riusciva miracolosamente a far sembrare quello che era accaduto ad altri uomini qualcosa di alieno.

La penna tracciò una scia sgraziata accanto al faccione di Mussolini. A sentire quello spreco di carta e inchiostro, pareva quasi che il Duce si fosse svegliato una mattina e avesse deciso di fare la Marcia su Roma così come si programmano le gite domenicali della parrocchia. Ridicolo.

Zia Perpetua pendeva come sempre dalle innumerevoli labbra della televisione.

«Zitta, Sofia, zitta!» esclamò quando iniziò il telegiornale, facendo più chiasso lei di quanto ne stesse facendo realmente la ragazza con la sua penna, i suoi mormorii a mezza voce e il suo libro di storia.

C’era da dire che il telegiornale era uno dei programmi preferiti di zia Perpetua. Almeno per quel che riguardava la cronaca nera, visto che non si era mai interessata di politica.

Sofia, sapendolo, era disposta a tollerare l’assoluto bisogno di silenzio della zia, e poi il TG interessava anche a lei, perciò la penna cadde nell’incavo tra le pagine e lì rimase.

...Quindicenne di *** subisce violenza da parte di un gruppo di Rom...” la voce cadenzata della conduttrice che elencava i titoli si tinse di un leggero pathos su questa notizia.

«Bastardi!» sibilò tra i denti la zia «Povera ragazza, ah! È un mondo tanto brutto questo, Sofia, tanto brutto...»

Sofia non era esattamente disposta a convincersi che il mondo fosse così brutto e la vita così dura, nonostante zia Perpetua avesse almeno sessant’anni più di lei. Alla saggezza dalla parte dei vecchi lei non ci credeva, anzi aveva la netta sensazione che nel caso di zia Perpetua vecchia significasse rimbambita.

«Shh, fammi sentire.» la zittì, irritata.

«...La ragazza è stata assalita e violentata mentre tornava a casa, ma è riuscita comunque a contattare il fratello per farsi venire a prendere...»

«Tutti a casa, questi immigrati!» strepitò la zia.

La conduttrice non si risentì di questa interruzione, ma continuò imperterrita: «Gli inquirenti non hanno ancora rintracciato i colpevoli...»

«La pena di morte! Questi dovrebbero ammazzarli, e gli altri a casa loro, che sono tutti dei delinquenti!»

«Non è vero!» scattò Sofia, come un coccodrillo che chiude di colpo le fauci.

«Sofia, ma li leggi i giornali? Quasi tutti i delinquenti sono stranieri, sai? Leggi, leggi!» le mise davanti un certo numero di copie di “Che cosa?”, “Persone” e “Futility”.

«Non basta conoscere il risultato, per pensare di aver capito un problema.» borbottò Sofia, spingendo via i giornali.

«Che hai detto, cara? Lo sai che sono sorda, parla più forte!»

«Se pensi che gli stranieri siano malvagi per natura, ti stai sbagliando.» disse la ragazza a voce alta, rigirandosi la penna tra le dita «Pensaci un po'. Molti paesi hanno un'immigrazione maggiore della nostra, e non dappertutto va così male.» il suo sguardo si piantò fuori dalla finestra, distratto dal volo di un uccello «Se tu volessi commettere un reato, non andresti a vivere in un paese dove si delinque più facilmente ed è ancora più facile farla franca? Ecco, il mondo non deve essere per forza brutto, ma è fatto di problemi più complicati di quello che la gente pensa.»

«Shh! Zitta, Sofia, che adesso inizia la telenovela...»

Sofia scosse la testa e ricominciò a scarabocchiare il libro.

 

Il giorno dopo Sofia era seduta nello stesso posto con lo stesso libro di storia davanti, la stessa zia Perpetua accanto e la stessa ora sull'orologio. C'era di nuovo il telegiornale, ma almeno quello era diverso.

«La quindicenne di *** che aveva denunciato una violenza confessa: “ho inventato tutto”...» strillarono i titoli.

Sofia fece per commentare, ma la zia la prevenne, facendosi aria con uno dei suoi giornali anche se si gelava: «Fa' silenzio, Sofia, che è importante!»

Sofia non lo metteva in dubbio, si chiedeva solo se sua zia gli desse la stessa importanza che gli dava lei.

«La ragazza ha ammesso di aver mentito per paura che i suoi genitori sapessero della sua relazione con il fidanzato, della stessa età. “La mia famiglia è molto cattolica” ha spiegato “I miei non approvano il sesso prima del matrimonio. Purtroppo prima che la smentita fosse diffusa diffusa un gruppo di esaltati ha incendiato alcune baracche di un campo Rom vicino al luogo del presunto accaduto. Nessun ferito, ma i danni...»

«Che strega!» strepitò zia Perpetua «Io l'avevo detto che era una strega!»

Sofia sospirò, sapendo che la zia non aveva detto proprio niente a parte l'esatto contrario, e si chiese quante altre persone erano convinte di aver detto qualcosa e invece non lo avevano fatto, e se la minoranza fosse quella delle zie Perpetue che ignoravano o quella delle Sofie che sapevano.

Fissò il libro di storia, soppesandolo per un attimo con una sorta di rancore, poi scosse la testa e riprese a leggerlo. Non era colpa sua, in fondo: gli uomini riuscivano benissimo a dimenticare anche senza l'aiuto dei libri di storia.


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