The second smell di Yuri_e_Momoka (/viewuser.php?uid=82965)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
TSS - 1
Nota:
Questa fanfiction partecipa al concorso 'Don't be boring' indetto
da Rosedub.89 e ha dovuto soddisfare questi requisiti:
Crimine: Pezzi di cadaveri umani vengono inviati per posta alle maggiori cariche
politiche europee
Prove: Un appartamento completamente svuotato; Floris eaux de parfum “Sirena”
Impedimento:
Il caso dovrà essere risolto da John, senza l’ausilio di Sherlock
Questa
storia prende ispirazione da alcuni dei casi contenuti nel canone, quali:
'L'avventura della seconda macchia', 'L'avventura della scatola di cartone',
'L'avventura del detective morente', e 'L'avventura degli omini danzanti'.
Il rating è giallo a causa di alcune immagini e situazioni violente.
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Le
ombre si accorciano, la luce vira dall’oro al grigio, il pulsante calore di una
tazza che svanisce dalle dita.
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Ci
trovavamo a trascorrere l’inizio della primavera nel nostro appartamento di
Baker Street. La pioggia che da giorni batteva pigramente e insistentemente alla
finestra aveva avuto un ruolo decisivo, accompagnata da un periodo di silenzio
da parte della comunità criminale di Londra, nel trascinare l’umore del mio
coinquilino a un livello pericolosamente basso.
Osservando
il cielo plumbeo, che sembrava tentare di entrare nell’appartamento, mi pareva
di scorgere i pensieri cupi di Sherlock Holmes.
Sapevo
bene che in quei momenti era inutile, se non anche dannoso e pericoloso,
tentare di instaurare un dialogo con lui, perciò da giorni lo avevo lasciato a
vegetare sul divano, con l’unica compagnia del suo violino e della sua
vestaglia blu, gli unici al mondo che, essendo oggetti inanimati, potessero
sopportare la sua irascibilità senza protestare.
Tuttavia
non potevo biasimarlo completamente. Ero piuttosto sicuro circa la causa del
suo malumore, tanto da poterci addirittura attribuire un nome: James Moriarty.
Erano
trascorse meno di due settimane dal nostro incontro alla piscina, due settimane
trascorse nella più totale incapacità di comprendere esattamente ciò che era
accaduto e le sue implicazioni. O almeno per me. Senza dubbio la mente di
Sherlock si muoveva in modo del tutto diverso.
«Nutro
comunque ancora qualche speranza positiva nei confronti del tuo cervello» fu
quello che disse dopo due giorni di totale silenzio, come se stesse riprendendo
una conversazione appena interrotta.
Rinunciai
in partenza a cercare di capire ciò che volesse dire. «Buon per me, allora.»
«Possiamo
ancora fare in modo che non finisca la sua desolata esistenza nell’ignoranza
quasi totale.»
Sebbene
fossi abituato ai suoi commenti malevoli e cinici, specialmente quando si
trovava nei suoi periodi di astinenza dal crimine – e da Dio solo sa quali
altre sostanze molto più concrete – non sono mai riuscito a sopportare gli
insulti gratuiti, anche se velati da una dialettica intelligente.
«C’è
qualcosa che ti infastidisce particolarmente nel mio cervello o posso
liberarmene del tutto senza troppi rimorsi?»
«Ora
come ora farebbe poca differenza, ma siamo ancora in tempo per porvi rimedio.»
Stanco
di quelle affermazioni mi alzai dalla sedia in salotto per andare a ritirarmi
nella mia stanza. Mentre gli passavo davanti, Sherlock alzò gli occhi al
soffitto.
«Sono
le persone come te che non accettano i consigli altrui a non evolversi mai.»
Mi
fermai ancora prima di imboccare il corridoio, puntandogli il dito contro. «Perdonami,
grande maestro, ma le tue non sono affermazioni, sono solo insulti gratuiti a
un’intelligenza nella media!»
Non
si premurò di nascondere una smorfia. «Le persone credono che sia un genio.»
«Meno
male che non vengono a riferirtelo, altrimenti ti sentiresti al di sopra di
chiunque!»
Si
mise a sedere con uno scatto, puntando le mani in avanti come chi deve attirare
l’attenzione di una persona tarda di mente.
«No,
ascolta. Non si tratta di genialità, ma di saper usare il proprio cervello. La
gente comune non sa farlo.» Non avevo intenzione di starlo a sentire, per cui
ripresi la via verso la mia stanza. «Ma si può imparare! Almeno un minimo,
qualcosa di adatto alle tue capacità.»
«Perché
continui a tirarmi in ballo? Stai parlando di me o degli altri poveri mortali?»
No, per quanto volessi fare la persona matura non mi era possibile abbandonare
quella conversazione da sconfitto.
«La
differenza è minima. Ora!» sottolineò appena vide che stavo per protestare. «Sai
perché quei compatiti di Scotland Yard mi consultano per un caso su tre, anche
se avrebbero bisogno di me per un caso su due? Perché nessuno di loro si è mai
preso il disturbo di farsi una cultura in materia di crimini. I crimini sono
come le mode, sono ciclici.»
«Come
i pianeti» comparai, per prendermi una sicura rivincita. Sherlock apparve molto
seccato e io molto appagato.
«Basterebbe»
continuò, cercando di nascondere la sua irritazione, «leggere tutti i crimini
compiuti negli ultimi duecento anni per trovare sempre un precedente. Ma
nessuno lo fa. Fanno tutti troppo affidamento sulle loro menti brillanti,
quando invece basterebbe passare un po’ di tempo in biblioteca».
Girai
i tacchi. «Fenomenale. Vado a dire a Lestrade di trasferire il dipartimento
alla British Library e di sostituire gli agenti con i bibliotecari. Sai che
risparmio per i contribuenti!»
Invece,
mi avviai definitivamente verso la mia camera al piano di sopra. Dalle mie
spalle provenne ancora la voce insistente di Sherlock: «È l’esperienza che
genera l’abilità! Nient’altro che l’esperienza e una mente allenata. Non certo
come la tua, che viene sprecata in un blog dalla sintassi deludente».
Fu
lo squillo del suo cellulare a coprire l’imprecazione che uscì senza riserbo dalla
mia bocca.
«Sherlock
Holmes» rispose, poi qualche istante di silenzio. «Chiamate un macellaio,
dunque, potrà esservi utile.» Un altro silenzio si unì al mio sconcerto. Vidi
Sherlock sorridere ironicamente. «Fratello caro, com’è andata dal dentista? Due
carie? Anzi, tre. Ti avevo detto di stare attento alla dieta.» Si appoggiò
lentamente allo schienale come chi si sta preparando ad ascoltare una lunga
conversazione, invece riattaccò subito
dopo aver detto velocemente: «Cercherò di liberarmi dagli impegni pressanti».
Lasciò
cadere il telefono sul divano e rimase a fissare il vuoto. Dopo un minuto buono
azzardai un passo avanti.
«Dunque
era Mycroft? O Lestrade?»
«Tutti
e due.»
«Abbiamo
un caso?» domandai, ansioso di porre fine a quelle giornate demoralizzanti.
«Può
darsi.»
Questo
bastò a far passare in secondo piano la nostra sgradevole conversazione.
La
bella signora Hilda Trelawney Hope era seduta in corridoio, su una consunta
sedia in plastica verde, con un fazzoletto di stoffa premuto sulla bocca, come
se fosse sul punto di vomitare. Ero convinto, in realtà, che ciò fosse già
accaduto nel momento in cui aveva aperto il pacchetto. Sally Donovan le aveva poggiato
una mano sulla spalla e muoveva le labbra. Probabilmente le stava dicendo che
un fatto del genere non era poi così raro.
Le
osservavo dall’altra parte del vetro che fungeva da parete della stanza della
stazione di polizia dove ci trovavamo riuniti. Sherlock ed io, Lestrade, il
signor Trelawney Hope e persino Mycroft Holmes, l’unico attualmente seduto in
un angolo buio: com’era suo solito, osservava la situazione prima di compiere
qualunque sforzo.
L’oggetto
della nostra attenzione era appoggiato sul tavolo in mezzo alla stanza.
Sembrava un innocuo pacchetto, avvolto in una semplice carta da pacco gialla
spiegazzata. Sherlock ne aveva sicuramente dedotto che il pacco era stato
aperto e poi richiuso con la sua stessa carta, prima di essere portato alla
stazione, confermando la storia dei due famosi coniugi. Il signor Trelawney
Hope, infatti, altri non era che il Segretario degli affari europei. Il fatto
che lui di persona, accompagnato dalla moglie, si fosse preso il disturbo di
recarsi alla polizia era di per sé un fatto curioso. Ma mai come il contenuto
di quel pacco: adagiato su un morbido supporto di cotone pulito si trovava un
orecchio umano.
«È
andata così» iniziò il signor Trelawney, con l’espressione impaziente di chi è
costretto a raccontare i fatti per l’ennesima volta, «mi trovavo già in ufficio
quando mia moglie mi ha telefonato. Non accade spesso, solitamente le sue
chiamate mi arrivano tramite la segretaria…»
«Quindi
l’ha chiamata sul cellulare» puntualizzò Sherlock. Non era affatto una domanda.
«Sì.
Mi ha chiamato sul cellulare e quando ho risposto ho capito che si trattava di
qualcosa di grave. Era molto agitata e preoccupata. All’inizio non sono
riuscito a capire di cosa stesse parlando.»
«Le
ha detto di aver ricevuto un orecchio per posta» completò Sherlock. Era
difficile capire chi dei due fosse più impaziente.
«Esatto»
rispose Trelawney stizzito. «Tuttavia non sono tornato a casa subito, credevo
si trattasse di uno scherzo. Avevo da fare e così me la sono presa comoda. Sono
arrivato all’ora di pranzo e così ho scoperto che, effettivamente, si trattava
di un vero orecchio umano. Mia moglie voleva assolutamente chiamare la polizia,
ma io ero restio: essendo un personaggio di rilievo sulla scena politica,
simili scandali è meglio trattarli con delicatezza.»
«Lei
voleva risolvere le cose privatamente ed ecco lo sfortunato motivo per cui mi
trovo qui» terminò Sherlock dalla sedia in cui era pigramente sprofondato, le
mani nelle tasche del cappotto. Poi si rivolse a Lestrade e a suo fratello: «Esiste
un reale motivo per cui sono stato scomodato?».
«Il
Segretario ha chiesto di te e non posso biasimarlo per questa scelta» rispose
Lestrade, mentre Mycroft ignorò la domanda, intento a rigirarsi tra le mani il
suo telefono. «Siamo comunque soliti lavorare assieme, quindi gli interessi di
tutti possono coincidere: la polizia può usare i suoi mezzi per risolvere il
mistero, mantenendo comunque la faccenda privata e ufficialmente assegnata a
te.»
«È
la polizia che lavora con me. Non è un rapporto simbiotico» disse Sherlock,
ignorando completamente la spiegazione di Lestrade. Si alzò all’improvviso e
rigirò la carta da pacchi.
«Spedita
da un uomo francese» concluse. «Persino la polizia saprebbe dedurlo visto che
il francobollo e il timbro postale sono inglesi, la scrittura è quella di un
uomo colto, ma non laureato, verso la trentina, di origini francesi o che parla
prevalentemente il francese, visto l’errore nello spelling della parola
‘Trelawney’, che è diventata ‘Trelaweny’. Quindi una sola persona o, più
verosimilmente, un gruppo di due o tre. Certamente non occorro io per dirvi di
analizzare il DNA dell’orecchio e dell’eventuale saliva sotto il francobollo.
Chiamatemi se ci sarà un vero caso da risolvere.»
Senza
attendere una risposta, Sherlock spinse la pesante lastra di vetro che fungeva
da porta, facendo alzare la testa al sergente Donovan e alla signora Hilda.
«E
se ti dicessi che altre parti del corpo sono state recapitate contemporaneamente
ad altri Paesi europei?» La provocazione di Mycroft catturò l’attenzione di
tutti coloro si trovavano nella stanza, Sherlock compreso. Evidentemente il
maggiore degli Holmes era l’unico a conoscere quel risvolto.
«Non
ne sono stato informato!» sbottò Trelawney.
«È
una notizia fresca» rispose Mycroft, accennando al cellulare. «Senza offesa,
Robert…» Alzò gli occhi su Trelawney. Non terminò la frase, ma il significato
era ovvio.
Sherlock
studiò per un istante la porta semi aperta, poi proseguì con decisione. «Penserei
a controllare i recenti movimenti del gruppo anarchico.» Uscì senza aggiungere
altro. Prima di seguirlo, gettai un’occhiata a Lestrade, sulla via
dell’esasperazione, all’offeso signor Trelawney e al sogghignante Mycroft.
Sul
taxi del ritorno rimanemmo in silenzio. La mia fu più che altro una scelta
dettata dal buon senso e dell’esperienza, anche se in verità avrei voluto
discutere di quello strano pacco.
«Cosa
ne pensi dell’orecchio?» Finalmente la domanda. Quando Sherlock chiedeva la mia
opinione ero sempre scettico; ero sicuro che trovasse le mie goffe risposte un
divertimento in quei momenti di noia che un semplice caso gli procurava. Ero
già stato oggetto delle sue critiche, quella mattina, ma il suo sguardo
penetrante fisso su di me era in assoluto la motivazione più convincente che
potesse darmi per rispondere.
«Uhm…
non ho avuto tempo di analizzarlo accuratamente» iniziai, tendando di costruirmi
una giustificazione per il mio probabile fallimento. «Era un orecchio destro.»
«Bene»
mi incoraggiò.
«Sembrerebbe
maschile, viste le dimensioni, ma c’era il buco di un orecchino nel lobo,
quindi… una donna con le orecchie grandi?»
«O,
più probabilmente, un uomo che portava un orecchino. Vai avanti.»
Imprecai
mentalmente per non aver pensato a una soluzione così ovvia. Il mio entusiasmo
iniziale subì un improvviso arresto.
«Non
credo…»
«John,
non ho una tale sfiducia nelle tue osservazioni.»
Un
complimento che celava una critica, come suo solito.
«Ho
sentito odore di formaldeide.»
«Ovviamente,
altrimenti non si sarebbe potuto conservare.»
«Ma
era sulla superficie, non è stata iniettata. Qualunque imbalsamatore o una
persona con qualche competenza medica saprebbe che, per funzionare a dovere, la
formaldeide va iniettata.»
«Bene.»
Sherlock annuì. «Poi?»
«Carnagione
scura. Ispanico?» azzardai.
Annuì
di nuovo. «Proprio come il signor Trelawney.»
Mi
illuminai. «Credi che lui sia coinvolto?»
«Non
credo niente per ora.»
«Però
pensi che sia un caso interessante.» Cercai di riguadagnare punti trasformando
quella domanda in un’affermazione.
«Neanche
lontanamente.»
Incassò
la testa nel colletto del cappotto e si ammutolì di nuovo.
Fummo
a casa per l’ora di pranzo e Sherlock non volle più parlare del caso. Ero
abbastanza deluso dalla piega inutile che stava assumendo il mio giorno di riposo
e stavo considerando l’ipotesi di fare una passeggiata prima che calasse il
buio, quando qualcosa arrivò a interrompere la mia noia.
Il
campanello suonò e la signora Hudson fece accomodare l’ospite al piano di
sopra. Si trattava di Hilda Trelawney, nello stesso trench grigio, macchiato
dalla pioggia, che indossava alla stazione di polizia. Stringeva forte i manici
della borsetta come se questa fosse il suo ultimo appiglio.
«Ho
qualcosa da aggiungere alla storia» disse, senza attendere di essere interrogata.
«Si
sieda pure» la invitai, accennando alla sedia vicino al tavolo. Sherlock era
nella sua poltrona e non aveva accennato ad alzarsi, né ad accogliere la
signora.
«Vuole
raccontarci la sua versione?» esordii. Lei scosse la testa.
«Quello
che ha detto mio marito corrisponde alla verità. Però c’è qualcosa che ha
tralasciato.»
«Lei
voleva chiedere aiuto alla polizia, è stato suo marito a volermi consultare» la
interruppe Sherlock.
«Sì.
Ma ho pensato solo ora alla possibile connessione con un altro fatto che
preferirei rimanesse privato, almeno finché non ne sapremo di più.»
«Continui»
le concesse Sherlock distogliendo lo sguardo.
«L’assistente
di mio marito è scomparso da un paio di giorni.»
«Ne
ha denunciato la sparizione?»
La
signora Hilda indietreggiò col busto in posizione di difesa. «In realtà no. Non
siamo sicuri che sia scomparso. Intendo dire che non ne abbiamo più avuto
notizia.»
«Questo
assistente è ispanico e porta un orecchino all’orecchio destro?»
La
signora annuì mestamente, senza sorprendersi: sapeva di cosa stava parlando. «Proprio
così.»
«E
perché vuole che la faccenda rimanga segreta? Il DNA confermerà comunque a chi
appartiene quell’orecchio.»
La
signora Hilda gettò un’occhiata alla finestra, mordendosi un labbro in un
momento di indecisione. «Lui e mio marito hanno avuto una discussione due
giorni fa. Una brutta discussione. Ma so che mio marito non c’entra niente con
la sua sparizione. Signor Holmes!» Il tono della sua voce si era alzato gradualmente.
«Lei è capace e intelligente, vorrei che trovasse le prove dell’innocenza di
mio marito prima che la polizia ne faccia uno scandalo!»
«Una
discussione a proposito di cosa?»
«L’assistente
– il suo nome è Eduardo Lucas – ultimamente non teneva un comportamento
professionale, arrivava sempre in ritardo, un paio di volte era ubriaco. Questo
non è da lui, mio marito ha provato a parlargli, ma lui era troppo irascibile e
mio marito non è molto paziente. Hanno finito con l’insultarsi e il signor
Trelawney gli da detto di non scomodarsi a tornare se fosse stato di nuovo in
quelle condizioni.»
«Chi
ha sentito questa discussione?»
«Molte
persone. Mio marito tiene alcune riunioni a casa e quel giorno ne era in corso
una.»
Nonostante
quelle rivelazioni Sherlock non sembrava più interessato di prima. La luce
grigia di quel pomeriggio primaverile enfatizzava il suo pallore.
«Che
compiti aveva il signor Lucas in qualità di assistente?»
«Aiuta
mio marito nei rapporti con la Francia. Gli fa anche da interprete.»
«Perché
parla al presente, signora Trelawney?» domandò con quella che parve una nota di
rimprovero.
La
donna ne rimase negativamente colpita. «Io spero sia ancora vivo!»
«Che
rapporti aveva con Lucas?»
«Era
spesso a casa nostra, qualche volta si fermava per cena.»
«Quando
hanno iniziato a manifestarsi quei comportamenti insoliti?»
«Circa
due settimane prima del litigio.»
Finalmente
Sherlock si alzò dalla poltrona e si diresse alla porta. «Bene, signora
Trelawney, lasci l’indirizzo di Lucas e vedremo cosa possiamo fare.»
Nella
sua voce non c’era un briciolo di interesse. Hilda Trelawney uscì dalla stanza con
qualche esitazione, dopo aver posato un biglietto sul tavolo.
«Si
è ritrovata un orecchio mozzato tra le mani e ora cerca di difendere suo
marito. Cos’è che ti infastidisce così tanto di quella donna?» Ero rimasto in
silenzio tutto il tempo, lasciando pazientemente Sherlock al suo
interrogatorio, ma ora che non potevo più metterlo in cattiva luce potevo
cercare di capire il motivo della sua scortesia.
«Ordinaria.
Impulsiva. Sentimentale.»
Colsi
al volo quella frecciata e non fu affatto piacevole.
Come
a sottolineare il suo disappunto, prese in mano il suo telefono e se lo accostò
all’orecchio. «Lestrade. L’orecchio appartiene ad Eduardo Lucas, assistente
personale e interprete di Trelawney.» Una pausa, la sua espressione rimase
immutata. «L’ho letto nella mia sfera di cristallo, come faccio con tutti i
casi. Andiamo a casa di quest’uomo.» Riagganciò, mentre dall’altra parte del
telefono Lestrade parlava ancora.
Mentre
salivamo le scale che portavano all’appartamento di Lucas in Godolphin Street,
riflettei: era un caso insolito, almeno per me. In un semplice pacchetto
sembravano convergere ben tre Paesi: mittente francese, francobollo e timbro
postale inglesi, oggetto del pacchetto di origini spagnole. Come aveva
affermato Sherlock, anch’io ero portato a credere al coinvolgimento di più
persone. Se un francese aveva impacchettato il contenuto e un inglese l’aveva
spedito, forse lo spagnolo poteva essere il mandante? O si trattava
semplicemente di un lungo procedimento per confondere le tracce? O entrambi?
Entrammo
nell’appartamento: era un casa vecchia, più che antica, con il soffitto alto e
parquet lucido a rivestire il pavimento. Le testimonianze dei viaggi
dell’inquilino in giro per l’Europa erano visibili nei numerosi cimeli mal
accostati appesi alle pareti e appoggiati sui mobili in legno, tra cui una
collezione di armi antiche, non troppo ben tenute. La casa sembrava più o meno in
ordine, il letto era rifatto, niente sembrava essere stato risistemato
velocemente. Pensai che Lucas non fosse stato sequestrato lì, oppure che non
avesse opposto nessuna resistenza.
Lestrade
aveva portato con sé due agenti e insieme a loro stava setacciando ogni angolo
alla ricerca di indizi. Sherlock, d’altra parte, sapeva dove osservare. Diede
un’attenta occhiata alla libreria molto fornita, aprì un quaderno che – spiai –
sembrava pieno di disegni fatti da un bambino e lo fotografò col cellulare,
sollevò le coperte sul letto e aprì i cassetti del comodino lì accanto. Ne
estrasse un piccolo sacchetto bianco e raffinato, con un nastro di seta su un
lato. Mi avvicinai incuriosito quando fui investito da uno spruzzo umido che mi
mozzò il respiro. Tossii mentre Sherlock leggeva: «Floris eau de parfum. Sirena. Oh, un regalo lussuoso.»
Lanciò
la boccetta in aria e io l’afferrai, rigirandomela tra le mani e rileggendo
l’etichetta, con gli occhi che mi lacrimavano.
«Ho
visto abbastanza» disse Sherlock approssimandosi all’uscita. «Non credo che il
signor Lucas tornerà, quindi voi della polizia avrete tutto il tempo che vi
serve per i vostri…» Agitò la mano in cerca di un termine pittoresco. «Tentativi.»
Era
buio da un pezzo quando rientrammo. Sherlock non volle cenare, pensai che
volesse sfruttare ogni sua cellula per la soluzione del caso. Eppure non aveva
dato segno di interessarsi all’orecchio mozzato o alla scomparsa di Lucas.
Anzi, seppur abituato ai suoi stati d’animo poco incoraggianti, ero rimasto
colpito dalla sua ingiustificata irascibilità. Ingiustificata per me, quanto
meno.
La
pioggia aveva cessato di cadere, Baker Street era silenziosa, fuori era buio,
eccetto per la luce paglierina del lampione che tentava di illuminare la
strada. In conclusione, non c’era nulla di interessante subito al di fuori di
quelle mura. Ciò che mi incuriosiva, invece, era lo sguardo spento di Sherlock
rivolto verso i vetri.
«Non
ti senti bene, per caso?»
«Non
saprei, come ci si sente a non sentirsi bene?» rispose lui, parlando più
lentamente del solito.
Gli
risparmiai la mia incredulità e tirai a indovinare. «Caldo? Freddo? Brividi e
formicolii? Dolore alle giunture?»
«Le
ultime due, sì.»
Annuii.
«Dev’essere influenza. Oppure è colpa di questa pioggia fredda. Ad ogni modo
dovresti riposare.»
Ero
preparato a una risposta saccente e sprezzante, invece Sherlock si alzò e si
diresse lentamente verso la sua stanza. «Forse dovrei.»
Fui
decisamente sorpreso, nonostante non lo avessi mai visto malato e quindi non sapessi
com’era solito comportarsi. Ero rimasto vagamente stordito dalla sua docilità,
quindi accennai qualche passo dietro di lui.
«Ti…
serve qualcosa? Vuoi che ti porti qualcosa?»
«No.»
Entrò nella camera.
«Cosa
vuoi che faccia con il caso dell’orecchio?»
«Quale
caso?» Chiuse la porta. Rimasi interdetto.
«Se
hai bisogno…»
«John.»
Udii la sua voce, resa ovattata dalla porta chiusa, eppure mi sembrò comunque
troppo conciliante per essere la sua. «Non ti preoccupare.»
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
TSS - 2
Il
mio rientro all’ambulatorio non fu dei più rilassanti: una forma di influenza
tenace aveva portato un esodo di anziani e madri con i figli piccoli a farsi
controllare. Durante il tempo che impiegai a dividere i veri malati da quelli
suggestionati ebbi solo un paio di occasioni per spedire un messaggio a
Sherlock e chiedergli come si sentiva, avendo notato che alcuni dei contagiati
presentavano febbre alta. La sua risposta ad entrambi i messaggi fu ‘bene’, e
nient’altro.
Ero
talmente preso dal lavoro che dimenticai le indagini sull’orecchio mozzato e
quando arrivai a casa, ben dopo l’ora di cena a causa del lavoro straordinario,
me ne andai semplicemente a letto.
La
mattina dopo non vidi Sherlock, ma fortunatamente non mi ritrovai a dover
affrontare lo stesso assedio di malati del giorno prima, tanto che ebbi il
tempo di spedire un messaggio a Lestrade e chiedergli come procedevano le
indagini.
Confermato
DNA di Lucas.
Appartamento
svuotato.
Interpretai
l’ultima frase come una precauzione, da parte della polizia, nel trasportare
altrove tutto il materiale conservato nell’appartamento, ma poiché mi sembrava
una trovata assurda chiesi ulteriori spiegazioni, che non tardarono ad
arrivare.
Qualcuno
si è introdotto
e
l’ha svaligiato, compresi
i
mobili.
Puoi
chiedere a Sherlock
di
rispondere al telefono?
Grazie.
Un
po’ per l’eccitazione di quell’insolito risvolto, un po’ per andare incontro
alle richieste di Lestrade, scrissi anche a Sherlock.
Novità
sul caso, Lestrade
ti
avrà aggiornato.
Controlla
i messaggi!
Come
stai?
Non
ricevetti risposta, ma la fine del mio turno si avvicinava.
Scrollai
la pioggia dall’ombrello prima di mettere piede nell’appartamento. In soggiorno
aleggiava una luce tetra, ma fui colpito nell’udire il suono del televisore
acceso: il notiziario delle 6 raccontava un raccapricciante fatto di cronaca.
Sherlock
era affondato nella poltrona con le ginocchia raccolte contro il petto e
avvolto in una brutta coperta patchwork che non avevo mai visto, tanto che potevo
scorgerne solo la cima della testa.
«Non
rispondi ai messaggi» constatai salutando.
«Il
telefono è lontano» rispose con voce flebile e roca, senza distogliere lo
sguardo dalle immagini macabre.
«Però
sei venuto fin qui.»
«Se
sono qui non posso prendere il telefono che è in camera.»
Abbandonai
la giacca bagnata sullo schienale di una sedia e allungai la mano verso di lui.
«Febbre?»
Si
ritrasse nella coperta come un animale ferito. «No. Mi infastidisce. Ho subito
un incremento del senso del tatto.»
Sospirai.
«Ipersensibilità, è normale. Non hai mai avuto la febbre prima?»
«Può
darsi. Non ricordo. Non è importante.»
«Immagino
di no.» Assecondarlo era la via migliore per evitarmi discussioni fastidiose. «Lestrade
mi ha detto che…»
«Non
mi interessa.» Si alzò immediatamente trascinandosi dietro la coperta colorata.
«Ma
è il tuo caso!»
«Oh.
Dunque deve esistere un altro Sherlock Holmes che mi somiglia molto ed ha
accettato questo caso, perché io sono sicuro di non averlo mai fatto.»
Si
diresse a passi strascicanti verso la sua stanza.
«Ma
le cose si stanno evolvendo, potresti avere qualcosa di interessante…»
«Prendilo
tu, allora» disse fermandosi davanti alla porta.
Rimasi
interdetto. L’ipotesi era talmente assurda che mi venne da sorridere. «Ma… io
non posso farlo.»
«Ovviamente
puoi. È la sua risoluzione che potrebbe rivelarsi molto lontana dal possibile.»
Senza
distogliere lo sguardo da me, con un accenno di sfida negli occhi, aprì
bruscamente la porta e si rintanò nuovamente nella sua camera buia.
«Spagna,
Danimarca e Svezia sono i Paesi che finora ci hanno fornito notizie o che si
sono lasciati contattare, ma sospetto che altri non vogliano fare rivelazioni.»
Avvertii un tono di ansia e affaticamento nelle parole di Lestrade, che però non
era dovuto alle forze spese per salire le scale della casa in Godolphin Street,
la mattina dopo. Chiaramente la faccenda stava diventando complicata: alte
cariche europee – come aveva già anticipato Mycroft – avevano ricevuto, via
posta, parti di corpo umano. Un paio di loro avevano deciso subito di collaborare
e spedire i risultati delle analisi nel Regno Unito, ma altri si dimostravano
reticenti, altri ancora non collaboravano proprio per evitare scandali e fughe
di notizie. Spesso gli alleati si rivelano più una fonte di problemi che di
sostegno, avevo avuto modo di impararlo durante la mia esperienza militare. E
anche quella domestica.
«E…»
riprese Lestrade con una leggera ansia, «che mi dici di Sherlock?».
«A
letto. Manda me a fare i vari sopralluoghi e io lo… aggiorno.» Pensando di non
risultare abbastanza credibile accompagnai quella mezza bugia con un sorriso
stirato. Lestrade annuì e non rispose. Sapevo che il caso aveva iniziato a
preoccuparlo seriamente e che avrebbe di gran lunga preferito avere Sherlock
accanto a lui.
Il
detective entrò nell’appartamento, io lo seguii, notando i sigilli che erano
stati applicati sulla porta, ora rotti. Come mi era stato detto, la casa era
stata completamente svuotata: non c’era più niente, nemmeno un quadro, un
manifesto, un tappeto. Persino tutti gli inutili souvenir erano stati trafugati
come se avessero acquistato improvvisamente valore.
Erano
rimaste solo le pareti, il pavimento e il soffitto. L’unica cosa che era stata
lasciata era un graffito: la famosa A cerchiata era stata disegnata su una
parete, apparentemente con una bomboletta di vernice nera. Sherlock aveva avuto
ragione a considerare il gruppo anarchico. Ovviamente.
Cercai
di riproporre i metodi utilizzati da Sherlock: volevo scoprire qualcosa di
interessante che risvegliasse in lui l’interesse per il caso, ma per quanto
m’impegnassi non vi era molto da perlustrare. Cercai di individuare orme
particolari nella polvere, ma tutto ciò che vidi furono le tracce lasciate dai
poliziotti; cercai segni sui muri, ma la carta da parati era già vecchia e
consunta la prima volte che avevo visitato l’appartamento e, eccetto per il
nuovo graffito, non riuscii a trovarvi nulla di particolare.
Mentre
stavo per rinunciare, Lestrade aggiunse un nuovo particolare. Me lo riferì
sottovoce, aveva l’aria di trattarsi di un risvolto significativo.
«Svezia,
Danimarca e Spagna ci hanno inviato i risultati delle analisi e alcune
fotografie: le parti del corpo ricevute appartengono tutte a Lucas, ma gli
indirizzi sui pacchi sono stati scritti da mani diverse e anche i francobolli
cambiano ogni volta.» Guardò il pavimento dondolandosi nervosamente. «Sembra
proprio che abbiamo a che fare con un’organizzazione ampia e con serie
intenzioni.» Tornò con lo sguardo su di me, un misto di gravità e supplica
negli occhi. «Convinci Sherlock a occuparsene. Per favore.»
Rimasi
colpito dalla sua preoccupazione. «Farò del mio meglio» assicurai, ma avevo
poca fiducia nelle mie capacità di persuasione.
Pensai
di affidarmi al suo orgoglio e al suo narcisismo: se avessi iniziato il
discorso riferendogli che aveva avuto ragione a sospettare degli anarchici,
questo lo avrebbe sicuramente fatto interessare di più al caso. Oppure no: il
fatto che avesse sospettato gli anarchici fin dal primo momento avrebbe potuto
convincerlo ancora di più della banalità della vicenda. Ero ormai in grado di
interpretare i suoi silenzi, sapevo tradurre in frasi di senso compiuto i suoi
mugugni e riuscivo sempre a leggergli nello sguardo la differenza tra
disapprovazione, delusione, frustrazione o eccitazione per un omicidio
intrigante. Tuttavia tutto ciò che portava ad un certo stato d’animo era spesso
avvolto nella mia ignoranza più totale, almeno fin quando egli stesso non si
scomodava a chiarire i miei dubbi.
Per
farla breve, nel momento in cui mi chiusi alle spalle la vecchia porta verde
che si affacciava su Baker Street, ancora non sapevo con quale particolare
l’avrei convinto a riprendere ad occuparsi del caso. Caso che, comunque,
presentava delle perplessità. Mentre salivo i gradini tentavo di figurarmi come
mai un gruppo di anarchici avrebbe dovuto
svuotare l’appartamento del proprio ostaggio dopo che la polizia l’aveva
già perlustrato. C’era un che di misterioso in quel comportamento, un che di
anomalo e leggermente inquietante. Speravo davvero che questo particolare
avrebbe titillato a sufficienza il mio coinquilino.
Bussai
alla sua porta, ma non ci fu nessuna risposta. Prima di aprire chiamai la
signora Hudson.
«No,
sono un po’ preoccupata, John» rispose stropicciandosi le mani, dopo che l’ebbi
chiesto se lo aveva visto durante il giorno. «In realtà sì, non l’ho visto
però. Ho bussato e gli ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa, perché sapevo
che si era preso questa brutta influenza. Mi ha detto che non gli serviva
niente e di andare via. Non mi sono impuntata, sai, quando è di cattivo umore
il suo caratteraccio mi spaventa.» Annuii perché la capivo e perché cercava
insistentemente la mia approvazione con lo sguardo.«E da allora non l’ho più
visto.»
«Va
bene, signora Hudson, sarà il caso che vada a vedere io. Se sta male non può
rifiutare l’aiuto di un medico.» Il medico ero io, per questo mi sentivo
leggermente in colpa: non mi ero particolarmente occupato di lui durante quegli
ultimi giorni. Sicuramente la sua scontrosità non rendeva facile insistere su
quell’argomento; il più delle volte preferivo lasciarlo ai suoi problemi
piuttosto che subirmi le sue lamentele sprezzanti. Questa volta però avrei
fatto qualcosa e se si fosse chiuso in camera avrei sfondato la porta. O forse
avrei solo chiamato un fabbro. Anzi, probabilmente la signora Hudson aveva una
copia di ogni chiave dell’appartamento.
Bussai
di nuovo, più forte. «Sto entrando.» Attesi ancora qualche istante una risposta
che non venne. Afferrai il pomello aspettandomi di sentirlo bloccato, invece la
serratura scattò e la porta si aprì senza alcuna resistenza. Le luci erano
spente ma la finestra era aperta. Le tende si gonfiavano ritmicamente: fuori si
era alzato il vento, la stoffa chiara si sollevava in direzione del letto.
Vuoto.
«Sherlock?»
chiamai confuso, come se potesse saltare improvvisamente fuori dall’armadio.
Con mio grande disappunto, non accadde niente del genere. Mi inginocchiai
persino a guardare sotto il letto, ma la stanza era completamente vuota. Controllai
di nuovo tutta la casa, sentivo uno spiacevole formicolio estendersi sulla nuca
per ogni stanza che trovavo disabitata.
«È
uscita di casa oggi?» domandai alla signora Hudson sulle scale, ponendo
fermamente una mano di fronte a me, come a tentare di bloccarle i ricordi che
potessero sfuggirle. Come avrebbe potuto dimenticarsi di una cosa del genere?
«Mh?
Certo, sono uscita un’ora stamattina, sono andata dal parrucchiere!» Lo disse
con un tono di voce incredulo: secondo lei la sua nuova piega doveva essere la
prima cosa che avrei dovuto notare, una volta rientrato.
«Non
c’è.»
Stavolta
la padrona di casa fu ancora più stupita. «Non c’è? Non è in casa? Sul serio,
John? Non è possibile.»
Ero
agitato, molto agitato, ma capii che far preoccupare la signora Hudson non
avrebbe semplificato le cose, quindi mi sforzai di sorridere. «Beh, sarà andato
a prendere un po’ d’aria, non è il caso di preoccuparsi subito.»
‘Prendere
un po’ d’aria’. Quella frase era assolutamente assurda se associata a Sherlock.
Due note opposte e discordanti. ‘Sherlock Holmes è andato a prendere una
boccata d’aria’. Era contraddittoria in sé.
«Prendere
aria? È impossibile, a mala pena mi parlava dal letto!»
«Stia
tranquilla, ora gli telefono. Anzi, forse mi ha scritto un messaggio e io non
l’ho notato. Non c’è motivo di preoccuparsi. Vada a preparare una delle sue
tisane alle erbe, eh? Ne prendo una tazza anch’io, se non le dispiace.»
Insistetti
ancora un paio di volte e, incoraggiandola ulteriormente con un po’ di
pressione sulle spalle, la convinsi a scendere nel suo appartamento e a
lasciare a me il resto.
Ovviamente
controllai il cellulare alla ricerca del fantomatico messaggio, sperando che il
solo parlarne lo facesse comparire, ma non c’era niente, né un messaggio non
letto, né una chiamata persa.
Composi
il suo numero e rimasi ad ascoltare i segnali intermittenti e interminabili. Il
telefono squillò a vuoto finché non venne attivata la segreteria. Sapevo che
non l’avrebbe mai ascoltata quindi scrissi di fretta un messaggio: dove sei? Solo questo, così non avrebbe avuto
il tempo di annoiarsi leggendolo.
Forse
mi stavo preoccupando inutilmente, ma più cercavo di convincermene più l’ansia
aumentava. Dovevo metterci un freno e pensare razionalmente e il primo nome che
associai a ‘razionale’ fu quello di Mycroft Holmes.
«Sì?» rispose dopo diversi squilli. Dalla
voce sembrava particolarmente tediato.
«Sono
John.» Ovviamente lo sapeva già: doveva averlo letto sullo schermo e anche se
non l’avesse fatto l’avrebbe saputo comunque.
«Sì, John?»
«Hai
parlato con Sherlock, oggi? L’hai visto, forse?» Sentii un improvviso brusio di
voci e mi venne da chiedere, con un po’ troppo slancio: «È con te?».
«No, attendi un attimo, per favore.»
Sentii che appoggiava una mano sul ricevitore per attutire i suoni e che
parlava con qualcuno. Un paio di persone, forse. Poi la voce tornò chiara. «Scusa, dicevi?» La noia con cui si stava
rivolgendo a me, prendendo quella situazione completamente alla leggera, mi
fece innervosire.
«Hai
visto Sherlock? In casa non c’è, non è reperibile e quando l’ho lasciato non
stava affatto bene.»
«Mh-mh» assentì. «Si tratta di una ‘giornata pericolosa’?»
Impiegai
qualche istante a capire. «No. No! È malato, aveva la febbre»
«Oh, questa mi giunge nuova. No, mi spiace,
non l’ho sentito da quando ci siamo incontrati alla stazione di polizia. E, a questo
proposito, come procede il caso?»
«A
rilento, visto che colui che doveva occuparsene non si trova!»
«Ah. Ha accettato, dunque?»
Mi
chiedevo sempre perché mi ponesse delle domande di cui conosceva già la
risposta. Sapeva perfettamente che Sherlock non trovava il caso dell’orecchio
più interessante di un barattolo di cetriolini. La sua indifferenza mi irritava
e avevo tentato di coinvolgerlo. Cosa mi era saltato in mente? Improvvisamente
volli concludere quella conversazione al più presto.
«Il
caso non è importante, adesso. Non è con te, dunque. Se hai notizie fammi
sapere, per favore.»
«Certamen-» Riagganciai.
Per
quanto pensare a Mycroft mi procurasse sempre, inevitabilmente fastidio, se
fosse successo qualcosa a Sherlock lui l’avrebbe saputo. Lui sapeva sempre. Non
c’era niente di cui preoccuparsi.
La
signora Hudson entrò in salotto accompagnata dal leggero tintinnio delle tazze
di ceramica sui piattini; rimase in piedi sulla soglia, cercando di leggermi il
viso.
«Non
c’è da preoccuparsi» ripetei, più a me stesso che a lei.
Ricordo
bene quella notte: la trascorsi a letto, tentando di imitare la normalità, ma
fissando la porta della mia camera e la sottile lama di luce che penetrava
debolmente dal basso. Avevo lasciato la luce accesa in soggiorno, pensando che
potesse essere d’aiuto nel caso Sherlock fosse rientrato quella notte. Ricordo
di aver trattenuto il fiato a ogni rumore e di averlo esalato appena mi rendevo
conto che la cadenza di quei passi era diversa, che il fruscio del soprabito
era un altro.
Ricordo
di aver chiuso gli occhi così spesso, nella speranza di dormire, di aver
creduto di stare soltanto sbattendo le palpebre. Ricordo di essermi ripetuto
centinaia di volte che la mia ansia era infondata, che era già successo prima.
Ricordo di essermi reso conto che la mia ansia sarebbe stata infondata se lui
non avesse avuto la febbre, se non fosse sgattaiolato via proprio quando la
signora Hudson non era in casa, se mi avesse mandato un messaggio alle 3 di
notte dicendomi di raggiungerlo in un posto sconosciuto alla ricerca di un cadavere
senza piedi ma con le scarpe addosso.
Ricordo
di aver atteso quel messaggio per un’eternità e di aver visto sorgere l’alba.
Ricordo
di aver sentito un rumore alla porta, di essere balzato giù dal letto, teso ed
esasperato, e ricordo la mia delusione nello scoprire che si trattava
unicamente del postino che recapitava un pacchetto.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
TSS - 3
Vidi
Molly Hooper apparire in fondo al lungo corridoio: reggeva una cartellina
chiara, sottile, pochi fogli all’interno. Forse addirittura solo uno. La
risposta che aspettavo non aveva bisogno di lunghe spiegazioni. In realtà una
sola parola avrebbe fatto la differenza.
Molly
camminava spedita, rallentò, poi accennò una corsa e rallentò di nuovo. Non era
sicura di volermi far sapere la risposta, era indecisa tra il rivelarmi subito
il risultato o prolungare la mia attesa. Avrebbe semplicemente potuto
gridarmelo dal fondo del corridoio e mi sarei tolto quel peso dalle spalle che
mi impediva di alzarmi dalla sedia di plastica.
«L’hai
letto?» le chiesi impaziente quando fu a portata di voce.
«S-sì. Uhm… John…» No. Volevo una
risposta precisa. Volevo vedere scritto su quel foglio: positivo o negativo. Sì
o no. Le presi la cartellina, lei si portò immediatamente la mano libera a
coprirsi le labbra, poi guardò per terra, aspettando che leggessi.
Aprii
il fascicolo, all’interno un singolo foglio bianco era fissato con una
graffetta al margine superiore. C’era un titolo stampato in corsivo che
precisava che le analisi erano state condotte dal laboratorio di analisi genetica
dell’ospedale St. Bartholomew, poi il nome del capo del laboratorio: Dr.
Culverton Smith.
Stavo
indugiando, ma con la visione periferica riuscivo già a scorgere una parola
stampata in caratteri grandi.
POSITIVO
Distolsi
lo sguardo e lessi di nuovo; c’era scritto ancora ‘positivo’.
«Cosa
facciamo, John?» domandò Molly Hooper, impaziente.
Positivo.
«Voglio
parlare con questo dottor Smith.»
«Vedo
cosa posso fare.»
Non
aveva senso.
Non
aveva senso: lo avevo pensato anche quando avevo trovato quel pacchetto davanti
alla porta. Un oggetto semplice come quello non avrebbe mai suscitato sospetti
se non fosse stato drammaticamente simile a quello che, solo pochi giorni
prima, giaceva aperto sul tavolo della stazione di polizia, mostrando la parte
mozzata di un corpo umano.
Lo
avevo portato di sopra, sul tavolo in salotto, e nel frattempo non avevo potuto
non notare un particolare che mi aveva provocato una sensazione simile a quella
del ghiaccio che scivola sulla spina dorsale: l’indirizzo sul pacchetto era
scritto in una grafia assurdamente simile a quella di Sherlock, solo un po’ più
disordinata. Oppure tremante.
Mi
rifiutavo di crederci, eppure sapevo cos’avrei trovato al suo interno. Dopo
aver scartato il pacchetto con lentezza
esasperante, avevo sollevato il leggero coperchio di cartone con una
delicatezza destinata solo alle ali di una farfalla, o al viso di una donna. O
a Sherlock.
L’odore
di formalina mi aveva mozzato il respiro. Aprire del tutto quella scatola
sarebbe stato inutile, eppure dovevo andare fino in fondo.
Cotone
bianco.
E
un pallido dito affusolato.
Aggirandomi
nel labirinto abbagliante di provette, becchi Bunsen e macchinari dall’aria
incredibilmente costosa e futuristica non potei fare a meno di immaginarmi
Sherlock seduto a un tavolo, con gli occhi incollati a un microscopio. Chissà
se era stato lì, chissà se aveva collaborato con alcune delle persone presenti,
se aveva mai insultato la loro intelligenza, se aveva mai chiesto loro di
passargli il telefono che teneva nella sua giacca. Chissà se, in un qualche
giorno passato, ci eravamo incrociati nei corridoi del Bart’s, io da studente e
Sherlock da insaziabile ricercatore.
Ora,
sullo sgabello davanti al microscopio, sedeva il dottor Smith, che mi osservava
con sguardo greve da sopra la montatura degli occhiali da presbite calati sul
naso. Potevo quasi specchiarmi nella sua grande testa calva.
«Col
passare degli anni che ha trascorso qui, utilizzando i nostri laboratori…»
esitò un momento su quell’utilizzare, «ha
archiviato parecchi campioni del suo DNA, del suo gruppo sanguigno e le sue
impronte digitali. Per i suoi esperimenti, presumo. Non ho mai lavorato con
lui.»
Continuavo
ad aspettare una speranza che non venne. «Quindi è sicuramente suo? Senza
nessun dubbio?»
Culverton
Smith esalò con rammarico, poi si strinse nelle spalle. «Posso ripetere le
analisi, ma sia il DNA che le impronte coincidono.»
Annuii.
«Ripetete i test. Per favore» aggiunsi poi, in tono conciliante. In realtà
notai che stavo suscitando solo pietà agli occhi del dottor Smith.
«Di
norma dovrebbe essere la polizia a richiederlo, queste analisi sono costose. Le
assicuro che le probabilità che entrambi i test diano risultati sbagliati sono
pressoché nulle.» Notando che stavo per insistere, mi interruppe: «Credo che
questo sia il momento di darsi da fare per rintracciarlo, non crede?».
Era
imbarazzante, ma negare la verità lo era ancora di più.
«Ma
certo che puoi aiutarci col caso, John» iniziò Lestrade, mettendo le mani
avanti per frenare le mie proteste; aveva abbassato di molto il tono della
voce, «ma non potrai farlo in veste ufficiale».
«Sherlock
lo faceva in veste ufficiale?» Sapevo che non era così, sapevo che i superiori
non conoscevano il reale livello di coinvolgimento di Sherlock nei casi più
delicati.
«Se
persino lui non aveva l’autorizzazione ufficiale, immagina cosa succederebbe se
concedessi a te di mettere le mani su informazioni scottanti
riguardanti l’intero governo!»
Ero
sorpreso: da quando il caso dell’orecchio mozzato era diventato così
importante? «Che sviluppi ci sono?»
Lestrade
sospirò. «Ascolta, John. Non è una questione personale, capisco che tu voglia
aiutarci ad accelerare le indagini ora che anche Sherlock è stato coinvolto, ma
loro non lo accetteranno.» Rivolse un’occhiata fulminea ad alcuni poliziotti
che stazionavano nel corridoio; tra questi vi erano anche Anderson e Donovan.
«Sono
professionisti» proseguì, «alcuni sono meno professionali
di altri, ma rimangono comunque poliziotti addestrati. Non accettavano il
peso che Sherlock aveva nei loro casi passati e di certo non accetteranno te,
che sei…» Esitò sul termine.
«Ordinario?
Lo so! Lo siamo tutti, ecco perché chiamavate lui, ed ecco perché serviamo
tutti noi, adesso!» Lestrade mi mise le mani sulle spalle allontanandomi il più
possibile dalla porta. «Sai che sono discreto, non pubblicherò nulla sul mio
blog, non parlerò con nessuno, ma devo fare qualcosa, posso essere utile.
Conosco i suoi metodi, Greg!»
Cercai
di rendere la faccenda personale chiamandolo per nome.
Dopo
qualche istante di esitazione, alternando occhiate al pavimento e ai poliziotti
ancora fuori, Lestrade annuì impercettibilmente. «So che puoi esserci utile. Ti
passerò informazioni frammentarie su cui potrai lavorare senza correre il
rischio di divulgare le notizie sbagliate.» Abbassò nuovamente il tono della
voce, come se si vergognasse: «Non che ci siano a disposizione tutte queste
informazioni…».
«C’è
qualcuno che vi ostacola?»
«Già»
replicò lui stizzito, «i Paesi stessi! Vogliono tenere la faccenda privata, non
capiscono perché debba essere proprio il Regno Unito ad occuparsene. Alcuni ci
mandano risultati incompleti, altri li alterano e altri ancora si rifiutano di
collaborare credendo di fiutare intrighi politici e spie ovunque. Non è la
Guerra Fredda, dannazione!».
Ora
finalmente mi rendevo conto della sua frustrazione e delle difficoltà che
risiedevano in questa indagine. Eppure tutto ciò aveva un’impronta familiare.
Era tutto così sfuggente e incerto e, allo stesso tempo, così ovvio. Bastava
osservare. In quel momento capivo davvero ciò che Sherlock continuava a
rimproverarmi: tu vedi, ma non osservi.
«Si
tratta di Moriarty.» Già soltanto pronunciare quel nome sembrava indebolire lui
e rafforzare me.
Lestrade
si stuzzicava pensosamente il labbro inferiore con le dita. «Quel nome è come
una maledizione: più lo si declama e più si allontana. È come se ci stuzzicasse,
ma nessuno mai fa in tempo a capire il suo legame con i vari crimini.»
Annuii
con convinzione. «È lui, è certo. Questo è chiaramente il suo modus operandi, sta mettendo in atto la
sua minaccia. Crede di avere una faccenda personale in sospeso con Sherlock. È
l’unico che avrebbe voluto puntare a lui in questo caso, chi altri sennò? Non
aveva nemmeno accettato di collaborare!»
«È
presto per fare insinuazioni di questo calibro, John: chiunque abbia visto
Sherlock alla stazione di polizia, quando è arrivato l’orecchio, o la signora
Trelawney-Hope recarsi a Baker Street, può pensare che lui si stia occupando
della faccenda e quindi decidere di impedirglielo.»
Ero
irritato dalla sua mancanza di coraggio e della sua cecità: chi altri avrebbe
avuto la macabra idea di inviare proprio a me un pezzo di Sherlock? Chi altri avrebbe potuto architettare un crimine
di portata europea così facilmente, godendo delle nazioni che precipitavano
nella confusione e si ostacolavano l’una con l’altra? Un teatrino di Paesi che
litigano sullo scenario d’Europa, tutto per distogliere l’attenzione dalla sua
vendetta personale.
«Dammi
tutte le informazioni che puoi, poi me ne andrò» dissi, decidendo di porre fine
alla discussione.
Sapevo
che non sarei mai riuscito ad arrivare a Moriarty tramite delle prove – nemmeno
Sherlock ne era stato in grado – e
sicuramente non potevo capire la natura del suo coinvolgimento solo grazie al
mio intuito. Sapevo solo che c’entrava qualcosa e che probabilmente muoveva i
fili dell’intero spettacolo, ma non era lui ad agire direttamente quindi, per
risolvere la questione il prima possibile, dovevo concentrarmi sugli effettivi
artefici di quelle minacce. Perché dovevano per forza trattarsi di minacce, no?
Che senso avrebbe avuto, altrimenti, spedire pezzi di corpo umano alle capitali
europee?
Il
fatto di non conoscere il numero effettivo di Paesi coinvolti limitava di gran
lunga le mie possibilità di successo poiché non riuscivo a trovare un nesso tra
loro. Spagna, Danimarca e Svezia. E Inghilterra. L’unico tratto in comune che
mi sovveniva era il fatto che fossero tutte monarchie, ma non riuscivo a capire
che senso avrebbe avuto, per gli anarchici, minacciare proprio questi Paesi.
Gli anarchici non fanno differenza tra monarchia, repubblica, dittatura o altro;
perciò c’era probabilmente qualcos’altro che mi sfuggiva.
C’era
sempre qualcosa che mi sfuggiva.
Mi
distesi lungo lo schienale della sedia, sentendo i muscoli della schiena
rilassarsi un poco. La mascella mi doleva per la tensione e notai che le mie
mani tremavano leggermente tenendo in mano le fotografie. Mi chiesi se Sherlock
fosse mai stato così teso durante un’indagine. Lo avevo visto raramente
ansioso: impaziente, sì; irritabile o eccitato, sì; ma mai teso come lo ero io
in quel momento. La soluzione dei suoi casi non corrispondeva alla salvezza di
un amico. Tranne quando mi aveva trovato alla piscina, impacchettato in una
bomba e ostaggio di Moriarty. Non se l’era proprio aspettato; ma quello non era
un caso, si trattava di una prova di resistenza e di audacia, una gara con
Moriarty.
Ora
ero io a gareggiare con lui. Era ovvio, si trattava di un gioco, altrimenti
perché mandare il suo dito proprio a me? Tuttavia si trattava di un gioco
crudele: che speranze avevo di incastrare Moriarty quando nemmeno Sherlock, pur
andandoci vicino, c’era riuscito?
Perciò
era inutile concentrarsi sul consulente criminale: se davvero ero diventato il
suo gioco, forse ignorandolo avrebbe commesso un passo falso. In ogni caso non
avevo alternative se non concentrarmi sulla parte più pratica di quel problema.
Gettai
sul ripiano la foto ingrandita scattata al graffito, scivolò sopra le altre e
cadde dal tavolo. Lestrade mi aveva procurato le fotografie delle prove
raccolte – non tutte, probabilmente – ma anche se fossero state di più
sarebbero servite a poco: non avevo idea da dove iniziare.
Conosco i suoi metodi, avevo
detto a Lestrade, ma non ero sicuro che fosse vero. Sapevo che Sherlock
osservava ciò che a me sembrava trascurabile, che vedeva tutto in nulla, che
stava seduto sulla poltrona per ore a fissare il vuoto, che parlava da solo,
che la sua mente compiva chissà quali viaggi dai quali tornava quasi sempre con
una soluzione. Quando non riuscivo a capire come ci fosse arrivato – ovvero la
maggior parte delle volte – me lo spiegava, ma i suoi ragionamenti mi
sembravano sempre troppo contorti e azzardati, sebbene zeppi di logica.
Continuavo
a domandarmi come avessero fatto a portarlo via con tanta facilità. Come minimo,
grazie alle sue intuizioni, aveva previsto che qualcuno potesse volerlo fuori
dal caso. Forse era per questo motivo che non aveva voluto accettarlo, anche se
l’idea di uno Sherlock prudente mi faceva semplicemente ridere.
Era
entrato qualcuno mentre la signora Hudson era fuori? In quanti erano? Lo
avevano portato fuori con la forza? Per quanto potesse star male sicuramente
non si sarebbe lasciato portare via senza reagire, senza rimproverarli per la
scarsa creatività dimostrata nel rapimento. No, più verosimilmente era stato
attirato fuori; magari con una telefonata o con un messaggio. Cosa avevano
usato? Un bel caso macabro come esca? Oppure me? Ero forse stato il bersaglio
di un cecchino senza accorgermene, mentre qualcuno gli intimava di uscire? Si
sarebbe davvero esposto a un pericolo, se io fossi stato minacciato?
Non
lo sapevo. Non sapevo niente.
Dalla
strada giunse inaspettatamente il suono lamentoso di un violino, una melodia
lontana e armoniosa. C’era qualcun altro che suonava il violino a Baker Street?
Non l’avevo mai notato fino ad allora. Forse Sherlock lo aveva sempre oscurato.
Sherlock aveva sempre oscurato tutto, a dire il vero. Da quando lo avevo
conosciuto c’era sempre stato solo lui: lui e i suoi casi; lui e le sue
avventure assurde e pericolose; lui e le sue lamentele e i discorsi senza fine;
lui e il suo violino; lui e i suoi esperimenti di chimica e ogni volta le
pareti dell’appartamento sembravano sempre troppo piccole per contenere sia lui
che le sue attività. Avevo provato ad aggiungere qualcosa a questa vita
monotematica – donne, amici – ma il risultato si era sempre rivelato
incompatibile e, a dire il vero, non mi ero mai impegnato con serietà.
Adesso,
invece, l’appartamento sembrava troppo grande. Era come se non fosse mai stato
mio, come se fossi all’improvviso un estraneo nella mia stessa casa.
Cercai
con lo sguardo la custodia del violino: era lì, a lato della finestra,
inspiegabilmente abbandonata dal proprietario. Iniziai a chiedermi, a
malincuore, se senza un dito sarebbe ancora stato in grado di suonarlo. Forse
no. Forse, da quel momento, mi sarei dovuto accontentare di una vaga
composizione appena udibile suonata da uno sconosciuto.
Lestrade
aveva allegato anche la fotografia di quella macabra prova: il dito era stato ritratto
nel suo contesto – la carta da pacchi e l’indirizzo scritto con un insolito
inchiostro verde che, sicuramente, non proveniva dalla sua penna – poi di nuovo accostato a un righello. Non vi
era dubbio che fosse il suo, eppure così separato dal resto del corpo aveva
improvvisamente perso senso, appariva diverso – quasi irriconoscibile – e
insulso. Non era il corpo ad avere bisogno del dito, era il dito a necessitare
del corpo per conservare il suo scopo. Senza di esso, il dito non era altro che
un’appendice priva di utilità.
In
quell’attimo provai una profonda empatia.
Un
sommesso toc toc si confuse con il
picchiettio della pioggia.
«È
permesso?» La signora Hudson non aspettava mai una risposta, ma si addentrava
nell’appartamento con cautela, come se il pavimento fosse cosparso di cocci di
vetro. Alle volte non aveva dovuto solo immaginarlo.
Alzai
la testa dal tavolo e una delle fotografie si staccò dalla mia guancia, cadendo
per terra. La raccolsi in fretta accorgendomi, con profondo dispiacere, di
essermi addormentato nel bel mezzo della mia indagine. Purtroppo non possedevo
l’abilità di Sherlock Holmes nel rimanere insonne finché un caso non era concluso,
anche se, in quel momento, ne coglievo appieno l’utilità.
«Oh,
John, hai passato tutta la notte a guardare quelle foto?» chiese la signora
Hudson, procedendo attentamente con un paio di tazze fumanti in bilico su un
vassoio.
«Era
mia intenzione, ma purtroppo no.» Mi affrettai a nascondere la foto del dito
prima che la padrona di casa raggiungesse il tavolo: lei non sapeva niente del
pacchetto, le avevo detto che Sherlock era ufficialmente scomparso e che stavo
aiutando la polizia nella ricerca. Non potevo preoccuparmi di consolarla,
quando avevo già i miei nervi da tenere sotto controllo.
La
signora Hudson mi porse una delle tazze prima di sedersi; in quel movimento
colsi qualcosa di inaspettato: un profumo. In genere non captavo queste cose, a
meno che non si trattasse di una situazione particolare – quando uscivo con una
donna le facevo sempre i complimenti per il profumo, ma si trattava più di
un’osservazione automatica. Stavolta, però, avvertii qualcosa di familiare.
«Ha
un nuovo profumo, signora Hudson?»
«Oh,
sì» rispose lei con aria fintamente colpevole, mescolando il suo tè, «Connie
Prince consigliava sempre questa marca e, dopo molti ripensamenti, ho deciso di
concedermelo. Sai, è abbastanza costoso e forse non è adatto a una signora, ma
ha questa fragranza particolare…».
«Come
si chiama?» mi affrettai a domandare.
«Uh?
Ehm… qualcosa come… non so bene il francese, ma ha qualcosa a che fare con le
sirene.»
Floris
eau de parfum: Sirena.
Era
lo stesso che avevo sentito a casa di Lucas, lo stesso che Sherlock mi aveva
spruzzato addosso. Frugai tra le fotografie e trovai quella del pacchetto
bianco accostato alla boccetta. Era un oggetto banale, forse un poliziotto
l’aveva fotografato solo perché aveva visto Sherlock esaminarlo. Ora però, che
sapevo che ogni particolare poteva essere fondamentale, non potevo non pensare
al fatto che lui, forse, aveva voluto farmelo
annusare. Cos’avrei dovuto notare? Quello contenuto nella boccetta era
indubbiamente profumo e se, durante le analisi, fosse emerso qualcosa di
importante su di esso, Lestrade me l’avrebbe riferito, o almeno così speravo.
Mostrai
la foto alla signora Hudson, chiedendole se fosse lo stesso profumo che aveva
comprato.
«Sì,
esatto. È una novità, sai?»
«È
recente?» chiesi.
«È
in commercio da circa un mese. Ho fatto bene a comprarlo, anche se alla mia
età…»
«Le
dona molto, signora Hudson!» le dissi mentre mi infilavo la giacca. Il mio
complimento voleva essere un ringraziamento al suo contributo.
«Esci
già? Non sono neanche le 8…»
«Vado
a Scotland Yard.» Il mio slancio si bloccò sulle scale; tornai indietro. «Ahm…
le foto… non si scomodi a riordinarle. Anzi, non le tocchi proprio, va bene?
Non… non sono importanti.»
«Certo
che no, caro, non sono la vostra domestica!» puntualizzò la signora Hudson
appena prima che mi richiudessi la porta alle spalle.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
TTS - 4
«Inizio
a dubitare che Lucas sia ancora vivo.»
Greg
Lestrade aveva subito smorzato il mio entusiasmo, seduto alla sua scrivania,
massaggiandosi la fronte con aria afflitta. Gli chiesi se avessero delle
novità.
«Abbiamo
avuto notizie da altri due Paesi, mentre sappiamo quali parti del corpo sono
state inviate a ciascun governo.»
Sul
tavolo c’erano una lista scritta a mano:
Inghilterra
orecchio dx;
Spagna
pollice dx;
Svezia
mignolo sx;
Danimarca
orecchio sx;
Principato
di Monaco mignolo piede dx;
Belgio
mignolo piede sx
«Sono
tanti, John, e non sappiamo a quanti altri Paesi avrebbero potuto spedire altri
pacchetti. È chiaro che, inizialmente, il loro scopo fosse quello di tenerlo in
vita, ma non sappiamo fino a quando. Non c’è stata nessuna rivendicazione
ufficiale, nessuna richiesta, per lo meno qui, quindi potrebbero anche aver
deciso di toglierselo di torno.»
Alzai
gli occhi dalla lista, sostenendo caparbiamente il suo sguardo. «Intendi
suggerirmi qualcosa, con questo?» Lui sospirò e guardò altrove. «Lui non è
morto! Non avrebbe senso, ed era sicuramente vivo anche quando gli hanno
tagliato il dito.»
Era
ovvio persino a me: la grafia sulla busta apparteneva a Sherlock, ma aveva
delle imperfezioni e delle sbavature dovute a una forte emozione, che in quel
caso era sicuramente il dolore. Una persona qualunque sarebbe stata agitata o
terrorizzata, costretta a scrivere con la forza, al pensiero di quello che dei
rapitori avrebbero potuto farle, la sua scrittura sarebbe stata incerta anche
se fosse stata illesa; ma Sherlock aveva sicuramente saputo in anticipo quello che
stava per succedere, sapeva che agitarsi non sarebbe stato di alcuna utilità:
al contrario, bisognava restare lucidi. L’unico motivo per cui la sua mano
avrebbe potuto tremare era a causa del dolore dovuto alla mutilazione.
Deduzione
brillante, no? Sarebbe stato fiero di me?
«Non
sto dubitando, John, né cercando scuse per battere la fiacca. Dico solo che
essere ciechi di fronte alla realtà non aiuterà le indagini.»
«È
proprio per questo che sono qui» replicai irritato. «Avete notato niente nel
profumo?»
«Il
profumo, dici?» ripeté pensieroso, sfogliando le carte sulla scrivania. Scosse
la testa e rivolse a me la sua curiosità.
«C’è
qualcosa di strano, non trovi? È un profumo da donna, ma era l’unico oggetto
femminile in casa.» Era la stessa deduzione che Sherlock aveva fatto a casa di
Edward Van Coon, il trader di Hong Kong, a proposito del sapone.
«Eduardo
Lucas non era impegnato in alcuna relazione, almeno per quanto ne sanno i
signori Trelawney Hope. Li abbiamo pressati molto su questo argomento, cercavamo
altre persone coinvolte.»
«E
allora mentivano, oppure si sbagliavano.» Non era la prima volta che la mia
esperienza con le donne si rivelava utile, ma era la prima volta che non ero
costretto a sedurre qualcuno solo per gli scopi di Sherlock. «Quando si è
fidanzati, o si frequenta qualcuno, è naturale che alcuni dei suoi oggetti
entrino nella propria casa, per lo meno uno spazzolino da denti, un pigiama,
una maglietta di riserva. Invece in quella casa non ho notato nemmeno un tocco
femminile. Una donna non avrebbe trascurato in quel modo un appartamento.»
Lestrade
alzò le spalle. «Perciò abbiamo la conferma che non si vedeva con nessuno.
Forse era per un primo appuntamento?»
«Un
profumo è personale, non lo si porta in dono a una donna sconosciuta. E poi è
un regalo troppo costoso per un primo appuntamento.» Mi dondolai un attimo sui
talloni, indeciso se dar voce o no alle mie conclusioni, perché mi rendevo
conto che potevano risultare azzardate. Ma mi sentivo ispirato, quindi presi
coraggio: «Dev’essere una relazione segreta».
Lestrade
prese a picchiettare il dito sulla scrivania, pensoso. «Mh, non vedo prove
sufficienti a sostegno della tua teoria.»
«Ma
sono abbastanza per poterla prendere in considerazione, no?»
Lestrade
rifletté ancora qualche istante e, infine, acconsentì. «Faremo altre ricerche
in questa direzione.»
Avevo
ritrovato nel suo cassetto tutte le medicine che gli avevo dato,
raccomandandogli di prenderle. Quell’influenza non si superava senza un po’ di
antinfiammatori, perciò ero giunto alla conclusione che avrebbero davvero
potuto portarlo via di peso. Il suo telefono, però, mancava. Forse ce lo aveva
addosso. Sapevo che non era in casa perché avevo provato a chiamarlo nei
momenti di maggior sconforto. Mi ero sorpreso del fatto che fosse ancora
accesso; probabilmente lo aveva appena caricato. Durante la sua normale
attività non resisteva per più di 48 ore, ma ora probabilmente giaceva
inutilizzato da qualche parte.
Ero
stato più volte sul punto di spedirgli un messaggio – dopo il primo e inutile dove sei? – ma non ero riuscito a
decidermi sul testo. Avrei voluto rassicurarlo sugli sviluppi, dirgli che lo
stavamo cercando, ma non volevo rischiare di facilitare i rapitori.
Avevo
iniziato a sedermi al suo posto, nella sua poltrona: vederla vuota mi riempiva
di malinconia e, inoltre, speravo che qualche traccia della sua intelligenza
fosse assorbibile attraverso quella fodera in pelle sintetica; speravo che il
mio cervello potesse lavorare più in fretta.
Se
fossi stato al suo posto, mi avrebbe trovato in poche ore, e questo soltanto
perché la polizia avrebbe dovuto ultimare tutta la burocrazia e mettere in atto
tutte le procedure prima di agire. Se fossi stato al suo posto, a quest’ora mi
sarei già trovato a Baker Street a sorseggiare caffè caldo, con tutte le dita
al loro posto.
Invece
questa volta, purtroppo, ero io dal lato dell’investigatore e non riuscivo
ancora a trovare un senso in quella vicenda. Non riuscivo a capire perché degli
anarchici avrebbero dovuto agire in quel modo così imprevedibile e,
apparentemente, disorganizzato; non riuscivo a capire perché degli anarchici
avrebbero dovuto rapire prima l’assistente di un Segretario, senza richiedere
nessun riscatto e senza iniziare alcuna trattativa, e poi lui. In realtà ero
sempre più convinto che la faccenda degli anarchici fosse una falsa pista, ma
in quel modo avrei perso l’unica certezza sulla quale l’intera indagine si
basava.
La
verità era che ero spaventato a morte perché stare seduto su quella poltrona
non faceva di me Sherlock Holmes.
63
ore e nessuna traccia di lui.
Le
mani avevano iniziato a tremarmi per la frustrazione, in testa avevo solo
dubbi: pacchetti, indirizzi, timbri postali, immagini di cartine geografiche
che mi roteavano senza sosta nella mente. La fragranza del profumo inglese
aveva preso possesso del mio olfatto, davanti ai miei occhi chiusi c’era
Sherlock che attendeva la mia soluzione.
70
ore e nessuna traccia di lui.
Ricevetti
però una chiamata da Lestrade: appena risposi avvertii la sua agitazione,
sentivo distintamente il suo respiro attraverso il ricevitore, accompagnato da
vari rumori urbani.
«Riesci a indovinare? Eduardo Lucas aveva – o
ha – una doppia vita! In Francia. John, questa cosa diventa più scottante ogni
minuto che passa.»
Colsi
il suo entusiasmo e una rinnovata speranza; anche se non aveva accennato a
Sherlock eravamo più vicini alla soluzione.
«Dove
sei?» domandai, nella speranza di poterlo raggiungere subito e sfuggire alla
solitudine di quella casa.
«Taverny, vicino a Parigi.»
«Sei
in Francia?!» Quella notizia mi risvegliò del tutto dalla mia apatia forzata.
«Sono a casa di Lucas, o meglio, del signor
Henri Fournagé, come gli piace farsi chiamare qui.»
La
linea sfrigolò per qualche istante, mi aggrappai al telefono come se servisse a
qualcosa. «E la donna? È la moglie o l’amante?»
«Nessuna delle due: non esiste, John.» La
mia delusione fu di breve durata. «Non
esiste in carne ed ossa, era una copertura. Grazie a te abbiamo indagato a
fondo sulla vita privata di Lucas e abbiamo scoperto che effettuava spedizioni,
sotto falso nome, a questo indirizzo, a una certa Inès Fournagé. Si trattava di
una copertura molto ben organizzata, le aveva creato un certificato di nascita,
una laurea in letteratura medievale, un foglio di ricovero in una clinica
psichiatrica, tutto! Quando siamo arrivati abbiamo trovato una donna, era la
vicina: ha detto di essere stata pagata per recarsi ogni tanto in quella casa e
restarci per qualche giorno, quando le veniva detto, e ricevere alcuni omaggi
che le arrivavano dall’Inghilterra.» Lestrade riprese rumorosamente fiato. «Capisci, John? Le mandava persino dei regali
per salvare le apparenze, ma questa donna esiste solo all’anagrafe, non nella
realtà.»
«E
quindi?» Ero affamato di sviluppi, aborrivo l’immobilità, sentivo che ora
potevo fare finalmente qualcosa.
«E quindi ancora niente, sono appena
arrivato, ma le cose si stanno muovendo. È chiaro che Lucas fosse immischiato
in qualcosa di illegale, probabilmente ha fatto un passo falso ed è stato
punito. Abbiamo recuperato qualche
altra foto interessante dei pacchetti, controlla la tua e-mail.»
«Bisogna
trovare i complici!»
«Fai del tuo meglio, Jo-» La linea cadde.
Eduardo
Lucas aveva una seconda vita in Francia. Avevo imparato a non sorprendermi più
di nulla, ora dovevo essere in grado di cogliere le implicazioni di quella
scoperta. La pista degli anarchici sembrava pian piano svanire come orme su un
terreno troppo duro; avevo sempre più la sensazione che fosse un pista falsa,
ma in ogni modo era qualcosa di cui poteva occuparsi la polizia. Io dovevo capire chi altri era coinvolto in
quella rete criminale che rivelava sempre più le sue effettive dimensioni, ma
dei cui rami ancora non conoscevo la direzione.
Mi
accostai alla finestra e osservai il cielo nero offuscato dai lampioni,
ascoltai uno dei rari momenti di assoluto silenzio che si possono gustare in
una città solo di notte.
La
chiamata di Lestrade mi aveva come fatto credere di avere più tempo, perché
avevamo riguadagnato terreno: non avanzavamo più a tentoni nell’oscurità. Ora
avevo tempo di ritrovare la lucidità per pensare. Dovevo iniziare dalle nuove
fotografie.
La
porta di casa si chiuse rumorosamente, sentii la signora Hudson rientrare ed
improvvisamente esclamare: «Oh! Accidenti, un attimo ancora e potevo rompermi
l’anca, John!»
Mi
affacciai dalle scale mentre lei saliva. «Si è fatta male?»
«Ho
rinunciato a convincervi a tenere in ordine il vostro appartamento, ma se
lasciate le cose per terra, di sotto, rischio di ammazzarmi!» Mi mise tra le
mani una busta. «È per te, comunque.»
Fu
la prima cosa che vidi: il nome in verde, la scrittura alterata di Sherlock.
«Caro,
sei mortalmente pallido…»
«Vada
di sotto.»
«Non
capisco…»
«Vada
di sotto, per favore!»
La
padrona di casa ubbidì indietreggiando. Il centro della busta era soffice e
rigonfio, ma non osavo tastarlo oltre.
Mi accorsi appena di essere tornato al tavolo, non riuscivo a staccare
gli occhi da quelle parole impresse sulla carta, lettere incerte, sbavature
nell’inchiostro da sinistra a destra. Per scrivere aveva usato la sinistra e
ciò, in qualche modo, mi terrorizzava.
Vidi
il francobollo e il timbro postale di Londra: il pacchetto era stato spedito
solo a pochi isolati di distanza. Cosa significava? Possibile che Sherlock si
trovasse così vicino?
L’apertura
era sigillata da una striscia di nastro adesivo. Recisi i due lembi di carta
con una cautela che non era dettata dalla volontà di preservare le eventuali
prove, ma dal mio orrore al pensiero di ciò che avrei potuto trovarvi
all’interno. Ma, d’altronde, non potevo essere certo che si trattasse di
Sherlock. Non avrebbe avuto senso: perché spedirmi per ben due volte un pezzo
del suo corpo? Poteva essere qualunque cosa, poteva essere un messaggio, poteva
non essere un dito!
Il
lato si aprì e inclinai la busta, appena fui riuscito a fermare il tremore alla
mano. La stessa mano riuscì a soffocare in tempo il gemito che mi esplose in
petto.
Tutto
sommato avevo avuto ragione: non si trattava di un dito, ma di tre. Sulle
falangi l’inchiostro verde mi comunicava l’ultimatum: 1 5 H
I
minuti continuavano a scivolare via come acqua tra le mani, ma la mia mente
restava incatenata agli unici frammenti che mi rimanevano di una persona, forse
gli unici che sarei mai riuscito a recuperare.
Il
mio comportamento era assurdo e debole, le sfide erano ciò che mi entusiasmava
di più, le sfide e le battaglie, ma mi rendevo conto che avevo riavuto la
possibilità di combattere solo dal momento in cui avevo conosciuto Sherlock;
prima mi trovavo nella logorante neutralità della terra di nessuno,
nell’immobilità forzata e nell’insopportabile insofferenza quotidiana.
Poi,
come pioggia, erano piombati su di me nuovi sorprendenti stimoli: i casi, le
avventure, i pericoli e le azioni avventate avevano recuperato ciò che ero e mi
avevano restituito l’unico modo che avevo per esprime la mia personalità. Anche
ora avevo un caso, indizi da codificare, una rete oscura di nemici, il tempo
che scorreva ticchettando sempre più veloce, tensione, pericolo, sfida. Avevo
ancora tutti gli elementi, tranne uno.
Mi
sentivo comunque perso e inutilizzabile, privo di forze e nel luogo sbagliato,
e mi resi conto che il campo di battaglia, per quanto scenario di infinite
possibilità di avventure, era comunque vuoto e insignificante senza il compagno
con cui combattevo.
L’odore
di formalina aveva iniziato a diffondersi nella stanza, riuscivo ad avvertirlo
distintamente anche attraverso le mani che tenevo premute sul viso: dovevano
averne usata una quantità maggiore, questa volta. Ovvio, avrebbe detto lui. Le
dita erano tre e sicuramente la loro tecnica di imbalsamazione si era evoluta
nel tempo, nonostante avessero dimostrato di essere un’organizzazione di incapaci.
Per lui erano tutti, incapaci, ingenui, ignoranti, prevedibili, noiosi, banali.
Avrebbe trovato elementare persino questo caso, avrebbe capito chi erano i
rapitori soltanto osservando la carta da pacchi, o i francobolli.
Il
bagliore freddo del computer si infiltrava tra le mie dita. Tornai a guardare
la parete di fronte, dove campeggiava chiaramente il graffito in vernice gialla
che aveva dipinto in uno degli innumerevoli momenti di noia; così visibile ed
evidente.
Incapaci,
scontati, privi di fantasia. Non tutti i criminali erano così, quelli di cui
lui accettava di occuparsi non lo erano, almeno alla prima impressione. Eppure
non aveva voluto accettare di avere nulla a che fare con quell’ultimo,
apparentemente strabiliante caso dell’orecchio mozzato e dell’ispanico
scomparso. Era davvero così banale al punto da essere nauseante, per lui? Così
tanto da non volerne sentire parlare, da preferire chiudersi in camera?
Se
era davvero così semplice, significava che qualcosa di ovvio mi sfuggiva,
qualcosa che avrebbe portato alla soluzione completa, qualcosa che Sherlock
aveva dovuto notare e saper decifrare solo in quel poco tempo che aveva voluto
dedicare al caso.
Il
profumo: ero riuscito a capire persino io che aveva qualcosa di sospetto, e
infatti ci aveva portato a scoprire la seconda identità di Lucas.
Gli
indirizzi sui pacchetti – ora li avevo quasi tutti: sembravano scritti da mani
diverse, per cui c’era più di un complice. Questo era ovvio.
I
francobolli: ogni pacchetto che ci era
pervenuto portava il francobollo del Paese di destinazione. Era ovvio anche
quello, più strada avrebbero dovuto percorrere, più controlli avrebbero subito,
e a quel punto sarebbe stato più facile individuare pezzi di un corpo umano
all’interno della corrispondenza.
Francobolli
diversi, dunque. Spediti dal Paese di destinazione. Sembrava uno stratagemma
necessario, ma estremamente scomodo, perché significava doversi trovare proprio
in quel Paese.
Le
foto riconquistarono il mio interesse, mi sembrava di intravedere un sottile
filo di collegamento tra ognuna di loro. Presi carta e penna e iniziai ad
annotare tutti i Paesi che avevano ricevuto la macabra corrispondenza,
confermando che ognuno di loro aveva visto il pacco spedito dall’interno del
proprio territorio.
Inghilterra
Spagna
Svezia
Danimarca
Principato
di Monaco
Belgio
Ebbi
di nuovo l’impressione che mi sovvenne la prima volta: erano tutti Paesi con
una forma di governo monarchica. Ne mancavano, però, alcuni. Li scrissi di
lato:
Lussemburgo
Norvegia Olanda
Sembrava
comunque che mancasse qualcosa. Inghilterra. Perché Inghilterra? Perché non
Regno Unito? In quel caso, anche la Scozia, l’Irlanda del Nord e il Galles
avrebbero dovuto ricevere una parte mutilata. Forse non c’erano abbastanza
pezzi disponibili, senza che l’ostaggio venisse ucciso? Mi sembrava più una
scelta dettata dall’ignoranza.
E
poi… il Vaticano. Anche il Vaticano era una monarchia, una monarchia assoluta,
ma nessuno ci faceva mai caso. Che avesse ricevuto il pacco senza averlo reso
noto? Era probabile, vista la sua riservatezza, ma poteva anche essere
accaduto, di nuovo, per motivi di ignoranza.
Quale
anarchico avrebbe ignorato il fatto che il Vaticano era una monarchia assoluta?
Qualche anarchico, intento a colpire un governo, avrebbe confuso l’Inghilterra
con il Regno Unito?
Gli
anarchici non c’entravano, era un depistaggio; Scotland Yard aveva sprecato
tempo ed energie, fino a quel giorno, tentando di scovare e interrogare tutti i
gruppi antipolitici della zona. La soluzione ora sembrava essere così semplice.
Riuscii
a intravedere finalmente una traccia.
Composi
in fretta un messaggio indirizzato a qualcuno a cui mai mi sarei rivolto, a
meno che non fosse l’unico in grado di fornirmi certe informazioni in tempi
brevi.
Mi
occorrono le liste
complete
dei passeggeri
di
alcuni voli. Sono
sicuro
che per te non
sarà
un problema
-John
Effettivamente
no. Questa
volta
avrò la cortesia
di
non domandarti
il
motivo, poiché
mi
sembra ovvio.
Arriveranno
per e-mail.
-MH
Bene.
Grazie.
-
Il
cellulare di Sherlock è
inattivo
e dunque
irrintracciabile.
hai
notizie?
-MH
Una
parte…
-
Passarono
alcuni minuti prima del messaggio successivo; capii che stava verificando.
Ho
saputo. Fai del
tuo
meglio, John.
-MH
Gli
spedii gli elenchi dei voli su cui avevo intenzione di indagare; poco dopo il
computer notificò l’arrivo dell’e-mail. Mi misi al lavoro, oscurai tutto il
resto, perché non potevo permettermi di sbagliare. Non avevo mai avuto scelta quando
si trattava di gettarmi nel pericolo, nemmeno le volte in cui Sherlock me ne
aveva fornita una. Non era mai stato difficile distinguere il giusto dallo
sbagliato, perché non c’era. Non esisteva una scelta tra il seguirlo o no, tra
l’aiutarlo o meno, tra l’uccidere per lui o non farlo. Ironicamente, con lui
diventava tutto più semplice.
L’obiettivo
era lui e non erano mai esistite strade secondarie.
«Li
ho trovati» dissi chiaramente; dall’altro del ricevitore la voce di Lestrade
giunse assonnata. Erano le 3 del mattino.
«Hai trovato i responsabili Come? No, non
importa ora. Chi?»
«Visto
che spedivano i pacchi direttamente dal paese ricevente significava che
dovevano recarvisi, ma rintracciarli non era stato semplice poiché non sapevamo
quali Paesi li avevano effettivamente ricevuti. Una volta intuiti non è stato
difficile rintracciarli.» Era strano sentire la propria voce parlare di
ovvietà, capire finalmente lo stato d’animo di un brillante investigatore
costretto a spiegare alle menti più deboli come avesse risolto un caso. «Ho
ricostruito i loro spostamenti, e ho trovato dei nomi francesi ricorrenti nelle
liste passeggeri dei voli diretti proprio in quei Paesi, nello stesso periodo.»
«Immagino che ci sia lo zampino di Mycroft…»
dedusse Lestrade con una punta di delusione. Doveva pensare che io avessi un
canale privilegiato per entrare in possesso di informazioni particolari in così
breve tempo. Sospirò. «Bene, dammi tutti
i nomi. Li comunicherò a Londra immediatamente. Sarò di nuovo lì tra qualche
ora.»
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
TSS - 5
Guardai
l’orologio: ancora 2 ore prima della scadenza dell’ultimatum. 1 5 H… 15 ore sarebbero state
un’eternità per Sherlock.
Una
volta tanto mi trovavo in anticipo a un appuntamento, davanti a un’abitazione
anonima nella periferia di Londra, con l’intonaco cadente in qualche punto, le
tende tirate e nessun segno di vita. Eppure le informazioni erano precise: i
rapitori, i terroristi, gli assassini o qualunque cosa fossero, si trovavano
lì, assieme ai loro ostaggi, ai loro fornitori personali di minacce sotto forma
di carne.
Mentre
attendevamo in una macchina scura e incognita, con la tensione a sorreggerci le
schiene, con i respiri a scandire i secondi, mi ero preparato a ciò che avrei
trovato all’interno di quella casa: attrezzi raccapriccianti, sangue, il suo, Sherlock senza dita, forse senza
una mano o senza un piede o un orecchio. La verità era che non mi interessava
minimamente quali atrocità avessi trovato e quanto orribilmente fosse stato
mutilato, fintanto che avesse avuto ancora la testa attaccata al resto del
corpo.
Dall’auto
sull’altro lato della strada il poliziotto seduto di fianco al sergente Donovan
fece un impercettibile cenno; la radio di Lestrade goglottò e in un attimo dieci
uomini si riversarono fuori dalle macchine sparpagliate e circondarono la casa
con le armi in pugno. Io, ovviamente, ero tenuto nelle retrovie, ma non mi
perdevo il più piccolo movimento, stringendo la mia pistola con due mani.
Gli
agenti non bussarono e non intimarono la resa: uno di loro aprì la porta con un
calcio, altri due lo seguirono per verificare la sicurezza della stanza e poi,
improvvisamente, ci ritrovammo dentro a correre dappertutto, rasentando i muri
come topi.
Si
capiva subito che quello era il posto giusto: la casa era sporca e trascurata,
permeata dalla polvere a da un disgustoso odore di marcio: sangue e
decomposizione.
Le
porte sbattevano per tutta la casa, da ogni stanza provenivano le voci dei
poliziotti che dichiaravano quella zona libera e sicura. Corsi in cantina
assieme a Lestrade e Donovan e ci ritrovammo in quello che sembrava il
laboratorio di un macellaio o di un chirurgo improvvisato: i muri dell’ambiente,
umido e freddo, erano ricoperti di gommapiuma, per attutire i rumori –
immaginavo, soprattutto le urla; vi era un bancone degli attrezzi che mostrava
una collezione di oggetti taglienti, seghe, coltelli e pinze, alcuni ancora
macchiati di sangue come gli stracci abbandonati sul pavimento sporco. Qua e là
siringhe usate e boccette rotte di penicillina, ovunque l’odore penetrante
della formaldeide. Sul lato più lontano dalla strada era appoggiato un tavolo
operatorio, coperto da un ammasso di lenzuola insanguinate. Impiegammo pochi
istanti a capire che quegli stracci seguivano il profilo di un corpo umano. Da
un’estremità si intravedevano uscire dei capelli scuri, dall’altro un piede
talmente menomato e incrostato di sangue da essere quasi irriconoscibile. Colui
che apparve sul tavolo, dopo aver scostato le lenzuola, era invece
riconoscibilissimo: quel volto corrispondeva alla foto che avevo visto di
Eduardo Lucas.
Se
erano stati fatti dei tentativi per limitare le infezioni, avevano dato
risultati molto deludenti: il fetore della cancrena ci investì, risalendo da
quel corpo che non ero nemmeno sicuro fosse ancora vivo. Ma non era ciò che
stavo cercando. Sentii Donovan richiedere un’ambulanza dalla sua radio e forse
Lestrade chiedermi di aiutarlo a fare qualcosa. Alzavo e ribaltavo tutto ciò
che potevo, aprivo ogni porta e ogni armadio, senza pensare minimamente alle
prove che avrei potuto distruggere. Tutti i miei danni furono vani perché in
quella casa e in quella cantina non c’era nessun altro.
«John!»
gridò Lestrade per l’ennesima volta. «Dobbiamo tenerlo vivo finché non arrivano
i paramedici, sbrigati e vieni a fare qualcosa!»
Sapevo
perfettamente cosa. Scostai Lestrade e mi chinai sopra al volto di Lucas,
incurante di tutto il sangue infetto e dei suoi occhi vitrei.
«Dov’è?
Dove si trova?!» gridai per essere sicuro che mi sentisse bene. Lo presi per
una spalla ridotta pelle e ossa. «Dov’è Sherlock? Perché non è qui?!»
«Non
ti dirà niente se non rimane vivo, John!» esclamò Lestrade cercando di
spingermi via.
Lucas
non mi avrebbe più risposto in ogni caso.
Gridai
per la frustrazione.
Brixton.
Era lì che si trovava la sede dei rapitori, l’altra casa era solo la loro
prigione e il loro mattatoio personale. Lucas l’aveva sussurrato a Lestrade
prima di morire di setticemia in quel luogo da incubo. Ciò che non aveva fatto
in tempo a rivelare, invece, era dove si trovasse Sherlock.
Quando
raggiungemmo Brixton le due ore erano già scadute e io avevo vissuto l’arresto
come una successione di fotogrammi al di là di un vetro di disperazione: quella
casa era perfettamente pulita, non una traccia di sangue, né di Sherlock.
L’interrogatorio
pressante a cui erano stati sottoposti i tre uomini – due francesi e un inglese
– aveva permesso alla polizia di scoprire qualcosa in più su
quell’organizzazione che, se riferita ai loro numerosi precedenti casi, non era
nuova a Scotland Yard. Ma non vi fu il benché minimo riferimento a James
Moriarty o a Sherlock Holmes; giuravano di non aver mai sentito parlare né
dell’uno né dell’altro. Sembravano entrambi fantasmi di miti mai esistiti.
Mi
sentivo letteralmente immerso nel fallimento: una pesante e appiccicosa cortina
scura mi impediva di muovere qualsiasi passo verso una zona più luminosa. Non
avevo più altro scopo nella vita che stare seduto in quella sala d’attesa del
Bart’s, vicino all’obitorio, dove il cadavere di Lucas aveva rivelato ciò che
già sapevamo, ovvero praticamente niente.
Avevo
sempre tenuto in considerazione il fatto che sia io che Sherlock avremmo potuto
perdere la vita in uno di quegli sconsiderati inseguimenti in cui ci gettavamo
senza riflettere, oppure durante un’emozionante sparatoria contro il criminale appena
scovato o colpiti da un cecchino che decideva di vendicarsi. Probabilmente
avrei accettato più di buon grado la sua morte se fosse avvenuta così,
improvvisamente, nel mezzo dell’azione in cui vivevamo e di cui ci nutrivamo
entrambi; ma convivere col fatto che fosse morto a causa della mia
inadeguatezza non era possibile.
Un
passo leggero avvolto da calzature ospedaliere si fermò di fronte a me. Non
alzai lo sguardo ma intravidi dei piedi familiari e delle calze colorate e
infantili.
«John…»
Molly si asciugò discretamente il naso, «sappiamo che hai fatto tutto quello
che hai potuto e che non è colpa tua. Lo sa anche lui. La polizia continuerà a
cercare!»
Se
era morto, lui sapeva solo che non sono stato capace di salvarlo, ma non era il caso di esprimere
quell’amaro pensiero ad alta voce. Molly cercava di consolarmi ed io ero
stanco. Annuii per farle capire che apprezzavo il gesto, lei cercò di
recuperare un po’ di allegria offrendomi un tè e si allontanò per andare a
procurarselo.
C’era
un inusuale silenzio in quel luogo remoto dell’ospedale; avvicinandosi ai morti
la gente si sentiva in dovere di abbassare il tono della voce, come se si
potessero svegliare. Se ciò fosse stato davvero possibile, avrei gridato con
tutto il fiato. Ma la mia vita non era fatta di grida e chiasso: era fatta di
intuizioni, di sussurri e di occhiate complici, di codici decifrati, di respiri
trattenuti prima di uno sparo e di quelli soffocati nel buio di un
nascondiglio; di quelli liberati in un’improvvisa ammirazione e di quelli
esasperati in un attimo di rivalità. D’ora in avanti la mia vita sarebbe stata
ancora più silenziosa.
Approfittai
della solitudine per prendere in mano il telefono e fare qualcosa di cui
altrimenti mi sarei vergognato. Premetti lentamente sui tasti, indugiai sulla
tastiera accarezzandola col pollice in un momento di esitazione, poi inviai il
messaggio. Appena in tempo, perché una mano robusta si appoggiò sulla mia
spalla facendomi sussultare.
«John»
salutò Culverton Smith, aggirando la fila di sedie e sedendosi di fianco a me.
Avvertii indistintamente qualcosa di sgradevole che mi fece allontanare di
qualche centimetro. Il dottore estrasse le mani dalle tasche del camice e le
intrecciò in grembo, senza dire altro.
Non
apprezzavo quella presenza invadente, in quel momento, per cui trovai qualcosa
di cui parlare e con la quale fare terminare quell’incontro casuale. «Non c’era
niente di interessante sul corpo di Lucas?»
Smith
sospirò pesantemente, guardando il vuoto. «Nessun indizio, se è quello che
vuole sapere: palese presenza di batteri da infezione, parecchie tracce dei
materiali in cantina e formaldeide qua e là. Dev’esserci entrato in contatto
attraverso gli oggetti nella stanza.»
In
quel momento ricollegai quella sensazione sgradevole che avevo provato
all’odore sulle mani del dottore. «Formalina» riconobbi, «hanno fatto passi
avanti con le ultime imbalsamazioni…»
No.
C’era qualcosa che non tornava: nella cantina avevo trovato solamente barattoli
di formaldeide, non c’era nessuna traccia di formalina, la sua versione più
evoluta, né nelle confezioni né nelle siringhe che avevo trovato. Però i resti
di Sherlock erano stati trattati con la formalina.
Era
indubbiamente formalina, come lo era quella che sentivo provenire dal dottor
Smith, un ricercatore che trascorreva la maggior parte del suo tempo in
laboratorio, che possedeva una grande varietà di conoscenze tecniche ma che non
aveva bisogno di metterle in pratica.
Alzai
gli occhi e notai che mi stava guardando.
«Formaldeide,
volevo dire» mi corressi, sentendo la bocca inaridirsi all’improvviso.
«Già»
concordò lui, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Un
brivido lungo la spina dorsale mi portò un’ispirazione. «È meglio che me
l’appunti. Avrebbe una penna?»
«Oh!
Uh… certo.» Si tastò le tasche sul petto senza risultato, ripiegando su quelle
dei pantaloni ed estraendone, infine, una penna corta. Avevo un vecchio
scontrino in tasca, ma non aveva molta importanza dove stessi per scrivere.
Quando il pennino raffinato scorse sulla carta lasciò dietro di sé una spessa
scia di particolare inchiostro verde.
Trassi
un lungo, profondo respiro: non era il caso di lasciarsi andare a qualcosa di
avventato, prima bisognava riflettere, prendere in considerazione le variabili,
escludere le possibilità. Questo era ciò che avrebbe sicuramente fatto Sherlock
Holmes. Non io.
«Lui
dov’è?» Mi rivolsi al dottor Smith cercando di incatenare il suo sguardo al
mio. Volevo apparire determinato, e lo ero; volevo incutergli timore, volevo
che sapesse che il rispetto della legge, in quel momento, era l’ultima delle
mie priorità e che ero pronto ad afferrargli il collo e stringerlo finché non
avesse parlato.
«Lui?»
domandò Smith simulando sconcerto.
«Mi
porti subito da lui» intimai avvicinandomi minacciosamente, facendogli capire
che quella era la sua ultima possibilità di ubbidire senza nessun osso rotto.
Non afferrò il messaggio.
«Questo
atteggiamento minaccioso è del tutto ingiusti-» Gli afferrai il colletto della
camicia, osservai il colore del suo viso virare al rosso, avvicinai
pericolosamente la punta della penna al suo occhio sinistro.
«Lei
mi porterà immediatamente nel luogo dove si trova Sherlock Holmes, o io
l’accecherò, le caverò gli occhi e la torturerò finché qualcuno non mi sparerà
in testa, ma consideri il fatto che a quell’ora lei sarà probabilmente già
morto!»
Udii
un rumore poco distante: un bicchiere di plastica era caduto a terra spandendo
il proprio contenuto fumante; Molly Hooper era spuntata dal corridoio
assistendo alla scena con gli occhi spalancati.
«J-John?»
«Lui
sa dov’è Sherlock, Molly!»
«No,
io-» Strattonai il colletto.
«Lo
sa.»
Molly
si guardò alle spalle con inaspettata determinazione. «Ti copro io, John.»
Svanì nuovamente correndo dietro l’angolo.
«L’arresteranno
per questo» disse Smith, in un tentativo di minaccia.
«Mi
porti da lui e vedrà che ci arresteranno insieme, a me non importa, ma forse
lei potrà risparmiarsi un paio d’anni di prigione.»
Smith
spostò lo sguardo da una parte all’altra. «Mi lasci e lo farò.»
Allentai
solo un poco la presa, per permettergli di muoversi, poi lo feci alzare.
L’avrei tenuto così anche per chilometri e chilometri, anche se Sherlock si
fosse trovato in Francia o in Cina. Mi sarebbe dovuto interessare cosa ne avesse
fatto e perché proprio lui, quale storia vi fosse sotto, quale ipotetica
vendetta o rancore l’avesse spinto a fare una cosa del genere; ma non
m’importava.
Il
dottor Smith, accompagnato dalla mia solida stretta, svoltò l’angolo a
sinistra. Non ci stavamo dirigendo all’uscita dell’ospedale; significava che
Sherlock era lì? Era davvero così vicino? Vidi, appesi ai muri, la segnaletica
che conduceva alle scale. Imprigionato nei sotterranei, magari? Chi visita mai
i sotterranei di un ospedale? Avremmo potuto setacciare tutta Londra prima di
prendere in considerazione quel posto.
Superammo
le scale. Tenevo ancora il dottore per il colletto, costringendolo a tendere la
schiena, e allo stesso tempo gli stringevo un braccio. Non provai nemmeno a
pensare di cosa mi avrebbero potuto accusare, non mi importava.
Iniziai
ad irrigidirmi a mia volta, a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del
corridoio: in quella direzione c’era solamente la sala dell’obitorio. Dovevamo
aver sbagliato strada.
«Non
faccia scherzi, Smith» gli sussurrai con uno sfarfallio di panico che avrei
voluto restasse celato.
«Nessuno
scherzo» replicò seccamente, «è qui.»
Ci
fermammo di fronte alla porta pallida, un sommesso vociare più distante aumentò
la mia agitazione. Avrei dovuto spingerlo dentro per evitare di essere visti,
temevo che Molly non riuscisse a tenerci lontano da possibili spettatori, ma allo
stesso tempo…
«Non
le interessa più?» fece Smith, brusco. «Allora le dispiace lasciarmi andare? Ho
del lavoro di cui occuparmi.»
«Silenzio
ed entri» lo incoraggiai con una spinta.
Avevo
sperato che, una volta entrati, la stanza si fosse trasformata in
qualcos’altro, una sala d’attesa, un bar… avevo sperato di aver sbagliato a
leggere la targa all’esterno e di essermi orientato male all’interno
dell’edificio, ma gli alti, profondi scaffali che si addossavano alle pareti,
divisi in scomparti ed etichettati, i tavoli di metallo e il violento odore
misto di disinfettante e morte mi privarono di ogni dubbio e di ogni speranza.
Lasciai vagare lo sguardo sui nomi impressi sui cubicoli senza riuscire a
soffermarmi su nessuno di loro.
Mi
accorsi tardi di aver allentato la presa su Smith, il quale si divincolò con
facilità. Pensai che avrebbe colto l’occasione per colpirmi e scappare, invece
si limitò a incrociare le braccia con atteggiamento offeso e a guardare verso
l’angolo più lontano.
«Pretendo
di ricevere un extra per questo trattamento.»
«Anch’io
avevo sperato che la conclusione sarebbe stata più cerebrale.»
Dall’angolo
remoto e buio era giunta una terza voce intrusa. Mi era rimbombata nelle
orecchie come se si fosse trovata nella mia testa, l’unico luogo, tra l’altro,
in cui credevo di poterla ancora udire.
Bastarono
un paio di passi e Sherlock si svestì delle ombre che l’avevano tenuto
nascosto.
«Adesso
lasciaci» disse ancora, rivolgendosi a Smith, ma con gli occhi fissi su di me.
«Va
bene, ma fate in fretta, stanno per portare un altro paio di cadaveri.» Si
interruppe e rise, come se si fosse ricordato di una battuta divertente. «Tre,
forse, a giudicare dalla faccia del dottor Watson!»
Udii
ancora la sua risata allontanarsi e la porta che si chiudeva alle sue spalle.
Sherlock
stava immobile e muto, come aspettandosi che fossi io a parlare, come se fosse
il mio turno di agire; ma non potevo fare niente, non sapevo più cosa pensare e
mi sentivo immerso in un’atmosfera sinistra. Sherlock era di fronte a me, vivo,
in un luogo dove ogni cosa, soprattutto lui, avrebbe dovuto essere morta.
Teneva le mani nelle tasche del cappotto e dovetti combattere con forza
l’impulso di afferrarle tra le mie per rendermi conto dei danni, accertarmi di
quante dita avesse ancora, capire se avesse bisogno di medicazioni. C’era qualcosa,
nella sua espressione calma che mi diceva che quello non poteva essere un uomo
al quale avevano appena amputato delle dita, né che era stato rapito, tenuto
prigioniero e torturato. La risata del dottor Smith continuava a riecheggiare
in quella stanza metallica come una tetra eco. Mi rendevo conto di essere di
fronte a qualcosa che non avevo capito e che ogni mia mossa avventata non mi
avrebbe procurato altro che umiliazione.
Come
in risposta al mio desiderio, Sherlock estrasse le mani dalle tasche: erano
intatte e perfettamente sane, nessun dito mancante e nessuna ferita, pallide,
forti e affusolate come al solito. Improvvisamente i miei ricordi parvero
stridere con la realtà, iniziai a domandarmi se quelle che avevo visto
scivolare fuori dai pacchetti potessero davvero assomigliare alle dita di
Sherlock. Sicuramente non lo erano.
Sentivo
un’invadente felicità risalire fin dallo stomaco, ma il dubbio, lo sconcerto e
persino la rabbia che si accumulavano via via nel mio petto le impedivano di
fuoriuscire.
«Hai
risolto il caso grazie agli odori, John. Ho sempre detto che gli odori sono
importanti.»
Non
risposi. Non potevo, non capivo. Non volevo. La sua indifferenza di fronte al
mio disorientamento mi rendeva furioso.
«Sapevo
che non l’avresti risolto con i miei stessi metodi, per questo ho cercato di
metterti a disposizione molte strade diverse. Due odori diversi, due casi
diversi. È stato… istruttivo, no?»
Istruttivo?
Forse avrebbe persino voluto dire divertente?
«Anche
se, tecnicamente, non avresti risolto il secondo caso: il tempo era già
scaduto…»
«Che
diavolo significa?!» La mia voce sovrastò la sua, la mia rabbia e la mia
frustrazione esplosero in un istante senza che potessi controllarle e avevano
ormai via libera.
«Non
è il luogo giusto per alzare la voce, John.»
«Ed
è il luogo giusto per riapparire dopo avermi fatto credere di essere morto per
colpa mia?»
Fece
una pausa, non per riflettere, ma per permettere al rimbombo della mia voce
di posarsi al suolo come polvere
inutile. «Sì.»
Il
mio respiro si fece pesante nel tentativo di frenare un altro sfogo che si
tradusse in una risata debole e incerta.
«Ma
sbagli a dire che sarei morto per colpa tua, John; sarei morto per via del mio
assassino. I casi non vanno presi sul personale. Il messaggio che mi hai
mandato…»
«Cancella
quel messaggio, dannazione!»
«Perché
dovrei? L’hai mandato a me.» Prese il suo telefono dalla tasca dei pantaloni e
lesse: «Mi dispiace davvero – John.
Toccante, ma del tutto superfluo.»
Un
gioco. Per lui era sempre un gioco, persino quando si trattava di me: era un
gioco quando si era alleato con Culverton Smith per manomettere i risultati
delle analisi, ed era un gioco anche il riapparire all’improvviso senza
spiegazioni e scoprire quale sarebbe stata la mia reazione. Stava cercando un
modo originale per vantarsi delle sue facoltà? Ora avrebbe avuto tutti gli
spunti che voleva per criticare le mie capacità di ragionamento di fronte
all’ovvietà e per sfoggiare come lui avesse risolto il caso in soli 3 minuti,
mentre io avevo brancolato come un disperato, sovraccaricato da ansia, paura,
affetto, determinazione e poi di nuovo terrore, ostacolato da me stesso, dal
mio essere umano. Ma continuavo a non capire lo scopo di tutto ciò e mi
rassegnai all’ottenere qualche forma di dispiacere da parte sua.
Non
potei guardarlo negli occhi, avvertivo lo spiacevole tarlo della delusione in
me. «Perché l’hai fatto?» domandai dopo aver pensato: ‘Perché hai fatto questo a me?’
«Per
allenarti, John.»
Non
capivo perché continuasse a ripetere il mio nome in quel modo; forse per farmi
calmare, come una specie di mantra. In qualche modo sembrava funzionare, anche
se dentro di me continuavo ad avvertire un’orribile sensazione di delusione e
abbandono.
«Era
qualcosa che andava fatto, dovevi capire certe cose, prepararti al futuro.»
Continuavo
a non capire. Non mi importava più.
«Era
un caso estremamente semplice, ma bisognava saper riconoscere gli indizi
importanti da quelli piazzati per depistare. Avevo già avuto a che fare con
questo gruppo di individui, in passato. Commettono crimini di solito di natura
politica – prediligono in assoluto la vendita di informazioni confidenziali di
alte cariche, segreti di Stato, e simili – e poi fanno ricadere la colpa su
gruppi terroristici o associazioni a delinquere che sono, in genere, troppo
ampie per essere setacciate da cima a fondo, facendo perdere le loro tracce
mentre la polizia, stupidamente, perde tempo interrogando tutti gli anarchici
del paese.»
Una
volta tanto, non mi interessava conoscere le geniali intuizioni di Sherlock
Holmes; per quanto fossi furioso, per quanto mi sentissi usato e umiliato, non
potevo fare a meno di pensare che non era mai stato in pericolo. Il sollievo mi
liberò, in piccola parte, dalla mia rabbia.
«Era
evidente che questa volta avessero commesso un passo falso per punire uno di
loro che si era infiltrato nel governo britannico. I riferimenti agli anarchici
erano assolutamente deboli – quel graffito, per esempio, era del tutto fuori
posto – ma la polizia non l’ha saputo capire, come al solito. Tu ce l’hai fatta
in qualche modo, alla fine. È bastato fare una visita a casa di Lucas per poter
ricostruire ogni cosa. Il profumo, unico oggetto femminile, denotava una
relazione segreta; il fatto che Lucas svolgesse il lavoro di traduttore, ma che
in casa non avesse nulla che facesse riferimento alla Francia – nonostante
tutti quei cimeli inutili – nemmeno un dizionario,
mi ha fatto pensare che nascondesse qualcosa, la sua relazione o addirittura
una doppia vita. Tutte queste sono rimaste supposizioni finché non ho visto il
quaderno: la polizia avrà pensato che fossero scarabocchi, vero? Omini
stilizzati che ballavano. Era un codice, e nemmeno troppo difficile. L’ho
fotografato e l’ho decifrato in meno di una notte, bastava avere un po’ di
pazienza. Si trattava di informazioni private su Trelawney Hope e sui suoi
confidenti che Lucas spediva regolarmente a suoi complici, i quali potevano
rivenderle. Era chiaro che avesse deciso di smetterla con questi affari pericolosi,
visto che era stato rapito. I suoi complici volevano probabilmente estorcergli
le ultime informazioni: l’hanno torturato e, per coprire il rapimento, hanno
avuto la pittoresca idea di simulare l’attacco di un gruppo anarchico ad alcuni
Paesi europei, mandando pezzi qua e là, credendo di risultare credibili
spedendoli solo alle monarchie, ma commettendo errori grossolani che, alla
fine, anche tu hai saputo cogliere. Hanno capito tardi che tutte le
informazioni scritte in un codice facilmente decifrabile si trovavano ancora
nell’appartamento, che però era sotto sorveglianza e che non avevano tempo di
perlustrare, così hanno pagato profumatamente una ditta di traslochi che si
intrufolasse e portasse via qualunque cosa, liberandosi così di tutte le prove
che potessero condurre a loro. A questo punto bastava scoprire i nomi, il
metodo che hai usato tu era-»
«Cosa
c’entravi tu, in tutto questo?» Non mi interessavano i magri complimenti alle
mie rare intuizioni, non mi importava sapere come tutti gli indizi si fossero
trovati a mia disposizione, né quanto tempo avessi sprecato cercandoli
inutilmente. Le sue spiegazioni erano solo un brusio di sottofondo alla mia domanda
ridondante.
«Il
caso era risolto e c’era un sacco di materiale con cui impegnare la tua mente
poco allenata.»
«Capisco.
Il caso era così noioso, per te, che hai deciso divertirti usandomi come cavia
e osservandomi cercare di uscire dal labirinto?»
«Non
è stato divertente» rispose lui, con un’ingenuità talmente sincera da farmi
irritare ancora di più, «mi sono annoiato ad aspettarti, e non mi piace
indossare gli stessi vestiti per tanto tempo. Ho cercato di metterti fretta con
quel messaggio, ma 15 ore erano comunque un’eternità.»
«Non
eri davvero malato… vero?» Ormai iniziavo a intuire come tutto ciò che era
accaduto fosse stato orchestrato per i suoi scopi.
«No.
Volevo un po’ di tempo da solo per organizzare le cose con Smith.»
Quindi
Moriarty non c’entrava niente. Sherlock aveva preso il suo posto.
«E
Mycroft… non sembrava molto preoccupato.»
«L’avevo
avvertito precedentemente in modo che non ficcasse il naso.»
Distesi
e contrassi la mano sinistra, così combattuto dal desiderio di prenderlo a
pugni e di abbracciarlo allo stesso tempo da avere le braccia formicolanti.
Abbracciarlo, sì, avrei voluto farlo. Due persone normali l’avrebbero fatto
dopo un’avventura simile, ma Sherlock aveva l’innata – o forse allenata –
capacità di eliminare in me ogni tipo di razionalità. Alla fine mi rassegnai,
era la soluzione migliore. Non ero in grado di sostenere una prova di
resistenza con la mente di Sherlock Holmes.
Mi
stava ancora scrutando, cercando di indagare all’interno della mia mente, forse
chiedendosi perché non rispondessi, perché avessi rinunciato ad arrabbiarmi,
perché non fossi rimasto sorpreso dalle sue brillanti deduzioni. Cercava di
capire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Forse ero l’unica persona in
grado di sorprenderlo, perché il più delle volte, quando ero con lui,
sorprendevo addirittura me stesso.
«Era
un addestramento» constatai infine, come se volessi giustificarlo. Non avrei
dovuto farlo, non meritava il perdono, non così in fretta, ma c’era sempre una
parte, dentro mi me, che voleva difenderlo. «Gli addestramenti sono sempre
difficili, alle volte crudeli.»
Trassi
un profondo respiro. Era tutto finito, avrei potuto far finta che non fosse
accaduto niente, ma non era quello lo scopo di un addestramento.
Sherlock
si avvicinò a me per la prima volta – forse aveva davvero temuto di essere
colpito.
«Sei
stato… bravo, John. La prossima volta sarai più veloce.»
Ero
sicuro che un giorno mi sarei pentito di quel pugno mancato.
«Se
proverai a rifarlo, ti ucciderò, Sherlock.»
**
«John!»
Il
ricordo sfuma in una luce abbagliante e poi in quella del tramonto. Il sole sta
calando e il tè, rimasto intatto nella tazza, è ormai freddo.
«John,
fissi il vuoto da 5 minuti. Cosa c’è che non va?»
I
capelli di Mary ardono di tramonto, ma le ombre nella casa iniziano già ad
allungarsi; il tempo ricomincia lentamente a scorrere, la vita riprende
pigramente, presto tornerà frenetica, ma io sono giunto a un bivio e l’ho
finalmente superato. Un solo attimo si è rivelato un’epifania.
«Cosa
c’è che non va?» ripete Mary, scrutandomi dall’altro capo del tavolo, facendo
il tentativo di allungare le mani nella mia direzione.
Riemergo
dai ricordi, ritrovo i miei pensieri e le mie parole, come dopo una lunga
immersione.
«Io
credo… credo che Sherlock sia vivo.»
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