The second smell

di Yuri_e_Momoka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


TSS - 1

Nota: Questa fanfiction partecipa al concorso 'Don't be boring' indetto da Rosedub.89 e ha dovuto soddisfare questi requisiti:

Crimine: Pezzi di cadaveri umani vengono inviati per posta alle maggiori cariche politiche europee
Prove: Un appartamento completamente svuotato; Floris eaux de parfum “Sirena”
Impedimento: Il caso dovrà essere risolto da John, senza l’ausilio di Sherlock

Questa storia prende ispirazione da alcuni dei casi contenuti nel canone, quali: 'L'avventura della seconda macchia', 'L'avventura della scatola di cartone', 'L'avventura del detective morente', e 'L'avventura degli omini danzanti'.
Il rating è giallo a causa di alcune immagini e situazioni violente.




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Le ombre si accorciano, la luce vira dall’oro al grigio, il pulsante calore di una tazza che svanisce dalle dita.
 
**
 
Ci trovavamo a trascorrere l’inizio della primavera nel nostro appartamento di Baker Street. La pioggia che da giorni batteva pigramente e insistentemente alla finestra aveva avuto un ruolo decisivo, accompagnata da un periodo di silenzio da parte della comunità criminale di Londra, nel trascinare l’umore del mio coinquilino a un livello pericolosamente basso.
Osservando il cielo plumbeo, che sembrava tentare di entrare nell’appartamento, mi pareva di scorgere i pensieri cupi di Sherlock Holmes.
Sapevo bene che in quei momenti era inutile, se non anche dannoso e pericoloso, tentare di instaurare un dialogo con lui, perciò da giorni lo avevo lasciato a vegetare sul divano, con l’unica compagnia del suo violino e della sua vestaglia blu, gli unici al mondo che, essendo oggetti inanimati, potessero sopportare la sua irascibilità senza protestare.
Tuttavia non potevo biasimarlo completamente. Ero piuttosto sicuro circa la causa del suo malumore, tanto da poterci addirittura attribuire un nome: James Moriarty.
Erano trascorse meno di due settimane dal nostro incontro alla piscina, due settimane trascorse nella più totale incapacità di comprendere esattamente ciò che era accaduto e le sue implicazioni. O almeno per me. Senza dubbio la mente di Sherlock si muoveva in modo del tutto diverso.
«Nutro comunque ancora qualche speranza positiva nei confronti del tuo cervello» fu quello che disse dopo due giorni di totale silenzio, come se stesse riprendendo una conversazione appena interrotta.
Rinunciai in partenza a cercare di capire ciò che volesse dire. «Buon per me, allora.»
«Possiamo ancora fare in modo che non finisca la sua desolata esistenza nell’ignoranza quasi totale.»
Sebbene fossi abituato ai suoi commenti malevoli e cinici, specialmente quando si trovava nei suoi periodi di astinenza dal crimine – e da Dio solo sa quali altre sostanze molto più concrete – non sono mai riuscito a sopportare gli insulti gratuiti, anche se velati da una dialettica intelligente.
«C’è qualcosa che ti infastidisce particolarmente nel mio cervello o posso liberarmene del tutto senza troppi rimorsi?»
«Ora come ora farebbe poca differenza, ma siamo ancora in tempo per porvi rimedio.»
Stanco di quelle affermazioni mi alzai dalla sedia in salotto per andare a ritirarmi nella mia stanza. Mentre gli passavo davanti, Sherlock alzò gli occhi al soffitto.
«Sono le persone come te che non accettano i consigli altrui a non evolversi mai.» 
Mi fermai ancora prima di imboccare il corridoio, puntandogli il dito contro. «Perdonami, grande maestro, ma le tue non sono affermazioni, sono solo insulti gratuiti a un’intelligenza nella media!»
Non si premurò di nascondere una smorfia. «Le persone credono che sia un genio.»
«Meno male che non vengono a riferirtelo, altrimenti ti sentiresti al di sopra di chiunque!»
Si mise a sedere con uno scatto, puntando le mani in avanti come chi deve attirare l’attenzione di una persona tarda di mente.
«No, ascolta. Non si tratta di genialità, ma di saper usare il proprio cervello. La gente comune non sa farlo.» Non avevo intenzione di starlo a sentire, per cui ripresi la via verso la mia stanza. «Ma si può imparare! Almeno un minimo, qualcosa di adatto alle tue capacità.»
«Perché continui a tirarmi in ballo? Stai parlando di me o degli altri poveri mortali?» No, per quanto volessi fare la persona matura non mi era possibile abbandonare quella conversazione da sconfitto.
«La differenza è minima. Ora!» sottolineò appena vide che stavo per protestare. «Sai perché quei compatiti di Scotland Yard mi consultano per un caso su tre, anche se avrebbero bisogno di me per un caso su due? Perché nessuno di loro si è mai preso il disturbo di farsi una cultura in materia di crimini. I crimini sono come le mode, sono ciclici.»
«Come i pianeti» comparai, per prendermi una sicura rivincita. Sherlock apparve molto seccato e io molto appagato.
«Basterebbe» continuò, cercando di nascondere la sua irritazione, «leggere tutti i crimini compiuti negli ultimi duecento anni per trovare sempre un precedente. Ma nessuno lo fa. Fanno tutti troppo affidamento sulle loro menti brillanti, quando invece basterebbe passare un po’ di tempo in biblioteca».
Girai i tacchi. «Fenomenale. Vado a dire a Lestrade di trasferire il dipartimento alla British Library e di sostituire gli agenti con i bibliotecari. Sai che risparmio per i contribuenti!»
Invece, mi avviai definitivamente verso la mia camera al piano di sopra. Dalle mie spalle provenne ancora la voce insistente di Sherlock: «È l’esperienza che genera l’abilità! Nient’altro che l’esperienza e una mente allenata. Non certo come la tua, che viene sprecata in un blog dalla sintassi deludente».
Fu lo squillo del suo cellulare a coprire l’imprecazione che uscì senza riserbo dalla mia bocca.
«Sherlock Holmes» rispose, poi qualche istante di silenzio. «Chiamate un macellaio, dunque, potrà esservi utile.» Un altro silenzio si unì al mio sconcerto. Vidi Sherlock sorridere ironicamente. «Fratello caro, com’è andata dal dentista? Due carie? Anzi, tre. Ti avevo detto di stare attento alla dieta.» Si appoggiò lentamente allo schienale come chi si sta preparando ad ascoltare una lunga conversazione, invece    riattaccò subito dopo aver detto velocemente: «Cercherò di liberarmi dagli impegni pressanti».
Lasciò cadere il telefono sul divano e rimase a fissare il vuoto. Dopo un minuto buono azzardai un passo avanti.
«Dunque era Mycroft? O Lestrade?»
«Tutti e due.»
«Abbiamo un caso?» domandai, ansioso di porre fine a quelle giornate demoralizzanti.
«Può darsi.»
Questo bastò a far passare in secondo piano la nostra sgradevole conversazione.
 
La bella signora Hilda Trelawney Hope era seduta in corridoio, su una consunta sedia in plastica verde, con un fazzoletto di stoffa premuto sulla bocca, come se fosse sul punto di vomitare. Ero convinto, in realtà, che ciò fosse già accaduto nel momento in cui aveva aperto il pacchetto. Sally Donovan le aveva poggiato una mano sulla spalla e muoveva le labbra. Probabilmente le stava dicendo che un fatto del genere non era poi così raro.
Le osservavo dall’altra parte del vetro che fungeva da parete della stanza della stazione di polizia dove ci trovavamo riuniti. Sherlock ed io, Lestrade, il signor Trelawney Hope e persino Mycroft Holmes, l’unico attualmente seduto in un angolo buio: com’era suo solito, osservava la situazione prima di compiere qualunque sforzo.
L’oggetto della nostra attenzione era appoggiato sul tavolo in mezzo alla stanza. Sembrava un innocuo pacchetto, avvolto in una semplice carta da pacco gialla spiegazzata. Sherlock ne aveva sicuramente dedotto che il pacco era stato aperto e poi richiuso con la sua stessa carta, prima di essere portato alla stazione, confermando la storia dei due famosi coniugi. Il signor Trelawney Hope, infatti, altri non era che il Segretario degli affari europei. Il fatto che lui di persona, accompagnato dalla moglie, si fosse preso il disturbo di recarsi alla polizia era di per sé un fatto curioso. Ma mai come il contenuto di quel pacco: adagiato su un morbido supporto di cotone pulito si trovava un orecchio umano.
«È andata così» iniziò il signor Trelawney, con l’espressione impaziente di chi è costretto a raccontare i fatti per l’ennesima volta, «mi trovavo già in ufficio quando mia moglie mi ha telefonato. Non accade spesso, solitamente le sue chiamate mi arrivano tramite la segretaria…»
«Quindi l’ha chiamata sul cellulare» puntualizzò Sherlock. Non era affatto una domanda.
«Sì. Mi ha chiamato sul cellulare e quando ho risposto ho capito che si trattava di qualcosa di grave. Era molto agitata e preoccupata. All’inizio non sono riuscito a capire di cosa stesse parlando.»
«Le ha detto di aver ricevuto un orecchio per posta» completò Sherlock. Era difficile capire chi dei due fosse più impaziente.
«Esatto» rispose Trelawney stizzito. «Tuttavia non sono tornato a casa subito, credevo si trattasse di uno scherzo. Avevo da fare e così me la sono presa comoda. Sono arrivato all’ora di pranzo e così ho scoperto che, effettivamente, si trattava di un vero orecchio umano. Mia moglie voleva assolutamente chiamare la polizia, ma io ero restio: essendo un personaggio di rilievo sulla scena politica, simili scandali è meglio trattarli con delicatezza.»
«Lei voleva risolvere le cose privatamente ed ecco lo sfortunato motivo per cui mi trovo qui» terminò Sherlock dalla sedia in cui era pigramente sprofondato, le mani nelle tasche del cappotto. Poi si rivolse a Lestrade e a suo fratello: «Esiste un reale motivo per cui sono stato scomodato?».
«Il Segretario ha chiesto di te e non posso biasimarlo per questa scelta» rispose Lestrade, mentre Mycroft ignorò la domanda, intento a rigirarsi tra le mani il suo telefono. «Siamo comunque soliti lavorare assieme, quindi gli interessi di tutti possono coincidere: la polizia può usare i suoi mezzi per risolvere il mistero, mantenendo comunque la faccenda privata e ufficialmente assegnata a te.»
«È la polizia che lavora con me. Non è un rapporto simbiotico» disse Sherlock, ignorando completamente la spiegazione di Lestrade. Si alzò all’improvviso e rigirò la carta da pacchi.
«Spedita da un uomo francese» concluse. «Persino la polizia saprebbe dedurlo visto che il francobollo e il timbro postale sono inglesi, la scrittura è quella di un uomo colto, ma non laureato, verso la trentina, di origini francesi o che parla prevalentemente il francese, visto l’errore nello spelling della parola ‘Trelawney’, che è diventata ‘Trelaweny’. Quindi una sola persona o, più verosimilmente, un gruppo di due o tre. Certamente non occorro io per dirvi di analizzare il DNA dell’orecchio e dell’eventuale saliva sotto il francobollo. Chiamatemi se ci sarà un vero caso da risolvere.»
Senza attendere una risposta, Sherlock spinse la pesante lastra di vetro che fungeva da porta, facendo alzare la testa al sergente Donovan e alla signora Hilda.
«E se ti dicessi che altre parti del corpo sono state recapitate contemporaneamente ad altri Paesi europei?» La provocazione di Mycroft catturò l’attenzione di tutti coloro si trovavano nella stanza, Sherlock compreso. Evidentemente il maggiore degli Holmes era l’unico a conoscere quel risvolto.
«Non ne sono stato informato!» sbottò Trelawney.
«È una notizia fresca» rispose Mycroft, accennando al cellulare. «Senza offesa, Robert…» Alzò gli occhi su Trelawney. Non terminò la frase, ma il significato era ovvio.
Sherlock studiò per un istante la porta semi aperta, poi proseguì con decisione. «Penserei a controllare i recenti movimenti del gruppo anarchico.» Uscì senza aggiungere altro. Prima di seguirlo, gettai un’occhiata a Lestrade, sulla via dell’esasperazione, all’offeso signor Trelawney e al sogghignante Mycroft.
 
Sul taxi del ritorno rimanemmo in silenzio. La mia fu più che altro una scelta dettata dal buon senso e dell’esperienza, anche se in verità avrei voluto discutere di quello strano pacco.
«Cosa ne pensi dell’orecchio?» Finalmente la domanda. Quando Sherlock chiedeva la mia opinione ero sempre scettico; ero sicuro che trovasse le mie goffe risposte un divertimento in quei momenti di noia che un semplice caso gli procurava. Ero già stato oggetto delle sue critiche, quella mattina, ma il suo sguardo penetrante fisso su di me era in assoluto la motivazione più convincente che potesse darmi per rispondere.
«Uhm… non ho avuto tempo di analizzarlo accuratamente» iniziai, tendando di costruirmi una giustificazione per il mio probabile fallimento. «Era un orecchio destro.»
«Bene» mi incoraggiò.
«Sembrerebbe maschile, viste le dimensioni, ma c’era il buco di un orecchino nel lobo, quindi… una donna con le orecchie grandi?»
«O, più probabilmente, un uomo che portava un orecchino. Vai avanti.»
Imprecai mentalmente per non aver pensato a una soluzione così ovvia. Il mio entusiasmo iniziale subì un improvviso arresto.
«Non credo…»
«John, non ho una tale sfiducia nelle tue osservazioni.»
Un complimento che celava una critica, come suo solito.
«Ho sentito odore di formaldeide.»
«Ovviamente, altrimenti non si sarebbe potuto conservare.»
«Ma era sulla superficie, non è stata iniettata. Qualunque imbalsamatore o una persona con qualche competenza medica saprebbe che, per funzionare a dovere, la formaldeide va iniettata.»
«Bene.» Sherlock annuì. «Poi?»
«Carnagione scura. Ispanico?» azzardai.
Annuì di nuovo. «Proprio come il signor Trelawney.»
Mi illuminai. «Credi che lui sia coinvolto?»
«Non credo niente per ora.»
«Però pensi che sia un caso interessante.» Cercai di riguadagnare punti trasformando quella domanda in un’affermazione.
«Neanche lontanamente.»
Incassò la testa nel colletto del cappotto e si ammutolì di nuovo.
 
Fummo a casa per l’ora di pranzo e Sherlock non volle più parlare del caso. Ero abbastanza deluso dalla piega inutile che stava assumendo il mio giorno di riposo e stavo considerando l’ipotesi di fare una passeggiata prima che calasse il buio, quando qualcosa arrivò a interrompere la mia noia.
Il campanello suonò e la signora Hudson fece accomodare l’ospite al piano di sopra. Si trattava di Hilda Trelawney, nello stesso trench grigio, macchiato dalla pioggia, che indossava alla stazione di polizia. Stringeva forte i manici della borsetta come se questa fosse il suo ultimo appiglio.
«Ho qualcosa da aggiungere alla storia» disse, senza attendere di essere interrogata.
«Si sieda pure» la invitai, accennando alla sedia vicino al tavolo. Sherlock era nella sua poltrona e non aveva accennato ad alzarsi, né ad accogliere la signora.
«Vuole raccontarci la sua versione?» esordii. Lei scosse la testa.
«Quello che ha detto mio marito corrisponde alla verità. Però c’è qualcosa che ha tralasciato.»
«Lei voleva chiedere aiuto alla polizia, è stato suo marito a volermi consultare» la interruppe Sherlock.
«Sì. Ma ho pensato solo ora alla possibile connessione con un altro fatto che preferirei rimanesse privato, almeno finché non ne sapremo di più.»
«Continui» le concesse Sherlock distogliendo lo sguardo.
«L’assistente di mio marito è scomparso da un paio di giorni.»
«Ne ha denunciato la sparizione?»
La signora Hilda indietreggiò col busto in posizione di difesa. «In realtà no. Non siamo sicuri che sia scomparso. Intendo dire che non ne abbiamo più avuto notizia.»
«Questo assistente è ispanico e porta un orecchino all’orecchio destro?»
La signora annuì mestamente, senza sorprendersi: sapeva di cosa stava parlando. «Proprio così.»
«E perché vuole che la faccenda rimanga segreta? Il DNA confermerà comunque a chi appartiene quell’orecchio.»
La signora Hilda gettò un’occhiata alla finestra, mordendosi un labbro in un momento di indecisione. «Lui e mio marito hanno avuto una discussione due giorni fa. Una brutta discussione. Ma so che mio marito non c’entra niente con la sua sparizione. Signor Holmes!» Il tono della sua voce si era alzato gradualmente. «Lei è capace e intelligente, vorrei che trovasse le prove dell’innocenza di mio marito prima che la polizia ne faccia uno scandalo!»
«Una discussione a proposito di cosa?»
«L’assistente – il suo nome è Eduardo Lucas – ultimamente non teneva un comportamento professionale, arrivava sempre in ritardo, un paio di volte era ubriaco. Questo non è da lui, mio marito ha provato a parlargli, ma lui era troppo irascibile e mio marito non è molto paziente. Hanno finito con l’insultarsi e il signor Trelawney gli da detto di non scomodarsi a tornare se fosse stato di nuovo in quelle condizioni.»
«Chi ha sentito questa discussione?»
«Molte persone. Mio marito tiene alcune riunioni a casa e quel giorno ne era in corso una.»
Nonostante quelle rivelazioni Sherlock non sembrava più interessato di prima. La luce grigia di quel pomeriggio primaverile enfatizzava il suo pallore.
«Che compiti aveva il signor Lucas in qualità di assistente?»
«Aiuta mio marito nei rapporti con la Francia. Gli fa anche da interprete.»
«Perché parla al presente, signora Trelawney?» domandò con quella che parve una nota di rimprovero.
La donna ne rimase negativamente colpita. «Io spero sia ancora vivo!»
«Che rapporti aveva con Lucas?»
«Era spesso a casa nostra, qualche volta si fermava per cena.»
«Quando hanno iniziato a manifestarsi quei comportamenti insoliti?»
«Circa due settimane prima del litigio.»
Finalmente Sherlock si alzò dalla poltrona e si diresse alla porta. «Bene, signora Trelawney, lasci l’indirizzo di Lucas e vedremo cosa possiamo fare.»
Nella sua voce non c’era un briciolo di interesse. Hilda Trelawney uscì dalla stanza con qualche esitazione, dopo aver posato un biglietto sul tavolo.
«Si è ritrovata un orecchio mozzato tra le mani e ora cerca di difendere suo marito. Cos’è che ti infastidisce così tanto di quella donna?» Ero rimasto in silenzio tutto il tempo, lasciando pazientemente Sherlock al suo interrogatorio, ma ora che non potevo più metterlo in cattiva luce potevo cercare di capire il motivo della sua scortesia.
«Ordinaria. Impulsiva. Sentimentale.»
Colsi al volo quella frecciata e non fu affatto piacevole.
Come a sottolineare il suo disappunto, prese in mano il suo telefono e se lo accostò all’orecchio. «Lestrade. L’orecchio appartiene ad Eduardo Lucas, assistente personale e interprete di Trelawney.» Una pausa, la sua espressione rimase immutata. «L’ho letto nella mia sfera di cristallo, come faccio con tutti i casi. Andiamo a casa di quest’uomo.» Riagganciò, mentre dall’altra parte del telefono Lestrade parlava ancora.
 
Mentre salivamo le scale che portavano all’appartamento di Lucas in Godolphin Street, riflettei: era un caso insolito, almeno per me. In un semplice pacchetto sembravano convergere ben tre Paesi: mittente francese, francobollo e timbro postale inglesi, oggetto del pacchetto di origini spagnole. Come aveva affermato Sherlock, anch’io ero portato a credere al coinvolgimento di più persone. Se un francese aveva impacchettato il contenuto e un inglese l’aveva spedito, forse lo spagnolo poteva essere il mandante? O si trattava semplicemente di un lungo procedimento per confondere le tracce? O entrambi?
Entrammo nell’appartamento: era un casa vecchia, più che antica, con il soffitto alto e parquet lucido a rivestire il pavimento. Le testimonianze dei viaggi dell’inquilino in giro per l’Europa erano visibili nei numerosi cimeli mal accostati appesi alle pareti e appoggiati sui mobili in legno, tra cui una collezione di armi antiche, non troppo ben tenute. La casa sembrava più o meno in ordine, il letto era rifatto, niente sembrava essere stato risistemato velocemente. Pensai che Lucas non fosse stato sequestrato lì, oppure che non avesse opposto nessuna resistenza.
Lestrade aveva portato con sé due agenti e insieme a loro stava setacciando ogni angolo alla ricerca di indizi. Sherlock, d’altra parte, sapeva dove osservare. Diede un’attenta occhiata alla libreria molto fornita, aprì un quaderno che – spiai – sembrava pieno di disegni fatti da un bambino e lo fotografò col cellulare, sollevò le coperte sul letto e aprì i cassetti del comodino lì accanto. Ne estrasse un piccolo sacchetto bianco e raffinato, con un nastro di seta su un lato. Mi avvicinai incuriosito quando fui investito da uno spruzzo umido che mi mozzò il respiro. Tossii mentre Sherlock leggeva: «Floris eau de parfum. Sirena. Oh, un regalo lussuoso.»
Lanciò la boccetta in aria e io l’afferrai, rigirandomela tra le mani e rileggendo l’etichetta, con gli occhi che mi lacrimavano.
«Ho visto abbastanza» disse Sherlock approssimandosi all’uscita. «Non credo che il signor Lucas tornerà, quindi voi della polizia avrete tutto il tempo che vi serve per i vostri…» Agitò la mano in cerca di un termine pittoresco. «Tentativi.»
 
Era buio da un pezzo quando rientrammo. Sherlock non volle cenare, pensai che volesse sfruttare ogni sua cellula per la soluzione del caso. Eppure non aveva dato segno di interessarsi all’orecchio mozzato o alla scomparsa di Lucas. Anzi, seppur abituato ai suoi stati d’animo poco incoraggianti, ero rimasto colpito dalla sua ingiustificata irascibilità. Ingiustificata per me, quanto meno.
La pioggia aveva cessato di cadere, Baker Street era silenziosa, fuori era buio, eccetto per la luce paglierina del lampione che tentava di illuminare la strada. In conclusione, non c’era nulla di interessante subito al di fuori di quelle mura. Ciò che mi incuriosiva, invece, era lo sguardo spento di Sherlock rivolto verso i vetri.
«Non ti senti bene, per caso?»
«Non saprei, come ci si sente a non sentirsi bene?» rispose lui, parlando più lentamente del solito.
Gli risparmiai la mia incredulità e tirai a indovinare. «Caldo? Freddo? Brividi e formicolii? Dolore alle giunture?»
«Le ultime due, sì.»
Annuii. «Dev’essere influenza. Oppure è colpa di questa pioggia fredda. Ad ogni modo dovresti riposare.»
Ero preparato a una risposta saccente e sprezzante, invece Sherlock si alzò e si diresse lentamente verso la sua stanza. «Forse dovrei.»
Fui decisamente sorpreso, nonostante non lo avessi mai visto malato e quindi non sapessi com’era solito comportarsi. Ero rimasto vagamente stordito dalla sua docilità, quindi accennai qualche passo dietro di lui.
«Ti… serve qualcosa? Vuoi che ti porti qualcosa?»
«No.» Entrò nella camera.
«Cosa vuoi che faccia con il caso dell’orecchio?»
«Quale caso?» Chiuse la porta. Rimasi interdetto.
«Se hai bisogno…»
«John.» Udii la sua voce, resa ovattata dalla porta chiusa, eppure mi sembrò comunque troppo conciliante per essere la sua. «Non ti preoccupare.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


TSS - 2 Il mio rientro all’ambulatorio non fu dei più rilassanti: una forma di influenza tenace aveva portato un esodo di anziani e madri con i figli piccoli a farsi controllare. Durante il tempo che impiegai a dividere i veri malati da quelli suggestionati ebbi solo un paio di occasioni per spedire un messaggio a Sherlock e chiedergli come si sentiva, avendo notato che alcuni dei contagiati presentavano febbre alta. La sua risposta ad entrambi i messaggi fu ‘bene’, e nient’altro.
Ero talmente preso dal lavoro che dimenticai le indagini sull’orecchio mozzato e quando arrivai a casa, ben dopo l’ora di cena a causa del lavoro straordinario, me ne andai semplicemente a letto.
La mattina dopo non vidi Sherlock, ma fortunatamente non mi ritrovai a dover affrontare lo stesso assedio di malati del giorno prima, tanto che ebbi il tempo di spedire un messaggio a Lestrade e chiedergli come procedevano le indagini.
 
Confermato DNA di Lucas.
Appartamento svuotato.
 
Interpretai l’ultima frase come una precauzione, da parte della polizia, nel trasportare altrove tutto il materiale conservato nell’appartamento, ma poiché mi sembrava una trovata assurda chiesi ulteriori spiegazioni, che non tardarono ad arrivare.
 
Qualcuno si è introdotto
e l’ha svaligiato, compresi
i mobili.
Puoi chiedere a Sherlock
di rispondere al telefono?
Grazie.
 
Un po’ per l’eccitazione di quell’insolito risvolto, un po’ per andare incontro alle richieste di Lestrade, scrissi anche a Sherlock.
 
Novità sul caso, Lestrade
ti avrà aggiornato.
Controlla i messaggi!
Come stai?
 
Non ricevetti risposta, ma la fine del mio turno si avvicinava.
 
Scrollai la pioggia dall’ombrello prima di mettere piede nell’appartamento. In soggiorno aleggiava una luce tetra, ma fui colpito nell’udire il suono del televisore acceso: il notiziario delle 6 raccontava un raccapricciante fatto di cronaca.
Sherlock era affondato nella poltrona con le ginocchia raccolte contro il petto e avvolto in una brutta coperta patchwork che non avevo mai visto, tanto che potevo scorgerne solo la cima della testa.
«Non rispondi ai messaggi» constatai salutando.
«Il telefono è lontano» rispose con voce flebile e roca, senza distogliere lo sguardo dalle immagini macabre.
«Però sei venuto fin qui.»
«Se sono qui non posso prendere il telefono che è in camera.»
Abbandonai la giacca bagnata sullo schienale di una sedia e allungai la mano verso di lui. «Febbre?»
Si ritrasse nella coperta come un animale ferito. «No. Mi infastidisce. Ho subito un incremento del senso del tatto.»
Sospirai. «Ipersensibilità, è normale. Non hai mai avuto la febbre prima?»
«Può darsi. Non ricordo. Non è importante.»
«Immagino di no.» Assecondarlo era la via migliore per evitarmi discussioni fastidiose. «Lestrade mi ha detto che…»
«Non mi interessa.» Si alzò immediatamente trascinandosi dietro la coperta colorata.
«Ma è il tuo caso!»
«Oh. Dunque deve esistere un altro Sherlock Holmes che mi somiglia molto ed ha accettato questo caso, perché io sono sicuro di non averlo mai fatto.»
Si diresse a passi strascicanti verso la sua stanza.
«Ma le cose si stanno evolvendo, potresti avere qualcosa di interessante…»
«Prendilo tu, allora» disse fermandosi davanti alla porta.
Rimasi interdetto. L’ipotesi era talmente assurda che mi venne da sorridere. «Ma… io non posso farlo.»
«Ovviamente puoi. È la sua risoluzione che potrebbe rivelarsi molto lontana dal possibile.»
Senza distogliere lo sguardo da me, con un accenno di sfida negli occhi, aprì bruscamente la porta e si rintanò nuovamente nella sua camera buia.
 
«Spagna, Danimarca e Svezia sono i Paesi che finora ci hanno fornito notizie o che si sono lasciati contattare, ma sospetto che altri non vogliano fare rivelazioni.» Avvertii un tono di ansia e affaticamento nelle parole di Lestrade, che però non era dovuto alle forze spese per salire le scale della casa in Godolphin Street, la mattina dopo. Chiaramente la faccenda stava diventando complicata: alte cariche europee – come aveva già anticipato Mycroft – avevano ricevuto, via posta, parti di corpo umano. Un paio di loro avevano deciso subito di collaborare e spedire i risultati delle analisi nel Regno Unito, ma altri si dimostravano reticenti, altri ancora non collaboravano proprio per evitare scandali e fughe di notizie. Spesso gli alleati si rivelano più una fonte di problemi che di sostegno, avevo avuto modo di impararlo durante la mia esperienza militare. E anche quella domestica.
«E…» riprese Lestrade con una leggera ansia, «che mi dici di Sherlock?».
«A letto. Manda me a fare i vari sopralluoghi e io lo… aggiorno.» Pensando di non risultare abbastanza credibile accompagnai quella mezza bugia con un sorriso stirato. Lestrade annuì e non rispose. Sapevo che il caso aveva iniziato a preoccuparlo seriamente e che avrebbe di gran lunga preferito avere Sherlock accanto a lui.
Il detective entrò nell’appartamento, io lo seguii, notando i sigilli che erano stati applicati sulla porta, ora rotti. Come mi era stato detto, la casa era stata completamente svuotata: non c’era più niente, nemmeno un quadro, un manifesto, un tappeto. Persino tutti gli inutili souvenir erano stati trafugati come se avessero acquistato improvvisamente valore.
Erano rimaste solo le pareti, il pavimento e il soffitto. L’unica cosa che era stata lasciata era un graffito: la famosa A cerchiata era stata disegnata su una parete, apparentemente con una bomboletta di vernice nera. Sherlock aveva avuto ragione a considerare il gruppo anarchico. Ovviamente.
Cercai di riproporre i metodi utilizzati da Sherlock: volevo scoprire qualcosa di interessante che risvegliasse in lui l’interesse per il caso, ma per quanto m’impegnassi non vi era molto da perlustrare. Cercai di individuare orme particolari nella polvere, ma tutto ciò che vidi furono le tracce lasciate dai poliziotti; cercai segni sui muri, ma la carta da parati era già vecchia e consunta la prima volte che avevo visitato l’appartamento e, eccetto per il nuovo graffito, non riuscii a trovarvi nulla di particolare.
Mentre stavo per rinunciare, Lestrade aggiunse un nuovo particolare. Me lo riferì sottovoce, aveva l’aria di trattarsi di un risvolto significativo.
«Svezia, Danimarca e Spagna ci hanno inviato i risultati delle analisi e alcune fotografie: le parti del corpo ricevute appartengono tutte a Lucas, ma gli indirizzi sui pacchi sono stati scritti da mani diverse e anche i francobolli cambiano ogni volta.» Guardò il pavimento dondolandosi nervosamente. «Sembra proprio che abbiamo a che fare con un’organizzazione ampia e con serie intenzioni.» Tornò con lo sguardo su di me, un misto di gravità e supplica negli occhi. «Convinci Sherlock a occuparsene. Per favore.»
Rimasi colpito dalla sua preoccupazione. «Farò del mio meglio» assicurai, ma avevo poca fiducia nelle mie capacità di persuasione.
 
Pensai di affidarmi al suo orgoglio e al suo narcisismo: se avessi iniziato il discorso riferendogli che aveva avuto ragione a sospettare degli anarchici, questo lo avrebbe sicuramente fatto interessare di più al caso. Oppure no: il fatto che avesse sospettato gli anarchici fin dal primo momento avrebbe potuto convincerlo ancora di più della banalità della vicenda. Ero ormai in grado di interpretare i suoi silenzi, sapevo tradurre in frasi di senso compiuto i suoi mugugni e riuscivo sempre a leggergli nello sguardo la differenza tra disapprovazione, delusione, frustrazione o eccitazione per un omicidio intrigante. Tuttavia tutto ciò che portava ad un certo stato d’animo era spesso avvolto nella mia ignoranza più totale, almeno fin quando egli stesso non si scomodava a chiarire i miei dubbi.
Per farla breve, nel momento in cui mi chiusi alle spalle la vecchia porta verde che si affacciava su Baker Street, ancora non sapevo con quale particolare l’avrei convinto a riprendere ad occuparsi del caso. Caso che, comunque, presentava delle perplessità. Mentre salivo i gradini tentavo di figurarmi come mai un gruppo di anarchici avrebbe dovuto  svuotare l’appartamento del proprio ostaggio dopo che la polizia l’aveva già perlustrato. C’era un che di misterioso in quel comportamento, un che di anomalo e leggermente inquietante. Speravo davvero che questo particolare avrebbe titillato a sufficienza il mio coinquilino.
Bussai alla sua porta, ma non ci fu nessuna risposta. Prima di aprire chiamai la signora Hudson.
«No, sono un po’ preoccupata, John» rispose stropicciandosi le mani, dopo che l’ebbi chiesto se lo aveva visto durante il giorno. «In realtà sì, non l’ho visto però. Ho bussato e gli ho chiesto se aveva bisogno di qualcosa, perché sapevo che si era preso questa brutta influenza. Mi ha detto che non gli serviva niente e di andare via. Non mi sono impuntata, sai, quando è di cattivo umore il suo caratteraccio mi spaventa.» Annuii perché la capivo e perché cercava insistentemente la mia approvazione con lo sguardo.«E da allora non l’ho più visto.»
«Va bene, signora Hudson, sarà il caso che vada a vedere io. Se sta male non può rifiutare l’aiuto di un medico.» Il medico ero io, per questo mi sentivo leggermente in colpa: non mi ero particolarmente occupato di lui durante quegli ultimi giorni. Sicuramente la sua scontrosità non rendeva facile insistere su quell’argomento; il più delle volte preferivo lasciarlo ai suoi problemi piuttosto che subirmi le sue lamentele sprezzanti. Questa volta però avrei fatto qualcosa e se si fosse chiuso in camera avrei sfondato la porta. O forse avrei solo chiamato un fabbro. Anzi, probabilmente la signora Hudson aveva una copia di ogni chiave dell’appartamento.
Bussai di nuovo, più forte. «Sto entrando.» Attesi ancora qualche istante una risposta che non venne. Afferrai il pomello aspettandomi di sentirlo bloccato, invece la serratura scattò e la porta si aprì senza alcuna resistenza. Le luci erano spente ma la finestra era aperta. Le tende si gonfiavano ritmicamente: fuori si era alzato il vento, la stoffa chiara si sollevava in direzione del letto. Vuoto.
«Sherlock?» chiamai confuso, come se potesse saltare improvvisamente fuori dall’armadio. Con mio grande disappunto, non accadde niente del genere. Mi inginocchiai persino a guardare sotto il letto, ma la stanza era completamente vuota. Controllai di nuovo tutta la casa, sentivo uno spiacevole formicolio estendersi sulla nuca per ogni stanza che trovavo disabitata.
«È uscita di casa oggi?» domandai alla signora Hudson sulle scale, ponendo fermamente una mano di fronte a me, come a tentare di bloccarle i ricordi che potessero sfuggirle. Come avrebbe potuto dimenticarsi di una cosa del genere?
«Mh? Certo, sono uscita un’ora stamattina, sono andata dal parrucchiere!» Lo disse con un tono di voce incredulo: secondo lei la sua nuova piega doveva essere la prima cosa che avrei dovuto notare, una volta rientrato.
«Non c’è.»
Stavolta la padrona di casa fu ancora più stupita. «Non c’è? Non è in casa? Sul serio, John? Non è possibile.»
Ero agitato, molto agitato, ma capii che far preoccupare la signora Hudson non avrebbe semplificato le cose, quindi mi sforzai di sorridere. «Beh, sarà andato a prendere un po’ d’aria, non è il caso di preoccuparsi subito.»
‘Prendere un po’ d’aria’. Quella frase era assolutamente assurda se associata a Sherlock. Due note opposte e discordanti. ‘Sherlock Holmes è andato a prendere una boccata d’aria’. Era contraddittoria in sé.
«Prendere aria? È impossibile, a mala pena mi parlava dal letto!»
«Stia tranquilla, ora gli telefono. Anzi, forse mi ha scritto un messaggio e io non l’ho notato. Non c’è motivo di preoccuparsi. Vada a preparare una delle sue tisane alle erbe, eh? Ne prendo una tazza anch’io, se non le dispiace.»
Insistetti ancora un paio di volte e, incoraggiandola ulteriormente con un po’ di pressione sulle spalle, la convinsi a scendere nel suo appartamento e a lasciare a me il resto.
Ovviamente controllai il cellulare alla ricerca del fantomatico messaggio, sperando che il solo parlarne lo facesse comparire, ma non c’era niente, né un messaggio non letto, né una chiamata persa.
Composi il suo numero e rimasi ad ascoltare i segnali intermittenti e interminabili. Il telefono squillò a vuoto finché non venne attivata la segreteria. Sapevo che non l’avrebbe mai ascoltata quindi scrissi di fretta un messaggio: dove sei? Solo questo, così non avrebbe avuto il tempo di annoiarsi leggendolo.
Forse mi stavo preoccupando inutilmente, ma più cercavo di convincermene più l’ansia aumentava. Dovevo metterci un freno e pensare razionalmente e il primo nome che associai a ‘razionale’ fu quello di Mycroft Holmes.
«Sì?» rispose dopo diversi squilli. Dalla voce sembrava particolarmente tediato.
«Sono John.» Ovviamente lo sapeva già: doveva averlo letto sullo schermo e anche se non l’avesse fatto l’avrebbe saputo comunque.
«Sì, John?»
«Hai parlato con Sherlock, oggi? L’hai visto, forse?» Sentii un improvviso brusio di voci e mi venne da chiedere, con un po’ troppo slancio: «È con te?».
«No, attendi un attimo, per favore.» Sentii che appoggiava una mano sul ricevitore per attutire i suoni e che parlava con qualcuno. Un paio di persone, forse. Poi la voce tornò chiara. «Scusa, dicevi?» La noia con cui si stava rivolgendo a me, prendendo quella situazione completamente alla leggera, mi fece innervosire.
«Hai visto Sherlock? In casa non c’è, non è reperibile e quando l’ho lasciato non stava affatto bene.»
«Mh-mh» assentì. «Si tratta di una ‘giornata pericolosa’?»
Impiegai qualche istante a capire. «No. No! È malato, aveva la febbre»
«Oh, questa mi giunge nuova. No, mi spiace, non l’ho sentito da quando ci siamo incontrati alla stazione di polizia. E, a questo proposito, come procede il caso?»
«A rilento, visto che colui che doveva occuparsene non si trova!»
«Ah. Ha accettato, dunque?»
Mi chiedevo sempre perché mi ponesse delle domande di cui conosceva già la risposta. Sapeva perfettamente che Sherlock non trovava il caso dell’orecchio più interessante di un barattolo di cetriolini. La sua indifferenza mi irritava e avevo tentato di coinvolgerlo. Cosa mi era saltato in mente? Improvvisamente volli concludere quella conversazione al più presto.
«Il caso non è importante, adesso. Non è con te, dunque. Se hai notizie fammi sapere, per favore.»
«Certamen-» Riagganciai.
Per quanto pensare a Mycroft mi procurasse sempre, inevitabilmente fastidio, se fosse successo qualcosa a Sherlock lui l’avrebbe saputo. Lui sapeva sempre. Non c’era niente di cui preoccuparsi.
La signora Hudson entrò in salotto accompagnata dal leggero tintinnio delle tazze di ceramica sui piattini; rimase in piedi sulla soglia, cercando di leggermi il viso.
«Non c’è da preoccuparsi» ripetei, più a me stesso che a lei.
 
Ricordo bene quella notte: la trascorsi a letto, tentando di imitare la normalità, ma fissando la porta della mia camera e la sottile lama di luce che penetrava debolmente dal basso. Avevo lasciato la luce accesa in soggiorno, pensando che potesse essere d’aiuto nel caso Sherlock fosse rientrato quella notte. Ricordo di aver trattenuto il fiato a ogni rumore e di averlo esalato appena mi rendevo conto che la cadenza di quei passi era diversa, che il fruscio del soprabito era un altro.
Ricordo di aver chiuso gli occhi così spesso, nella speranza di dormire, di aver creduto di stare soltanto sbattendo le palpebre. Ricordo di essermi ripetuto centinaia di volte che la mia ansia era infondata, che era già successo prima. Ricordo di essermi reso conto che la mia ansia sarebbe stata infondata se lui non avesse avuto la febbre, se non fosse sgattaiolato via proprio quando la signora Hudson non era in casa, se mi avesse mandato un messaggio alle 3 di notte dicendomi di raggiungerlo in un posto sconosciuto alla ricerca di un cadavere senza piedi ma con le scarpe addosso.
Ricordo di aver atteso quel messaggio per un’eternità e di aver visto sorgere l’alba.
Ricordo di aver sentito un rumore alla porta, di essere balzato giù dal letto, teso ed esasperato, e ricordo la mia delusione nello scoprire che si trattava unicamente del postino che recapitava un pacchetto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


TSS - 3 Vidi Molly Hooper apparire in fondo al lungo corridoio: reggeva una cartellina chiara, sottile, pochi fogli all’interno. Forse addirittura solo uno. La risposta che aspettavo non aveva bisogno di lunghe spiegazioni. In realtà una sola parola avrebbe fatto la differenza.
Molly camminava spedita, rallentò, poi accennò una corsa e rallentò di nuovo. Non era sicura di volermi far sapere la risposta, era indecisa tra il rivelarmi subito il risultato o prolungare la mia attesa. Avrebbe semplicemente potuto gridarmelo dal fondo del corridoio e mi sarei tolto quel peso dalle spalle che mi impediva di alzarmi dalla sedia di plastica.
«L’hai letto?» le chiesi impaziente quando fu a portata di voce.
«S-sì. Uhm… John…» No. Volevo una risposta precisa. Volevo vedere scritto su quel foglio: positivo o negativo. Sì o no. Le presi la cartellina, lei si portò immediatamente la mano libera a coprirsi le labbra, poi guardò per terra, aspettando che leggessi.
Aprii il fascicolo, all’interno un singolo foglio bianco era fissato con una graffetta al margine superiore. C’era un titolo stampato in corsivo che precisava che le analisi erano state condotte dal laboratorio di analisi genetica dell’ospedale St. Bartholomew, poi il nome del capo del laboratorio: Dr. Culverton Smith.
Stavo indugiando, ma con la visione periferica riuscivo già a scorgere una parola stampata in caratteri grandi.
 
POSITIVO
 
Distolsi lo sguardo e lessi di nuovo; c’era scritto ancora ‘positivo’.
«Cosa facciamo, John?» domandò Molly Hooper, impaziente.
Positivo.
«Voglio parlare con questo dottor Smith.»
«Vedo cosa posso fare.»
Non aveva senso.
 
Non aveva senso: lo avevo pensato anche quando avevo trovato quel pacchetto davanti alla porta. Un oggetto semplice come quello non avrebbe mai suscitato sospetti se non fosse stato drammaticamente simile a quello che, solo pochi giorni prima, giaceva aperto sul tavolo della stazione di polizia, mostrando la parte mozzata di un corpo umano.
Lo avevo portato di sopra, sul tavolo in salotto, e nel frattempo non avevo potuto non notare un particolare che mi aveva provocato una sensazione simile a quella del ghiaccio che scivola sulla spina dorsale: l’indirizzo sul pacchetto era scritto in una grafia assurdamente simile a quella di Sherlock, solo un po’ più disordinata. Oppure tremante.
Mi rifiutavo di crederci, eppure sapevo cos’avrei trovato al suo interno. Dopo aver scartato il  pacchetto con lentezza esasperante, avevo sollevato il leggero coperchio di cartone con una delicatezza destinata solo alle ali di una farfalla, o al viso di una donna. O a Sherlock.
L’odore di formalina mi aveva mozzato il respiro. Aprire del tutto quella scatola sarebbe stato inutile, eppure dovevo andare fino in fondo.
Cotone bianco.
E un pallido dito affusolato.
 
Aggirandomi nel labirinto abbagliante di provette, becchi Bunsen e macchinari dall’aria incredibilmente costosa e futuristica non potei fare a meno di immaginarmi Sherlock seduto a un tavolo, con gli occhi incollati a un microscopio. Chissà se era stato lì, chissà se aveva collaborato con alcune delle persone presenti, se aveva mai insultato la loro intelligenza, se aveva mai chiesto loro di passargli il telefono che teneva nella sua giacca. Chissà se, in un qualche giorno passato, ci eravamo incrociati nei corridoi del Bart’s, io da studente e Sherlock da insaziabile ricercatore.
Ora, sullo sgabello davanti al microscopio, sedeva il dottor Smith, che mi osservava con sguardo greve da sopra la montatura degli occhiali da presbite calati sul naso. Potevo quasi specchiarmi nella sua grande testa calva.
«Col passare degli anni che ha trascorso qui, utilizzando i nostri laboratori…» esitò un momento su quell’utilizzare, «ha archiviato parecchi campioni del suo DNA, del suo gruppo sanguigno e le sue impronte digitali. Per i suoi esperimenti, presumo. Non ho mai lavorato con lui.»
Continuavo ad aspettare una speranza che non venne. «Quindi è sicuramente suo? Senza nessun dubbio?»
Culverton Smith esalò con rammarico, poi si strinse nelle spalle. «Posso ripetere le analisi, ma sia il DNA che le impronte coincidono.»
Annuii. «Ripetete i test. Per favore» aggiunsi poi, in tono conciliante. In realtà notai che stavo suscitando solo pietà agli occhi del dottor Smith.
«Di norma dovrebbe essere la polizia a richiederlo, queste analisi sono costose. Le assicuro che le probabilità che entrambi i test diano risultati sbagliati sono pressoché nulle.» Notando che stavo per insistere, mi interruppe: «Credo che questo sia il momento di darsi da fare per rintracciarlo, non crede?».
Era imbarazzante, ma negare la verità lo era ancora di più.
 
«Ma certo che puoi aiutarci col caso, John» iniziò Lestrade, mettendo le mani avanti per frenare le mie proteste; aveva abbassato di molto il tono della voce, «ma non potrai farlo in veste ufficiale».
«Sherlock lo faceva in veste ufficiale?» Sapevo che non era così, sapevo che i superiori non conoscevano il reale livello di coinvolgimento di Sherlock nei casi più delicati.
«Se persino lui non aveva l’autorizzazione ufficiale, immagina cosa succederebbe se concedessi a te  di mettere le mani su informazioni scottanti riguardanti l’intero governo!»
Ero sorpreso: da quando il caso dell’orecchio mozzato era diventato così importante? «Che sviluppi ci sono?»
Lestrade sospirò. «Ascolta, John. Non è una questione personale, capisco che tu voglia aiutarci ad accelerare le indagini ora che anche Sherlock è stato coinvolto, ma loro non lo accetteranno.» Rivolse un’occhiata fulminea ad alcuni poliziotti che stazionavano nel corridoio; tra questi vi erano anche Anderson e Donovan.
«Sono professionisti» proseguì, «alcuni sono meno professionali di altri, ma rimangono comunque poliziotti addestrati. Non accettavano il peso che Sherlock aveva nei loro casi passati e di certo non accetteranno te, che sei…» Esitò sul termine.
«Ordinario? Lo so! Lo siamo tutti, ecco perché chiamavate lui, ed ecco perché serviamo tutti noi, adesso!» Lestrade mi mise le mani sulle spalle allontanandomi il più possibile dalla porta. «Sai che sono discreto, non pubblicherò nulla sul mio blog, non parlerò con nessuno, ma devo fare qualcosa, posso essere utile. Conosco i suoi metodi, Greg!»
Cercai di rendere la faccenda personale chiamandolo per nome.
Dopo qualche istante di esitazione, alternando occhiate al pavimento e ai poliziotti ancora fuori, Lestrade annuì impercettibilmente. «So che puoi esserci utile. Ti passerò informazioni frammentarie su cui potrai lavorare senza correre il rischio di divulgare le notizie sbagliate.» Abbassò nuovamente il tono della voce, come se si vergognasse: «Non che ci siano a disposizione tutte queste informazioni…».
«C’è qualcuno che vi ostacola?»
«Già» replicò lui stizzito, «i Paesi stessi! Vogliono tenere la faccenda privata, non capiscono perché debba essere proprio il Regno Unito ad occuparsene. Alcuni ci mandano risultati incompleti, altri li alterano e altri ancora si rifiutano di collaborare credendo di fiutare intrighi politici e spie ovunque. Non è la Guerra Fredda, dannazione!».
Ora finalmente mi rendevo conto della sua frustrazione e delle difficoltà che risiedevano in questa indagine. Eppure tutto ciò aveva un’impronta familiare. Era tutto così sfuggente e incerto e, allo stesso tempo, così ovvio. Bastava osservare. In quel momento capivo davvero ciò che Sherlock continuava a rimproverarmi: tu vedi, ma non osservi.
«Si tratta di Moriarty.» Già soltanto pronunciare quel nome sembrava indebolire lui e rafforzare me.
Lestrade si stuzzicava pensosamente il labbro inferiore con le dita. «Quel nome è come una maledizione: più lo si declama e più si allontana. È come se ci stuzzicasse, ma nessuno mai fa in tempo a capire il suo legame con i vari crimini.»
Annuii con convinzione. «È lui, è certo. Questo è chiaramente il suo modus operandi, sta mettendo in atto la sua minaccia. Crede di avere una faccenda personale in sospeso con Sherlock. È l’unico che avrebbe voluto puntare a lui in questo caso, chi altri sennò? Non aveva nemmeno accettato di collaborare!»
«È presto per fare insinuazioni di questo calibro, John: chiunque abbia visto Sherlock alla stazione di polizia, quando è arrivato l’orecchio, o la signora Trelawney-Hope recarsi a Baker Street, può pensare che lui si stia occupando della faccenda e quindi decidere di impedirglielo.»
Ero irritato dalla sua mancanza di coraggio e della sua cecità: chi altri avrebbe avuto la macabra idea di inviare proprio a me un pezzo di Sherlock? Chi altri avrebbe potuto architettare un crimine di portata europea così facilmente, godendo delle nazioni che precipitavano nella confusione e si ostacolavano l’una con l’altra? Un teatrino di Paesi che litigano sullo scenario d’Europa, tutto per distogliere l’attenzione dalla sua vendetta personale.
«Dammi tutte le informazioni che puoi, poi me ne andrò» dissi, decidendo di porre fine alla discussione.
 
Sapevo che non sarei mai riuscito ad arrivare a Moriarty tramite delle prove – nemmeno Sherlock ne era stato in grado –  e sicuramente non potevo capire la natura del suo coinvolgimento solo grazie al mio intuito. Sapevo solo che c’entrava qualcosa e che probabilmente muoveva i fili dell’intero spettacolo, ma non era lui ad agire direttamente quindi, per risolvere la questione il prima possibile, dovevo concentrarmi sugli effettivi artefici di quelle minacce. Perché dovevano per forza trattarsi di minacce, no? Che senso avrebbe avuto, altrimenti, spedire pezzi di corpo umano alle capitali europee?
Il fatto di non conoscere il numero effettivo di Paesi coinvolti limitava di gran lunga le mie possibilità di successo poiché non riuscivo a trovare un nesso tra loro. Spagna, Danimarca e Svezia. E Inghilterra. L’unico tratto in comune che mi sovveniva era il fatto che fossero tutte monarchie, ma non riuscivo a capire che senso avrebbe avuto, per gli anarchici, minacciare proprio questi Paesi. Gli anarchici non fanno differenza tra monarchia, repubblica, dittatura o altro; perciò c’era probabilmente qualcos’altro che mi sfuggiva.
C’era sempre qualcosa che mi sfuggiva.
Mi distesi lungo lo schienale della sedia, sentendo i muscoli della schiena rilassarsi un poco. La mascella mi doleva per la tensione e notai che le mie mani tremavano leggermente tenendo in mano le fotografie. Mi chiesi se Sherlock fosse mai stato così teso durante un’indagine. Lo avevo visto raramente ansioso: impaziente, sì; irritabile o eccitato, sì; ma mai teso come lo ero io in quel momento. La soluzione dei suoi casi non corrispondeva alla salvezza di un amico. Tranne quando mi aveva trovato alla piscina, impacchettato in una bomba e ostaggio di Moriarty. Non se l’era proprio aspettato; ma quello non era un caso, si trattava di una prova di resistenza e di audacia, una gara con Moriarty.
Ora ero io a gareggiare con lui. Era ovvio, si trattava di un gioco, altrimenti perché mandare il suo dito proprio a me? Tuttavia si trattava di un gioco crudele: che speranze avevo di incastrare Moriarty quando nemmeno Sherlock, pur andandoci vicino, c’era riuscito?
Perciò era inutile concentrarsi sul consulente criminale: se davvero ero diventato il suo gioco, forse ignorandolo avrebbe commesso un passo falso. In ogni caso non avevo alternative se non concentrarmi sulla parte più pratica di quel problema.
Gettai sul ripiano la foto ingrandita scattata al graffito, scivolò sopra le altre e cadde dal tavolo. Lestrade mi aveva procurato le fotografie delle prove raccolte – non tutte, probabilmente – ma anche se fossero state di più sarebbero servite a poco: non avevo idea da dove iniziare.
Conosco i suoi metodi, avevo detto a Lestrade, ma non ero sicuro che fosse vero. Sapevo che Sherlock osservava ciò che a me sembrava trascurabile, che vedeva tutto in nulla, che stava seduto sulla poltrona per ore a fissare il vuoto, che parlava da solo, che la sua mente compiva chissà quali viaggi dai quali tornava quasi sempre con una soluzione. Quando non riuscivo a capire come ci fosse arrivato – ovvero la maggior parte delle volte – me lo spiegava, ma i suoi ragionamenti mi sembravano sempre troppo contorti e azzardati, sebbene zeppi di logica.
Continuavo a domandarmi come avessero fatto a portarlo via con tanta facilità. Come minimo, grazie alle sue intuizioni, aveva previsto che qualcuno potesse volerlo fuori dal caso. Forse era per questo motivo che non aveva voluto accettarlo, anche se l’idea di uno Sherlock prudente mi faceva semplicemente ridere.
Era entrato qualcuno mentre la signora Hudson era fuori? In quanti erano? Lo avevano portato fuori con la forza? Per quanto potesse star male sicuramente non si sarebbe lasciato portare via senza reagire, senza rimproverarli per la scarsa creatività dimostrata nel rapimento. No, più verosimilmente era stato attirato fuori; magari con una telefonata o con un messaggio. Cosa avevano usato? Un bel caso macabro come esca? Oppure me? Ero forse stato il bersaglio di un cecchino senza accorgermene, mentre qualcuno gli intimava di uscire? Si sarebbe davvero esposto a un pericolo, se io fossi stato minacciato?
Non lo sapevo. Non sapevo niente.
Dalla strada giunse inaspettatamente il suono lamentoso di un violino, una melodia lontana e armoniosa. C’era qualcun altro che suonava il violino a Baker Street? Non l’avevo mai notato fino ad allora. Forse Sherlock lo aveva sempre oscurato. Sherlock aveva sempre oscurato tutto, a dire il vero. Da quando lo avevo conosciuto c’era sempre stato solo lui: lui e i suoi casi; lui e le sue avventure assurde e pericolose; lui e le sue lamentele e i discorsi senza fine; lui e il suo violino; lui e i suoi esperimenti di chimica e ogni volta le pareti dell’appartamento sembravano sempre troppo piccole per contenere sia lui che le sue attività. Avevo provato ad aggiungere qualcosa a questa vita monotematica – donne, amici – ma il risultato si era sempre rivelato incompatibile e, a dire il vero, non mi ero mai impegnato con serietà.
Adesso, invece, l’appartamento sembrava troppo grande. Era come se non fosse mai stato mio, come se fossi all’improvviso un estraneo nella mia stessa casa.
Cercai con lo sguardo la custodia del violino: era lì, a lato della finestra, inspiegabilmente abbandonata dal proprietario. Iniziai a chiedermi, a malincuore, se senza un dito sarebbe ancora stato in grado di suonarlo. Forse no. Forse, da quel momento, mi sarei dovuto accontentare di una vaga composizione appena udibile suonata da uno sconosciuto.
Lestrade aveva allegato anche la fotografia di quella macabra prova: il dito era stato ritratto nel suo contesto – la carta da pacchi e l’indirizzo scritto con un insolito inchiostro verde che, sicuramente, non proveniva dalla sua penna –  poi di nuovo accostato a un righello. Non vi era dubbio che fosse il suo, eppure così separato dal resto del corpo aveva improvvisamente perso senso, appariva diverso – quasi irriconoscibile – e insulso. Non era il corpo ad avere bisogno del dito, era il dito a necessitare del corpo per conservare il suo scopo. Senza di esso, il dito non era altro che un’appendice priva di utilità.
In quell’attimo provai una profonda empatia.
 
Un sommesso toc toc si confuse con il picchiettio della pioggia.
«È permesso?» La signora Hudson non aspettava mai una risposta, ma si addentrava nell’appartamento con cautela, come se il pavimento fosse cosparso di cocci di vetro. Alle volte non aveva dovuto solo immaginarlo.
Alzai la testa dal tavolo e una delle fotografie si staccò dalla mia guancia, cadendo per terra. La raccolsi in fretta accorgendomi, con profondo dispiacere, di essermi addormentato nel bel mezzo della mia indagine. Purtroppo non possedevo l’abilità di Sherlock Holmes nel rimanere insonne finché un caso non era concluso, anche se, in quel momento, ne coglievo appieno l’utilità.
«Oh, John, hai passato tutta la notte a guardare quelle foto?» chiese la signora Hudson, procedendo attentamente con un paio di tazze fumanti in bilico su un vassoio.
«Era mia intenzione, ma purtroppo no.» Mi affrettai a nascondere la foto del dito prima che la padrona di casa raggiungesse il tavolo: lei non sapeva niente del pacchetto, le avevo detto che Sherlock era ufficialmente scomparso e che stavo aiutando la polizia nella ricerca. Non potevo preoccuparmi di consolarla, quando avevo già i miei nervi da tenere sotto controllo.
La signora Hudson mi porse una delle tazze prima di sedersi; in quel movimento colsi qualcosa di inaspettato: un profumo. In genere non captavo queste cose, a meno che non si trattasse di una situazione particolare – quando uscivo con una donna le facevo sempre i complimenti per il profumo, ma si trattava più di un’osservazione automatica. Stavolta, però, avvertii qualcosa di familiare.
«Ha un nuovo profumo, signora Hudson?»
«Oh, sì» rispose lei con aria fintamente colpevole, mescolando il suo tè, «Connie Prince consigliava sempre questa marca e, dopo molti ripensamenti, ho deciso di concedermelo. Sai, è abbastanza costoso e forse non è adatto a una signora, ma ha questa fragranza particolare…».
«Come si chiama?» mi affrettai a domandare.
«Uh? Ehm… qualcosa come… non so bene il francese, ma ha qualcosa a che fare con le sirene.»
Floris eau de parfum: Sirena. Era lo stesso che avevo sentito a casa di Lucas, lo stesso che Sherlock mi aveva spruzzato addosso. Frugai tra le fotografie e trovai quella del pacchetto bianco accostato alla boccetta. Era un oggetto banale, forse un poliziotto l’aveva fotografato solo perché aveva visto Sherlock esaminarlo. Ora però, che sapevo che ogni particolare poteva essere fondamentale, non potevo non pensare al fatto che lui, forse, aveva voluto farmelo annusare. Cos’avrei dovuto notare? Quello contenuto nella boccetta era indubbiamente profumo e se, durante le analisi, fosse emerso qualcosa di importante su di esso, Lestrade me l’avrebbe riferito, o almeno così speravo.
Mostrai la foto alla signora Hudson, chiedendole se fosse lo stesso profumo che aveva comprato.
«Sì, esatto. È una novità, sai?»
«È recente?» chiesi.
«È in commercio da circa un mese. Ho fatto bene a comprarlo, anche se alla mia età…»
«Le dona molto, signora Hudson!» le dissi mentre mi infilavo la giacca. Il mio complimento voleva essere un ringraziamento al suo contributo.
«Esci già? Non sono neanche le 8…»
«Vado a Scotland Yard.» Il mio slancio si bloccò sulle scale; tornai indietro. «Ahm… le foto… non si scomodi a riordinarle. Anzi, non le tocchi proprio, va bene? Non… non sono importanti.»
«Certo che no, caro, non sono la vostra domestica!» puntualizzò la signora Hudson appena prima che mi richiudessi la porta alle spalle.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


TTS - 4 «Inizio a dubitare che Lucas sia ancora vivo.»
Greg Lestrade aveva subito smorzato il mio entusiasmo, seduto alla sua scrivania, massaggiandosi la fronte con aria afflitta. Gli chiesi se avessero delle novità.
«Abbiamo avuto notizie da altri due Paesi, mentre sappiamo quali parti del corpo sono state inviate a ciascun governo.»
Sul tavolo c’erano una lista scritta a mano:
 
Inghilterra orecchio dx;
Spagna pollice dx;
Svezia mignolo sx;
Danimarca orecchio sx;
Principato di Monaco mignolo piede dx;
Belgio mignolo piede sx
 
«Sono tanti, John, e non sappiamo a quanti altri Paesi avrebbero potuto spedire altri pacchetti. È chiaro che, inizialmente, il loro scopo fosse quello di tenerlo in vita, ma non sappiamo fino a quando. Non c’è stata nessuna rivendicazione ufficiale, nessuna richiesta, per lo meno qui, quindi potrebbero anche aver deciso di toglierselo di torno.»
Alzai gli occhi dalla lista, sostenendo caparbiamente il suo sguardo. «Intendi suggerirmi qualcosa, con questo?» Lui sospirò e guardò altrove. «Lui non è morto! Non avrebbe senso, ed era sicuramente vivo anche quando gli hanno tagliato il dito.»
Era ovvio persino a me: la grafia sulla busta apparteneva a Sherlock, ma aveva delle imperfezioni e delle sbavature dovute a una forte emozione, che in quel caso era sicuramente il dolore. Una persona qualunque sarebbe stata agitata o terrorizzata, costretta a scrivere con la forza, al pensiero di quello che dei rapitori avrebbero potuto farle, la sua scrittura sarebbe stata incerta anche se fosse stata illesa; ma Sherlock aveva sicuramente saputo in anticipo quello che stava per succedere, sapeva che agitarsi non sarebbe stato di alcuna utilità: al contrario, bisognava restare lucidi. L’unico motivo per cui la sua mano avrebbe potuto tremare era a causa del dolore dovuto alla mutilazione.
Deduzione brillante, no? Sarebbe stato fiero di me?
«Non sto dubitando, John, né cercando scuse per battere la fiacca. Dico solo che essere ciechi di fronte alla realtà non aiuterà le indagini.»
«È proprio per questo che sono qui» replicai irritato. «Avete notato niente nel profumo?»
«Il profumo, dici?» ripeté pensieroso, sfogliando le carte sulla scrivania. Scosse la testa e rivolse a me la sua curiosità.
«C’è qualcosa di strano, non trovi? È un profumo da donna, ma era l’unico oggetto femminile in casa.» Era la stessa deduzione che Sherlock aveva fatto a casa di Edward Van Coon, il trader di Hong Kong, a proposito del sapone.
«Eduardo Lucas non era impegnato in alcuna relazione, almeno per quanto ne sanno i signori Trelawney Hope. Li abbiamo pressati molto su questo argomento, cercavamo altre persone coinvolte.»
«E allora mentivano, oppure si sbagliavano.» Non era la prima volta che la mia esperienza con le donne si rivelava utile, ma era la prima volta che non ero costretto a sedurre qualcuno solo per gli scopi di Sherlock. «Quando si è fidanzati, o si frequenta qualcuno, è naturale che alcuni dei suoi oggetti entrino nella propria casa, per lo meno uno spazzolino da denti, un pigiama, una maglietta di riserva. Invece in quella casa non ho notato nemmeno un tocco femminile. Una donna non avrebbe trascurato in quel modo un appartamento.»
Lestrade alzò le spalle. «Perciò abbiamo la conferma che non si vedeva con nessuno. Forse era per un primo appuntamento?»
«Un profumo è personale, non lo si porta in dono a una donna sconosciuta. E poi è un regalo troppo costoso per un primo appuntamento.» Mi dondolai un attimo sui talloni, indeciso se dar voce o no alle mie conclusioni, perché mi rendevo conto che potevano risultare azzardate. Ma mi sentivo ispirato, quindi presi coraggio: «Dev’essere una relazione segreta».
Lestrade prese a picchiettare il dito sulla scrivania, pensoso. «Mh, non vedo prove sufficienti a sostegno della tua teoria.»
«Ma sono abbastanza per poterla prendere in considerazione, no?»
Lestrade rifletté ancora qualche istante e, infine, acconsentì. «Faremo altre ricerche in questa direzione.»
 
Avevo ritrovato nel suo cassetto tutte le medicine che gli avevo dato, raccomandandogli di prenderle. Quell’influenza non si superava senza un po’ di antinfiammatori, perciò ero giunto alla conclusione che avrebbero davvero potuto portarlo via di peso. Il suo telefono, però, mancava. Forse ce lo aveva addosso. Sapevo che non era in casa perché avevo provato a chiamarlo nei momenti di maggior sconforto. Mi ero sorpreso del fatto che fosse ancora accesso; probabilmente lo aveva appena caricato. Durante la sua normale attività non resisteva per più di 48 ore, ma ora probabilmente giaceva inutilizzato da qualche parte.
Ero stato più volte sul punto di spedirgli un messaggio – dopo il primo e inutile dove sei? – ma non ero riuscito a decidermi sul testo. Avrei voluto rassicurarlo sugli sviluppi, dirgli che lo stavamo cercando, ma non volevo rischiare di facilitare i rapitori.
Avevo iniziato a sedermi al suo posto, nella sua poltrona: vederla vuota mi riempiva di malinconia e, inoltre, speravo che qualche traccia della sua intelligenza fosse assorbibile attraverso quella fodera in pelle sintetica; speravo che il mio cervello potesse lavorare più in fretta.
Se fossi stato al suo posto, mi avrebbe trovato in poche ore, e questo soltanto perché la polizia avrebbe dovuto ultimare tutta la burocrazia e mettere in atto tutte le procedure prima di agire. Se fossi stato al suo posto, a quest’ora mi sarei già trovato a Baker Street a sorseggiare caffè caldo, con tutte le dita al loro posto.
Invece questa volta, purtroppo, ero io dal lato dell’investigatore e non riuscivo ancora a trovare un senso in quella vicenda. Non riuscivo a capire perché degli anarchici avrebbero dovuto agire in quel modo così imprevedibile e, apparentemente, disorganizzato; non riuscivo a capire perché degli anarchici avrebbero dovuto rapire prima l’assistente di un Segretario, senza richiedere nessun riscatto e senza iniziare alcuna trattativa, e poi lui. In realtà ero sempre più convinto che la faccenda degli anarchici fosse una falsa pista, ma in quel modo avrei perso l’unica certezza sulla quale l’intera indagine si basava.
La verità era che ero spaventato a morte perché stare seduto su quella poltrona non faceva di me Sherlock Holmes.
 
63 ore e nessuna traccia di lui.
Le mani avevano iniziato a tremarmi per la frustrazione, in testa avevo solo dubbi: pacchetti, indirizzi, timbri postali, immagini di cartine geografiche che mi roteavano senza sosta nella mente. La fragranza del profumo inglese aveva preso possesso del mio olfatto, davanti ai miei occhi chiusi c’era Sherlock che attendeva la mia soluzione.
 
70 ore e nessuna traccia di lui.
Ricevetti però una chiamata da Lestrade: appena risposi avvertii la sua agitazione, sentivo distintamente il suo respiro attraverso il ricevitore, accompagnato da vari rumori urbani.
«Riesci a indovinare? Eduardo Lucas aveva – o ha – una doppia vita! In Francia. John, questa cosa diventa più scottante ogni minuto che passa
Colsi il suo entusiasmo e una rinnovata speranza; anche se non aveva accennato a Sherlock eravamo più vicini alla soluzione.
«Dove sei?» domandai, nella speranza di poterlo raggiungere subito e sfuggire alla solitudine di quella casa.
«Taverny, vicino a Parigi
«Sei in Francia?!» Quella notizia mi risvegliò del tutto dalla mia apatia forzata.
«Sono a casa di Lucas, o meglio, del signor Henri Fournagé, come gli piace farsi chiamare qui
La linea sfrigolò per qualche istante, mi aggrappai al telefono come se servisse a qualcosa. «E la donna? È la moglie o l’amante?»
«Nessuna delle due: non esiste, John.» La mia delusione fu di breve durata. «Non esiste in carne ed ossa, era una copertura. Grazie a te abbiamo indagato a fondo sulla vita privata di Lucas e abbiamo scoperto che effettuava spedizioni, sotto falso nome, a questo indirizzo, a una certa Inès Fournagé. Si trattava di una copertura molto ben organizzata, le aveva creato un certificato di nascita, una laurea in letteratura medievale, un foglio di ricovero in una clinica psichiatrica, tutto! Quando siamo arrivati abbiamo trovato una donna, era la vicina: ha detto di essere stata pagata per recarsi ogni tanto in quella casa e restarci per qualche giorno, quando le veniva detto, e ricevere alcuni omaggi che le arrivavano dall’Inghilterra.» Lestrade riprese rumorosamente fiato. «Capisci, John? Le mandava persino dei regali per salvare le apparenze, ma questa donna esiste solo all’anagrafe, non nella realtà
«E quindi?» Ero affamato di sviluppi, aborrivo l’immobilità, sentivo che ora potevo fare finalmente qualcosa.
«E quindi ancora niente, sono appena arrivato, ma le cose si stanno muovendo. È chiaro che Lucas fosse immischiato in qualcosa di illegale, probabilmente ha fatto un passo falso ed è stato punito. Abbiamo recuperato qualche altra foto interessante dei pacchetti, controlla la tua e-mail.»
«Bisogna trovare i complici!»
«Fai del tuo meglio, Jo-» La linea cadde.
Eduardo Lucas aveva una seconda vita in Francia. Avevo imparato a non sorprendermi più di nulla, ora dovevo essere in grado di cogliere le implicazioni di quella scoperta. La pista degli anarchici sembrava pian piano svanire come orme su un terreno troppo duro; avevo sempre più la sensazione che fosse un pista falsa, ma in ogni modo era qualcosa di cui poteva occuparsi la polizia.  Io dovevo capire chi altri era coinvolto in quella rete criminale che rivelava sempre più le sue effettive dimensioni, ma dei cui rami ancora non conoscevo la direzione.
Mi accostai alla finestra e osservai il cielo nero offuscato dai lampioni, ascoltai uno dei rari momenti di assoluto silenzio che si possono gustare in una città solo di notte.
La chiamata di Lestrade mi aveva come fatto credere di avere più tempo, perché avevamo riguadagnato terreno: non avanzavamo più a tentoni nell’oscurità. Ora avevo tempo di ritrovare la lucidità per pensare. Dovevo iniziare dalle nuove fotografie.
La porta di casa si chiuse rumorosamente, sentii la signora Hudson rientrare ed improvvisamente esclamare: «Oh! Accidenti, un attimo ancora e potevo rompermi l’anca, John!»
Mi affacciai dalle scale mentre lei saliva. «Si è fatta male?»
«Ho rinunciato a convincervi a tenere in ordine il vostro appartamento, ma se lasciate le cose per terra, di sotto, rischio di ammazzarmi!» Mi mise tra le mani una busta. «È per te, comunque.»
Fu la prima cosa che vidi: il nome in verde, la scrittura alterata di Sherlock.
«Caro, sei mortalmente pallido…»
«Vada di sotto.»
«Non capisco…»
«Vada di sotto, per favore!»
La padrona di casa ubbidì indietreggiando. Il centro della busta era soffice e rigonfio, ma non osavo tastarlo oltre.  Mi accorsi appena di essere tornato al tavolo, non riuscivo a staccare gli occhi da quelle parole impresse sulla carta, lettere incerte, sbavature nell’inchiostro da sinistra a destra. Per scrivere aveva usato la sinistra e ciò, in qualche modo, mi terrorizzava.
Vidi il francobollo e il timbro postale di Londra: il pacchetto era stato spedito solo a pochi isolati di distanza. Cosa significava? Possibile che Sherlock si trovasse così vicino?
L’apertura era sigillata da una striscia di nastro adesivo. Recisi i due lembi di carta con una cautela che non era dettata dalla volontà di preservare le eventuali prove, ma dal mio orrore al pensiero di ciò che avrei potuto trovarvi all’interno. Ma, d’altronde, non potevo essere certo che si trattasse di Sherlock. Non avrebbe avuto senso: perché spedirmi per ben due volte un pezzo del suo corpo? Poteva essere qualunque cosa, poteva essere un messaggio, poteva non essere un dito!
Il lato si aprì e inclinai la busta, appena fui riuscito a fermare il tremore alla mano. La stessa mano riuscì a soffocare in tempo il gemito che mi esplose in petto.
Tutto sommato avevo avuto ragione: non si trattava di un dito, ma di tre. Sulle falangi l’inchiostro verde mi comunicava l’ultimatum: 1 5 H
 
I minuti continuavano a scivolare via come acqua tra le mani, ma la mia mente restava incatenata agli unici frammenti che mi rimanevano di una persona, forse gli unici che sarei mai riuscito a recuperare.
Il mio comportamento era assurdo e debole, le sfide erano ciò che mi entusiasmava di più, le sfide e le battaglie, ma mi rendevo conto che avevo riavuto la possibilità di combattere solo dal momento in cui avevo conosciuto Sherlock; prima mi trovavo nella logorante neutralità della terra di nessuno, nell’immobilità forzata e nell’insopportabile insofferenza quotidiana.
Poi, come pioggia, erano piombati su di me nuovi sorprendenti stimoli: i casi, le avventure, i pericoli e le azioni avventate avevano recuperato ciò che ero e mi avevano restituito l’unico modo che avevo per esprime la mia personalità. Anche ora avevo un caso, indizi da codificare, una rete oscura di nemici, il tempo che scorreva ticchettando sempre più veloce, tensione, pericolo, sfida. Avevo ancora tutti gli elementi, tranne uno.
Mi sentivo comunque perso e inutilizzabile, privo di forze e nel luogo sbagliato, e mi resi conto che il campo di battaglia, per quanto scenario di infinite possibilità di avventure, era comunque vuoto e insignificante senza il compagno con cui combattevo.
L’odore di formalina aveva iniziato a diffondersi nella stanza, riuscivo ad avvertirlo distintamente anche attraverso le mani che tenevo premute sul viso: dovevano averne usata una quantità maggiore, questa volta. Ovvio, avrebbe detto lui. Le dita erano tre e sicuramente la loro tecnica di imbalsamazione si era evoluta nel tempo, nonostante avessero dimostrato di essere un’organizzazione di incapaci. Per lui erano tutti, incapaci, ingenui, ignoranti, prevedibili, noiosi, banali. Avrebbe trovato elementare persino questo caso, avrebbe capito chi erano i rapitori soltanto osservando la carta da pacchi, o i francobolli.
Il bagliore freddo del computer si infiltrava tra le mie dita. Tornai a guardare la parete di fronte, dove campeggiava chiaramente il graffito in vernice gialla che aveva dipinto in uno degli innumerevoli momenti di noia; così visibile ed evidente.
Incapaci, scontati, privi di fantasia. Non tutti i criminali erano così, quelli di cui lui accettava di occuparsi non lo erano, almeno alla prima impressione. Eppure non aveva voluto accettare di avere nulla a che fare con quell’ultimo, apparentemente strabiliante caso dell’orecchio mozzato e dell’ispanico scomparso. Era davvero così banale al punto da essere nauseante, per lui? Così tanto da non volerne sentire parlare, da preferire chiudersi in camera?
Se era davvero così semplice, significava che qualcosa di ovvio mi sfuggiva, qualcosa che avrebbe portato alla soluzione completa, qualcosa che Sherlock aveva dovuto notare e saper decifrare solo in quel poco tempo che aveva voluto dedicare al caso.
Il profumo: ero riuscito a capire persino io che aveva qualcosa di sospetto, e infatti ci aveva portato a scoprire la seconda identità di Lucas.
Gli indirizzi sui pacchetti – ora li avevo quasi tutti: sembravano scritti da mani diverse, per cui c’era più di un complice. Questo era ovvio.
I francobolli: ogni pacchetto che  ci era pervenuto portava il francobollo del Paese di destinazione. Era ovvio anche quello, più strada avrebbero dovuto percorrere, più controlli avrebbero subito, e a quel punto sarebbe stato più facile individuare pezzi di un corpo umano all’interno della corrispondenza.
Francobolli diversi, dunque. Spediti dal Paese di destinazione. Sembrava uno stratagemma necessario, ma estremamente scomodo, perché significava doversi trovare proprio in quel Paese.
Le foto riconquistarono il mio interesse, mi sembrava di intravedere un sottile filo di collegamento tra ognuna di loro. Presi carta e penna e iniziai ad annotare tutti i Paesi che avevano ricevuto la macabra corrispondenza, confermando che ognuno di loro aveva visto il pacco spedito dall’interno del proprio territorio.
 
Inghilterra
Spagna
Svezia
Danimarca
Principato di Monaco
Belgio
 
Ebbi di nuovo l’impressione che mi sovvenne la prima volta: erano tutti Paesi con una forma di governo monarchica. Ne mancavano, però, alcuni. Li scrissi di lato:
 
Lussemburgo Norvegia Olanda
 
Sembrava comunque che mancasse qualcosa. Inghilterra. Perché Inghilterra? Perché non Regno Unito? In quel caso, anche la Scozia, l’Irlanda del Nord e il Galles avrebbero dovuto ricevere una parte mutilata. Forse non c’erano abbastanza pezzi disponibili, senza che l’ostaggio venisse ucciso? Mi sembrava più una scelta dettata dall’ignoranza.
E poi… il Vaticano. Anche il Vaticano era una monarchia, una monarchia assoluta, ma nessuno ci faceva mai caso. Che avesse ricevuto il pacco senza averlo reso noto? Era probabile, vista la sua riservatezza, ma poteva anche essere accaduto, di nuovo, per motivi di ignoranza.
Quale anarchico avrebbe ignorato il fatto che il Vaticano era una monarchia assoluta? Qualche anarchico, intento a colpire un governo, avrebbe confuso l’Inghilterra con il Regno Unito?
Gli anarchici non c’entravano, era un depistaggio; Scotland Yard aveva sprecato tempo ed energie, fino a quel giorno, tentando di scovare e interrogare tutti i gruppi antipolitici della zona. La soluzione ora sembrava essere così semplice.
Riuscii a intravedere finalmente una traccia.
Composi in fretta un messaggio indirizzato a qualcuno a cui mai mi sarei rivolto, a meno che non fosse l’unico in grado di fornirmi certe informazioni in tempi brevi.
 
Mi occorrono le liste
complete dei passeggeri
di alcuni voli. Sono
sicuro che per te non
sarà un problema
-John
 
Effettivamente no. Questa
volta avrò la cortesia
di non domandarti
il motivo, poiché
mi sembra ovvio.
Arriveranno per e-mail.
-MH
 
Bene. Grazie.
-
 
Il cellulare di Sherlock è
inattivo e dunque
irrintracciabile.
hai notizie?
-MH
 
Una parte…
-
 
Passarono alcuni minuti prima del messaggio successivo; capii che stava verificando.
 
Ho saputo. Fai del
tuo meglio, John.
-MH
 
Gli spedii gli elenchi dei voli su cui avevo intenzione di indagare; poco dopo il computer notificò l’arrivo dell’e-mail. Mi misi al lavoro, oscurai tutto il resto, perché non potevo permettermi di sbagliare. Non avevo mai avuto scelta quando si trattava di gettarmi nel pericolo, nemmeno le volte in cui Sherlock me ne aveva fornita una. Non era mai stato difficile distinguere il giusto dallo sbagliato, perché non c’era. Non esisteva una scelta tra il seguirlo o no, tra l’aiutarlo o meno, tra l’uccidere per lui o non farlo. Ironicamente, con lui diventava tutto più semplice.
L’obiettivo era lui e non erano mai esistite strade secondarie.
 
«Li ho trovati» dissi chiaramente; dall’altro del ricevitore la voce di Lestrade giunse assonnata. Erano le 3 del mattino.
«Hai trovato i responsabili Come? No, non importa ora. Chi?»
«Visto che spedivano i pacchi direttamente dal paese ricevente significava che dovevano recarvisi, ma rintracciarli non era stato semplice poiché non sapevamo quali Paesi li avevano effettivamente ricevuti. Una volta intuiti non è stato difficile rintracciarli.» Era strano sentire la propria voce parlare di ovvietà, capire finalmente lo stato d’animo di un brillante investigatore costretto a spiegare alle menti più deboli come avesse risolto un caso. «Ho ricostruito i loro spostamenti, e ho trovato dei nomi francesi ricorrenti nelle liste passeggeri dei voli diretti proprio in quei Paesi, nello stesso periodo.»
«Immagino che ci sia lo zampino di Mycroft…» dedusse Lestrade con una punta di delusione. Doveva pensare che io avessi un canale privilegiato per entrare in possesso di informazioni particolari in così breve tempo. Sospirò. «Bene, dammi tutti i nomi. Li comunicherò a Londra immediatamente. Sarò di nuovo lì tra qualche ora.»

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


TSS - 5 Guardai l’orologio: ancora 2 ore prima della scadenza dell’ultimatum. 1 5 H… 15 ore sarebbero state un’eternità per Sherlock.
Una volta tanto mi trovavo in anticipo a un appuntamento, davanti a un’abitazione anonima nella periferia di Londra, con l’intonaco cadente in qualche punto, le tende tirate e nessun segno di vita. Eppure le informazioni erano precise: i rapitori, i terroristi, gli assassini o qualunque cosa fossero, si trovavano lì, assieme ai loro ostaggi, ai loro fornitori personali di minacce sotto forma di carne.
Mentre attendevamo in una macchina scura e incognita, con la tensione a sorreggerci le schiene, con i respiri a scandire i secondi, mi ero preparato a ciò che avrei trovato all’interno di quella casa: attrezzi raccapriccianti, sangue, il suo, Sherlock senza dita, forse senza una mano o senza un piede o un orecchio. La verità era che non mi interessava minimamente quali atrocità avessi trovato e quanto orribilmente fosse stato mutilato, fintanto che avesse avuto ancora la testa attaccata al resto del corpo.
Dall’auto sull’altro lato della strada il poliziotto seduto di fianco al sergente Donovan fece un impercettibile cenno; la radio di Lestrade goglottò e in un attimo dieci uomini si riversarono fuori dalle macchine sparpagliate e circondarono la casa con le armi in pugno. Io, ovviamente, ero tenuto nelle retrovie, ma non mi perdevo il più piccolo movimento, stringendo la mia pistola con due mani.
Gli agenti non bussarono e non intimarono la resa: uno di loro aprì la porta con un calcio, altri due lo seguirono per verificare la sicurezza della stanza e poi, improvvisamente, ci ritrovammo dentro a correre dappertutto, rasentando i muri come topi.
Si capiva subito che quello era il posto giusto: la casa era sporca e trascurata, permeata dalla polvere a da un disgustoso odore di marcio: sangue e decomposizione.
Le porte sbattevano per tutta la casa, da ogni stanza provenivano le voci dei poliziotti che dichiaravano quella zona libera e sicura. Corsi in cantina assieme a Lestrade e Donovan e ci ritrovammo in quello che sembrava il laboratorio di un macellaio o di un chirurgo improvvisato: i muri dell’ambiente, umido e freddo, erano ricoperti di gommapiuma, per attutire i rumori – immaginavo, soprattutto le urla; vi era un bancone degli attrezzi che mostrava una collezione di oggetti taglienti, seghe, coltelli e pinze, alcuni ancora macchiati di sangue come gli stracci abbandonati sul pavimento sporco. Qua e là siringhe usate e boccette rotte di penicillina, ovunque l’odore penetrante della formaldeide. Sul lato più lontano dalla strada era appoggiato un tavolo operatorio, coperto da un ammasso di lenzuola insanguinate. Impiegammo pochi istanti a capire che quegli stracci seguivano il profilo di un corpo umano. Da un’estremità si intravedevano uscire dei capelli scuri, dall’altro un piede talmente menomato e incrostato di sangue da essere quasi irriconoscibile. Colui che apparve sul tavolo, dopo aver scostato le lenzuola, era invece riconoscibilissimo: quel volto corrispondeva alla foto che avevo visto di Eduardo Lucas.
Se erano stati fatti dei tentativi per limitare le infezioni, avevano dato risultati molto deludenti: il fetore della cancrena ci investì, risalendo da quel corpo che non ero nemmeno sicuro fosse ancora vivo. Ma non era ciò che stavo cercando. Sentii Donovan richiedere un’ambulanza dalla sua radio e forse Lestrade chiedermi di aiutarlo a fare qualcosa. Alzavo e ribaltavo tutto ciò che potevo, aprivo ogni porta e ogni armadio, senza pensare minimamente alle prove che avrei potuto distruggere. Tutti i miei danni furono vani perché in quella casa e in quella cantina non c’era nessun altro.
«John!» gridò Lestrade per l’ennesima volta. «Dobbiamo tenerlo vivo finché non arrivano i paramedici, sbrigati e vieni a fare qualcosa!»
Sapevo perfettamente cosa. Scostai Lestrade e mi chinai sopra al volto di Lucas, incurante di tutto il sangue infetto e dei suoi occhi vitrei.
«Dov’è? Dove si trova?!» gridai per essere sicuro che mi sentisse bene. Lo presi per una spalla ridotta pelle e ossa. «Dov’è Sherlock? Perché non è qui?!»
«Non ti dirà niente se non rimane vivo, John!» esclamò Lestrade cercando di spingermi via.
Lucas non mi avrebbe più risposto in ogni caso.
Gridai per la frustrazione.
 
Brixton. Era lì che si trovava la sede dei rapitori, l’altra casa era solo la loro prigione e il loro mattatoio personale. Lucas l’aveva sussurrato a Lestrade prima di morire di setticemia in quel luogo da incubo. Ciò che non aveva fatto in tempo a rivelare, invece, era dove si trovasse Sherlock.
Quando raggiungemmo Brixton le due ore erano già scadute e io avevo vissuto l’arresto come una successione di fotogrammi al di là di un vetro di disperazione: quella casa era perfettamente pulita, non una traccia di sangue, né di Sherlock.
L’interrogatorio pressante a cui erano stati sottoposti i tre uomini – due francesi e un inglese – aveva permesso alla polizia di scoprire qualcosa in più su quell’organizzazione che, se riferita ai loro numerosi precedenti casi, non era nuova a Scotland Yard. Ma non vi fu il benché minimo riferimento a James Moriarty o a Sherlock Holmes; giuravano di non aver mai sentito parlare né dell’uno né dell’altro. Sembravano entrambi fantasmi di miti mai esistiti.
Mi sentivo letteralmente immerso nel fallimento: una pesante e appiccicosa cortina scura mi impediva di muovere qualsiasi passo verso una zona più luminosa. Non avevo più altro scopo nella vita che stare seduto in quella sala d’attesa del Bart’s, vicino all’obitorio, dove il cadavere di Lucas aveva rivelato ciò che già sapevamo, ovvero praticamente niente.
Avevo sempre tenuto in considerazione il fatto che sia io che Sherlock avremmo potuto perdere la vita in uno di quegli sconsiderati inseguimenti in cui ci gettavamo senza riflettere, oppure durante un’emozionante sparatoria contro il criminale appena scovato o colpiti da un cecchino che decideva di vendicarsi. Probabilmente avrei accettato più di buon grado la sua morte se fosse avvenuta così, improvvisamente, nel mezzo dell’azione in cui vivevamo e di cui ci nutrivamo entrambi; ma convivere col fatto che fosse morto a causa della mia inadeguatezza non era possibile.
Un passo leggero avvolto da calzature ospedaliere si fermò di fronte a me. Non alzai lo sguardo ma intravidi dei piedi familiari e delle calze colorate e infantili.
«John…» Molly si asciugò discretamente il naso, «sappiamo che hai fatto tutto quello che hai potuto e che non è colpa tua. Lo sa anche lui. La polizia continuerà a cercare!»
Se era morto, lui sapeva solo che non sono stato capace di salvarlo, ma non era il caso di esprimere quell’amaro pensiero ad alta voce. Molly cercava di consolarmi ed io ero stanco. Annuii per farle capire che apprezzavo il gesto, lei cercò di recuperare un po’ di allegria offrendomi un tè e si allontanò per andare a procurarselo.
C’era un inusuale silenzio in quel luogo remoto dell’ospedale; avvicinandosi ai morti la gente si sentiva in dovere di abbassare il tono della voce, come se si potessero svegliare. Se ciò fosse stato davvero possibile, avrei gridato con tutto il fiato. Ma la mia vita non era fatta di grida e chiasso: era fatta di intuizioni, di sussurri e di occhiate complici, di codici decifrati, di respiri trattenuti prima di uno sparo e di quelli soffocati nel buio di un nascondiglio; di quelli liberati in un’improvvisa ammirazione e di quelli esasperati in un attimo di rivalità. D’ora in avanti la mia vita sarebbe stata ancora più silenziosa.
Approfittai della solitudine per prendere in mano il telefono e fare qualcosa di cui altrimenti mi sarei vergognato. Premetti lentamente sui tasti, indugiai sulla tastiera accarezzandola col pollice in un momento di esitazione, poi inviai il messaggio. Appena in tempo, perché una mano robusta si appoggiò sulla mia spalla facendomi sussultare.
«John» salutò Culverton Smith, aggirando la fila di sedie e sedendosi di fianco a me. Avvertii indistintamente qualcosa di sgradevole che mi fece allontanare di qualche centimetro. Il dottore estrasse le mani dalle tasche del camice e le intrecciò in grembo, senza dire altro.
Non apprezzavo quella presenza invadente, in quel momento, per cui trovai qualcosa di cui parlare e con la quale fare terminare quell’incontro casuale. «Non c’era niente di interessante sul corpo di Lucas?»
Smith sospirò pesantemente, guardando il vuoto. «Nessun indizio, se è quello che vuole sapere: palese presenza di batteri da infezione, parecchie tracce dei materiali in cantina e formaldeide qua e là. Dev’esserci entrato in contatto attraverso gli oggetti nella stanza.»
In quel momento ricollegai quella sensazione sgradevole che avevo provato all’odore sulle mani del dottore. «Formalina» riconobbi, «hanno fatto passi avanti con le ultime imbalsamazioni…»
No. C’era qualcosa che non tornava: nella cantina avevo trovato solamente barattoli di formaldeide, non c’era nessuna traccia di formalina, la sua versione più evoluta, né nelle confezioni né nelle siringhe che avevo trovato. Però i resti di Sherlock erano stati trattati con la formalina.
Era indubbiamente formalina, come lo era quella che sentivo provenire dal dottor Smith, un ricercatore che trascorreva la maggior parte del suo tempo in laboratorio, che possedeva una grande varietà di conoscenze tecniche ma che non aveva bisogno di metterle in pratica.
Alzai gli occhi e notai che mi stava guardando.
«Formaldeide, volevo dire» mi corressi, sentendo la bocca inaridirsi all’improvviso.
«Già» concordò lui, senza staccarmi gli occhi di dosso.
Un brivido lungo la spina dorsale mi portò un’ispirazione. «È meglio che me l’appunti. Avrebbe una penna?»
«Oh! Uh… certo.» Si tastò le tasche sul petto senza risultato, ripiegando su quelle dei pantaloni ed estraendone, infine, una penna corta. Avevo un vecchio scontrino in tasca, ma non aveva molta importanza dove stessi per scrivere. Quando il pennino raffinato scorse sulla carta lasciò dietro di sé una spessa scia di particolare inchiostro verde.
Trassi un lungo, profondo respiro: non era il caso di lasciarsi andare a qualcosa di avventato, prima bisognava riflettere, prendere in considerazione le variabili, escludere le possibilità. Questo era ciò che avrebbe sicuramente fatto Sherlock Holmes. Non io.
«Lui dov’è?» Mi rivolsi al dottor Smith cercando di incatenare il suo sguardo al mio. Volevo apparire determinato, e lo ero; volevo incutergli timore, volevo che sapesse che il rispetto della legge, in quel momento, era l’ultima delle mie priorità e che ero pronto ad afferrargli il collo e stringerlo finché non avesse parlato.
«Lui?» domandò Smith simulando sconcerto.
«Mi porti subito da lui» intimai avvicinandomi minacciosamente, facendogli capire che quella era la sua ultima possibilità di ubbidire senza nessun osso rotto. Non afferrò il messaggio.
«Questo atteggiamento minaccioso è del tutto ingiusti-» Gli afferrai il colletto della camicia, osservai il colore del suo viso virare al rosso, avvicinai pericolosamente la punta della penna al suo occhio sinistro.
«Lei mi porterà immediatamente nel luogo dove si trova Sherlock Holmes, o io l’accecherò, le caverò gli occhi e la torturerò finché qualcuno non mi sparerà in testa, ma consideri il fatto che a quell’ora lei sarà probabilmente già morto!»
Udii un rumore poco distante: un bicchiere di plastica era caduto a terra spandendo il proprio contenuto fumante; Molly Hooper era spuntata dal corridoio assistendo alla scena con gli occhi spalancati.
«J-John?»
«Lui sa dov’è Sherlock, Molly!»
«No, io-» Strattonai il colletto.
«Lo sa.»
Molly si guardò alle spalle con inaspettata determinazione. «Ti copro io, John.» Svanì nuovamente correndo dietro l’angolo.
«L’arresteranno per questo» disse Smith, in un tentativo di minaccia.
«Mi porti da lui e vedrà che ci arresteranno insieme, a me non importa, ma forse lei potrà risparmiarsi un paio d’anni di prigione.»
Smith spostò lo sguardo da una parte all’altra. «Mi lasci e lo farò.»
Allentai solo un poco la presa, per permettergli di muoversi, poi lo feci alzare. L’avrei tenuto così anche per chilometri e chilometri, anche se Sherlock si fosse trovato in Francia o in Cina. Mi sarebbe dovuto interessare cosa ne avesse fatto e perché proprio lui, quale storia vi fosse sotto, quale ipotetica vendetta o rancore l’avesse spinto a fare una cosa del genere; ma non m’importava.
Il dottor Smith, accompagnato dalla mia solida stretta, svoltò l’angolo a sinistra. Non ci stavamo dirigendo all’uscita dell’ospedale; significava che Sherlock era lì? Era davvero così vicino? Vidi, appesi ai muri, la segnaletica che conduceva alle scale. Imprigionato nei sotterranei, magari? Chi visita mai i sotterranei di un ospedale? Avremmo potuto setacciare tutta Londra prima di prendere in considerazione quel posto.
Superammo le scale. Tenevo ancora il dottore per il colletto, costringendolo a tendere la schiena, e allo stesso tempo gli stringevo un braccio. Non provai nemmeno a pensare di cosa mi avrebbero potuto accusare, non mi importava.
Iniziai ad irrigidirmi a mia volta, a mano a mano che ci avvicinavamo alla fine del corridoio: in quella direzione c’era solamente la sala dell’obitorio. Dovevamo aver sbagliato strada.
«Non faccia scherzi, Smith» gli sussurrai con uno sfarfallio di panico che avrei voluto restasse celato.
«Nessuno scherzo» replicò seccamente, «è qui.»
Ci fermammo di fronte alla porta pallida, un sommesso vociare più distante aumentò la mia agitazione. Avrei dovuto spingerlo dentro per evitare di essere visti, temevo che Molly non riuscisse a tenerci lontano da possibili spettatori, ma allo stesso tempo…
«Non le interessa più?» fece Smith, brusco. «Allora le dispiace lasciarmi andare? Ho del lavoro di cui occuparmi.»
«Silenzio ed entri» lo incoraggiai con una spinta.
Avevo sperato che, una volta entrati, la stanza si fosse trasformata in qualcos’altro, una sala d’attesa, un bar… avevo sperato di aver sbagliato a leggere la targa all’esterno e di essermi orientato male all’interno dell’edificio, ma gli alti, profondi scaffali che si addossavano alle pareti, divisi in scomparti ed etichettati, i tavoli di metallo e il violento odore misto di disinfettante e morte mi privarono di ogni dubbio e di ogni speranza. Lasciai vagare lo sguardo sui nomi impressi sui cubicoli senza riuscire a soffermarmi su nessuno di loro.
Mi accorsi tardi di aver allentato la presa su Smith, il quale si divincolò con facilità. Pensai che avrebbe colto l’occasione per colpirmi e scappare, invece si limitò a incrociare le braccia con atteggiamento offeso e a guardare verso l’angolo più lontano.
«Pretendo di ricevere un extra per questo trattamento.»
«Anch’io avevo sperato che la conclusione sarebbe stata più cerebrale.»
Dall’angolo remoto e buio era giunta una terza voce intrusa. Mi era rimbombata nelle orecchie come se si fosse trovata nella mia testa, l’unico luogo, tra l’altro, in cui credevo di poterla ancora udire.
Bastarono un paio di passi e Sherlock si svestì delle ombre che l’avevano tenuto nascosto.
«Adesso lasciaci» disse ancora, rivolgendosi a Smith, ma con gli occhi fissi su di me.
«Va bene, ma fate in fretta, stanno per portare un altro paio di cadaveri.» Si interruppe e rise, come se si fosse ricordato di una battuta divertente. «Tre, forse, a giudicare dalla faccia del dottor Watson!»
Udii ancora la sua risata allontanarsi e la porta che si chiudeva alle sue spalle.
Sherlock stava immobile e muto, come aspettandosi che fossi io a parlare, come se fosse il mio turno di agire; ma non potevo fare niente, non sapevo più cosa pensare e mi sentivo immerso in un’atmosfera sinistra. Sherlock era di fronte a me, vivo, in un luogo dove ogni cosa, soprattutto lui, avrebbe dovuto essere morta. Teneva le mani nelle tasche del cappotto e dovetti combattere con forza l’impulso di afferrarle tra le mie per rendermi conto dei danni, accertarmi di quante dita avesse ancora, capire se avesse bisogno di medicazioni. C’era qualcosa, nella sua espressione calma che mi diceva che quello non poteva essere un uomo al quale avevano appena amputato delle dita, né che era stato rapito, tenuto prigioniero e torturato. La risata del dottor Smith continuava a riecheggiare in quella stanza metallica come una tetra eco. Mi rendevo conto di essere di fronte a qualcosa che non avevo capito e che ogni mia mossa avventata non mi avrebbe procurato altro che umiliazione.
Come in risposta al mio desiderio, Sherlock estrasse le mani dalle tasche: erano intatte e perfettamente sane, nessun dito mancante e nessuna ferita, pallide, forti e affusolate come al solito. Improvvisamente i miei ricordi parvero stridere con la realtà, iniziai a domandarmi se quelle che avevo visto scivolare fuori dai pacchetti potessero davvero assomigliare alle dita di Sherlock. Sicuramente non lo erano.
Sentivo un’invadente felicità risalire fin dallo stomaco, ma il dubbio, lo sconcerto e persino la rabbia che si accumulavano via via nel mio petto le impedivano di fuoriuscire.
«Hai risolto il caso grazie agli odori, John. Ho sempre detto che gli odori sono importanti.»
Non risposi. Non potevo, non capivo. Non volevo. La sua indifferenza di fronte al mio disorientamento mi rendeva furioso.
«Sapevo che non l’avresti risolto con i miei stessi metodi, per questo ho cercato di metterti a disposizione molte strade diverse. Due odori diversi, due casi diversi. È stato… istruttivo, no?»
Istruttivo? Forse avrebbe persino voluto dire divertente?
«Anche se, tecnicamente, non avresti risolto il secondo caso: il tempo era già scaduto…»
«Che diavolo significa?!» La mia voce sovrastò la sua, la mia rabbia e la mia frustrazione esplosero in un istante senza che potessi controllarle e avevano ormai via libera.
«Non è il luogo giusto per alzare la voce, John.»
«Ed è il luogo giusto per riapparire dopo avermi fatto credere di essere morto per colpa mia?»
Fece una pausa, non per riflettere, ma per permettere al rimbombo della mia voce di  posarsi al suolo come polvere inutile. «Sì.»
Il mio respiro si fece pesante nel tentativo di frenare un altro sfogo che si tradusse in una risata debole e incerta.
«Ma sbagli a dire che sarei morto per colpa tua, John; sarei morto per via del mio assassino. I casi non vanno presi sul personale. Il messaggio che mi hai mandato…»
«Cancella quel messaggio, dannazione!»
«Perché dovrei? L’hai mandato a me.» Prese il suo telefono dalla tasca dei pantaloni e lesse: «Mi dispiace davvero – John. Toccante, ma del tutto superfluo.»
Un gioco. Per lui era sempre un gioco, persino quando si trattava di me: era un gioco quando si era alleato con Culverton Smith per manomettere i risultati delle analisi, ed era un gioco anche il riapparire all’improvviso senza spiegazioni e scoprire quale sarebbe stata la mia reazione. Stava cercando un modo originale per vantarsi delle sue facoltà? Ora avrebbe avuto tutti gli spunti che voleva per criticare le mie capacità di ragionamento di fronte all’ovvietà e per sfoggiare come lui avesse risolto il caso in soli 3 minuti, mentre io avevo brancolato come un disperato, sovraccaricato da ansia, paura, affetto, determinazione e poi di nuovo terrore, ostacolato da me stesso, dal mio essere umano. Ma continuavo a non capire lo scopo di tutto ciò e mi rassegnai all’ottenere qualche forma di dispiacere da parte sua.
Non potei guardarlo negli occhi, avvertivo lo spiacevole tarlo della delusione in me. «Perché l’hai fatto?» domandai dopo aver pensato: ‘Perché hai fatto questo a me?’
«Per allenarti, John.»
Non capivo perché continuasse a ripetere il mio nome in quel modo; forse per farmi calmare, come una specie di mantra. In qualche modo sembrava funzionare, anche se dentro di me continuavo ad avvertire un’orribile sensazione di delusione e abbandono.
«Era qualcosa che andava fatto, dovevi capire certe cose, prepararti al futuro.»
Continuavo a non capire. Non mi importava più.
«Era un caso estremamente semplice, ma bisognava saper riconoscere gli indizi importanti da quelli piazzati per depistare. Avevo già avuto a che fare con questo gruppo di individui, in passato. Commettono crimini di solito di natura politica – prediligono in assoluto la vendita di informazioni confidenziali di alte cariche, segreti di Stato, e simili – e poi fanno ricadere la colpa su gruppi terroristici o associazioni a delinquere che sono, in genere, troppo ampie per essere setacciate da cima a fondo, facendo perdere le loro tracce mentre la polizia, stupidamente, perde tempo interrogando tutti gli anarchici del paese.»
Una volta tanto, non mi interessava conoscere le geniali intuizioni di Sherlock Holmes; per quanto fossi furioso, per quanto mi sentissi usato e umiliato, non potevo fare a meno di pensare che non era mai stato in pericolo. Il sollievo mi liberò, in piccola parte, dalla mia rabbia.
«Era evidente che questa volta avessero commesso un passo falso per punire uno di loro che si era infiltrato nel governo britannico. I riferimenti agli anarchici erano assolutamente deboli – quel graffito, per esempio, era del tutto fuori posto – ma la polizia non l’ha saputo capire, come al solito. Tu ce l’hai fatta in qualche modo, alla fine. È bastato fare una visita a casa di Lucas per poter ricostruire ogni cosa. Il profumo, unico oggetto femminile, denotava una relazione segreta; il fatto che Lucas svolgesse il lavoro di traduttore, ma che in casa non avesse nulla che facesse riferimento alla Francia – nonostante tutti quei cimeli inutili –  nemmeno un dizionario, mi ha fatto pensare che nascondesse qualcosa, la sua relazione o addirittura una doppia vita. Tutte queste sono rimaste supposizioni finché non ho visto il quaderno: la polizia avrà pensato che fossero scarabocchi, vero? Omini stilizzati che ballavano. Era un codice, e nemmeno troppo difficile. L’ho fotografato e l’ho decifrato in meno di una notte, bastava avere un po’ di pazienza. Si trattava di informazioni private su Trelawney Hope e sui suoi confidenti che Lucas spediva regolarmente a suoi complici, i quali potevano rivenderle. Era chiaro che avesse deciso di smetterla con questi affari pericolosi, visto che era stato rapito. I suoi complici volevano probabilmente estorcergli le ultime informazioni: l’hanno torturato e, per coprire il rapimento, hanno avuto la pittoresca idea di simulare l’attacco di un gruppo anarchico ad alcuni Paesi europei, mandando pezzi qua e là, credendo di risultare credibili spedendoli solo alle monarchie, ma commettendo errori grossolani che, alla fine, anche tu hai saputo cogliere. Hanno capito tardi che tutte le informazioni scritte in un codice facilmente decifrabile si trovavano ancora nell’appartamento, che però era sotto sorveglianza e che non avevano tempo di perlustrare, così hanno pagato profumatamente una ditta di traslochi che si intrufolasse e portasse via qualunque cosa, liberandosi così di tutte le prove che potessero condurre a loro. A questo punto bastava scoprire i nomi, il metodo che hai usato tu era-»
«Cosa c’entravi tu, in tutto questo?» Non mi interessavano i magri complimenti alle mie rare intuizioni, non mi importava sapere come tutti gli indizi si fossero trovati a mia disposizione, né quanto tempo avessi sprecato cercandoli inutilmente. Le sue spiegazioni erano solo un brusio di sottofondo alla mia domanda ridondante.
«Il caso era risolto e c’era un sacco di materiale con cui impegnare la tua mente poco allenata.»
«Capisco. Il caso era così noioso, per te, che hai deciso divertirti usandomi come cavia e osservandomi cercare di uscire dal labirinto?»
«Non è stato divertente» rispose lui, con un’ingenuità talmente sincera da farmi irritare ancora di più, «mi sono annoiato ad aspettarti, e non mi piace indossare gli stessi vestiti per tanto tempo. Ho cercato di metterti fretta con quel messaggio, ma 15 ore erano comunque un’eternità.»
«Non eri davvero malato… vero?» Ormai iniziavo a intuire come tutto ciò che era accaduto fosse stato orchestrato per i suoi scopi.
«No. Volevo un po’ di tempo da solo per organizzare le cose con Smith.»
Quindi Moriarty non c’entrava niente. Sherlock aveva preso il suo posto.
«E Mycroft… non sembrava molto preoccupato.»
«L’avevo avvertito precedentemente in modo che non ficcasse il naso.»
Distesi e contrassi la mano sinistra, così combattuto dal desiderio di prenderlo a pugni e di abbracciarlo allo stesso tempo da avere le braccia formicolanti. Abbracciarlo, sì, avrei voluto farlo. Due persone normali l’avrebbero fatto dopo un’avventura simile, ma Sherlock aveva l’innata – o forse allenata – capacità di eliminare in me ogni tipo di razionalità. Alla fine mi rassegnai, era la soluzione migliore. Non ero in grado di sostenere una prova di resistenza con la mente di Sherlock Holmes.
Mi stava ancora scrutando, cercando di indagare all’interno della mia mente, forse chiedendosi perché non rispondessi, perché avessi rinunciato ad arrabbiarmi, perché non fossi rimasto sorpreso dalle sue brillanti deduzioni. Cercava di capire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Forse ero l’unica persona in grado di sorprenderlo, perché il più delle volte, quando ero con lui, sorprendevo addirittura me stesso.
«Era un addestramento» constatai infine, come se volessi giustificarlo. Non avrei dovuto farlo, non meritava il perdono, non così in fretta, ma c’era sempre una parte, dentro mi me, che voleva difenderlo. «Gli addestramenti sono sempre difficili, alle volte crudeli.»
Trassi un profondo respiro. Era tutto finito, avrei potuto far finta che non fosse accaduto niente, ma non era quello lo scopo di un addestramento.
Sherlock si avvicinò a me per la prima volta – forse aveva davvero temuto di essere colpito.
«Sei stato… bravo, John. La prossima volta sarai più veloce.»
Ero sicuro che un giorno mi sarei pentito di quel pugno mancato.
«Se proverai a rifarlo, ti ucciderò, Sherlock.»
 
**
 
«John!»
Il ricordo sfuma in una luce abbagliante e poi in quella del tramonto. Il sole sta calando e il tè, rimasto intatto nella tazza, è ormai freddo.
«John, fissi il vuoto da 5 minuti. Cosa c’è che non va?»
I capelli di Mary ardono di tramonto, ma le ombre nella casa iniziano già ad allungarsi; il tempo ricomincia lentamente a scorrere, la vita riprende pigramente, presto tornerà frenetica, ma io sono giunto a un bivio e l’ho finalmente superato. Un solo attimo si è rivelato un’epifania.
«Cosa c’è che non va?» ripete Mary, scrutandomi dall’altro capo del tavolo, facendo il tentativo di allungare le mani nella mia direzione.
Riemergo dai ricordi, ritrovo i miei pensieri e le mie parole, come dopo una lunga immersione.
«Io credo… credo che Sherlock sia vivo.»

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