Roses and thistles

di marguerite_murcielago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: fotografia di un dipinto ***
Capitolo 2: *** L'arrivo di lady Catherine Fitzjohn ***
Capitolo 3: *** Una lettera francese ***
Capitolo 4: *** Fantasmi di conflitto ***
Capitolo 5: *** Vaiolo ***
Capitolo 6: *** Primo squillo di tromba contro la donna ***
Capitolo 7: *** Il cardo e la rosa ***
Capitolo 8: *** Il ratto di Scozia ***
Capitolo 9: *** Il signore di Pontefract ***
Capitolo 10: *** Magia ***
Capitolo 11: *** I farsetti ***
Capitolo 12: *** Un inganno ha dato inizio a questa faida... ***
Capitolo 13: *** ... con un dipinto si conclude questo racconto ***
Capitolo 14: *** Epilogo: Il passato futuro ***



Capitolo 1
*** Prologo: fotografia di un dipinto ***


Questa storia comincia con…

 

Il dipinto – numero di catalogo 423B – custodito nei recessi della National Gallery di Edimburgo non è mai stato esposto al pubblico. Per divertimento dei suoi proprietari, i maggiori esperti di arte sono stati convocati in gran segreto nella stanza: il loro verdetto è stato unanime.

 

Tutti riconoscono la cittadella grigia e color seppia sullo sfondo come la Londra tudoriana; allo stesso modo conoscono le due dame ritratte: a sinistra, una donna altera e pallida dai capelli rossicci; a destra, una fanciulla più giovane e più alta, capelli scuri ed occhi ambrati.
- Elizabeth I Tudor!
- Élisabeth Ire
- Elžbieta I.
E…
- Mary, the Queen of Scots!
- Mary Stuart…
- Maria Stuarda.
Ma il vero fulcro della composizione è il duello: due uomini che si fronteggiano in uno scontro all’arma bianca: il paladino di Elizabeth indossa una casacca bianca e rossa, i colori della rosa araldica, il paladino di Mary è vestito di bianco e azzurro.
Altre figure, in secondo piano, assistono allo scontro: tra esse, però, le uniche ben definite sono quelle di una dama di compagnia ed una guardia di palazzo.

 

Ma cosa rappresenta quel dipinto?

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Capitolo 2
*** L'arrivo di lady Catherine Fitzjohn ***


Give me strength to face the truth, the doubt within my soul
(The truth beneath the Rose, Within Temptation)

il ventiquattro del mese di Giugno dell’Anno Domini 1561

Vostra Eccellentissima Grazia,
è con il cuore colmo di gratitudine che la vostra umile e sottomessa servitrice si accinge a partire per Londra, ove la Vostra Illustrissima Maestà ha richiesto la mia umile presenza e i miei ancor più umili servigi.
Più di quanto le parole possano esprimere desidero informare Vostra Grazia che ogni notte prego per la Vostra salute, felicità e lungimiranza, per Voi che siete la più grande Regina mai nata sul suolo d’Inghilterra – e con altrettanto ardore saluto il nobile e giusto Marchese di Pembroke, quand’egli leggerà questa missiva.
Che Dio vi abbia sempre in gloria, Vostra Maestà.

La Vostra sottomessa, umilissima

Catherine Fitzjohn

- Che ne pensate, Arthur?
- Io non credo che Vostra Grazia desideri conoscere la mia idea.
- Non vi avrei posto la domanda, se non fossi stata interessata alla risposta.
- Rimango dell’idea che Vostra Grazia desideri vedermi sul fondo del mare da quando ha scoperto il ritratto di sua cugina Mary nei miei appartamenti. Di conseguenza, Vostra Grazia non ascolterebbe una parola di ciò che potrei dire finché un nuovo amore non lenirà il suo orgoglio ferito.
Elizabeth scoccò un’occhiata in tralice al cortigiano, che le dava le spalle per osservare i giardini.
- Io e Leicester potremmo trascorrere un lungo pomeriggio a disquisire su cosa tu possegga di più affilato: la tua spada o la tua lingua? – commentò, abbandonando la forma di cortesia cui era solita.
- Se vostra Grazia smettesse di provocarmi…
- Arthur! – sibilò Elizabeth, zittendolo.
Lui contrasse la bocca, tornando a fissare le aiuole di Hampton Court.
- Allora, che opinione vi siete fatti di Catherine Fitzjohn?
Arthur fece un mezzo sorriso.
- Se nessuno dei cortigiani più vicini a Vostra Grazia le ha rivelato che sono stato investito del titolo di Marchese di Pembroke, sento di poter affermare, in tutta sincerità, che è la prima dama che vi consiglio caldamente di prendere al vostro servizio.
- Non mi interessano i vostri consigli – affermò Elizabeth, scrutando nella tazza di thé.
- Lo so, ma insistevate – rispose Arthur, con sicurezza; abbandonò la sua postazione, ma prima di uscire dalla stanzetta si chinò sulla donna e le sussurrò, con un sorriso mefistofelico dipinto sulle labbra: - Ho il diritto di essere geloso della miniatura di Leicester che portate sul petto?

Wallace si tolse in fretta la camiciola, gettandosela alle spalle come uno straccio qualunque.
Scalciò via anche il kilt, digrignando i denti per la lentezza che stava impiegando; nudo, si tuffò nell’acqua color ferro del loch, emettendo al contempo un ansito a lungo trattenuto. Riemerse.
Nuotava pigramente nell’acqua fredda, studiando con interesse composto la propria epidermide, bianca come il latte; il loch Katrine era un ambiente familiare, in cui nuotava fin da bambino e, se solo avesse potuto, avrebbe passato molto più tempo in quelle acque che in mezzo a quegli odiosi nobili…
Fece un sorriso malevolo: - Dopo scriverò a Caino, per ricordargli la mia esistenza…
Mentre tornava a riva e cercava, imprecando, i vestiti che aveva lanciato in ogni direzione, pensò che non conosceva modo migliore per ritrovare il buon umore che nuotare nel loch e pensare a come infastidire il suo compagno d’oltre confine con i suoi commenti sulla sua sgualdrina.
Mise la camicia senza curarsi di essere ancora bagnato.
Era così personale, il loro rapporto epistolare, che non valeva la pena di farlo diventare uno scandalo.

- Cosa fate?
Arthur sollevò appena lo sguardo dal libro che stava leggendo.
- Studio – rispose con ovvia semplicità, mettendo da parte Moriae Encomium.
Elizabeth lesse il titolo sulla copertina rilegata e un sorriso delizioso affiorò sulle sue labbra.
- Oh, ricordo che leggevate questo trattato fin da quand’ero bambina - osservò, prendendolo in mano. Fece per aprirlo, ma Arthur glielo strappò dalle mani, mascherando il suo turbamento con un sorriso.
- Cosa nascondete? Consegnatemelo! – esclamò la Regina, allungando la mano.
Reticente, le labbra serrate, il Marchese di Pembroke le riconsegnò il libro e chinò la testa con aria di gran contrizione; Elizabeth osservò la sua espressione, a lungo e con aria sospettosa, dopodichè aprì il libro, strappandolo quasi, e scoppiò in una risata volta a nascondere la sua irritazione.
- A sir Arthur Cecil, il mio più grande e amabile sostenitore in questa terra nemica, Anne Boleyn. È per questo che vi ho accordato fiducia? Per vedervi nascondere come un furfante le tracce di Nan Bullen?
Arthur espirò il fiato dal naso, chiudendo gli occhi.
- Adesso basta, vi farò allontanare da corte una volta per tutte! – strepitò Elizabeth, correndo verso la porta. Aveva già la mano sulla maniglia, quando sospirò e tornò a fronteggiare il cortigiano, che raddrizzò la schiena in vista dell’imminente battaglia.
La regina attraversò di nuovo la camera e si tuffò tra le braccia di Arthur, afferrandogli il collo.
- Preferivate mia madre, Arthur? E adesso desiderate poter stringere tra le braccia la bella nipote di mia zia Margaret, non è così? Ammettete quanto vi piacerebbe vederla sul trono d’Inghilterra, così da averla alla vostra mercè!
Arthur le afferrò i lacci del corpetto, ringhiando qualcosa contro l’orecchio bianco di lei.
- Rispondetemi, Arthur! Lo esigo! Lo esigo, vi dico!
Lo colpì sul petto con i palmi delle mani, poi bussarono.
I due si separarono, furibondi.
- Milord, la nuova dama di compagnia è…
- Fatela entrare, Tennyson – lo interruppe Elizabeth, con voce squillante.
La porta si aprì e, nel riquadro luminoso comparve la ragazza. Lei abbassò subito il capo, inginocchiandosi con aria molto graziosa; le guance erano arrossate dalla fatica della cavalcata.
- Sono giunta non appena mi è stato possibile, Vostra Grazia.
- Vi attendevo con impazienza, lady Fitzjohn. Sono certa che la vostra presenza mi sarà di gran conforto, poiché in questi giorni sulla corte aleggia una certa aria di insubordinazione… - osservò la Regina, perfettamente a suo agio, e lasciò il fianco di Arthur per accogliere la ragazza.
Le osservò entrambe, fingendosi annoiato: la pallida Catherine, con i grandi occhi chiari spalancati e le labbra indecise tra un sorriso consapevole ed un’aria seria e computa; e poi Elizabeth.
Indossava un abito leggero, con ricami floreali rosso scuro su rosso chiaro; e balze, balze color avorio dappertutto. La pesante collana di granati e oro aveva lasciato un segno rosa acceso sul collo, tra i capelli rossicci vedeva file di perle. Riconosceva la bellezza di Mary Stewart, solo uno sciocco non l’avrebbe riconosciuta, ma il suo amore andava tutto a Elizabeth.

Catherine Fitzjohn sembrava una ragazza davvero ammodo, posata e sobria come il vestito che indossava. Era azzurro pallido, nella stessa tinta dei suoi occhi, con una stampa di farfalle.
Gli unici ornamenti era un filo di piccole perle ed un paio di orecchini dello stesso genere.
In effetti, la sua semplicità quasi stonava nell’opulenza propria delle dame e dei cortigiani di Elizabeth.
L’opinione di Arthur nei suoi confronti fu subito positiva, ma venne cancellata l’istante successivo dalla candida osservazione della ragazza: - Marchese di Pembroke, ho già fatto qualcosa per non meritarmi i vostri saluti?!


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Capitolo 3
*** Una lettera francese ***


Come into my world,
See through my eyes.

(See who I am, Within Temptation)

 

- Co… cosa avete detto? – balbettò Arthur.
Catherine aggrottò la fronte: - Siete il Marchese di Pembroke, non sbaglio.
- Non potete permettervi questo tono confidenziale – osservò, piccato.
- Oh, lady Catherine, è proprio il Marchese di Pembroke… imparerete a conoscerlo anche come il personaggio più scortese della corte – osservò placidamente Elizabeth, prima di uscire assieme alla dama. Arthur rimase a bocca aperta, la sua colorita invettiva troncata sul nascere; benché non fosse né violento né sanguigno come molti altri, bastava molto poco a infastidirlo.

 

 

Elizabeth sedette su una seggiola di ebano intagliato, imbottita.
- Dimostratemi che le vostre abilità non sono frutto di mere chiacchiere, milady…
- E se lo fossero? Cosa mi accadrebbe?
- In tal caso, mi rallegrerei all’idea che non sentirete la mancanza della vostra testa, dopo avermi dimostrato che ne eravate priva anche quando respiravate – prese una ciliegia dal piatto lì accanto.
- Cosa devo fare per dimostrarvi che non mento?
Elizabeth aggrottò la fronte.
Catherine attendeva la risposta, eppure sentì l’impulso di volgerle le spalle, nonostante sapesse e desiderasse fare qualsiasi cosa fosse in suo potere per compiacere la sovrana e non attirare la sua ira su di sé. Posò di nuovo gli occhi sulla bellezza tizianesca della donna, gli occhi scintillanti, il respiro affannato: - Vostra Grazia, fra breve entrerà da quella porta un vostro attendente; io non posso forzare il mio potere, poiché arriva solo in momenti di grande tensione e secondo un ordine superiore, ma vi giuro, sul mio onore di vergine, che d’ora in poi vi aiuterò e vi sarò accanto.
Elizabeth cercò di replicare, ma un certo fracasso sulla soglia attirò la sua attenzione.
L’uomo che aveva osato irrompere negli appartamenti reali senza farsi annunciare doveva essere molto preoccupato, o molto arrogante, o molto sciocco; le due donne lo guardarono nello stesso istante, lui non si lasciò confondere e si concentrò solo sulla Regina. Dopo aver deglutito, si piegò.
- Vostra Maestà.
- Perché lo avete lasciato entrare senza preavviso? – disse lei, rivolgendosi a Pembroke.
- Ascoltate ciò che ha da dire, Vostra Grazia – rispose il marchese, uno sguardo durissimo negli occhi.
Elizabeth rimase immobile per qualche secondo, bianca in volto, dopodichè fece un cenno stizzito all’uomo e prese le distanze da tutte le altre persone nella camera.
- Cosa dovete dirmi?
- Vostra Grazia… mi trovavo a nord, praticamente sul confine con la Scozia, quando fermai un uomo che diceva di voler semplicemente far visita ad una vecchia zia. Lo lasciai entrare nella casa indicata con un nostro compagno, consapevoli che nella casupola viveva solo un vecchio contadino… frugando nella bisaccia che portava, trovai questa. So leggere abbastanza bene il francese, ma sono state solo alcune parole ad attrarre la mia attenzione – si schiarì la voce e lesse – Marie, reine des Ecossais e la conception pieuse de Dieu veut le sang de Élisabeth versé et notre reine sur le trône d’Angleterre.
Scese un silenzio attonito.
- No, una sciocca, frivola ragazzetta qual è Mary non salirà mai sul trono che mi spetta – si voltò verso Arthur e gli scoccò un’occhiata indecifrabile – Sarai ben lieto, adesso che anche Mary Stuart potrà scaldare il tuo letto, il letto dell’amante di tutte le Regine d’Inghilterra! – sogghignò, a suo agio.
Arthur la lasciò parlare, avvicinandosi a lei con mosse furtive; Catherine approfittò dell’ira della sovrana per distogliere lo sguardo dalla sua persona; puntò gli occhi sui propri piedi, poi vagarono, senza controllo, sul pavimento di pietra, finché non incontrarono le gambe del soldato.
Risalirono lungo i pantaloni grigi, la casacca azzurra – poi, un paio d’occhi scuri.
Lui le fece un sorriso rapidissimo, dopodichè stornò lo sguardo.
Catherine pensò solo che fosse molto attraente, anche se il viso glabro era fuori moda e quasi infantile.
- Devo fare qualcosa per Vostra Grazia? – domandò il soldato, sfidando l’irritazione di Elizabeth.
- No, non ancora. Arthur, il trattato è stato firmato da nemmeno un anno e già i Francesi tramano contro di me? perché mai?
- Io non considererei colpevoli i Francesi, Vostra Maestà – replicò Arthur, stringendo i pugni.
Elizabeth si arrestò e lo fissò con occhi di brace: - Non penserai che…
- Wallace è cattolico. E non ha mai fatto mistero del suo odio per me e… e per voi.
- Wallace!
Arthur abbassò la testa, tentennò per un poco, poi le prese una mano; fu un gesto talmente intimo che Catherine e il soldato si scambiarono un’altra occhiata perplessa. Stranamente, Elizabeth lo accettò.
- Uscite, tutti e due. Lady Catherine, vi manderò a chiamare qualora la Regina desiderasse la vostra compagnia. Henry, voi portate quella lettera nei miei appartamenti e rimanete là, vi raggiungerò fra non molto – ordinò il marchese; i due si inchinarono e si congedarono.
- Esca pure, milady – la riprese Henry, in tono per metà ironico e per metà angustiato.

 

 

- Avete detto di chiamarvi Catherine?
- L’ha detto il marchese, non io.
- Perdonate la mia sfacciataggine, ma ciò non toglie che vi chiamiate Catherine.
La dama si fermò in mezzo al corridoio.
Henry continuò a camminare.

 

 

- Io…
- Io cosa?
Arthur si morse il labbro inferiore, dopo aver balbettato quella parola.
La mano con cui aveva stretto quella di Elizabeth profumava di lei; la annusò.
La Regina nascose un sorriso dietro la mano.
Sotto le fitte ciglia bionde, i suoi occhi scuri ammiccarono.
- Voi cosa, Arthur?
- Vi amo, mia Signora.
Lei si appoggiò allo schienale della sedia, massaggiandosi la tempia.
- Ditelo ancora, Arthur. Ditelo per me. Rendetemi felice, fatemi dimenticare le congiure.
Fu un lampo fugace, il sorriso di Arthur: - Vi amo, mia Signora, più di quanto abbia mai amato un’altra persona; mai e poi mai vi tradirei, né farei qualcosa per privarmi del vostro amore, Vostra Grazia.
- Come siete puerile, mio caro… ah, stasera desidero danzare a lungo con Leicester – lo provocò.
Arthur era attonito: quella donna era incomprensibile anche per lui, che la conosceva meglio di tutti.


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Capitolo 4
*** Fantasmi di conflitto ***


Think’st thou, Kate, to put me down
With a “No” or with a frown?
Since Love holds my heart in bands
I must do as Love commands.

(Ballata di epoca Tudor)

 

L’incredibile collezione di gioielli della Regina andava messa in ordine.
Tutte le damigelle cinguettavano e attiravano l’attenzione di Elizabeth con osservazioni scherzose e non lesinavano parole di sincera ammirazione per i bellissimi ornamenti che si passavano l’un l’altra.
In mezzo a loro, la sovrana risplendeva di un sorriso radioso, tuffando la mano tra le gemme e le perle con disinvoltura perfettamente studiata, come chi esamina dei chicchi d’uva. Catherine prese in mano un’elegante filo di perle e smeraldi incastonati in quadrati d’oro, stendendola davanti al viso con il fiato sospeso. Poi contrasse le mani e la collana cadde ai suoi piedi con un tintinnio.
- C’è qualche problema, lady Catherine? – domandò Kat Ashley, incuriosita.
Catherine respirava pesantemente, gli occhi trasparenti come cocci di vetro e le mani ancora alzate.

Chi era? chi era?!           
Si premette una mano sullo stomaco.
- Va tutto bene – sussurrò, atona.
Non ebbe la forza di incrociare lo sguardo della Regina; le avrebbe parlato più tardi.

L’una Mary Stuart… ma l’altro? Rosso come sangue, bianco come latte, verde come erica di brughiera…
- Vostra… Vostra Grazia, penso che questa collana farà scalpore al banchetto di questa sera – osservò, mostrandole l’oggetto, e al suo commento fecero coro le opinioni concordanti delle altre damigelle.
- Grazie, lady Catherine.

 

***

 

Henry osservò come tutte le dame del seguito fossero state prese da qualche ardito ballerino, tutti incoraggiati dall’entusiasmo della Regina: solo un cieco avrebbe pensato che non era la migliore danzatrice dell’intera corte.
Catherine Fitzjohn, invece, se ne stava in disparte, dopo che il tentativo di accompagnarsi ad alcune donne era miseramente fallito; si fece versare altro vino e l’osservò mentre declinava la premurosa offerta di una donna ben vestita, sulla sessantina, e riprendeva a studiare le proprie mani e il ricamo della bella gonna, il sorriso che andava rapidamente spegnendosi.
Gli sembrò terribilmente ingiusto.
Ma forse… forse era la Regina che non voleva sciupare la novella dama.
La degnò appena di uno sguardo: ballava con il conte di Leicester, simile ad una foglia nel vento, vestita di verde scuro. Improvvisamente sicuro, abbandonò il suo posto, attraversò la vasta sala.
- Volete ballare?
Catherine alzò lo sguardo, stupita.
Non sapeva bene cosa avesse fatto di particolare, ma qualcosa nel contegno di Catherine cambiò.
- Sì, se lo desiderate.
Henry sorrise e le mise una mano sulla vita, apprezzando il rossore che le comparve sulle gote; soltanto il giorno prima non avrebbe avuto tale reazione. L’idea di scatenare quella reazione nella fanciulla lo mise a suo agio; sentiva di avere un nuovo ascendente su di lei.
- Che musica è questa? – Catherine sembrava imbarazzata.
- Come? Non avete mai ballato la volta? – la sbeffeggiò.
- Eh?
- Non avete mai ballato la… - ripeté, con voce stentorea.
- Scusate, non vi seguo – proruppe la sua compagna di danza, piegando la testa all’inverosimile per seguire le mosse della Regina. Henry assottigliò lo sguardo e, abusando della distrazione di lei e del ritmo forsennato della danza, la spinse in un angolo.
Lei parve riscuotersi solo sentendo le sue mani sulle spalle.
- La Regina è in pericolo?
- Non so… - gemette Catherine, torturando la manica dell’abito. Poi si mise in punta di piedi, in modo da avvicinare il viso al suo: - Non so decifrare quello che ho visto. Ho visto Mary di Scozia e un uomo con i capelli rossi, la pelle bianca e gli occhi verdi… ma non lo conosco, perciò non so dare un senso alla mia visione.
- Parlatene con Sua Maestà – le suggerì, ma lei scosse forte il capo.
- No! Come potrei? Non oserei mai interromperla mentre balla! – replicò con orrore, il suo viso sbiadì.
Le mani tremavano: sembrava sinceramente terrorizzata all’idea di disturbare Elizabeth.
- Andrò io, allora. Non temete. 
Catherine riprese a sorridere: - Per quale motivo dovrei avere a cuore la vostra sorte?

 

***

 

Forse aveva esagerato, con la cortesia.
Chiunque temeva la collera della Regina, chiunque! E lui andava a scatenarla.
- Vostra Grazia… - fece un bel inchino – mi concedereste un ballo?
Lei gli porse la mano con infinita grazia.
La strinse tra le braccia fredde, aggrondato. - Milord, sembrate molto turbato.
Henry deglutì.
- Vostra Maestà, mi rincresce enormemente dovervi rattristare con brutte notizie, ma è una questione di vitale importanza e non l’avrei sollevata, se lady Catherine non mi avesse reso partecipe del suo angustiante dilemma…
- Di cosa state parlando?
Henry si arrestò.
- Lady Catherine ha visto vostra cugina Mary, in compagnia di un uomo con i capelli rossi.
Elizabeth portò una mano alla bocca: - Non può essere lui – ringhiò. Poi fece una risata e gli prese le mani, costringendolo a seguirla nei rapidi movimenti della danza: - Nessuno deve pensare che stia accadendo qualcosa di strano, è chiaro? – sibilò, a voce molto bassa. Henry annuì e riprese il controllo.
L’improbabile coppia volteggiò ancora, finché la musica non cambiò. Allora Elizabeth lo prese per mano e, nello stupore generale, lo condusse da lady Catherine, che attendeva torcendosi le mani, pallida in volto. Ma nessuno immaginò che ci fosse qualcosa, un segreto tra le due donne, nel vedere la Regina concedere la mano del suo cavaliere alla sua dama di compagnia.
- Crediamo che sir Henry non abbia ballato con voi abbastanza a lungo da dimostrarsi un buon cavaliere… alea iacta est – scherzò, poco prima di essere reclamata da un altro ballerino ansioso di mettersi in mostra. Si allontanò senza degnarli più di uno sguardo: la mano delicata di Catherine era nella sua, gli occhi della fanciulla fissavano tutto e niente, come impazziti.
- Allora? desiderate ancora ballare?
- Con chi altro potrei ballare, stasera? – ribatté Catherine: di nuovo gli sembrò che sotto quell’ammissione di solitudine ci fosse altro, ma non se curò più di tanto. La prese comunque.

 

***

 

A tarda notte, anche i ballerini più tenaci abbandonarono la sala, scuotendo pigramente la testa per combattere la stanchezza. Dopo aver esitato, pensando che Elizabeth volesse chiarimenti da lei, Catherine aveva dovuto abbandonare gli appartamenti reali; Kat Ashley chiuse la porta con aria molto solenne e tutte cercarono un giaciglio.
Semidistesa su un divanetto, la dama sentiva le palpebre pesanti e desiderava solo addormentarsi… le gambe formicolavano per la fatica del ballo… era stata una serata davvero spettacolare… sbadigliò, già prossima a scivolare tra le braccia di Orfeo, quando vide una figura scura muoversi nell’ombra e avvicinarsi alla maniglia; alla luce timida di una candela, riconobbe il marchese di Pembroke.
Provò un torpido senso di meraviglia, poiché credeva che il legame tra il marchese e la Regina si esaurisse al momento di soffocare la luce delle torce – credeva, sì, che condividesse il letto solo con il conte di Leicester. Tentò di alzare la testa per avvertire almeno mistress Ashley, ma scoprì che anche lei osservava l’ampia schiena di Arthur con aria sorniona.
Allora emise un timido sospiro e si addormentò.

 

***

 

Arthur lasciò uno spiraglio nella porta: se fosse giunto qualcuno l’avrebbe udito subito.
Per un lungo, luminoso istante ammirò le volute del baldacchino arrotolate attorno alle colonnine come nuvole impalpabili. In mezzo a loro, volutamente sobria e candida, c’era Elizabeth. Trattenne il fiato.
Lei lo guardò in faccia e soffocò una risatina dietro la mano sottile.
- Vi faccio ridere come quand’eravate piccola – affermò il marchese, compiaciuto, liberandosi degli stivali. Con le sole calze addosso camminò verso la Regina, mollemente rannicchiata sulle coperte.
Venne il turno del mantello, poi della camicia.
Leggermente ansimante, a petto nudo, lasciò che fosse lei ad ammirarlo, per una volta.
- Venite da me, milord – lo pregò Elizabeth, dando una pacca al copriletto damascato.
- Mia Signora, attendevo di sentirvelo dire! – balzò sul letto, inseguendo le rosse labbra di Elizabeth con le proprie; alla fine, però, dovette stringerle la testa con una mano per impedirle di sfuggirgli ancora.
- Ho un dubbio – gli disse infine, stesa sotto di lui con i capelli allargati come una pozza di rame sciolto e le guance dipinte di un rosa tenue, come quando correva da giovinetta.
- Quale sarebbe? – non si chinò a baciarla ancora.
- Avrei dovuto prestare attenzione a Catherine – se si fosse trattato di chiunque altro avrebbe pensato che la nota più stridula che vibrava nella sua voce squillante fosse panico, a stento trattenuto.
- Che dici? Che diavolo vai farneticando? – la redarguì, sollevandosi sulle braccia.
Elizabeth lo squadrò per un mezzo secondo, poi gli diede una pacca sul braccio: - Spostatevi.
Lui non si mosse. Lei digrignò i denti, cercando di trattenere la furia.
- Spostatevi – ripeté e non lo minacciò né aggiunse nulla; era cosciente del fatto che a parlare era la Regina d’Inghilterra e neppure il Marchese di Pembroke aveva tanta autorità da disubbidire ad un suo esplicito ordine, senza subirne le conseguenze. Arthur, infatti, sbuffò e si fece da parte, coprendosi l’inguine con una mano, come nulla fosse.
Elizabeth si alzò e indossò una vestaglia di seta rosso cremisi, legandosela in vita.
- Vestitevi, prima che faccia entrare lady Catherine – Arthur raccattò i propri vestiti, facendosi in quattro per infilarne quanti più possibile, intanto la Regina chiamava un’insonnolita lady Catherine.
- Milady, l’ora è tarda, nessuno ci ascolta… è il momento migliore per parlare.
Lady Catherine portò le mani all’acconciatura, preoccupata forse all’idea che si fosse disfatta.
- Buona sera, lady Catherine – la salutò Arthur, seduto su una sedia nell’angolo più lontano della stanza; abbastanza lontano, sperava, da non farle notare il suo insano colorito e il disordine delle vesti.
La ragazza spostò gli occhi trasparenti su di lui, senza assumere una particolare espressione, e celò un sorrisino contraendo appena gli angoli della bocca. Certo, era sciocco sperare che una veggente non se ne accorgesse, così sorrise di rimando e le fece un cenno con la mano.
- Sir Henry mi ha detto che avete avuto una delle vostre visioni e che non avete osato disturbarmi…
- È così, Vostra Grazia.
- Ditemi cos’avete visto, e siate precisa.
Catherine aggrottò le sopracciglia, concentrata.
- C’erano una donna… lei era molto giovane, ho ragione di credere fosse vostra cugina Mary e si accompagnava ad un uomo che non conosco, mi è rimasto particolarmente impresso perché aveva una pelle molto chiara, perfino più della vostra, mia Signora, con capelli di un rosso molto acceso e cupo e un paio d’occhi verdi… come quelli di sir Arthur – nel pronunciare l’ultima affermazione lo guardò.
- Il suo nome è Wallace… quanto al cognome, non è importante – disse quest’ultimo, a bassa voce.
- Lo conoscete?
- Ahimé, è mio cugino. Mia Signora, dovete parlarne al Consiglio.
Elizabeth non rispose; diede le spalle agli interlocutori e intrecciò le mani davanti al volto.
- No.
- Come?!
- Vostra Grazia, dovreste…
- Il Consiglio non sa mettersi d’accordo nemmeno sull’orario della riunione; dovremmo aspettare ore prima di ottenere una dichiarazione logica e, cosa più importante, utile alla nostra causa. Aspettiamo.
Arthur serrò i denti: - Vostra Grazia, io non credo che…
- Ciò che credete voi non è importante, sir.
- Anche le Regine più abili devono ascoltare i loro collaboratori, di tanto in tanto.
- Perché sanno quando i collaboratori vanno ascoltati: questo non è uno di quei casi.
Arthur dovette mandar giù la bile.
- Quindi, cosa pensate di fare?
- Nulla – rispose lei, scrollando le spalle.


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Capitolo 5
*** Vaiolo ***


Through the mist I see the face
Of an angel, calls my name
I remember you're the reason I have to stay

(Pale, Within Temptation)

 

I mesi passarono in relativa tranquillità; le spie di Cecil e di Pembroke non scoprirono altri focolai di sommossa, né Catherine ebbe più angoscianti visioni di cospiratori. Prese confidenza con la vita di corte, a cui non era mai stata introdotta, e con il temperamento volubile della Regina.
Attraverso il chiacchiericcio delle altre dame aveva scoperto molto più di quanto ritenesse necessario: per quello, parlava con Arthur il meno possibile e lo evitava, ogni volta che si incontravano nelle lunghe gallerie del palazzo. Ogni donna timorata di Dio avrebbe fatto lo spesso.
Lady Margaret ne parlava un uggioso pomeriggio, mentre la sovrana riposava nella stanza adiacente, per combattere un brutto mal di testa: - Sapete, lady Catherine, se la Regina udisse i nostri discorsi s’infurierebbe enormemente… lo coccola come se fosse suo figlio, o il suo amato consorte – qui le scoccò un’occhiata allusiva – e lo fa accedere a luoghi segreti per chiunque…
- Voi credete che Sua Grazia e sir Arthur…?
- Ovviamente no. Girano strane voci, su di lui. Quando sono arrivata qui, quattro anni fa, incontrai una donna che lavorava per la famiglia reale da più di quarant’anni e lei stessa mi rivelò di essere stata la giullare favorita da lady Mary, la sorella di Sua Grazia, per tutta la sua infanzia e la sua adolescenza.
- Quindi? – incalzò Catherine, accostando il viso a quello di lady Margaret.
- Ebbene, Jane doveva avere sessanta, forse sessantacinque anni all’epoca: e ancora ricordava che il Marchese di Pembroke aveva condiviso il letto con la madre di Sua Grazia e con altre mogli di re Henry.
Catherine era rimasta di sasso.
- Certo, non può essere possibile…
- Aspettate! La cosa più strana è ciò che Jane mi disse alla fine dell’incontro: “In verità, lady Margaret, provo ancora timore e preoccupazione se ci incontriamo in una stanza vuota, benché, se Dio vuole, morirò prima che decida di farmi tacere! Quell’uomo è un servo del Demonio, glielo dico io, perché dev’essere stato lui a mettere in testa a quella Boleyn l’idea di far invaghire il Re. Non sottovaluti il Marchese di Pembroke, perché non ho mai visto un suo capello farsi bianco, né una ruga deturpare il suo bel volto da giovinetto!”

 

***

 

Nell’ottobre del 1562, la Regina si ammalò.
In un primo momento, Catherine sperò che si fosse semplicemente raffreddata, poi tra le cameriere e gli inservienti, prima ancora che tra i cortigiani, cominciarono a serpeggiare voci di qualcosa di più grave, finché non fu chiaro che Elizabeth aveva contratto il vaiolo.
Pallida come un cencio, Catherine abbandonò il lavoro di cucito e camminò in fretta verso gli appartamenti reali, che le erano stati preclusi da quasi una settimana, rassettandosi le vesti man mano.
- Desidero… vedere Sua Maestà – chiese alla guardia che presiedeva l’uscio.
- Temo che non sia possibile – rispose quello, un vago tono di minaccia.
- Lasciatela entrare, Barrington. È una delle sue dame.
Conosceva quella voce dalle vocali aperte. Henry la salutò con un mezzo inchino molto negletto, compensato dal sorriso apertamente cordiale e amichevole che le rivolse. Superò la guardia e, dopo averle sfiorato un gomito, la condusse nella stanza da letto della sovrana.

 

L’odore nella stanza era pesante, molto pesante.
La sorprese, e non poco, scoprire che la Regina la fissava dal letto, bianca come il cuscino su cui poggiava le spalle, con l’accenno di un sorriso soddisfatto sulle labbra screpolate. Se ne rese conto dopo un paio di secondi, così si inchinò in ritardo.
- Oh, sembrava proprio la vostra voce, quella che ho udito! – esclamò Elizabeth, felice.
- Sì, Vostra Grazia, era pronta a litigare con l’uomo di guardia per entrare ed assistervi.
Catherine si avvicinò all’ampio letto, non senza titubanza. - Come vi sentite, Vostra Maestà?
- Fiacca. Lo trovo molto fastidioso – osservò la sovrana, tentando di sollevare un braccio; non riuscendovi, ricadde contro il cuscino con un profondo sospiro di disappunto.
- Vi assisterò io, milady – propose Catherine, di getto; Elizabeth la guardò con disapprovazione.
- Non se ne parla nemmeno! Voi siete molto importante, la mia Cassandra, non posso permettervi di star vicino ad una donna affetta da vaiolo, nemmeno se quella donna sono io! Da parte mia, sono certa di sopravvivere, ma voi? Sarebbe sicuro lasciarvi avvicinare? No, perché non so se vivrete – le scoccò un’occhiata penetrante; l’aveva fatta tacere, perché era nel giusto.
- Vostra Maestà – replicò Catherine, infatti, ma con la voce indurita dal dispiacere e dal disaccordo.
La osservò, mentre leggeva con occhi stanchi una missiva appena arrivata dal continente; non l’aveva più degnata di uno sguardo, in più si sentiva vagamente perplessa nel ripensare al modo in cui l’aveva chiamata. La mia Cassandra. Sospirò, decise di uscire da là.
- Ah, sir Henry – Elizabeth alzò la testa dalla pergamena – accompagnate lady Catherine ai suoi alloggi. E in futuro, per quanto sia comprensibile il vostro desiderio di non contrariare la mia dama, cercate di ubbidire ai miei ordini, prima che a quelli del vostro istinto.
- Perdonatemi, Vostra Grazia – mormorò lui, chinandosi, dopodichè poggiò una mano sulla spalla di Catherine e la condusse fuori, mentre il soldato di guardia le sorrideva, vittorioso ed impertinente.
- La Regina sta male.
- Me ne sono accorto – ringhiò Henry, sospingendola di malagrazia in un’altra ala del palazzo.
- Non vi sembra un motivo più che plausibile per…
- Per avere a cuore la sua sorte, magari? – la rimbeccò lui. Riuscì a zittirla.
Catherine sospirò, allargando le dita delle mani: - Se morisse, mancherebbe di un erede…
- E si scatenerà una guerra civile – concluse il soldato, massaggiandosi le nocche della mano sinistra.
- E voi non temete che questo accada?
- Ho fiducia nella tempra della nostra signora; milady, non temete per lei: se desidera sopravvivere lo farà – fece un sorriso ironico – nemmeno il Padreterno riuscirebbe a convincerla, in tal senso.
La ragazza annuì, timida ma un poco rassicurata.
- Dovete essere forte, lady Catherine – si congedò Henry, dinnanzi alla porta del suo appartamento, toccandosi il capello con due dita. Lei annuì legnosamente, arrovellandosi per trovare una frase adatta.
- Buon pomeriggio, sir Henry – bisbigliò, seria, prima di intrufolarsi nello spiraglio che aveva aperto.
Premette la schiena contro la porta finché non udì i passi dell’uomo allontanarsi.

 

***

 

Lady Mildred aveva fatto fronte alla sua ignoranza mondana solo un mese prima.
Lei, lady Margaret e lady Mildred passeggiavano nei giardini di Hampton Court, quando Margaret aveva osservato, con voce maliziosa: - Milady, non potete convincermi di essere la sventurata donnicciola di campagna che vi dichiarate, perché ieri vi ho visto conversare a lungo con sir Henry Sidney!
- Oh, io… - non ebbe il tempo di rimediare, poiché Mildred scoppiò in una risata sgradevole.
- Sir Henry Sidney? Spero che voi stiate scherzando, Marge – le sorrise con aria accondiscente.
Catherine rimase interdetta. – Perché, di grazia?
- Sir Henry Sidney è abbastanza noto a corte; come farvelo capire? Per la maggior parte delle dame di corte è quello che il conte di Leicester è per la Regina: che siano mogli, vergini o vedove, tutte lo guardano con la bramosia di cornacchie affamate e lui non si tira certo indietro, quando gli si propongono. Se voi, milady, provate un sentimento forte e serio per sir Henry, avete tutta la mia pietà; sarebbe per voi molto più onorevole, per quanto doloroso, dimenticarlo e non farvi ferire da lui.
- Io non sono affatto infatuata di sir Henry, lady Mildred, ma seguirò il vostro consiglio, prima che le lingue della sua fiamma mi lambiscano la pelle – rispose, la voce neutra, il viso imperscrutabile.

 

***

 

Un paio di settimane più tardi, dagli appartamenti reali arrivò la notizia che Elizabeth stava soccombendo alla forte febbre, che non aveva accennato ad abbassarsi durante l’ultima settimana.
Catherine si ritirò nei suoi appartamenti, fiduciosa nella possibilità che la sovrana potesse rimettersi, comunque timorosa – se Elizabeth fosse morta, i consiglieri avrebbero potuto condannarla a morte come eretica e posseduta dal Demonio, o uno di essi poteva prenderla e farne la sua schiava.
Temeva i consiglieri, quasi tutti, così come diffidava delle velenose dame della Regina.
Temeva anche il Marchese di Pembroke, che avrebbe avuto la precedenza su di lei: non c’era nessuno di cui potesse fidarsi; doveva tornare assolutamente a Canterbury, se Elizabeth… bussarono.
Catherine fissò la porta con occhi spiritati, accarezzando l’idea di non aprire nemmeno, ma i colpi si ripeterono ed una voce fastidiosa ed irritata prese a chiamarla e a dirle che “sapeva che era lì”.
- Buongiorno – salutò, la mano sulla maniglia, quando Arthur la fulminò con lo sguardo.
I suoi occhi verdi lampeggiavano di rabbia perché l’aveva fatto attendere a lungo, ma sembravano anche stanchi e annoiati, come se si fosse costretto ad andare da lei, come se fosse stato costretto.
- Badate bene di non ignorare un pari d’Inghilterra, quando è alla vostra porta.
- Sono mortificata, milord, stavo solo…
Arthur la interruppe con uno sguardo sprezzante.
- Sua Maestà si è svegliata, ha finalmente mangiato qualcosa e adesso dorme – la informò.
- Questa notizia mi rallegra più di quanto voi possiate immaginare – sospirò Catherine, sedendosi. Arthur sorrise, un sorriso minuscolo e quasi nascosto dietro le dita di una mano, ma tutto il suo volto si era illuminato, e quello non poteva certamente nasconderlo. Lei lo osservò di sottecchi e le fu chiaro che, per quanto malvagia ed innaturale poteva rivelarsi l’essenza di Pembroke, ciò che provava per Elizabeth andava oltre la fedeltà, forse persino oltre l’amore.
- Avete bisogno di qualcosa, in particolare? – domandò lei, con delicatezza, nel timore di interrompere le sue riflessioni. Il marchese inarcò le sopracciglia e parve fin troppo sorpreso: - Solo di parole.
- Ditemi, vi ascolto.
- Sua Grazia mi manda a chiedervi se le vostre visioni possono essere controllate.
Catherine si irrigidì. – No, non è mai stato possibile. Non è in mio potere.
- Avete già tentato?
- Non è in mio potere.
Arthur socchiuse le palpebre, inquisitorio, dopodichè si mosse in fretta, per impedirle di reagire: in un attimo, la sedia di Catherine si rovesciò e lui le prese i polsi e la trascinò bruscamente nella stanza da letto.

 

- Siete davvero ostinata, milady – le soffiò sul volto, beffardo.
- Cosa state facendo?- boccheggiò lei, intrappolata dalle sue gambe e dal suo bacino; alzando la testa, si rese conto di non sentire alcuna pressione in corrispondenza del proprio bacino, ma lo sguardo di Arthur era di per sé così crudele e spaventoso che era sull’orlo delle lacrime. Singhiozzò.
- Avete già tentato di avere visioni volontarie? – domandò ancora, chinandosi su di lei.
Le torse il polso destro, al punto di farle emettere un piccolo lamento, a poggiò la bocca sul suo palmo; incredibilmente, nonostante la paura e l’incredulità, sentì un formicolio, rivelatore e imbarazzante, all’altezza dell’inguine.
- No, non ho mai tentato nulla di simile – ribatté, il fiato corto, nella speranza che Arthur si accontentasse della sua risposta e smettesse di gravarle addosso. Speranza vana, perché il Marchese sospirò contro la sua mano e allargò le labbra in un sogghigno: - Non vi credo.
Lei impallidì.
- Vi prego, non fatemi del male… - implorò, pigolante. Lui fece risalire le labbra lungo le sue dita.
- Ditemi la verità e non vi toccherò più, ma non vi farò comunque del male – promise.
Le chiuse la punta dell’indice tra le labbra chiare e soffici, carezzandole il dorso bianco della mano con le dita callose. Catherine si morse le labbra ed esalò un sospiro rumoroso, molto inconsueto. Arthur… ma era diverso da quello che si era fugacemente prima di essere spinta sul proprio letto; mentre lo guardava sfiorarle la pelle nei punti in cui era più sensibile, esperto come se fossero stati amanti di lunga data, non vedeva i suoi occhi verdi e sarcastici né i capelli biondo oro, nulla di tutto ciò.
Era sicura di vedere un corpo bianco e roseo, liscio e perfetto come seta, delle ciglia lunghe, un sorriso largo e disarmante e poi la sua bocca rosa si aprì per dirle: - Catherine, rammentate un’occasione in cui avete sforzato il vostro occhio per vedere quello che doveva venire? Avete mai forzato il Caso?
- Oh, Henry… - bisbigliò, rapita – l’ho fatto, ma lo sforzo per poco non mi uccise.
- Ecco, era così difficile? – all’improvviso, la voce era quella di Arthur, che indietreggiò sulle ginocchia.
Catherine cercò di colpirlo con il collo del piede.
- Siete un malfattore, un disonesto! – strillò, il volto arrossato dalla rabbia, mentre lui sghignazzava come uno sciocco: - A nostro modo, siamo stati entrambi baciati dalla Magia, per quanto voi siate una Cassandra ed io un Hermes di bassa lega – ammiccò, sull’uscio – Oh, wie ich ihn liebe, meinen Apollo!
- Uscite subito!

 

***

 

Non era giusto.
Arthur l’aveva circuita, le aveva strappato le parole di bocca – ancora peggio era il fatto che la Regina avesse, probabilmente, dato il suo benestare all’utilizzo di certe pratiche su di lei. Trattata come una cagna, come… sgranò gli occhi.

Guardo il pavimento rosso, disegni geometrici; non debbo temere, questa è la volontà di Nostro Signore e del suo inviato sulla Terra, Pio IV. Signore, guida la mia mano, affinché possa colpire il cuore dell’Inghilterra eretica… presto finirò questa scismatica e bastarda Gezabele! Le porte degli appartamenti reali. Ancora poco. Ancora poco.
- Sua Grazia! Attentano alla vita di Sua Grazia! – si lanciò nel corridoio strillando a pieni polmoni; subito alcuni uomini a seguirono, mentre si precipitava negli appartamenti di Sua Maestà senza curarsi della guardia che la richiamava indietro, ignara di quanto stava accadendo.
- Fermatevi! – puntò il dito contro un servitore vicino alla parete, che reggeva un calice dorato nelle mani sporche di terra; lui sussultò e lasciò cadere la coppa, che rimbalzò sul pavimento schizzando ovunque vino e acqua. Prima che potessero fermarlo, saltò sul letto reale, mentre Elizabeth si appiattiva sul cuscino, troppo debole per potersi difendere. Cercò di scattare in avanti, ma le guardie lo fermarono. Nella concitazione del momento, nessuno si accorse di Catherine, che scivolò lungo lo stipite della porta, sfiancata dalla corsa sotto gli abiti pesanti e dal mal di testa.
- Andiamo, sudicio papista! Andiamo!
- No, voi non potete capire! Siete anime corrotte, le capre di Satana e quello è il grembo putrefatto che cova l’Anticristo! Ascoltatemi, credetemi! – sbraitava il sicario, impotente nella morsa dei soldati regi.
- Voi siete pazzo! – replicò Elizabeth, pallida e sdegnata, e con un cenno lo fece portar via.
Catherine scivolò più in basso, fin quasi a sedersi sul pavimento. Era sollevata, perché ce l’aveva fatta.
- Lady Catherine, vi par maniera di comportarvi in nostra presenza? – la sovrana la riproverò in tono duro, mentre lei annaspava, tra le risatine soffocate delle sue compagne, per avere un portamento decoroso. Restò accanto alla porta, un soffio costante le rinfrescava la pelle calda della nuca.
- Perdonatemi, Vostra Maestà – chinò la testa.
Lei la guardò a lungo. – Tornate in camera, milady: avete un aspetto talmente disfatto che temo grandemente avervi vicino – rivelò con grande semplicità, senza preoccuparsi di ferirla.
- Sì, Vostra Grazia – abbandonò la sala, avendo dimenticato anche l’orribile comportamento di Arthur.

 

***

 

Sonnecchiava nel suo letto, mezza vestita, avvertendo un forte calore al volto e alla bocca in particolare. Era molto stanca, così non si preoccupò nemmeno di quel calore febbricitante, assolutamente certa – o tremendamente speranzosa, secondo i punti di vista – che non avesse contratto il morbo fatale.
Dopo la sopraffazione di Arthur e lo smascheramento del sicario, sentiva di aver diritto ad un po’ di riposo. Dormì a lungo e di gusto, finché non venne l’alba successiva. A lungo, da quel giorno, avrebbe faticato ad addormentarsi, e a lungo avrebbe atteso di poter dormire tranquillamente.

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Capitolo 6
*** Primo squillo di tromba contro la donna ***


I am immortal, I have inside me blood of kings - yeah - yeah 
I have no rival, no man can be my equal 
Take me to the future of you all 
(Princes of the Universe, Queen)

 

La testa dell’uomo rotolò sul legno grezzo e umido di pioggia.
- Non era un sicario di Filippo.
- No, mia Regina.
- Era di Mary.
- Sì, mia Regina.
Elizabeth guardò Arthur con la coda dell’occhio, corrucciata.
Lui replicò con un leggero sorriso serafico, prima di applaudire con garbo al boia che si ritirava.
- Ha continuato ad urlare a lungo, un’ammirabile abitudine dei martiri cattolici.
- Che tono didattico usate adottare in queste circostanze! – rise Elizabeth, tranquilla.
La folla che attorniava il patibolo cominciò a dissiparsi come uno stormo di piccioni quando sopraggiunge il falco. Alcuni guardarono sfacciatamente in alto, laddove un millantatore li aveva avvertiti che la Regina e il suo misterioso famiglio avevano assistito alla barbara uccisione.
Arthur sorrideva, crogiolandosi nel sottile piacere che la crudeltà gli instillava.
- Non credevo sarebbe stato così difficile – sussurrò la Regina.
- Vostra Grazia, ve lo dico adesso, sebbene lo sappiate già: se ci sarà una guerra, io non potrò alzare la mano sui vostri sudditi riottosi, né sulle truppe scozzesi. Potrò affrontare Wallace e Wallace soltanto.
Lei tossicchiò. – Lo so, Arthur. È per questo che dobbiamo agire subito; tu sei il più grande tra i miei difensori, starà a te impedire lo scoppio di una sommossa e di una guerra.
Arthur intanto aveva portato avanti la testa, così da colpire il vetro della finestra con il naso.
- Così tanto sangue… - disse. Le scale di legno che conducevano alla stanza scricchiolarono.
- Signore! – l’ufficiale scattò sull’attenti, dopo essersi gentilmente inchinato per Elizabeth.
- Arriverò fra poco, Joaquin. Aspettatemi di sotto – lo liquidò con un semplice cenno della mano.
- Sissignore.
I gradini tornarono a scricchiolare.
- Perché avete detto che non potrete affrontare i ribelli inglesi? Mi avevate detto che il Patto impediva a Wallace di colpire e uccidere gli abitanti dell’Inghilterra; e voi non potevate colpire e uccidere gli scozzesi! Anche il vostro coraggio vacilla…
Arthur rispose: - Come potrei? Come potrei colpire l’Inghilterra?
Poi tacquero e rimasero in silenzio, osservando i cavalieri allontanarsi dalla Torre per appendere i tristi rimasugli del traditore alle porte della città. Il patibolo restò vuoto, nero di acqua e rosso di sangue.

 

***

 

Cadeva la neve sul palazzo di Greenwich.
Elizabeth sedeva nella stanza delle udienze, compita.
I bei capelli rossi acconciati con nastri di seta blu e perle e diamanti.
Indossava un abito blu notte, con la gonna ampia e le maniche adorne di gioielli.
- Vi abbiamo fatto chiamare… - esordì, la testa alta, la voce stentorea – perché la situazione si è resa insopportabile; nostra cugina, non paga di dover fare i conti con il suo stolto matrimonio e la crescente opposizione dei pari scozzesi, accarezza ancora l’idea di spodestarci dal trono che è nostro per diritto, in modo da poter governare questo Paese prima che la sua Scozia. Tuttavia, ammiriamo la sua costanza nel perseguire un obbiettivo che è al di fuori della sua portata!
Arthur soffocò una risata cattiva. Elizabeth lo fissò rapita fin troppo a lungo, prima di alzarsi e dirigersi verso l’arcobaleno di colori pastello alle sue spalle, le sue sei, timide damigelle di compagnia.
- Lady Catherine, venite avanti – ordinò, tendendole una mano.
Lei accettò la mano diafana della Regina, a capo chino e con le guance rosse, e si lasciò condurre al centro del salone. Elizabeth, con materna premura, le spostò un ciuffo di capelli neri che le copriva l’occhio.
- Questa bambina – esordì, benché Catherine non avesse più di un paio d’anni in meno di lei – ricoprirà un ruolo molto importante nei nostri piani. Speriamo che voi siate uomini di spirito, non come certi bigotti che hanno l’ardire di sedere nel mio Parlamento, e che guarderete alle sue notevoli qualità con occhio imparziale.
- Vostra Grazia è davvero troppo buona – mormorò Catherine, ormai rossa fino alla punta del naso.
Elizabeth rise, tenne stretta la sua mano: - Adesso, lasciate che sia lord Pembroke a parlarvi.

 

***

 

- For auld lang syne, my dear, for auld lang syne, we'll tak' a cup o' kindness yet for auld lang syne.
L’uomo era ancora più alto di Henry, con braccia lunghe e impacciate, capelli rossi e occhi verde chiaro.
- Cosa cantate?
- Auld lang syne, bonnie quine – replicò quello, facendole l’occhiolino. Poi sorrise.
Catherine batté le palpebre un paio di volte.
- Non capisco.
- Ho detto: Auld lang syne, bella fanciulla – spiegò l’uomo, chinandosi a raccogliere un catino pieno d’acqua sporca. Lo sollevò senza alcuna fatica e lo rovesciò nel cortile, dopodichè tornò a guardarla.
Lei rimase in silenzio, attonita. Non sapeva cosa dire.
- Io sono Harry, comunque – rimediò lui, sbrigativamente. Aveva una strana pronuncia.
- Catherine, molto piacere.
- Avete bisogno di qualcosa, Catherine?
Invece di rispondere, lei scoppiò a ridere. – Avete un accento così strano – addusse come spiegazione.
- Ah! È che sono scozzese – disse Harry, ora intento a riempire il catino di acqua pulita.
Scese uno strano silenzio, oltre al gorgoglio dell’acqua che scorreva.
Catherine tacque a lungo, prima di esalare un: - Ah – monocorde.
Harry alzò lo sguardo, accucciato com’era sul pavimento coperto di stuoie, divertito: - Non vi spaventate, anche se siete una Sassenach non ho certo intenzione di divorarvi – ridacchiò.
- Grazie al Cielo.
- Vi serve qualcosa di particolare?
Lei sussultò; si era distratta.
- No, nulla.
- Allora perdonatemi, ma ho molto da fare – si scusò Harry, seduto su uno sgabello zoppo.
Catherine annuì, non sapendo cosa dire, non sapendo neppure perché fosse finita nelle cucine del palazzo, soprattutto in compagnia di un servo scozzese. Così annuì ancora, soprappensiero, e tornò dov’era il suo posto, al fianco della Regina.

 

***

 

- Vorrei poter vivere per sempre.
- Badate a non farvi udire, Vostra Grazia, o vi scomunicheranno – rise Arthur.
- Lo faranno comunque; da Piccola che ero, sono diventata la Grande Puttana che era mia madre.
Il grattare delle penne sulla pergamena si interruppe quasi nello stesso momento: ai due angoli della stessa stanza, gli occhi verdi di Arthur incontrarono quelli scuri di Elizabeth, che sollevò gli angoli della bocca in un sorriso enigmatico, come un ritratto del Da Vinci.
- Non sapete di cosa parlate – replicò lui, con durezza; decise di tornare a lavorare alla lettera.
- Lo so bene, invece – gelida, provocatoria, la voce acuta di Elizabeth lo costrinse ad affrontare una disputa che non era sicuro di saper vincere. Ma lei aspettava.
- Ne dubito, mia Regina – tracciò un’altra parola. Ripose la piuma.
- Vostra madre non era una… una… puttana.
Elizabeth non trattenne una smorfia di scherno: - Voi dite? Non è forse il vostro – ancora quel mefistofelico sorriso – un tentativo di riscattare la vostra persona ai miei occhi?
- Non so di cosa parlate, Elizabeth – strinse i denti: non la chiamava mai per nome.
Infatti le si illuminò di un sorriso trionfante, che la rese tanto - più - dolorosamente bella.
- Sottovalutate la mia memoria d’adolescente, Arthur – e sorridendo riprese a scrivere.
Lui sentiva il calore della vergogna farsi strada sul suo volto e reagì di conseguenza.
- Cosa intendete dire? – ringhiò.
- Io dovevo essere Regina, milord, e vi vedevo passare ad Hatfield quasi ogni mese, con noncuranza. Eppure, allo stesso tempo, le voci attorno a me dicevano che avevate giaciuto con la mia povera madre, con Jane Seymour e la Howard e la Parr. Volevate trattarmi da principessa, Arthur, quando ai miei occhi assomigliavate ad un ingordo parassita… se non altro, Thomas Seymour dava mostra della sua infatuazione.
- Sua Grazia non ha mai pensato che, forse, mi recavo ad Hatfield perché ero a mia volta infatuato?
Elizabeth rise, una risata sgradevole che usava solo per ferire i suoi consiglieri. E lui era già stato paragonato a quell’idiota di Seymour, e affondato.
- Sì, a volte l’ho pensato. Come ho pensato che mia madre mi amasse.
- Vi amava.
Lei si coprì gli occhi per un istante fugace, come nulla fosse.
Arthur riprese coraggio, pensò di dirle qualcosa di più; qualcosa di dolce e destabilizzante, in modo da farla cadere in pezzi, così da poterla stringere tra le braccia per mantenerla integra, per amarla.
Dirle, per fare un solo esempio, che la prima volta percorreva i giardini di Hatfield senza troppe speranze, sulla scia della leggera delusione che provava nei confronti della pia Mary, finché, sotto il cielo plumbeo di quella primavera non l’aveva vista, immobile al centro del prato, con i capelli rossi sciolti sulle spalle, una veste color mora, la gola bianca come panna.
Come lei l’aveva guardato con gli scuri occhi sospettosi, fino a farlo capitolare.
Una bambina. La figlia di una donna appena giustiziata, con cui condivideva l’infame opinione.
- Arthur, perdetevi nelle vostre fantasie quando potrete farlo – lo sgridò Elizabeth, già intenta a lavorare. Lui scosse la testa, deluso, prima di fare lo stesso.

 

***

 

Mary non era calma, tantomeno serena.
Per quanto modulasse il respiro e tentasse di rilassare i muscoli del volto, finiva sempre con lo spaventarsi di nuovo, e la facciata di invincibilità che desiderava mantenere andava in mille pezzi.
La fanciullina che l’aveva seguita fin dalla Francia, un esserino dalla pelle dorata e gli occhi verdi, salì su uno sgabello per pettinarle i capelli ramati.
- Grazie, Mathilde. Puoi andare.
Lei scese dallo sgabello, impacciata dalle ampie sottane.
Mary stese sulla pelle candida il trucco leggero che aveva scelto.
- Vattene, sgorbio… sparisci.
- Smettetela di insultare le mie damigelle! – borbottò, guardando nello specchio il ghigno di Wallace.
- Non farò nulla del genere, Vostra Grazia – replicò lui, scrollando le spalle; prese possesso di una sedia, su cui si accomodò senza alcun riguardo.
- Siete molto noiosa, talvolta.
Mary, da brava Regina quale agognava essere, lo osservò con la coda dell’occhio: i capelli sanguigni, il sorriso sgradevole che rivolgeva alle sue spalle. Era facile all’ira quanto screanzato, eppure non poteva impedirsi di amarlo e di affidarsi a lui.
- Sono infelice, non noiosa.
- Perché? – la sua voce si fece più calda, amabile.
- Perché… sono stanca di deludervi.
Wallace si alzò e andò a inginocchiarsi dietro di lei, avvolgendola con le braccia.
- Oh, mia piccola, piccola Mary – mormorò, una guancia sui suoi capelli, gli occhi chiusi – non potreste deludermi nemmeno se tentaste di uccidermi, e sapete perché? Perché siete la Regina più pura, abile e bella che esista, voi non potete deludermi.
- Allora – sgranò con innocenza i grandi occhi ambrati – fareste una cosa, per me?
Wallace sorrise. – Qualsiasi cosa, per la mia bonnie Mary.
Il sorriso di Mary fu limpido e saldo come il suo sguardo; aveva la fede di tutta la cristianità negli occhi, quando parlò: - Qualsiasi cosa? Uccideresti anche Elizabeth, in modo da salvare tutto il cattolicesimo? Lo faresti, Wallace?
L’attesa durò a lungo.
Finalmente Wallace aprì gli occhi, senza spostare la guancia dai capelli di Mary, e con il palmo della mano le carezzò il mento bianco e la gola, appena sopra la gorgiera.
- Sì, lo farei.


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Capitolo 7
*** Il cardo e la rosa ***


The princess knew this and was filled with rage
She called the minister locked in her cage
And said in a soft voice to not be heard
"Make sure the green country is badly stirred."

(Daughter of Evil, Vocaloid)

 

il diciassette del mese di Dicembre dell’Anno Domini 1562

 

Alla giustamente somma, giustamente potente e giustamente temibile principessa Elizabeth, prima di quel nome, sovrana d’Inghilterra e Irlanda, da Sua cugina Mary, sovrana di Scozia e delle Isole.

Eccellentissima cugina, non abbiamo mai amato la violenza, ma la Vostra condotta è inaccettabile in ogni angolo della cristianità; sarebbe nel giusto il Santo Padre, qualora decidesse di privarVi dell’autorità reale per mezzo di una scomunica, ma noi non desideriamo vedere la nostra serenissima cugina rovesciata nella polvere.

Vi preghiamo, dunque, con tutta l’ambascia del nostro cuore, a preservare la Vostra persona attraverso la fiducia nei Vostri medici e la Vostra anima, rientrando in seno alla Santa Chiesa Cattolica.

Marie R

 

***

 

il ventiquattro del mese di Dicembre dell’Anno Domini 1562

 

A Mary, sovrana di Scozia e delle Isole, da Sua cugina la principessa Elizabeth, prima di quel nome, sovrana d’Inghilterra e Irlanda.

La nostra persona apprezza vivamente i Vostri amabilissimi consigli, poiché quando, in questo greve inverno, possiamo scorrerli con gli occhi, la loro vista ci rallegra quanto una buona musica. Tuttavia, confidiamo nell’aiuto di Dio per perseverare nel nostro intento e voce e inchiostro altrui andrebbero sprecati.

Che Dio Vi protegga, in questo Santo Natale.

Elizabeth R

 

- Leggete anche voi, Wallace! Non vi sembra una lettera oltraggiosa e oltremodo arrogante?
- Direi che lady Jezabel può aver pensato lo stesso del vostro invito ad abbandonare la via eretica.
Mary scosse tristemente la testa.
- Mia cugina vorrebbe governare l’Inghilterra come se fosse la sua casa della bambole.
- Ci sta riuscendo e questo mi preoccupa molto – aggiunse Wallace, corrugando la fronte; poi, senza una ragione apparente, un sorriso feroce si fece strada sul suo volto liscio. Mary ne fu incuriosita.
- Perché sorridete? – chiese, perplessa, alzando la coppa; un uomo si fece avanti e le versò del vino speziato. Ripose la coppa sul tavolo e afferrò un panetto morbido, che ruppe in due.
Wallace accettò la metà che gli veniva porta e la rigirò tra le mani a lungo, prima di rispondere.
- Penso a quanto sarei felice se potessi vedere Arthur in ginocchio, sotto il mio piede, imbrattato del sangue della sua marionetta. La morte di Elizabeth lo devasterebbe – sorrise ancora, felicissimo.
Mary impallidì un poco, in maniera quasi impercettibile, così alzò la coppa per bere e celare il proprio turbamento. Quand’era più piccola, Wallace era stato un buon amico e tutore e non aveva mai dato segno di possedere un’indole tanto violenta e sanguinaria.
- Non abbiate paura di me, Vostra Grazia. È la mia natura, non posso distorcerla.
- Sì, ne sono consapevole e non vi rimprovero niente… è che… - si riscosse e fissò il buio oltre la finestra. Una campana lontana suonò otto volte, portando l’eco del ritardo nella stanza.
- Mia cugina ci attende – e si alzò, controllando l’abito rosso.

 

***

 

La camera che avevano affittato in quell’occasione era scura, le candele volutamente insufficienti per rischiarare quell’enorme ambiente. Sotto il soffitto dipinto e indorato le ombre si agitavano e facevano smorfie alla Regina scozzese, seduta su uno scranno al centro della stanza.
Una porta si aprì con gran fracasso e Elizabeth fece il suo ingresso.
Teneva un piatto e una candela in mano e sorrideva, remissiva, apparendo molto più giovane e dolce di quanto in realtà non fosse. Mary fu sconvolta da quella sobria sceneggiata, così come dall’abito che la sovrana indossava sotto un pesante mantello da viaggio: era bianco, con inserti dorati, le maniche e il colletto ricoperti all’inverosimile di gioielli e pietre preziose.
- Buonasera, cugina.
Mary replicò con un duro cenno del capo. Elizabeth si accomodò su una sedia gemella, distratta.
- Ho pensato che fosse doveroso portare la gioiosa solennità del Natale anche in quest’incontro. Curioso modo di scambiarsi i doni di Capodanno, in verità.
- Non credevo che sareste venuta davvero – considerò Mary, in tono piatto.
- Ci sono persone di cui è impossibile dubitare – replicò Elizabeth, con sicurezza. Si guardò attorno.
- Credevo che avrei visto Wallace accanto a voi – sospirò – sembra che non si fidi di me.
- Non lo fa, in effetti. Così come credo che il Marchese di Pembroke non si fidi di me.
Elizabeth fece aderire le spalle allo schienale della sedia e raddrizzò la testa, imperiosa.
La stoccata andò a segno: - Pembroke non ha insistito per intromettersi negli affari di famiglia perché non ha ragione di essere apprensivo; lui è consapevole della mia maturità… - a quel velato affronto Mary espirò con forza: come osava insinuare che fosse troppo giovane e insicura per fronteggiare sua cugina senza il sostegno di Wallace?
- Così pensate, ma non è dei vostri… intimi amici che desidero parlare. Avete giustiziato uno scozzese.
- Uno scozzese che ha tentato vilmente di ammazzarmi, lady Mary – ringhiò Elizabeth, chiudendo i pugni sui braccioli della sedia. Mary illividì, compiaciuta dalla propria frase e offesa dal denigrante appellativo che le era stato rivolto.
- Usate un tono più appropriato con me, Vostra Grazia!
- Allora dirò che un vostro sicario, Vostra Maestà, ha tentato di uccidermi mentre riposavo!
Entrambe trattennero il fiato; il silenzio scese di nuovo su di loro, interrotto dal crepitare delle fiammelle. Elizabeth si alzò e camminò in fretta fino alla finestra; Mary rimase immobile.
- Io sarò Regina d’Inghilterra – sussurrò.
- Per la morte di Dio! siete una bambina, viziata dai languori francesi e dal bigottismo papista! Non cederò mai il mio regno a voi, finché non dimostrerete di essere rispettosa e inglese!
Quello era un affronto troppo pesante per essere tollerato.
- Sapete qual è la differenza tra la vostra rosa e il mio cardo? Entrambi possiedono spine e foglie; forse la rosa d’Inghilterra è più bella e delicata di un cardo, ma non può certo resistere alla pioggia e al maltempo, quando i suoi petali si strappano per un alito di vento! Il cardo resiste e la resistenza lo porterà ad essere migliore!
- Anche la gramigna è tenace, ma il buon coltivatore sa estirparla – sospirò Elizabeth e abbandonò la sala, senza concederle nemmeno una riverenza. Mary rimase sola, le guance arrossate, poi scostò l’arazzo che copriva la parete di fondo.
Wallace la squadrò con aria indecifrabile.

 

***

 

- Avete detto questo alla Regina di Scozia? – proruppe Catherine, turbata. Elizabeth era appena tornata a Richmond, stanca e affaticata dalla cavalcata che l’aveva condotta all’incontro con Mary. Massaggiandosi le tempie e la fronte, annuì e sospirò, mentre la dama la spogliava dell’abito pesante.
- Riposate, domani parlerete con lord Pembroke. Domani.
- Domani potrebbe essere troppo tardi per quello che ho in mente – replicò la sovrana, stancamente – Mandatelo a chiamare, per favore. Dite che è questione di vita o di morte; lui verrà.
Catherine annuì, uscendo dagli appartamenti.
Tornò poco dopo. – Intendete muovere guerra alla Scozia? – chiese, titubante, sciogliendole i nodi dell’acconciatura. Elizabeth fece una risata forzata, emise un suono sprezzante: - No.
Le mani di Catherine si muovevano sempre più piano, fredde come rametti ghiacciati.
- Allora, cosa volete fare? Se posso permettermi questa domanda, Vostra Maestà.
- Voglio che voi andiate da lord Sidney, che so molto dispiaciuto per il vostro cipiglio, milady.
Catherine rimase a bocca aperta: forse non aveva capito bene. Doveva essere molto stanca.
- Su, che aspettate? Gli ho detto di attendervi nel giardino, considerato il bel tempo.
E le fece un cenno di indiscutibile impazienza.

 

***

 

- Oh, eccovi.
- Buongiorno… milord.
Henry sorrideva, di buonumore; indossava un farsetto rosso acceso e giocherellava con un sasso.
Lei si sentì stranamente accaldata, visto che la giornata, per quanto tersa e luminosa, era abbastanza rigida. Era sempre più imbarazzata, ma non potè fare a meno di rispondere al sorriso di Henry.
Lui assunse una strana posizione per prenderle la mano e farla sedere sulla panca, al suo fianco.
- Sapete, stanotte vi ho sognata – rivelò, allegro, continuando a toccarle le dita, il palmo, il dorso della mano; era così – stupendamente – a suo agio!
- E cosa avete sognato?
- Ho sognato che eravamo entrambi muti, ma sentivamo lo stesso le parole altrui. Ad un certo punto, dicevate qualcosa sul genere “a me va bene non parlare e non sentire, se possiamo farlo assieme”.
Catherine avvampò. – Sì, è il genere di sciocchezza che potrei dire – ammise.
- È una buona sciocchezza – disse Henry, a voce più bassa; lei alzò lo sguardo per la prima volta.
- Grazie – sussurrò. Erano vicini, davvero vicini: se non fosse stato per le parole di Mildred, lei avrebbe anche voluto… o potuto… se solo le avesse dimostrato qualcosa di serio…
- Ah, siete qui! Vi cercavo, Henry – Arthur sostava, torvo e trionfante, al centro del sentiero.
Henry lo guardò con aria distratta.
- Sì, milord. Mi avete trovato. Se non vi dispiace, però, potreste attendere dietro quella siepe?
Arthur strabuzzò gli occhi. – Spero che voi stiate scherzando.
- Non so quanto giocosa possa essere la mia voce, ma la mia era una precisa richiesta – ribatté Henry, al limite dello sgarbo. Catherine si azzardò a stringergli l’avambraccio, per avvisarlo, ma Arthur sbuffò e fece quanto gli era stato chiesto, per incredibile che fosse.
- Mi state toccando, finalmente – sorrise il soldato, gli occhi fissi sulla mano di Catherine.
- Uh… sì, stavate esageran… do… - ancora mentre parlava, la prese per le spalle e la fece alzare; lei teneva le mani mollemente sul petto, gli occhi sbarrati dalla paura. Lui le diede un bacio sulla guancia sinistra, poi uno sulla guancia destra e poi, quando lei si scostò un poco, le disse: - Aspetta – ma Catherine mosse comunque la testa, così che le loro labbra si sfiorarono.
In quel momento, sentendo le gambe farsi deboli, dovette per forza mettergli le mani sulle spalle.
- Allora, lord Sidney, avete altri sgradevoli approcci da fare?
- Sì – sospirò lui.
I due uomini si allontanarono assieme e Catherine li seguì, poco dopo, macerandosi nella felicità.

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Capitolo 8
*** Il ratto di Scozia ***


I was looking for the breath of a life
A little touch of a heavenly life
But all the choirs in my head say no, oh oh

(Breath of life, Florence And The Machine)

 

- Portare il cardo a Londra dimostrerà quanto ho asserito a Capodanno, cioè che la Scozia è fragile e violabile quanto la sua Regina – così Elizabeth congedò Arthur ed i suoi uomini, e Catherine riuscì a malapena a non tradire l’angoscia che quel noncurante egocentrismo le causava.
Per la Regina, quell’incursione, quell’azione da guerriglia era un fine per chiarire la sua predominanza su Mary, non si curava molto di chi avrebbe dovuto compiere quel gesto. Henry, nel frattempo, si chinò a baciare la bianca mano della sovrana e, ben interpretando il gesto nervoso che Catherine le rivolse, la raggiunse.
- Milady! – esclamò, gradevolmente sorpreso.
- Sono uscita solo per darvi questo… nella speranza che gradiate avere con voi qualcosa che vi ricordi… che dovete tornare – balbettò lei, ficcandogli nel palmo della mano un anello d’argento smaltato.
- Spero che nessuna bellezza dai capelli rossi vi rapisca, lassù – aggiunse con un sorriso.
- Non riesco a credere di incontrare qualcuno che possa affascinarmi, in Scozia.
- Io mi fido di voi – affermò Catherine, candidamente.
Henry raggiunse i compagni, già a cavallo; non si voltò a salutarla.

 

***

 

Lady Margaret rideva.
- Non fingete! A palazzo non si fa che parlare di voi; lady Mildred è furiosa, mentre lady Amy è precipitata in un mutismo disperato. Siete una delle gentildonne più chiacchierate di corte.
- Scherzate, vero? – Catherine sospirò.
- Potete chiederlo a lady Amy di persona – replicò Margaret, indicando la giovane, che si nascose dietro i lunghi capelli biondo cenere e si allontanò, con passo sconsolato.
- Credete che sir Henry sia semplicemente infatuato?
- Quello che penso, è che voi lo conosciate meglio di me. Io non gli interesso e lui non interessa a me, di questo potete esserne certa – fece una smorfia. Catherine aprì il libro che aveva in grembo, aggrondata.

 

La camera della Regina era piccola e affollata, mancava l’aria.
Elizabeth era inquieta, torturava un fazzoletto sbiadito, ogni tanto colpiva una delle dame con uno schiaffo, oppure rimproverava aspramente i consiglieri che avevano l’ardire di varcare la soglia.
Solo William Cecil era indenne da questi scoppi d’ira: era stato lui a raccontare che la Regina aveva di nuovo la febbre, in modo da scoraggiare eventuali approcci e convincere la cugina scozzese che non aveva né la forza, né la possibilità di ardire complotti e trame contro di lei.
Invece lei rimaneva rinserrata nei suoi appartamenti, torturata dall’ansia, circondata dalle dame e da una cospicua guardia armata.
Era ovvio che, in quest’atmosfera, i cattivi pensieri potessero germogliare come gemme a primavera.
- Lady Catherine, perché non parlate?
- Lady Catherine, è vero che lord Sidney vi ha giurato eterno amore?
- Milady, perché siete così pallida?
- State bene? Siete per caso…
Impazziva, pensando anche ai pericoli che correvano Arthur ed Henry, a Nord.
Passò quasi una settimana, prima che arrivasse un messaggero.

 

***

 

- Lord Arthur Cecil mi manda a dirvi che hanno raggiunto la guarnigione di Berwick e che non potrà mandarvi altri messaggi finché non oltrepasserà nuovamente il confine inglese. Vi dice anche di non preoccuparvi, perché non esiste “un solo dannatissimo scozzese che possa impedirmi di andarmene a gozzovigliare in un pub di Londra”, sue precise parole.
- Non si smentisce mai. Grazie, milord… qualcuno lo accompagni e gli dia cibo e bevande!
Elizabeth abbandonò la stanza, prontamente seguita da Catherine, che sapeva di doverla seguire.
- Sembrate angustiata, eppure lord Pembroke è assolutamente convinto di potervi compiacere senza che accada nulla di irreparabile… - tentò di rassicurarla posandole una mano sull’avambraccio, ma lei la fece scostare con uno schiaffo. Era la prima volta che la trattava in maniera tanto sgarbata, capì che, forse per la prima volta, era davvero sconvolta e preoccupata.
- Cosa posso fare per rendervi meno amara quest’inezia? – la domanda era retorica.
- In cucina lavora uno scozzese che ha nome Harry… lo rammentate? Ha partecipato… - perse la voce, lo sguardo smarrito che vagava oltre il vetro della finestra, per appuntarsi sul cielo nuvoloso.
- L’ho conosciuto, Vostra Grazia – disse Catherine, nella speranza di farla tornare alla questione.
- Davvero? Comunque sia, andate da lui e ditegli di far preparare tre cavalli: il mio e altri due tra i più giovani e freschi per voi e per lui. Ditegli anche di prendere con sé delle armi, sarà la mia unica scorta.
Catherine era incredula: ciò che le stava dicendo la Regina era pericoloso e irragionevole.
- Ma Vostra Maestà… perché dovrà far sellare i cavalli?
- Dovremo andare incontro ad Arthur… ci sposteremo a Pontefract, in gran segreto.
- Qualcuno potrebbe scoprire che viaggiate con un solo uomo a proteggervi, e allora…
Elizabeth sospirò, irritata. – Il castello di Pontefract è governato da un uomo di incrollabile lealtà – disse a denti stretti; la ragazza capì di essersi spinta troppo oltre. Scusandosi, si inchinò e si apprestò a raggiungere Harry, per riferirgli il penoso messaggio.

 

***

 

In cielo si addensavano nuvole opache e pesanti, che gettavano la galleria che stava percorrendo in una deprimente penombra. Catherine camminava velocemente, la fronte aggrottata: un'altra piccola scala e sarebbe arrivata alle cucine.
Un primo lampo si riflesse sul pavimento in legno, cogliendola di sorpresa.
Si fermò un attimo, tendendo l’orecchio per sentire il tuono, invece dall’esterno arrivarono voci alte e concitate, tra cui risaltava quella acuta e stentorea del Marchese di Pembroke. Il cuore cominciò a batterle forte e dovette appoggiarsi ad una bassa credenza, prima che le gambe cedessero; erano già tornati!
Con il cuore in gola si avventò sul chiavistello della porta più vicina, la spalancò e corse nel cortile polveroso; ebbe appena il tempo di notare che non c’era nessun cavallo, nessun Marchese, che il lampo le entrò negli occhi, riflettendosi nelle iridi cristalline, per farle guardare un altro cielo cupo e pregno di pioggia.
Lontano, a Nord. In Scozia.

 

***

 

Il tuono riecheggiò nelle orecchie di Catherine, che scoprì di essere carponi, assistita da lady Margaret e lady Kat Ashley, madida di sudore e pioggia. Le due donne le avevano coperto le spalle con uno scialle.
- Cos’avete visto? – Kat la scosse, facendole ondeggiare la testa avanti e indietro.
- Hanno… hanno il cardo… Arthur è ferito, ma ce la faranno – rispose, serrando gli occhi.
La pioggia le scorreva lungo le tempie, ma pur consapevole che raccontare cos’aveva visto l’avrebbe liberata dall’incubo della visione non disse nulla: ad Elizabeth sarebbe importato solo di Arthur.
- Ne siete sicura? Non vi condurrò dalla Regina finché non ne sarete certa! – gridò Kat, mentre le sue labbra tremavano.
Cercò l’appoggio di lady Margaret, ma gli occhi marroni della donna erano freddi: - Ha ragione.
Come poteva spiegare loro che non sapeva nemmeno cosa temeva di più, se l’innegabile sofferenza fisica di ricercare una visione o la consapevolezza che quello che avrebbe visto…
- No, io non posso – gemette, ma le due donne la fissarono prive di pietà.
Lady Margaret le asciugò il naso con un fazzoletto: - Provateci, milady. È il vostro compito.
Catherine alzò la testa, fissando il vuoto ad occhi sbarrati; come una fiammella nella notte, cercava qualcosa che forse non avrebbe mai visto, mentre il dolore nella sua testa aumentava, diventava nausea e debolezza e febbre.
Uno schiocco nelle orecchie.
Una luce negli occhi.

Fili d’erba contro un lato del volto, il cielo blu e giallastro… le ciglia si avvicinano, s’intrecciano.
Inspirò pesantemente, inarcando la schiena; le mani tremavano come quelle di un vecchio.
- Cosa sta succedendo?
Era la voce di Harry, che la studiava da sopra le spalle di lady Kat.
Lo guardò, stolidamente stupita dalla sua aria preoccupata.
- Cos’avete visto? Stanno davvero tornando a casa?
- Henry è morto.

 

***

 

Elizabeth spostò lo sguardo dalla sua vecchia governante a lady Margaret a Harry, che sosteneva Catherine in modo da non farla crollare al suolo. Lei non riuscì a ricambiare lo sguardo, assomigliava ad un piccolo cumulo di indumenti fradici, sotto cui solo per caso era finita una ragazza. Piangeva.
- Cos’è successo? – domandò in tono ragionevole, rivolta a lei.
A parlare, però, fu lady Margaret.
- Lady Catherine non è in grado di rispondervi, Vostra Grazia; l’abbiamo costretta a forzare…
- Cos’ha visto? – la interruppe la sovrana. Ci fu un attimo di penoso silenzio.
- Lady Catherine ha detto di aver visto lord Pembroke e gli altri che fuggivano attraverso i monti scozzesi… ma sono stati raggiunti da un certo William…
- Wallace – la corresse Elizabeth, piccata.
- Wallace. Ha visto che Arthur è stato ferito ad una gamba, altri uomini uccisi dagli scozzesi, e stava per essere assassinato anche lui, quando gli altri soldati sono intervenuti per proteggerlo. Sono riusciti a farlo salire su un cavallo, però… - lanciò un’occhiata indecisa a Catherine, che si afflosciò ancora di più contro il fianco di Harry. Sospirò, come per darsi la forza di continuare: - Dice che lord Sidney è stato ucciso nel confronto.
Elizabeth sgranò gli occhi e proprio allora Catherine emise un lungo gemito, coprendosi il volto con le mani, e si afflosciò tra le braccia dello scozzese, che riuscì a reggerla senza grandi difficoltà.
- Che Dio abbia pietà delle loro anime – sussurrò la sovrana e si fece il segno della croce. Poi si rivolse a lady Margaret: - Conducete Harry alla stanza di lady Catherine, così che possa riposare. Solo il Signore sa quanto ne abbia bisogno, ora.

 

Harry stese la damigella sul letto, ancora vestita e fradicia.
- Credete che risentirà di tutto questo? – domandò. Lady Margaret faticò a nascondere il nervosismo.
- Nessuno è così forte da sopportare un patimento del genere senza vacillare nemmeno un attimo.
- Mi dispiace così tanto per lei.
Lady Margaret le stese sopra una coperta, dopo averle tolto almeno le scarpe e le calze.
- Potete passarmi quella salvietta, per favore? – le asciugò il viso e la fronte.
Harry rimase in piedi accanto al letto per qualche minuto, prima di ricordare che aveva molti compiti da assolvere. Si congedò e lasciò sole le due donne: - Se n’è andato?
- Siete già sveglia? – Catherine socchiuse le palpebre.
- Non riuscirò a dormire a lungo, temo – sorrise debolmente.
- Posso fare qualcosa per alleviare la vostra sofferenza?
La dama chiuse di nuovo gli occhi. – Infusi di melissa e lavanda. Mi aiutano a combattere l’insonnia.
Lady Margaret le accarezzò la fronte: - Potreste aver sbagliato, o visto qualcosa di incompleto.
- Mi piacerebbe così tanto aver sbagliato.

 

***

 

Il forte di Berwick apparve all’orizzonte, lucido sotto il pallido sole.
Arthur poteva vedere già gli uomini che si affaccendavano sulle mura; sentì un sorriso nascergli sul viso, nonostante i muscoli induriti dalla fatica e dal dolore; il ginocchio mandava fitte violente ad ogni sobbalzo del cavallo, ma non aveva intenzione di fermarsi.
Sperò che Elizabeth avesse deciso di muoversi verso Pontefract: il messaggio in codice doveva essere arrivato già da qualche giorno. Si guardò alle spalle per assicurarsi di non essere seguito da alcuno; solo i suoi uomini lo tallonavano, i loro cavalli non erano prestanti quanto il suo.
- Mi spiace, Hermes – ne accarezzò il collo caldo e sudaticcio e lui scosse il muso coperto di bava, poi affondò le caviglie nei suoi fianchi, costringendolo a galoppare a rotta di collo lungo il pendio erboso.
- Ha! Ha! – anche gli altri cavalieri seguirono il suo esempio, diretti al confine inglese.

 

***

 

Wallace colpì il muro con la mano, trattenendo a stento le lacrime.
- Maledizione! Maledizione! Perfino nel morire riuscite a trascinarmi nel vostro fango.
- Cosa vai dicendo? – Mary gli accarezzò le guance umide di pianto. Wallace scosse il capo.
- Sono riusciti a portarsi via il mio cardo più bello… non sono riuscito a far altro che uccidere un soldato, sono venuto meno al mio giuramento e adesso dovrò andare a Londra per affrontare mio cugino in duello! Come farò? Sono stato uno stupido, mi sono lasciato trascinare dalla soddisfazione.
Mary lo strinse a sé, lasciando che le inzuppasse il colletto dell’abito con la sua disperazione.
- Non andrete… starete qui con me – promise, passando le dita tra i suoi capelli sanguigni.
Wallace negò. – Cose tremende usciranno dal ventre della terra e pioveranno dal cielo se non manterrò la mia promessa; orribili calamità colpiranno la Scozia, è dunque mio compito impedirlo!
- Ma… potresti morire!
Le sorrise, accucciato sulle sue ginocchia come un bambino: - Non sarà un inglese a uccidermi.

 

***

 

Catherine era scivolata in un oblio lilla e giallo, deliziosamente sereno, quando sentì un tocco leggero, di piuma, sullo zigomo. Aprì gli occhi e vide che si trattava di Harry, vestito con un mantello di feltro.
- Perdonatemi, milady, ma Sua Grazia mi ha incaricato di svegliarvi e condurvi alle scuderie. Ci muoviamo per Pontefract e non ha intenzione di ritardare la partenza per consentirvi di assimilare la brutta notizia. Davvero, mi spiace.
Ancora intontita Catherine gettò da parte le coperte, tuffandosi nello spogliatoio; indossò un abito grigio tortora, robusto e comodo, confezionato apposta per eventuali viaggi invernali. Uscì.
Lo scozzese continuava a guardarla con aria preoccupata.
- Non temete, Harry – lo rassicurò, montando in sella – sto e starò bene fino a Pontefract.
Elizabeth l’attendeva in sella al suo castrato bianco, la bocca ridotta ad una cicatrice sottile.
- Oh, finalmente – si mise il cappuccio.
I tre, vestiti come semplici viandanti, oltrepassarono i cancelli di Richmond, i cavalli al passo.
Prima di sparire dalla vista delle sentinelle passarono al trotto, inoltrandosi nelle strade di campagna; qualche miglio dopo spronarono i cavalli al galoppo, con Elizabeth che conduceva il gruppo, il volto bianco come una maschera rivolto alla strada fangosa che scorreva sotto gli zoccoli del cavallo.

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Capitolo 9
*** Il signore di Pontefract ***


Saying this ain't the day that it ends
Cause there's no white light

(White light, George Michael)

 

Quando giunsero a Pontefract, il padrone del castello li attendeva sull’imponente scalinata d’ingresso.
Era bruno e attraente, ma meno raffinato degli aristocratici che frequentavano la corte.
Elizabeth smontò da cavallo con una piccola smorfia di insofferenza; l’uomo scese i gradini lisi e le baciò la mano.
- Sono anni che Vostra Grazia non mi fa visita – fece notare in tono secco.
Lei sbadigliò, leggermente accigliata da quell’irriverenza: - Sono qui solo perché è necessario.
- Non desidero infatti puntualizzare sulle motivazioni che vi hanno condotta qui.
- Allora tacete, lord Sidney.
Catherine, che stava a sua volta smontando da cavallo, per poco perse la presa.
Elizabeth si tolse il pesante mantello dalle spalle, rivelando un abito rosso e bianco.
- Entriamo – disse, spiccia, spingendo il nobiluomo oltre la porta. Catherine e Harry la seguirono.

 

Quando compresero la disposizione delle stanze e trovarono la Regina e il suo ospite, questi erano già seduti uno di fronte all’altra e chiacchieravano del più e del meno, e in apparenza non un pensiero segnava i lineamenti della Regina. Eppure, quando fece il suo ingresso – Harry era fuggito quando lei aveva aperto la porta – vide i suoi occhi scuri scattare nella sua direzione, ansiosi, prima di posarsi di nuovo sul suo interlocutore.
Andò a sedersi alle spalle della sovrana, muta.
Il signore di Pontefract la osservò con aria indecifrabile per una frazione di secondo, ma poi rivolse nuovamente la sua attenzione alla Regina: - Come vi invidio, Vostra Grazia!
- Come mai, milord? – Elizabeth sorrideva, sapeva già dove voleva arrivare.
- Tutte queste graziose fanciulle!
- Oh, siete davvero una persona terribile, proprio come… vostro fratello – Catherine alzò la testa: solo lei aveva avvertito quella minuscola esitazione? Quindi registrò le sue parole. Vostro fratello.
Sussultò. – Vostro fratello?
Elizabeth voltò appena il capo nella sua direzione, non abbastanza da guardarla direttamente.
- Sì, il nostro cortese ospite è Joaquin Sidney, signore di Pontefract e fratello di sir Henry.
- Sono onorata di fare la vostra conoscenza – disse a bassa voce, piegandosi in maniera che neppure il suo viso fosse visibile all’uomo; si posò le mani sullo stomaco, nel tentativo di frenare l’onda. Joaquin se ne accorse comunque, facendole desiderare di scomparire.
- State bene, milady?
Cercò di sorridere. – Sì, milord, grazie.
Guardò la nuca di Elizabeth, ma lei non si voltò a sincerarsi che stesse davvero bene.
- Milady… ciò che sto per fare vi addolorerà, vi avviso fin d’ora.
Joaquin sembrava interdetto e ne aveva ben donde. Catherine intuì cosa stava per accadere, così tuffò la mano in una manica, alla ricerca del fazzoletto di batista, incatenata dagli occhi castani dell’uomo.
- Milord, ho commesso l’errore di mandare vostro fratello in Scozia e là, per proteggere il suo comandante, è stato vilmente assassinato da uno scozzese.
Joaquin balzò in piedi, fissandola con occhi di brace, le narici dilatate; non disse nulla.
Poi guardò la dama con aria accusatoria.
Catherine si fece rossa in volto, le labbra lucide tese nella smorfia del pianto e serrò le palpebre, così che le ciglia nere scomparvero nella piega della pelle, ma non un suono uscì dalle sue labbra, eccezion fatta per un sibilo quasi inudibile.
- Henry? Morto?!
- Non rimarrà invendicato – promise Elizabeth, con voce glaciale, ancora seduta.
L’uomo si passò una mano sul viso, stancamente, dopodichè abbandonò la sala.

 

***

 

Aveva lasciato la guarnigione di Berwick qualche ora dopo il corriere che aveva inviato a Pontefract e da allora non si era più fermato: galoppava attraverso le campagne, evitando le città più popolose, il destriero andava molto più veloce di quanto si aspettasse, poiché le strade erano indurite dal gelo.
Perdette del tempo solo per controllare lo stato della sua gamba, i pantaloni fradici di sangue: continuava a provare dolore, ma non aveva ancora la febbre, perciò non doveva preoccuparsi.
Strinse più forte le redini, piegato sul collo dell’animale nonostante la schiena dolorante.
- Ve l’ho promesso, milady, di esservi accanto fino alla fine della vostra vita – sibilò.

 

***

 

- Vostra Maestà, questa è mia moglie: lady Eleanor Bainbridge.
La donna non era una bellezza; indossava un abito modesto, i capelli raccolti sotto una cuffia bianca, e gli occhi verdi che posò sulla Regina erano sciapi e fin troppo mansueti. Mostrò la dovuta deferenza a Elizabeth, poi tornò a sedersi accanto a Joaquin; Catherine vide che teneva la mano sulla sua.
- Oh, milady, questa è una dama di compagnia di Sua Grazia… lady Catherine.
Si sorrisero leggermente, prima di accomodarsi.
Il pranzo fu servito.

 

- Vostra Grazia, è appena arrivato un messaggero; viene da Berwick, dice che può parlare solo a voi!

 

- Perché non posso accompagnarvi?
- Perché io ve lo ordino! Non contradditemi, milady, o la vostra bella testa finirà con il consumarsi su un ponte di Londra! Seguite lady Bainbridge e non azzardatevi ad origliare, per i seni di sant’Agata!
Catherine si fermò in mezzo al passaggio, stringendo le labbra fino a farle sbiancare, mentre Elizabeth perdeva interesse per lei e si avviava a lunghi passi verso la stanzetta in cui era stato fatto accomodare il messo.
- Ma, Vostra Maestà…
La Regina allontanò la mano dalla maniglia della porta, cerea.
- Adesso basta! Smettete di importunarmi, sparite dalla mia vista! – pestò un piede a terra, ma poi dovette posarsi una mano sul petto e respirare a fondo per calmarsi e riprendere un po’ di colore.
Lady Ann Bainbridge l’attendeva in fondo alla galleria, ostentando un pudore quasi verginale.
- Venite, milady.
Senza dire nient’altro la condusse in una stanza riparata, senza finestre, e lì Catherine si sedette.

 

***

 

- Milord di Pembroke ha sostato al castello di Berwick per il tempo necessario a redigere questa lettera e fasciarsi la gamba ferita, prima di far sellare uno dei nostri migliori cavalli, così da poter giungere a sua volta a Pontefract.
- Quanto impiegherà? – domandò Elizabeth, srotolando il messaggio di Arthur.

Fate preparare una stanza ben riscaldata, un letto pulito e i migliori medici che si trovino a poca distanza da Pontefract. Tenete Harry e Catherine con voi.

- Sarà qui in poco meno di tre ore, se maltratterà l’animale come ha fatto fino ad ora.
Elizabeth strinse la lettera nel palmo, al fine di stropicciarla e renderla illeggibile.
Scordò perfino di salutare il messaggero.

 

- Preparate una stanza ben riscaldata, un letto pulito e chiamate il vostro medico.
Joaquin sembrò interdetto, ma non impiegò molto per riprendere il controllo e prometterle che avrebbe fatto quanto richiesto. Lady Eleanor non aprì bocca, ma uscì per chiamare il connestabile del palazzo.
- Mando a chiamare lady Catherine.
- No – la risposta di Elizabeth lo gelò – Lei non dovrà sapere nulla di quanto sta per accadere.
- Come Vostra Maestà desidera.

 

***

 

Bussarono alla porta: colpi veloci e sommessi.
Ann Bainbridge, sorella minore di Eleanor, mise da parte il lavoro di cucito con cui si stava intrattenendo da tempo per andare ad aprire, le guance rosse per l’emozione. Si sistemò i capelli.
- Che ci fate qui, milord?! Vi avevo detto di non venire!
- Non potevo farne a meno, Ann. Dovevo vedervi anche oggi – replicò una voce maschile, ansiosa; Ann si guardò fugacemente alle spalle, per controllare che la sua prigioniera non stesse origliando. Lei fece finta di nulla, gli occhi fissi sulle proprie mani e la propria gonna.
- Siete un pazzo – mormorò allora, allungando una mano nel riquadro scuro della porta.
- Non l’ho mai negato. Non ho mai rimpianto di esserlo.
Un attimo di silenzio, un sospiro affrettato da parte di Ann.
Catherine alzò appena lo sguardo.
- Comunque, cosa ci fate qui?
- Uhm, lord Sidney mi ha incaricato di preparare la camera in fondo al corridoio.
Un singulto sorpreso. – Come mai? – la fanciulla non sembrava preoccupata all’idea di non ottemperare ai suoi doveri di guardiana. Catherine mise da parte il lavoro di cucito e cominciò a spostarsi.
- Non saprei… Ralph del panificio ha detto che deve arrivare un nobiluomo da Nord, uno in fuga. Sciocchezze, a dire il vero, una storia inventata di sana pianta per mettersi in mostra tra la servitù.
Ann non ebbe il tempo di replicare alcunché, poiché Catherine l’afferrò per le spalle e la costrinse a spostarsi, dopodichè schivò l’uomo attonito sulla soglia e, sollevando le gonne, si lanciò in una folle corsa attraverso la galleria.   

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Capitolo 10
*** Magia ***


Fallen angel,
Tell me why
What is the reason,
The thorn in your eye?

(Angels, Within Temptation)

 

L’imponente portone era spalancato e la luce del tramonto vi entrava a fiotti.
Catherine sentì una mano invisibile, ma fortissima serrarle la gola mentre rallentava l’andatura; fissò la prima cosa che le capitò sotto gli occhi, ovvero la chioma lussureggiante di Elizabeth, ritta ed immobile sull’ultimo gradino come una sentinella, o una Dea pagana.
Poi, trattenendo il fiato in attesa del colpo finale, spostò il viso sull’uomo che saliva faticosamente la scalinata: capelli indorati dal sole, ma occhi di un verde cupo, Arthur zoppicava e guardava lei.
Ma lei, lei era fatalmente attratta dal fagotto che teneva tra le braccia forti: un mantello di feltro, sgualcito e macchiato di sangue e fango, quasi indurito dalla sporcizia e una mano grigia abbandonata tra le pieghe scure.
- Dio! oh Dio!
Lui si fermò di fronte a lei per un attimo, mentre le lacrime le inondavano le guance e il sangue colava in un rivolo sottile dall’angolo della bocca, essendosi morsa la lingua durante la corsa. Dentro di lei nacque il desiderio di bestemmiare e di farsi uccidere da Dio nel medesimo istante, perché era tremendo che Henry fosse morto e che Arthur le avesse portato, memento mori, il suo corpo.

 

***

 

Lo cercò nei meandri più oscuri e vuoti del castello, chiamandolo a gran voce.
- Arthur! Arthur! Arthur! – trovò la stanza che era stata preparata per lui solo perché ne vide uscire una fila impressionanti di luminari della medicina, che borbottavano e scuotevano la testa con aria irata.
- Farci trattare così!
Li schivò ed entrò nella stanza. In un angolo un braciere mandava una luce calda, mentre Arthur si affannava a raccogliere oggetti in giro per la camera, zoppicando vistosamente. – Entrate, milady.
Dietro di lui c’era un letto, ai piedi del letto un mucchio di stoffa lercia che lei riconobbe subito.
- Catherine, avvicinatevi. Guardatelo – le sussurrò con voce morbida, ancora mosso da quella frenesia innaturale. Lei deglutì e si portò accanto al letto; allora, il suo cuore prese un ritmo irregolare.
Lui giaceva sotto le coperte di lana, ottenebrato dalla febbre alta che gli coloriva orribilmente le guance, ma il viso era sfatto e la pelle grigia e sudata: gli occhi contornati da pesanti occhiaie, le palpebre per metà abbassate.
Arthur l’affiancò e scostò le lenzuola, rivelando una ferita sporca e infiammata.
- I medici non possono fare più niente – le disse a bassa voce. Lei tremò.
- Voi potreste aiutarmi, solo se giurate che non mi fermerete, qualunque cosa io faccia.
- Lo giuro – rispose subito Catherine. Arthur annuì gravemente e posò una mano sulla ferita di Henry; Catherine faticò a trattenere un conato di vomito: c’era carne gonfia e pus e acqua giallastra.
- No, no. Guardatemi. Dovete guardarmi, perché guarisca. Ho bisogno di sentire la Magia che scorre tra noi… - lei distolse lo sguardo dagli occhi opachi di Henry (era solo una sua idea, o vi ballava un bagliore verde?) e lo rivolse, a malincuore, al Marchese.
- Lord Henry Sidney – scandì lui con voce tonante – la Magia può salvarvi. Rivelate dunque, sinceramente, che credete in questa Magia che scorre nei nostri due corpi?
- Non può rispondervi – disse Catherine, osservando il modo irregolare in cui il suo petto si sollevava.
- Ma lo farà -  e così dicendo Arthur premette la mano contro la ferita: del sangue gli schizzò tra le dita ed Henry inspirò violentemente, rivolgendogli gli occhi stralunati. Il Marchese di Pembroke ripeté la domanda e lui annuì.
- Adesso potete udirmi – continuò Arthur – e mi direte se volete essere salvato!
- Vi pre… go… - Henry chiuse gli occhi di nuovo.
- Parlate! La vostra vita dipende dalle vostre risposte! – ruggì l’altro e affondò le dita nella carne, senza alcuna pietà. Catherine provò l’impulso di fermarlo, ma era trattenuta in quella posizione da una forza incredibile, che le schiacciava le spalle e le appesantiva le gambe.
Si rese conto che non avrebbe potuto far niente per fermare la pazzia di Arthur.
Henry gemette, il pomo d’Adamo che andava su e giù nei singulti, le lacrime gli scorrevano sulle tempie e la schiena si inarcava, nel tentativo disperato di sottrarsi a quella lenta tortura. – Io… voglio… ah!
Arthur l’afferrò per i capelli, rabbioso. – Parlate! – tuonò.
- Vi prego, milord… farò tutto quel che volete, ma non fatelo soffrire così!
- Taci, Catherine!
- Vi prego, milord. Vi prego! – giunse le mani tremanti davanti al volto.
Le sembrava ormai chiaro che l’agonia di Henry era giunta al termine: la sua resistenza era minima. Secondo lei, non poteva neppure più comprendere gli ordini e gli improperi lanciategli da Arthur.
Alla fine, emettendo quello che pareva un sospiro affranto, lui rantolò: - Sì – e si afflosciò contro il cuscino.

 

- Sapete molto di me, milady?
Catherine negò.
- Allora, sarà meglio che vi racconti la verità, non una delle solite fuorvianti bugie. E continuate a guardarmi. Sono nato nell’anno del Signore millequarantacinque, di modo che nel millesessantasei, l’anno in cui giunse Guglielmo il Conquistatore avevo venticinque anni… ma, per una serie di eventi a cui nemmeno una persona come voi crederebbe, acquisii un potere… - si perse nei ricordi per un attimo, poi tornò a sorriderle – Non c’è più bisogno di tremare, starà bene. Avete la mia parola.
Lei si lasciò massaggiare le spalle, ancora scossa da quanto era appena accaduto.
- Capita spesso di sentirsi deboli dopo uno spreco di magia – continuò lui.
- Pensavo che l’aveste ucciso.
- Un pensiero logico; ma sta bene, milady. Henry sta bene.
Si coprì gli occhi con le mani, sentendo ancora le ginocchia deboli per il terrore.
- Siete un mostro ed un eretico – affermò meccanicamente. Lui rise allegramente.
Si alzò, poggiandosi ad un bastone intagliato: - Farò portare dell’ulmaria per la febbre.
Con la sua andatura irregolare, raggiunse la porta, prima che lei lo trattenesse.
- Milord?
Arthur si voltò, incuriosito.
Catherine indugiò, temendo di essere troppo indiscreta con le sue parole.
- Quello che mi avete raccontato era una… fuorviante bugia?
Il Marchese sorrise.
- Milady, queste sono domande assurde, che non dovreste porvi.
- Ma…
- Ascoltate le parole dei giullari, celano più verità di quanto crediate.

 

***

La pergamena su cui stava scrivendo slittò sotto la penna e svolazzò in alto.
- Umilmente e affranta vi scrivo, Vostra Santità, affinché possiate dispensare il mio amato e buon suddito… dall’ombra di un omicidio assolutamente involontario, perpetrato nel nome della giusta dottrina… dispensarlo da un orribile duello, ovviamente voluto da un eret e qui si interrompe la vostra commovente missiva per il Santo Padre – concluse Wallace, irrisorio.
Mary arrossì e tentò di strappargli il foglio dalle mani, cosa peraltro non impossibile per una donna della sua altezza, ma lui lo nascose sotto il farsetto. La Regina lo afferrò per la gola con le mani delicate.
- Vi chiuderò nelle segrete come un volgarissimo criminale, se tenterete di andare in Inghilterra!
- Mi minacciate, Vostra Grazia! Mi minacciate! – Wallace rise crudelmente, premendosi una mano sul petto, come a simulare un mancamento, ed emise un sospiro svenevole.

***

Harry vergò le prime parole con tratti incerti e, in una certa misura, reticenti.
- Non posso farlo, milord. Non posso.
Arthur spostò la gamba ferita con una smorfia, per avvicinarsi a lui.
- Harry… da quanti anni lavorate a corte?
- Non so che risposta vogliate, milord.
Il Marchese intinse la penna nel calamaio, fece asciugare l’inchiostro eccedente e gliela passò di nuovo. Non aveva la solita espressione supponente, né lo apostrofò con parole crude e insofferenti.
Harry indicò il ginocchio rigido dell’uomo e il bastone intarsiato con cui camminava.
- E come farete, quando Wallace giungerà ad affrontarvi?
Arthur sospirò.
- In qualche modo ce la farò.
- Allora, trovate consono quanto ho scritto? Nella giornata di ieri milord il Marchese è tornato dalla missione che l’aveva impegnato; poiché mi è stato ingiunto di partire con la Regina, mi trovavo nelle scuderie di Pontefract, quando mi è stato affidato il cavallo del Marchese.

Ora egli se ne va in giro proclamando a gran voce un duello imminente, e sia lui che la Regina si mostrano assai dispiaciuti nei confronti del signore di Pontefract, che ha visto arrivare in un feretro improvvisato il corpo del fratello.
- Non potevate fare di meglio, Harry. Adesso potete spedirla di nascosto, sperando che io o uno dei miei agenti la intercetti prima che raggiunga Edimburgo – scherzò Arthur.
- Ho una sola domanda, milord!
- Ditemi pure, vi ascolto.
- Pensate di uccidere vostro cugino come se nulla fosse?
Arthur finse di rifletterci. Poi disse, serio: - Farò quello che Dio comanda.

***

 

- Non hai mai fatto richieste in merito alla dote di nostra madre – osservò Joaquin, spiccio.
Henry sollevò a fatica la testa dal cuscino: era ancora debilitato dalla febbre.
Lady Eleanor gli rivolse un’occhiata di glaciale rimprovero e lo stesso fece suo fratello. – Sta’ giù.
- Non ho più sette anni e soprattutto non ho più la febbre – osservò Henry, stizzito. I due non gli prestarono la benché minima attenzione: Joaquin svolse il minuscolo pacchetto che aveva portato e lady Eleanor gli versò un’altra coppa di vino annacquato.
- Trattala bene – commentò mettendogliela in mano; la spilla era grande, le perle e il grande cuore di lapislazzuli che la decoravano emettevano un bagliore delicatissimo. Henry ricordava molte occasioni in cui aveva potuto ammirarla, appuntata sul petto di sua madre.
- Meravigliosa – soffiò, sfiorandola appena con la punta delle dita.
Lady Eleanor scoppiò in una risata argentina: - Quando Joaquin me la mostrò, credo che avrei potuto praticare un buco nel legno della scatola per l’ardore e l’intensità con cui desideravo che quella spilla fosse mia. È una fortuna che mi abbia detto che era parte della vostra eredità – scosse benevolmente il capo, come se quanto era accaduto non più di cinque anni prima facesse parte di un passato tanto remoto che non valeva la pena rivangarlo.
- Volete che faccia venire qui lady Catherine? – continuò compita, lisciandosi la gonna marrone.
Henry scosse la testa. – Non sono nemmeno in grado di star seduto – mormorò – non è il momento.

 

***

 

- Milady? Milord Henry mi ha incaricato di riferirvi che si sente molto meglio e desidera godere della vostra compagnia il prima possibile – Catherine fissò lady Ann, che appariva sconvolta quanto si sentiva lei, intimamente. Mise da parte i dolcetti che stava piluccando nell’attesa che Sua Maestà uscisse dalla stanza in cui si era rinchiusa assieme ad Arthur, con gli occhi scuri che lampeggiavano di stizza.
- Davvero? – sussurrò evitando il suo sguardo.
- Sì, milady. L’ho trovato molto ansioso – disse l’altra, in tono confidenziale.

 
- Mi volevate? – bussò piano sullo stipite. Henry, seduto allo scrittoio, le rivolse un sorriso abbacinante.
- Certo che vi volevo – rispose con voce suadente, battendo le nocche contro una scatolina di legno intagliato che stava tra loro.
Catherine raccolse un ricciolo scuro, che le era piovuto sulla tempia, e si sedette davanti a lui, abbastanza discosta da non poter essere toccata con facilità. Lui sembrò leggermente incupito.
- Perché mi volevate, milord?
- Per consegnarvi una cosa – Catherine sgranò gli occhi pallidi, le guance improvvisamente rosate.
Con un “clic” la serratura brunita della scatola scattò e il coperchio si sollevò; Henry la prese con due dita per lato e la sollevò completamente.
Lei trattenne bruscamente il fiato.
- Milord… io… non so cosa dire.
- Non è necessario che diciate nulla: poche cose al mondo sono belle e delicate come questa spilla – corrugò la fronte pallida, eppure non smise di sorridere – o come voi, milady.

 

***

 

- Gli amanti si donano anime e pegni d’amore. E voi, Arthur, portate guerra e oro.
Arthur chinò la testa, incassando quella stoccata in ammirevole silenzio.
Elizabeth rimase con lui, comunque, ad osservare gli ultimi bagliori sanguigni del tramonto.

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Capitolo 11
*** I farsetti ***


God, I can't be forgiven for this sin 
That I committed with these hands 

(Moonlit Bear, Mothy)

 

Le pietre inargentate dalla luna.
Le macchie scure, viola marrone rosso, brillii metallici.
I suoi infidi artigli contratti dall’ira, il sangue tra le dita.
Giù, giù, giù, fino a creare un’altra piccola macchia.
- Caino, la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! – la voce riecheggiò fino all’alto soffitto, mentre la sua gola sembrava dilaniarsi e i brandelli di carne volare fuori dalla sua bocca con il sangue.
- Caino, Caino, se sono Caino il ladro è Abele: è stato il primo a peccare! – picchiò i pugni feriti a terra.
Poi vennero i singulti, l’ardente speranza che qualcuno venisse a fermarlo; Abramo, Gesù Cristo, aveva bevuto troppo per potersi permettere simili paragoni biblici.
- Che la tua verminosa marionetta possa bere il veleno sulle tue labbra e insieme a te morire!
- Perché, odiosissimo cugino, non torni all’Inferno a cui ti hanno strappato?
Sputò sul pavimento lercio, colpì i bicchieri ai suoi piedi, asciugandosi il viso con una tovaglia sporca di vino. Lì soffocò gli ultimi accenni di pianto e paura infantile, poi la lasciò cadere in un mucchio opaco.
Afferrò la spada, posta sullo scranno, mentre si avviava verso l’uscita buia.
Gli uomini sulle mura salutarono con le armi sguainate l’uomo con la casacca blu e bianca.

 

Mary corse nel salone in camicia da notte, i lunghi capelli ramati che le ondeggiavano sulla schiena.
- Dov’è Wallace? Dov’è finito? – gridò ad alta voce, aggirandosi lungo il perimetro delle pareti come uno spettro, nella speranza che si fosse nascosto dietro gli arazzi, dove la luce della luna non arrivava.
Abbandonò la ricerca, dopo aver scostato i pesanti tendaggi con frenesia.
E sempre frettolosa, nervosa, il rosso labbro inferiore che tremava di paura, si mise a guardare il festino a terra: vino rosso, piccole macchie di sangue, la tovaglia accartocciata, posate e bicchieri sparpagliati ovunque.
- Allora, dov’è? – ripeté, impaziente. Con l’alluce nudo colpì un coltello. Si ferì.
- Vostra Maestà, vi siete fatta male! – ricacciò indietro la dama sollecita.
- Sì! e con ciò? Ho fatto una domanda. A tutti voi.
Il capo delle guardie si strinse nelle spalle: - Wallace è uscito dalla porta Sud ore fa.
- Non l’avete fermato?
- No, Vostra Grazia. Non ci è stato ordinato.
Se n’era andato, alla fine, se n’era andato lo stesso; anche se gli aveva ordinato di non farlo, anche se gli aveva promesso di trovare una soluzione, un’assoluzione… fece un mezzo sorriso.
- Uscite tutti, per favore.
- Vostra Grazia, io non credo…
- Per favore, uscite – implorò e li congedò con un gesto stanco.
Voltando loro le spalle, attese immobile che abbandonassero la sala.
Poi portò una mano alla testa, di lato, affondando le corte unghie nel cuoio capelluto, trattenendo gemito di frustrazione, perché Wallace l’aveva abbandonata prima ancora che potesse salutarlo e trattenere nelle narici e nella memoria il suo profumo freddo.
E contorse la bocca come una bambina piangente.
- No, Wallace, non farlo, no, no…

 

***

 

- Sta venendo da me – annunciò Arthur, la testa rivolta verso la finestra.
Elizabeth sedeva nuda contro il vetro, la sua bellezza asciutta e inquieta divinizzata dalla luce fredda.
Uno scatto, un battito di ciglia opalescenti: - Come fai a saperlo?
- Non attenderebbe mai più di quanto non ha già fatto.
La Regina lo fissò con occhi brucianti. – Raccontami cos’è accaduto in Scozia – disse.
Arthur raccolse i pensieri.

 
- Conoscevo la casa di Wallace; sapevo che aveva un orto sul retro e che nel muro c’era una vecchia porticina che dava direttamente sul fianco della montagna. Dissi a metà del gruppo di aggirare il paese, senza farsi notare, e di attendere con i cavalli oltre quella porticina.
Presi con me i restanti soldati e forzai la serratura. La casa era vuota.
Uscimmo e trovammo il cardo, così tenero e vulnerabile, proprio in mezzo alla terra nera… fu così semplice prenderlo, che non pensai a quanto potesse essere vecchia quella porticina: in breve, fece un fracasso incredibile perché i cardini erano duri come pietre che scorrevano. Wallace era nella casa affianco e prima che potessimo scappare ci raggiunse con un drappello di guardie.
Allora… ci gettammo letteralmente fuori dalla porta, arrampicandoci sul monte, ma vidi che il contingente che doveva aspettarci non c’era, ancora. Sfoderai la spada, ma loro avevano gli archi e in un batter di ciglia gli uomini che avrebbero dovuto ubbidirmi, ma stavano fuggendo, caddero. Mio… cugino mi colpì al ginocchio, come puoi vedere. Mi sovrastò, deciso a strapparmi il cardo dalle mani e ad uccidermi, ma ebbe la malaugurata idea di insultarvi. Insultare voi! Come poté osare, quel vigliacco, insultare la mia Bess? E così lo colpii, volevo gettarlo indietro ed essere io ad affondare la spada fino all’elsa nella sua pancia!
Impazzivo dal dolore, quando vidi che aveva la freccia incoccata e puntata su di me… Dio, quanto mi odiò in quell’istante… arrivarono gli altri… sir Henry si piazzò davanti a me, di sua volontà, perché Wallace non potesse colpirmi! In effetti, lo fece ruzzolare ancora più in basso, sull’erba viscida, ma lui desiderava troppo uccidermi, era la prima volta da molto tempo che mi aveva in suo potere, e dimenticò di essere in precario equilibrio. Mi sentii così… quando vidi la corda vibrare sotto il braccio di Wallace ed ero su un cavallo grigio ed Henry sussultò, guardai le sue mani mentre lasciava andare le redini e quasi cadeva di sella.
Lo afferrai e lo portai via. Wallace non sbraitò più alcun ordine, né tentò di uccidermi.

 

- Era convinto di aver ucciso lord Sidney.
Arthur annuì. – Sì e lo crede ancora.
- Pensi di ucciderlo veramente?
- Non è affar mio se mi sfida a duello; anche se non ha infranto il giuramento, pur andandoci molto vicino, verrà pur sempre qui a Londra per uccidermi, non importa quale sia la motivazione. Io accetterò e ci batteremo… e Dio solo sa chi tra noi vincerà.
Elizabeth strinse le labbra, disapprovava quella linea di pensiero, ma lui non se ne curava.
In quel momento, non provava niente tranne quando Elizabeth, disinvolta, piegava il corpo perlaceo per prendere un’arancia e la sbucciava con le mani, sbeffeggiando l’etichetta cui avrebbe dovuto sottostare.
- Arthur, sembrate molto… felice – lo schernì.
- Felicissimo – con un sospiro rimarcò la sua leggera delusione per il ritorno alla forma di cortesia.
Elizabeth gli mandò un bacio, ironica, accavallando le gambe.
- Come va il vostro ginocchio?
- Meglio – ripose Arthur, laconico.
- Meglio non è sano.
- No, non lo è, ma sto abbastanza bene – scrollò le spalle.
La Regina gettò in un piatto vuoto le bucce d’arancia e si sporse ancora in avanti per scegliere qualcos’altro da mangiare; nel contempo si asciugò il mento e il labbro inferiore con il mento, in un gesto innocente ma, in maniera da lei imprescindibile, sensuale.
- Se lo state facendo a bella posta per me, sappiate che ci state riuscendo – gracchiò Arthur.
Elizabeth gli rivolse un’occhiata furbesca, infilandosi un bonbon in bocca.

 

***

 

Piangeva? Perché piangeva?
Si asciugò gli occhi con la manica dell’abito; avevano la stessa radice delle lacrime che gli riempivano gli occhi quand’era ancora un mocciosetto e qualcuno di più forte di lui lo zittiva e lo costringeva all’impotenza.
Auld Will doveva aver percepito la tensione del suo padrone, perché il suo galoppo era più rabbioso che mai; quando fosse sorto il sole, l’avrebbe portato a riposare nella macchia. Gli batté una mano sul collo.
- Non vogliamo che i Sassenach ci trovino, vero? – l’apostrofò. – Ormai il confine sarà lontano.
Percorrere le strade ed i sentieri che appartenevano a suo cugino gli diede un leggero brivido: era come se il calore della sua mano permeasse in quelle regioni, anzi, nell’Inghilterra tutta.
- Sei così piccola, sei così piccola Mary… per questo non ti ho detto nulla: sarai anche una grande Regina, ma ai miei occhi sei ancora così vulnerabile che non posso farti soffrire anzitempo…
Auld Will perse il ritmo, ma poi si spinse in avanti con impeto ancora maggiore.
- Non posso…

 

***

 

Herbert scoprì, con troppa ingenuità, il fianco sinistro e Arthur, gli occhi aperti come quelli di un falco, si allungò in avanti, la punta della spada già vicina al bersaglio.
Gli parve perfino di udire nelle orecchie lo strappo, là in basso: aprì la mano e la spada volò via, rimbalzando rumorosamente sul selciato. Arthur vacillò, guardò giù come se si aspettasse di vedere i pantaloni lacerati, cadde sul ginocchio destro: non osò piegare l’altro. Posò i palmi a terra.
- Rivelate la verità a Wallace, Arthur! – strepitò Elizabeth, dall’alto balcone.
Lui chinò la testa, evitando volutamente il suo sguardo ansioso e irato.
- No! Non lo farò! Preferisco morire per mano sua che rimandarlo a casa… furioso… pronto a tutto per spodestarvi e farvi uccidere come una qualunque delinquente. Potrei accettarlo? No. Guarirò – strinse i denti, zoppicante, strappò l’arma dalle mani di Herbert, che si ritrasse.
- Ancora. Avanti, Herbert, ancora! – si gettò su di lui.
- Ancora, ancora, ancora! – lo costrinse a indietreggiare, trascinando la gamba come uno storpio.
- Vedete, Vostra Grazia? Ce la farò comunque – esclamò, la punta della lama che ondeggiava a pochi centimetri dalla gola di Herbert, caduto supino. Aveva il volto pallido rivolto in alto, dove Elizabeth scosse la testa con un sospiro: - Qual è quella follia che vi fa comportare così?

 

***

 

- Questo andrà bene – il sarto annuì sbrigativamente, affannandosi per togliergli di dosso il modello.
- Sarà pronto in men che non si dica, milord! Davvero un buon gusto, milord, non sono molti i suoi pari che si compiacciono di tali tinte e tali tessuti, ma d’altronde voi siete un intenditore, non è vero, milord?
- Smettetela, per l’amor del Cielo! – ruggì Arthur, agitandogli un pugno davanti al volto.
Il sarto scappò nel retrobottega, accampando come scusa l’inettitudine dell’apprendista, e lasciò Arthur da solo con il proprio riflesso. Il riflesso di un cavaliere distinto, vestito con i colori dei Tudor, i lineamenti tanto alteri quanto aristocratici.

 

***

 

Wallace si spogliò e ripose gli abiti sul ramo di un albero.
Auld Will, scuro nella macchia scura, sbuffò e nitrì; il suo padrone si chinò sul ruscello, massaggiandosi con vigore le braccia striate di fango; poco dopo, gocciolante, condusse il cavallo ad abbeverarsi.
- Sì, direi che questo è un buon posto per passare la notte… abbastanza isolato, davvero.
Stese una coperta nel punto in cui il terreno era più regolare.
Era pronto ad addormentarsi, quando il farsetto penzolante attrasse la sua attenzione.
- Ti mancherò, quando Arthur mi avrà fatto a pezzetti? – commentò scherzosamente; il suo sorriso, però, vacillava e si disintegrò completamente quando mise mano alla spada per riporla al suo fianco.
- È giusta quella guerra che scaturisce da una scelta obbligata.

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Capitolo 12
*** Un inganno ha dato inizio a questa faida... ***


The Bell has been raised,
From it's watery grave...
Do you hear its sepulchral tone?

(Hoist the colours, Pirates of the Caribbean)

 

Uno scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Arthur, solo nella lizza di Westminster, meditava sulla spada che teneva in mano.
Uno scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Elizabeth congedò con aria annoiata Leicester e il suonatore di virginale che la stava intrattenendo.
Uno scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Wallace si asciugò i palmi sudati sui pantaloni e benedì la foschia che gli raffreddava il viso.
Uno scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Mary si strinse le braccia attorno al corpo, guardando smarrita la città di Edimburgo.
Conducete lo scozzese alla lizza di Westminster.

 

***

 

Wallace entrò nel recinto silenzioso, aguzzando la vista attraverso la nebbia fitta.
Il suo cavallo pareva nervoso, scuoteva la criniera e tendeva a indietreggiare.
- Arthur, dove sei? Fatti vedere! – gridò lo scozzese, l’arma in mano.
In alto, alla sua sinistra, un movimento, un fantasma vestito di grigio si mosse.
Rivolse gli occhi a quella figura: Elizabeth emerse dalla foschia, ma Wallace non diede particolare rilievo all’abito dalla profonda scollatura che indossava, né alla gorgiera che le serrava il collo magro, né tantomeno ai capelli acconciati secondo l’ultima moda.
No, la fissò negli occhi neri come quelli di uno spettro.
A suo modo, dovette ammettere a se stesso, la Regina d’Inghilterra e Irlanda aveva un portamento ed uno charme molto più sottile ed enigmatico della sua sovrana; ma non era lì per lei, e lei stessa non sembrava voler pronunciare una parola.
- Vostra Maestà – gridò allora – dov’è il vostro paladino? Arthur è troppo vigliacco per staccarsi dalle sottane della sua rossa giumenta? – sapeva che a quell’affronto Arthur non avrebbe saputo resistere.
Infatti, preceduto dal ticchettio degli zoccoli sui sassi, comparve davanti a lui, altero.
Wallace trattenne il cavallo nervoso e gli indirizzò un sorriso.
- Eccoti qua – sussurrò.
Arthur era totalmente silenzioso, evento rarissimo che capitava solo quando era troppo preso dalle sue emozioni per abbassarsi al gridare improperi; vide che estraeva la spada con un solo gesto fluido.
All’improvviso gli venne a mancare lo stimolo per affrontarlo: lui non era nel giusto, lui aveva rotto il patto, lui aveva ucciso un innocente.
- Oggi finirai di insultare la mia signora.
Finalmente, delle parole. Il tono seccato e stentoreo della voce di Arthur lo aiutò, incredibilmente, a riemergere dalla sua tenebra di desolazione: gli ricordò quanto odiava quel ragazzetto così simile a lui.
- Se lo dici tu, cugino, non sei mai stato un bravo bugiardo.
- Se lo dici tu – lo scimmiottò lui, dondolando la testa in maniera strana.
- Lo dico io – ringhiò, smontando da cavallo.
Stava per sorgere il sole e la luce giallastra diradò, almeno un poco, la nebbia fitta.
Odiò il gesto molle con cui Arthur fece lo stesso, abbandonando il suo cavallo grigio dopo una pacca rilassata, e si fece avanti nel grande spazio vuoto. Sentì la gola seccarsi senza un buon motivo.

Facciamolo, Arthur, non si sa mai: magari la Divina Provvidenza ucciderà te.
Arthur venne verso di lui, lentamente, il braccio che reggeva la spada abbandonato lungo il fianco, finché lui non riuscì a distinguere le sue iridi verde brillante; allora, senza curarsi di lui, suo cugino voltò la testa a destra, invitandolo a fare altrettanto.
Ubbidì. I suoi occhi passarono senza intoppi sul viso pallido della damina che li fissava, dietro una recinzione, ma si soffermarono a lungo sull’uomo che l’accompagnava, una mano sulla sua spalla.
- No! Non può essere lui – sbottò, ma quel viso attraente e aggrondato l’aveva stampato in testa: a dispetto delle sue parole, sapeva che era il soldato che credeva di aver ucciso.
Tornò a fronteggiare il Marchese di Pembroke.
- Tu…
Arthur fece un gesto strano, alzando il braccio sinistro con una certa rigidità; forse era ferito, o tentava di fargli un cenno in particola… Bang. Continuò a fissare il cugino e la cosa che teneva in mano, che ora esalava un rivolo di fumo perlaceo che volava via, nell’aria mattutina.
- Mi hai ingannato – urlò.
- Sì, un inganno ha dato inizio a tutto questo, un inganno l’ha terminato – replicò l’altro, atono.
Sentì il sangue colargli lungo il braccio, la mano aprirsi contro la sua volontà: la spada cadde.
- Arthur, tu… - bang. Cominciò a indietreggiare, tentando di sfuggire alla sua mira terribilmente precisa. Ci provò, quantomeno, perché un attimo dopo le gambe cominciarono a tremare e cadde in ginocchio, le dita immobili che sfioravano il terriccio. Chiuse gli occhi.
Stava perdendo la sensibilità al braccio, come presto avrebbe perso i sensi e la vita.
- No! No! Johann, presto! – la voce di Arthur sembrò impaziente, perfino preoccupata.
Sentì che gli sollevava le braccia ferite, le avvolgeva con bende morbide, ma non poteva crederci.
- Per… - biascicò, confuso.
- Taci, per l’amor di Dio, stupido che non sei altro!
- Ma perché… perché mi hai ingannato? Perché non mi uccidi? – domandò, sembrando, contro la sua volontà, fin troppo lagnoso e arrendevole. Arthur non replicò, dopo aver emesso un singulto stizzito.
Lo sollevarono, facendolo protestare per il dolore.
- Mastro Ravenclaw, avvicinatevi: il lupo è addomesticato.
Wallace si trovò davanti un ometto basso, magro, con i capelli e i baffi biondicci e gli occhi di un azzurro slavato: quello sostenne il suo sguardo per una frazione di secondo, poi cominciò a tratteggiare qualcosa sul mucchio di fogli che stringeva nella mano sinistra, come se nulla lo interessasse di più.
- Ho fatto, milord.
Arthur rivolse un cenno ai suoi aguzzini e quelli lo trascinarono al suo cavallo.
- Scortatelo fino in Scozia, dove potrà ricongiungersi con la sua adorata bimbetta! – lo prese in giro.
- Lasciatemi! Io devo ammazzare quel verme…
- Nessuno dovrà dire alcunché di sgradevole sulla mia signora, Wallace. Soprattutto tu.
Volse un’ultima occhiata a Elizabeth, colpito dal suo viso bianco e delizioso come un chicco di riso; lei sospirò e disse, con voce squillante: - Così si conclude questa storia.

 

***

 

Paul Ravenclaw si inginocchiò davanti al trono.
- Oh, Arthur, non vedete come lo spaventate? – scherzò Elizabeth, rivolgendo un cenno di finto rimprovero al suo cortigiano. Lui si strinse nelle spalle, impassibile, prima di allontanarsi da lui.
Il pittore sgusciò fuori dalla stanza delle udienze.
- Lady Catherine disattende diversi suoi impegni, mi pare.
- Sì, le ho concesso qualche giorno per… scherzare in compagnia di lord Sidney.
Arthur si sedette su uno sgabello, accanto a lei. – Siete stata straordinariamente generosa.
- Grazie, Arthur – Elizabeth sorrise gentilmente e gli sfiorò una guancia con la punta delle dita.

 

Catherine era cieca.
Per la prima volta, era cieca e poteva sperare di dormire sonni tranquilli.
Nella superficie lucida dello specchio, poteva sprofondare nelle proprie iridi in tutta tranquillità: in quel mare celeste non c’erano più ombre di disgrazie future, poteva respirare e tornare negli appartamenti reali con il cuore pulito.
La vita di corte avrebbe ricominciato a scorrere.

 

***

 

- Vostra Grazia, ci sono tre messi inglesi che vi chiedono udienza!
Mary voltò la testa di scatto, come un serpente, si rassettò i pizzi della veste e li invitò ad entrare, talmente nervosa da non poggiare quasi la schiena contro la spalliera dello scranno imbottito.
- Sua Maestà, la giustamente somma, giustamente potente e giustamente temibile Elizabeth I, Regina d’Inghilterra ed Irlanda, porge i suoi omaggi alla sua nobilissima cugina Mary, sovrana di Scozia e delle Isole – esordì il primo messo, con voce brillante.
Lei accettò quelle formalità con un cenno del capo.
- Sua Maestà si augura che Vostra Grazia apprezzerà e comprenderà quale grandissima pietà si cela dietro la sua volontà di farvi un dono che spera sarà graditissimo ai vostri occhi – aggiunse il secondo messo, mostrandole una pergamena sigillata che teneva nel palmo della mano.
- Datemela – ordinò Mary, perentoria.
Strappò il sigillo di ceralacca e la srotolò.

 

Cugina, i nostri legami di sangue e di predestinazione divina ci impediscono di attentare volgarmente alla Vostra vita. Desideriamo, tuttavia, che sappiate che questo singolare gesto di pietà non si ripeterà, essendo anche un chiaro invito a desistere dai vostri osceni propositi di uccisione. E dunque addio.

 

- Allora, qual è questo gesto di pietà su cui tanto vi soffermate? – sibilò, rossa e stravolta in viso dalla rabbia. Il primo messo fece un mezzo sorriso e le voltò le spalle per aprire la porta e far entrare due soldati semplici, che trainavano una gabbia smaltata d’oro.
Al suo interno, ringhiante e pallido per le ferite, stava Wallace: le braccia avvolte in due stracci sporchi di sangue, i polsi chiusi da ceppi. Nell’incontrare lo sguardo allibito della sua Regina, abbassò la testa.
- Sua Maestà si premura anche di avvertirvi che vi spedirà presto un dono che spera vi sia altrettanto gradito, affinché possiate ricordare qual è la posizione che dovete mantenere.
E mentre Mary arrossiva come uno scolaretto rimbeccato dal maestro, si congedarono.

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Capitolo 13
*** ... con un dipinto si conclude questo racconto ***


I used to roll the dice
Feel the fear in my enemy's eyes
Listen as the crowd would sing:
Now the old king is dead! Long live the king!

(Viva la vida, Coldplay)

 

Con la Londra elisabettiana sullo sfondo, tratteggiata in colori pallidi e tristi, i ritratti più che veritieri di Wallace, il Marchese di Pembroke, Elizabeth e Mary assumevano un’importanza straordinaria: benché i colori non fossero chiassosi e malamente accostati, in quelle figure c’era perfino una parvenza di vita.
Erano stati utilizzate lamina d’oro e polvere di smeraldi, non curandosi, il richiedente, di quanto sarebbero costati.
Quel dipinto, giunto alla sua corte assieme ad un biglietto vergato dallo stesso Marchese di Pembroke, era il segno tangibile della prima sconfitta della sovrana scozzese da parte della Regina d’Inghilterra.
Nell’appenderlo nell’angolo più buio e impolverato della sua stanza da letto, nel castello di Stirling, Mary Stuart sentì la gola bruciare, come quando, da bambina, tratteneva le lacrime per una percossa.
- Potete sempre distruggerlo – le aveva biascicato Wallace quando gliel’aveva mostrato; la donna sapeva che, se non fosse stato costretto a letto dalle ferite non ancora rimarginate, l’avrebbe allontanata con un balzo e l’avrebbe squarciato, foss’anche a mani nude.
Lei riteneva, invece, che fosse una maniera apprezzabile per ricordarsi, in futuro, di come aveva rischiato di perdere la dignità, un fido consigliere e forse anche il suo regno, per una vanità giovanile.
- Perché mai? Non m’interessa dell’egocentrismo di Elizabeth, quando dovrei concentrarmi su come governare al meglio il mio regno – aveva risposto, mantenendo una facciata cortese e distaccata.
Tirò la tenda e celò così al mondo il profilo sprezzante di sua cugina.

 

                                                                             ***                                                   

 

- Posso farvi una domanda? – domandò Henry, fissando il vino chiaro nel calice.
Catherine sorrise, inarcando un sopracciglio. Lui la guardò con le palpebre socchiuse, come un gatto.
- Quando vi siete innamorata di me? La prima volta che ci incontrammo mi guardaste con aria gentile, ma assolutamente disinteressata: i vostri occhi sembravano ghiaccio.
Le guance pallide di Catherine colorirono.
- Quella volta in cui… abbiamo partecipato entrambi ad una festa e voi siete venuto da me, chiedendomi di ballare. Temo proprio che abbiate fatalmente conquistato il mio cuore – scherzò.
- Perché? – insisté Henry.
- L’avete detto anche voi: anche coloro che non sanno nulla del mio potere mi stanno alla larga, mi temono, farebbero di tutto per evitarmi. È fastidioso e, per quanto le persone che avevo conosciuto fino ad allora fossero più o meno meschine e squallide, mi sentivo triste. Ma voi…
- Io? – le soffiò sul viso, prendendole la testa tra le mani lisce.
- Voi… - abbassò le palpebre, nella speranza che lui annullasse la leggerissima distanza tra loro.
- Io credo che voi siate molto bella e che non esista qualcuno di altrettanto attraente in tutto il mondo.
- Lady Mildred tenterà di avvelenarmi, quando saprà cosa avete detto.
Henry ridacchiò. – Non mi è mai piaciuta, non può che dolersi per questo!

 

***

 

- Finalmente! – Arthur rideva, da tempo non si sentiva così bene. Quasi un anno, in effetti.
D’altronde, come poteva rimanere serio e accigliato, quando Elizabeth sorrideva, distesa sotto di lui, attorcigliandosi un ciuffo di capelli rossi attorno all’indice delicato? Quando abbandonava la sua maschera arrogante e ciononostante seducente, quando metteva da parte i suoi schemi e la trama intricata di sentimenti e reazioni che propinava a chiunque si rapportasse con lei, la sua bellezza e la sua innocenza diventavano quasi infantili.
- Finalmente?                             
- Non sopporto di starvi lontano tanto a lungo.
Elizabeth fece una smorfia di finta ira. – Siete identico a tutti gli altri uomini: non desiderate che una sola cosa da noi povere donne: vi lascio immaginare cosa…
- Siete perfida, lo sapete? Ve ne rendete conto? – sibilò e abbassò il viso su di lei.
- Certo che me ne rendo conto, Arthur. Voi mi amate, perciò mi sento libera di poter scherzare con voi.
Arthur si avvicinò ancora di più alla sua bocca rosea: - E voi mi amate quanto vi amo io?
Elizabeth rise sulle sue labbra. – Ditelo ancora, Arthur! Ditemi che mi amate!
- Prima voi, non mi piace sprecare il mio amore per chi non lo corrisponde – mentì. Avrebbe sprecato il suo ingegno, avrebbe consumato la sua anima e il suo corpo per poter essere ammesso alla presenza della sua Bess.
- Anche io vi amo e mi fa impazzire che abbiate amato altre prima di me… e amerete chi mi succederà.
- La mia natura mi impedisce di fare altrimenti, ma qui – si sfiorò una tempia, con un sorriso velato di tristezza – rimarrà il nome non di vostra madre, né di vostra sorella: solo il vostro, nessun’altro.
Avrebbe potuto, e voluto, dire qualcosa di ancora più altisonante, ma Elizabeth impegnò la sua bocca con qualcosa di molto più tiepido e urgente.

 

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Capitolo 14
*** Epilogo: Il passato futuro ***



Questa dunque è la storia del dipinto 423B; è una storia vecchia e pochi la ricordano.
È anche Storia, ma non ci sono scritti o testimonianze di altra natura che possano chiarire eventuali punti oscuri; dopotutto, i fatti sono stati un poco romanzati. Ma che ne è stato di tutti i protagonisti di quel quadro?

                                                                                               

***

 

In my heart I know I can let go.
In the end I will find some peace inside.
New wings are growing tonight.

(The swan song, Within Temptation)

 

Elizabeth regnò sull’Inghilterra per molti anni ancora, fino a spegnersi agli albori del diciassettesimo secolo, dopo una vita straordinaria per durata e intensità. Nonostante la salute cagionevole e i sicari inviati nel tempo, riuscì a scongiurare un’invasione da parte della potenza spagnola e pose le basi per quello che, nei secoli a venire, sarebbe diventato l’Impero Britannico.
Non si sposò mai, anche se più volte si trovò sul punto di compiere quel passo.
L’età del suo regno verrà definita the Golden Age, l’Età dell’oro.

 

***

 

You're gone, gone, gone away, 
I watched you disappear. 
All that's left is a ghost of you. 
(Little talks, Of monsters and men)

 

Mary dovette fronteggiare, negli anni successivi agli eventi qui narrati, la crescente opposizione da parte del popolo e dei pari protestanti nei confronti di una Regina cattolica. Dopo due matrimoni tremendi, circondati da omicidi, ripicche, stupri e rapimenti, suo figlio James venne proclamato Re di Scozia, e il fratellastro di lei reggente in suo nome.
La Regina fuggì in Inghilterra, dove visse per molti anni come prigioniera della cugina, che ne ordinò, dopo diversi complotti, l’esecuzione. Morì nel castello di Fotheringhay nel 1587.

 

***

 

Most of my sweet memories were buried in the sand 
The fire and the pain will now be coming to an end 

(Wasteland, Woodkid)

 

Catherine ed Henry ottennero una dispensa regia per potersi sposare.
Lei continuò a servire la Regina nei momenti di pericolo, mentre lui fu promosso al ruolo di capitano delle guardie di palazzo. Ebbero una figlia, che succedette alla madre come damigella d’onore di Elizabeth negli ultimi anni di vita della sovrana.

 

***

 

This steady burst of snow is burning my hands.
I'm frozen to the bones, I am.
A million mile from home, I'm walking away.
I can't remind your eyes, your face.

(Iron, Woodkid)

 

Del Marchese di Pembroke, invece, si persero quasi completamente le tracce.
Dopo la morte di Elizabeth, che lo lasciò prostrato a lungo, tanto da tentare il suicidio, lasciò l’Inghilterra. L’ambasciatore italiano disse di aver ricevuto una lettera da un amico palermitano, in cui erano state raccolte i racconti che circolavano su un misterioso inglese, che era stato visto salire le pendici innevate dell’Etna; alla ricerca, si diceva, dell’anima della sua Regina, gettata là da Satana in persona. Altri, di ritorno dalle Americhe, parlarono della famigerata nave corsara Fair Bess, da cui arrivavano ai porti inglesi ingenti carichi di oro e pietre preziose, ma il suo capitano, da molti definito “il più elegante farabutto che abbia mai solcato i mari” non scese mai a terra, e molti lo ricordano come un giovane dai capelli biondi che si allontanava dal molo.

 

***

 

This world has only one sweet moment set aside for us
Who wants to live forever?
Who dares to love forever
When love must die?

(Who wants to live forever, Queen)

 

E Wallace?
Wallace prese il posto di Arthur, diventando l’amante e il consigliere di tutte le Regine succedutesi negli anni. Disse sempre di aver compreso il terribile senso di perdita di Arthur, e di averlo sostituito per quello; e per avergli risparmiato la vita.

Ma, se davvero voleste sapere qualcosa di più, perché non guardate bene l’uomo dai capelli rossi che vi ha condotto davanti al dipinto 423B?

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