Il volo del Corvo

di Balestra
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Il volo del Corvo

 

1

 

Pensavo di conoscere la disperazione; le celle fetide, oscure, senza luce. Giorni passati senza poter fare nulla, senza poter mangiare né bere. Senza poter sperare. Nella Howling Prison ti portano via tutto: i ricordi te li strappano via a forza, brutalmente; il corpo lo piegano a forza di lavori forzati e torture; la mente la consumano con sottili stratagemmi. Molti sono stati piegati senza problemi, anche i più duri: chiunque, alla fine, perde la voglia di vivere. Si diventa come marionette senza vita, senza scopo, che fanno tutto ciò che viene loro imposto in modo meccanico, passivo. Anche io, un tempo, ero come loro: ero sull'orlo del precipizio. La morte, in confronto a quella orrida vita, mi pareva una prospettiva allettante, quasi come un caldo abbraccio, una promessa di un lungo riposo che mi avrebbe sollevato da quell'impossibile esistenza di lungo dolore. Non ricordo nemmeno come ci sono arrivato, nella Howling Prison. So solo che, appena giunto lì, fui pervaso dal più grande terrore che potessi mai provare. Per giorni rimasi incatenato ad una parete, senza potermi muovere, inerme, nel buio più totale, lo stomaco corroso dai crampi della fame, la bocca pastosa per la mancanza d'acqua. Quando un carceriere si avvicinava, vicino alla mia porta, invocavo con forza la morte, supplicando. Ma nessuno mi rispondeva... ed era ancora peggio. Nessuno ti parlava, lì. Un altro tipo di tortura. Chiunque provasse a muovere anche solo la bocca, sarebbe stato punito... mai con la morte, ma con lunghe e dolorose torture. Non un sussurro, non un bisbiglio. Si rimaneva a pensare, da soli; ma prima o poi anche la mente crolla. C'era chi, impazzendo, e tentando di tenere vanamente lontano il dolore, si rinchiudeva in un mondo di completa fantasia, spesso bisbigliando tra sé e sé cose strane. Ogni tanto, però, le celle si facevano troppo piene, nella Howling Prison. Perciò, venivano ripulite periodicamente: ogni tanto, qualcuno veniva preso e portato via, verso una morte atroce, che consisteva in qualcosa di inumano: Rinchiudere un uomo in una gabbia piena di topi e, lentamente, scaldarla... le bestioline, tentando di scappare, lentamente, rosicchiano la carne finché non si arriva ad una morte talmente straziante da lasciare poco spazio all'immaginazione. A quel punto, neanche venire uccisi era più un sollievo, era solo la tortura finale, una delle meno sadiche, anche. Ricordo benissimo quando giunsi lì, in quell'inferno. Il battello a vapore era stracarico; corpi ammassati, sudici, tutti compressi in un unico, angusto spazio; fuori, in mare, si era scatenata una tempesta che faceva rollare continuamente la barca, in balia delle onde che la sbatacchiavano qua e là, rendendo la traversata una specie di preludio alle VERE torture. C'è chi vomitò, chi, invece, tentò malamente di suicidarsi e chi, invece, ci riuscì. Ricordo che uno, con grande inventiva, ingoiò una biglia di vetro, soffocando lì davanti a noi: il suo viso divenne, lentamente, blu, finché il suo petto smise di alzarsi e la sua bocca non mandò più gemiti strozzati; crollò a terra, semplicemente, come una marionetta a cui vengono tagliati i fili. Naturalmente nessuno si prese la briga di rimuovere il cadavere, lasciandolo lì, freddo ed inerte. Quando, infine, il battello attraccò i soldati ci spinsero fuori a suon di calci nel sedere, pungolandoci con le spade e sputandoci addosso insulti di ogni genere. Quando la vidi, incombeva su di noi: la prigione era costruita su un enorme spunzone di roccia a picco sul mare ed era qualcosa di DAVVERO mastodontico: una costruzione in freddi pietroni squadrati, dal quale si staccavano, come strane costole ricurve, dei torrioni, neri, appuntiti, che sembravano voler perforare il cielo notturno, coperto da giganteschi nuvoloni. Ci trascinarono, completamente fradici e disperati lungo una stretta stradina scavata nella roccia, una pista di capre, a strapiombo sugli scogli. E qui, almeno tre o quattro si lanciarono di sotto, gridando come disperati, lanciando urla inumane; quando incrociai lo sguardo di uno di loro, lo vidi colmo di terrore. Terrore cieco. Continuai a fissarlo, come in trance, finché non si perse nell'oscurità più totale. Continuammo la lenta ascesa senza ulteriori intoppi, ma sempre con il terrore che ci pervadeva; camminavamo meccanicamente, senza pensare, un passo dopo l'altro, tentando di non inciampare. Uno di noi scivolò su un sasso, cadendo sulla scarpata sottostante; aveva il braccio chiaramente spezzato, in una posizione innaturale. Gridava di dolore, implorava aiuto; una guardia, semplicemente, gli sparò. Lo prese in mezzo alla fronte, mentre lui invocava ancora aiuto, stringendosi disperatamente il braccio. Nessuno protestò, si indignò o parlò... nessuno ebbe alcuna reazione. Il mio cuore, ricordo, stava per scoppiare: avevo troppa paura. Un terrore cieco. Avrei voluto anche io suicidarmi, se solo ne avessi avuto le palle. Continuammo a salire, ancora ed ancora, senza che si vedesse la fine di quel sentiero; gemiti, parole sussurrate, scalpiccio, sassi che rotolavano. Infine, giungemmo alla base di quello che, da lì a poco, sarebbe stato il nostro personalissimo inferno, un luogo a cui eravamo condannati, dove la nostra vita sarebbe stata lentamente consumata, la speranza schiacciata, la nostra voglia di vivere spazzata via. “Moriremo tutti” era la sola cosa a cui riuscivo a pensare “Lentamente, dolorosamente, dopo una vita di torture. Ma moriremo”. L'enorme portale d'accesso era composto da un portone in freddo metallo che quando venne alzato, con un gran fracasso di catene arrugginite tese allo spasmo, rivelò una grossa grata; tirata su anche questa, fummo spinti in avanti, lungo il terreno fangoso, ad entrare in quella struttura costruita col sangue. Arrivati nel cortile, sempre sotto la pioggia, venimmo separati in vari gruppi; io finii con uno dei più nutriti che fu trascinato lungo una rampa di scale che sprofondava nelle viscere della terra. Faceva sempre più freddo, lì sotto, ed era sempre più umido. Infine, ci sbatterono in quelle celle, da soli. E lì, persi la cognizione nel tempo, stando nel buio. Svenni a più riprese. Invocai la morte. La mia mente, spesso, vacillò, dandomi illusioni che non volevo vedere. Quando la porta di ferro si aprì, cigolando, non sapevo quanto tempo era passato; pensavo solo che, finalmente, era giunta anche la mia ora. Ero contento, in un certo senso, di poterla finire lì. Mi trascinarono su per le scale, debole come ero. Tenevo gli occhi perennemente serrati, ogni sorta di luce era per me come dei piccoli aghi che mi penetravano nei bulbi. Non sapevo dove mi stavano portando, mi lasciavo semplicemente trascinare da loro verso una meta sconosciuta. Non mi accorsi che, lentamente, l'arredamento cambiava, passando dalle mura opprimenti e male illuminate ad un lusso inadeguato all'orrido lavoro che si svolgeva in quel luogo. Ricordo solo che aprirono una porta, sbattendomi malamente dentro, per poi richiudersela alle spalle; caddi in ginocchio, gli occhi che bruciavano come se vi avessero conficcato dentro tizzoni ardenti, a causa della forte luce gettata da un lampadario. Li tenevo socchiusi ma, nonostante questo, da essi sgorgavano lacrime che tentavano di alleviare il dolore alla pupilla, sicché ebbi una specie di immagine distorta del direttore di quel posto. Un uomo magro, pallido, con gli occhi grigi e privi di espressione, spenti; i capelli rossi come fiamme, pettinati ordinatamente all'indietro, a lasciare la fronte completamente scoperta. Teneva le punte delle dita incrociate, guardandomi con freddezza, quasi volesse congelarmi sul posto con quell'aria distaccata. Non sapevo cosa fare: perché ero lì? I ricordi, qui, si fanno confusi... ma, da un certo punto, ricordo quella situazione come fosse ieri: una situazione che mi cambiò la vita. Ero seduto, ancora terrorizzato, ipnotizzato dal grigiore delle sue iridi, un grigio che ben si adattava ad un uomo come lui. -James Fellow.- ricordo ancora quella voce, pungente e quasi gelata, come schegge di ghiaccio -Lei sa perché è stato arrestato?-. Ebbi la forza di scuotere la testa: non ricordavo nulla, del mio passato. La Howling Prison me l'aveva portato via, strappandomelo con le sue torture disumane. L'uomo annuì e, nel farlo, ricordo perfettamente una scintilla di malata soddisfazione nei suoi occhi: quel bastardo godeva nel vedere quanto fosse brutalmente efficiente la macchina di tortura che aveva creato. Per qualche secondo mi fissò ed ebbi la pelle d'oca: pensavo che la mia ora fosse giunta. Anche io sarei stato mangiato vivo dai topi... la mia mente, come era ovvio, non mi ricordò che ero lì da quelle che, teoricamente, erano appena due settimane e che quindi non potevo già essere gettato via. Ero paralizzato dal terrore, divorato dall'ansia... avevo ancora paura della morte. O almeno, di quella morte che, ancora, mi era sconosciuta: se mi avessero sgozzato, gettando il mio cadavere della scogliera, allora sì, sarei stato felice, avrei accolto la morte a braccia aperte, come il più prezioso dei doni. Ma così... -James Fellow. Conosciuto nell'ambiente come Il Corvo, perché non lascia mai tracce e, spesso, utilizza dei tramiti. Un killer dei migliori... assoldato dalla gente sbagliata.- ricordo che lasciò passare qualche attimo, tra quella frase e la successiva, facendomi consumare nell'ansia di una fine che credevo sempre più vicina; potevo sentire la sottile e liscia lama della falce del Mietitore che, lentamente, mi lambiva la gola. Deglutii. Lo ricordo, come deglutii... mi fece male. Avevo la gola talmente riarsa che qualsiasi cosa mi passasse dentro, faceva male. Un dolore appropriato. -James Fellow. Sarebbe inutile sprecare un prezioso elemento come te. Un assassino metodico, freddo... una specie di ombra. Perciò, ecco la mia offerta: lavorerai per il Governatorato e servirai la Sua causa. Sarai un uomo libero.- A quelle parole, qualcosa si riaccese in me. Come una piccola scintilla di speranza: potevo andarmene da quel luogo, quindi? Potevo continuare a vivere? E, per farlo, avrei solo dovuto ammazzare qualche sconosciuto su richiesta... era come proporre ad un affamato di partecipare ad un banchetto; come gettare un salvagente ad un uomo che sta affogando. Non esitai ad annuire, a dare il mio più totale consenso: avrei fatto qualsiasi cosa mi avessero chiesto in cambio della libertà. Quello sorrise, annuendo, come se si aspettasse quella risposta -Molto bene. Allora, signor Fellow... Il Corvo... credo che, per qualche giorno, lei sarà un mio onorato ospite. Poi, la prossima settimana, potrà incontrare il suo datore di lavoro.- detto questo, premette un pulsante e una guardia entrò di scatto -Ti guiderà fino ai tuoi alloggi. Spero che il soggiorno qui le sia più gradito rispetto a quello che ha dovuto subire nelle prigioni. Non si preoccupi: qui avrà tutto quello che vuole, cibo, acqua per bere e lavarsi, vestiti... ma se prova a scappare, dovrò ammazzarla. Il che sarebbe un vero peccato.- pronunciò la frase senza che la sua voce perdesse quel timbro gelido, quasi stesse parlando del tempo, o del prezzo del pane invece che di uccidere un uomo. Da allora, ebbi sempre paura di quell'inquietante individuo: Edmund Meryn, il Re Diavolo della Prigione, come lo chiamavano. Non ricordo nulla, poi, di quella notte, solo un gran sollievo. Una specie di senso di liberazione. Passai sei giorni a rimettere insieme la mia personalità, non ancora del tutto piegata; sei giorni in cui Edmund mise alla prova le mie doti di assassino. E scoprii che, forse, quelle che mi aveva raccontato non erano stronzate. All'inizio, non ci credevo... continuavo ad annuire solo per salvarmi la pelle. Ma poi, mi resi conto che DAVVERO ero in grado di uccidere come una macchina, silenzioso; mi ritrovai a muovermi tra le ombre della prigione, non visto da nessuno, scivolando silenzioso di angolo in angolo, a spiare le “vittime” senza che sospettassero nulla, a spegnere la loro vita facendolo passare per un incidente, o utilizzando altre persone che agivano per mio conto. Uccisi in totale sette guardie beccate a sgarrare nei loro compiti e sedici prigionieri. E, proprio con quei sedici, mi resi conto quanto fosse facile manipolare gli uomini: bastava dare a loro un qualche appiglio, promettendo la salvezza e loro si sarebbero anche troncati un braccio; erano così facilmente raggirabili... in soli sei giorni, cambiai. Non ero più lo spaventato uomo, distrutto nel corpo e nell'anima, che arrivò sull'isola. Ero tornato ad essere una macchina di morte, un freddo pezzo di metallo. Tutti si accorsero di quelle morti, spesso scambiandole per incidenti; ma alcuni omicidi li avevo compiuti in modo troppo metodico, accendendo il sospetto che vi fosse un qualcuno che, lentamente, mirava a massacrare tutti in quella dannata prigione. Ma solo il Diavolo sapeva la verità. Stranamente, non vidi più in giro le guardie che quella notte mi avevano portato dal direttore. Venne, infine, il momento in cui uscii da quell'Inferno. Ricordo bene la sensazione di libertà, di sollievo che provai allontanandomi, sul battello a vapore, da quel luogo di cupa disperazione e morte che, anche in un giorno pieno di sole come quello, appariva cupo, tetro, stridente con l'aria frizzante e la bella giornata. Staccai gli occhi da quel luogo, non sopportandone più la vista, rivolgendo lo sguardo altrove, verso la città. Agrova. I suoi palazzi della zona ricca, splendenti e decorati con ogni possibile ornamento, spiccano sopratutto per il contrasto con il decadimento e le rovine dei Quartieri Bassi; è sempre stato così, dopotutto: i ricchi sono tutti parte del Governatorato e, quindi, possono permettersi di costruire qualsiasi cosa, nel lusso più sfrenato; eppure, anche fra tutti quei palazzi sontuosi ed opulenti, è impossibile non notare un'altra costruzione, più imponente, luccicante d'oro: la sede del Magus. A sovrastare la enorme cupola aurea vi è una enorme statua in marmo, avvolta in un mantello che la ricopre del tutto, il cappuccio calato sul volto ed una lancia ben stretta, avvolta dalle fiamme. Il loro Dio: il Sacro. Infine, il battello attraccò al porto; Una macchina ci aspettava già, pronta per partire. Il Diavolo portava un completo bianco, con una cravatta color cremisi: era vestito come se fosse dovuto andare ad una cena di gala. Per me, invece... beh, mi aveva procurato un vestito da assassino-ombra, nero come la pece, con un mantello a coprire la cintura piena di armi di ogni sorta e il cappuccio tirato in testa, a coprire metà del viso. Il viaggio fu lungo, dato che l'autista evitò deliberatamente i quartieri bassi e quelli controllati dal Magus, passando per le ampie e sfarzose vie del Governatorato, dirigendosi verso quell'edificio. La sede centrale del governo della città; una grossa costruzione classicheggiante in marmo, la cui entrata era composta da una imponente scalinata sorvegliata da due grifoni accucciati; il portico antistante alla porta era sorretto da colonne in finto stile dorico... ricordo perfettamente tutto, di quel giorno. Non ci fecero nemmeno aspettare: appena videro il Diavolo, si fecero tutti da parte, conducendolo su per le scale. Ovviamente senza smettere di fare complimenti falsi da puro leccapiedi, che lui non sembrava nemmeno ascoltare: procedeva a velocità sostenuta, salendo un gradino dopo l'altro, finché non arrivammo al terzo piano. Qui, davanti all'entrata del corridoio, sostavano due soldati armati con lunghe spade da combattimento e pistole; se ne stavano ben dritti, pronti ad intervenire in caso di bisogno. Ed effettivamente scattarono appena mi videro, le mani sulle impugnature delle lame; quando, però, giunse subito dietro il signor Meryn, si rimisero sull'attenti. Non parlarono, né si mossero... forse non respiravano neanche. Preferivano rimanere in quel modo, come imbalsamati. Non ci perquisirono nemmeno. Il corridoio era ampio e ben illuminato, con statue in bronzo e oro, vasi antichi e spade esposti in teche locate dentro delle nicchie. Uno sfarzo forse esagerato, certo, ma adatto a quel luogo, il centro del potere della città. Anzi, uno dei centri di poteri: effettivamente ve ne erano due. Il Palazzo del Governatorato e la Cupola del Magus; il problema è che spesso gli interessi dei due si scontravano e raramente si arrivava ad accordi pacifici, perciò l'area ad Agrova era sempre carica di una certa tensione. Il Diavolo si fermò davanti alla porta in fondo al corridoio, l'unica, e bussò. In un secondo venne aperta da un ometto basso e untuoso, probabilmente uno degli impiegati. -Buongiorno, signor Meryn, i miei ossequi; come sta, signor Meryn? Vuole per caso parlare con il signor Fang, signor Meryn? Sarò contento di soddisfare ogni suo desiderio, se è possibile, signor Meryn-. E il Diavolo, senza smettere quell'aria fredda e distaccata, chiese di vedere proprio questo tipo, Justin Fang. Lui annuì, servizievole, e sparì dietro un'altra porta. Il mio accompagnatore si sedette, invitandomi a fare lo stesso con un cenno del capo. Esitante, lo imitai. -Justin Fang è il segretario personale dell'Alto Governatore. È uno degli uomini più potenti della città, secondo forse solo allo stesso Governatore, all'ArciMagus e... a me.- si lasciò andare ad un sorriso compiaciuto -Avrai il privilegio di discutere con lui dei tuoi futuri incarichi-. Annuii. Ma non parlai. Mi sentivo strano, lì dentro: fino ad appena una settimana fa ero un poveraccio senza identità poi, puff, di botto, ero diventato un assassino famosissimo al servizio di un uomo potentissimo. E il bello è che non credevo ancora del tutto di essere davvero Il Corvo. Ma l'incarico che mi avrebbero affibbiato quel giorno mi avrebbe fatto cambiare idea.

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Capitolo 2
*** 2 ***


 

2

 

James Fang era un uomo distinto quanto freddo, forse più freddo del Diavolo; quando lo vidi per la prima volta, mi diede esattamente l'idea del tipico uomo d'affari che dona un sacco di soldi in beneficenza. Quanto ero ingenuo... avrei scoperto a mie spese che quel biondo figuro dagli occhi smeraldini era tutt'altro che un uomo buono e gentile. Indossava un completo gessato abbinato ad una cravatta nera e, quando entrò, l'atmosfera nella stanza sembrò congelarsi di colpo. Provai, di nuovo, paura. Sì, quell'individuo mi suscitava un gran terrore, il solo guardare quelle pozze verdi mi diede dei brividi lungo la schiena: trasmettevano una sensazione strana, una specie di inquietante sete di sangue... sì, la conoscevo bene. Seppur confusamente, ricordavo bene quel genere di emozione che un tempo, forse, era appartenuta a me tanto quanto all'elegante uomo che mi stava davanti o al serial killer che girava per i fetidi vicoli della Città Bassa. Il Diavolo si alzò con deliberata lentezza e, per un secondo, i due si trapassarono a vicenda con lo sguardo, quasi stessero combattendo una sorta di guerra privata e silenziosa, fatta di occhiate. C'era una certa tensione, tra i due, che allora non potevo comprendere, quindi mi limitai a starmene in disparte... anche perché, tra quei due, mi sentivo come un essere indegno, inferiore, ammesso alla loro presenza per pura grazia del Sacro, come direbbe uno di quei Magus Adepti che fanno le omelie nei Sanctum. Il duello continuò finché il Diavolo non abbassò lo sguardo di scatto, come fulminato, sconfitto; vidi che strinse un pugno in modo convulso, prima di rivolgersi all'altro con la sua solita aria distaccata -Signor Fang. È un piacere incontrarla di nuovo.- il bello è che era palesemente falso; era ovvio che quei due si odiavano a morte, quasi volessero uccidersi a vicenda. Sopratutto Edmund Meryn: nei sei giorni che l'avevo conosciuto, non avevo mai visto vacillare così il suo autocontrollo. Fang non fece nemmeno finta che lo fosse davvero, limitandosi a sedersi sulla poltrona davanti al nostro divanetto. Accavallò le gambe, guardando prima il Diavolo e poi me; quando mi piantò addosso quello sguardo, sentì nuovamente le budella attorcigliarsi; neppure quel dannato demonio che mi sedeva a fianco mi aveva comunicato tutta questa paura. Infine, si decise a parlare, smettendo di studiarmi; la sua voce era come una lama carezzevole che, lentamente, ti passa sul collo ma in modo così delicato, così perfetto, che non esiteresti a farti tagliare la gola pur di sentire quel freddo metallo sulla carne -Tu saresti Il Corvo, uh? Quello spietato assassino, quell'ombra imprendibile... beh, non tanto imprendibile, alla fine.- si tamburellò le dita sul mento, lentamente -Meryn ti ha spiegato perché sei qui?-

Volevo rispondere... ma non ci riuscivo. Quell'individuo mi trasmetteva una sensazione di inquietudine, di sinistra paura che non riuscivo a scacciare via... e quella sua voce, era così strana, così ipnotica; la gola mi si seccò di colpo, e dovetti sforzarmi per riuscire a formulare quella risposta, di appena qualche parola, ma che comunque mi costò una fatica incredibile -Sì, per svolgere dei lavori per lei-. Fang voltò la testa di scatto verso il mio accompagnatore, smettendo immediatamente di toccarsi il mento e poggiando la mano sul bracciolo. Nonostante il suo tono fosse rimasto neutrale, ebbi come l'impressione che non fosse affatto felice della mia risposta -Hai distorto ancora i fatti. Non mi piace, quando la gente da informazioni false. Proprio no.- la velata minaccia mi fece gelare il sangue, anche se non era rivolta a me. Accanto a me, il Diavolo ebbe una specie di tremito, appena accennato: anche lui, alla fine, aveva paura. Per quanto provasse a sfidarlo, anche lui provava terrore di quell'uomo: erano su piani diversi. Tornò a rivolgersi a me -Non servirai me, ma il Governatorato. È un grande privilegio poter lavorare per lo stato, non credi?-

Annuii. Non lo pensavo, ma annuii lo stesso. Sembrò soddisfatto, perché si concesse un mezzo sorriso, alzandosi. Sparì per un secondo dietro la porta da cui era venuto; appena fu uscito dalla stanza, il Diavolo scattò in piedi, cominciando a girare per la stanza, serrando e rilasciando i pugni; era visibilmente incazzato. E ancora mi chiedevo cosa ci fosse tra quei due: si odiavano ed anche in modo evidente. Mi passò davanti, fissandomi male; immagino che si stesse pentendo amaramente di quando mi aveva tirato fuori da quella cella. Infine, la porta sì aprì di scatto, proprio quando Edmund mi guardava con aria tutt'altro che rassicurante. Balzò di scatto a sedere sul suo posto appena Justin Fang entrò, reggendo un voluminoso fascicolo di fogli; si sedette nuovamente. -Bene, Meryn. Puoi andare.-

Gli occhi grigi si dilatarono per lo stupore e, nuovamente, i pugni cominciarono con il solito tic -Cosa? Io... cosa?-

-Mi hai sentito. Vai.-

I pugni, stavolta, rimasero serrati -Non puoi mandarmi via così! Io te l'ho portato qui! IO! IO, MALEDIZIONE!- saltò in piedi, avvicinandosi con aria minacciosa all'altro. -Meryn, per favore... non sei nella posizione di fare queste scenate.- credo che, con quella beffarda affermazione, il vaso del Diavolo, ormai fin troppo colmo, traboccò. Vidi la scena come a rallentatore; il suo pugno che si alzava, in aria, lentamente. Justin che continuava a fissarlo con quel sorriso ironico... non l'avrebbe fatto, pensava. Ma aveva sottovalutato l'ira di un uomo frustrato. Il pugno si abbatté, preciso, sul labbro del potente, facendolo ribaltare dalla poltrona e cadere a terra; mi alzai di scatto. Il Diavolo neanche si girò -NON PROVARE A MUOVERTI, TU! SEI UNA MIA CREATURA, DANNATO STRONZO!-

La voce del signor Fang era sempre gelida ma carezzevole quando parlò, rialzandosi. Aveva il labbro spaccato, con un rivolo di sangue che gli scivolava fino al mento, gocciolando sulla costosa sedia imbottita -E qui ti sbagli, mio caro Meryn. James Fellow è un uomo abbastanza intelligente per capire come andrà a finire, qui, e chi merita di più i suoi servigi.- mi fissò -Vero?- quel suo sguardo fu come una coltellata nel cuore. Avevo ragione: lo sapevo benissimo, come sarebbe andata a finire lì. Entrambi mi fissavano; io guardavo loro. Ora, non contava più il potere, il denaro, la posizione sociale: ero io che potevo decidere il loro destino. Io a comandare, in quella stanza, in quel momento. Io. Una volta, non ricordo dove, lessi questo indovinello “Un re, un prete, un ricco ed un mercenario sono seduti ad un tavolo. Il re comanda al mercenario di uccidere gli altri due in nome della sua autorità, il prete per comando divino, il ricco per soldi. A chi darà ascolto, il mercenario?”; pensavo, ma non trovavo risposta. Me la diede un tale, un assassino spietato che avevo conosciuto, un giorno... Jin Baywater. “La risposta è semplice: il mercenario da ascolto solo a sé stesso. Perché, in quel momento, è lui che decide delle sorti di tutti, perché impugna l'arma: in questo mondo, facciamo finta di essere sottomessi ad istituzioni religiose, politiche, plutocratiche... ma alla fine, quelli che comandano davvero, hanno le armi. Il nostro mondo si basa sulle armi: se ne hai una, puoi esserne padrone”. Il tempo era come fermo. Da una parte Edmund Meryn, il Diavolo della prigione, che ansimava vistosamente, gli occhi dilatati dalla paura. Dall'altra, Justin Fang calmo e tranquillo. Non ebbi esitazioni; estrassi il revolver e, con precisione, sparai tre colpi. Il suo sguardo di sorpresa fu impagabile. Si strinse lo stomaco convulsamente, tentando di fermare il sangue che ne usciva a fiotti; la bocca fu ricoperta, in un secondo, di caldo liquido rosso. Edmund Meryn crollò a terra, gli occhi grigi spalancati, tendendo una mano verso di me -Dan.. nato... bas...- poi, gli occhi persero ogni luce. E cadde morto.

 

[...]

 

Di quel che successe dopo, beh, non ricordo molto. Fang ordinò che il cadavere fosse portato via e la stanza ripulita da -Questo sangue di traditore-. Dopodiché, tornammo ad accomodarci; e stavolta, non ebbi paura di lui. Perché io avevo l'arma, lui no. Poteva tirare fuori tutti i soldi o il potere che aveva, ma non lo avrebbero salvato dalle pallottole della mia pistola o dai fendenti del mio coltello. Lui, invece, sembrava soddisfatto della situazione: -Ti sei rivelato un individuo molto intelligente quanto pronto. Complimenti. Le voci su di te non erano infondate, quindi. Bene, sarà un vero piacere lavorare con te...- il mezzo sorriso che aveva sfoderato alla morte del suo “compagno” si accentuò -Bene, credo non ci sia bisogno di spiegarti la situazione, vero? Ah... ma tu vieni da Howling Island, perciò non arai ricevuto alcune notizie, vero?- senza aspettare la mia risposta, prese a sfogliare il fascicolo con deliberata lentezza, probabilmente godendo nel torturami in quel modo. Improvvisamente, ero smanioso di uccidere ancora. Una specie di febbrile voglia di sangue che mi stava rendendo abbastanza nervoso; e lui sembrava saperlo. Infine, trovò la pagina. Me la mostrò: ritraeva un uomo, doveva avere circa ventidue o ventitré anni, con i capelli nero pece e una tunica bianca con elaborati intarsi d'oro; al centro di questa, vi era una fiamma in rilievo, rossa e oro, circondata da un pentacolo aureo. Il simbolo del Magus. -Lui è il Magus Major Jeremiah Erikker, ovvero il nostro più agguerrito nemico nel Magus. È un estremista religioso del diavolo che si oppone continuamente a noi. Qualsiasi nostra manovra è contestata, ci diffama, ci osteggia nelle scelte e fa arringhe pubbliche per sollevare la popolazione. Un dannato bastardo, insomma.- nella foto, l'uomo tende un braccio alla folla, che gli lancia rose bianche, perlacee e luccicanti. Il suo sguardo è determinato, eppure colmo di una sorta di tranquillità anomala. -Quando è stata scattata la foto?- chiedo. Sì, mi sorpresi anche io di fare domande, di parlare invece di annuire. Il mio interlocutore, invece, ne fu soddisfatto -Tre giorni fa, ad uno dei suoi discorsi pubblici in Piazza Cornelia XVI. Lì ha reso note le torture di Howling Island, descrivendo con troppi particolari ogni singolo supplizio, accusando me e i piani alti di essere delle bestie. Non è strano? Nessuno conosce le torture che si applicano lì, solo le guardie e Meryn... beh, conosceva. Ma le guardie sono tenute sotto controllo, quindi...- lasciò la frase in sospeso, ma arrivai lo stesso alla conclusione. Quel dannato bastardo del Diavolo aveva spifferato tutto... che ironia, però: il Diavolo che lavora con il Magus. Non staccai gli occhi da quella foto gloriosa, dagli occhi magnetici del Major Erikker. -Lei aveva programmato tutto?-

Sorrise, stavolta mostrando tutti e trentadue i denti -Segreto professionale-. Mi fece paura; anche se avevo la pistola, il coltello e tutto, tremai ugualmente. Aveva già previsto tutto, quindi? Come era possibile? Scossi la testa, scacciando via quei pensieri: ora dovevo fare altro -Allora, il mio compito sarebbe quello di uccidere questo Magus?-. Fang si concedette qualche secondo, prima di rispondermi -Sì. Ma... non deve sembrare un assassinio: i sospetti ricaderebbero subito su di noi e la situazione andrebbe fuori controllo. Dovrà essere un... incidente fatale. Quindi, niente armi che lasciano segni... ma scommetto che tu sappia usare anche quelle e far passare il tutto per una semplice casualità, no?- annui. Certo che potevo. Almeno, a Howling Island mi era riuscito. -Bene, perfetto. Dovrai agire prima della prossima arringa pubblica che si terrà fra quattro giorni. Hai tutto il tempo, quindi. Ma non prendertela troppo comoda.- dopodiché si alzò -Ci vediamo tra quattro giorni, James Fellow.- e sparì di nuovo dietro quella porta. Non mi restò altro da fare che uscire; rifeci tutto il tragitto al contrario, passando di nuovo per il corridoio e di nuovo per le scale. Quando, però, ero davanti all'uscita, sentii qualcuno che si avvicinava alle spalle. Cautamente, mi voltai e vidi il grassoccio segretario servizievole che, sempre col sorriso untuoso, mi si affiancò -Signor Fellow, il Signor Fang mi ha pregato di darle questi.- gli porse una serie di oggetti: un portafoglio, una revolver nuova di zecca, una chiave e una carta d'identità. Falsa. Dopodiché sparì. Uscii di fretta dal Palazzo e mi sedetti sotto il portico, esaminando gli oggetti. Appartenevano tutti al Diavolo, tranne la carta d'identità; il portafoglio era colmo di denaro, mazzette di banconote e spiccioli che, probabilmente, per il defunto non erano che bazzecole. La revolver, invece, era fatta di argento puro, ed era caricata con un solo proiettile: era mal bilanciata, con un peso eccessivo ed una curvatura della canna inadatta all'uso vero e proprio... la carta d'identità, invece, era intesta a Eric Fosterwhell. Avrei saputo far fruttare tutta quella roba; appena arrivai ai piedi della scalinata, una macchina si accostò. L'autista scese, avvicinandosi in tono rispettoso -Il Signor Fosterwhell?- annuii. Lui, tutto servizievole, sprecandosi in convenevoli, mi fece accomodare sul sedile posteriore, sorridendo mellifluo. Quella carta... a chi apparteneva, in realtà? Mentre l'automobile schizzava via, vidi Justin Fang che ghignava da dietro una finestra. Ma, forse, lo immaginai soltanto.

 

[…]

 

L'automobile si fermò davanti ad un lussuoso albergo del centro, di quelli moderni, costruiti da poco. Non mi perdo in inutili descrizioni, anche perché ritenevo quel luogo molto pacchiano; parlando col receptionist, scoprii che la mia stanza era prenotata per quattro giorni, pagamento anticipato. Non fecero domande sul mio abbigliamento da assassino-ombra, anzi, l'impiegato mi fece capire che era già stato avvertito di tutto e che nessuno -...la disturberà durante il suo lavoro, signore-. Aveva pensato davvero a tutto; la camera era al piano terra, nella zona riservata e le finestre davano su un cortile interno e MAI sull'esterno. Senza perdere tempo, chiusi la porta a chiave e gettai il mantello sul letto. Slacciai la cintura, poggiandola su un tavolino e presi ad esaminare lo stato dell'equipaggiamento: la pistola, verniciata con la pece, mancava di tre colpi, ma ricaricarla avrebbe richiesto qualche secondo; il coltello era ben oliato ed inguainato alla perfezione. Gli altri due pugnali gemelli erano ancora nei foderi sotto le ascelle, in caso di emergenza; la piccola balestra monocolpo era ben legata alla cintura, in modo da poterla estrarre con calma... era a posto. L'equipaggiamento era pronto. Girai un po' per la stanza, aprendo cassetti a caso, tanto per ammazzare il tempo. Ormai il giorno volgeva al termine e il sole stava quasi per gettarsi oltre l'orizzonte, esibendosi in un caleidoscopio di colori. Mi sono sempre piaciuti, i tramonti. Mentre ero lì, assorto dai miei pensieri, qualcuno bussò. Saltai in piedi di scatto -Un attimo.- lo dissi forse con troppa foga ma, in quel momento, stavo sbattendo tutto l'equipaggiamento sotto al letto. Non bussarono più, però. Infine, quando ebbi nascosto il tutto, aprii leggermente la porta; non c'era nessuno. Solo una valigetta in pelle ben chiusa, abbandonata lì. La portai dentro e, cautamente, la aprii. Dentro, stipate in appositi supporti, c'erano una serie di boccette piene di liquido di vari colori. E, sopra a queste, un biglietto sigillato in una lettera. La aprii, estraendo rapidamente il messaggio. La grafia era elegante e precisa, minuziosa. Mi bastò guardare la firma alla fine per capire chi fosse l'artefice di quel simpatico regalo.

 

A James Fellow,

 

ho pensato che avresti gradito qualche aiutino in più e anche un extra per il lavoretto di oggi, nel mio ufficio. Tratta bene queste pozioni, mi sono costate un bel po': la Gilda degli Alchimisti si fa pagare profumatamente per veleni mortali e ampolle di FiammeLiquide. Spero che tu ne sappia fare buon uso.

 

Justin Fang.

 

 

 

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