Exchanges - Lo straordinario caso della Casa Maledetta

di Jadis96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando ti ritrovi nei panni del tuo coinquilino sociopatico ***
Capitolo 2: *** Quando sperimenti cosa sia la vera noia ***
Capitolo 3: *** Quando il suddetto coinquilino sociopatico interpreta te stesso meglio di te ***
Capitolo 4: *** Quando la vittima del caso torna per puntarti un coltello alla gola ***
Capitolo 5: *** Quando ti dicono che stai facendo progressi ***
Capitolo 6: *** Quando ti scavi la fossa tra abbracci, Tardis nel giardino e coming out ***
Capitolo 7: *** Quando ti rilassi quando non dovresti: ecco cosa succede ***
Capitolo 8: *** Quando inizi a pentirti di non aver messo nessuno al corrente dei tuoi piani ***
Capitolo 9: *** Quando spari ad un assassino e questi ti restituisce il favore... con gli interessi ***
Capitolo 10: *** Quando provi ad invertire uno scambio di corpi confidando nella tua intelligenza superiore ***
Capitolo 11: *** Quando la situazione diventa scottante ***
Capitolo 12: *** Quando inizi ad avere uno strano presentimento ***
Capitolo 13: *** Quando pensi che, nonostante tutto, ne sia valsa la pena ***



Capitolo 1
*** Quando ti ritrovi nei panni del tuo coinquilino sociopatico ***


Ciao a tutti! Questa è la mia prima long fic in questa sezione, quindi ancora non so bene cosa ne uscirà fuori xD Avevo già scritto una one-shot su Sherlock, passateci se vi piacciono i cagnolini e il genere fluff, si chiama “Bulldog inglese”.
Per quanto riguarda questa ff, lascerò decidere a voi se mettere insieme Sherlock e il fantasy sia una buona idea o un insulto alla serie. Spero nella prima :)
Buona lettura!
 
 
Sherlock aveva sempre preferito che io non raccontassi il caso della Casa Maledetta ai miei lettori.
“A chi interessano i casi irrisoli?”, diceva.
Ma stavolta era diverso: il caso era stato risolto, eccome.
Eppure Sherlock provava un grande senso di sconfitta per non essere riuscito a trovare una spiegazione razionale agli eventi a cui avevamo assistito.
Ma procediamo per ordine, perché fatti tanto straordinari meritano di essere narrati con accuratezza e precisione.
 
Era lunedì 20 novembre, quando Lestrade venne a Baker Street per offrirci quello che si sarebbe rivelato il caso più strano che ci sia capitato tra le mani.
In realtà inizialmente mi parve banale e fin troppo semplice, tanto che pensai di ipotizzare io stesso una soluzione.
Ero già pronto a sentire la voce annoiata di Sherlock che mormorava “noioso”, oppure “ovvio”, oppure (e questo era quello che più aveva il potere di irritarmi) “elementare”.
Ma, inaspettatamente, lui rimase in silenzio per qualche istante, per poi dire, con un sorriso compiaciuto, << Accetto il caso >>.
Mentre eravamo in auto, ebbi modo di farmi spiegare i particolari dell’omicidio di Samuel Welch.
Questi era stato trovato morto nel suo appartamento, apparentemente suicidatosi con un colpo di arma da fuoco alla testa. L’ipotesi che si trattava di omicidio era emersa dalla testimonianza di una passante, che giurava di aver visto dalla finestra due uomini immobili uno di fronte all’altro, e in seguito, dopo essersi ormai allontanata, il rumore di uno sparo.
La testimonianza era attendibile, in quanto coincideva perfettamente con l’ora del decesso.
Uno degli uomini era stato identificato come Samuel Welch, mentre il secondo era parso irriconoscibile alla testimone perché si trovava di spalle rispetto alla finestra.
L’edificio conteneva tre appartamenti in tre piani diversi.
In quello al pianterreno vivevano i coniugi Joanne e Thomas Carlton, quest’ultimo sospettato dell’omicidio.
Al primo piano viveva Samuel Welch e al secondo un’anziana signora, che al momento dell’omicidio era fuori casa.
Prima di entrare Sherlock si soffermò sulla strada che conduceva all’edificio, guardando la finestra del primo piano da diverse angolazioni.
Doveva essere una casa molto antica, constatai, ma era stata restaurata spesso e pertanto aveva un’aria sicura e dignitosa.
 
Una volta all’interno ci dissero che il corpo era già stato rimosso, cosa che fece innervosire Sherlock. << La sensibilità degli altri inquilini è più importante della soluzione del caso? >> sbottò irritato.
Ma in compenso la sagoma della vittima era stata accuratamente tracciata con un gessetto.
Sherlock gli diede una rapida occhiata, per poi passare ad esaminare con più interesse un vaso di fiori frantumato, probabilmente caduto dal tavolino accanto alla finestra.
<< Su uno di questi frammenti di porcellana abbiamo trovato tracce di sangue appartenenti a Thomas Carlton. L’avrà fatto cadere e poi si sarà tagliato… >> disse Lestrade.
<< Che rapporto intercorreva tra Welch e Carlton? >> chiese Sherlock.
<< Si conoscevano da molti anni. Era risaputo che fossero grandi amici… personalmente trovo improbabile che l’abbia ucciso lui >>.
Sherlock non parve ascoltare il resto della frase dalla parola “personalmente” in poi.
Andò a curiosare in tutte le stanze della casa, e dopo qualche minuto si ritenne soddisfatto e si apprestò ad uscire.
<< Dove sono i coniugi Carlton? >> chiese infine.
<< Li stiamo interrogando. Thomas non ha detto una parola, mentre Joanne sembra voler collaborare, pur sostenendo di non aver visto nulla >> rispose Lestrade.
<< Bene. Per ora è tutto >> sentenziò Sherlock.
 
Durante il tragitto verso casa fu silenzioso e pensieroso, ed io ebbi il buonsenso di non dire nulla.
Sapevo come comportarmi in quei momenti: il segreto era non parlare, non pensare troppo, non fissarlo, non muovermi, non respirare troppo pesantemente, spegnere il cellulare, non incoraggiare nessun tipo di conversazione col tassista, e anche altro all’occorrenza.
Quando arrivammo a Baker Street mi ritirai nella mia stanza, lasciando Sherlock che pizzicava distrattamente le corde del violino, immerso nei suoi pensieri.
Nelle ore successive mi affacciai ogni tanto al soggiorno, ma la scena era sempre la stessa.
 
Mentre andavo a letto non immaginavo minimamente che il giorno successivo sarebbe stato il più strano della mia esistenza.
Ricordo che, poco prima di addormentarmi, mi chiesi cosa si provava ad essere Sherlock Holmes.
E nello stesso momento pensai ad una famosa frase di cui non avevo mai compreso appieno il significato: “attento a ciò che desideri, potresti ottenerlo”.
 
Martedì 21 novembre è stato ufficialmente il giorno più strano della mia vita.
Sì, so di averlo già detto, ma lo ripeto per ribadire il concetto.
Mi svegliai verso le sei, circa un’ora prima del solito, e dal momento stesso in cui aprii gli occhi capii che c’era qualcosa che non andava.
Primo: ero sul divano. Che ci facevo sul divano?!
Ricordavo perfettamente di essere andato nella mia stanza. Era Sherlock che era rimasto sul divano, in una meditazione che l’avrebbe tenuto certamente occupato fino al giorno dopo.
Secondo: avevo in mano un cellulare.
Era quello di Sherlock, potevo distinguerlo facilmente anche nella semioscurità.
Ma ciò che catturò immediatamente il mio sguardo fu la mia mano. In realtà non era esattamente la mia mano.
Era grande, magra, dita lunghe e pelle chiara.
Dov’eravamo rimasti? Ah sì, terzo: la mia mano non era la mia mano.
Suona strano, tuttavia in quel momento pensai proprio questo.
Mi alzai di scatto, spaventato, ma fui costretto ad aggrapparmi al bracciolo del divano.
Perchè sono così in alto?, pensai, mentre cercavo di ritrovare l’equilibrio.
Mossi qualche passo incerto, rischiando di inciampare nei miei stessi piedi (ma perché erano così grandi?!), fino a riacquistare un po’ di sicurezza, dopodiché mi precipitai in bagno.
Premetti l’interruttore e, esitante, mi voltai verso lo specchio.
Il mio primo impulso fu quello di guardarmi alle spalle.
Non c’era nessuno.
Ma era impossibile. Perché altrimenti avrei visto Sherlock Holmes nello specchio in cui io mi stavo specchiando?
Decisi che era un sogno.
Sì, doveva essere un sogno.
Mi avvicinai ancora di più allo specchio e alzai una mano, osservandola attentamente. Poi, determinato a mettere fine a quell’incubo, mi tirai uno schiaffo.
Attesi dieci secondi, poi trenta, poi un minuto intero.
No, non poteva essere un sogno, perché niente era cambiato. Però c’era il dolore alla guancia, il che poteva significare che ero effettivamente io quello allo specchio.
Scrutai ancora il mio viso, ma non ce n’era bisogno, perché lo conoscevo benissimo e non era il mio viso, era quello di Sherlock!
In quel momento mi posi una domanda spontanea: se, ammettendo per assurdo, quella era la realtà ed io ero lui… allora lui dov’era?
 
La risposta alla mia domanda giunse subito dopo come un tonfo secco provenente dalla stanza accanto.
Tornai in soggiorno, misurando con attenzione ogni passo, ma non appena alzai lo sguardo, rischiai di perdere nuovamente l’equilibrio.
A terra, ai piedi della scalinata, c’ero io.
Ma non potevo essere io!
Stavo guardando dall’esterno, quindi a rigor di logica non potevo essere quella persona.
L’uomo che aveva le esatte sembianze di John Watson aveva tutta l’aria di essere appena caduto dalle scale, constatai, vedendo che si massaggiava con espressione sofferente la spalla.
All’improvviso ricordai che non avevo ancora provato a parlare.
<< S… stai … bene? >> chiesi. Le parole furono pronunciate con la voce profonda di Sherlock, ma velata di una paura che mai avevo visto in lui.
L’uomo uguale a me alzò lo sguardo e mi fissò atterrito.
<< John? >> chiese, con la mia voce, colma di preoccupazione, ma con un tono diverso, che somigliava vagamente a…. << Sherlock! >> esclamai.
Lui annuì. << Perché sto parlando con me stesso? >>
<< Ci sono io qui. Sono John >> cercai di fare chiarimento.
Sherlock, finalmente ero certo che fosse lui, era sconvolto.
Mi avvicinai lentamente e gli porsi una mano, aiutandolo ad alzarsi.
Constatai, con non poco divertimento, che per la prima volta ero io quello alto, e dovevo ammettere che quei centimetri in più mi davano un grande senso d’importanza.
Restammo a guardarci ancora a lungo, senza trovare niente da dire o fare.
Poi Sherlock indicò le scale. << Ho realizzato troppo tardi di non essere al piano terra… >> disse, con tono di accusa, << Ragioni troppo lentamente >>.
Ovvio. Riusciva ad insultare le mie facoltà mentali anche mentre si trovava nel mio corpo.
<< Io? Ci sei tu lì dentro. La colpa è tua >> ribattei, seccato.
<< Sì, ma il cervello è il tuo. Ed è troppo lento per i miei gusti >>.
Preferii non rispondere. Qualcosa mi diceva che nei giorni successivi avrei avuto molte altre opportunità di perdere la calma…
<< Scambio di corpi >> mormorai tra me e me.
Sherlock scosse la testa. << E’ impossibile >>.
<< Allora come ti spieghi il fatto che io stia parlando con qualcuno uguale a me in tutto ad esclusione del pessimo carattere? >>.
<< Non me lo spiego perché non è possibile >> ripeté. << Non è logico! >>.
<< Ma è successo. E ora dobbiamo capire come >>.
Sherlock andò a posizionarsi sul suo divano, con la stessa espressione che gli avevo visto la sera prima e tutte le volte che ci occupavamo di un caso… solo questa volta era sulla mia faccia.
Io mi sedetti sulla poltrona.
<< Accidenti, John! >> esclamò dopo appena qualche secondo, << E’ un’impresa formulare qualche deduzione coerente con questo cervello che ti ritrovi! >>.
Sbuffai, annoiato. Perché si lamentava?
Era così ovvio quello che dovevamo fare…
<< Dobbiamo riflettere su quello che abbiamo fatto nei giorni scorsi. Luoghi che entrambi abbiamo frequentato, persone con cui siamo entrati in contatto… qualsiasi avvenimento diverso dal solito, e che sia capitato ad entrambi. Proporrei di iniziare dagli eventi delle scorse ore, fino ad allargare il campo all’intera settimana >>.
Sherlock sgranò gli occhi.
Mi chiesi se era questa l’espressione che avevo ogni volta che mi stupivo delle sue deduzioni.
<< Sì, giusto. Non ci avevo pensato… >> ammise. << Ma non ti ci abituare >> aggiunse subito dopo.
Mi meravigliai della velocità con cui i pensieri si facevano largo nella mia mente. Era una sensazione esaltante e spaventosa allo stesso tempo.
<< E’ così che ti senti continuamente? >> domandai, curioso.
<< Ti stavo per fare la stessa domanda >> rispose Sherlock, sbuffando.
Restammo in silenzio per un po’, riflettendo.
Poi, ad un tratto, un’idea balenò nella testa di entrambi.
<< La casa di Samuel Welch! >> esclamammo all’unisono.
 
Spero che vi sia piaciuto questo primo capitolo e che sia stato divertente leggerlo come lo è stato per me scriverlo :)
Mi piacerebbe sapere la vostra opinione, quindi… recensiteee xD

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Capitolo 2
*** Quando sperimenti cosa sia la vera noia ***



La casa di Samuel Welch era il primo luogo candidato ad essere responsabile del nostro “scambio di corpi e di vedute”, come lo aveva definito Sherlock.
Decidemmo di proseguire le indagini, nella speranza di venire a capo di quella strana faccenda (“Io risolverò il caso, tu farai finta di essere me e non aprirai bocca davanti agli ispettori, almeno che non sia per avvertire che Scotland Yard sta andando a fuoco”, aveva detto Sherlock, con un tono che non ammetteva repliche).
La mattinata proseguì con un irritante litigio sui vestiti che avremmo dovuto indossare.
<< Io indosserò i miei vestiti! >> s’impuntò Sherlock.
<< Non puoi andare in giro nel mio corpo con i tuoi vestiti! >> tentai di farlo ragionare.
<< Non andrò mai in giro con i tuoi orrendi maglioni >> ribatté.
<< Nessuno ci farà caso perchè in questo momento tu sei me! >>.
<< Non importa. Finché mi resterà un minimo di buonsenso non indosserò niente che sia stato nel tuo guardaroba… e non c’è nulla che tu possa fare per farmi cambiare idea >> incrociò le braccia, fermo sulla sua posizione.
<< Ne sei certo? Potrei chiamare Mycroft e dirgli che è il fratello migliore del mondo e che gli voglio tanto bene… se fosse necessario potrei anche andare a dirglielo di persona >>.
Sapevo che era molto crudele da parte mia, ma non potevo perdere l’occasione di ricattare Sherlock.
<< Non oseresti… >> rispose lui, improvvisamente privo di tutta la sua sicurezza e anche un po’ impaurito.
<< Sì che lo farei >> assicurai.
Sherlock rimase in silenzio per qualche istante, dopodiché il suo sguardo s’illuminò nuovamente.
<< Allora io farò coming out… mister “non c’è nulla di male” >>.
 
Durante il resto della discussione ci rendemmo conto di avere entrambi la possibilità di metterci in imbarazzo in un’infinità di modi diversi, pertanto concludemmo con un patto: niente ricatti.
La faccenda dei vestiti venne liquidata quando concordammo di avere cose più urgenti da sbrigare.
 
Le due ore successive sembrarono trascorrere velocemente.
Iniziammo a camminare per la casa, nel disperato tentativo di abituarci ai nostri nuovi corpi.
Io inciampai numerose volte nei miei stessi piedi, mentre Sherlock avanzava lentamente e con passo strascicato.
Persi il conto di quante volte mi rinfacciò di essere troppo basso, di non vederci bene come lui, di pensare troppo lentamente, di avere troppa fame, eccetera eccetera… ma dopo un po’ imparai a chiudere la mente ai suoi lamenti.
Mi riusciva incredibilmente semplice con il corpo di Sherlock. Forse aveva una naturale propensione ad ignorare chi non voleva ascoltare.
 
Eravamo nel mezzo dell’ennesima discussione (non ricordo neanche cosa riguardava) quando squillò il cellulare di Sherlock.
Per circa tre secondi ci guardammo perplessi, poi Sherlock scattò dall’altro lato della stanza e prese il cellulare.
<< Io ti dico cosa dire, tu parli >>, ordinò Sherlock.
Accese il vivavoce. Era Lestrade.
<< Sherlock, ho i risultati degli interrogatori a Thomas e Joanne Carlton. Lui si rifiuta di parlare. Non ha voluto dire dove si trovava al momento della morte di Samuel. Non ha confermato il fatto che fossero amici di vecchia data.
Joanne è sotto shock. Dice cose apparentemente insensate. Continua a ripetere che suo marito “non era più sé stesso”.
Ecco la sua versione dei fatti: la mattina dell’omicidio Samuel ha chiamato Thomas, chiedendogli di passare a trovarlo. Quando Thomas è uscito di casa per dirigersi al piano di sopra non è parso diverso dal normale; poi Joanne ha udito lo sparo e poco dopo Thomas è tornato a casa. Aveva un taglio sulla mano e una sorta di tic nervoso per cui inclinava la testa in continuazione.
Joanne giura che l’uomo che ha visto tornare non era suo marito, nonostante ne avesse le sembianze. Abbiamo fatto accurate ricerche per accertarci dell’identità del signor Carlton, ma non ci sono dubbi: quello è Thomas.
Adesso lo stiamo trattenendo in centrale come sospettato dell’omicidio.
Joanne è stata rilasciata. >>
Sherlock aveva ascoltato con estrema attenzione. << Il signor Carlton porta i capelli lunghi? >>, mi sussurrò, ed io ripetei la domanda al cellulare.
Lestrade rimase in silenzio per qualche istante, stupido della domanda.
<< No. >>
<< Ha un ciuffo che gli arriva all’altezza del sopracciglio? >> insistè Sherlock.
<< Non mi risulta >>
<< Voglio sapere se ha cambiato taglio di capelli ultimamente, se era un uomo nervoso e se questo tic si era già manifestato in precedenza. Joanne ha menzionato qualcosa riguardo i suoi rapporti con Samuel? >>.
<< Sì. Ha accennato che non provava molta simpatia per lui. Ma al contrario lui l’ha sempre trattata con molto riguardo >>.
Lo sguardo di Sherlock s’illuminò, come se avesse finalmente trovato una pista da seguire.
<< Devo tornare a casa di Samuel >> dichiarò ad alta voce. Io mi affrettai a ripetere, sperando che Lestrade non avesse sentito la prima frase detta con la voce di John Watson e l’inconfondibile intonazione di Sherlock Holmes.
<< Forse manderò John a dare un’occhiata per me >> aggiunsi, certo che in ogni caso Sherlock non mi avrebbe mai permesso di andare ad investigare per conto suo. E considerando che ero nel suo corpo… non l’avrebbe fatto neanche sotto minaccia di morte.
<< D’accordo. Mi assicurerò che sia lasciato entrare >>, rispose Lestrade.
Pensai che la conversazione fosse finita e mi stavo accingendo a chiudere la chiamata, quando l’ispettore parlò ancora. << Ehm… Sherlock? >>
<< Sì? >> risposi, allarmato.
<< Stai bene? Sembri strano >>. Lestrade sembrava sinceramente preoccupato.
Guardai Sherlock, che mi fulminò con lo sguardo. Uno sguardo che sembrava volesse dire: “Ogni cosa che dirai potrà e sarà usata contro di te. Hai il diritto di restare in silenzio”.
Scelsi il silenzio.
Ma non fu una buona idea.
<< Pronto? Ci sei ancora? >>.
Decisi di improvvisare.
<< Sì. Va tutto bene. Cosa c’è di strano? >>. Cercai di imitare il tono leggermente irritato che Sherlock assumeva quando gli si poneva una domanda a cui non era interessato a rispondere.
<< Il tuo modo di parlare mi sembrava… diverso. >>
Una voce dall’altro capo del telefono chiamò Lestrade. Il mio salvatore mandato dal cielo, supposi.
<< Devo andare. Ti terrò aggiornato >>. Terminai la chiamata.
<< Grazie, chiunque tu sia! >> esclamai, sollevato.
 
Sherlock era già andato di sopra, in camera mia. Impiegò circa due minuti per prepararsi.
La sua scelta degli abiti non fu tragica come avevo creduto: aveva semplicemente imitato il mio abbigliamento del giovedì precedente.
<< Come sto? Sembro te? >> mi chiese.
<< Bene alla prima, no alla seconda >> risposi in tutta sincerità.
Nulla nel suo atteggiamento era simile al mio. Tutto il resto… era identico.
<< Cerca di impegnarti almeno un minimo >> lo pregai.
Lui sbuffò. << D’accordo… ci proverò >>.
Tornò indietro fino alla porta del soggiorno, e poi rientrò nella stanza con una camminata teatrale.
<< Sherlock! >> esclamò. << Hai di nuovo sparato contro il muro?! Un giorno di questi i vicini chiameranno la polizia, che certamente non avrà nessuna voglia di trascorrere altro tempo in tua compagnia. Per non parlare di Mrs. Hudson! Stai distruggendo la sua casa e saremo costretti a pagare i tuoi danni con i nostri soldi >>.
Rimasi a bocca aperta. Sherlock aveva ripetuto parola per parola la ramanzina che gli avevo fatto due settimane prima, imitando perfettamente i miei gesti e le mie espressioni.
Mi sembrò davvero di trovarmi di fronte ad uno specchio, oppure di essere tornato indietro nel tempo, come in quella serie che trasmetteva la BBC. Doctor… qualcosa.
 << Sei… me >> ammisi.
Sherlock fece un inchino, soddisfatto.
<< Lasciati dire che non sei altrettanto bravo a fingere. Resterai qui… almeno per adesso >>.
<< Cosa dovrei fare qui?! >> domandai, irritato.
<< Quello che faccio io di solito. Spara contro il muro, lamentati di essere annoiato, controlla le dita nel frigorifero, suona il violino… no, dimentica quest’ultima >> aggiunse frettoloso.
Sbuffai, ma alla fine acconsentii di malavoglia.
<< Tornerò tra qualche ora >> disse, e uscì con passo spedito.
 
Credevo che quel pomeriggio sarebbe passato in fretta.
Avevo programmato di leggere il giornale, accendere il computer, fare un pisolino…
Invece non mi fu possibile fare nulla di tutto questo.
La noia rendeva insopportabile ogni istante. Avvertivo il disperato bisogno di fare qualcosa, ma qualsiasi cosa tentassi di fare non era abbastanza.
Il mio cervello, quello di Sherlock, si ribellava prepotentemente all’inattività.
Era una sensazione orribile ed esasperante.
Allora è questo che lui prova continuamente, pensai. Non doveva essere piacevole essere Sherlock a tempo pieno.
 
Circa tre ore dopo, lo chiamai.
Non rispose.
Scaraventai il mio cellulare dall’altra parte della stanza. Se l’era meritato.
Due minuti dopo, ancora più avvilito, andai a recuperarlo e richiamai.
Squillò a vuoto per dieci volte, all’undicesima la voce di John Watson rispose.
<< Sono occupato >>.
<< Sherlock. Aiuto. >> dissi, incapace di articolare pensieri diversi. La mia voce venne fuori monotona e malinconica, identica a quella di Sherlock.
<< Che succede? >> chiese lui, con una nota di preoccupazione.
<< Mi sento di impazzire. Non so che fare. Mi annoio terribilmente >>.
<< Mi hai chiamato perché ti annoi?! >>
<< Sì, ma è quel tipo di noia che conosci bene. Io non so come gestirla >>.
<< Oh… >>.
Trassi un respiro di sollievo al constatare che Sherlock l’aveva presa seriamente.
<< Fuma qualche sigaretta >>, mi consigliò.
<< Non se ne parla! >>, ribattei deciso.
<< Allora usa un paio di cerotti alla nicotina. Ti rilasseranno >>
Mio malgrado, accettai. La soluzione funzionò, almeno temporaneamente.
Avevo fatto i conti con il rovescio della medaglia dell’essere Sherlock. Ora l’unica cosa che restava da fare era trovare il “dritto” della medaglia.
 
Angolino buio e solitario dell’autrice:
Eccomi con il secondo capitolo. Mi dispiace di aver fatto passare così tanto tempo dal primo, ma prometto che da ora in poi gli aggiornamenti saranno più rapidi.
Come sempre, tutte le recensioni, positive o negative che siano, sono più che gradite.
A presto!
Jadis


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Capitolo 3
*** Quando il suddetto coinquilino sociopatico interpreta te stesso meglio di te ***


Ecco il terzo capitolo :) Grazie a tutti quelli che hanno recensito o anche solo letto.
Buona lettura!
 
Sherlock tornò verso le sette, mentre io ero in stato vegetativo sul divano.
Non si prese neanche la briga di chiedere come stessi (mi ero illuso che, essendo io in possesso del suo corpo, si sarebbe almeno preoccupato delle sue condizioni), e iniziò a parlare a raffica.
<< Sono andato a casa Carlton, e ne ho approfittato per fare una visita anche all’appartamento di Samuel Welch. Ho scoperto delle cose interessanti su di lui chiacchierando con la vecchia signora che vive all’ultimo piano.
Dice che, a quanto ne sa, la famiglia Welch abita in quell’edificio da generazioni, e questa non è la prima volta che accadono fatti misteriosi.
Samuel è descritto come ordinato in maniera maniacale, ansioso, nervoso, irrequieto, e indovina un po’? Aveva un tic nervoso che consisteva nell’inclinare leggermente la testa di lato >>.
<< Ma è lo stesso che… >>
<< … che Joanne Carlton ha visto in suo marito. Thomas Carlton non era tipo da tic nervosi. Lestrade mi ha mandato un sms con le informazioni che mi occorrevano su di lui: è calmo, riflessivo, estroverso… >>
<< Perché hai chiesto del suo taglio di capelli? >> domandai, non riuscendo più a trattenere la mia curiosità.
<< Il movimento della testa descritto da Joanne è tipico di coloro che portano un ciuffo davanti agli occhi: è automatico cercare di scostarlo dal viso. E considerato che Thomas porta un taglio militare, che non aveva mai manifestato segni di violenza prima d’ora… >>.
Fece una pausa, attendendo che arrivassi anch’io alla sua conclusione.
<< Intendi dire che potrebbe esserci stato un altro scambio di corpi? >>, chiesi.
<< Sappiamo che è possibile perché lo stiamo sperimentando sulla nostra pelle, quindi potrebbe essere già accaduto precedentemente. In quel caso è probabile che Samuel Welch sia il nostro assassino, e che Thomas Carlton sia la vittima >>.
Sherlock pronunciò l’ultima frase con il solito tono di soddisfazione che assumeva quando si spingeva ai limiti del possibile con le sue deduzioni.
<< Quindi l’uomo che sta per essere processato per l’omicidio di Samuel è in realtà… Samuel stesso >>.
<< Questo spiegherebbe perché Joanne sostiene che suo marito non è più sé stesso e perché questi ha assunto dei comportamenti tipici di Welch. La testimone ha detto che c’erano due uomini nella stanza, di cui uno era Samuel. Sappiamo che l’altro era Thomas perché sono state trovate tracce del suo sangue e sappiamo che dopo essere uscito da quella stanza lo scambio era già avvenuto. Quindi l’unica soluzione possibile è che Samuel sia entrato nel corpo di Thomas e che abbia poi ucciso il suo stesso corpo >>.
Impiegai qualche secondo per riordinare le idee.
<< Allora l’uomo che è stato arrestato è davvero l’assassino… più o meno >>.
<< Sì >>, rispose Sherlock, << ma adesso dobbiamo fare i conti con una questione più urgente: se davvero Samuel ha la capacità di indurre uno scambio di corpi a suo piacimento, allora è possibile che fugga senza che nessuno se ne accorga >>.
<< Possiamo dirlo alla polizia… >>
<< Certo >>, rispose Sherlock, ironico, << così ci prenderanno per pazzi. No, dobbiamo parlargli per essere certi che si tratti davvero di lui… e scoprire se è responsabile anche del nostro stato attuale >>.
<< Tu credi che lo sia? >>
 
Prima che Sherlock potesse rispondermi, squillò il suo cellulare.
Lo prese dalla tasca e me lo diede.
Era Lestrade, lessi sul display.
<< Pronto? >> risposi.
<< Il processo di Thomas Carlton è stato sospeso. Lui è in coma >>.
L’ultima frase risuonò nella stanza, su cui era calato il silenzio più totale.
<< Com’è successo? >>, chiesi, vedendo che Sherlock non diceva nulla.
<< I medici non riescono a spiegarselo. Si tratta di morte celebrale >>.
<< Nessuna possibile causa? >>
<< Apparentemente no. Godeva di ottima salute fino a mezz’ora fa.  Poi è accaduto tutto con una velocità… innaturale >>.
Sherlock iniziò a sussurrare frasi brevi e concitate, che io ripetei al cellulare.
<< Devo vedere la cella. Poi devo vedere lui. Tra mezz’ora saremo lì >>.
Sherlock mi tolse il cellulare di mano e chiuse la chiamata, poi balzò in piedi.
<< Aspetta! >> lo fermai. << Da quanto tempo non mangi qualcosa? >>.
La domanda lo colse a bruciapelo. << Non lo so… che importanza ha? >>.
<< Puoi fare quello che vuoi finché le conseguenze ricadranno su di te, ma adesso sei nel mio corpo, e quindi devi nutrirti come si deve >>.
Sherlock acconsentì di malavoglia e si avviò verso la cucina.
Aprì il frigo e, scostando numerose buste contenenti resti umani, scelse del formaggio.
<< Non farlo >> lo avvertii.
Lui si voltò, irritato. << Cosa c’è adesso? >>.
<< Io non mangio il formaggio >>, spiegai.
<< E allora? A me piace >>.
<< Se vuoi avere mal di stomaco per il resto della giornata fa’ pure… >>.
Sherlock mi fissò irritato. << Ma a me piace… >>, borbottò.
Alla fine il suo istinto di auto-conservazione prevalse e scelse dell’altro da mangiare.
 
Uscimmo poco dopo.
Io indossai gli stessi abiti che era solito portare Sherlock, compreso il cappotto e l’immancabile sciarpa blu.
Scoprii di sentirmi enormemente a disagio camminando per strada tentando di imitare l’andatura e lo sguardo impassibile di Sherlock.
<< Stai andando bene >> mi rassicurò lui, probabilmente giusto per limitare il mio nervosismo.
<< Ne dubito >> risposi a denti stretti.
Fermai un taxi, contento di sottrarmi agli sguardi dei passanti.
I miei occhi (che erano quelli di Sherlock, non mi stancherò mai di precisarlo) guizzavano da un punto all’altro istintivamente. Anche se non riuscivo a cogliere gli infiniti dettagli e le relative deduzioni che certamente Sherlock avrebbe notato, constatai che l’azione di osservare era diventata automatica per il suo corpo.
Dopo un po’ diventava snervante. Per me si trattava semplicemente di vedere troppe cose a cui non riuscivo a dare un senso.
<< Sherlock? >>, dissi, mentre eravamo in taxi.
<< Mmm… >>
<< Come va la faccenda dell’osservare? >>
Sherlock sembrava troppo impegnato a fissare lo specchietto retrovisore.
Ignorò di sana pianta la mia domanda e assunse quell’aria da “al momento ho cose più importanti di cui preoccuparmi”.
<< Qualcuno ci segue >> dichiarò infine, a bassa voce.
Feci per voltarmi, ma Sherlock mi trattenne e indicò lo specchietto retrovisore.
Dietro di noi c’erano tre macchine e un taxi.
<< Mentre camminavamo c’era un uomo che ci seguiva. Quando abbiamo chiamato il taxi ne ha preso uno anche lui e adesso sta facendo il nostro stesso tragitto >>.
<< Magari stiamo solo andando nella stessa direzione >>.
<< Ne dubito. Ma possiamo scoprirlo… >>.
Fermò il taxi poco più avanti, in prossimità di una stazione della metro.
Quando scendemmo diedi una rapida occhiata all’altro taxi e vidi che si era fermato anch’esso. Dall’auto uscì un uomo sulla trentina, piuttosto alto. Si diresse verso di noi.
<< Non guardarlo. Continua a camminare >> mi intimò Sherlock.
<< Ci sta seguendo >>.
<< Lo so. E voglio seminarlo. >>, rispose Sherlock, determinato.
<< Potrebbe essere un rapinatore >>
<< Se lo fosse stato, avrebbe rapinato quella ragazza con la borsa firmata che camminava a pochi metri da noi. Lei era sola e palesemente ricca, noi siamo due uomini palesemente impegnati in qualcosa di serio. La scelta sarebbe stata semplice… >>.
Dopo qualche secondo Sherlock aggiunse, con disinvoltura. << E ha un coltello >>.
Trasalii. << Come lo sai? >>.
<< L’ho intravisto sotto la sua giacca. Per questo faremmo meglio a seminarlo >>.
Svoltammo in direzione della stazione. La metro doveva essere appena arrivata perché la zona si affollò con sorprendente rapidità.
<< Prenderemo la metro? >> chiesi.
<< No, sorpasseremo la stazione e proseguiremo. Nel migliore dei casi ci perderà di vista >>.
Furono le ultime parole che udii prima di entrare nel turbine di voci, cappotti, risate, saluti che si fondevano insieme in un vortice di sensazioni. I miei occhi si soffermavano con insistenza esasperante su ogni singolo individuo che si trovava nel loro campo visivo.
Era oltremodo fastidioso considerato che avevo ben altro a cui pensare.
Affrettai il passo e mi allontanai dalla folla. Mentre le voci si andavano smorzando provai una fitta di inquietudine che mi costrinse a voltarmi indietro.
Avevo perso di vista Sherlock.
Un terribile presentimento si fece strada tra i miei pensieri, e iniziai a chiedermi che ne sarebbe stato di me se gli fosse accaduto qualcosa.
Tornai indietro, cercando la mia faccia tra i volti che passavano.
Avvertii il cuore di Sherlock che batteva dentro di me farsi più accelerato, e improvvisamente la moltitudine d’informazioni che affluivano al mio cervello sembrò aumentare.
Solo in quel momento capii appieno il significato della seconda parte della definizione “Sociopatico ad Alta Funzionalità”.

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Capitolo 4
*** Quando la vittima del caso torna per puntarti un coltello alla gola ***


Eccovi il capitolo 4. Qui avremo un po’ di tensione… ;)
 
Mentre vagavo con lo sguardo in cerca di Sherlock, qualcosa catturò la mia attenzione.
Qualcosa di molto piccolo, che in condizioni normali certamente non avrei notato.
Uno scintillio nell’oscurità. Un riflesso della luce su una superficie metallica proveniente da un vicolo buio a pochi metri da me.
Luce. Metallo. Lama. Coltello. Sherlock.
Il collegamento fu istantaneo, e prima che me ne rendessi conto le mie gambe si erano già messe in moto verso la stretta stradina.
Mi accolse il suono di una voce sommessa che non riconobbi. Ero sul punto di tornare indietro, quando rividi la lama del coltello che risaltava nell’oscurità quasi totale.
Mi avvicinai, più silenziosamente che potevo.
C’era un’ombra poco distante, rivolta verso il muro.
<< Chi sei? >>, sentì dire.
Era una voce maschile, profonda.
<< John Watson >>.
Trasalii quando la mia voce pronunciò il mio nome.
Per un attimo temetti di essere scoperto, poi ricordai che quella voce non era più la mia.
Feci un passo in avanti, lentamente, pregando di non essere visto.
La scena che riuscii ad intravedere mi fece raggelare. Sherlock era bloccato contro il muro dall’uomo che fino a poco prima ci seguiva. Questi era alto, robusto, portava una giacca troppo piccola per la sua taglia e, giusto per evidenziare un dettaglio a caso, puntava un coltello alla gola di Sherlock. La mia gola, per l’esattezza.
<< Chi sei realmente? >>, lo sentii chiedere nuovamente.
<< John Watson. Posso provartelo… ho un documento >>. La voce di Sherlock sembrava totalmente calma mentre fingeva di essere me.
<< Non voglio prove. Voglio sapere chi sei ora>>, l’uomo sembrava essersi innervosito.
Avanzai di un altro passo.
Udii un sospiro.
<< Sherlock Holmes >>, rispose la mia voce.
L’uomo con il coltello sembrò soddisfatto. << Speravo fossi tu >>.
Avanzai ancora. Ero a pochi passi da lui e potevo guardare Sherlock negli occhi.
Lui mi guardò per un istante, ma distolse lo sguardo subito dopo. Mi sentii più tranquillo sapendo che mi aveva notato.
<< Sarebbe educato se ti presentassi anche tu… >> esordì Sherlock.
Sta facendo conversazione?!
<< Non posso ancora dirlo con esattezza. Questa forma è del tutto nuova per me >>.
<< Capisco cosa si prova >>.
Avanzai di alti due passi.
<< Puoi chiamarmi Samuel Welch >>.
Sherlock sorrise. Io ripetei mentalmente la frase che avevo sentito.
Era possibile che quell’uomo fosse davvero chi sosteneva di essere?
Se era così, allora la supposizione di Sherlock dello scambio di corpi tra Samuel e Thomas doveva essere errata.
Ma non attesi di scoprire altro. Per quanto ne sapevo, quell’uomo avrebbe potuto averne improvvisamente abbastanza di quella situazione per decidere di uccidere Sherlock.
Scattai in avanti, coprendo la breve distanza che ci separava con un balzo.
Afferrai innanzitutto il suo braccio destro, che teneva il coltello. L’uomo sobbalzò, evidentemente colto di sorpresa, e si divincolò dalla mia stretta.
Era più forte di me, e forse anche di Sherlock. Si voltò così in fretta che non ebbi il tempo di difendermi. Mi sarei ritrovato completamente inerme se Sherlock non lo avesse trattenuto da dietro.
<< Ottimo tempismo, John! >>, esclamò.
L’uomo alzò nuovamente il coltello. Nei suoi occhi si rifletteva la furia e la disperazione di chi è pronto a fare qualsiasi cosa per salvaguardarsi. Era come un lupo caduto in trappola, che vede avvicinarsi un cacciatore.
La lama sibilò nell’aria. Io mi protesi in avanti ancora una volta, incurante del fatto che avrei potuto trovarmi sulla sua traiettoria.
Riuscii ad afferrare il coltello. Me ne accorsi solo quando sentii l’acciaio ferirmi la pelle.
Con l’aiuto di Sherlock m’impossessai una volta per tutte del pugnale.
L’uomo ci rivolse un ultimo sguardo furioso, la testa che scattava di lato in continuazione come fosse indipendente dal resto del corpo.
Colui che dichiarava di essere Samuel Welch corse via. Uscì dal vicolo e andò tra la folla che ancora non si era del tutto diradata.
Allungai una mano nell’oscurità e la poggiai sulla spalla di Sherlock. Per qualche istante udimmo soltanto il suono dei nostri respiri affannosi e i rumori attutiti della città.
<< Sei tutto intero? >>, chiesi.
<< Sì >>, rispose Sherlock. << Grazie >>, aggiunse esattamente tre secondi dopo.
Non ricordavo di aver mai sentito questa parola dettami da Sherlock. Forse perché quella non era la voce di Sherlock, bensì la mia; o forse perché non l’aveva mai fatto.
Sì, quest’ultima alternativa era decisamente più probabile.
<< Sto solo cercando di badare a me stesso >>, risposi.
Solo allora mi accorsi che stringevo ancora la lama del coltello, mentre il palmo della mia mano iniziava a sanguinare copiosamente.
 
Finalmente uscimmo dal vicolo buio.
Osservai con sollievo che la mia ferita era superficiale e pensai che non mi avrebbe dato troppi problemi.
<< Non è grave >> dissi a Sherlock. Dopotutto, la mano era sua…
Lui annuì, lo sguardo già perso in pensieri lontani.
<< Hai idea di chi fosse? >>, domandai.
<< Solo una. Ed è folle, illogica, improbabile… diciamo pure impossibile >>.
<< Credo dovresti rivedere quella parte del tuo processo deduttivo che riguarda l’eliminazione dell’impossibile >>.
<< Sì. È quello che farò >>.
Sherlock prese il cellulare, chiamò la polizia e, con estrema calma, raccontò del “tentato omicidio con arma da taglio”.
<< Allora? >> chiesi, non appena ebbe finito, << Chi era quello? >>
<< Ma è ovvio. E’ chi dice di essere. E’ Samuel Welch >>.
 

 

 

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Capitolo 5
*** Quando ti dicono che stai facendo progressi ***


Scusate il ritardo… ho avuto problemi di connessione ^^
 
 
I due giorni successivi furono surreali e frenetici.
Sherlock era ben deciso a seguire la folle teoria che Samuel Welch, la nostra vittima, sia stato invece l’assassino, che abbia ucciso il proprio corpo, che si sia fatto arrestare e che sia scappato di prigione entrando in un altro corpo, lasciando quello di Thomas Carlton, in origine la vera vittima del caso, in stato di coma irreversibile.
Il solo pensare a tutto ciò mi faceva venire il mal di testa. Ed è della testa di Sherlock che stiamo parlando.
Dopo l’aggressione,  avevamo fornito alla polizia la descrizione completa dell’uomo con il coltello, omettendo ovviamente la parte riguardante la conversazione che avevamo avuto.
I brillantissimi agenti di Scotland Yard saranno già abbastanza confusi, pensai. Sherlock sembrò concordare.
Come dicevo, i giorni successivi trascorsero in fretta,  mentre esaminavamo la cella di Carlton…o quella di Welch, comunque la si voglia chiamare, e interrogavamo tutti coloro che avessero avuto a che fare con lui in prigione.
In quei momenti Sherlock mi suggeriva cosa dire ed io ripetevo, recitando la sua parte meglio che potevo. Lui, d’altro canto, era bravissimo a recitare la mia.
A volte avevo la strana impressione che gli altri iniziassero ad intuire qualcosa.
Soprattuto Lestrade, che conosceva Sherlock da più tempo di me, a volte ci guardava in modo strano, come se ci stesse studiando.
Un giorno mi chiamò in disparte.
Con il cuore in gola, lanciai un’occhiata allarmata a Sherlock, che sembrò condividere appieno la mia preoccupazione.
Seguii Lestrade nel suo ufficio, mentre valutavo le uniche possibilità che avevo: mentire o dire la verità.
La verità era fuori discussione e mentire non era il mio forte.
<< Che sta succedendo? >> chiese Lestrade.
Cercai di assumere un’aria annoiata. << Stavo indagando su un caso, prima che tu mi interrompessi. Ecco cosa sta succedendo >>.
<< Questo non è un caso come gli altri. Un uomo ha ucciso un suo amico. L’assassino non sarà processato perché è in coma, e il movente è probabilmente Joanne Carlton. Il caso dovrebbe essere ormai chiuso per te, invece continui ad interessartene come se ne dipendesse la tua vita. Poi un uomo vi aggredisce. Dite di non sapere chi sia, ma in qualche modo sapete che è qualcuno che recentemente è entrato in contatto con Thomas Carlton. E’ evidente che tu e John state nascondendo qualcosa… ed io non sono l’unico interessato a scoprirla >>.
Trassi un respiro profondo. Era proprio quello che temevo sarebbe successo.
<< D’accordo, hai ragione. Stiamo nascondendo qualcosa >>.
Lestrade mi guardò perplesso. Era l’ultima cosa che si aspettava che dicessi.
<< Se ti dicessi tutto quello che so renderei solo le cose più complicate, e credimi quando ti dico che lo sono già a sufficienza. Ci serve il tuo aiuto >>.
Quest’ultima frase lasciò Lestrade sconcertato. Per un attimo avevo dimenticato di essere Sherlock e avevo detto quello che io avrei detto in una situazione simile.
John, sei stato un idiota, pensai. Certamente Sherlock avrebbe detto la stessa cosa, quindi eravamo in due a pensarlo.
<< Come posso aiutarvi? >>, chiese infine Lestrade, studiandomi con un’espressione che voleva dire: chi sei tu e cosa ne hai fatto di Sherlock?
<< Non fare domande. Te ne saremmo molto grati >>. Risposi.
Al momento, quella era l’unica cosa che Lestrade poteva fare per me.
 
<< Sherlock, l’abbiamo trovato! >>.
Il vero Sherlock, quello che se ne andava in giro nel mio corpo, aveva fatto irruzione nella stanza. Era eccitato, come solo Sherlock può esserlo di fronte ad una grande rivelazione.
<< Sappiamo chi è l’uomo con il coltello. Era Robert Allen, un addetto alle pulizie e un paio di volte era stato visto parlare con Thomas Carlton. Da quando Carlton è in ospedale, Allen non si è presentato al lavoro e nessuno dei suoi conoscenti l’ha più visto >>.
<< Credi che possa essere stato Carlton a dirgli di voi? >>, mi chiese Lestrade.
<< Forse >> risposi.
In realtà sapevo bene quello che Sherlock intendeva dire. Che Samuel possa essere passato nel corpo di Robert Allen, lasciando così il suo precedente corpo, quello che originariamente era di Thomas, senza nessuno ad abitarlo. Ecco perché era in coma.
Leggevo negli occhi di Sherlock le stesse deduzioni che stavo facendo io. Forse eravamo sulla giusta strada…
Lestrade iniziò ad adoperarsi per organizzare le ricerche di Robert Allen.
<< Per oggi abbiamo finito >>, dichiarai.
 
Durante il tragitto verso casa, scoprii che Sherlock aveva pensato esattamente quello che avevo pensato io: Samuel Welch era ora nel corpo di Robert Allen, e in qualche modo era interessato a noi.
<< Stiamo facendo progressi >>, commentò Sherlock.
Certo. Passi da gigante. Abbiamo un omicida a piede libero che potrebbe essere chiunque e che ci sta cercando. Nel frattempo sono intrappolato in questo corpo troppo lungo, troppo magro e troppo intelligente.
Sì, stiamo facendo progressi.

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Capitolo 6
*** Quando ti scavi la fossa tra abbracci, Tardis nel giardino e coming out ***


Capitolo molto breve, spero anche divertente, che ho inserito per portare un po’ di leggerezza in vista dei futuri risvolti drammatici della storia… oops, Spoiler!
 
Se mai scrivessi un libro intitolato “la tipica giornata nel corpo di Sherlock” inizierei dicendo che la parte peggiore è la notte.
Non so da quale misteriosa forza quest’uomo attinga per avere tanta energia, che gli permette persino di non dormire la notte dopo una lunghissima giornata trascorsa in giro per Londra.
Dopo averlo sperimentato sulla mia pelle (in realtà la sua), posso dire con certezza che dormire è l’impresa più difficile che abbia mai affrontato negli ultimi giorni. E vi dirò di più: è fallita miseramente.
Credo di aver dormito non più di un paio d’ore ogni notte, mentre Sherlock mi assicurava che nel mio corpo riusciva a dormire come un bambino. Anche otto o nove ore di fila, traguardo che non ero riuscito neanche io a raggiungere da quando ero tornato dalla guerra.
Il risultato finale era questo: Sherlock era perennemente di buon umore, ottimista riguardo al caso e persino paziente con gli agenti di Scotland Yard, mentre io ero nervoso, irritabile e teso come una corda di violino (il quale, per inciso, non mi era neanche concesso toccare).
La mattina del quarto giorno dalla Casa Maledetta, così avevamo chiamato l’abitazione dei Carlton e di Welch, Mrs Hudson era tornata a casa dopo aver fatto la spesa.
Non appena sentii la porta aprirsi, andai all’entrata e presi le due buste più pesanti. Avevo fatto tutto così automaticamente che non mi ero accorto che la signora Hudson mi guardava sconvolta.
<< E’ successo qualcosa a John? >>, chiese, preoccupata.
In un attimo, realizzai. Ero sempre io che la aiutavo con le buste della spesa, mentre ora si era vista arrivare Sherlock, colui che entrava in un supermercato solo quando si trattava di pedinare un sospettato.
<< No, è tutto a posto. Volevo solo rendermi utile >>.
 
Questo piccolo, insignificante episodio mi ricordò quanto potere avevo su Sherlock in quel momento.
Sì, lo so cosa starete pensando: avevamo promesso di non ricattarci a vicenda. Ma questo non era un ricatto, era solo uno scherzo innocente…
Vieni a Baker Street, è un’emergenza – SH. Invia. Destinatario: Mycroft.
Speravo che “mio” fratello sarebbe arrivato prima del ritorno di Sherlock, altrimenti potevo a stento immaginare quello che avrebbe potuto dire o fare.
Mycroft arrivò mezz’ora dopo. Sherlock non era ancora tornato. Era il momento perfetto.
Andai ad aprire la porta e… abbracciai Mycroft.
Questi rimase immobile durante tutta la durata dell’abbraccio, poi mi prese per le spalle, mi avvicinò a lui e disse, serissimo, << Stai per morire? >>.
<< No >>, risposi.
<< Sto per morire io allora? >>. Mycroft si guardò intorno, preoccupato.
<< No, volevo solo rivedere il mio fratello preferito >>.
Mycroft strabuzzò gli occhi.
<< Qualcuno ti minaccia per dirmi questo? >> chiese, ma non mi diede il tempo di rispondere che cambiò domanda. << C’è la mamma? >>.
Scossi la testa, trattenendomi dal ridere.
Mycroft mi studiò attentamente per qualche secondo, come se aspettasse di sentirsi dire che era tutto uno scherzo, oppure, più probabilmente, come se fosse in attesa di vedermi mutare aspetto come un X-men.
Vedendo che non accadeva nulla, abbassò lo sguardo, sconsolato.
<< Prima John, ora questo. Ormai non mi stupirei neanche se si materializzasse un Tardis nel mio giardino >>.
<< Anche tu vedi quella… aspetta, cosa ti ha detto John? >>.
<< L’ho incontrato mentre venivo. Mi ha informato del suo…coming out. Non lo sapevi? >>.
Maledetto sociopatico.

Spero di avervi strappato un sorriso :) Il prossimo capitolo arriverà tra tre o quattro giorni.

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Capitolo 7
*** Quando ti rilassi quando non dovresti: ecco cosa succede ***


Come promesso, ecco il nuovo capitolo! Le cose iniziano a complicarsi…
 
Quando Sherlock scoprì cosa avevo fatto diventò furioso.
Devo ammettere che è stato divertentissimo vedere me prendersela con me. Un’esperienza da ripetere.
Sherlock mi costrinse a dire a Mycroft che si era trattata di una scommessa persa, e che nulla di quello che avevo detto o fatto era stato sincero. In cambio, lui fece lo stesso con il mio coming out.
Quando fu tutto finito, la rabbia di Sherlock non era ancora sbollita.
<< Mi vuoi spiegare perché diavolo l’hai fatto?! >> mi chiese, mentre eravamo nel soggiorno di Baker Street.
<< E’ stato un esperimento sociale >> risposi, impassibile. Una volta tanto toccava a lui sentirsi rifilare la scusa dell’”esperimento”.
<< Per colpa di questo tuo “esperimento sociale” Mycroft avrebbe potuto scoprirci! >>.
<< Scoprire cosa? Che io sono te? Ma ti ascolti quando parli?! >>.
Qualcuno bussò alla porta.
<< Avanti >>, disse Sherlock.
La signora Hudson entrò, un po’ esitante. << Scusate se ho interrotto qualcosa… >>.
<< Non era niente >> risposi, lanciando uno sguardo eloquente a Sherlock.
<< Hanno lasciato un pacco per voi >>, disse la signora Hudson, mostrando una piccola scatola incartata.
Il biglietto diceva: Sherlock Holmes e John Watson, residenti al 221b di Baker Street. Firmato: Samuel Welch.
La signora Hudson era già uscita dalla stanza, ma chiusi comunque la porta per precauzione.
Scartai la scatola e la aprii. C’era un cellulare. Un Samsung vecchio modello.
<< Dovremmo aprirlo? >>.
Sherlock prese il cellulare e se lo rigirò tra le mani, esaminandolo. << E’ stato comprato da poco. Usato una volta o due >>.
Sherlock lo accese. Lo sfondo era bianco. Controllò i messaggi, poi la casella vocale, infine le registrazioni. Ce n’era una.
<< Buongiorno ragazzi. E’ stato un peccato che la nostra piacevole chiacchierata sia stata interrotta in maniera così brusca. Dovresti ripassare le buone maniere, John >>. La voce era quella dell’uomo con il coltello, constatai con un brivido. Non avrei mai più potuto dimenticarla. << Ma non importa, possiamo continuarla qui. Ho avuto modo di notare che avete accidentalmente sperimentato la mia...abilità. Non dev’essere stato piacevole. Non lo è neanche per me, se può consolarvi. Probabilmente adesso avrò tutto Scotland Yard alle costole, ma non mi preoccupa. Quando ascolterete questo messaggio, Robert Allen sarà già morto ed io mi sarò trovato un altro corpo in cui andare in giro. Devo ammettere, però, che sono un po’ in pensiero per voi. Quindi voglio proporvi un piccolo accordo: voi smettete di indagare su di me e fate chiudere il caso, ed io vi darò un consiglio su come liberarvi della vostra… situazione scomoda. Se accettate, ci vediamo domani al tramonto, al 47 di Paddington Street >>.
La registrazione finì, e la stanza piombò nel silenzio.
Sherlock rifletteva, quindi mi guardai dal disturbarlo. Se pensare fosse stato rumoroso, allora Sherlock si sarebbe sentito in tutto il quartiere.
<< Facciamo come dice lui >> disse infine.
<< Non bisognerebbe trattare con i criminali… e lui è un omicida >>.
<< Samuel sa che la polizia non potrà mai trovarlo, quindi c’è da chiedersi perché sia venuto da noi la prima volta. Non credo avesse intenzione di uccidermi, voleva solo spaventarmi abbastanza per indurmi a dire la verità. In qualche modo sa che io e te ci siamo scambiati di corpo, ma dubito sia stato lui a causarlo, perché non ne avrebbe avuto motivo. Qualsiasi altra persona, al suo posto, a quest’ora sarebbe già scappata all’estero, con una nuova identità di cui nessuno sospetterebbe mai, ma lui è ancora qui. Perché? C’è qualcosa che vuole nascondere, o proteggere o di cui ha bisogno. Non è un oggetto, altrimenti potrebbe portarlo con sé. Potrebbe essere una persona… >>.
<< Forse Joanne Carlton? >> azzardai.
<< Ne dubito. Una donna non varrebbe tutto questo >>.
Mi trattenni dal fare un discorso su come l’amore possa spingere un uomo a compiere gesti estremi. Sarebbe stato come tentare di insegnare ad un serpente a fare gli origami.
<< Ma da quello che ci ha detto la signora Carlton è evidente che Samuel provava un certo interesse nei suoi confronti… >>..
<< Non lo definirei “interesse”. Piuttosto provava un forte senso di gelosia e possesso. Per questo la sua prima vittima è stata Thomas. Voleva che Joanne pensasse che suo marito fosse un assassino, poi l’ha ucciso nel modo peggiore: lasciando in vita solo il suo corpo. Sei ancora convinto che la amasse? >>.
Mormorai qualcosa. Era incredibile come Sherlock riuscisse sempre ad avere l’ultima parola. E anche esasperante, aggiungerei.
<< Quindi cosa fa… >> il resto della frase finì sommerso da uno sbadiglio. Le notti insonni iniziavano a farsi sentire.
Sherlock mi guardò, per la prima volta comprensivo.
<< Non hai dormito? >>, mi chiese.
<< No. E’ terribilmente difficile con quel cervello instancabile che ti ritrovi >>.
<< Mi dispiace >>, disse. Sembrava davvero dispiaciuto.
Iniziai a chiedermi se quello che avevo davanti non fosse realmente John Watson, invece di qualcuno che ne aveva le sembianze.
<< Riposati, io andrò a verificare una mia teoria… >>.
<< Non avrai intenzione di andare ad incontrare Samuel da solo! >>
<< Il messaggio diceva domani. Andremo insieme domani >>.
Ero troppo stanco per notare quella leggera nota nella voce di Sherlock, che usava per tranquillizzarmi quando stava per fare qualcosa di stupido e pericoloso.
Mi stesi sul divano e ascoltai il fruscio del il mio cappotto che veniva tolto dall’appendiabiti, poi la porta che si apriva, Sherlock che diceva alla signora Hudson di non aspettarlo per cena, e infine la porta che si chiudeva. C’era un che di rassicurante nel silenzio.
Forse riuscii a dormire per qualche minuto, o forse no. Non me lo ricordo. Ma una cosa è certa: se avessi saputo quello che sarebbe successo dopo, avrei cementato la porta pur di non lasciare uscire Sherlock.
 
Angolino dell’autrice:
Grazie a tutti quelli che hanno recensito e anche ai lettori silenziosi. Il prossimo capitolo sarà dal punto di vista di Sherlock, quindi vi chiedo in anticipo un po’ di comprensione nel giudicarlo. Provare ad immedesimarsi in lui non è tanto facile xD

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Capitolo 8
*** Quando inizi a pentirti di non aver messo nessuno al corrente dei tuoi piani ***


Eccomi! Scusate il ritardo, in questi giorni ho avuto poco tempo per scrivere. Questo capitolo sarà dal punto di vista di Sherlock, quindi potete immaginarlo mentre cammina con la sua solita aria da “mente superiore”… nel corpo di John!
Spero che vi piaccia (il prossimo lo posterò martedì o mercoledì).
Buona lettura!
 
John mi aveva lasciato uscire senza insospettirsi. Doveva essere davvero esausto.
Avevo preferito non coinvolgerlo in un piano che poteva rivelarsi pericoloso.
Ricordai a me stesso che in realtà stavo coinvolgendo John, dal momento che andavo in giro nel suo corpo. Ma negli ultimi tempi me ne dimenticavo spesso. All’inizio era stato snervante camminare con quelle gambe troppo corte e pensare con quel cervello troppo lento, ma con il passare dei giorni era diventato quasi piacevole. Nel corpo di John era facile rilassarsi, mentre la noia quasi non esisteva. La notte dormivo meglio e il giorno dopo ero di umore migliore. Inoltre, avevo scoperto che John infondeva fiducia alle persone, il che era utilissimo nell’interrogare i testimoni.
Scoprii di essere quasi spensierato mentre mi dirigevo a casa di Samuel Welch.
Durante tutti gli inseguimenti e le congetture, non avevo mai indagato con sufficiente attenzione sulla casa nella quale era avvenuto l’omicidio.
Sapevo che Joanne Carlton si era trasferita, e che la vecchia signora era morta per cause naturali.
Ma l’appartamento di Samuel era stato acquistato da uno studente universitario, e quindi era di nuovo abitato.
Se Samuel non aveva ancora lasciato il paese e continuava ad aggirarsi per Londra rubando corpi, doveva esserci qualcosa a trattenerlo. Secondo la mia teoria, si trattava della sua casa.
Considerato che la famiglia Welch era vissuta lì per generazioni e che lo scambio di corpi tra me e John era avvenuto proprio dopo aver esaminato la casa, forse avevo scoperto la fonte del potere di Samuel.
Sapevo che Welch si trovava dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarlo, quindi perché non nella sua stessa casa, con un nuovo corpo? Se la mia deduzione era esatta, e di solito lo erano, non si sarebbe neanche aspettato di vedermi arrivare, dal momento che dovevamo incontrarci il giorno dopo.
 
Mentre bussavo alla porta, provai il familiare senso di eccitazione tipico di quando mettevo alla prova una mia congettura. Il più delle volte si rivelava esatta, ma questa volta ero particolarmente impaziente di scoprirlo…
<< Salve. Posso aiutarla? >>. Venne ad aprirmi un ragazzo sulla ventina, dal fisico asciutto. Mi parve abbastanza alto, ma da quando ero nel corpo di John avevo questa impressione di molte persone.
Il ragazzo aveva i capelli castani e lo sguardo nervoso. Si accigliò per un istante quando mi vide.
<< Sono John Smith e sono qui per farle alcune domande sull’acquisto di questo appartamento >>.
Sapevo che il nome falso avrebbe funzionato solo se non si fosse trattato di Samuel; in caso contrario… doveva avermi già riconosciuto.
<< I documenti non erano in regola? >>.
<< Sì, lo erano, ma io ero più interessato alla casa in sé… posso entrare? >>.
<< Certamente >>, rispose il ragazzo, l’espressione indecifrabile. << Si accomodi sul divano, torno subito >>.
Forse fu il modo di pronunciare la lettera “s”, oppure il modo in cui camminava, non saprei dirlo con precisione, ma tutto quello che so è che in quel momento capii di trovarmi in presenza di Samuel Welch.
E questa volta, l’avevo colto di sorpresa.
Mi sedetti sul divano. Ero teso, pronto a scattare, ma facevo del mio meglio per nasconderlo.
Diedi una rapida occhiata al soggiorno. Era stranamente vuoto. Era come se non ci vivesse nessuno, o come se fosse pronto per trasferirsi altrove…
Samuel si diresse nella stanza adiacente. Non appena uscì dal mio campo visivo, infilai la mano nella tasca destra con un gesto disinvolto. Mi ci sarebbe voluto un istante per estrarre la pistola di John, il che mi faceva sentire più sicuro.
Attesi appena qualche secondo, poi un fruscio mi avvertì che Samuel era dietro di me. Non ebbi il tempo di voltarmi, perché avvertii il tocco freddo della canna di una pistola dietro la testa.
Istintivamente serrai le dita attorno alla rivoltella di John e mi preparai a spostarmi dalla linea di tiro di Samuel.
<< Hai due secondi di tempo per alzare le mani, oppure avrai l’incantevole visione delle interiora della tua testa che decorano la parete >>.
Obbedii. In ogni caso, se Samuel non mi avesse ucciso, l’avrebbe fatto John.
Perché non avevo pensato che la stanza in cui era entrato Welch poteva affacciare sulla parte opposta del soggiorno? Tutta colpa del cervello di John. Troppo lento.

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Capitolo 9
*** Quando spari ad un assassino e questi ti restituisce il favore... con gli interessi ***


Siamo finalmente arrivati alle spiegazioni.
Questo capitolo mi ha tenuta impegnata a lungo, perché volevo che fosse esaustivo e nello stesso tempo che mantenesse il ritmo della storia.
Adesso starà a voi giudicare…
Buona lettura!
 
Samuel fece il giro del divano, senza mai smettere di tenere la pistola puntata su di me.
Prese una sedia dal tavolo accanto, e si sedette in modo da potermi guardare negli occhi.
<< Sei Sherlock Holmes? >>, mi chiese. La voce aveva assunto quella cadenza che ben conoscevo.
<< Sì >>.
<< Ma il corpo in cui ti trovi è quello di John Watson >>.
<< Sì >>.
<< Lui dov’è ora? >>.
<< A casa. E sa che sono qui. Quindi da un momento all’altro potresti ritrovarti circondato da agenti di polizia >>. Sperai di spaventarlo, ma in realtà ero io quello scoraggiato. John non aveva la minima idea che io fossi lì.
<< Capisco. Allora è meglio che mi sbrighi >>.
Samuel sorrise, ma il suo modo di sorridere somigliava di più ad un ghigno intimidatorio.
<< Avevo organizzato tutto per domani. Ma vedo che hai anticipato il nostro appuntamento. Come hai fatto a capire così in fretta chi ero? >> 
<< Non sei un bravo attore >>.
<< Non appena me ne andrò da qui, non avrà più importanza >>.
<< So cosa ti tiene a Londra >>.
Per un attimo, intravidi un barlume di dubbio nello sguardo di Samuel. << No, non lo sai >>, rispose.
<< Il tuo potere è in qualche modo legato alla tua casa. Altrimenti perché resteresti qui dopo aver ucciso due persone? Ma ci deve essere anche qualcosa di più. Perché se fosse solo questo il problema, saresti già a miglia di distanza in un altro corpo. In realtà l’accordo che ci hai proposto non aveva nulla a che vedere con la polizia. A te non importa di essere un ricercato, perché nessuno potrà mai trovarti. Invece volevi aiutare me e John a tornare nei rispettivi corpi. Il tuo altruismo è molto toccante, ma perdonami se insisto a vederci un secondo fine. Il vero motivo per cui volevi incontrarci era per ucciderci, il modo più efficace per assicurarti che non avremmo parlato. E’ vero che non c’era molto che potessimo dire, ma eravamo gli unici che sapevano di te, e sarebbe stato un rischio troppo grande lasciarci uno nel corpo dell’altro. Sto andando bene? >>.
Samuel era rimasto in silenzio. Non era più in grado di nascondere lo stupore.
Conoscevo bene quell’espressione. Per qualche strano motivo, era la stessa che avevano tutti quelli a cui esponevo una mia deduzione.
Samuel strinse la presa sulla pistola, e per qualche attimo temetti che mi avrebbe sparato.
<< D’accordo >>, disse infine. << Farò il tuo gioco. Vedo che la tua spiegazione manca di un punto fondamentale: il come. Ti sarai certamente chiesto come faccio a spostarmi da un corpo all’altro consapevolmente, e soprattutto come avete fatto tu e Watson a farlo inconsapevolmente, Avrai già intuito che questa casa possiede una sorta di forza psichica. Io ho imparato ad usarla… dopo anni di esercizio. La chiave è la volontà. Il volere essere un’altra persona. Un volere così forte da riuscire a forzare il luogo più intimo di quella persona: la sua anima. E’ come violentare una donna. Sei eccitato mentre lo fai, e dopo ti senti sporco dentro, come se niente al mondo potesse sanare la tua colpa. Ogni cosa ha un prezzo. Ed io sono disposto a pagarlo. Ma basta parlare di me: parliamo di te, o meglio di voi. Il consulente investigativo e l’intrepido blogger che accorrono in aiuto della polizia risolvendo i casi più difficili e assicurando i criminali alla giustizia >>. Samuel ridacchiò. << Sembra la trama di un fumetto. Forse un giorno dovrò pagarti i diritti d’autore >>.
<< Mi accontenterei di vederti posare la pistola >>, risposi. Fui lieto di notare che la mia voce era ferma, nonostante sentissi il cuore in gola.
Samuel finse di non avermi sentito.
<< Dov’ero rimasto? >>.
<< John e me >>, suggerii.
<< Ah giusto. Vedi, c’è una coincidenza di avvenimenti molto rara. Fino a qualche giorno fa avrei detto impossibile. Si verifica quando due persone che sono state esposte all’energia di cui è colma questa casa, desiderano nello stesso momento di essere l’altro. Può essere questione di un istante, o un semplice “chissà cosa si prova ad essere lui”, e accade. Attento a quello che desideri, perché potresti ottenerlo >>.
In quel momento, tutto sembrò tornare.
Potevo ricordare distintamente quando, la sera del giorno in cui tutto era iniziato, mi ero chiesto cosa provasse John quando ci occupavamo di un caso insieme. Io ero freddo, scostante e poco incline a renderlo partecipe ai miei piani, ma lui non si era mai lamentato.
D’accordo, non esageriamo. Si era lamentato, e spesso anche, ma non si era mai tirato indietro.
Così mi ero chiesto, giusto per un secondo, come fosse stare nei panni di John Watson.
A quanto pare, lui aveva fatto la stessa cosa nell’esatto momento in cui l’avevo fatta io.
<< C’è un modo per invertire lo scambio? >>
<< Non sono mai stato interessato a scoprirlo. Per questo avevo intenzione di uccidervi, non di aiutarvi >>.
Samuel accarezzò il grilletto con un dito. Dovevo agire in fretta, altrimenti mi avrebbe ucciso in ogni caso.
<< Prima che tu lo faccia, c’è un’ultima cosa che devo dirti… >>, iniziai.
Samuel sembrava intenzionato ad ascoltare quelle che credeva sarebbero state le mie ultime parole.
Scattai di lato, spostandomi dalla linea di tiro della pistola e contemporaneamente cercai di afferrarla. Samuel, colto di sorpresa, mi fu addosso in un istante, tenendo ben salda l’arma.
Decisi di cambiare strategia. Estrassi la rivoltella di John dalla tasca. Avevo una frazione di secondo per decidere cosa fare e per farlo. Scelsi l’opzione che aveva meno probabilità di farmi uccidere: mirai alla spalla sinistra di Samuel e sparai.
Il rumore del colpo rimbombò nella stanza quasi vuota, seguito quasi immediatamente dall’urlo di dolore di Samuel.
Welch rimase immobile per qualche secondo, tenendosi la spalla ferita che già sanguinava copiosamente. In quel momento, neanche io osai muovermi.
Poi, qualcosa cambiò. Il dolore nello sguardo di Samuel si tramutò in rabbia.
Si mosse così velocemente che ebbi a stento il tempo di vedere arrivare la pistola. Subito dopo, un dolore sordo alla tempia. Fu come se il pavimento si fosse rovesciato e, prima ancora di accorgermene, ero a terra. Le orecchie mi fischiavano e gli angoli della mia visuale si erano oscurati. I passi di Samuel che si avvicinava rimbombarono sul parquet.
<< Questo scherzetto non ha giovato a tuo favore. Avevo intenzione di ucciderti subito, ma ora voglio che tu assista quando la situazione diventerà…scottante >>. Una macchia rossa si allargava sulla camicia di Samuel. Anche la sua voce era incrinata dal dolore.
<< Quindi credo proprio che resterai qui >>.
Samuel premette il grilletto. Il rumore di uno sparo echeggiò nuovamente nella stanza.
Un’esplosione di dolore mi avvertì che, sì, aveva centrato il bersaglio.

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Capitolo 10
*** Quando provi ad invertire uno scambio di corpi confidando nella tua intelligenza superiore ***


Capitolo 10! Questo sarà l’ultimo dal punto di vista di Sherlock, mentre dal prossimo in poi si ritornerà a John.
Buona lettura!
 
 
<< Così sono sicuro che non andrai da nessuna parte >>.
Le parole di Samuel mi giungevano ovattate, come provenienti da molto lontano.
Il proiettile si era conficcato nella mia gamba destra. Rettifico: la gamba destra di John.
Per qualche lungo secondo il dolore m’impedì di pensare, il che è più che sufficiente per esprimerne l’intensità. Ma subito dopo il mio senso pratico ebbe la meglio.
Mi costrinsi a poggiare la mano sulla ferita. Non appena la sfiorai, dovetti mordermi la lingua per non urlare. Il dolore era, se possibile, aumentato. Ma era necessario: non dovevo perdere troppo sangue.
Poi, concentrai la mia attenzione su Samuel. La sua camicia, prima di colore azzurro chiaro, era diventata quasi completamente rossa, ma lui non sembrava esserne particolarmente preoccupato.
Anzi, la sua espressione era insolitamente spensierata mentre serrava la finestra e chiudeva a chiave tutte le porte che comunicavano con il soggiorno.
<< Già da un po’ di tempo pensavo di liberarmi di questa casa e della maledizione che vi risiede, ma ovviamente venderla non era la soluzione più adatta. Mi sarebbe piaciuto organizzare uno spettacolo di fuochi d’artificio, ma la dinamite è costosa e un po’ troppo eclatante persino per i miei gusti. La benzina, invece, è decisamente più economica… e mi piace l’odore >>. Samuel parlava tra sé, incurante di essere ascoltato.
Dovevo sfruttare al meglio quelli che sarebbero potuti essere gli ultimi minuti della mia vita.
Infilai una mano nella tasca dei pantaloni, cercando di raggiungere il cellulare.
<< Provaci di nuovo e il prossimo colpo sarà più in alto >>, disse Samuel, con tono annoiato.
Abbandonai l’idea del cellulare e cercai di analizzare la situazione da un punto di vista logico.
Non c’era speranza che riuscissi ad andarmene da lì da solo. Forse sarei riuscito a camminare, ma sfondare una porta era fuori discussione.
Sapevo che, se Samuel mi avesse lasciato lì con la casa in fiamme, preferibilmente vivo, avrebbe avuto l’accortezza di prendere il mio cellulare. Per farla breve: non potevo scappare, non potevo contattare nessuno e di certo non potevo persuadere Samuel a lasciarmi andare.
C’era solo una possibilità. Un’unica, folle possibilità.
Welch aveva detto di aver impiegato anni per imparare ad usare il suo potere. Io potevo prendermi tutto il tempo necessario a partire da quel momento… fino a quando non fossi morto soffocato per il fumo. Potevo tornare nel mio corpo, che si trovava a Baker Street, mentre John sarebbe tornato nel suo, con una pallottola nella gamba, in una stanza in fiamme. Allora avrei avuto pochi minuti per arrivare da lui.
Potevo provarci, oppure morire lì.
 
Intanto Samuel aveva preso una tanica e bagnato il massiccio tavolo di legno e le pareti della stanza, fin quasi al soffitto. L’odore pungente della benzina mi pizzicò le narici.
Welch si guardò intorno, soddisfatto della sua opera. Poi si avvicinò a me.
Era pallido, aveva gli occhi iniettati di sangue e la sua voce era roca.
<< E’ stato bello condividere qualcosa di così unico con te. Addio Sherlock >>.
Si chinò a raccogliere il mio cellulare e la rivoltella che era caduta lì vicino. Poi andò alla soglia della porta d’ingresso, accese un accendino, lo lasciò per terra ed uscì.
Quella fu l’ultima volta che vidi Samuel Welch.
La piccola, innocente fiamma dell’accendino divampò non appena toccò il pavimento bagnato di benzina. Un istante dopo mi raggiunse una vampata di fumo e calore, avvertendomi che mi era ormai restato poco tempo.
Feci forza sulle braccia e sulla gamba sana per strisciare dall’altro lato della stanza, dove il fuoco avrebbe impiegato più tempo ad arrivare.
Con la coda dell’occhio notai che mi stavo lasciando alle spalle una scia di sangue.
Mi appoggiai alla parete, mi tolsi il cappotto e lo annodai attorno alla gamba, ignorando il dolore.
Poi, chiusi gli occhi. Il mio palazzo mentale era ancora lì, forse con delle stanze mancanti, ma intatto. Andai al piano dedicato a John. Quello era un po’ impolverato. Raccolsi tutte le informazioni che avevo in ogni singola stanza. Tutto quello che sapevo o che avevo dedotto su John. Doveva essere un desiderio intenso, tanto potente da forzare l’anima di John fuori dal suo corpo (il mio, in realtà).
E così, lo desiderai, mentre il calore mi avvolgeva e l’aria diventava soffocante.
In quel momento, per la prima volta in vita mia, ebbi paura di morire. Ma non era l’idea del dolore e dell’ignoto che mi spaventava, bensì quella di lasciare John intrappolato nel mio corpo per sempre.
Questa era la mia più grande preoccupazione, mentre lasciavo il mio unico amico in un pericolo mortale per salvare entrambi.
E se fossimo sopravvissuti, dubito che me l’avrebbe mai perdonato.
 
Quando il dolore alla gamba scomparve e la temperatura si abbassò di colpo, capii che forse ce l’avevo fatta. Riaprii gli occhi, timoroso di quello che avrei visto…

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Capitolo 11
*** Quando la situazione diventa scottante ***


Chiedo umilmente perdono per l’enorme ritardo. I miei professori si sono coalizzati per caricarmi di compiti in modo da non farmi finire di scrivere il capitolo (sospetto che ci sia lo zampino di Moriarty). Poi sono partita per il Lucca Comics (dove ho visto tanti Sherlock) e al mio ritorno mi sono messa d’impegno per concludere questo infinito capitolo 11.
Siamo tornati al punto di vista di John.
p.s. dopo questo capitolo ne restano ancora uno o due ;)
 
 
Caldo.
Faceva troppo caldo. C’era qualcosa che non andava.
Buio.
Perché non potevo aprire gli occhi? Non riuscivo neanche a raggiungerli.
Umido.
C’era qualcosa di tiepido e bagnato sulla parte sinistra del mio viso, dalla tempia al mento. Sangue, forse?
Dolore.
Era come se qualcuno stesse premendo un ferro rovente contro la mia gamba.
Aria.
Solo all’ultimo momento mi accorsi che mancava la cosa più essenziale. L’aria.
Allora finalmente aprii gli occhi e trassi un respiro profondo. Un attimo dopo mi sentivo come se avessi la gola in fiamme. Non riuscivo a smettere di tossire.
Quando alzai lo sguardo, non riuscivo a credere a quello che vedevo.
Ero in una stanza piuttosto ampia. Un tavolo di legno, un tappeto e la carta da parati che ricopriva il muro erano completamente avvolti dal fuoco.
Io ero dalla parte opposta della stanza, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata alla parete. Le fiamme erano lontane da me e sapevo bene che, nel momento in cui mi avessero raggiunto, sarei stato già morto per il fumo. Iniziavo a considerarlo confortante…
 
Più la mia mente si schiariva, più aumentava l’agitazione.
Quello che un tempo era stato il mio cappotto, ora era intriso di sangue e legato stretto attorno alla mia gamba, che iniziava a perdere sensibilità. Quel dolore insopportabile che avevo provato fino a poco prima si stava affievolendo, lasciando posto ad un fastidioso intorpidimento.
Era una sensazione vagamente familiare, pensai con un brivido. Infine, anche i ricordi della guerra erano tornati a perseguitarmi, tra il fumo, il calore e un proiettile nella gamba. Non potevo essere certo che fosse proprio un proiettile, ma lo sapevo. Lo sapevo e basta.
Mi portai una mano alla bocca, nel tentativo di respirare più agevolmente, e fu allora che mi accorsi di qualcosa di straordinario.
La mia mano era effettivamente… la mia mano.
La osservai perplesso per qualche secondo. Come avevo fatto a non accorgermene prima?
Mi passai una mano tra i capelli e sul viso per accertarmi che tutto fosse al suo posto e constatai con sollievo che lo era.
Se io ero lì, significava che anche Sherlock era tornato nel suo corpo. In quel caso, avrebbe saputo dove mi trovavo.
Avrei dovuto considerare confortante quest’ultima evenienza, ma non ci riuscivo. In quel momento il mio pessimismo aveva raggiunto il culmine. Forse era stato a causa del fumo. O della perdita di sangue. O di entrambi.
Trascorsero dei minuti. Ma per quanto mi riguardava sarebbero potute anche essere delle ore: non faceva alcuna differenza. Il tempo era come sospeso. I miei pensieri diventarono incoerenti e vividi come sogni. La gamba non faceva più tanto male, ma solo perché iniziavo a non sentirmela più.
Il tappeto bruciava a pochi centimetri da me. Presto il fuoco mi avrebbe raggiunto.
Pregai di morire prima di allora.
 
Udii un rumore. Come un colpo secco.
Poi un altro, tre secondi dopo.
Poi, uno schianto.
<< John! >>.
Quella voce. Era stata la mia per i giorni precedenti, ma non mi apparteneva.
Era lì, nella stanza. Ma allora perché mi chiamava se ero lì anche io?
Sentii una stretta sulla mia spalla.
<< John!! >>.
Aprii gli occhi, infastidito da quel tocco.
Davanti a me, vidi lo stesso viso che avevo visto nei giorni precedenti quando mi ero guardato allo specchio.
<< Sher… >>. Tentai di pronunciare il suo nome, ma scoprii di non avere abbastanza aria per completare la parola.
<< Alzati, dobbiamo andarcene >>.
<< Non… >>. Volevo dirgli che non potevo, ma non mi diede il tempo di formulare un pensiero coerente. La sua presa su di me si fece più salda e mi tirò in piedi.
Non appena poggiai il peso sulla gamba destra, mi sfuggii un gemito di dolore.
Sherlock fece passare il mio braccio attorno alle sue spalle e mi guidò verso la porta… o quello che ne rimaneva.
<< L’hai… sfondata? >>, chiesi, tra un colpo di tosse e l’altro.
<< Avevo fretta >>.
Non vedevo dove stavamo andando a causa del fumo, ma confidavo in Sherlock. Non appena oltrepassammo la soglia della porta, l’aria si fece immediatamente più leggera.
Sherlock non mi permise di fermarmi per riprendere fiato. Attraversammo un breve corridoio, fino a giungere alla breve rampa di scale che conduceva alla porta d’ingresso.
All’andata avevo percorso quella piccola salita senza neanche rendermene conto, mentre in quel momento sembrava un’impresa titanica anche solo scendere.
Il dolore, sordo e costante, si estendeva fino alla punta dei piedi.
<< Forza, John >>.
Ignorai le proteste della mia gamba e tenni gli occhi fissi sulla porta alla fine della scalinata. Era socchiusa, probabilmente lasciata così da Sherlock quando era entrato, e lasciava passare un po’ della luce dell’esterno.
Solo a metà scalinata mi accorsi che mi stavo appoggiando completamente a lui, e che era l’unica cosa che mi permetteva di restare in piedi era il suo sostegno.
 
Quando finalmente uscii da quella casa maledetta, l’aria gelida e pulita m’investì con violenza.
Fu una sensazione sgradevole e al contempo bellissima.
Sentivo la gola in fiamme. Era come riemergere dall’acqua dopo essere stati in apnea per troppo tempo.
<< Prima di venire ho chiamato il 999. Il fatto che sia arrivato prima io la dice lunga >>, spiegò Sherlock.
Trascorsero un paio di minuti prima che fossi in grado di parlare ancora.
<< Sei stato tu? >>. La mia voce era un po’ roca, ma decisa.
Sherlock abbassò lo sguardo. << Sì. Volevo cogliere Samuel di sorpresa nel suo nuovo corpo, ma non volevo coinvolgerti. Prima che la situazione precipitasse l’ho sparato con la tua rivoltella. Non so dove sia ora, ma le tracce di sangue sulle scale indicano che è riuscito ad uscire >>.
Improvvisamente le ultime ore mi tornarono in mente.
Ricordai come Sherlock si era dimostrato stranamente comprensivo nei miei confronti, e poi era uscito di casa, assicurandomi che non aveva assolutamente intenzione di andare ad incontrare Samuel da solo.
La mia espressione cambiò repentinamente, diventando minacciosa.
<< Sei andato a casa di un assassino, da un uomo che sospettavi fosse un assassino, senza neanche avvertirmi, mentre eri nel mio corpo?! >>.
Non ebbi occasione di scoprire se Sherlock avrebbe risposto alle mie accuse o se avrebbe scelto il silenzio. Non glie ne diedi la possibilità.
Era come se il mio braccio si fosse mosso di propria volontà.
Mi accorsi di aver colpito Sherlock solo quando non sentii più la sua presa su di me e lo vidi indietreggiare massaggiandosi la guancia.
Ero furioso per essere stato messo da parte ancora una volta. Il bruciore che ancora avvertivo alla gola e il dolore lancinante alla gamba mi ricordavano costantemente quanto fossi stato vicino alla morte e quanto lo era stato Sherlock.
Capii che in fondo ero solo contento che stesse bene. Quasi mi pentii di averlo colpito. Quasi.
Sherlock, d’altro canto, assunse la sua solita espressione impassibile e si avvicinò ancora una volta, forse preoccupato dalla mia instabilità su una gamba sola.
<< Mi dispiace >> disse, e sembrò quasi sincero.
Fu allora che decifrai l’ultimo sentimento che mi era rimasto come un peso sullo stomaco. Era quella sensazione di enorme sollievo che si prova subito dopo essersi liberati di una paura.
<< Accidenti a te, Sherlock >>, mormorai. Lo tirai bruscamente verso di me e lo abbracciai.
Probabilmente al momento pensò che fossi impazzito, e ne aveva tutte le ragioni considerato che gli avevo tirato un pugno e poi l’avevo abbracciato.
Ma era stato quasi un riflesso condizionato.
Ero felice di essere vivo, ero felice che lui fosse vivo e che fossimo tornati nei rispettivi corpi. Avevo temuto per entrambi.
Dal modo in cui, dopo svariati secondi di perplessità, Sherlock ricambiò l’abbraccio capii che stava pensando le stesse cose. Anche lui aveva avuto paura.
 
Quando sentii in lontananza il suono delle sirene constatai che, finalmente, un’ambulanza mi aveva degnato della sua presenza.
Intanto la Casa Maledetta veniva divorata dalle fiamme.
<< E’ giusto che sia così >>, disse Sherlock.
Come sempre, sapeva quello che stavo pensando.

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Capitolo 12
*** Quando inizi ad avere uno strano presentimento ***


Ecco a voi il penultimo capitolo… purtroppo siamo quasi alla fine.
Non ho ancora deciso il finale della storia in tutti i particolari, quindi se avete richieste, teorie, critiche, consigli ecc… fatevi sentire xD
Buona lettura.
 
<< Che ne dici di “Lo straordinario caso della Casa Maledetta”? >>.
Era trascorsa una settimana dall’incendio.
Avevo una scomoda fasciatura alla gamba e, con grande rammarico, avevo ricominciato ad usare il bastone. I medici mi avevano assicurato che presto avrei smesso di zoppicare. Mi riusciva difficile crederlo, nonostante fossi un medico io stesso.
<< Sembra il titolo di un film dell’orrore >>, la voce di Sherlock mi giunse dalla cucina. Parlava come se mi stesse facendo un immenso favore solo degnandomi della sua attenzione.
<< Pensavo di farlo diventare il titolo del racconto del nostro caso >>.
<< Non scriverai un racconto sul nostro caso >>.
<< In realtà… l’ho già fatto >>.
Sherlock mi raggiunse in salotto. << Hai intenzione di raccontare sul tuo blog che abbiamo vissuto l’uno nel corpo dell’altro per dieci giorni? >>.
<< No, detto così potrebbe essere frainteso. Pensavo di presentarlo come un racconto di fantasia >>.
Di fronte allo sguardo scettico di Sherlock mi affrettai ad aggiungere, << Ovviamente non ho fatto né i nostri nomi, né quelli di Samuel e Thomas >>.
<< D’accordo. Chiamalo come vuoi >>.
C’era qualcosa nel tono di Sherlock che andava oltre il solito distacco. Delusione, forse?
Lo guardai negli occhi. Indecifrabili, come sempre.
Non ricambiò il mio sguardo.
<< Qual è il problema? >>. Tentai di farla suonare come una domanda disinteressata, buttata lì a caso.
Trascorsero dei minuti, e iniziai a pensare che Sherlock non mi avrebbe risposto.
Poi mormorò qualcosa tra sé a proposito dei casi non risolti.
<< Il caso è risolto >>, dissi. Avevo perso il conto delle volte che avevamo avuto quella discussione negli ultimi giorni.
<< Non è risolto, dal momento che non sono riuscito a dare una spiegazione logica a quello che è successo >>.
<< Cerca di rassegnarti, Sherlock. Ci sono cose che vanno al di là della nostra comprensione, persino della tua. Non sapremo mai qual era la vera natura del potere della Casa Maledetta >>.
<< Ma se avessi impedito a Samuel di darle fuoco… >>.
<< Bruciare quella casa è stata la cosa migliore che Samuel abbia fatto >>, ribattei in tutta sincerità.
<< Hai ragione >>, si arrese infine Sherlock. Nessuno dovrebbe avere un potere così grande, pensai.
 
Tornai a concentrarmi sullo schermo del mio portatile e sul racconto che avevo quasi finito di scrivere, ma dopo appena qualche minuto venni interrotto di nuovo. Questa volta era il mio cellulare. Lo guardai per i primi due squilli, come a volergli intimare di smettere di suonare, poi mi rassegnai e feci per alzarmi dal divano. Ma Sherlock mi fermò con un gesto, prese il cellulare dal tavolo e me lo passò.
Mormorai un debole “grazie”.
<< Pronto? >>.
Era Lestrade. Avevano trovato il corpo di un certo Alan Wilson, ventiquattro anni, in una casa abbandonata.
<< Perché avete chiamato me e non Sherlock? >>, chiesi, genuinamente perplesso.
Perché Alan Wilson era il proprietario della casa che una volta era appartenuta a Samuel Welch. La casa che era stata distrutta dalle fiamme. La Casa Maledetta.
Ufficialmente era stato Alan a spararmi. Poi aveva dato fuoco alla casa ed era scappato con una grave ferita alla spalla. 
Ovviamente, solo io e Sherlock sapevamo che in realtà era stato Samuel a prendere il controllo del suo corpo. Alan non era stato altro che un’altra vittima innocente.
La polizia aveva bisogno di me per identificarlo come l’uomo che aveva tentato di uccidermi.
 
<< Ebbene? >>, chiese Sherlock non appena terminai la telefonata.
<< Hanno trovato Alan Wilson, il ragazzo il cui corpo era controllato da Samuel. Quello a cui tu hai sparato mentre eri me >>.
<< Era intenzionato ad uccidermi, cioè ad ucciderti, quindi può considerarsi autodifesa >>.
<< Adesso è morto e vogliono che io lo identifichi >>.
<< Ma tu non l’hai mai visto >>.
<< Ufficialmente sono l’ultima persona che l’ha visto prima che scappasse. Immagino che non sia il caso di spiegare alla polizia che in quel momento io ero te >>.
<< Vorrà dire che dovrò accompagnarti >>, concluse Sherlock.
Non dissi nulla, perché sapevo che mi avrebbe accompagnato in ogni caso. In quegli ultimi giorni era stato taciturno e nervoso, e sapevo che era per via degli eventi inspiegabili a cui aveva assistito, nonostante non ne parlasse mai. Era bastata quella telefonata a provocare quello scintillio nei suoi occhi che avevo imparato ad associare agli inseguimenti per le strade, all’adrenalina e alle notti in bianco.
Mi alzai appoggiandomi al bastone, mentre Sherlock aveva già preso il cappotto e mi aspettava sulla soglia della porta.
Avevo uno strano presentimento, come se non fosse ancora tutto finito.
 

 

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Capitolo 13
*** Quando pensi che, nonostante tutto, ne sia valsa la pena ***


Sherlock annuì impercettibilmente dopo aver soffermato lo sguardo sul corpo di Alan Wilson sul tavolo dell’obitorio.
<< E’ lui >>, dissi.
Notai subito che la ferita sulla spalla di Alan era stata medicata scorrettamente e di fretta, di sicuro non in ospedale. Infatti, si era infettata. Doveva essere stata questa la causa del decesso.
Rabbrividii al pensiero del dolore che Alan… che Samuel aveva sopportato.
Più tardi, Lestrade confermò la mia teoria: Alan era morto a causa dell’infezione.
Era stato trovato in un appartamento abbandonato fuori città. Era morto durante la notte, ma indizi trovati nella casa facevano pensare che fosse arrivato lì subito dopo l’incendio.
C’era soltanto un punto su cui nessuno era riuscito a fare chiarezza: chi era stato con lui durante questi giorni? Chi aveva cercato di medicare la sua ferita e l’aveva assistito fino alla morte?
Sherlock era assolutamente sicuro che ci fosse stata un’altra persona, poiché in nessun altro modo Samuel (o Alan, comunque lo si voglia chiamare) sarebbe potuto arrivare fin lì da solo, né tanto meno avrebbe potuto sopravvivere per una settimana.
Ero certo che Sherlock avrebbe chiesto di vedere l’appartamento in cui era stato trovato il corpo, ma invece mi stupì ancora una volta.
<< Per quanto mi riguarda, il caso è chiuso. Alan Wilson ha tentato di uccidere John, ora è morto. Non occorrono ulteriori precisazioni >>, disse.
Guardai Lestrade, per scoprire che era stupito almeno quanto lo ero io.
Sherlock uscì dalla stanza senza dire altro.
 
<< Quello che hai detto prima… dicevi sul serio? >>, chiesi, mentre aspettavamo un taxi.
Erano le tre del pomeriggio, l’ora peggiore della giornata per trovarsi nel traffico.
<< Certo che no >>, rispose Sherlock. << Mi stupisce che tu l’abbia pensato>>.
Ovviamente, pensai, come sono stato ingenuo a credere che fosse tutto finito!
<< Illuminami >>, dissi. << Come pensi di scoprire chi era il complice di Samuel? >>.
<< Per quello non ci vorrà molto, so già dove cercare. Ma, cosa più importante, dobbiamo scoprire se Samuel è ancora vivo >>.
<< Se Samuel si trovava nel corpo di Alan, deve essere morto >>.
<< E se avesse scambiato il corpo ferito di Alan con quello del suo complice? In quel caso sarebbe lui ad essere morto, e Samuel sarebbe ancora a piede libero >>.
Sospirai. Il ragionamento di Sherlock non faceva una piega, come al solito.
Mi chiedevo come avrebbe fatto questa volta a trovare qualcuno senza saperne assolutamente nulla.
Prima che potessi anche solo pensare ad una domanda da porre, Sherlock aveva iniziato a parlare. Era il tono che usava per esporre una deduzione di cui andava particolarmente fiero.
<< Quando Thomas Carlton è morto, ricorderai che abbiamo ispezionato il suo appartamento oltre a quello di Samuel. Ho notato un particolare odore, che si faceva più intenso in cucina e vicino al guardaroba di Joanne. Ho sentito lo stesso odore quando ho parlato con Joanne in centrale: era il suo profumo. Aveva l’abitudine di indossarne un bel po’ >>.
<< Ebbene? >>.
<< Quando sono andato a casa di Samuel ho notato una donna seduta su una panchina a pochi metri dall’entrata. In quel momento non ho fatto molto caso a lei. >>, poi si affrettò ad aggiungere, << E’ successo solo perché ero nel tuo corpo: in altre situazioni non mi sarebbe mai accaduto di ignorare qualcosa. >>.
Mormorai un “bella scusa”, che Sherlock finse di non sentire.
<< Ma c’è un dettaglio che, nonostante tutto, non mi è sfuggito. Quando le sono passato accanto ho sentito il suo profumo. Era lo stesso che indossava Joanne. >>.
<< Anche se si fosse trattato di lei, non vedo cosa ci sia di strano. Dopotutto, era casa sua >>.
<< L’hai detto tu stesso: era casa sua. Joanne non abita più lì, si è trasferita per stare più vicina all’ospedale dove suo marito è in coma >>.
All’improvviso mi sentii in colpa per quella donna che ancora sperava che suo marito si sarebbe risvegliato. Solo io e Sherlock sapevamo che Thomas Carlton era morto a tutti gli effetti, e per ovvi motivi non potevamo dirlo a nessuno.
Joanne meritava di sapere, ma sarebbe stata in grado di reggere il peso della verità?
<< Quando sono tornato alla casa di Samuel per… tirarti fuori >>. Sherlock stava per dire “salvarti”, ma si corresse all’ultimo momento. Sapeva che non avevo dimenticato il suo gesto sconsiderato. << … ho notato che la donna sulla panchina non c’era più. Sappiamo che Samuel era già scappato e che qualcuno deve averlo aiutato, quindi perché non Joanne? >>.
Riflettei a lungo sulle parole di Sherlock mentre eravamo in taxi. Ignorai il tentativo del tassista di fare conversazione e considerai le implicazioni nella deduzione di Sherlock. Se Joanne aveva aiutato Samuel quando era nel corpo di Alan, allora c’erano solo due alternative: conosceva già Alan e l’aveva aiutato senza sapere che fosse Samuel, oppure, quella che più mi preoccupava, era stata da sempre complice di Samuel.
Sapevo che Sherlock stava riflettendo sulla stessa cosa.
<< Dove stiamo andando? >>, chiesi, notando improvvisamente che non eravamo diretti a Baker Street.
<< A cercare Joanne nel luogo dove è più probabile che sia >>.
La panchina.
 
Dopo più di un’ora trascorsa a percorrere un tragitto che ne avrebbe richiesta mezza, con Sherlock che stava diventando sempre più impaziente, chiesi al tassista di fermarsi anche se mancava ancora qualche isolato alla nostra destinazione.
Sherlock saltò fuori dall’auto con evidente sollievo. Ero certo che non avesse osato proporre prima di proseguire a piedi a causa della difficoltà che ancora avevo a camminare, ma stare in auto e percorrere un metro al minuto iniziava a spazientire anche me.
<< Sicuro di farcela? >>, mi chiese.
<< Voglio arrivare in fondo a questa faccenda. Dopotutto, al mio racconto manca ancora un finale >>, risposi, affrettando il passo per quanto mi era possibile.
 
Quando iniziai ad intravedere la casa di Samuel dal lato opposto del marciapiede provai una fitta di emozione. Era come tenere in mano l’ultimo tassello di un puzzle ed essere pronto a metterlo al suo posto per poter finalmente ammirare l’opera completa.
Sherlock mi indicò una panchina, sulla quale potevo intravedere una figura seduta.
La sua supposizione, come sempre, si era rivelata esatta.
Joanne Carlton era l’immagine della tristezza. Tutto in lei, dall’abbigliamento scuro e anonimo, agli occhi privi di qualsiasi luce, trasmetteva un profondo sconforto. Aveva il cappuccio alzato, che le copriva in parte il volto e la proteggeva dalle sottili gocce di pioggia che iniziavano a cadere.
Inizialmente non diede segno di accorgersi della nostra presenza, poi voltò lentamente la testa, ci osservò, soffermandosi in particolare su di me, e si scostò leggermente verso il bordo della panchina, invitandoci a sederci.
Accettai l’offerta, sedendomi il più distante possibile da lei, mentre Sherlock rimase in piedi.
La sua espressione sarebbe parsa impenetrabile a chiunque altro, ma io lo conoscevo abbastanza bene da capire che stava riflettendo, e che in quei pochi secondi era già giunto a conclusioni a cui io non sarei mai arrivato.
Per la prima volta notai il profumo di cui aveva parlato Sherlock. Era penetrante, ma tutto sommato piacevole.
<< Sapevo che mi avreste cercata >>, disse Joanne. La sua voce era molto diversa da come la ricordavo. L’avevo udita solo una volta, quando Sherlock aveva insistito per parlare personalmente con lei, eppure sembrava appartenere ad un’altra persona.
<< E’ stato Samuel a dirglielo? >>, chiese Sherlock.
<< Ha detto anche che lui era morto >>, rispose lei, indicandomi con un cenno della testa.
<< Lo credeva, ma come vede non lo sono >>, risposi.
Joanne non diede segno di essere sorpresa. In effetti, sembrava che non le importasse che io fossi vivo oppure no. Ci guardava come se non fossimo altro che ombre.
<< Perché è stata complice dell’omicidio di suo marito? >>, chiese Sherlock.
Mi voltai di scatto verso di lui, lanciandogli uno sguardo di rimprovero. Poi iniziai a riflettere sulle sue parole e sull’enormità di quello che stava affermando.
Persino Joanne sussultò leggermente prima di rispondere.
<< Mi sta accusando di aver ucciso Thomas Carlton? >>, chiese, inarcando un sopracciglio.
<< No. Le sto chiedendo perché l’ha fatto >>, rispose Sherlock, sostenendo il suo sguardo.
Joanne rimase in silenzio per qualche secondo, come se stesse considerando cosa dire, poi parlò con immensa calma.
<< Samuel mi ha detto che voi sapete di lui e del Potere, quindi vi dirò come sono andate realmente le cose. Al momento siete le uniche due persone al mondo che possono credere alle mie parole >>.
Trattenni un sospiro di sollievo. Significava che Samuel era davvero morto.
<< Thomas non era come tutti credevano che fosse. Era freddo, terribilmente irascibile e spesso violento. A volte sospettavo che fosse del tutto immune dai sentimenti.
Lui e Samuel erano stati amici, ma negli ultimi tempi i loro rapporti erano tesi. Thomas aveva intuito che Samuel provava interesse per me, e da allora iniziarono le minacce. Temevo per me, ma soprattutto temevo per Samuel. Non mi aspetto che voi capiate, ma in fondo aveva un buon cuore. Il suo potere era la sua maledizione, e sono certa che nessun altro avrebbe avuto la forza per conviverci senza impazzire. Quando Samuel mi parlò del Potere, fu il momento in cui vidi tutte le mie convinzioni sgretolarsi davanti ai miei occhi. Mi promise che saremmo scappati insieme, che Thomas avrebbe avuto il destino che meritava e che nessuno l’avrebbe mai saputo… se solo io fossi stata disposta ad accettarlo in un corpo diverso. Dissi di sì, che l’avrei amato comunque e che l’avrei seguito >>.
Sherlock approfittò della breve pausa per continuare il discorso.
<< Da qui in poi posso ricostruire come sono andate le cose. Samuel ha scambiato il suo corpo con quello di Thomas e poi ha ucciso sé stesso. Doveva sembrare che Samuel si fosse suicidato, e così nessuno si sarebbe accorto del cambiamento di Thomas… ma una cosa non è andata come previsto.
Samuel, subito dopo aver ucciso il suo corpo, ha fatto cadere un vaso e si è ferito la mano. Questo ha fatto sì che Thomas venisse incriminato per l’omicidio.
Lei ha finto, molto abilmente, devo ammetterlo, di essere totalmente all’oscuro di tutto.
Poi Samuel si è impossessato del corpo di un inserviente della prigione, un certo Robert, lasciando quello di Thomas… vuoto, se così si può dire. Dopo aver fatto trascorrere a me e al mio amico uno spiacevole quarto d’ora con un coltello, e dopo averci inviato un cortesissimo messaggio per offrirci il suo aiuto, Samuel ha cambiato corpo ancora una volta, impersonando Alan Wilson, uno studente universitario. Aveva intenzione di dare fuoco alla casa, di uccidere me e John, e infine di fuggire con lei sotto un altro corpo. Con la distruzione della Casa Maledetta il suo potere si sarebbe esaurito e avreste potuto vivere in pace. Con le mani sporche di sangue innocente, ma in pace. Le mie deduzioni sono esatte fino ad ora? >>.
Joanne non aveva mai smesso di sostenere lo sguardo di Sherlock, gli occhi ridotti a due fessure. Era furiosa e al contempo sbalordita dalla conoscenza di Sherlock.
Quest’ultimo ne fu soddisfatto, e continuò imperterrito.
<< Un altro imprevisto nel vostro piano è stato costituito dal sottoscritto, che ha tentato di fermare Samuel sparandogli e a cui è stato restituito il favore.
Posso dedurre il seguito della storia dal suo profumo, signora Carlton, che impregnava leggermente i vestiti di Alan Wilson l’ultima volta che sono andato a trovarlo all’obitorio.
Da lì ho dedotto che doveva essere stata lei ad aiutarlo a sopravvivere negli ultimi giorni. Samuel doveva essersi rifiutato di andare all’ospedale, perché altrimenti sarebbe stato arrestato, e questo ha significato la sua morte. Allora è venuta qui, ad osservare i resti della Casa Maledetta, chiedendosi cosa fare di quello che rimane della sua vita. Mi sbaglio, forse? >>.
Joanne distolse lo sguardo, con gli occhi colmi di lacrime. Tremava, potevo sentirlo.
<< Avete intenzione di dirlo alla polizia? >>, chiese con un filo di voce.
Sherlock esitò per qualche istante, poi rispose, << No, sarebbe troppo poco credibile. E inoltre, nessuna prigione può punirla più di quanto non sia stata già punita >>.
Capii che la conversazione era finita. Mi alzai e, mentre andavo via, mi voltai un’ultima volta ad osservare la figura solitaria di Joanne Carlton.
Quella fu l’ultima volta che la vidi.
 
Il 15 dicembre, Joanne si tolse la vita nelle rovine della sua vecchia casa.
Il 18 dicembre ero seduto nel salotto di Baker Street, contemplando lo schermo del mio portatile.
Avevo terminato il racconto, optando per un lieto fine. Volevo dare a Joanne una vita felice e libera da rimorsi, se non nella realtà, almeno sulla pagina.
<< Exchanges >>, disse ad un tratto Sherlock. Solo allora mi accorsi che era dietro di me e stava leggendo quello che avevo scritto. << Dovresti intitolarlo così >>.
<< E’ troppo banale >>, risposi. << “Lo straordinario caso della Casa Maledetta” è un titolo più adatto >>.
<< Ma non si addice al significato del racconto >>.
<< “Exchanges” sembra il titolo di un libro di fantascienza >>.
<< In teoria è un libro di fantascienza! >>.
<< Il racconto è mio e il titolo è già deciso! >>, esclamai, esasperato.
Sentii la porta aprirsi al piano di sotto.
<< Vado ad aiutare la signora Hudson con le buste della spesa >>, dissi.
 
Al mio ritorno, qualcosa sullo schermo era cambiata.
Exchanges – Lo straordinario caso della Casa Maledetta.
Guardai Sherlock, con uno sguardo a metà tra l’irritato e il divertito.
Lui sollevò le spalle e sorrise. << Il trattino mi sembra un compromesso adeguato >>.
Sì, forse potevo accettarlo.
Spostai il cursore all’ultima pagina e iniziai a scrivere, aggiungendo poche righe al finale che avevo già elaborato.
Gli eventi delle ultime settimane mi hanno cambiato profondamente. Ho vissuto nel corpo di un altro, ho assaggiato un po’ della sua vita e ho guardato il mondo con i suoi occhi. Ma, soprattutto, ho guardato me stesso con i suoi occhi.
Adesso, quando mi guardo allo specchio, vedo un uomo diverso e, allo stesso modo, sento che anche lui è cambiato.
Sono della ferma opinione che questa esperienza ha portato qualcosa di buono ad entrambi.
Lui potrà anche continuare a negarlo, ma io ne sono certo.
 
Londra, 18 dicembre 2012.
 
 
Fine! The end! Finish! Fin!
Eccoci arrivati alla fine dell’ultimo capitolo.
Vorrei ringraziare tutti i lettori, sia quelli “silenziosi” che i recensori.
Spero che vi sia piaciuta e che il finale non vi abbia deluso :)
Un grazie particolare a Patta97, la mia omonima, Ciajka e Klavdiya, che sono state le recensitrici (si dice così?) più assidue.
Un bacio a tutti,
Jadis

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