Il caso Dreadpeak Lodge

di U N Owen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** La Confessione ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Il caso Dreadpeak Lodge



I viaggi in seggiovia avevano sempre innervosito Desmond Ryan Flake, che si teneva saldamente alla sbarra di protezione posta davanti a lui, mentre un sottile velo di neve gli ricopriva i soffici guanti. Ma in quel momento era troppo stanco per preoccuparsi del fatto che quel dannato affare si potesse staccare o chissà quale altra disgrazia, dopo il lungo viaggio che aveva dovuto affrontare era semplicemente distrutto.
«Teso, Flake?» chiese con fare beffardo il ragazzo seduto accanto a lui.
«Taci, Scrapers»
Robert Scrapers era più o meno l’opposto di Flake. Magro e occhialuto, era senza dubbio una mente affilata quanto un rasoio, a differenza dell’altro, alto, prestante, di certo scaltro, ma che puntava molto di più sulla notevole avvenenza. Nella loro diversità battibeccavano spesso, si punzecchiavano, non potevano fare a meno di stuzzicarsi a vicenda, ma al contempo, seppur non volessero ammetterlo, erano diventati stranamente amici. Si erano incontrati nei pressi della seggiovia che dovevano prendere per giungere a Baita Dreadpeak, l’imponente e lussuosa villa di montagna di famiglia Conquest. Erano dunque saliti assieme, e di certo Scrapers non aveva aiutato il compagno di viaggio a rilassarsi, cosa di cui Flake si sarebbe di certo ricordato con gratitudine.
Quegli incontri erano un’incombenza periodica, ma, a detta di James Conquest, il “padrone di casa”, erano strettamente necessari affinché “non dimenticassero”. Sapeva essere davvero ossessivo, se si metteva d’impegno, ma dopotutto era anche grazie a lui se erano ancora tutti lì, di conseguenza avevano sempre evitato di controbattere, anche se non sempre era facile trattenersi, soprattutto per certe sue manie, come il fatto di voler a tutti i costi che il ritrovo cominciasse di lunedì, giorno di chiusura degli impianti, “in questo modo gli sciatori non vengono a romperci”.
Quando furono arrivati alla meta trovarono alcune persone ad attenderli, tra cui, ovviamente, James stesso, serissimo e tutto preso da una fitta discussione.
«La Mantide è già arrivata? Quella diva si fa sempre aspettare.»
«Robert, caro! Cosa ti ho detto riguardo a quel nomignolo? E poi, io posso permettermelo, di fare la diva, a differenza di te.» La voce acida, arrivata da dietro, li fece voltare, e si trovarono davanti colei che era stata chiamata “Mantide”, Eveline de Dispaire, tutta impellicciata e con il suo portamento da gran signora, proprio non poteva passare inosservata, splendida ed elegante com’era sempre, e di certo faceva voltare la testa a tutti i ragazzi. A qualcuno l’aveva pure staccata, o almeno, così sussurravano le malelingue. Di certo la sua stupefacente bellezza le era valsa la fama di cui godeva, fama che lei contribuiva generosamente ad alimentare, senza lesinare aneddoti riguardanti la sua presunta discendenza nobiliare.
L’altra ragazza appena giunta in sua compagnia era Erin van de Logt, che si limitò ad ammiccare maliziosamente in direzione di Desmond, prima di salutare. Ragazza decisamente più semplice nei modi, era certamente altrettanto maliziosa. Snella e attraente, Erin sapeva di certo usare le proprie armi femminili, anche se preferiva tenere un profilo basso, quello della brava ragazza, per poter “cacciare” silenziosamente. C’erano poi aspetti molto più oscuri della sua personalità, che lei occultava con particolare perizia, e di certo non voleva che venissero allo scoperto.
«Chi stiamo ancora aspettando?» chiese Erin, e la risposta non tardò ad arrivare; Alexis Griffin, la biondissima ragazza super organizzata, il capo assoluto, doveva dimostrare di avere tutto sotto controllo.
«Mancano solamente Carl e Isabel, poi possiamo avviarci» e proprio mentre pronunciava queste parole, Isabel Rodriguez arrivò, scese dalla seggiovia, rischiò di cadere a terra e contemporaneamente cominciò a parlare a raffica. Il solito insomma. E, come al solito, tutti persero il filo dopo appena cinque parole. Isabel amava vestirsi con colori sgargianti, che spesso dimostravano poco gusto per l’estetica, sebbene a sua detta risaltassero il bronzeo colore della sua pelle, tipica dei paesi latini, e di certo l’inverno non la tratteneva. Poco dopo arrivò Carl, che pochi degnarono anche solo di un semplice sguardo. La sua figura imponente, che strideva quasi con la sua personalità, semplice fino a sfiorare l’idiozia, si limitò ad accodarsi al gruppo diretto a Baita Dreadpeak.
Dover O’Scolaidhe fino a quel momento rimasto in silenzio, si avvicinò a Kurt Aldrich, un ragazzo minuto, dall’aria cupa e malinconica, per chiedergli se andasse tutto bene; infatti se Kurt già di norma non sprizzava allegria, quel giorno sembrava avvolto da un’aura ancora più negativa.
L’unica risposta che Dover ricevette fu un cenno della testa. Il tragitto fino a Dreadpeak fu piuttosto breve, ma comunque movimentato, grazie alla voce squillante di Isabel che, come suo solito, si sentì in dovere di raccontare tutto ciò che le era capitato da quando si erano visti l’ultima volta, e del fatto che, finite come gli altri le scuole superiori, avesse iniziato il college alla facoltà di infermieristica. Tutti fatti che molti si dimenticarono nel momento stesso in cui vennero pronunciati. Tutto filò dunque liscio come olio fino all’arrivo alla splendida baita, un imponente edificio dalle forme squadrate, in stile neoclassico, il cui tetto era adorno di gargoyle splendidi quanto inquietanti. Oltre un breve colonnato si poteva accedere all’ingresso che dava sul vasto salone centrale; da qui si collegava la maggior parte delle sale dell’edificio principale. L’interno era dominato dal lusso, lampadari di cristallo rischiaravano le ampie stanze e le pareti erano adorne di quadri intervallati da teste di animali impagliate. Erano presenti comfort di tutti i tipi, tra cui un biliardo ed una sala cinematografica privata. Il luogo di cui il padre di James andava più fiero, però, era la “Stanza della Caccia”. Lì si trovavano diversi dei suoi trofei, armi di vario tipo, ed i suoi due amati gioielli, un magnifico lupo ed un gigantesco orso, entrambi impagliati, uccisi da lui stesso. Arrivati qui, dunque, James si affrettò ad aprire il portone per fare strada agli ospiti. Tuttavia, appena entrato, si bloccò guardando a terra.
«Che succede?» chiese Dover «c’è qualche problema?»
«No, nulla. Solo delle … lettere. Ma nessuno manda mai lettere a questo indirizzo. Che strano. Comunque entrate, forza.» Il ragazzo era di certo molto sorpreso. Ci teneva, infatti, che nessuno, a parte loro dieci, sapesse di quegli incontri.
Poggiato per terra, all’ingresso, c’era un corposo plico di lettere, tutte all’apparenza uguali. Sopra ognuna di esse, un nome. Erin van de Logt, Kurt Aldrich, Alexis Griffin, e via dicendo.
«Ce n’è una per ognuno di noi» osservò Carl, al che Scrapers rispose: «Quale sagace intuito! Cosa te l’ha fatto pensare, Kundren?»
«Beh, a questo punto apriamole, no?» Propose Isabel, cominciando a distribuire le dieci buste ai legittimi destinatari.
«Tu dovresti aprire anche qualcos’altro, ogni tanto, mia cara.»
«Cos’è, Eveline, una proposta? Non conoscevo questo tuo lato nascosto.» Flake non ricevette risposta, ma proprio non era riuscito a trattenersi dal lanciare la frecciatina alla reginetta dei doppi sensi. Intanto, spostandosi verso il salotto adiacente l’entrata, ognuno aveva cominciato a leggere la propria lettera, e ciò che si rivelò esserne il contenuto lasciò qualcuno contrariato, altri più interessati e coinvolti, tutti ugualmente stupiti.
Ogni lettera conteneva due fogli, il primo, uguale per tutti, recitava le seguenti parole:
 
 

Una riunione massacrante

Benvenuti, rappresentanti, a questo meeting di vitale importanza per gli affari della politica mondiale. E un benvenuto anche ai due mediatori neutrali che gestiranno il tutto.
La villa in cui vi trovate è completamente a vostra disposizione e qualunque vostra richiesta sarà esaudita. Tutto fila liscio e le intenzioni sembrano le migliori, finchè qualcosa di terribile comincia ad accadere. Infatti, in mezzo a voi, si nasconde uno spietato assassino, o chissà, anche più di uno. Intenzionato ad uccidere tutti, nessuno escluso. Compito degli altri invitati sarà dunque riuscire a sopravvivere e scoprire chi è il misterioso omicida, fermandolo. Chi vincerà, l’assassino, oppure le vittime? Buon divertimento!
 
Firmato:
Arthur Norman Onym
 
 
I personaggi sono i seguenti.
Mr. Whitman: Rappresentante degli Stati Uniti d’America
Miss. Baudelaire: Rappresentante della Francia
Mr. Wilde: Rappresentante dell’Inghilterra
Miss. De Cervantes: Rappresentante della Spagna
Mr. Pascoli: Rappresentante dell’Italia
Miss. Kafka: Rappresentante della Germania
Mr. Dostoevskij: Rappresentante della Russia
Mr. Tōkoku: Rappresentante del Giappone
Miss. Boulevard: Mediatrice
Mr. Ravens: Mediatore
 
 
Il secondo foglio conteneva invece le istruzioni dedicate alla singola persona, la descrizione del personaggio, la sua funzione, tutto il necessario.
«E’ solo una stupida presa in giro» sbottò Conquest, visibilmente irritato «e piuttosto che perdere tempo dietro a certe sciocchezze, dovremmo prepararci per la cena.»
Desmond, al contrario, era piuttosto intrigato da quella lettera. «Perché? Potrebbe essere un divertente passatempo, a me l’idea piace.»
«E’ una specie di gioco di ruolo. In effetti sembra interessante, perché non provarci?»
«Oh, Erin, chissà perché, sei d’accordo con Desmond. La cosa mi stupisce, davvero. Seriamente?» ribatté Eveline.
«Smettetela, sembrate dei bambini di cinque anni.» Alexis Griffin era preoccupata per ben altro, in quel momento; una preoccupazione, in realtà, più generale di quel che non sembrasse, e che trovò voce in Dover.
«Più che tutto, il punto è un altro. Chi è questo “Onym”? Qualcuno di noi lo conosce? Ma soprattutto, come fa a sapere che siamo venuti qui?» Gli sguardi dei ragazzi erano quanto mai eloquenti: nessuno aveva la più pallida idea di chi fosse il misterioso mittente, ne di come potesse sapere dei loro ritrovi.
«E’ inquietante, per favore, smettiamola e andiamo a mangiare, che sto morendo di fame.» esclamò a quel punto Kurt, prendendo per la prima volta la parola. Era quanto mai teso. Si sentì solo qualcuno borbottare «sì, andiamo a cena» e «ha ragione» ed in mezzo un «codardi, ricordatevi anche che è grazie a me se adesso siamo in montagna e non altrove» pronunciato a mezza voce da Flake, che però fece attenzione a non farsi udire, non voleva rovinare tutto per uno sciocco insulto, dopotutto.
«Prendete pure posto nelle vostre camere al piano di sopra, le chiavi sono nelle serrature. Ci vediamo in sala da pranzo tra venti minuti.» Alle parole di Conquest i ragazzi si diressero tutti insieme al primo piano, ancora pensierosi per quanto appena accaduto. Ognuno si preparò con il proprio ritmo, e a poco a poco la sala da pranzo cominciò a riempirsi. Mancavano solo poche persone, quando si sentì distintamente un tonfo proveniente dall’altra parte della casa. Allarmati, si lanciarono tutti, quasi immediatamente, per andare a controllare quanto fosse accaduto, e la scena che si parò loro dinnanzi lasciò tutti senza fiato nello sbigottimento generale. Desmond, riverso per terra ai piedi della scala, in una posa innaturale, con un rivolo di sangue che usciva dalla tempia, era completamente immobile.
«Desmond, stai bene? Ti prego, rispondi!»
«Non fare lo stupido, Flake. Flake?»
«E’ caduto dalla scala?»
«Non c’è battito.» Erin van de Logt, laureanda in Medicina, si era chinata a tastare il polso.
«E’ … è morto.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
Nessuno fiatava, tutti erano storditi da quanto era accaduto. Dopo alcuni secondi, Erin, pur conoscendo già la risposta, chiese con voce flebile «E’ davvero … Voglio dire, non c’è più nulla da fare, vero?»
Il silenzio di Isabel fu più eloquente di qualunque spiegazione. Ad un tratto Erin si abbassò, e, lentamente, poggiò la propria mano sul volto contratto e congestionato di Carl, i cui occhi vitrei ancora fissavano il vuoto, e li chiuse, delicatamente.
«E ora, che ce ne facciamo? Ah, no, non guardatemi così! Non possiamo mica lasciarlo qui!» Eveline era meno scossa di quel che non fosse disposta ad ammettere.
«Ma … ma come fai a pensare a cose simili?!» Kurt, invece, sembrava sul punto di una crisi di nervi.
Dimostrando ancora una volta di saper mantenere il raziocinio più degli altri, Robert intervenne nuovamente.
«Ora il problema di maggior rilevanza mi sembra un altro, sinceramente. Innanzitutto, com’è morto Carl …» al che venne interrotto da Erin, che si affrettò a spiegare. «Non si tratta di veleno, o cose simili. Vedete? Il suo viso si è gonfiato. E’ morto per shock anafilattico. Si tratta di una reazione allergica, anche piuttosto violenta. Tutti sapevano che Carl era gravemente allergico all'aspirina. Evidentemente ce n’era traccia del principio attivo nel brandy.»
«Sì, grazie Erin, ma non era una doma…» fece per rispondere Robert, che detestava essere interrotto. Proprio ciò che fece nuovamente Desmond.
«Ed è altrettanto evidente che lo sapeva anche Onym.»
«Appunto.» Intervenne nuovamente Robert, con voce indispettita. Stava per perdere la pazienza, davvero.
«Esatto, evidentemente lo sapeva anche Onym.» sottolineò poi con un sorriso bieco.
«E il fatto che lui sia morto qui, proprio davanti ai nostri occhi, non può significare che una cosa sola.» Pausa ad effetto. Sembrava la scena di un film poliziesco, e lui era il brillante detective.
«Ovviamente. E’ inutile negare.» Alexis, dal canto suo, sembrava non nutrire dubbi.
«No, un momento, cosa significa tutto ciò?! Parlate chiramente!» Ed ecco il John Watson della situazione, signori, Dover. Ma questa volta a spiegare fu proprio Alexis, mentre i più si scambiavano occhiate cariche di tensione, e cupe quanto le nubi, che, fuori dalle ampie finestre, avevano ormai scatenato una violenta tempesta di neve.
«Significa, semplicemente, che Onym è già qui, e si sta nascondendo da qualche parte, a nostra insaputa. O peggio» concluse la ragazza con tono grave.
«Dobbiamo trovarlo. E ucciderlo!» esclamò con forza Isabel.
«No! Ucciderlo no» intervenne James. «Se lo facessimo ricadrebbe su di noi anche la morte di Carl, e un’inchiesta è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, lo sai perfettamente. Trovarlo, questo sì. Dobbiamo trovarlo e capire quali sono le sue intenzioni, perché sta facendo tutto questo.» Era pallido, e si reggeva con la mano ad una mensola, ma la sua voce era ferma.
Ci fu un momento di silenzio, tutti sembrarono rimuginare su quanto accaduto, immobili, come pietrificati.
Ad un certo punto, tenendo lo sguardo fisso nel vuoto, Desmond ruppe il silenzio.
«Ora non c’è nulla che possiamo fare. Piuttosto, dovremmo riposare.» mormorò.
«Ma che stupidaggini dici?» ribatté Eveline, completamente fuori di sè «Come puoi pensare ad andare a dormire con un pazzo che si potrebbe nascondere ovunque! Dobbiamo cercarlo, adesso!»
«Non credo» intervenne James «Per una volta Desmond ha detto una cosa intelligente. Guarda fuori dalla finestra, siamo nel mezzo di una tempesta di neve, che non finirà neanche tanto presto. Ovunque sia quel bastardo, non può certo fuggire. Inoltre siamo tutti troppo stanchi e scossi. Dovremmo, invece, andare a letto tutti quanti. Cercheremo Onym domani, con più calma.»
«E Carl lo lasciamo qui a marcire?» fece Isabel, con il solito tatto che la contraddistingueva.
«Lo porteremo su io e Desmond, nella sua stanza. Voi ricordatevi di chiudere a chiave le porte. E di non aprire a nessuno, per nessun motivo!» Aveva decisamente ripreso il controllo, pensò soddisfatto James.
«Allora, siamo tutti d’accordo?»
«Sì, mamma!» borbottò qualcuno, ma il ragazzo ottenne comunque l’assenso di tutti.
«Se però stanotte muore qualcuno, non stupitevi troppo. Saprete che avevo ragione» aggiunse dopo Eveline, con fare teatrale.
«Oh, non temere cara, a meno che il nostro “amico” non sappia attraversare le pareti, o cos’altro, non morirà proprio nessuno. Mi dispiace così tanto deluderti, ma ci sono tante possibilità che qualcuno muoia stanotte quante tu di essere veramente nobile» Alexis aveva sputato veleno con una notevole ferocia, ma non sembrava aver sortito l’effetto desiderato.
Eveline si mostrava imperturbabile. «Sì, blatera pure, sciocca, tanto la tua è solo invidia, ma a questo punto, riguardo a quell’essere, Onym, vedremo domani chi è che aveva ragione!»
«Ma vi sembra il caso di battibeccare in un modo simile, in una situazione come questa? Riprendetevi!» James si stava alterando. Ma quanti anni avevano?
«Ma quale battibeccare, ti pare che io mi possa abbassare a battibeccare con una volgare ragazzina come lei? Beh, in tal caso ti sbagli, e di grosso. Mesdames et messieurs, adieux!»
Qualcuno, fortunatamente, trattenne Alexis dal prenderla a pugni, e gli animi si raffreddarono. Un incontro di boxe sarebbe stato poco opportuno.
Poco alla volta i ragazzi cominciarono a muoversi in direzione dei piani superiori. Nel mentre, Kurt rimase a fissare con sguardo assente le dieci statuette. Dieci indiani. Dieci, esattamente come loro. Come erano loro. Senza dire una parola prese una delle statuette e la guardò con intensità.
«Forse è esattamente ciò che ci meritiamo» disse enigmaticamente, più rivolto a se stesso che ad altri. Dopodichè, forzando le dita del morto, che cominciavano ad irrigidirsi, mise la statuetta in mano a Carl. Quel gesto aveva un che di inquietante, ma nessuno si oppose.
Gradualmente le luci si spensero e i convitati si ritirano nelle rispettive stanze, compagni unicamente di se stessi, dei propri pensieri. E di quella maledetta filastrocca.
 
Nella solitudine, i pensieri fluivano nelle menti ancora scosse dai recenti sviluppi. Inutile osservare come prendere sonno fu per i più un impresa ardua, il pensiero di Onym che, come un tarlo, scavava nei pensieri di ognuno, generando incubi, sospetto, paura, ossessione. Chi era l’”Anonimo”? Dov’era? Perché stava facendo tutto ciò? Vendetta? Crudele soddisfazione personale? Senso di giustizia? Oppure era veramente solo un folle? Chi era veramente?
Un ciclo infinito di domande che non trovavano risposta, che minavano le coscienze dei singoli, rosi dal dubbio, bisognosi di conforto, pronti all’imprudenza. Baita Dreadpeak non dormì, quella notte. Rumori soffusi e vaghi la animarono, ma capire cosa stesse avvenendo era impossibile. Andare ad indagare era impensabile, il timore troppo forte anche solo per parlarne. Quella notte, Baita Dreadpeak era popolata di fantasmi.
 
Una luce soffusa illuminò le stanze il mattino successivo. Sembrava tutto così normale. Sembrava. Il risveglio fu più problematico di quanto ci si potesse aspettare. Avrebbero dovuto decidere un’ora di sveglia. Che stolti erano stati. Tuttavia, ad agire fu qualcuno di inaspettato.
Kurt bussò alla porta di ogni camera, invitando ognuno a raggiungerlo in sala da pranzo, per la colazione. Avrebbero discusso sul da farsi. Alexis e Dover si unirono immediatamente a lui, e scesero per cercare di mettere qualcosa sotto ai denti. Arrivati lì, tuttavia, trovarono un’inquietante sorpresa ad attenderli.
«Ma che diav…?!» Dover era rimasto a bocca aperta.
«Ci sta prendendo in giro, il bastardo!» esclamò a sua volta Alexis.
Kurt aveva un’espressione inquieta dipinta in viso. Poco dopo li raggiunsero Desmond, Robert e Isabel, seguiti a poca distanza da James ed Eveline. Quest’ultima, soffocando uno sbadiglio, chiese distrattamente «Di chi è stata la geniale idea di portare qui quel centrotavola?» con tono sarcastico.
Kurt e Dover si guardarono negli occhi.
«In realtà» accennò con fare incerto Dover.
«Beh» continuò Kurt.
«Beh cosa? Non sei mica una capra!» lo apostrofò James «Non riuscite a dare una spiegazione chiara?»
«Era già qui quando siamo scesi noi» disse allora Alexis.
«Ah» Eveline era perplessa «Beh, di certo non è venuto qua da solo»
«Onym» mormorò Robert, perso nei suoi pensieri. Poi continuò: «Avete notato nulla di strano? Mancano due statuette. Che fine avranno fatto?»
«Una l’ho presa io» ricordò Kurt, deglutendo. «E’ nella stanza di Carl.»
«Già. Ma la seconda?» chiese Alexis. La domanda che si stavano ponendo tutti aveva appena preso voce.
«Magari l’ha uccisa Onym. Mangiamo?» commentò sbadatamente Isabel, che intanto si era già seduta.
«Sì, una stupida statuetta. Certo.» borbottò acidamente Eveline, sedendosi a sua volta «Sono d’accordo, comunque, facciamo colazione, invece di perderci dietro stupide bazzecole.» Quella ragazza al mattino era decisamente intrattabile. Ma solo al mattino.
«Bazzecole. Sì, vabbè.» osservò Robert allontanandosi per andare a prendere qualcosa, seguito da James e Kurt. Ritornarono poco dopo con le braccia cariche di vivande, che cominciarono, nonostante tutto con una certa avidità, ad ingurgitare. Dopo un po’, con la bocca ancora semipiena, James chiese «Avete visto Erin? Non è ancora scesa, se non sbaglio.»
Isabel aprì la bocca per rispondere, ma si bloccò alla vista del volto di Desmond. Dopo alcuni istanti, infatti un’espressione di terrore lo pervase.
«Erin!!» esclamò il ragazzo, lasciando perdere di botto la fetta di pane tostato cui si stava dedicando fino ad un momento prima e precipitandosi su per le scale, salendo due gradini alla volta. L’intuizione di quanto potesse essere accaduto allora folgorò anche gli altri, che si lanciarono al suo inseguimento. Arrivarono poco dopo, senza fiato, davanti alla porta di Erin, dove Desmond stava già armeggiando con la maniglia.
«Non si apre, è chiusa a chiave!» esclamò disperato. Allora si mise a battere violentemente con il pugno. «Erin!» gridò, con voce rotta.
«Sfondiamola» propose allora Robert. James, a quelle parole, tentò di protestare, ma venne prontamente zittito e lasciato a borbottare da solo.
Cominciarono dunque a prendere a spallate la robusta porta, che non dava segno di voler in qualche modo cedere.
Dopo svariati tentativi, tuttavia, venne sfondata con uno schianto, e Desmond e Dover, che aveva dato il cambio a Robert, ansimanti e doloranti, rischiarono di ruzzolare a terra.
«Erin! Erin, no!!» gridò disperato Desmond, travolto dalla vista di ciò che li attendeva. La ragazza era distesa in modo scomposto sul letto disfatto, lo sguardo fisso sul soffitto, la bocca semiaperta. Accanto a lei, sul pavimento, giaceva abbandonato un cuscino. E, sul comodino accanto al letto, la statuetta li osservava indifferente. Era chiaro, non c’era nulla che potessero fare, ormai era morta. O meglio. Era stata assassinata.
«Maledetto … maledetto mostro! E’ tutta colpa mia, solo colpa mia.» Desmond si era accasciato sulle ginocchia, come svuotato.
«HA! Ve l’avevo detto, io!» esordì allora Eveline, con sguardo trionfante.
«Ma taci! Per quanto ne sappiamo potresti anche essere stata tu!» rispose con veemenza Alexis. La ragazza voleva prendersi la rivincita dalla sera precedente.
«Come ti osi, tu! Tu, di accusare ME!» il bel viso di Eveline era distorto in una maschera di disgusto e furore. Se avesse potuto avrebbe scagliato fulmini.
«Ragazze, su, è morta Erin, non dovreste…»
«E tu non intrometterti!» sbottarono le due, in coro, rendendo il povero Dover decisamente piccolo.
In tutto ciò, nessuno pareva aver notato lo strano comportamento di Kurt, che, in un angolo della stanza, e bianco in volto, tremava leggermente.
«Oh, Wes. Ti prego, perdonami, perdonami Wes, non volevo. Perdonami. Wes, io non volevo, ti prego, potrai mai perdonarmi? Oh, Wes, mi dispiace così tanto.» mormorava, come un mantra.
Robert invece, a differenza degli altri che avevano tutti gli occhi puntati sul cadavere di Erin, passeggiava per la stanza. Quando, poco alla volta, gli ospiti cominciarono a riprendersi, Eveline osservò «Che strano, però, pare davvero che il nostro Onym abbia la capacità di passare attraverso i muri. La porta era chiusa dall’interno, c’è ancora la chiave nella toppa. Anche presupponendo che sia entrato di qui, a meno che sia ancora qui, o che si sia volatilizzato, non vedo come abbia potuto svignarsela»
«Nulla di così impossibile» rispose Robert, aprendo la finestra «Vedete?»
«Inoltre,» continuò, con un ampio ed enfatico gesto della mano «vorrei portare la vostra attenzione a quella»
«Cosa c'entrerebbe la filastrocca di mia madre, scusa?»
«Osservatela. O meglio, leggetela.» aggiunse poi, ignorando James.
«Dieci piccoli indiani se ne andarono a mangiar, uno fece indigestione, solo nove ne restar.
Nove piccoli indiani fino a notte alta vegliar, uno cadde addormentato, solo otto ne restar.
Otto piccoli indiani se ne…» recitò Dover, ma improvvisamente si bloccò. «O … mio Dio. No. No.»
«Oh sì, invece» Robert aveva di nuovo quel ghigno bieco a solcargli il volto.
«Cosa, cosa?!» Eveline non sembrava più tanto sicura di sé, sembrava, anzi, isterica.
«Non è evidente, ormai? Dieci piccoli indiani se ne andarono a mangiar, uno fece indigestione, e Nove piccoli indiani fino a notte alta vegliar, uno cadde addormentato.» ripetè Robert «Carl è morto di shock anafilattico, mentre Erin è morta soffocata. Nel sonno.»
«Starai scherzando, spero» Alexis aveva sbarrato gli occhi, sconvolta.
«Affatto. E’ abbastanza chiaro, a questo punto. Onym sta seguendo questa filastrocca, nei suoi omicidi. C’è un indiano per ognuno di noi. E solo otto ne restar. Dunque preparatevi, perché otto piccoli indiani se ne vanno a passeggiar, uno, ahimè, è rimasto indietro, solo sette ne restar

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 
I superstiti decisero di tornare in salotto per mangiare qualcosa e calmarsi prima di affrontare nuovamente la questione. Mangiarono con lentezza, facendo un'espressione sospetta ad ogni boccone: il ricordo di ciò che era successo a Carl era fin troppo vivido nella loro memoria.
Dopo aver bevuto un sorso d'acqua per mandare giù l'ultimo boccone, James disse: «C'è una cosa che Onym non ha considerato».
«Quale?» domandò Eveline, che si sforzava di mantenere un tono di voce altezzoso sebbene fosse ancora scossa.
«Finché noi siamo bloccati in questo rifugio, lo è anche lui».
«È vero» riconobbe Robert «E siamo pur sempre otto contro uno».
«Già, però noi siamo disarmati, mentre lui non è certo privo di risorse» fece presente Isabel.
Robert insisté: «Ma James conosce bene questo rifugio e se stiamo uniti non c'è nulla da temere. Onym compie i suoi omicidi ispirandosi alla filastrocca, di sicuro non tenterà di ucciderci tutti nello stesso momento».
Si rivolse a James: «C'è una stanza in questa baita che potrebbe essere usata come un nascondiglio?»
A James non servì troppo tempo per riflettere. «Credo di no. La pianta è semplice e ogni stanza comunica bene con le altre. Sapete, in caso di emergenza».
«Questo gioca a nostro favore» disse Desmond «Ma ci vorrà un sacco di tempo per ispezionare tutte le stanze, e Onym potrebbe approfittarne per tendere una trappola in un punto della casa mentre noi lo stiamo cercando in un'altra parte.»
«Ci divideremo in coppie» disse Robert «Anche se siamo in due, siamo pur sempre in grado di difenderci.»
Gli altri rimasero a ponderare in silenzio sulla proposta. Alla fine, Isabel disse: «Se Onym è davvero intenzionato ad ucciderci, tanto vale rendergli il gioco difficile. Ci sto».
«Anch'io» disse Alexis. Eveline si limitò ad annuire, e così fece anche Kurt.
Dover prese un mazzo di carte da poker dal mobile e lo passò velocemente in rassegna, estraendo otto carte che dispose sul tavolo a faccia in giù.
«Una a testa» spiegò agli altri «Quelli con le carte dello stesso seme formano la coppia».
Isabel fu la prima a raccogliere una carta, seguita a ruota dagli altri. «Regina di quadri».
Quando anche gli altri ebbero mostrato la propria carta, Robert decise di assumere il controllo dell'operazione: «Allora, Alexis e Kurt ispezioneranno l'esterno, Dover e James penseranno alla soffitta, Isabel e Desmond le camere. Io ed Eveline penseremo al piano terra.»
 
«È orribile» commentò Desmond. Lui e Isabel avevano appena finito di controllare la camera di Carl. Il corpo era disteso sul letto e coperto con un lenzuolo.
«Forse dovremmo aprire le finestre per far scendere la temperatura» disse Isabel con noncuranza «Presto inizierà a decomporsi».
Desmond era sempre più disgustato. «Certo, perché non lo seppelliamo direttamente sotto la neve?» domandò con fare sarcastico.
«Non scherzare, potrebbe essere necessario. O preferisci portarlo nella cella frigorifera? Grazie al cielo non aveva ancora iniziato a digerire, non oso pensare a cosa sarebbe successo col rilassamento degli...»
«Va bene, smettila. Sto per vomitare».
«Era solo una considerazione medica».
«Chissà perché, tutte le considerazioni mediche che fai sono disgustose» commentò Desmond aprendo la finestra per prendere una boccata d'aria. Rimase ad osservare la distesa innevata davanti a lui mentre Isabel continuava ad ispezionare la stanza, poi domandò: «Chi pensi che sia?»
«Chi?»
«Onym, ovviamente».
«Non ne ho idea» rispose laconica la ragazza «Ma, chiunque sia, conosce fin troppe cose sul nostro conto».
«Non sembra che la cosa ti preoccupi».
«Beh, fra poco lo troveremo e gliela faremo pagare, no?»
Desmond si limitò ad annuire mentre richiudeva la finestra.
«Bene» disse Isabel «Mi sembra che abbiamo controllato tutto qui».
 
Alexis dubitava che Onym potesse nascondersi all'esterno della baita, meno che mai trascorrervi un'intera notte. Tuttavia, l'idea di fare due passi non le dispiaceva, inoltre in questo modo aveva la possibilità di controllare l'arrivo di eventuali soccorsi.
«Non penso che arriverà qualcuno» disse Kurt con voce piatta, vedendo l'amica che guardava per l'ennesima volta in direzione della funivia.
«Immagino che, nonostante la tempesta di ieri sera, nessuno si sia allarmato».
«Non è questo che intendevo».
Alexis sospirò. Kurt si comportava in modo strano da quando erano arrivati, ma in quel momento stava diventando davvero seccante. Sembrava un fantasma.
«In ogni caso» disse lei, sforzandosi di apparire sicura di sé e controllata «Vogliamo tutti andarcene il prima possibile».
«Perché siamo tutti degli idioti».
Alexis fu colta alla sprovvista da quel commento. «Che vuoi dire?»
«Voglio dire che c'è un solo modo per lasciare questo posto: morire».
Quell'ultima parola fece rabbrividire Alexis. «Non è vero».
«Sì, invece. Lo sai anche tu» la voce di Kurt era pacata e sicura «E sono sollevato che sia così».
«Che stupidaggini» ribatté Alexis «Noi ci salveremo e ce ne andremo. Come si può essere stanchi della vita?»
«Può capitare» rispose Kurt «Vivere nel rimorso è peggio che non vivere affatto.»
La ragazza rimase in silenzio. Lo sguardo di Kurt era perso nel bianco della neve, come se stesse aspettando l'arrivo di qualcosa che lei non poteva vedere. Alexis si sentì cogliere dallo sconforto. Sebbene si trovasse all'esterno della casa per la prima volta da quando erano arrivati, si sentì davvero in una prigione.
«Arriverà il momento per ciascuno di noi» disse infine il ragazzo.
Alexis ebbe un moto di rivolta. «Cosa stai dicendo?»
«Quando succederà, capirai che non è così terribile. In fondo, meritiamo di essere puniti. Ma meritiamo anche di trovare la pace, no?»
Alexis non sapeva più come rispondere. Morire? Come si poteva accettare una simile idea? Non aveva alcun senso buttare la propria vita per uno stupido errore del passato. Lei non lo avrebbe fatto. No, lei non sarebbe diventata una vittima.
 
La soffitta era piena di attrezzature per scalate, batterie, sacchi a pelo, libri ricoperti da un sottile strato di polvere, viveri inscatolati.
«C'è veramente tutto qui» commentò Dover «Manca solo l'assassino».
«Qualcuno potrebbe nascondersi qui per giorni, forse anche settimane» spiegò James «C'è anche un piccolo bagno».
«Questa baita assomiglia sempre più ad un bunker».
«E non hai ancora visto il meglio».
James armeggiò con la combinazione di una cassaforte alta e stretta. Quando aprì lo sportello, Dover vide tre fucili a canna liscia e una notevole quantità di munizioni.
«Niente male, eh?» commentò James, prendendo un fucile e una scatola di proiettili prima di richiudere lo sportello.
«E mi lasci a mani vuote?» protestò Dover «So come si maneggia un fucile».
«Non ce ne sarà bisogno. Non appena avremo trovato Onym, provvederò a tutto io. Mi sembra di aver già dimostrato quanto sono bravo a salvarvi il culo, no?»
«Non è affatto divertente».
«Ah, non essere così altezzoso. Siamo tutti sulla stessa barca, non ti conviene denigrare il mio aiuto. L'ultima volta non l'hai fatto».
Dover non rispose e continuò ad ispezionare il resto della soffitta. James non aveva mai trovato niente di particolarmente apprezzabile in lui, e sapeva che era un sentimento del tutto ricambiato. «Sai, non ho mai capito esattamente cosa ti abbia spinto a prendere parte allo scherzo. A malapena conoscevi Wes».
«Ho partecipato perché Wes non era un santo. I suoi scherzi erano pesanti, mi prendeva continuamente in giro...»
«Ah, è vero» James fece un ghigno divertito «Com'è che ti chiamava?»
«Lo sparuto irlandese».
«Esatto! Beh, capita quando non riesci a farti rispettare».
Dover gli rivolse l'ennesimo sguardo insofferente. «Grazie per la lezione, ne farò tesoro» commentò sarcastico «Ora vuoi aiutarmi a cercare Onym?»
«Sì, sì...» James indugiò prima di aprire la porta del bagno «Non mi è chiaro quello che ha detto la voce sul tuo conto».
«Che vuoi dire?»
«Ti accusa di non aver avvertito Wes pur avendone la possibilità. Non è che, all'epoca, hai raccontato dello scherzo a qualcuno, vero?»
Dover deglutì, tradendo una notevole ansia. «Non ne ho parlato a nessuno» rispose.
«Lo spero bene».
 
«Tutto questo è ridicolo» commentò Eveline, chiudendo con un brivido di freddo la cella frigorifera «Anche se Onym è chiaramente un pazzo, non credo affatto che possa nascondersi qui».
Robert la osservò divertito. «Tentar non nuoce».
«Certo, non sei tu quello che rischia la polmonite».
«Siamo tragici, eh?».
«Due dei nostri amici sono morti» replicò Eveline mentre si spostavano in cucina «Essere tragici fa ormai parte del nostro esprit».
«Ah, con me puoi anche abbandonare quell'accento» commentò Robert «Non ho mai abboccato».
Eveline gli rivolse una smorfia di disprezzo e cambiò argomento: «Parlando di cose più serie, non pensi che ci sia la possibilità che Onym agisca per procura?».
«In che senso?» domandò Robert, mentre riponeva nel cassetto i coltelli che avevano scelto come strumento di difesa.
«Sarà sicuramente un pazzo, ma mi sembra che sia anche intelligente. Probabilmente si è reso conto del rischio che avrebbe corso se fosse venuto qui di persona e ha deciso di agire in modo indiretto. Un po' come la caduta delle tessere di un domino: si è assicurato che ascoltassimo le accuse, dopodiché il resto è stata una caduta libera».
«Quindi, secondo te, Carl si è suicidato?»
«Esatto».
«Ed Erin, invece?» Robert fece un sorriso sardonico «Si è soffocata da sola?»
«Idiot» replicò Eveline «Stavo pensando che forse c'è qualcuno nel nostro gruppo che teme che il nostro piccolo segreto possa venire a galla e ha colto al volo quest'occasione per... diciamo per tagliare qualche ramo secco».
Improvvisamente, Robert apparve interessato a quello che stava dicendo Eveline. «Quindi pensi che sia un test per vedere chi riesce a tenere la bocca chiusa?».
«Mais oui».
«E scommetto che stai pensando a James».
«Dico solo che non gli mancherebbe la determinazione per farlo».
Robert preferì cambiare argomento: «In ogni caso, qui non c'è nessun Onym. Spero che gli altri abbiano scoperto qualcosa di utile».
 
Kurt aveva lasciato Alexis nella sua stanza e stava pensando di andare a dormire prima di tornare in sala da pranzo. Non avevano trovato nulla e aveva il presentimento che anche gli altri sei avrebbero detto la stessa cosa. Non c'era nessun altro in quella baita. Erano soli...
Un rumore ovattato attirò la sua attenzione. Proveniva dalle scale. Con cautela, Kurt si avvicinò per capire quale fosse l'origine.
«Ah, sei tu» disse, una volta raggiunta la sommità della rampa «Per un attimo ho creduto che fosse...»
 
Improvvisamente vi fu un grido. In preda alla confusione e all'istintiva paura, gli ospiti accorsero da ogni angolo della baita. Quando arrivarono in fondo alle scale, videro uno spettacolo orribile: Alexis, bianca come un fantasma, cercava di rianimare Kurt, che giaceva scomposto e con la fronte insanguinata.
James allontanò prontamente la ragazza dal corpo, mentre a Isabel non rimase che constatare l'ovvio: Kurt era morto per un evidente trauma cranico.
I sette ospiti si radunarono in sala da pranzo, dove ebbero un'ulteriore conferma dell'incubo che stavano vivendo.
«Gli indiani» disse debolmente Alexis, ancora sorretta da James «Sono solo sette...».
Tutti si sedettero attorno al tavolo. Fuori aveva ripreso a nevicare. Robert prese la parola: «Solo sette ne restar... Mi sembra chiaro in che situazione ci troviamo, a questo punto. Ormai non si può più parlare di suicidi o di incidenti. Kurt è stato ucciso, e così anche Carl ed Erin».
«Questa è chiaramente opera di Onym» riconobbe Desmond «Il problema è che lui non si trova in questa baita. L'abbiamo esaminata da cima a fondo».
«Io invece sono convinto che Onym sia effettivamente qui» replicò Robert «Prima non avevamo motivo di pensarci, ma ora è l'unica soluzione possibile. Siamo isolati dal resto del mondo, nessuno può raggiungere o lasciare questo posto. L'assassino conosce dettagli che nessuno aveva mai raccontato a persone esterne al nostro gruppo. Stando così le cose, c'è solo un modo in cui Onym può trovarsi qui».
Stava per parlare, ma James lo anticipò: «Ma certo. Il signor Onym è uno di noi».


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Messaggio degli autori
Bentornati, cari/e lettori/rici, per questo quarto capitolo finalmente giunto. Speriamo che la storia vi stia appassionando, ma speriamo anche di migliorare nell'iter, quindi non esitate a recensire! Detto questo, grazie a coloro che ci leggono, che ci seguono, che ci hanno recensito e recensiranno. E, per chi avesse notato e letto questo messaggio prima del capitolo, buona lettura!
Infine, aggiungo una "comunicazione di servizio": il presente capitolo è pubblicato a nome del sottoscritto, Owen, ma in realtà è stato scritto da Belfagor e corretto da me. Ciò per un semplice e banale motivo, ovvero che risulta impossibile abilitare il Roundrobin, la funzione finora utilizzata. Di conseguenza, i credits vanno a lui.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
 
Scoppiò il finimondo. Alexis, già parecchio pallida per lo shock appena subito, quasi svenne e non cadde solo grazie a James che ancora la sorreggeva; Isabel scoppiò in una fragorosa risata, mentre Eveline, che, rossa in volto, si era alzata di scatto facendo cadere la sedia, e Desmond cominciarono a sbraitare praticamente in contemporanea; Dover era sbiancato in volto, e sembrava avere tutta l’intenzione di seguire Alexis nella sua divertente attività. L’unico a non essersi scomposto troppo era Robert, che osservava con il suo solito ghigno irritante. Tutto ciò venne bruscamente interrotto da James, che, battendo un pugno sul tavolo, gridò: «State zitti!»
Quando finalmente fu tornata la calma, continuò «In questo modo non risolviamo nulla, ve ne rendete conto?! Se vogliamo avere una qualche speranza di sopravvivere, dobbiamo mantenere la calma.»
«Mantenere la calma?!» sbraitò Eveline, ancora parecchio congestionata «Mantenere la calma?! Come pretendi di mantenere la calma, sei completamente impazzito? Seduto a questo tavolo c’è un assassino, qualcuno che sembra essere del tutto intenzionato ad ucciderci tutti! E io dovrei stare calma?!»
«Esatto, Eveline, hai capito bene, per una volta, devi stare calma.» intervenne Robert, con fare seccato. «Urlando e agitandoci come dei pazzi psicotici non risolveremo un bel niente. Quindi fai un favore a tutti, siediti e datti una controllata.»
«Anche perché, per quanto ne sappiamo, potresti anche essere tu, Onym» aggiunse Isabel, che ancora ridacchiava.
«COME TI PERMET…» Eveline venne tuttavia interrotta da Desmond, che disse, o meglio, gridò «E tu cosa ci trovi di divertente?! Stanno morendo delle persone, e tu potresti essere la prossima! O chissà, potresti anche essere tu, l’assassina!»
Al che, Isabel, per tutta risposta, afferrò un coltello poggiato sul tavolo, palesemente non per farsi una fetta di pane e marmellata. Questo scatenò la reazione di Dover, che era ancora seduto al suo posto, come pietrificato. «Basta, smettetela!» urlò. Ma dopotutto in quel momento stavano gridando un po’ tutti. «Ma vi vedete?! Sembrate impazziti tutti quanti! E tu, Isabel, metti giù quel coso, non vorrai fare il gioco di quel pazzo assassino!»
«Ha ragione,» intervenne James «smettetela immediatamente e cerchiamo di usare la testa, non possiamo farci travolgere così. Cerchiamo piuttosto un modo per tirarci fuori … Alexis, stai bene?!» Si interruppe poi all’improvviso, poiché si era accorto che la ragazza aveva ripreso conoscenza e stava fissando con uno sguardo pieno di terrore le rimanenti sette statuine poste al centro del tavolo. Tutti cominciarono a fissarla. Dopo un po’ lei alzò gli occhi segnati verso James e, con voce flebile, chiese «Non avevi detto di avere una rice-trasmittente per le emergenze? Sarebbe davvero il caso di usarla, no?» Gli occhi di James si illuminarono. «E’ vero, ne abbiamo una! Sei un genio, come ho fatto a non pensarci?»
«Forse perché, a differenza sua, tu sei un completo idiota!» replicò acidamente Robert. Era forse la prima volta che lo vedevano veramente alterato dall’inizio di quell’incubo «A questo punto mi verrebbe da pensare che tu te lo sia “dimenticato” apposta. Forse perché l’assassino sei tu. Dopotutto questa è casa tua, chi meglio di te?» Se avessero potuto, i suoi occhi avrebbero scagliato fulmini.
«Ma sentitelo!» esclamò Desmond «Parli tu, che proprio insospettabile non sei. Insomma, mi viene da chiedermi, come è possibile che sapessi tutte quelle cose? Tutte quelle brillanti deduzioni, quegli infallibili ragionamenti, mi insospettiscono parecchio. Magari quelle cose le sapevi perché sei stato tu a farle, non è forse vero?»
«Il motivo è molto più semplice di quel che credi, caro il mio Sherlock Holmes dei poveri! Io, a differenza tua, ho un cervello che funziona! Se provassi a tirare il tuo fuori dalla naftalina, ogni tanto, vedresti che qualche lampadina si accenderebbe!» Robert era fuori di sé. Ma la rispostaccia che Desmond stava per sputargli in faccia venne preceduta dall’intervento di Dover.
«Rice-trasmittente, rice-trasmittente!» esclamò, come se stesse parlando ad un gruppo di bambini scalmanati. «Se andiamo avanti così, finiremo davvero per ucciderci a vicenda! Piuttosto, cerchiamo quel maledetto affare, e vediamo se riusciamo a tirarci fuori da quest’inferno, invece di accusarci l’un l’altro.»
Finalmente tornò un minimo di tranquillità, nonostante le occhiate inferocite e sospettose che saettavano da una parte e dall’altra.
«Forza, da questa parte.» li guidò James, che si offrì nuovamente di sostenere Alexis, ancora parecchio pallida e tremante. E così, la tetra compagnia si avviò tra le grandi sale di Baita Dreadpeak, superando saloni e camere lussuosamente arredati, ma che ormai davano una sensazione di freddezza e morte ai presenti ancora in vita. Infine si fermarono davanti ad una porta di legno alta e stretta. Lasciata Alexis, che aveva finalmente ripreso un po’ di colore, James aprì la porta e si addentrò nell’angusto sgabuzzino. Dopo aver acceso una lampadina che pendeva dal soffitto si poterono intravedere vari aggeggi e cianfrusaglie impilati disordinatamente. Il ragazzo si mise a cercare e dopo parecchi minuti, che a dire il vero parvero un’eternità, riemerse trionfante, stringendo un grosso e chiaramente vecchio aggeggio nero, con parecchie manopole e una specie di radiolina attaccata.
«Ma tu … sai come si usa, vero?» fu l’incerta domanda di Desmond.
«Lo spero.» intervenne Eveline «Per il tuo bene.»
James deglutì. «Ecco … effettivamente … non l’ho mai usata. E non ho idea di come si usi.» disse con una vocina flebile.
«Ma bene! Ottimo! Chapeau, davvero, sono senza parole.» commentò sarcastico Robert.
«Per una volta.» ribattè Isabel «Beh, proviamoci comunque. Magari ce la facciamo lo stesso.»
«Non ci restano molte opzioni» constatò James, sconsolato. «Beh, per prima cosa, accendiamola.»
Dunque, con un gesto deciso, il ragazzo premette il pulsante di avvio. Ma non accadde nulla. Riprovò. Stesso identico risultato. Imprecò sonoramente, ma la rice-trasmittente non si accese neanche così.
«E’ rotta.»
«Grazie, Isabel, di avermelo fatto notare, non c’ero proprio arrivato.»
«Prego, James, ma siamo nei casini comunque.»
«Ah, perché prima eravamo messi bene.»
«Di certo non grazie a te.»
«Perché tu invece …»
«Bambini, smettetela, su!» li interruppe Eveline «Plutôt, che fine avrebbero fatto i nostri beneamati Alexis e Robert?»
I cinque si guardarono in un lampo di comprensione e cominciarono a chiamare i due compagni a gran voce, non sapendo quale dei due fosse l’assassino. Tanto ormai erano certi che fosse uno dei due.
«Aspettate, aspettate, com’è che faceva? Sette piccoli indiani …» chiese Dover, col viso contratto nello sforzo di ricordare.
«Sette piccoli indiani legna andarono a spaccar, un di lor si infranse a mezzo, e solo sei ne restar!» completò James, con il respiro affannoso per l’agitazione.
«Cosa potrebbe essere, un coltello?» intervenne Isabel.
«O un’accetta!» Esclamò Desmond, che decise di prendere in mano la situazione. «Dividiamoci! Eveline, Isabel, Dover, correte in cucina! Io e James andremo verso la cabina degli attrezzi, forza!»
Tutti accolsero la proposta immediatamente, colti dal panico, e cominciarono a correre nelle rispettive direzioni.
 
Dopo meno di un minuto da quando si erano divisi, Desmond cominciò a rallentare la sua corsa, fino a fermarsi. Accortosene, James si bloccò a sua volta e si voltò a guardare l’amico, con fare stupito.
«Beh, perché ti sei fermato?!»
Desmond era serissimo.
«Perché di qualcuno devo pur fidarmi. E perché ho dei sospetti.»
«In che senso?» chiese James, cauto. Dopotutto anche lui aveva dei sospetti, ma andarli a spifferare in giro così gli sembrava sciocco. E Desmond non lo era.
«Nel senso che Alexis era da sola con Kurt, quando abbiamo trovato il suo cadavere. Ed erano in coppia assieme.»
«Intendi dire che lei potrebbe …»
«Esatto.»
James era pensieroso.
«Però, mi verrebbe da chiedere, perché farlo?»
«Beh, la domanda potrebbe essere girata a chiunque di noi. Anche a te. Potrebbe essere rimorso. O paura, dopotutto è lei la maggiore responsabile, mi pare, no?»
«Potrebbe anche non esserci un vero e proprio motivo.»
James osservava attentamente ogni mossa di Desmond.
«Perché ti fidi di me? Perché proprio io? E dammi una buona motivazione del perché io dovrei fidarmi di te. Dopotutto sei stato tu ad aver deciso i gruppi. Potresti anche aver deciso di uccidermi.»
«Beh no, sarebbe folle. Un suicidio. Se tu morissi la colpa ricadrebbe quasi immediatamente su di me. E lo stesso verrebbe per te. Mi sento relativamente al sicuro, e non penso che tu sia Onym. Dobbiamo fidarci di qualcuno se vogliamo sopravvivere.»
Dopo un ulteriore pausa, James rispose.
«Penso tu abbia ragione. E a questo punto, non credo che la situazione potrebbe peggiorare poi tanto. Allora, ti rivelerò quali sono i miei sospetti. Prima, quando stavamo perlustrando la casa, Dover …»
Ma improvvisamente il ragazzo si bloccò, teso come una corda di violino, all’udire un rumore di passi che si stavano rapidamente avvicinando.
 
«Dite che questa ricerca ha un senso?»
Dover era alquanto dubbioso. Nonostante la situazione, i tre non stavano affatto correndo. Anzi, avanzavano abbastanza cautamente, come se qualcuno stesse per piombar loro addosso da un momento all’altro. Eventualità piuttosto probabile, in realtà.
«Mais non.» rispose Eveline «Come potremmo mai accorgerci se qualcuno ha rubato un coltello dalla cucina? Non li abbiamo mica contati.»
«Effettivamente.» constatò Isabel.
«E poi» aggiunse Eveline, estraendo una lama da sotto la veste «io e Robert stessi ne abbiamo preso uno a testa, durante la ricognizione.» Dopodichè, con lentezza calcolata, lo ripose al suo posto.
Dover la guardava con orrore.
«Ma, ma, ma … tu! Posa subito quella roba! Non penserai che ci fidiamo di te se sei armata!»
«Oh, non ti scaldare troppo, caro, non è necessario. Non mi sporcherei mai le mani con voi, e comunque, è solo per autodifesa. Non mi fido di Robert. Credo di avere le mie ragioni, insomma, si comporta in modo strano, non pare neanche spaventato dalla situazione. E ora è sparito assieme ad Alexis. Chissà come l’avrà uccisa. E comunque, non credo che neanche lui si fidi di me. Non credo di aver fatto … ma cos’è quest’odore si terrible?!»
«E’ Kurt che si decompone. E’ morto.» osservò Isabel. «E c’è anche la sua colazione da qualche parte, o almeno ciò che ne resta.»
«Potrei vomitare.» commentò Eveline, con una smorfia disgustata.
Il gruppetto, infatti, si era avvicinato alla sala principale, dove ancora giaceva il cadavere del loro compagno.
«Io quello non lo tocco.» Continuò la ragazza.
«Tranquilla, si era capito.» rispose Dover «Comunque, non possiamo lasciarlo lì.»
«Dunque, portiamolo su noi. No, non tu Eveline, tranquilla.» Propose Isabel.
Lei e Dover si scambiarono un’occhiata rassegnata e si avviarono in direzione del corpo. Con aria afflitta, cominciarono a trascinarlo su per le scale.
«Lo portiamo nella sua camera, no?» chiese il ragazzo.
«No, lo mettiamo nel W.C.» rispose sarcastica Isabel. Dopodichè, vedendo che Eveline non si schiodava dalla base delle scale, aggiunse «La principessina non viene con noi?»
«No, grazie, preferisco aspettarvi qui, non mi avvicino a quel coso.»
«Se ti fidi.»
Continuarono dunque la loro ardua scalata, e, quando furono giunti in cima, ovvero ad una distanza di sicurezza dalle orecchie di Eveline, Dover sussurrò, ovviamente non rivolto a Kurt «Cosa ne pensi? Intendo, della situazione attuale. Robert. E Alexis.»
«Insomma, se ho dei sospetti?» La ragazza, dal canto suo, non pareva molto turbata.
«Beh sì. Intendevo quello.»
«Mi pare ovvio che ora come ora i maggiori indiziati sono Robert e James. Credo di poter escludere Carl, Erin e Kurt, comunque.»
«Grazie tante.» mormorò Dover stringendo i denti per lo sforzo e l’irritazione che la ragazza tendeva a provocare con le sue osservazioni. «Comunque sono d’accordo riguardo Robert e James. Soprattutto James. Insomma, non si può negare che abbia tutte le capacità per mettere in atto questo abominio.»
«Direi di no. Beh, c’è altro? O era solo un piacevole scambio di opinioni?»
«Inoltre» continuò Dover, ignorandola. «prima, durante la ricerca di Onym, anche James si è armato. Con un fucile.»
«Non male.»
«Come sarebbe non male …?! Va beh. Comunque, quello che vorrei proporti, in breve, è un modo per scombinare i piani di chiunque si nasconda dietro Onym.»
 
 
«Ma cosa? Tu!»
«Vieni Alexis, abbiamo trovato James e Desmond.» Robert si voltò e fece segno di avvicinarsi con la mano.
«Si può sapere dove eravate finiti?» Desmond era furioso.
«A fare la stessa cosa che presumo stavate per fare voi.»
«Che cosa, a cercarvi?!» James era sul punto di insultarlo, Robert e quella sua espressione saccente.
«No. A prevenire.» Alexis spuntò da dietro l’angolo del corridoio, con una grossa accetta in mano.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
 
Senza distogliere gli occhi dalla lama dell'accetta, James disse in tono canzonatorio: «Andiamo, Alexis, posa quell'accetta. Cos'hai intenzione di fare, ucciderci tutti?».
«Ho tutto il diritto di difendermi» replicò Alexis «Se Onym pensa di uccidermi, avrà una bella sorpresa».
«Mi sembra un'ottima scelta», commentò Desmond, chiaramente a disagio nel vedere la ragazza armata «Soprattutto quando la prossima vittima dovrebbe morire colpita da un'accetta».
Alexis comprese al volo. «Ma bene» disse in tono acido «Quindi c'è qualcuno che sospetta di me. Cos'è, credete che sia così stupida da spingere Kurt giù dalle scale per poi essere la prima a scoprire il cadavere? Non sapete che il primo testimone è sempre uno dei maggiori sospettati?».
«Io direi di scendere e mostrare agli altri che siamo ancora vivi» suggerì Robert «E di non scannarci a vicenda lungo le scale».
«Io scenderò per ultima» disse subito Alexis.
 
L'atmosfera in sala era, se possibile, ancor più tesa.
«Alexis» disse Desmond in tono esitante «Finché siamo tutti e sette insieme, non vedo il motivo per cui dovresti tenere con te quell'accetta».
«Mi fa sentire al sicuro, ecco il motivo» replicò lei freddamente.
«Lo capisco, ma il problema è che non fa sentire noi al sicuro».
«Non vi ho mai detto che non vi potete armare. Sbaglio?».
In tutta risposta, Eveline si alzò sbuffando e poggiò il coltello sul tavolo. «Contenta, adesso?» domandò «Robert, per favore».
Controvoglia, Robert lasciò il proprio coltello sul tavolo. Alexis aveva ragione, pensò: disarmata si sentiva decisamente più vulnerabile. Si affrettò a dire: «Sarebbe meglio che anche voi faceste lo stesso. Nessuno di voi ha delle armi nascoste?».
Nessuno si fece avanti finché Dover non disse: «James ha un fucile». Ignorando l'occhiata fulminante che gli lanciò l'altro ragazzo, aggiunse: «Lo ha preso oggi mentre perlustravamo la soffitta».
«È vero?» domandò Robert.
James sospirò, chiaramente irritato. «Sì, ho preso un fucile» disse, poggiando una scatola sul tavolo «Ma è in camera mia. Con me ho solo i proiettili».
Sebbene la tensione fosse ancora palpabile, deporre le armi era stato un gesto distensivo. Persino Alexis sembrava meno agitata. James si versò del whisky da una bottiglia chiusa e sigillata, memore di quello che era successo a Carl. Anche Eveline non disdegnò un bicchierino.
Dopo che ebbero bevuto, Dover si alzò e si schiarì la gola. Alto e pallido, sembrava uno spettro alla luce fredda della sala. «Io e Isabel siamo giunti ad una conclusione che vorremmo esporvi» disse.
Gli altri gli rivolsero sguardi carichi di interesse. Fino a quel momento, Dover era stato in disparte, preferendo limitarsi ad attuare le decisioni prese da altri. In quel momento, invece, sembrava che fosse riuscito a scoprire qualcosa che agli altri era sfuggito.
Il ragazzo proseguì: «Dunque, questo Onym ci sta punendo per il ruolo che abbiamo avuto nella morte di Wes, e questo è ovvio. Ma se Onym è uno di noi, significa che deve avere un motivo valido per arrogarsi il diritto di giudicare e condannare gli altri nove, no?».
«Ma la voce sul disco non ha escluso nessuno» obiettò Desmond.
«Questo è vero» riconobbe Dover «Quindi l'unica cosa che può rendere l'assassino, diciamo così, migliore rispetto alle vittime è una falsa accusa. In altre parole, una delle accuse è inesatta ed è quella rivolta al nostro Onym».
Calò nuovamente il silenzio. Era come se fossero tornati indietro nel tempo, alla notte in cui Wesley era morto. Poco prima che il sole sorgesse, tutti avevano giurato di mantenere il segreto. Nessuno all'infuori di loro avrebbe mai saputo com'erano andate veramente le cose. Se qualcuno avesse provato a tradire il giuramento, l'avrebbe pagata.
Il silenzio fu rotto dalle parole cariche di rabbia di James: «Qualcuno ha parlato. Quando vi ho chiesto se qualcuno di voi ne avesse fatto parola con qualcuno al di fuori del gruppo, avete risposto tutti di no. E adesso salta fuori che qualcuno di voi si è fatto degli scrupoli e per questo siamo tutti nella merda».
«James...» cercò di calmarlo Robert.
«Chiudi quella cazzo di bocca una buona volta!» lo zittì immediatamente James «Dovevate proprio farvi venire i sensi di colpa, eh? Nessuno si è mai opposto mentre organizzavamo lo scherzo. Oh no, non vedevamo l'ora di divertirci un po'. Però, chissà, forse qualcuno si è fatto venire dei cazzo di sensi di colpa prima ancora che mettessimo in atto il piano, e magari è andato a spifferare tutto a qualcuno! Non è così, Dover?».
Dover alzò lo sguardo. «Che cosa?».
«Ti piaceva l'idea dello scherzo, non negarlo. Per una volta, nella tua squallida vita, avevi la possibilità di far parte di un gruppo che non fosse composto dai soliti sfigati. È bello conoscere qualcuno di importante, no? Il college non è tanto facile se non hai le conoscenze giuste».
«Che cosa diavolo...»
«Però eri troppo codardo per tenere la bocca chiusa. A chi l'hai detto? A qualche amico di Wes?».
«Io non ho parlato con nessuno, quante volte te lo devo ripetere? Tu, piuttosto, avrai dovuto raccontare qualcosa a tuo padre affinché ci coprisse, no?».
«Mio padre mi ha aiutato senza fare una domanda» replicò James, che sembrava sul punto di scoppiare per la rabbia «E poi io sono il padrone di casa, non sarei così stupido da farvi venire qui se volessi uccidervi, no?»
«Questa non è una prova» fece presente Isabel «Finora gli unici tre al di sopra di ogni sospetto sono... beh, i morti».
«Sì, è così» confermò Dover «Per quanto, lo riconosco, sia macabro. Il problema è: esiste un modo per escludere qualcuno dei presenti dalla lista dei sospettati evitando che muoia? In parole povere, qualcuno di noi ha un alibi valido?».
«Visto che ormai non ha senso fare i finti modesti» disse Robert «Mi sembra impossibile che una persona con il mio livello intellettuale possa compiere atti di questo genere».
«Questo non prova assolutamente nulla» replicò immediatamente Dover «Tanto per cominciare, non sei l'unico con un livello intellettuale elevato qui dentro».
«Nonostante pensi il contrario» aggiunse caustica Eveline.
«E poi» continuò Dover «Il piano di Onym è piuttosto complesso e suggerisce che l'assassino sia piuttosto intelligente. Ci sono stati molti casi di medici che sono diventati serial killer e, se non ricordo male, Ted Bundy aveva studiato legge. Quindi la tua difesa non è valida».
Robert sbuffò, infastidito per essere stato preso in contropiede. «Allora come possiamo escludere qualcuno? Insomma, per qualcuno di noi sarà stato impossibile commettere quegli omicidi.»
«Non credo che Onym sia una ragazza» disse Alexis «Insomma, Erin è stata soffocata, ci vuole forza per farlo. E anche per far cadere Kurt.»
«Non necessariamente» la corresse Isabel «Erin è stata aggredita nel sonno, forse era stata drogata. E, visto che Kurt è caduto dalle scale, non deve essere stato difficile fargli perdere l'equilibrio con una spinta.»
Desmond rivolse alle due ragazze uno sguardo carico di sospetto. «Ma quanto siete brave a descrivere i movimenti di Onym. Sembra quasi che una di voi fosse presente al momento degli omicidi».
«Smettila» gli intimò Alexis.
Deciso ad evitare una nuova lite, Dover disse: «Sentite, è chiaro che per il momento siamo tutti sospettati. Consiglio a ciascuno di noi di armarsi e di chiudersi in camera. Al momento non siamo in condizioni di lasciare la baita. Domattina, tempo permettendo, cercheremo un modo per avvertire i soccorsi».
Silenziosamente, gli ospiti si alzarono e ripresero le armi che avevano lasciato sul tavolo. Salirono al primo piano tenendosi d'occhio a vicenda e, una volta che ciascuno ebbe raggiunto al propria camera, aprirono le porte all'unisono.
«Non c'è bisogno che vi ricordi di mettere una sedia sotto la porta» disse Desmond.
«E se Onym pensasse di farmi uno scherzo stanotte... beh, sappiate che ho il sonno leggero» li avvertì James «e il grilletto facile».
Ciascuno entrò nella propria stanza e chiuse la porta dietro di sé.
 
Eveline si svegliò di soprassalto. Aveva sentito un rumore. Qualcuno sta cercando di entrare nella sua stanza?
Afferrò il coltello che aveva tenuto nascosto sotto il materasso e, con passo furtivo, si avvicinò alla porta. Tese l'orecchio ma non sentì nulla. Fece un sospiro di sollievo.
Qualcuno bussò alla porta, facendola sobbalzare. «Chi è?» domandò.
«James».
«Sei da solo?»
«No, ci sono anch'io» disse Alexis.
Con molta cautela, e tenendo il coltello ben saldo nella mano destra, Eveline scostò la sedia che bloccava la maniglia, girò la chiave nella serratura e aprì la porta. Trovò James e Alexis, entrambi armati.
«Cos'è successo?» chiese.
«Desmond e Robert sono scomparsi» rispose Alexis.
«Com'è possibile?» chiese Eveline «Due vittime in una volta sola?»
«Io direi piuttosto vittima e assassino» la corresse James «Stiamo andando a cercarli».
Istintivamente Eveline stava per unirsi a loro, ma all'ultimo momento cambiò idea. «D'accordo» si limitò a dire «Andate pure, io me la caverò da sola».
 
«Strano, vero?» commentò Alexis mentre lei e James scendevano le scale.
«Non troppo» replicò James «Alcuni si sentono più al sicuro da soli. E poi, Eveline non mi preoccupa».
«Ad essere onesta, sei tu che mi preoccupi dopo ieri sera».
«Però il fatto che io abbia un fucile non ti dispiace».
«Dovrò pur pensare alla mia protezione».
«Io penserei piuttosto a cosa fare quando avremo capito chi è Onym».
«Che vuoi dire?» chiese Alexis scendendo gli ultimi gradini.
«Che non ho intenzione di aspettare l'arrivo della polizia. Un colpo alla testa e il problema sarà risolto».
Il tono con cui lo disse spaventò Alexis. Non c'era solo freddezza nella voce di James, ma anche... una sorta di entusiasmo. In quel momento si sentì più sicura con l'accetta stretta in mano.
 
Tenendo il coltello da caccia stretto in mano, Dover bussò alla porta della stanza di Isabel. Quando la porta si aprì, si trovò davanti la ragazza in vestaglia e armata con un grosso coltello da cucina. Vincendo il disagio, Dover chiese: «Dormito bene?».
«Secondo te?» replicò Isabel, stropicciandosi gli occhi con la mano libera «È successo qualcosa?».
«Credo di no» rispose Dover «Faremmo meglio a scendere».
Quando ebbero sceso le scale, sentirono cigolare la porta d'ingresso. Istintivamente, i due alzarono le armi.
La porta ruotò lentamente sui cardini e Robert entrò nell'ingresso. Era infreddolito e aveva gli scarponi pieni di neve. «Che fate lì?» domandò ai due, chiudendo la porta.
«Cosa ci fai tu, piuttosto?» replicò Dover, senza abbassare il coltello.
«Ero uscito per cercare un punto da cui lanciare un segnale di aiuto, ma sembra che la neve abbia bloccato tutte le attività. Anche se riuscissimo a contattare qualcuno, non riuscirebbe ad arrivare prima di domani».
«Hai visto qualcun altro fuori?» chiese Isabel.
«No, non ci sono orme sulla neve».
«E allora dov'è andato Desmond?» chiese Dover.
«Perché, non è in camera?» chiese di rimando Robert.
«No, lo stiamo cercando. E stavamo cercando anche te».
«Beh, non ne ho idea. Sentite, che ne dite di abbassare quelle armi? Siete ridicoli».
Nonostante la chiara diffidenza, Dover ed Isabel abbassarono i coltelli e si avvicinarono a Robert, che in cambio aprì la giacca e tolse il coltello nascosto in una delle tasche interne.
La porta della sala da pranzo si aprì e sulla soglia comparvero Alexis e James. «Abbiamo sentito delle voci» disse il ragazzo «È successo qualcosa?».
«A quanto pare, Desmond è sparito» spiegò Robert in modo sbrigativo «Dov'è Eveline?».
«L'abbiamo lasciata su in camera» rispose Alexis, chiaramente agitata.
«Da sola?».
«Era in compagnia di un coltello» spiegò James.
«Non possiamo permetterci di separarci un'altra volta» replicò Robert «Io e Isabel andiamo a chiamarla, voi restate qua.».
«C'è un problema» disse Alexis «È scomparsa un'altra statuetta. Ora ci sono solo sei indiani».
«Questo significa che Desmond ed Eveline sono l'assassino e la vittima» concluse James «L'unico problema è: chi è chi?»
Dal piano di sopra, sentirono Robert che bussava furiosamente alla porta di Eveline e le intimava di uscire. Quando Eveline uscì, mancò poco che la trascinassero al piano di sotto.
«Ma che modi sono questi, razza di idioti?» domandò la ragazza, infuriata.
«Penseremo all'etichetta più tardi» disse James in modo sbrigativo «Dobbiamo trovare Desmond».
 
Dover rimosse la neve, scoprendo uno scarpone. «È qui!» esclamò James.
La neve non aveva solo cancellato le impronte lasciate da Desmond, ma ne aveva occupato anche il corpo. Una volta scoperto, tutti videro immediatamente la profonda ferita al cranio. Terrorizzata, Eveline fece un passo indietro e sentì qualcosa rompersi sotto il proprio scarpone. Quando lo sollevò, vide dei frammenti di ceramica.
Il quarto piccolo indiano.


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Nota: Capitolo scritto da Belfagor.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
 

Alexis lasciò cadere di botto l'accetta nella neve soffice, come se fosse quella l'arma del delitto, come se fosse una prova che la potesse incriminare.
«No. No no no. No!» gridò Eveline. «È solo un incubo! Non c'è niente di vero, è solo un sogno, un orribile incubo!» Continuò la ragazza, gli occhi stralunati, iniettati di sangue, la testa tra le mani. Sembrava completamente impazzita. Anzi, probabilmente lo era, o, forse, vista la situazione, lo erano tutti. Alexis, cercando di confortarla, allungò una mano verso di lei e cominciò a dire: «Eveline ...» ma il suo tentativo fu bruscamente interrotto dalla ragazza stessa.
«Non mi toccare! Non osare toccarmi, stronza!» strillò con voce rotta dall'angoscia. «E' solo colpa tua se siamo in questa situazione, tua!» Della ragazza bella e sicura di un tempo era rimasta solo una pallida ombra.
«Come osi, maledetta! L'idea sarà anche stata mia, ma non è che tu ti sia opposta, anzi, eri parecchio contenta di partecipare!» Anche Alexis, dopotutto, non era degli umori più rosei.
«Sentite, cerchiamo di calmarci. Così ...» intervenne allora Robert.
«Calmarci un cazzo! Nessuno si calma qui, idiota! Non vedi in che situazione ci troviamo?! Come facciamo a stare calmi, maledizione!» Eveline era sempre più fuori di sé. Quasi sull'orlo delle lacrime la ragazza si voltò di scatto e fuggì via, ignorando i richiami degli altri. Erano tutti scossi, sconvolti. Stranamente anche Robert, che aveva quasi sempre mantenuto molta calma, sembrava perso. Isabel osservava ciò che restava di Desmond e Dover era perso nei suoi pensieri.

«E ora cosa facciamo?» chiese cupo James. Sembrava non essere l'unico ad essersi posto tale domanda, anche gli altri erano molto pensierosi.
«Stabilire l'ora del decesso è molto difficile» disse all'improvviso Isabel, china sul cadavere di Desmond. «Il freddo rallenta il processo del rigor mortis, che infatti non è ancora iniziato. E' tutto molliccio.»
«Bene, ma cosa facciamo?» disse nuovamente James, con una punta di irritazione.
«Beh, di sicuro abbiamo abbastanza neve per un bel pupazzo.»
Gli altri quattro guardarono Isabel come se fosse completamente fuori di testa, ma lei non sembrò curarsene.
«E' colpa di tutti.» intervenne allora Dover, guardandosi le punte dei piedi. «Quella voce aveva ragione. Onym ha ragione. Nessuno di noi è innocente, tutti meritiamo di essere qua. Lo capisco, e va bene. Anche io sono colpevole. »
«L'avevo detto io, che si faceva venire i sensi di colpa!» James cominciò ad inveire contro Dover «va a finire che hai spifferato tutto, non mi stupirebbe affatto! Imbecille!»
«No, te l'ho detto, non ho “spifferato” un bel niente! E comunque, mi sarei messo nei pasticci da solo. Un po' stupido, non ti pare? In ogni caso ti sbagli a pensare che io abbia partecipato solo per mettermi in mostra con voi. Nemmeno io ero così disperato da arrivare a tanto. Ho solo colto un'occasione; insomma, non è che Wesley fosse uno stinco di santo. Ritenevo che meritasse una buona lezione, tutto qui, e ne ho approfittato. Ma non sarei mai arrivato a tanto. Mai. Tuttavia non ho detto nulla. Siamo tutti colpevoli, e dobbiamo pagare.»
Guardò ancora una volta gli altri tre, dopodichè si voltò di scatto e si addentrò di corsa nella villa, al seguito di Eveline.
James, ancora furioso, fece per lanciarsi all'inseguimento a sua volta, ma venne trattenuto per un braccio da Robert, che fissava il vuoto, pensieroso.
«E adesso che si fa?» chiese Alexis, con voce velata dall'ansia.
«E' ovvio.» intervenne Robert, che si era fatto accigliato. «Aspettiamo.»
«Come sarebbe a dire “aspettiamo”? Ti ha dato di volta il cervello?!» fece James, sempre più fumante di rabbia.
«Assolutamente no, sei tu che non ragioni più. Pensaci. Lì dentro sono in due. E, come aveva detto Dover, i morti non possono essere colpevoli, sono automaticamente scagionati, dunque, chi dei due morirà ci svelerà indirettamente chi è Onym. E noi tre avremo salva la vita.»
«Ma certo! Il sopravvissuto sarà per forza Onym!» esclamò Alexis. Tuttavia James non sembrava altrettanto convinto.
«Sarà.» si limitò ad aggiungere, con un'alzata di sopracciglio «Comunque dubito che morirà qualcuno.»
«Che vorresti dire?!» Alexis si stropicciò nervosamente un lembo dell'abito, guardando il ragazzo con sospetto.
«Intendo dire che non è detto che uno di quei due sia il prossimo della lista, sempre che ce ne sia una. E che non credo che Eveline sia la colpevole. Sebbene il suo comportamento sia alquanto sospetto, è troppo fuori di testa per star fingendo. Dover, invece, è troppo uno smidollato per essere un maledetto assassino.»
«Tu dici? Io non ne sarei tanto sicura. Al contrario, sospetto proprio di Dover.» replicò Alexis.
«Quindi, presumo tu riterrai che l'assassino sia uno di noi tre.» commentò poi Robert, aggiustandosi gli occhiali sul naso, sempre rivolto a James. «Interessante.»

«Maledizione!» disse tra i denti Eveline, correndo a perdifiato su per le scale «Maledizione, maledizione!»
Un solo pensiero martellava nella sua testa, incessante. “Devo scappare”. Ormai stava perdendo quel poco di lucidità che le rimaneva. Pensò ad un solo posto dove poteva rifugiarsi. La sua camera. Non pensò a nient'altro. Non guardò nulla. Non sentì neppure la voce che la chiamava. Solo la sua stanza.

«C'è un problema.» proruppe d'improvviso Alexis, dopo meno di un minuto. «Il tuo “brillante” piano è fallito in partenza. Non ci stiamo dimenticando di qualcuno?»
«Ma che... ?» cominciò Robert, con aria interrogativa, interrotto immediatamente da James, che mormorò «Isabel.»
«Già. E dunque, al diavolo te e le tue elucubrazioni, io vado a vedere che sta succedendo!»
E partì anche lei, decisa. Non senza aver prima raccolto la sua accetta.
James fece per seguirla, ma venne nuovamente trattenuto da Robert, il quale, senza proferire parola, si limitò ad accasciarsi sulle ginocchia, incurante della neve.
«Beh, che c'è ora?!»
«Almeno noi due, non separiamoci. E dovremmo anche portare dentro il cadavere di Desmond.»
«Ma chissene frega di Desmond! Non lascerò che quelli si scannino ancora! Tu fai come preferisci.»

Dover si aggirava per le molte sale della grande casa. Per un momento aveva intravisto Eveline fuggire di corsa. Aveva provato a chiamarla, ma non era servito a nulla. In quel momento udì altri passi risuonare da qualche parte dietro di lui. Continuò comunque ad avanzare, deciso a raggiungere la propria meta. Ormai era vicino, mancava poco. Eccolo. Ci siamo. Non gli restava che aspettare, teso come una corda di violino. Ad un tratto sentì nuovamente quei passi. Erano vicini, molto vicini. Infine, con il cuore in gola, Dover si voltò.
“I-Isabel?”

Alexis era spaventata. Terribilmente spaventata. Stringeva l'accetta tanto forte da essersi fatta sbiancare le nocche. Cambiava direzione continuamente, nel terrore di essere seguita, ma contemporaneamente rischiando di perdersi. In breve tempo, tuttavia, raggiunse la sala da pranzo. Si guardò rapidamente intorno. Era sola. Gettò uno sguardo al tavolo, e tirò un sospiro di sollievo. Le statuine erano ancora sei.
«Bene bene.» disse tra se la ragazza, con un ghigno. «Vediamo come reagisci a questo.»

«Alexis!»
La ragazza lanciò un grido terrorizzato e si lanciò su per le scale.
«Alexis, fermati! Sei impazzita?!»
James era appena entrato nell'atrio, e aveva visto la ragazza salire cautamente le scale. Incautamente aveva deciso di chiamarla.
Alexis si volse di scatto, pallida in volto.
«Sei impazzito tu! Volevi farmi venire un infarto?! Beh, se sì, ci sei andato parecchio vicino!»
Le tremavano le mani, tanto forte da farle quasi cadere l'accetta.
«Ora calmati, dobbiamo trovare gli altri. Hai visto qualcuno?»
«N-no. Li stavo giusto cercando. Probabilmente Eveline si è chiusa in camera, era sconvolta.»
D'improvviso risuonarono passi in una delle stanze attigue. Entrambi si bloccarono, gli occhi sbarrati e dilatati dalla paura. James deglutì, nonostante la bocca arida.
«Ragazzi?» risuonò una voce familiare.
«Robert?» fece Alexis incerta.
Dopo breve, egli spuntò da una delle porte.
«Ah, siete qui! Meno male! State bene? Ho sentito un grido, è successo qualcosa?»
«No, in realtà è che ...»
«E' che quel deficiente mentecatto mi ha fatto prendere un colpo, ecco cos'è!»
Robert si impensierì. «Capisco. Beh, almeno ci siamo riuniti. Dove sono gli altri?»
«Li stavamo appunto cercando.» rispose James «Prima proviamo con le camere, Alexis crede che Eveline sia lì.»
«Ipotesi logica.» annuì Robert.
«Come sarebbe a dire, logica?!» James non pareva molto d'accordo «Precludersi ogni via di fuga tappandosi in una stanza, in questa situazione?!»
«Beh, era sconvolta. E' ovvio che cercasse riparo.» replicò saccentemente Robert.
«Allora, vogliamo continuare con questo ameno talk show ancora a lungo, oppure facciamo qualcosa di utile?!» Isabel sembrava essere spuntata come un fungo.
«E tu da dove sbuchi? Bah, non ha importanza, andiamo a cercare Eveline. E Dover.» Robert sembrava aver riacquistato l'autocontrollo.
I quattro si avviarono su per la scala, a metà della quale Isabel commentò «Comunque, non è che sia stato difficile trovarvi, con tutto il casino che fate.»

James alzò una mano per bussare, ma quando la toccò, la porta si aprì. Non era stata chiusa.
Eveline giaceva in un angolo, con gli occhi sbarrati e fissi. E nel mentre, dondolando ritmicamente il busto, farfugliava parole confuse. Non sembrava essersi accorta degli altri. D'improvviso sì voltò, si alzò e si mosse verso di loro. Poi disse «Dove sono le api? Le avete viste? Ci sono delle api? Dobbiamo trovarle! A-ahahaha-ha-ha! Non capite?! Le api! Ha ha!»
Isabel l'afferrò per un braccio, alzò una mano e le diede un sonoro schiaffo sulla guancia.
Eveline la fissò per un momento allibita, dopodichè abbassò gli occhi e mormorò «Grazie.»
Alexis aprì la bocca, ma non disse nulla. Dopo qualche secondo articolò «Perchè?»
«Una crisi isterica, ecco perchè. Non possiamo permetterci di perdere tempo con una cosa del genere.»
James annuì brevemente, poi chiese «Ma, perchè stavi parlando di api, prima?»
«La filastrocca. Dice così: Sei piccoli indiani giocan con un alvear, da una vespa uno fu punto, solo cinque ne restar. Ormai mi sta ossessionando, la so tutta a memoria. Insomma, il prossimo omicidio dovrebbe coinvolgere un'ape, no?»
«Forse sì. Forse no.» intervenne Robert «In ogni caso dobbiamo ancora trovare Dover. Quindi diamoci una mossa.»

«Cioè, ditemi che almeno abbiamo un'idea di dove andare.» Fu Isabel a spezzare il silenzio, dopo diversi minuti, nei quali il gruppetto aveva vagato apparentemente senza meta per la villa.
«Tu ce l'hai?» chiese con più che una punta di nervosismo James.
«Io? No.»
«E allora come pretendi che ce l'abbiamo noi!» sbottò il ragazzo, riprendendo a camminare.
Seguì nuovamente un periodo di silenzio, in cui la tensione palpabile continuò a sfibrarli.
All'improvviso Robert si bloccò e alzò una mano, facendo segno anche agli altri di fermarsi.
«Co ...» fece per chiedere Eveline, ma Robert la zittì, portandosi un dito alle labbra. Fissava il vuoto, assorto. Dopo alcuni secondi chiese, facendo sobbalzare tutti «Lo sentite anche voi? Questo strano suono. Mi ricorda qualcosa, ma non riesco a capire cosa.»
Passarono alcuni momenti di attento ascolto, nessuno osava nemmeno fiatare.
«Sì. Sì, lo sento anche io, ora.» disse Alexis. Al che James si illuminò.
«Ma certo, lo riconosco! Viene dalla sala cinematografica, è il vecchio proiettore! Però, un momento … perchè è acceso?»
Tutti si guardarono. Un terribile interrogativo era sospeso.

In breve raggiunsero la sala, guidati da James, che trattenendo il respiro, con un colpo deciso aprì la porta ed entrò.
La scena che si trovarono davanti era quantomeno grottesca. Alexis levò un grido pieno di terrore e sgomento.
Il proiettore, in funzione in fondo alla sala, stava girando un documentario, in bianco e nero, riguardante l'ecosistema delle api. Nelle file centrali era seduta una figura, accasciata ed inerte, che sembrava seguire il filmato. Era Dover.
«Avete visto?! Le api! Le api c'erano! Avevo ragione!» Eveline aveva di nuovo uno sguardo stralunato, folle, ma questa volta si ricompose da sola, alla minacciosa vista della mano di Isabel.
«Dover? Cosa fai lì?» chiamò allora James, avvicinandosi. «Dover, rispondi, non è divertente.»
«Non credo che ti risponderà.» disse Alexis. Senza aggiungere nulla, si avvicinò, seguita dagli altri, quasi timorosamente, e toccò la spalla di Dover. Questi non rispose. Al tocco successivo si limitò ad accasciarsi su un lato, inerme.
Isabel lo tastò ed aggiunse all'ovvio «Non c'è polso.»
«Un altro, assolto troppo tardi.» le parole di Robert caddero, pesanti come piombo. Per un po' regnò il silenzio, mentre i presenti assorbivano l'accaduto. In ogni caso, ci pensò Isabel a romperlo.
«Chissà com'è morto!» esclamò, cominciando ad esaminare il corpo. Alla fine esclamò, trionfante «Eccolo!». Con il dito stava indicando un minuscolo forellino nel collo di Dover.
«Cos'è, un'iniezione?» chiese timorosa Eveline.
«Di sicuro non una coltellata.» commentò James, caustico.
«Dovrebbe essere atropina, visto com'è messo.» precisò Isabel.
«Atropina?» chiese Alexis. «Già, cos'è?» fece eco Robert.
«Oh, una cosa che io so e tu no! Ha!» fece Isabel, evidentemente soddisfatta della cosa ed incurante del cadavere che si trovava davanti.
«E' una sostanza utilizzata come medicinale, in forti dosi può anche essere letale. Dovrebbe essere quello, ma per esserne sicura dovrei fare un esame del sangue. In ogni caso, non mi sembra l'occasione giusta.»
«Per favore, qualcuno spenga quel proiettore, mi sta facendo impazzire!»

Il desiderio di Eveline venne esaudito e i cadaveri di Desmond e Dover portati nelle rispettive stanze.
Una volta riposte anche le spoglie di Dover nel letto, James fece la domanda. «E la statuetta? Strano che, con tutta quella messinscena, Onym si sia dimenticato proprio di quel particolare.»
«Ecco» Alexis arrossì. Cosa che non era mai capitata prima. «In realtà manca già. L'ho presa io.» Estrasse la statuetta dalla tasca, con mano tremante e la poggiò sul comodino. «Che stupida. Pensavo che questo in qualche modo potesse fermarlo. E' evidente che mi sbagliavo.»
«Non preoccuparti, non è successo nulla di grave. E' chiaro che quel mostro non si fermerà davanti a nulla.» la rassicurò Robert «Ma adesso è il momento di fare qualcosa. Abbiamo già stabilito che Onym è uno di noi, che ci vuole morti, e che sta seguendo quella stupida filastrocca. Quindi, perlomeno direi di dargli del filo da torcere. Prenderemo delle misure di sicurezza. Innanzi tutto eseguiremo una perquisizione di ognuno di noi, e tutte le armi in nostro possesso verranno messe al sicuro da qualche parte, è evidente che armarsi non serve, anzi, è solo pericoloso. Poi troveremo quella siringa. Inoltre, come misura preventiva, staremo sempre in salotto, e lasceremo uscire una sola persona alla volta. Se ci muoveremo, lo faremo sempre tutti assieme. In questo modo ci potremo tenere d'occhio a vicenda e Onym non avrà grandi possibilità di manovra. Se tutto andrà bene, giungeremo sani e salvi fino all'arrivo dei soccorsi. Qualche obiezione?»


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Messaggio dell'autore
Scusate per il ritardo! Lo so, ci ho messo un'eternità a scrivere questo capitolo, e chiedo perdono, ma essendo sotto esami ho avuto (e ho tuttora) parecchio da fare (senza contare un "simpaticissimo" esonero di chimica che mi ha portato via una marea di tempo).
In ogni caso, spero che continuerete a seguirci, e mi raccomando, recensite! Qualsiasi opinione è bene accetta.
A questo proposito, ne approfitto per ringraziare LadyM5, che ci ha sostenuti dall'inizio.

Owen

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

«Non ci pensate neanche» disse Eveline.
«Andiamo» la esortò Isabel «Siamo stati tutti perquisiti».
«Io non mi spoglio davanti a tutti»
«E se io e Robert uscissimo?» propose James, ormai seccato da quella faccenda.
Chiaramente infastidita, Eveline si sedette sul letto. Poi, finalmente, si arrese. «D'accordo, voi due uscite. E se scopro che qualcuno spia dal buco della serratura, ci sarà un omicidio che Onym non aveva previsto».
La sua stanza, al pari della sua persona, fu perquisita, ma non fu trovata nessuna siringa.
«Io ve l'avevo detto» commentò la ragazza in tono piccato, uscendo dalla stanza dopo essersi rivestita.
«C'è ancora una cosa da fare» ricordò Robert «Dovremmo prendere tutti i coltelli, le medicine e le sostanze tossiche che troviamo in casa e nasconderle».
Gli altri annuirono.
«James, se non ricordo male in soffitta c'è una cassaforte con delle armi, giusto?»
«Sì».
«Allora ci chiuderemo tutti gli oggetti pericolosi che troviamo».
«E la chiave?» domandò Alexis.
«Ho pensato anche a questo» rispose il ragazzo, come se fosse una cosa ovvia «Uno di noi terrà la chiave della cassaforte, e uno quella della soffitta. In questo modo, nessuno potrà accedere alle armi da solo».
«Io prendo quella della cassaforte» disse immediatamente James «Quando questa storia sarà finita, non vorrei dover chiamare un fabbro solo perché qualcuno di voi l'ha persa».
Non ci furono obiezioni.
«Se non avete nulla in contrario» disse Isabel «Io terrei quella della soffitta».
Anche in questo caso, nessuno si oppose. La raccolta degli oggetti fu lunga e snervante, nessuno si fidava a lasciare nelle mani degli altri coltelli da bistecca e confezioni di topicida. Alla fine, gli oggetti furono portati in soffitta e chiusi nella cassaforte. Quando finalmente Isabel ebbe chiuso la porta ed ebbe intascato la chiave, i cinque tirarono un sospiro di sollievo.
«Adesso» commentò James «Non ci resta che aspettare».

Nella sala si sentiva solo il rumore del vento che si era alzato e il ticchettio dell'orologio. La luce fredda del primo pomeriggio non rendeva la situazione meno inquietante. I cinque superstiti sedevano ciascuno alla debita distanza dagli altri, osservandosi a vicenda e cercando di nascondere la paura e il sospetto reciproco. Un tentativo inutile, dato che la loro situazione era fin troppo evidente a ciascuno di loro.
James, che in cuor suo avrebbe preferito agire, si agitava sulla sedia come se stesse per alzarsi da un momento all'altro, ricordando un animale tenuto in gabbia per troppo tempo. Isabel, seduta sul divano vicino alla porta, sembrava assorta nei propri pensieri, ma di tanto in tanto alzava lo sguardo come se avesse sentito un rumore sospetto. Dall'altra parte del divano, Eveline stava quasi rannicchiata, con le mani che tremavano. Seduto al tavolo, Robert cercava di leggere un libro senza troppo successo, visto che i suoi occhi saettavano spesso da una parte all'altra della stanza. In poltrona, Alexis cercava di darsi un contegno e di mantenere il controllo sulla situazione, ma si tradiva ogni volta che iniziava a tormentarsi una ciocca di capelli con le dita.
Avevano saltato il pranzo, dato che nessuno di loro voleva rischiare un avvelenamento. Tuttavia, poco dopo le 15, James sospirò e disse: «Non so voi, ma io mangerei qualcosa».
Celando la nausea, Eveline rispose: «Io passo».
«Io ho fame» disse Isabel in tono piatto e fece per alzarsi, ma Robert la precedette.
«Con calma» le ricordò il ragazzo «Credo sia meglio per tutti se vi seguiamo. Non vorremmo essere avvelenati per cena».
Isabel si limitò a scrollare le spalle. Una volta giunti in cucina, lei e James presero dei cracker da una confezione ancora chiusa nella dispensa e li mangiarono sotto lo sguardo attento degli altri. Masticarono meccanicamente, quasi controvoglia.
Una volta che furono tornati in salotto, Robert domandò: «Non temete che possa essere il vostro ultimo pasto?».
«Che vuoi dire?» chiese James, passando le mani sul maglione per togliere le briciole.
«La filastrocca. Cinque piccoli indiani un giudizio han da sbrigar, un lo ferma il tribunale, quattro soli ne restar. Il tribunale. Il prossimo potrebbe morire in un modo che ricorda un'esecuzione, e ad un condannato non si nega mai un ultimo pasto».
«Io escluderei l'iniezione letale» disse Eveline «Quella è già toccata a Dover».
«Ma ci sono così tanti modi per eseguire una sentenza» replicò Robert, che sembrava quasi divertito dalle varie possibilità «Fucilazione, decapitazione, sedia elettrica... è una questione di elasticità mentale. Ecco perché Dover non ce l'ha fatta».
«Ma che stai dicendo?» domandò Alexis, chiaramente infastidita da quell'individuo a cui piaceva fin troppo il suono della propria voce.
«Il nostro povero irlandese era intelligente, ma così poco brillante. Un criminale del calibro di Onym poteva coglierlo di sorpresa in qualsiasi momento, e così è stato. È molto semplice, in realtà. Ci sono parecchie menti che, per quanto si sforzino, sono destinate ad essere sommerse, e pochi individui nati per sopravvivere e raggiungere la cima. Non si può fare granché per cambiare la situazione».
Disgustata, Eveline replicò: «Mi sembra che l'Ottocento sia finito da un pezzo».
«Ma che strano, Eveline» fece presente Robert «Il tuo accento francese sembra scomparso da un po'. Forse dovresti andare a cercarlo».
«E voi dovreste ascoltare quello che dice questo imbecille!» L'esclamazione della ragazza colse gli altri tre di sorpresa. «Non fa altro che parlare di Onym, e non ne è spaventato! Anzi, lo ammira! E quando mai Robert ha ammirato qualcuno che non fosse sé stesso?»
Seguì un silenzio carico di imbarazzo, a cui Isabel pose fine dicendo: «Io questa volta non le do uno schiaffo, non l'ho mai sentita parlare in modo tanto sensato».
James soffocò una risata. Robert si limitò a dire: «In ogni caso, non ci sono prove per accusare uno di noi».
Come era successo dopo ogni momento di sorpresa o di discussione, cadde nuovamente il silenzio, ancor più pesante di prima. Dalle espressioni di ciascuno si poteva leggere che avrebbero preferito affrontare Onym in quel momento, anche a rischio delle loro vite, pur di non restare ulteriormente in quella stasi logorante. Tuttavia, nessuno si azzardava a prendere l'iniziativa.

Deboli. La parola risuonava nella mente di James dal momento in cui avevano trasportato il cadavere di Dover nella sua stanza. "Forse Robert ha ragione" pensò il ragazzo, riflettendo su chi era già caduto vittima di Onym. Ciascuno a modo suo, erano tutti deboli. Carl era un povero stupido, non sarebbe stato una vera minaccia neppure se fosse sopravvissuto più a lungo. Erin e Kurt non erano certo degli sprovveduti, ma quante volte li aveva visti esitare e tradire la paura nei loro sguardi! In fondo, era un bene che fossero morti, non avrebbero retto ancora a lungo...
Ma Desmond? Lui non aveva mai mostrato segni di cedimento. Un errore, forse? Una falla nel piano? No. Dietro quell'apparenza sfrontata, Desmond era un vigliacco. Messo sotto pressione, avrebbe parlato. E anche Dover: austerità e sensi di colpa, sicuramente instillati da quella cattolica di sua madre. Si era sempre chiesto se avesse mai parlato con qualcuno di quello che era successo a Wes, ma ormai era troppo tardi per avere una risposta. Un altro di loro assolto troppo tardi... Notando l'occhiata interrogativa che Eveline gli stava rivolgendo, James si rese conto di avere un mezzo ghigno divertito sul volto e pensò che fosse meglio pensare ad altro per evitare di attirare l'attenzione.
Si alzò, facendo sobbalzare gli altri, e accese la luce del salotto. Fuori, il sole stava calando.

Guardando le ultime luci del tramonto, Alexis sospirò stancamente. «Non possiamo restare fermi qui tutto il tempo» disse alzandosi «Rischiamo di perdere quel poco di senno che ci è rimasto. Credo che andrò in camera a darmi una rinfrescata».
Gli altri quattro si limitarono ad annuire.
La ragazza uscì dalla stanza e, dopo aver acceso le luci del corridoio, s'incamminò verso il piano di sopra. Mentre saliva le scale, esitando ad ogni cigolio della ringhiera, si sorprese di quanto velocemente stesse scendendo la notte. Questo la fece sentire ancora più in pericolo. Cercò di controllare il respiro, che nel frattempo era diventato affannoso.
Wesley... improvvisamente, il pensiero del ragazzo riaffiorò nella sua memoria. Perché proprio in quel momento? Non poteva distrarsi, con un assassino pronto ad agire ad ogni minimo segnale di debolezza. L'oscurità la metteva a disagio. Alla luce della luna, il volto di Wesley era pallido e dai riflessi verdastri.
Rabbrividì a quel ricordo. Raggiunse l'interruttore in cima alle scale e accese la luce, ma si rese conto di essere agitata quanto prima. Non riusciva a guardare dall'altra parte dello spigolo del muro. La luce artificiale e il silenzio la facevano sentire osservata, come se qualcuno l'avesse posta sotto la lente di un microscopio.
Questa sensazione la spinse a reagire. Alexis aveva avuto paura molte volte, ma aveva sempre trovato la forza di reagire. Anche se in pericolo, non si sarebbe lasciata cogliere alla sprovvista. Si fece forza e si voltò per imboccare il corridoio.

Un grido squarciò il silenzio del rifugio. I quattro ragazzi si alzarono e corsero verso il piano di sopra in tutta fretta. Erano a metà della scala quando le luci si spensero.
«Merda!» esclamò Robert «Dev'essere stata Alexis».
«Questo lo vedremo» commentò James «Forse è lei la prossima vittima».
Erano giunti in cima alle scale. «Da che parte proveniva l'urlo?» chiese Isabel.
«Non lo so» disse James «Dividiamoci».
«Oh no, non se ne parla!» rispose Robert «Non ho intenzione di perdervi d'occhio».
«Già, così ci puoi colpire quando più ti fa comodo».
«Ma sentitelo! Chi è che conosce questa casa meglio di tutti noi?».
«Ragazzi!» li zittì Isabel. Dopodiché annotò mentalmente: "Eveline è scomparsa".

Eveline stava perdendo il controllo. Convinta che al piano di sopra la attendesse una trappola, aveva lasciato il gruppo e si era diretta in cucina. Sapeva che, finché fosse rimasta sola, nessuno avrebbe potuto farle del male. Per buona misura, aveva anche recuperato il coltello che era riuscita a nascondere sotto un cuscino del divano.
Procedendo a tentoni, aprì la credenza e cercò un pacchetto di candele che aveva notato mentre James e Isabel stavano mangiando. Se solo fosse riuscita a trovare i fiammiferi...
La sue dita incontrarono una scatoletta con un lato ruvido. Sebbene le tremassero le mani, riuscì ad accendere la candela e ad inserirla in un bicchiere per evitare che la cera le colasse sulla mano. Anche se di poco, si sentiva più sicura. Non era più nel buio totale.
Improvvisamente, un rumore attirò la sua attenzione. Muovendosi nervosamente come un animale braccato da un cacciatore, la ragazza illuminò i vari angoli della stanza per cercare l'origine di quel rumore.
Qualcuno stava scendendo le scale. E si stava dirigendo verso la cucina.
In preda al panico, Eveline cercò di muoversi il più silenziosamente possibile verso la porta. Dove diavolo era finita la chiave? Aveva pensato di chiudersi nella stanza in attesa della luce, ma qualcuno aveva fatto sparire la chiave. Ciò nonostante, riuscì a non farsi soggiogare dalla paura. Non sarebbe rimasta ad aspettare l'assassino, non si sarebbe fatta mettere con le spalle al muro.
Avvicinò l'orecchio alla porta. Erano passi veloci e non accennavano a rallentare.
Eveline trattenne il respiro, il coltello pronto a colpire.
Ma chiunque fosse dall'altra parte non aprì la porta e si lasciò la cucina alle spalle. Eveline lasciò andare un sospiro di sollievo, poi decise che quello era il momento giusto per cogliere di sorpresa l'assassino. Si tolse le scarpe per non fare rumore e, dopo aver aperto lentamente la porta, uscì dalla cucina.

James non aveva fatto in tempo ad addentrarsi nel corridoio che Isabel e Robert erano spariti. Il ragazzo procedeva a tentoni, con il cuore in gola, illuminato solo dalla luce lunare, cercando la camera di Alexis. Aveva le pupille dilatate e respirava il più piano possibile. Anche se gli bruciava ammetterlo, aveva paura.
Finalmente, la mano urtò contro lo stipite. La porta era aperta.
«Alexis?».
Nessuna risposta. Che fosse una trappola? James stava per tornare sui suoi passi, quando scorse qualcosa. Debolmente illuminata dalla luce esterna, una persona era distesa sul pavimento.
«Alexis!». James si chinò sulla ragazza e cercò di percepirne il battito. Ma non ce ne fu bisogno: non appena le ebbe toccato il collo, la ragazza aprì gli occhi e gli rivolse uno sguardo di terrore.
«Stai lontano da me» disse, rialzandosi e allontanandosi il più possibile da James.
«Calmati».
«Sei stato tu, non è vero? Hai preparato una trappola in modo da restare solo con la tua prossima vittima!»
Prima che James potesse dire qualcosa, si sentì una voce dal corridoio.
«James! Alexis!». Era Robert.
«Sono qui!» gridò Alexis «Aiuto!».
«Ero sceso in cucina per cercare una candela» disse Robert, rischiarando debolmente l'ingresso della stanza con una candela appena accesa «Eveline non è da nessuna parte e Isabel mi ha seminato per le scale... cos'è quello?».
La luce della candela aveva appena illuminato un oggetto che pendeva da un gancio avvitato al soffitto. Era un lenzuolo bianco, sporco di una sostanza che aveva tutta l'aria di essere sangue.
«Ho aperto la porta della camera e me lo sono trovato davanti» spiegò Alexis «Ricordo di aver urlato e poi ho perso i sensi».
«Onym voleva che ci disperdessimo» concluse Robert.
«Allora dobbiamo ritrovare Isabel e Eveline» disse James «Ma, come prima cosa, dobbiamo riaccendere le luci. Il quadro elettrico è al piano di sotto».

Lentamente e in silenzio i tre scesero le scale, con la Luna come unica fonte di luce. Raggiunto il fondo delle scale, James li guidò verso il quadro elettrico, che si trovava in un corridoio accanto al salotto.
James, con mano tremante, alzò il pannello di plastica, ma si bloccò.
«Cosa stai aspettando, idiota?!» lo esortò Alexis, sussurrando.
Ma lui esitò ancora. Poi disse «Però è strano. Non mi pare manomesso. E' solo... spento. C'è la levetta principale abbassata.»
«Vorrei ricordarti che lo spegnimento è programmabile.» aggiunse stizzito Robert «Potrebbe averlo fatto chiunque.»
«Infatti. Tutti ci siamo allontanati almeno una volta. Ora, ti vuoi dare una mossa, o aspettiamo che spunti il sole?»
Infine, con lentezza esasperante, alzò la levetta.
Le luci si riaccesero. Contemporaneamente si udì un curioso rumore provenire dalle parti della cucina. Forte, crepitante. Delle scariche elettriche. I tre ragazzi corsero immediatamente in quella direzione e si introdussero in cucina. Uno strano odore dolciastro aleggiava nell'aria.
Due particolari attirarono la loro attenzione. Le tre statuine rimaste sul tavolo e la porta della dispensa aperta.
Subito dopo Alexis gridò d'immenso orrore. Di nuovo.
Un'orribile visione si era loro presentata: Eveline giaceva sul pavimento in una pozza d'acqua, immobile, a pochi centimetri di distanza dall'ennesima statuina di porcellana infranta. Dei cavi erano stati estratti da una presa della corrente e adagiati nella pozza, proprio accanto a Eveline, la guaina rimossa. Delle scosse crepitavano ogni tanto. Era morta fulminata.
Robert, con voce flebile e sguardo assente, si limitò a mormorare: «Un lo ferma il tribunale... la sedia elettrica...»


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Nota: Capitolo scritto da Belfagor.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

James e Robert si gridavano contro. Alexis tentava, sull'orlo delle lacrime, di farli smettere.
Per la precisione, James accusava Robert di aver ucciso Eveline, e dunque tutti gli altri. Questo poiché, dietro sua stessa ammissione, era sceso in cucina a prendere la candela che ancora reggeva in mano. Robert gli faceva notare altrettanto pacatamente che non sarebbe mai stato così stupido da dirlo se fosse stato lui l'assassino, e che non aveva notato Eveline per terra non perché fosse cieco, ma perché non c'era luce e perché la scatola di candele era sul tavolo, dove ancora si trovava.
Nel mentre, Alexis agitava debolmente le braccia in mezzo ai due ragazzi per cercare di calmarli.
Ad un certo punto, fortunatamente, James emise un verso di sorpresa.
«Che c'è?» chiese Alexis, in ansia.
«Temo» disse il ragazzo rivolto a Robert «di doverti dare ragione. Eveline aveva preso una candela.»
Stava indicando un punto del pavimento, vicino alla porta. C'era una candela quasi intatta, solo leggermente consumata, dentro ciò che restava di un bicchiere infranto.
«Chissà cos'è successo.» chiese Alexis, la voce venata di ansia.
«Piuttosto, dove sarà Isabel?»
Il quesito di Robert cadde nel silenzio più totale.

Passarono i minuti. Poi le ore. Infine giunse l'alba, accolta con sollievo dai tre individui ormai stravolti, che l'avevano attesa in salotto, senza riuscire a chiudere occhio.
«Vi prego, usciamo. Non ne posso più di questa casa, la odio.»
Forse per la prima volta nella loro intera vita udirono un tono di supplica nella voce di James.
«E poi ormai c'è il sole. Potrebbero arrivare dei soccorsi.»
«E' solo giovedì. Le seggiovie non ripartiranno fino a domani. E nessuno ci vedrà, per quanto ci sbracciamo. Siamo in mezzo ai boschi su una montagna.» Robert, dal canto suo, non aveva perso la saccenza.
«Io vado fuori con James. Se resto ancora qui potrei dare fuori di testa. E poi qua ho la sgradevole sensazione che qualcuno ci osservi. Tu fai cosa vuoi.»
Alzandosi dalla poltrona in cui era rannicchiata, Alexis, con gli arti indolenziti dalla forzata immobilità, si mosse verso James, lanciando un'occhiata ansiosa alle scale. Ovviamente pensava a Isabel.
Tutti pensavano a Isabel e alla sua mania omicida.
«E va bene» bofonchiò Robert.
Così i tre si diressero fuori, sul piccolo spiazzo davanti alla villa. Per buona misura controllarono anche il retro, ma non trovarono alcunché di strano.

Alexis si era aggrappata al braccio di James come ad un'ancora di salvezza. Robert invece, irrequieto, continuava a camminare in cerchi.
Nessuno aveva veramente voglia di parlare, ma l'ansia e la tensione erano più forti.
«Dunque è stata Isabel.»
«Eveline è morta, e lei è sparita. Mi sembra ovvio.»
«Non così ovvio, James. Ormai ho rinunciato alle certezze. Potrebbe essere morta anche lei.»
«E' assurdo! Come potrebbe una persona commettere due omicidi in così poco tempo? Nessuno di noi tre avrebbe avuto il tempo materiale.» Alexis sospirò.
«Oltretutto, dove sarebbe il cadavere?»
«Non considerate le statuine. Erano tre. E noi siamo in tre.»
«Non hai considerato che ci volesse ingannare?»
Robert esitò. Per una volta non sapeva cosa ribattere.
«E va bene, potreste anche avere ragione.» ammise infine controvoglia.
Quando scese il silenzio, la tensione tornò a farsi sentire.

«Però non posso fare a meno di pensare a quella maledetta filastrocca. Uno un granchio se lo prese. Che cosa può significare? Qua non vedo né mare né granchi.» James era disposto anche a sentire la voce presuntuosa di Robert, pur di non soffrire oltre quel silenzio opprimente.
«Non essere così banale, fin'ora Onym ha dimostrato una certa creatività nell'interpretare le strofe.»
Le parole si persero nuovamente nel vuoto, tra le occhiate sospettose.
«Fino a pochi giorni fa eravamo così felici...» Alexis rimase con lo sguardo perso nel vuoto, affranta.
«E tutto a causa di uno stupido incidente. Dopo quello che abbiamo fatto per non essere scoperti è quasi ironico finire così.»
Nessuno commentò.

Il sole era ormai alto in cielo, la luce scintillava sulla neve fresca. Un'atmosfera di irreale tranquillità era scesa sul gruppo. Tuttavia, la mente di Robert era tormentata. Non era convinto quanto gli altri che l'assassina fosse Isabel, ma al contempo doveva dar ragione alle obiezioni di James e Alexis. Forse per la prima volta in tutta quella terrificante vicenda stava cominciando a perdere il controllo di sé. Pensieri confusi gli annebbiarono la mente, finché non giunse ad una conclusione che gli parve molto lucida.
Non voleva certo morire. Vista la situazione loro sarebbero stati processati e condannati. A questo punto, tanto valeva andare fino in fondo e vendere cara la pelle. Chiunque fosse il colpevole, lui l'avrebbe fatto fuori, e sapeva pure come. Dopotutto ci era già passato una volta. Curiosamente, l'idea gli era proprio giunta dalla filastrocca. Stupido James e gli altrettanto stupidi trofei di caccia di suo padre.
«Sentite, non so voi, ma io ho fame. Vado a prendere qualcosa da mettere sotto i denti.» disse d'improvviso, riuscendo a non far trapelare l'eccitazione che lo pervadeva.
«Tu sei pazzo, vuoi andare nella tana dell'orso?!» esclamò Alexis, con gli occhi sbarrati.
«Non preoccuparti, me la caverò.»
«Non provare a fare cose strane.» James guardava a valle. «Non ci penserei due volte a reagire, lo sai.»
«Vado solo a prendere da mangiare, torno subito.» ripeté Robert con tono esasperato.
E si allontanò, seguito dagli sguardi sospettosi e ansiosi degli altri due. Infine, sparì oltre la porta d'ingresso.

Robert, una volta chiusa la porta alle proprie spalle, si aggiustò gli occhiali sul naso con un ghigno.
Si diresse a passo sicuro verso il salone centrale, raggiunse il camino e afferrò uno degli elaborati attizzatoi. Quella casa era piena di possibili armi e nessuno pareva essersene accorto. Neppure il geniale padrone di casa.
Comunque, ora non gli restava che trovare Isabel. Soppesò assorto l'arnese, pensando a dove potesse nascondersi la ragazza, e infine, con aria soddisfatta, vibrò un paio di fendenti in aria.

«Manca poco, così poco, e tutto sarà finito.» Alexis scrutava con disperazione le funi della seggiovia in lontananza, fin giù verso valle, passando per i fitti boschi.
«Se ci fosse mio padre potremmo fuggire a piedi.» aggiunse James, con una nota di amarezza nella voce. «Comunque non mi piace.»
«Che cosa?»
«Il comportamento di Robert, prima. Aveva qualcosa di losco. E ci sta mettendo troppo tempo.»

Robert correva, rapido, giù per le scale.
«Lo sapevo, lo sapevo!» ora aveva completamente perso il controllo, aveva le pupille dilatate e sudava copiosamente. Aveva previsto l'evenienza, ma solo successivamente era stato investito dalla forza delle conclusioni della sua scoperta. Camminava e ansimava febbrilmente, completamente assorto da un unico pensiero. In fondo alle scale si volse e continuò a correre a rotta di collo lungo i corridoi, guardandosi ogni tanto alle spalle.
Ormai la sua meta era vicina.
La stanza dei trofei di caccia del signor Conquest era a portata di mano, e con essa, la salvezza.
Con il fiato corto e la mano tremante, infine, si accinse ad aprire la porta.

James e Alexis attendevano con ansia il ritorno di Robert. Guardavano l'entrata della tenuta dei Conquest, lanciando continue occhiate a valle e attorno a loro.
«Ci sta mettendo decisamente troppo tempo» mormorò James a un tratto «Non mi...»
Ma venne bruscamente interrotto da un gran fracasso. Alexis sobbalzò.
«...piace.» concluse con gli occhi sbarrati.
«Che cos'è stato?» chiese con un filo di voce la ragazza.
«Non ne ho idea, ma sembrava parecchio pesante.»
I due si guardarono negli occhi e si diressero rapidamente nella direzione del rumore.
«Tieniti pronta» mormorò James, «Temo di sapere da dove sia venuto. E potremmo dover agire per difenderci.»
«Credi che sia stata Isabel?»
«Ne sono quasi certo.»
Entrarono nel grande atrio della villa, ora in penombra poiché il sole batteva sull'altro lato della casa. L'inquietudine si insinuò nei due giovani. Si guardarono intorno, sentendosi osservati.
«Rapida.» James prese Alexis per un braccio e si mosse, rapido e silenzioso, verso destra.
Percorsero numerosi corridoi e stanze con il cuore in gola, cercando di evitare il minimo rumore.
Infine si trovarono di fronte alla stanza dei trofei di caccia. La porta era socchiusa.
Alexis agì per prima, non riuscendo più a trattenere l'ansia che le stringeva il petto come in una morsa. Spinse la porta, preparandosi a cosa si sarebbe potuta trovare di fronte.
Trattenne rumorosamente il fiato, portandosi una mano alla bocca. James spalancò gli occhi.
Di fronte a loro giaceva esanime Robert, gli occhiali erano volati in un angolo della stanza. Era bloccato a terra da un enorme orso impagliato, legato da delle funi. Una zampa gli aveva fracassato la cassa toracica. Una statuetta di ceramica si era frantumata contro una parete.
«L'orso di tuo padre...» Alexis, tremante, si era accasciata contro un muro.
James invece, una volta superato lo shock iniziale, si era chinato sul cadavere. Robert stringeva ancora in una mano un pesante fucile da caccia. Il ragazzo lo afferrò e lo strappò dalle sue mani senza tante cerimonie. Si alzò e si volse.
I due si guardarono, l'uno scuro in volto, l'altra cerea. Lei, ancora appoggiata al muro, venne colta da un forte senso di nausea. Il viso le si contrasse in un'espressione angosciata. Le conseguenze della scoperta appena fatta erano chiarissime.
«Ora basta.» ringhiò James. Una vena gli pulsava sulla tempia. Strinse con forza il fucile e si diresse verso un'antica cassettiera intagliata posta contro una parete. «La faremo finita. Una volta per tutte.»
Aprì di scatto uno dei cassetti e tirò fuori delle cartucce. Le inserì nel fucile «Ora che non ci sono più idioti di torno faremo come dico io» disse con forza, e caricò.
Alexis era terrorizzata, tuttavia annuì.
«Molto bene. E ora troviamo Isabel. Seguimi, e guardati le spalle.»
Con i nervi a fior di pelle e i muscoli pronti a scattare i due uscirono dalla stanza, noncuranti del defunto amico, e cominciarono a perlustrare ogni stanza.
Cercarono e cercarono, James in testa, senza proferire parola per molto tempo, ma senza risultato alcuno.

Il sole cominciava già ad abbassarsi sull'orizzonte quando Alexis parlò per la prima volta, con voce incerta.
«Ma da quella parte cosa c'è? Non abbiamo ancora controllato, giusto?» disse indicando un corridoio in ombra.
«E' un'ala in disuso, un incendio l'ha rovinata tempo fa e non l'abbiamo mai fatta ristrutturare.» rispose James mormorando. «E' una buona idea, dovremmo provare.»
Si avvicinò ad un interruttore e tentò di accendere le luci del corridoio. Una crepitò debolmente e infine si accese, gettando tutt'intorno una cupa e sfarfallante luce che illuminò le pareti annerite, presto divorate dalla penombra.
James deglutì, una goccia di sudore gli scese sulla fronte mentre impugnava con sempre maggiore forza il fucile.
I due avanzarono cautamente, tesi come non mai. Aprirono poco alla volta ogni stanza, ma ancora senza risultati. Superarono infine quell'unica lampadina che sia era accesa, i segni del panico ormai evidenti.
James si avvicinò ed aprì cautamente la porta alla sua sinistra. La luce dentro era accesa.
«Cos...»
«Cosa c'è?» chiese angosciata Alexis, affacciandosi da dietro le spalle di James.
Un'immagine attraversò la mente del ragazzo come un fulmine, rivide davanti a sé quei terribili ricordi con una vividezza assoluta, come se si trovasse lì in quel momento, trasportato da incubo a incubo. Dalla villa a quella terribile scogliera.
Rivide quel volto, pallido e verdastro, dalle fattezze deformi, gonfie, ma inconfondibili. Risentì con sconcertante forza la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, sue e dei suoi amici. Gli sguardi preoccupati, angosciati, la corsa disperata verso la riva. E poi la fuga in preda all'ansia, cercando di non farsi vedere, consci di ciò che avrebbe comportato una loro eventuale scoperta. Le accuse reciproche e la paura, vera, tangibile.
E il giorno dopo la scomparsa, le ricerche e l'orribile notizia di morte che scosse tutto il college. Si parlò di incidente, di suicidio, infine di omicidio. Qualcuno disse di aver visto dieci persone fuori dall'edificio, quella notte. Le voci cominciarono a girare e il sospetto ad insinuarsi. La costante paura nei giorni successivi che qualcosa venisse a galla, vivida. Il confronto con suo padre, che nonostante tutto fece qualsiasi cosa per coprire le tracce, le voci, le dicerie. Infine funzionò, il caso venne archiviato come suicidio e nessuno ne parlò più.
Ma James ricordava tutto. Ricordava quel volto sommerso ai piedi dell'alta scogliera, nell'acqua verdastra, gli occhi vitrei, accusatori, che lo fissavano, gli stessi che si trovava ora davanti. No, non erano gli stessi. Gli occhi di quella notte erano di un azzurro sbiadito, pallido, adesso invece erano un marrone caldo e scuro.
«Isabel...?!»

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Messaggio dell'autore
Bentornati! Come avete visto, non siamo morti. Io personalmente ci sono andato vicino (anche no, per fortuna). La sessione estiva è stata orribile e non ho avuto il tempo materiale per scrivere. Non cerco giustificazioni, per questo vi chiedo solo scusa.
Riguardo alla storia, siamo ormai alle battute finali, alla resa dei conti, ecc. ecc..
Spero che, nonostante la "pausa" estiva, abbiate ancora voglia di leggerci, seguirci e, perchè no, dirci cosa ne pensate!
Alla prossima,
Owen.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10


Stava succedendo tutto di nuovo. Il terrore, l’angoscia, un piano semplice degenerato nel peggiore dei modi… due persone che ne fissavano una terza morta annegata. James e Alexis si erano già trovati in una situazione come quella, anni prima. Lentamente, i due alzarono lo sguardo dalla vasca e si fissarono a vicenda.

Alexis fu la prima a parlare. «È… è morta.»
«Sì» replicò James. La sua voce era fredda e piatta. «Quindi siamo alla fine.»
«Siamo alla fine» ripeté Alexis, quasi senza sentire il suono delle proprie parole.
«Non ci sono altre persone vive in questa casa a parte noi due. Sappiamo entrambi cosa vuol dire, non è così?»
«Sì.» Lo sguardo di Alexis si mosse istintivamente verso il fucile e James lo notò subito.
«Ah, no» disse, allontanando il fucile dalla ragazza «Il tuo piano è stato brillante, devo ammetterlo. Hai messo tutti nel sacco ma hai commesso un solo, gravissimo errore. Perché non mi hai ucciso prima? Conosco questa casa, so dove sono nascoste le armi e so come usarle. Non dirmi che l’hai fatto per quello che c’è stato fra noi.»
Neanche il tono canzonatorio di James riuscì a smuovere Alexis. La ragazza era impietrita dal terrore. Perché la stava torturando in quel modo? Perché non limitarsi ad ucciderla come aveva fatto con gli altri? Il suo sguardo si spostò sulla vasca. «Povera Isabel…»
La bocca di James si contrasse in un ghigno. «Questo cosa sarebbe? Rimorso? Pessimo tempismo.»
«Non hai un minimo di pietà?»
«Non ne avrò per te, se è questo che speri.»
«Guarda che fine ha fatto.»
«Era colpevole come tutti noi» fu il commento sbrigativo di James.
Alexis indietreggiò di un passo e posò una mano sul bordo della vasca. «Ed è per questo che li hai uccisi tutti? Erin… Dover… Kurt…»
«Quando mai ti è importato qualcosa di loro? Questi trucchetti possono ingannare la polizia, ma non certo me.»
Alexis stava tremando. Si era sentita così la prima volta che James aveva impugnato il fucile davanti a lei. Aveva capito che era una persona priva di scrupoli ma non aveva fatto nulla per fermarlo. «Che hai intenzione di fare, adesso?» chiese.
«Non è ovvio?»
«Vuoi uccidermi?»
James mosse il fucile, facendo sobbalzare Alexis. «Sarebbe facile, ma sai quante noie mi toccherebbe passare? Mi sei più utile da viva. Immagina la scena: la bella e brillante Alexis Griffin impazzisce in preda ai sensi di colpa per aver provocato la morte di Wesley Harrow, riunisce un gruppo di amici e li uccide per far ricadere la colpa sul povero James Conquest, il quale però scopre il suo piano e riesce a farla arrestare. Un’assassina sul banco degli imputati e l’eroe che l’ha catturata. I giornali andranno a nozze con una storia come questa.»
Le parole erano pesanti come dei macigni. Alexis abbassò lo sguardo, incontrando gli occhi sbarrati di Isabel.
E fu allora che un pensiero le balenò nella mente.
«Va bene» disse con voce debole «Hai vinto. Sono pronta a confessare. Ti chiedo solo un ultimo favore.»
«Sentiamo.»
«Voglio solo portare Isabel nella sua stanza. Non può restare qui fino all’arrivo della polizia.»
James sbuffò con fare sprezzante. «Per quel che mi riguarda, può anche restare lì a marcire.»
«Almeno togliamola dall’acqua.»
Il ragazzo rimase per qualche istante con gli occhi fissi sul cadavere, poi disse: «D’accordo. Io la prendo per le gambe. Niente trucchetti o sparo.»
Alexis annuì e immerse le mani nell’acqua gelida. Non senza una certa fatica, i due sollevarono il corpo di Isabel e lo poggiarono sul pavimento accanto alla vasca.
«Soddisfatta?» domandò James, strofinando le mani contro i pantaloni per asciugarle.
Alexis non riusciva a distogliere lo sguardo dal cadavere. Le gocce d’acqua scintillavano alla luce del pomeriggio, dando alla pelle di Isabel un aspetto malsano, innaturale.
«Io… io…»
La ragazza non riuscì a terminare la frase. Cercò di reggersi in piedi, ma dopo un paio di passi incerti si accasciò sul pavimento.
Istintivamente, James si avvicinò a lei per farla rinvenire. «Su, su, quante storie… cos’è, i rimorsi iniziano a farsi sentire?»
In tutta risposta, sentì qualcosa di rigido colpirgli lo sterno e perse l’equilibrio. Quando si rialzò, vide che Alexis si era rialzata e gli puntava contro il fucile.
«Ah!» esclamò lui, non riuscendo a trattenere un ghigno «Altro che rimorsi! Ottima pensata, devo dire.»
«Grazie» rispose freddamente Alexis.
«Adesso sei tu quella con il dito sul grilletto. Lascia che ti faccia una domanda: che hai intenzione di fare?»
«Voglio sapere una cosa. Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché tutto questo? La filastrocca, gli indiani… perché esporti così tanto?»
«Forse non c’è niente da capire» replicò James con fare sardonico.
«Forse è così. Avrei dovuto capirlo tempo fa. Sei pazzo. Sei un mostro.»
James si lasciò sfuggire una risatina. «Andiamo, sappiamo entrambi che non hai il coraggio di…»
L’indice di Alexis si strinse sul grilletto. La ragazza sentì uno scoppio assordante e chiuse gli occhi per il dolore mentre il fucile le colpiva la spalla a causa del rinculo.
Quando riaprì gli occhi, vide James disteso di schiena sul pavimento. Con le orecchie ovattate dallo sparo, si avvicinò lentamente al corpo, con il fucile pronto a sparare un secondo colpo in caso di necessità. Ma le bastò un’occhiata per rendersi conto che non ce ne sarebbe stato bisogno: il proiettile aveva attraversato il petto di James Conquest, che ora giaceva morto.

Il sollievo, un sollievo che non aveva mai sentito prima in vita sua la pervase. Era tutto finito. Cadde in ginocchio, respirando profondamente. Per un attimo pensò che sarebbe svenuta, ma non fu così. Iniziò a ridere. Era una risata fredda che risuonò per la stanza. Pensò che i giornali l’avrebbero ribattezzata “l’unica sopravvissuta al massacro di Dreadpeak Lodge”, e questo la fece ridere ancora di più. Quando finalmente riuscì a calmarsi, si alzò in piedi e uscì dalla stanza.
Fu solo quando giunse in sala da pranzo che si accorse di avere ancora in mano il fucile. Improvvisamente lo sentì pesantissimo e lo lasciò sul tavolo con noncuranza. Ormai non c’era più motivo di tenerlo con sé. Era al sicuro. Era sola.
Sul centrotavola si trovavano ancora due statuine. Sorridendo, Alexis ne prese una in mano. «Qui c’è qualcuno di troppo, mio caro» le disse, prima di lasciarla cadere sul pavimento. Poi prese l’altra. «Tu invece vieni via con me. Abbiamo vinto.»
Dieci piccoli indiani… solo qualche giorno prima, quella sala era piena di persone che mangiavano e ridevano, ignare di quello che le aspettava. E ora ne restava solo una. Cosa succedeva all’ultimo piccolo indiano? Alexis non riusciva a ricordarlo. Ma non le importava. L’incubo era finito, quella filastrocca non l’avrebbe perseguitata mai più.
Uscì dalla sala, diretta verso le scale. Aveva bisogno di dormire, voleva solo buttarsi sul letto e dormire finché non fosse arrivato qualcuno a recuperarla. Sarebbe stato come risvegliarsi da un incubo e, col tempo, i ricordi sarebbero scomparsi. Com’era stato per Wes…
Si sentì come se stesse per svenire e si aggrappò alla ringhiera. Aveva davvero bisogno di dormire.
Iniziò a salire lentamente le scale, sentendosi libera come mai in vita sua. Fino a poco prima, ogni angolo della casa le aveva provocato inquietudine e sospetto. Ora, invece, alla luce del pomeriggio, vedeva solo la bellezza di quelle stanze, dimenticando anche di trovarsi in una casa nella quale erano appena morte nove persone. Non faceva neanche caso ai gradini, salendoli con calma uno dopo l’altro, quasi meccanicamente. Era conscia solo di tenere in mano la statuina di porcellana.
Improvvisamente, un suono attirò la sua attenzione.
«Wes?» chiese con voce esistante.
In tutta risposta sentì le note della filastrocca, quella che avevano ascoltato la prima notte trascorsa a Dreadpeak Lodge prima che l’incubo avesse inizio.
“Non può essere” pensò “È solo la stanchezza che mi fa immaginare cose impossibili.”
Salì la rampa di scale cercando di non prestare attenzione al coro di voci né al destino dei poveri piccoli indiani. Era arrivata in cima quando si fermò di nuovo. Delle immagini le attraversarono la mente, immagini che non voleva ricordare: il volto gonfio e paonazzo di Carl, il segno dell’iniezione sul collo di Dover, il corpo folgorato di Eveline, gli occhi sbarrati di Isabel, il sangue di James sparso sul pavimento…
“No, basta” si disse per farsi forza mentre raggiungeva la porta della propria stanza “I morti appartengono al passato. I vivi devono andare avanti, ed è quello che farò.”
Con un gesto deciso, girò la maniglia e aprì la porta.
Un grido le morì in gola. Non era possibile, sembrava un incubo… e invece no, era lì, proprio davanti ai suoi occhi: dal soffitto pendeva un cappio e, sotto si esso, si trovava una sedia, pronta per essere calciata via.
Alexis sentì la statuina scivolarle di mano ed infrangersi sul pavimento. Questa era la fine. Le era stata riservata la pena più grave, l’umiliazione più grande di tutte: il patibolo. Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si avvicinava a quell’orribile strumento di morte che torreggiava su di lei, freddo ed implacabile come la voce che li aveva accusati. Ecco qual era il destino dell’ultimo piccolo indiano: ad un pino si impiccò e nessuno più restò.
Tremando, Alexis salì sulla sedia e si mise il cappio intorno al collo. Smise di piangere. Era quasi un sollievo: non avrebbe più dovuto fuggire, non ci sarebbero stati più ricordi, incubi, rimorsi… e Wes era lì, ovviamente, ad assicurarsi che la condanna fosse eseguita.
Mentre le ultime note della filastrocca si disperdevano nell’aria, Alexis Griffin fece un respiro profondo, chiuse gli occhi…
… e respinse la sedia con un calcio.

«Tutto questo non ha senso.»
Il detective Bernal osservò un agente della scientifica mentre imbustava un fazzoletto di carta appena raccolto dal pavimento della stanza di O’Scolaidhe.
«Ho la sensazione che non servirà a molto» confidò allo sceriffo Quinn mentre scendevano le scale «Hanno già chiarito l’ordine dei decessi?»
«Non del tutto» rispose Quinn «Abbiamo rinvenuto alcune annotazioni nelle camere delle vittime. Pare che il primo a morire sia stato Kundren, shock anafilattico. Erin van der Logt è stata la seconda, soffocata durante la notte. Poi Aldrich, Flake, O’Scolaidhe e de Dispaire. Un elemento comune che abbiamo rintracciato è che, sempre secondo le vittime, l’assassino si era ispirato alla filastrocca che si trova incorniciata nelle varie stanze.»
«Dieci piccoli indiani…» mormorò Bernal fra sé e sé «E per quanto riguarda il contenuto del CD?»
«La voce è stata ottenuta tramite un sintetizzatore e diversi filtri, materiale facile da trovare in rete, così come la filastrocca.»
«È emerso qualcosa in merito al contenuto?»
«Ci stiamo lavorando. Il padre di James Conquest è stato il primo a raggiungere la casa assieme ad un gruppo di soccorso. Era comprensibilmente sconvolto quando lo abbiamo interrogato. Non appena gli abbiamo parlato delle accuse riportate sul CD, ha lasciato sfuggire qualcosa riguardo uno “scherzo finito male”.»
«Quindi, se le accuse dovessero rivelarsi vere, l’ipotesi che l’assassino sia un membro del gruppo diventerebbe ancor più probabile» commentò Bernal, spostandosi verso la cucina.
«Non vi sono segni di scasso in nessuna porta d’ingresso, né alle finestre» disse Quinn «E, visto il tempo degli ultimi giorni, è improbabile che qualcuno abbia lasciato la casa senza finire congelato.»
Bernal scosse la testa e disse «Cose del genere succedono solo nei romanzi gialli». Poi si voltò verso la filastrocca appesa al muro, leggendone i versi in silenzio.
«C’è dell’altro, detective. Non siamo ancora riusciti a ricostruire l’ordine delle ultime quattro morti.»
Bernal distolse lo sguardo dalla filastrocca. «In che senso?»
«Se davvero l’assassino era uno degli ospiti, è ovvio che si sia tolto la vita dopo aver ucciso gli altri nove, no? Ebbene, non abbiamo trovato una sequenza che avesse senso. Per esempio, Scrapers è stato travolto da un orso impagliato quando ha aperto la porta della stanza nella quale è stato ritrovato. Ma quando siamo arrivati, la porta era chiusa. Scrapers è morto sul colpo e non abbiamo trovato alcun meccanismo in grado di chiudere la porta dall’interno»
«Non potrebbe essere stato Conquest? Era quello che conosceva la casa meglio di tutti. Dopo aver annegato Isabel Rodriguez e progettato la trappola, ha costretto Alexis Griffin ad impiccarsi, quindi si è sparato.»
«Neanche questo è possibile. Il fucile da cui è partito il colpo è stato ritrovato in sala da pranzo, appoggiato sul tavolo.»
Quinn si spostò in sala da pranzo e indicò il tavolo. «Proprio qui.»
«E la Rodriguez? Non potrebbe essersi annegata dopo aver ucciso gli altri?»
«Il corpo è stato trovato al di fuori della vasca. I soccorritori hanno detto di non aver toccato nessun cadavere, e il signor Conquest ha perso i sensi alla vista del cadavere del figlio, quindi non ha avuto modo di avvicinarsi.»
«Rimane la Griffin, allora. Annega la Rodriguez, attira in qualche modo Scrapers verso la trappola, spara a Conquest e infine si impicca nella propria stanza. Ma qualcosa mi dice che c’è un particolare che non quadra, vero?»
«Proprio così. Sembrava lo scenario più probabile, ma la sedia che la Griffin ha calciato via per impiccarsi non è stata trovata sul pavimento, bensì al proprio posto sotto la scrivania. E non è possibile che sia salita da qualche altra parte, come sul letto.»
Calò il silenzio. Lo sguardo di Bernal indugiò su vari punti della sala da pranzo, nella speranza di trovare qualcosa di illuminante, fino a posarsi sul centrotavola. «Un centrotavola molto sobrio per una sala così elegante» commentò laconico il detective.
«Probabilmente era solo la base per degli oggetti in porcellana, statuine che raffiguravano degli indiani» spiegò lo sceriffo «Sono stati rinvenuti dei frammenti accanto ad alcuni cadaveri. Anche questo avvalora l’ipotesi della filastrocca.»
«Gli indiani erano appoggiati, immagino. Non fissati. Non ci sono dei frammenti qui.»
«Perché le interessa?»
Bernal si piegò sulle ginocchia per osservare più da vicino l’oggetto. «Non le sembra inclinato?»
Anche Quinn si abbassò fino ad avere lo sguardo al livello del centrotavola. «Sì, ha ragione.»
«Dubito che avrebbero lasciato degli oggetti fragili su una base inclinata come questa, a meno che non sia successo qualcosa dopo che tutte le statuine erano state spostate. Mi serve un agente della scientifica.»
Con molta attenzione, seguendo le istruzioni del detective l’agente prese il centrotavola tra le mani e lo capovolse. «La base è stata forzata» notò subito.
Fu sufficiente far leva con una spatola per far saltare la base. All’interno del centrotavola si trovava una busta chiusa ma non sigillata.
Con le mani protette dai guanti, Bernal aprì la busta ed estrasse alcuni fogli di carta piegati in quattro.
«Detective, le consiglio di lasciare la busta e il contenuto alla scientifica» lo ammonì lo sceriffo «Si tratta di una prova.»
«Non è una semplice prova.» Sul volto del detective comparve un’espressione di trionfo. «È una confessione.»




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Nota: Capitolo scritto da Belfagor.

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Capitolo 11
*** La Confessione ***


La verità, tutta la verità, nient'altro che la verità


Se la polizia si dimostrerà meno idiota di quel che si dice di solito, questa lettera sarà ritrovata dopo la mia morte e ben due misteri, due brutali casi di omicidio, verranno risolti.
In tutta sincerità, in questo momento ho quasi la tentazione di lasciare gli omicidi di Villa Dreadpeak irrisolti. Solo in questo momento mi rendo conto di come tutto sia andato così perfettamente bene, al punto da essere un piccolo, personale capolavoro. Tuttavia, la verità deve essere rivelata, o lo scopo di tutto ciò cesserebbe.

Innanzi tutto, ci tengo a precisare che non sono uno spietato assassino. Le decisioni che ho preso sono state sofferte, ma non le rimpiango assolutamente, in quanto ciò che ho fatto era necessario. Ho sempre avuto un forte senso della giustizia, da sempre (o almeno da quando riesco a ricordare); ciò mi ha portato a disprezzare la violenza gratuita e le angherie ingiustificate, e a coltivare il desiderio di... ‘raddrizzare’ queste ingiustizie. A ciò consegue che il desiderio di vendetta non mi era affatto estraneo, sebbene le mia conformazione fisica, di certo non atletica, mi abbia sempre dato ben poche possibilità in merito, anche se una certa furbizia in parte sopperiva a queste mancanze. Tuttavia posso tranquillamente ritenere il mio comportamento, almeno fino ad alcuni giorni fa, assolutamente irreprensibile. Ogni volta che ho causato delle sofferenze a qualcuno, l'ho fatto per un buon motivo e mai in eccesso.
I fatti però cambiarono tre anni e mezzo fa.

Ciò che più mi preme è dare un resoconto accurato degli eventi di quella notte. Gli eventi che portarono alla morte di Wesley Harrow.
Siamo chiari, Wesley non era un santo. Tutt'altro. Era un sadico tormentatore che si divertiva a rovinare la vita ai più deboli di lui.
Io ero uno di essi. Volevo solo vendetta, certo, volevo fargli assaggiare un po' della sua stessa medicina, come si suol dire, ma non per spirito di vendetta in sé. Doveva essere punito, fermato, sicché altri non patissero ciò che già molti soffrivano a causa sua.
Non che potessi, ovviamente. Non ne avevo i mezzi. Ma essi giunsero inaspettati nella forma di Alexis Griffin, il suo gruppetto di amici, e di un errore di Wesley stesso. Inutile negare che il gruppo di Alexis fosse celebre per molteplici motivi, i loro metodi uno di essi. Non hanno mai accettato che qualcuno li ostacolasse o li opponesse, l'ape regina in particolare, e farlo non era mai privo di conseguenze. Ciò è esattamente quel che scioccamente ha fatto Wesley, evidentemente pensando che attaccare Alexis stessa fosse una buona idea, o non pensando alle ricadute. Quale che fosse la ragione che lo spinse, le conseguenze, se non nella forma almeno nella loro natura, erano assolutamente prevedibili. Gliel'avrebbero fatta pagare cara.
Un'ulteriore casualità che contribuì al mio coinvolgimento nella vicenda avvenne poco tempo dopo, negli spogliatoi scolastici.
Credendo di essere soli, Alexis, Robert e James erano rimasti indietro per discutere alcuni dettagli riguardanti la punizione che avevano ideato. Lo "Scherzo".
Udii involontariamente, ma un rumore rivelò la mia presenza.
Senza scendere in dettagli inutili, mi offrii di partecipare, cosa alla quale alla fine Alexis acconsentì. Non farlo avrebbe comportato troppi problemi. Fu così che venni coinvolto nel più grave errore della mia vita.
L'idea era semplice, ma efficace, il piano ben congegnato.
Anche le parti erano state assegnate, ma a questo giungerò dopo.
Wesley venne distratto e condotto fuori, direttamente in un'imboscata. Di lì la situazione cominciò a precipitare. Lo bloccammo con facilità grazie alla superiorità numerica, dopodiché lo trascinammo verso la scogliera. Qui lo tenemmo fermo, mentre Alexis si apprestava a spogliarlo. In seguito avremmo dovuto legarlo ad un albero vicino al precipizio, lasciandolo ad attendere l'inevitabile umiliazione del giorno dopo, quando l'avrebbero trovato, nudo e legato.
Ma non mettemmo in conto la forza fisica, di certo alimentata dalla sua schiumante rabbia, di Wesley. Certo, anche noi avevamo i nostri muscoli, principalmente James Conquest e Desmond Flakes, ma eravamo scoordinati. O meglio. Alcuni avevano intenzioni diverse dal resto del gruppo.
Per farla breve, Wesley scalciò e tentò di scappare, noi lo trattenemmo e lo spingemmo, e lui cadde dal dirupo.
Sono assolutamente convinto che per alcuni sia stato non intenzionale, ma altri, che nominerò più tardi, avevano questo obiettivo fin dal principio.
Sperammo che si fosse salvato, in qualche modo. Che non si fosse sfracellato sugli scogli.
Ci precipitammo giù, verso la spiaggia che si estendeva poco lontano dal college, per raggiungere il luogo della caduta, sperando in un salvataggio di fortuna. Nulla di tutto ciò sarebbe dovuto accadere. Era stato tutto un grosso, terribile sbaglio.
Non per tutti.
Saltando sugli scogli che si spandevano in prossimità del precipizio, cominciammo a cercare segni di Wesley, vanamente. Finché un grido presto soffocato si levò: Erin l'aveva avvistato, rovesciato, inerme ed impigliato ad una roccia. James fu il primo a muoversi. Mentre gli altri guardavano si avvicinò, toccò la sua spalla ed infine lo trascinò parzialmente sullo scoglio. Wesley Harrow non respirava più. In quella fatidica notte, Wesley Harrow era morto, e noi dieci eravamo i colpevoli. La verità su di noi, il nostro essere degli assassini a tutti gli effetti, giaceva riversata su uno scoglio, gli occhi vuoti che sembravano quasi fissarci accusatori. Quella notte non fu l’ultima volta che vedemmo quelgli occhi.
Ci guardammo, la consapevolezza di ciò che sarebbe accaduto chiara a tutti.
Cercando di fare il minor rumore possibile rientrammo nel college, ognuno per la sua strada, dopo aver solennemente giurato di non dire mai nulla al riguardo. L’indomani facemmo finta di nulla, commentando la notizia della scomparsa di Wesley e poi fingendoci sorpresi e sconvolti quando il corpo, ormai gonfio e deformato, venne ritrovato. Ovviamente partì un’inchiesta, e i pettegolezzi, ma il pronto intervento di James, tramite l’influenza di suo padre, fece sì che qualsiasi voce su di noi, qualsiasi sospetto, cadesse nel nulla, il caso infine archiviato come suicidio.

Insomma, la facemmo franca. Non pagammo la nostra colpa, e tutto ciò era inaccettabile. Visti i fatti, non saremmo mai stati puniti, perciò presi la pesante decisione di agire. Sia chiaro. Non è qualcosa che ho fatto a cuor leggero o inconscio della gravità delle mie azioni.
A questo punto è necessario ricostruire i fatti di questi giorni, affinché tutti sappiano cos’è successo, e perché.
Ho ideato il piano per molto tempo, perfezionando i dettagli e calcolando ogni particolare. Anche l’occasione della mia punizione non è stata casuale. Periodicamente ci riunivamo da qualche parte, solo noi dieci, per passare del tempo assieme. Badate bene, potrebbe sembrare che questi ritrovi fossero un’occasione per stare in allegria tra amici, e certamente questa era la copertura, il motivo apparente. La ragione era completamente un’altra. Il vero motivo era per ricordare a tutti quant’era accaduto. E no, non per compiangere la vittima, nulla di così altruistico, bensì per ricordarci della nostra colpevolezza, per far sì che non abbassassimo la guardia, che non ci lasciassimo mai scappare nulla. Per tenerci sotto controllo. Per precauzione.
E quale occasione migliore per presentare il conto?
La scelta ricadde su Baita Dreadpeak per motivi logistici. Saremmo stati soli ed isolati. L’unica cosa necessaria era la tempesta perfetta, e per quella mi sarebbe bastato attendere. Ed è esattamente ciò che ho fatto, fino a pochi giorni fa, quando le previsioni di tempesta mi diedero l’occasione che stavo aspettando. Addirittura l’ossessione di James per non essere disturbati ha giocato a mio favore. Volendo l’isolamento adeguato ci ha riuniti in concomitanza con la chiusura degli impianti sciistici, donandomi tutto il tempo necessario ad agire. La tormenta ha fatto il resto.
Colsi l’occasione e spedii per posta prioritaria le lettere del ‘gioco di ruolo’ presentato da A. N. Onym. Tutto ciò, all’apparenza futile, ha avuto un doppio ruolo: far abbassare inizialmente la guardia e creare un nemico inesorabile e invisibile che avrebbe funto da giustiziere: Onym.
Onym avrebbe tormentato i loro sogni, avrebbe nutrito le loro paure e paranoie e avrebbe creato le tensioni perfette per distruggerli.
Il momento perfetto per colpire la prima vittima si presentò con il CD che aveva accompagnato le lettere, e che li accusava dei loro crimini. Erano tutti fin troppo impegnati a prestare attenzione alle proprie accuse per accorgersi che stavo versando acido acetilsalicilico nel bicchiere mezzo pieno di brandy di Carl Kundren, cui era violentemente allergico. L’unica cosa che restava da fare era aspettare che bevesse, e lasciare che la sostanza facesse il resto.
Carl era stato designato come prima vittima in quanto si era limitato a fare da palo quella sera.
Non aveva contribuito attivamente all’assassinio di Wesley, certo, ma non si era tirato indietro, anzi, aveva ciecamente obbedito agli ordini che gli erano stati impartiti. Sebbene ciò fosse imputabile alla sua mentalità, ciò non lo rendeva innocente, solo meno colpevole degli altri, e quindi meno meritevole della sofferenza psicologica impartita agli altri.
A Kurt devo anche l’eccellente idea delle statuette, che ha dato in mano al deceduto Carl. L’idea di seguire la filastrocca appesa ovunque nella baita è stata un piccolo colpo di genio, utile ad alimentare la paranoia degli ospiti, ma aggiungere il tocco delle statuette l’ha resa un piccolo capolavoro.

Durante la notte sarebbe stata la volta di Erin. Sapevo che nonostante tutto non avrebbe resistito alla tentazione di aprire al suo amato Desmond, che con spirito cavalleresco avrebbe senza dubbio controllato la sua incolumità durante la notte. Anche se ciò non fosse avvenuto, farmi aprire sarebbe stato tutt’altro che difficile.
Tuttavia la notte andò come previsto, e Erin mi aprì senza esitazione. Avevo in precedenza messo da parte una boccetta di etere, in fin dei conti di sconcertante semplicità nella preparazione, necessaria all’evenienza.
Una Erin van de Logt priva di sensi è stata scioccamente facile da trasportare sul letto e soffocare con un cuscino. Mi apprestai dunque a chiudere a chiave la porta della sua stanza e tornare nella mia passando dalla finestra. Perché? Scenografia, innanzitutto. È una mia debolezza. In secondo luogo, non potevo rischiare di farmi vedere nel corridoio dopo aver commesso un omicidio. Avrei corso un rischio scioccamente inutile.
Lei si era unita al gruppo per umiliare Wesley. Voleva un modo per lasciarlo elegantemente e fidanzarsi ufficialmente con Desmond, con il quale aveva da tempo una relazione clandestina. Se il suo coinvolgimento si fosse limitato a quello avrei anche potuto considerarla innocente, tuttavia aveva anche funto da esca, convincendo Wesley ad andare alla finta festa che funse da pretesto per attirarlo in trappola. La sua totale mancanza di rimorso ha decretato la sua condanna. Decisi dunque di darle un assaggio dell’angoscia che doveva aver provato Wes quella notte, ma di punirla senza causarle ulteriore sofferenza.

La scelta per la terza vittima venne naturale, ovviamente. Kurt Aldrich, un altro degli estranei al gruppo di Alexis. L’occasione non sarebbe potuta essere più semplice da creare. È bastato indurre Desmond a suggerire che il gruppo si dividesse per ceracare il misterioso Onym e aspettare che Kurt fosse solo. Gettarlo giù dalle scale e svignarsela è stato semplicissimo. Riguardo ai sospetti, avrebbe potuto letteralmente essere chiunque.
Sebbene lui si fosse macchiato del tradimento della fiducia di un amico, dichiarando che sarebbe andato con Wesley alla festa fittizia per assicurarsi che non avesse sospetti, era quello più colto dal pentimento, e causargli maggiore sofferenza non sarebbe stato appropriato. Di certo era una vittima della tirannia di Wes, ma nondimeno un complice. Sono convinto che avesse già accettato la sua sorte quando mi ha visto in cima alla scalinata. È possibile che l’avesse addirittura accolta come una liberazione.

A questo punto avvenne la svolta cruciale del piano. Innanzi tutto, mentre la rice-trasmittente che avevo precedentemente manomesso giocava il suo ruolo di distrazione, Alexis e Robert si avviavano a recuperare l’accetta, della cui presenza avevo ricordato la ragazza. Successivamente, quando ci dividemmo per cercarli, trovai l’alleato perfetto, sebbene la presenza di Eveline fosse un inconveniente imprevisto.
In tutto ciò la fiducia instillata in Desmond Flake aveva attecchito, così come il sospetto nei confronti degli altri. La proposta di incontrarci durante la notte venne accolta entusiasticamente, e l’occasione per ucciderlo con essa. Approfittando delle tenebre e della paranoia di Desmond lo colpii alla nuca con un masso, lasciai il corpo alle intemperie e tornai in camera. Colpevole di aver partecipato allo scherzo per ottenere Erin, la fatidica notte si era anche trattenuto per far sparire le prove, le corde, e per spingere al largo il cadavere. Se le prove contro di noi erano state poco più che vaghe, è stato soprattutto grazie a lui. La sua codardia, che così bene nascondeva, alla fine è stata ciò che l’ha schiacciato.

A questo punto, prese luogo il piano concordato con Isabel. Sciocca ragazza. Era la vittima ideale, così ignara di ciò che la circondava. Non avrebbe riconosciuto qualcuno con intenzioni sospette ad un centimetro dal suo naso. Ed effettivamente è esattamente ciò che è successo. La convinsi ad allearsi con me, e dato che era l’unica dei restanti in vita ad avere conoscenze mediche, era perfetta per convincere gli altri della mia morte. Ci eravamo dati un punto di ritrovo, la sala cinematografica, e cogliendo l’occasione perfetta inscenammo la mia morte. Come al solito, la scenografia è stata un mio debole, e dovetti proiettare un documentario sulle api a fare da contorno alla presunta scena della mia morte. Mi sedetti, mi finsi morto, e Isabel mi fece una finta puntura, semplicemente con un ago. Non potevamo certo rischiare che qualcuno notasse che non c’era nessun buco sul mio collo. Non c’era neanche nessuna siringa da trovare, e così un altro apparentemente impossibile omicidio di Onym era andato a segno. Una letale iniezione di atropina, mai avvenuta. Chiaramente lei pensava che il piano avesse lo scopo di scombussolare i piani di Onym, di permettermi di fingermi morto per osservare di nascosto. Mi permise invece di agire indisturbato.

Con tutto il tempo a mia disposizione avvitai un gancio al soffitto delle stanze di Alexis e James, per buona misura, sebbene fossi convinto, a ragione, che solo uno sarebbe stato necessario. Appesi il lenzuolo di Desmond, sporco di sangue, nella stanza di Alexis: il diversivo. Proseguii scendendo in cucina e preparando i cavi di una presa per la fase seguente. Bastò tagliarli con un coltello che avevo nascosto e sguainarli, per poi nasconderli nuovamente: i mezzi.
La parte finale delle preparazioni venne con Isabel. Non appena trovò una scusa per allontanarsi dal gruppo la raggiunsi e le dissi che avevo un piano per scoprire Onym, e di incontrarmi non appena sarebbe saltata la luce nell’ala in disuso, nel primo bagno sulla destra.
Mi bastò nascondermi accanto alla cucina, armato di un fazzoletto e di etere. In attesa della mia vittima. Allo scendere dell’oscurità, attesi che Alexis salisse nella sua stanza. Al suo grido, feci scattare gli interruttori del quadro elettrico. Eveline de Dispaire, conscia della sua avvenenza, aveva atteso Wes, Kurt e Isabel per la strada e aveva sedotto la vittima, convincendolo a seguirla. Non si limitò a questo. Lei incitò gli altri quando la colluttazione degenerò, contribuendo attivamente alla morte di Wesley. Eveline aveva ormai perso la ragione e avrebbe agito irrazionalmente. Sfortunatamente un po’ troppo irrazionalmente, in quanto si addentrò nella cucina, ma fu sufficiente attendere tra le tenebre e addormentarla. La trascinai in cucina e tirai fuori i cavi tagliati, infine cosparsi tutto d’acqua.
La mia parte era finita, potevo raggiungere Isabel.

Come d’accordo, Isabel era nell’ala dimessa, ad aspettarmi, al buio. Isabel, l’apparentemente sbadata, sciocca Isabel non si limitò a partecipare all’elaborata esca. Lei spinse attivamente Wes verso il dirupo. Alla mia aggressione si è difesa, glielo riconosco. Mi ha dato del filo da torcere, ma alla fine riuscii a sedare anche lei. Bastò aprire l’acqua e trattenerla sotto. Che l’avessero trovata o meno, il suo scopo nei miei piani non era finito, anche dopo la morte.

Mancavano solo più pochi atti alla conclusione della tragedia. Con i tre superstiti fuori, troppo spaventati e paranoici per restare in casa, ebbi tutto il tempo di preparare la casa per l’ultima parte.
Un paio di tocchi qua e là, e mi sarebbe bastato attendere. La stanza dei trofei sarebbe stato il luogo della dipartita di Robert. Lui avrebbe pensato alla possibilità che Isabel fosse morta. Lui sarebbe andato a controllare. Lui avrebbe deciso di armarsi del fucile nella stanza dei trofei per far fuori l’assassino. Non avevo dubbi. Mi bastò preparare un sistema di funi e pesi che avrebbe causato la caduta dell’enorme orso impagliato, proprio addosso a chiunque avesse preso il fucile appeso davanti. La morte sarebbe stata inevitabile.
Robert, probabilmente la più grande minaccia per me, era stato schiacciato dalla prevedibilità del suo intuito geniale. Lui, che aveva progettato tutto nei dettagli, che aveva fatto sì che ognuno si muovesse come una pedina sulla sua scacchiera, apparve divertito quando le cose precipitarono sulla scogliera. Sospetto addirittura che la fine che ha fatto Wesley fosse nei suoi piani fin dal principio.

Mentre tutto ciò accadeva, io appendevo un cappio nella stanza di Alexis, una sedia pronta sotto.
Il resto si è praticamente svolto da sé. Osservai mentre Alexis e James si avviavano furtivi per Baita Dreadpeak, cercando un assassino invisibile.
Trovarono il cadavere di Isabel, e dopo una lodevole messinscena, Alexis riuscì a strappare il fucile di mano a James e a premere il grilletto. James Conquest, il tiranno. James Conquest, che aveva coperto tutto. James Conquest che mai perdeva occasione di ricordarci come fossimo liberi solo grazie a lui, che ci teneva costantemente sotto terrore e silenzio. James Conquest era morto per mano della ragazza che aveva amato, e per strumento del fucile che tanto lo appassionava. James Conquest aveva avuto la meglio per l’ultima volta.
Io la attendevo, pronto. Dopo aver vagato per la casa, ormai all’apparenza vuota, Alexis si diresse verso la sua stanza, al che, l’ultimo atto. Feci partire la registrazione della filastrocca, e la osservai dalle ombre. Certamente lo stress e la pressione hanno giocato il loro ruolo. La colpa e la suggestione hanno fatto il resto.
Alexis Griffin, la mente di tutto, l’ape regina, pende ora senza vita dal soffitto della sua stanza. Il suo scopo non era mai stato l’umiliazione. Lei aveva sempre voluto uccidere Wesley da quando lui l’aveva umiliata davanti a tutti. Aveva usato gli altri, come sempre, manipolati per i propri scopi, sicura che avrebbero trovato un modo per farla franca. Non aveva calcolato la mia presenza.
Il tocco finale: poggiare nuovamente la sedia contro la parete.

In questo momento, siedo, unica anima rimasta in vita in questa villa, in sala da pranzo, a scrivere la presente. Cosa farò ora? Una volta finita la lettera, la chiuderò in una busta, e la inserirò nel fondo del centrotavola che è stato una presenza così importante in tutta questa vicenda. Se verrà trovata, giustizia sarà stata fatta non solo in assoluto, ma anche nei confronti della verità.
Rimane un ultimo colpevole da sentenziare. Io.
Mi avvierò nella mia stanza con il mio indiano, preleverò la siringa di atropina nascosta in una trave allentata del pavimento, dove erano nascosti anche l’etere e il fazzoletto. Effettuerò l’iniezione e, nel tempo rimastomi, riporrò la siringa sotto la trave, mi adagerò sul letto e mi addormenterò con l’etere. La mia mano ricadrà al mio fianco, con il fazzoletto. Mi troveranno disteso sul letto, avvelenato dall’atropina, come annotato dai miei compagni di sventura. I diversi momenti dei decessi non potranno essere stabiliti con precisione quando i nostri corpi verranno esaminati.
Quando la bufera si calmerà, arriveranno da valle i soccorsi. E si troveranno dieci cadaveri e un mistero insoluto a Dreadpeak Lodge.

 

Dover William O'Scolaidhe

 

 

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