Last Breaths

di Sphaira
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Mika ***
Capitolo 3: *** Takeshi ***
Capitolo 4: *** Hiroshi ***
Capitolo 5: *** Takuro ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Intro

Rumore di passi.
Passi concitati e risate spensierate di ragazzi spezzavano il silenzio delle strade cittadine che portavano verso la periferia. Stavano facendo a gara su chi riusciva a raggiungere per primo quel gran maniero abbandonato su cui giravano voci inquietanti a proposito di un mostro, ma era anche un pretesto per sbrigarsi: il cielo plumbeo prometteva pioggia, e le nubi si andavano addensando e scurendo sempre di più. Insomma, una giornata di fine autunno perfetta per una gita degli orrori.
Il primo ad arrivare alla meta fu Takuro, un ragazzo tranquillo e solare, dotato di ottimo controllo in fatto di emozioni, cosa che in quest’occasione gli tornò molto utile. Si appoggiò per qualche secondo con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, sorridendo soddisfatto per via della vittoria, quindi si raddrizzò e si risistemò il codino color rame dietro le spalle.
Dietro di lui, Mika e Hiroshi si erano fermati a osservare la grandezza e la maestosità dell’edificio, squadrato e imponente, di cui s’intuivano due piani superiori per via delle file di finestre. Al centro, in colonna con l’ingresso sporgente dal resto della struttura, troneggiava il simbolo del giglio, scuro, che risaltava sul bianco dell’intonaco e sul rosso delle tegole del tetto. Volarono via dei colombi da esso al suono di un tuono lontano.
Mika era l’unica ragazza del gruppo. Per quanto di norma fosse carina, dolce e vivace, sapeva tirare fuori anche il lato forte e tagliente di sé, ma si faceva prendere la mano quando era particolarmente nervosa.
A differenza di tutti, invece, Hiroshi era calmo, silenzioso e un po’ taciturno in generale. Ragionava sempre con razionalità, non lasciandosi mai andare alla fantasia o all’impossibile, e questa sua fiducia nella logica lo rendeva sicuro e padrone di sé. Gli occhiali si addicevano perfettamente alla sua persona.
Per ultimo arrivò Takeshi a passo lento, osservando un po’ perplesso la villa. Il suo carattere spontaneo e un po’ spaccone compensava la mancanza di temerarietà di Hiroshi, ma a volte ciò diventava un brutto punto debole del ragazzo, che si ritrovava in guai più grandi di lui: infatti, era stato proprio Takeshi a proporre di andare ad esplorare la villa, ma già dall’esterno il più spaventato era lui.
Fece di tutto per non farlo notare finché poté, ma appena furono dentro suggerì subito di tornare indietro. Takuro, divertito, iniziò a punzecchiarlo con delle frecciatine, del tipo “hai paura?” “vuoi tirarti indietro?”, ma mentre Mika era distratta dai brividi freddi che le procurava la vuota vastità della villa Hiroshi si affrettò a concludere quella sorta di botta e risposta tra i due ragazzi. Non potevano esistere i mostri, era impossibile. Ne era più che convinto, e sembrava irremovibile.
Ma quasi come se fosse una risposta alla sua fermezza, il rumore della rottura di un piatto zittì il gruppetto, che si girò in silenzio verso un corridoio alla destra dell’entrata. Una losca figura nell’ombra sorvegliava inespressiva la scena, attendendo che il ragazzo albino con la sciarpa e gli occhiali lasciasse l’ingresso per andare a controllare. Per un attimo, uno scintillio malvagio saettò in quegli occhi tondi e neri, profondi come pozzi in cui perdersi e precipitarvi sarebbe stato fatale.
L’ennesimo fulmine cadde di fronte alla villa mentre Hiroshi raccoglieva un pezzo del piatto rotto, annunciando l’arrivo del famigerato Ao Oni, il demone blu.
Iniziò il gioco del mostro.
Iniziò la sfida a sopravvivere.
Iniziò un Inferno da cui non tutti sarebbero usciti incolumi.

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Capitolo 2
*** Mika ***


Mika

Appena Hiroshi lasciò la stanza in cui mi ero nascosta, mi rannicchiai in silenzio nell’angolo della camera vicino al letto, stringendo le gambe al mio petto e nascondendo il mio viso dietro le braccia conserte sulle ginocchia. Avevo ripreso a tremare, almeno tanto quanto subito dopo l’apparizione di quell’essere raccapricciante.
Chiudendo gli occhi, potevo rivedere distintamente le scene che poco prima mi si erano presentate davanti agli occhi: quando Hiroshi richiuse dietro di sé la porta della cucina, un’altra porta opposta a quella si aprì di un minimo scattando dietro di noi, e quel minimo bastò per farci intravedere un’enorme sagoma blu che ci fissava. Quella sorta di sorriso che aveva in viso era inquietante e fece impallidire tutti; ma quando mostrò quei denti assurdamente affilati e iniziò a muoversi nessuno di noi sfuggì al panico, e ci separammo impulsivamente. Lì per lì avevamo fatto bene, perché in quel modo la creatura non aveva saputo chi inseguire ed era rimasta lì – l’avevo vista, lo sapevo per certo;  solo che dopo…
Mi pentii di aver risposto in quel modo tanto brusco ad Hiroshi, poco prima. A quanto pare, era l’unico che avesse il coraggio necessario per muoversi “disinvoltamente” (se così si poteva dire) in quella villa. Ma appunto per mancanza di quel coraggio, l’istinto mi portò a quasi urlargli contro che non mi sarei mossa per nessuna ragione al mondo da lì. Ero spaventata e scossa, volevo solo tornare a casa. Potevo sentire distintamente il mio cuore battere veloce nel mio petto, come se ne volesse uscire.
Per qualche ragione, quel batticuore mi ricondusse al pensiero di Takuro.
Takuro… Ero tanto preoccupata per tutti del nostro gruppo, ma in particolare per lui. Non mi resi conto di aver sussurrato il suo nome mentre rividi il suo sorriso nella mia mente, e quel sorriso fece riaffiorare alla memoria tutta la nostra amicizia come se fosse una catena tirata a poco a poco fuori dall’acqua. Era sempre stato così gentile con me, non avevamo mai avuto modo di litigare seriamente, nonostante spesso e volentieri tirassi fuori il lato peggiore del mio carattere. Si limitava a ridere, e a fare qualche commento del tipo “sei diventata completamente rossa,” e io mi arrabbiavo ancora di più; ma poi ridevamo insieme. Quanto mi sarebbe piaciuto che fosse stato lì. Credevo che anche lui sarebbe stato tanto coraggioso e in gamba da essere capace di affiancare Hiroshi nelle ricerche. Gli augurai con tutto il cuore di riuscire a cavarsela, e in cuor mio sperai di riuscire a rivederlo presto.
Mi riscossi dai miei pensieri sentendo un rumore di passi. Erano passi leggeri e animati, ma non sembravano passi di qualcuno che stava scappando; doveva essere Hiroshi che stava andando da qualche parte.
Cercando di non fare il minimo rumore, mi alzai contando unicamente sul mio equilibrio pur di mantenere il silenzio che regnava nella stanza, quindi mi avvicinai in punta di piedi alla porta. La aprii leggermente, e fui in grado di vedere solo di sfuggita l’albino che scendeva le scale prima di sparire dalla mia vista. Feci scorrere il mio sguardo sul corridoio corto che mi si presentava davanti, ed osservai le due ramificazioni, quella a destra che portava chissà dove e quella a sinistra che conduceva ad una seconda rampa di scale.
Fui tentata di uscire fuori di lì per raggiungere Hiroshi. Sarei stata di sicuro più al sicuro con lui, avrei potuto aiutarlo, e avrei potuto cercare con lui Takeshi e Takuro per poi fuggire da quel posto orribile…
Continuai a prendere in considerazione l’idea, ma prima rimasi in osservazione per altri minuti, poggiando una mano vicino al muro per potermi avvicinare un po’ di più alla porta. E quella cautela mi salvò.
Mentre stavo per uscire dalla porta per dirigermi alle scale, sentii Hiroshi reprimere un’esclamazione di terrore e cominciare a correre verso le scale dal piano di sotto; doveva essere abbastanza vicino, perché interpretai immediatamente la sua reazione. Chiusi all'istante la porta ancora prima che potessi vederlo fuggire dal demone, spingendo la porta con le mani tremanti senza preoccuparmi del suo scatto. Sentii lo scalpitio veloce del ragazzo seguito da altri passi più lenti e pesanti, i quali mi fecero trasalire, e indietreggiai lentamente verso l’interno della sala. Uno dei due – sicuramente Hiroshi – raggiunse per primo la stanza di fianco alla mia, richiudendosi la porta dietro, e poi oltre il mostro non sentii più nulla per diversi secondi. Il respiro dell’essere era profondo e rumoroso. La porta sbatté una seconda volta, e rimasi col fiato sospeso.
Cosa stava succedendo dall’altra parte del muro? Hiroshi stava bene? Se, come avevo intuito, quella stanza era speculare a quella dove mi trovavo e non c’erano altre vie d’uscita, il mostro l’avrebbe preso? Fui scossa da un nuovo potente tremito che mi fece emettere un lieve verso di sorpresa, quindi mi portai le mani alle spalle stringendole. Non volevo andare avanti con quei pensieri. Non volevo sapere in quale terrificante maniera il demonio fosse capace di uccidere. Ero sicura che Hiroshi ce l’avrebbe fatta, sarebbe riuscito a sfuggirgli e a continuare ad andare avanti. Ovviamente poteva essere una sicurezza effimera nata dalla disperazione con cui desideravo di evadere da lì, ma in qualche modo era estremamente forte e vivida, come se fosse stata una predizione. Una predizione alla quale preferii credere ciecamente, e che mi spinse ad affidarmi silenziosamente a quel ragazzo come non avevo mai fatto nemmeno con Takuro.
La porta sbatté nuovamente, ma non si sentirono più passi. Trattenni il fiato, concentrandomi sul mio udito, chiudendo gli occhi in febbrile attesa. Il silenzio che si era venuto a creare era assordante. Sembrava quasi come se mi fischiasse nelle orecchie, nonostante non fosse possibile data l’assenza di suoni, ma all’improvviso la porta si aprì di nuovo. Il sospiro che Hiroshi levò prima di uscire mi fece sentire sollevata. Tornai alla porta per guardarlo di nuovo scendere, guardingo, per tentare di chiamarlo. Ma il mio spavento mi aveva fatto seccare la gola, per cui inizialmente non riuscii a chiamarlo abbastanza forte da poter essere sentita; mi schiarii la voce, ma per quando mi decisi a fare un passo fuori il corridoio, lui era già sparito al piano di sotto.
Ero di nuovo sola. L’impulso – che forse era anche buon senso – mi avrebbe spinto nuovamente a scendere per rincorrerlo prima di perderlo definitivamente di vista, ma per la seconda volta mi rintanai nell’angolo della stanza dopo aver richiuso la porta. Il pensiero di quegli occhi neri mi aveva fatto sfuggire la possibilità di sottrarmi al pericolo, di nuovo: e ora quel pericolo mi aveva rinchiusa di nuovo nella sua gabbia inespugnabile.
Avvertii i miei occhi inumiditi dal nervoso. Me li asciugai stizzita: non mi piaceva piangere, mi faceva sentire indifesa e impotente, più di quando veramente fossi. Mi morsi internamente il labbro, presi coraggio e mi avviai finalmente a passo deciso verso la porta, e la spalancai.
Non potevo scegliere un momento più sbagliato per farlo. Pensandoci adesso, quella maledetta stizza mi aveva fatto commettere un gesto totalmente imprudente.
Vidi la figura blu del mostro girare verso sinistra alla fine del corridoio e cominciare a salire le scale, ma lo scricchiolio di queste al suo passaggio si bloccò nello stesso momento in cui feci scattare la serratura. Tornai nel mio angolo e cercai di nascondermi al meglio dietro il letto, facendomi piccola piccola e tentando invano di rimanere calma. Di nuovo lunghe serie di battiti cardiaci mi agitavano, ma stavolta erano quasi palpabili tanta la paura che provavo. Da lì non c’era via d’uscita. Quell’essere era giusto fuori la camera dov’ero io, e l’unica cosa che ci divideva era una semplice porta di legno.
Strinsi ancora di più la presa dei pugni che tenevo chiusi da prima quando le scale tornarono a scricchiolare: non avevo idea del verso in cui la creatura le stesse percorrendo, se verso l’alto per chissà quale motivo, oppure se stesse ripercorrendo i propri passi per raggiungermi. I momenti che passavano sembravano contemporaneamente interminabili e velocissimi. Non avrei saputo dire quanto tempo passai raggomitolata, a tremare, senza sapere di ciò che mi succedeva intorno… ma quando alzai il viso, il mostro era davanti a me, e mi fissava, immobile.
Lo scambio di sguardi fu reciproco. Restai pietrificata ad osservare il suo corpo antropomorfo, il suo viso sproporzionato, il cranio deforme, poi quegli occhi che non dimenticherò mai più.
Scattai in piedi all’improvviso, urlai: finalmente dalle mie labbra semischiuse un suono acuto riuscì ad uscire, e sperai che qualcuno riuscisse a sentirmi, a mettermi in salvo in tempo, perché sapevo che da sola non ce l’avrei fatta. Ed infatti, istantaneamente il mostro mi afferrò per il polso, rendendo vano il mio tentativo di scappare. La vista mi si appannò per via di nuove lacrime, e non osai voltarmi indietro. Sapevo solo che il polso mi bruciava terribilmente, come se me lo stesse marchiando a fuoco, eppure non avvertivo caldo… Solo qualcosa di anomalo e di nocivo.
Nonostante questo però non mi arresi. Diedi uno strattone sperando di riuscire a fuggire la sua presa salda, ma lui mi tirò di rimando, facendomi cadere a terra. Lo vidi chinarsi su di me, e io pur di non guardare chiusi gli occhi, terrorizzata.
Cosa stava succedendo? Non ne avevo idea, ma sentivo la mia coscienza scivolare via lentamente. A parte le prime nuove “bruciature” con cui il diavolo mi segnò, non sentii più alcun dolore. Semplicemente, mi stavo addormentando; stavo cadendo in una dormiveglia di quelle che ti agguantano quando sei costretto al letto da una febbre alta, incapace di alzarti, scombussolato, delirante. Non riuscivo a capacitarmi di come quello che stavo vivendo potesse essere possibile e di come potessi ancora sperare in una ripresa disperata… o di come, addirittura, potessi credere che fosse solo tutto un brutto incubo. Purtroppo non lo era. Mi piaceva pensarlo, ma sapevo benissimo che non lo era.
E ne ebbi una nuova conferma quando sentii in lontananza la voce di Hiroshi che mi chiamò per nome.
Il mio cadere nell’oblio terminò, e ci fu un brusco risveglio. Mi girai quanto bastava per vedere Hiroshi che mi fissava, prima me, poi il mostro che s’era girato. L’aveva attirato, quindi appena quello fece cenno di alzarsi, l’altro ricominciò a scappare, e l’essere lo inseguì.
Avrei voluto andare anch’io. Quella volta l’avrei fatto, ma il destino volle trattenermi ancora lì. Non riuscivo a muovermi, sentivo il mio corpo pesante e distrutto, sebbene non capissi per quale assurdo motivo. Chiusi gli occhi, e a terra inerme, in attesa di riprendere un po’ le forze.
 
~
 
Mi risvegliai non so quanto tempo dopo da quello stato pietoso. Hiroshi era tornato a vedere come stavo, lo sapevo, l’avevo sentito; aveva provato ad aiutarmi. Quel tentativo mi fece riprendere pienamente le forze, ma riuscii ad alzarmi solamente dopo qualche minuto che era uscit. Era tutto molto strano; adesso sembrava che non fosse mai successo niente. E se fosse stato per davvero un brutto incubo?
Ero molto confusa, ma qualcosa mi spinse a muovermi di lì. Ero sicura che quello sarebbe stato il momento buono. Volevo trovare Hiroshi ad ogni costo, stavolta. Nulla mi avrebbe fermato.
Lo prenderò.
Mi saettò questo pensiero nella mente, e scossi la testa, ridacchiando. Prenderlo era il termine più inappropriato che potessi usare; già avevamo un cacciatore alle calcagna, e quello bastava e avanzava. Ai giochi potevamo pensarci in un altro momento.
Scesi le scale come se già sapessi dove andare, e andai verso la porta in fondo al corridoio che fiancheggiava sulla sinistra la rampa di scale. Entrai in quella porta, quindi in quella poco più avanti, e mi fermai un attimo.
Mi guardai intorno facendo mente locale, e ripresi ad avanzare a passo lento. Mi trovai a dover scegliere se andare in una stanza a sinistra o verso un altro corridoio a destra. Dopo qualche attimo di indecisione, optai per andare a destra.
Mi sorprese sentire quanto i miei passi fossero leggeri, quasi sembrava che stessi fluttuando! La cosa mi divertì parecchio mentre continuavo a cercare.
Era incredibile come fossi tranquilla adesso. Forse perché sapevo che il mostro in fondo non faceva del male, e se bloccato in tempo era totalmente impotente. Feci una smorfia beffarda, come se l’avessi davanti e lo stessi prendendo in giro. Che razza di demone era?
Stavo cercando di esplorare a tentoni una stanza buia quando sentii una porta chiudersi dall’altro lato. Oh, accidenti, avevo sbagliato direzione.
Tornai indietro cercando di far rumore con i passi, per annunciarmi, non curandomi del fatto che potessi attirare anche il mostro; ma non ci fu verso. Quel pavimento doveva avere qualcosa di strano.
Mi bloccai di fronte alla porta guardandola un po’, poi sentii Hiroshi che mi si avvicinava da vicino ai grossi armadi alla mia sinistra. Lo sentii felice di rivedermi, e sentivo che mi si stava accostando, ma ora ero io quella perplessa, e un po’ spaventata.
Cosa diavolo mi stava succedendo?
Lo prenderò.
Non avevo più controllo di me stessa, non riuscivo a muovermi di mia volontà o a parlargli; semplicemente lo fissavo, davanti a me. Hiroshi dovette iniziare a sospettare di me. Indietreggiò.
Ti prenderò.
Tentai ancora di dirgli qualcosa per rassicurarlo, di dirgli che ero io, di chiedergli aiuto, ma senza successo. La mia espressione non doveva essere tanto rassicurante dalla faccia che fece il mio amico, e ricominciai a sentirmi la testa dolere e la pelle bruciare.
Inizia a scappare.
Qualcosa di me stava cominciando a mutare. La mia forma, si stava deformando. Mi guardai le mani; stavano diventando grandi e blu. Sarei sbiancata se la mia pelle fosse stata ancora chiara, ma avevo l’impressione che fossi diventata totalmente dello stesso colore del mostro. Riscoprii ancora con orrore che i miei movimenti non mi appartenevano più. Che tutto il mio corpo non m’apparteneva più. Capii solo allora il potere del demone, e perché aveva smesso di cercarmi.
Mi rattristai infinitamente realizzando che non avevo più possibilità di ritornare con i miei amici o di uscire da quella villa maledetta. Per quanto fosse impossibile, o almeno così credevo, mi sentii gli occhi di nuovo lucidi. Avrei desiderato tanto continuare la mia vita con loro... Avevo immaginato tante cose sul futuro, però ora erano crollate tutte in mille pezzi, come un puzzle rivoltato sul pavimento.
Quella consapevolezza mi fece rassegnare. Chiusi gli occhi per non guardare la scena dalla vista del diavolo e cercai di prendere sonno. Avrei tanto preferito morire al posto di assistere a quelle cose, ma se la mia anima non voleva andarsene, voleva dire che mi sarei presa un eterno periodo di riposo.
Era stata la mia decisione definitiva.
Sognando ancora quello che non avrei potuto più raggiungere, mi addormentai, e nel profondo sperai di potermi svegliare, chissà quanto tempo dopo, nel mio letto a casa, in città.
Ti prenderò!

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Capitolo 3
*** Takeshi ***


Takeshi

La stanza dove mi ero rifugiato era buia e fredda. Stavo rannicchiato in quello che credevo fosse uno dei quattro angoli. Mi tenevo strette le gambe al petto e tenevo chiusi gli occhi per non vedere, e pensavo a quello che avrei dovuto fare il giorno dopo, di quello che avrei dovuto raccontare a scuola sulla villa – magari avrei potuto dire di aver fatto qualcosa di diverso dallo stare rintanato in un cantuccio, qualcosa di eroico e fico per far colpo su qualche ragazza, – e che tra non molto sarei scappato di lì insieme agli altri.
Dopo che Hiroshi mi aveva scovato nel mio primo nascondiglio a tremare, non avevo visto più nessuno, in verità. Speravo che stessero tutti bene, ma continuavo ad avere una bruttissima sensazione e un pressante senso di colpa per via della mia proposta di venire ad esplorare quel luogo maledetto. Ma evitavo di pensarci. Sì, era tutta colpa mia, ma ancora c’era speranza, bastava aspettare.
Aspettare.
Con un leggero “tic” di un accendino, non sapevo dire quanto tempo dopo l’essermi accucciato lì, la luce di una candela mi costrinse ad aprire gli occhi, e sobbalzai. Mi guardai intorno; la stanza era piccola, col muro violaceo e il pavimento bordeaux scuro, entrambi a tinta unita. Ero vicino ad un busto di una statua e ad un mobile, e trasalii di nuovo realizzando di aver solo creduto di aver trovato il muro. Ero quasi al centro della stanza, e il mostro avrebbe potuto benissimo inciamparmi vicino e trovarmi in un lampo. Per mia fortuna non era successo, ma ora qualcun altro mi aveva trovato, e la mia preoccupazione si attenuò solo quando riconobbi il ragazzo albino.
Hiroshi era vicino al tavolino con la candela, l’accendino ancora acceso in mano, probabilmente spaesato e spaventato quanto me di aver trovato qualcun altro nella stanza, ma anche sollevato, probabilmente perché anche lui doveva aver temuto di vedere il mostro. Nonostante la tensione persistente che riuscivo a percepire nei suoi movimenti meccanici e veloci, in quel suo studiare ciò che aveva intorno senza abbassare mai la guardia, sembrava particolarmente padrone di sé e sicuro di ciò che faceva. Ma il vederlo solo mi fece sprofondare nelle mie paure.
Dov’erano tutti gli altri? Lui era l’unico sopravvissuto? Takuro e Mika forse erano già stati presi, portati chissà dove, o uccisi chissà come. Una marea di terrore mi investì ponendo davanti ai miei occhi le infinite possibilità di pericoli che quel mostro poteva rappresentare per noi. Non riuscivo a distinguere bene le folli visioni che il mio cervello formulava nel rivedere i volti dei miei amici atterriti e quello del demone impassibile e immobile, che trasmetteva le sue intenzioni, emozioni, reazioni solo con lo scintillio di quegli occhi enormi e profondi come il vuoto. Sapevo solo che erano una più terribile dell’altra.
Anziché chiedere ad Hiroshi se gli altri due stavano bene, in modo da interrompere quel flusso assurdo di paranoie, l’istinto mi fece solo portare a galla il ragionamento che mi ero preoccupato di nascondermi pur di rimanere calmo. Dissi che era solo questione di tempo, e che prima o poi saremmo stati presi anche noi. E mi rinfacciai ancora la cruda verità, che era tutta colpa mia, nonostante Hiroshi cercasse inutilmente di calmarmi.
Come diavolo mi era venuto in mente di fare quella “gitarella al maniero abbandonato fuori città”? Già quando me l’avevano raccontato, sebbene non l’avessi dato a vedere, nel profondo stavo tremando di paura; eppure ero stato ugualmente tanto sfacciato da dimostrare il contrario con un’incredibile falsa sicurezza, trascinando con me i miei migliori amici, e avevo ottenuto nulla più che rischiare la mia vita e quella altrui e di vedermi miseramente strappata la stessa maschera che avevo mantenuto fino a... quella che doveva essere stata un’ora, forse. Oppure eravamo lì da più tempo? O forse da meno? Non ne avevo più idea.
Urlai, non riuscendo a sopportare tanta confusione, e fuggii senza dare modo ad Hiroshi di aiutarmi o di fermarmi.
Dopo una lunga corsa in quel labirinto, mi ritrovai in un’altra camera buia.
Doveva essere una gemella di quella in cui ero rimasto fino a poco prima; nella penombra che avvolgeva i mobili, si vedeva un armadio sulla destra, e un mobiletto su cui era poggiata una lampada. Stranamente, mancava il bulbo della lampadina. Forse si era rotto e i proprietari del maniero non l’avevano cambiata, o cose del genere… o forse l’abitante di quella struttura era solo quell’orribile demone, che non aveva bisogno di provvedere a queste cose. Credevo almeno che il motivo riguardasse questo, bene o male. Oppure chi poteva saperlo?
Evitai di nuovo l’argomento ed uscii, cercando di darmi una calmata. Dovevo cercare Hiroshi..? No, Hiroshi era abbastanza in gamba da potersela cavare da solo. Dovevo uscire di lì, e in fretta.
Mi diressi in punta di piedi e con le spalle al muro verso una stanza di fronte alla mia. A giudicare dalle rampe di scale, dovevo essere arrivato al primo piano.
Cercai di ridurre al minimo il rumore dato dallo scatto della porta quando la richiusi dietro di me, quindi studiai frettolosamente quella che sembrava una sala da pranzo. Il pavimento era danneggiato in alcuni punti, ma le sedie erano a posto e l’argenteria già preparata, come se si sarebbe dovuto svolgere un banchetto di lì a poco. Oltre l’entrata non c’era via di fuga. Vicino alla porta da cui provenivo, c’era una statua simile a quella vicino a cui stavo rannicchiato in precedenza ed un camino.
Mi abbassai a dare un’occhiata: la legna era fresca e pronta per essere bruciata, però abbandonata.
Rabbrividii per qualche motivo guardando nel buio del cunicolo, quindi decisi di affrettarmi a cambiare stanza. Salii al piano superiore, il cui corridoio portava ad un’unica stanza, in fondo. Quando un lampo illuminò per un attimo tutto l’ambiente e un tuono tremendamente vicino squarciò il silenzio, sentii il cuore battere forte in petto, costringendomi a dover trattenere un gemito di terrore. Ripresi fiato cercando di tranquillizzarmi; quando più o meno mi fui ristabilito, entrai con cautela nella stanza, controllando prima che non ci fosse nessuno all’interno, poi aprendo la porta e richiudendola dietro di me, in silenzio come già avevo fatto molte volte.
Non riuscivo a capire il ruolo di quella stanza nella casa. C’era una sorta di… cassapanca o tavolo quasi davanti all’entrata. Sul muro più sporgente a sinistra, una sorta di quadro, un quadro bianco e vuoto, poi due rientranze, una delle quali aveva un brutto buco nel pavimento tappato con una cassa. L’armadio a cui portava era vuoto, mentre dall’altro lato non c’era nulla.
Sconcertato da quel vuoto, decisi di tornare indietro, ma quando sentii qualcosa rompersi in lontananza sussultai l’ennesima volta e mi richiusi nella sala da pranzo. Una visione sconcertante apparve ai miei occhi, che oramai erano annebbiati dal mio stato di quasi-follia dovuto al panico represso, quindi mi avvicinai ancora al camino.
Adesso era acceso, e al suo interno giaceva il corpicino di una bambola di legno semplice, che lentamente stava andando incontro alla rovina e al diventare solo un mucchietto di cenere. Lo interpretai come un avvertimento del mostro. Qualcosa del tipo: “verrai bruciato vivo”, oppure prendendo il fuoco come metafora, “brucerai all’Inferno”, insomma, detto in parole povere, “morirai”. Ora come ora posso dire che o avevo molta fantasia, o dovevo veramente aver oltrepassato il limite di sopportazione di quella situazione.
Non so come riuscii a trattenere un secondo urlo. Scappai ancora. Corsi giù per le scale, e optai per seguire la direzione della porta che avevo più o meno davanti piuttosto che seguire il corridoio che portava verso un’altra ramificazione. Troppo labirintico; i corridoi non mi piacevano, e il mio istinto lo sapeva.
Un’altra ondata di sgomento mi invase nel vedere la statua a cui ero appoggiato prima rotta ai piedi di un’altra rampa di scale. Il mostro aveva capito che ero lì e aveva rotto la statua perché era arrivato tardi, conclusi inconsciamente in mente mentre continuavo a fuggire.
Seguii la strada alla mia destra, ed arrivai in una sorta di cantina, con una fila di armadi, di cui i due al muro erano spostati per mostrare una cassaforte aperta. Ancora, la mia immaginazione malata non si fermò, e immaginai il più terribile e affilato dei coltelli tirato fuori da lì per venire a uccidermi saettarmi davanti in una frazione di secondo. Inciampai e caddi.
Mi rialzai dopo qualche secondo mettendomi a gattoni, e mi sorressi con le mani riprendendo aria. Avevo il fiatone, ma quella caduta magari poteva bloccare quella perdita di controllo e farmi tornare ad uno stato più o meno di tranquillità; avrei potuto trovarmi un altro nascondiglio, stavolta più sicuro del precedente, ed aspettare con calma che Hiroshi mi trovasse. No, non ero capace di uscire da quella tortura da solo; avevo bisogno d’aiuto. Mi sentii un infimo codardo al solo ripensare di aver scelto di abbandonare qui un mio compagno, quando sapevo che lui non l’avrebbe fatto mai, qualunque fosse stata la situazione.
Strinsi i denti e battei il pugno a terra dal nervoso, ferendomi appena alle nocche, quindi imprecai. Quando ripresi a prestare attenzione a ciò che mi stava intorno, notai un’ombra stagliarsi su di me.
Deglutii. Era troppo grande per essere Hiroshi, ma… Una forma strana del cranio mi costrinse ad alzare gli occhi e a guardare nuovamente quell’orribile figura che avevo incontrato nell’ingresso in passato.
Gli occhi erano gli stessi. Il corpo, ugualmente antropomorfo ma indefinito, aveva delle forme più incurvate rispetto a quello che avevamo visto all’inizio, come se fosse stato un esemplare di donna. Ma quando vidi il capo, persi totalmente il senno. I capelli lunghi e castani dell’essere ricadevano sulle spalle, e intorno al suo collo pendeva uno straccetto rosso di quello che in precedenza doveva essere stato il suo fiocco rosso della divisa scolastica.
Mika.
Mi alzai indietreggiando di due passi alla sua vista, ma non riuscivo a muovermi di un centimetro in più, come se fossi stato paralizzato. Non potevo credere che quella fosse Mika. Che alla fine davvero lei e Takuro non ce l’avessero fatta, come avevo immaginato. Che Hiroshi fosse stato solo. La messa di fronte a quella tristissima realtà mi stava uccidendo dall’interno.
Iniziai a tremare e a emettere gemiti spezzati dal terrore e dal dolore di aver perso due dei miei amici più importanti… anche se un po’ di ottimismo, seppur disperato, tornò, e mi fece restringere il campo unicamente a Mika, di cui avevo la certezza che fosse persa per sempre. Lei si avvicinò, con passi lenti e pesanti. Con una mano mi toccò il collo e lo strinse, come se avesse voluto strozzarmi, ma non abbastanza da soffocarmi seriamente. Mi dimenai, ma la sua presa era salda e anomala per una ragazza. Non era rimasta traccia della Mika che conoscevo. I suoi occhi neri e inanimati erano fissi nei miei, sgranati a tal punto da farmi male, e quella sua espressione immobile con quella specie di sorriso demoniaco mi pietrificava nel profondo. Sentivo un dolore strano al collo, come quando le ventose di una medusa si attaccano per iniettare il loro veleno, però non era bruciante né davvero penoso come credevo. In un batter d’occhio, all’improvviso fui lasciato, e stavolta fu lei ad indietreggiare. Mi guardai intorno: ero in un’altra stanza dal pavimento bordeaux e le pareti bluastre, ma quando tornai a guardare la sua figura, Mika non c’era più. C’era solo una sedia, e più su rispetto a me, una raccapricciante, cupa, tetra corda appesa al soffitto, già legata in un cappio. Trattenni il fiato per un tempo che mi sembrò infinito. Voleva forse che mi uccidessi da solo per risparmiarsi la pena? No, sicuramente no, che cosa le poteva importare di me, ormai? Mika era morta. Quello era solo un mostro con i suoi capelli ed il resto del suo fiocco. Nulla di più.
Era morta.
Morta e irrecuperabile.
Già, oramai non c’era più via per tornare indietro. Alla morte non c’era rimedio. Continuai a fissare la corda e mi portai le mani al collo, dove le aveva tenute il mostro.
Era stata colpa mia, mia e di nessun altro.
Avevo trascinato i miei amici nelle fauci di un demone terribile che già aveva tirato negli Inferi la prima vittima.
Non c’è più nulla da fare, mi disse una voce nella mia testa con tono spaventoso, quindi me la tenni, sul punto di impazzire ancora una volta. Aveva ragione, non c’era più nulla da fare.
E’ colpa tua, disse ancora, e gemetti dal sentirmelo dire, come se m’avessero condannato a morte. Ed in effetti, era davvero la mia condanna a morte.
Chiedi scusa ai tuoi amici liberandoti da questa colpa.
Sussultai. Ma certo, era ovvio: ancora una via di fuga, per quanto infelice, c’era. Sorrisi insanamente fissando i dettagli del cappio, quindi salii lentamente sulla sedia.
Erano le mie scuse ai miei amici per averli portati in quel posto. Come Mika, anch’io avrei terminato il mio esistere lì.
Chiesi scusa mentalmente alla ragazza, e di perdonarmi mentre infilavo la testa nel cappio, fissando il pavimento lontano da me. Chiesi scusa a Takuro, che era sparito, o che almeno non avevo visto. Chiesi scusa a Hiroshi per averlo costretto a dover trovare la via di fuga anche per me fino a quel momento, e per aver pensato di abbandonarlo.
Ridendo, con i piedi feci ribaltare la sedia alla mia sinistra, e penzolai un po’ dal soffitto sentendomi mancare l’aria.
Con le lacrime agli occhi per lo sforzo di fissare così intensamente ciò che mi circondava, per il bruciore che ora ricopriva quel dolore sordo del tocco di Mika, chiesi scusa anche ai miei genitori e parenti, agli insegnanti, agli altri conoscenti a scuola, anche a chi non conoscevo, come un pazzo disperato in piena regola. Mi ritrovai ad urlare scuse con l’ultimo respiro che riuscii a prendere, soffocato dalla corda, dicendo con voce strozzata qualcosa che non riuscii a sentire nemmeno, tanto che stavo farneticando. La mancanza d’aria iniziava a farsi sentire, e percepii la coscienza scivolare via a poco a poco. Continuavo a fissare avanti a me anche se non ero quasi più cosciente, ma in qualche modo, non ne volevo sapere di morire. Cominciai a chiedermi il perché dopo una trentina di secondi di sofferenza, senza aria, ma poi vidi Hiroshi correre ai miei piedi, scuotermi, chiamarmi. Non risposi e lo ignorai, continuando a farmi domande. Allora lui, con mani tremanti, s’allontanò, e tirò fuori la testa di una bambola simile a quella che avevo visto bruciare nel camino. Sentii una lacrima di sangue sgorgarmi dall’occhio destro e rigarmi una guancia per via dello sforzo, ma continuavo a non sentire dolore, come se fossi stato sotto l’effetto di chissà quale sostanza. Era stato lui a bruciarla? Era lui il mostro?
O semplicemente avevo frainteso tutto ed ero impazzito per niente?
No, dire “per niente” era assurdo, avevo incontrato il mostro di Mika. Avevo tutte le ragioni per impazzire, anche se forse il primo movente era stato per ragioni infondate.
Qualcosa scattando mi riportò alla realtà: era il quadretto dove aveva incastrato la testa in quel momento di distrazione, che aveva scoperto un’altra cassaforte, simile a quella aperta in quella sorta di cantina dove avevo visto Mika.
Lo vidi mettere un codice con decisione, senza esitare, come se già lo sapesse. Come diavolo aveva fatto? Iniziavo a credere davvero che in realtà era lui il mostro, che si era nascosto dietro la mia proposta di andare alla villa per attirarci tutti qui ed ucciderci ad uno ad uno, che era un traditore. L’ira cominciò a bruciarmi lo stomaco.
Prese una chiave, e mentre era di fronte alla porta si voltò di nuovo verso di me, sobbalzando con fare innocente e puramente sorpreso. Stupido attore.
Ero caduto al suolo, e la corda si era allentata, ma potendo recitare anch’io a fare il morto rimasi inerme e ancora con lo sguardo vuoto che avevo mantenuto fino ad allora. Ancora non respiravo. Mi ero quasi abituato a quella assurda anomalia, sebbene mi desse un fastidio inammissibile.
Lo prenderò.
La voce sibilò ancora nelle mie orecchie, rimbombandomi stavolta amica nella mia testa, mentre mi alzavo e cominciavo a diventare blu. Mi guardai le mani: non erano più le stesse, e la corda all’ingrandirsi del mio collo si spezzò. I vestiti si strapparono, non potendo più contenere il mio corpo dalle forme imprecise e piccole rispetto alla testa, che ora doveva essere grossa e deformata come quella di Mika.
Era come se fossi morto anch’io, ma no: ero dalla parte del giusto. Almeno credevo di esserlo.
Ti prenderò, pensai all’unisono con la voce, rivedendo davanti ai miei occhi l’immagine recente del volto di Hiroshi che mi fissava dal basso.
Senza che dovessi muovere il mio corpo, quello andò all’inseguimento dell’albino, che sobbalzò e riprese a scappare. Rimasi in osservazione, sperando di prenderlo e di ucciderlo. Era un traditore, non meritava ancora la vita, non meritava di poter uscire da lì a differenza nostra per poter portare altre vittime da mutare in mostri.
Era lui il colpevole.
“E’ lui il colpevole!!”, pensai ancora, ma stavolta la voce non mi affiancò. Vidi, dall’altra parte della ramificazione che riconobbi dopo qualche secondo – quella alla fine del corridoio giù dalle scale – il mostro che aveva tentato di inseguirci all’entrata. Iniziai a rendermi conto di aver sbagliato tutto, che Hiroshi era innocente e che avevo perso totalmente il controllo.
Ero stato ingannato, e Mika mi aveva trainato nello stesso oblio in cui era stata trainata lei.
Provai a riprendere possesso del mio corpo e a girarmi verso il mostro per rivoltarmi contro di lui, ma il mio corpo non mi obbedì, nonostante i numerosi tentativi. Era tutto inutile: ero stato rimpiazzato da un mostro anch’io, ed ero fuori dal gioco, diventato un semplice osservatore. Anziché espiare la mia colpa come avevo in mente di fare, mi ero solamente accollato un altro errore, quello di essermi lasciato trasportare dalla follia e di essermi fatto usare da quella mente malvagia.
Era un diavolo quello che mi aveva ucciso, e che mi trattiene tutt’ora a guardare gli scempi e gli omicidi che il mio nuovo corpo autonomo commetteva.
Da allora rimasi prigioniero della mia disperazione e della mia follia per l’eternità. Non potrò mai più scordarmi di Hiroshi che cercava di farmi riprendere, sotto di me, mentre io dondolavo dal soffitto per mezzo della corda. E senza poterne sfuggire, sarò perseguitato per sempre da quegli occhi; dai suoi, e da quelli di Mika prima di stringermi la gola.

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Capitolo 4
*** Hiroshi ***


Hiroshi

Tirai un sospiro di sollievo quando la porta della stanza in cui mi ero rintanato sbatté per l’ennesima volta.
Ero appena riuscito a risolvere il rebus della porta con il codice dato dai colori, per il quale ebbi bisogno di uno strano segnalibro; però ebbi appena il tempo di entrare che mi ritrovai alle calcagna sia Mika che Takeshi.
Ancora non riuscivo ad accettare di averli persi. Prima Mika, che avevo lasciato da sola in quella stanza per troppo tempo, poi Takeshi, che per quanto ci avessi provato era stato impossibile da salvare. Non ero riuscito a proteggere i miei compagni come speravo di fare, ma in fondo non era colpa mia, né loro: ci eravamo solo ritrovati in un guaio più grande di noi. Un guaio folle e inconcepibile. Non ero ancora sicuro di essere sveglio e di non star facendo solo un brutto incubo. Sarebbe stato bello, se lo fosse stato; peccato che non riuscivo a svegliarmi.
Cercando di fare meno rumore possibile, uscii dall’armadio in cui mi ero accucciato e richiusi le ante dietro di me. Finalmente ebbi il tempo di ispezionare con calma il primo dei due ambienti cui ero arrivato: notai un rialzamento del tappeto, quindi lo alzai e scoprii sotto di esso una sorta di disco. Sul dorso c’erano dei segni che non avevo subito capito; una serie di colori e una sorta di freccia. Lo rigirai un paio di volte tra le mani per curiosità, e quando vidi una cavità cilindrica sospirai. Un altro puzzle.
Riposi l’oggetto nella sacca con tutti gli arnesi che avevo dietro prima di uscire e andare verso la seconda porta, quella da cui era uscito Takeshi.
Era una camera più o meno simile alla precedente. Sembrava che non ci fosse niente di strano, e in più c’era anche un altro armadio in cui avrei potuto nascondermi.
Mi avvicinai piano ad aprirlo, e poco prima di scostare le ante sentii qualcuno trattenere il respiro prima che le aprissi. Feci un passo indietro. Avevo trovato Takuro.
Mi sentii rincuorato nel vederlo riconoscermi. Il fatto che fosse padrone di sé e che non fosse diventato a sua volta blu come Mika e Takeshi mi restituì un minimo di speranza. Potevo ancora salvare almeno lui.
Avemmo un breve dialogo: si era slogato una caviglia, quindi preferì rimanere a riposarsi un altro po’ nascosto lì. Un brivido mi corse per la schiena: un déjà vu, era accaduto lo stesso con Mika, che aveva preferito rimanere in quella stanza. Ma lo sguardo determinato di Takuro mi rassicurò: lui era nascosto, era un ragazzo, avrebbe saputo come cavarsela nel caso si fosse trovato nei guai. Certo, sarebbe stato meglio se non ce ne fossero stati, pensai fra me e me scuotendo la testa, quindi accettai l’aceto che mi diede prima di richiudere le porte dell’armadio. Perfetto, con quell’aceto avrei potuto togliere la ruggine da quella chiave rossa che avevo trovato non molto tempo prima. Ma dove conduceva?
La prima cosa che feci fu appunto quella di pulire la chiave. La osservai; era di un grigio chiaro, forse un po’ più tozza delle altre, come… come la chiave di una cella.
Uscii dalla stanza e cominciai a ripercorrere i miei passi verso il corridoio della cantina del secondo edificio, cui ero arrivato non molto dopo essere scappato da Takeshi. Ricominciai a perlustrare le stanze in cui passavo, e la prima in cui mi fermai fu stesso l’ingresso della porta dal codice del segnalibro.
Ricontrollai il segnalibro e il codice, girando la cartuccia nel cassettino in cui l’avevo già inserita in precedenza, ma non ottenni niente di utile. Andai verso gli scaffali addossati al muro di fronte alla porta: pensandoci, il fatto che fossero due mobili separati poteva essere tanto strano e sospetto quanto potesse essere solo una coincidenza. Ma come credevo, no, non era una coincidenza: scoprii una porta nascosta.
Sorrisi fra me e me provando ad aprirla, ma quella fece resistenza: era chiusa a chiave. Allora tirai fuori quella che avevo appena pulito dalla ruggine e provai ad inserirla, ma senza successo.
Dovevo cercare altrove, ma tenni a mente la posizione della porta. Se aveva bisogno di essere nascosta ci doveva essere per forza un motivo valido; dietro di essa doveva esserci qualcosa di davvero interessante.
Passai oltre, procedendo alla mia destra, e tornai nella sala in cui avevo trovato l’interruttore della corrente. Guardai di nuovo nella libreria alla ricerca di qualcosa di utile, ma non trovai niente; l’interruttore era bloccato e la pianta non aveva niente di strano, come il resto delle pareti non coperte da mobili. Uscii di nuovo dirigendomi verso la stanza avanti a quella dove ero appena stato, ma qualcosa mi fece girare a controllarmi le spalle, e feci bene. Il demone che ci aveva aggredito fin dall’inizio era lì: mi stava spiando, e l’essere stato scoperto lo costrinse a riprendere a rincorrermi. E io, senza neanche inquietarmi più di tanto oramai, ripresi a scappare.
Evitai di andare nella stanza in cui stavo per entrare, che era un vicolo cieco, e scelsi di risalire al piano terra dell’edificio annesso alla villa per andare da qualche altra parte. Il mostro faceva fatica a tenere il passo, ed io non accennavo a rallentare, ma neanche osavo guardarmi dietro per confermare i miei pensieri.
Uscii dalla porta alla mia destra per evitare di ricadere nel buco nel pavimento del corridoio, quindi di tornare al punto di partenza, verso il sotterraneo; girai ancora una volta a destra quando mi ritrovai nella sala principale, e ancora una volta a destra verso la stanza delle bambole per chiudermi dentro di essa. Spensi la luce per disorientare il mostro, e quel trucco funzionò: lo sentii disorientato non sapere dove andare tra le due stanze, grugnire per avermi perso ancora una volta, ed infine sparire così com’era apparso. Riaccesi la luce; senza di essa era pressoché impossibile vedere. Feci mente locale, cercando di distrarmi dall’improvvisa apparizione del demone e frugando nella borsa. Mi ricordai di avere una lampadina con me; l’avevo presa dalla stanza del primo piano, dalla lampadina che era sul comò. Decisi di tenerla in mano; avrei potuto lanciarla contro qualcosa per fare rumore e distrarre il mostro nel caso di un nuovo inseguimento.
Richiusi la borsa, quindi alzai casualmente lo sguardo verso le bambole che avevo visto in precedenza. Erano due: una con le pietre bianche e una mano alzata, abbastanza allegra, come se stesse salutando, e l’altra decapitata per via del rebus della cassaforte della stanza speculare a questa. Mi avvicinai ancora una volta ad essa, guardandone il corpicino rimasto; giocai un po’ con le braccia, poi mi accorsi che intorno al vuoto lasciato dalla testa c’era una parte sopraelevata che nella bambola a fianco non c’era. Incuriosito, provai a spingerla, ma non successe niente; quando invece la ruotai, quella venne via. Posai la lampadina sul mobile per provare a prendere in mano la bambola, ma quella non si mosse: c’erano dei fili uscenti dai piedi che la tenevano attaccata alla superficie legnosa. Tornai a guardare il bulbo di vetro, poi ancora i fili; rimisi a posto la bambola dove l’avevo presa, provai ad avvitare il bulbo, e osservai con stupore che la lampadina funzionava. Incredibile; chi avrebbe mai progettato una lampada del genere?
Tornai a spegnere la luce vicino all’ingresso, e contemplai qualche secondo la luce soffusa che regnava ora nella camera prima di guardare l’ombra proiettata sul muro dalla stessa a causa della bambola che c’era davanti. Mi avvicinai tenendo una mano vicino alla parete, e sentii che qualcosa nella parte indicata dall’ombra non andava.
Tirai fuori il pezzo di piatto come già avevo fatto in precedenza nel primo edificio, e divelsi la parte superficiale della parete, scoprendo una nuova porta nascosta. Ancora una volta, provai la chiave, ma quella non funzionò. Ancora una volta si stava complicando tutto, ma rimanendo fermo a respirare profondamente davanti alla porta, mantenni la mia solita calma senza dare segni di cedimento. Potevo farcela. Tutto stava nel trovare la serratura che quella chiave apriva, e si sarebbe sbloccato tutto.
Mi ricordai della stanza in cui stavo per entrare prima di essere interrotto dal mostro. Prima o dopo, di sicuro mi avrebbe fermato prima che avessi esplorato per bene quella stanza; perfetto, la chiave di tutto era lì.
Tornai indietro camminando rasente al muro, andando con cautela stavolta. Mi ero tranquillizzato abbastanza, certo, ma un po’ di prudenza in più non avrebbe di certo guastato. Andai di nuovo verso il corridoio interrotto, entrai nella stanza vuota con le scale e scesi tenendo il palmo sul passamano, avanzando a passo svelto ma silenzioso; diedi di nuovo un’occhiata intorno a me prima di entrare in quella camera, e vedendo che tutto era tranquillo, aprii la porta per poi richiuderla subito dietro di me.
La scrivania e la mobilia che ornavano la zona davanti e destra erano in un contrasto tanto strano quanto disarmonico con la vasca sulla sinistra. In quella vasca avevo già trovato la chiave che poi avevo lavato dalla ruggine, e non avevo pensato che ci potesse essere dell’altro; ma quando andai a controllare, effettivamente era così. La spinsi verso il muro, e s’intravidero delle scale, ma in quel modo non sarei mai potuto scendervi; quindi mi sforzai di tirarla ancora verso di me, quindi andai dall’altro lato e spinsi ancora.
Una rampa di marmo bianco, altrettanto triste e inquinata quanto il grigiore di tutta la cantina, conduceva ad una stanza sotterranea. La seguii senza preoccuparmi di guardarmi le spalle, e raggiunsi proprio ciò che avevo immaginato all’inizio: un cancello.
Tirai per la terza volta fuori dalla borsa la chiave, la inserii nella serratura e la girai. E finalmente quella scattò.
Per esperienza, appena entrai in quell’area richiusi subito anche la porta della cella dietro di me; non mi fidavo di quella casa, per niente. Già una volta avevo rischiato di essere preso, e il mostro andò su tutte le furie quando si rese conto di non poter aprire, scuotendo le sbarre; non avrei certo voluto che in quel momento quella furia potesse riversarsi su di me come una vendetta.
Diedi le spalle alle sbarre che separavano le scale dal resto della stanza per osservare ciò che avevo intorno.
Notai verso la mia sinistra una specie di televisione, spenta e nera, cubica. Mi avvicinai per guardarla meglio: sembrava non essere funzionante, e per quanto la studiassi e cercassi di trovare qualcosa non successe niente.
La lasciai perdere dopo non molto per continuare la mia indagine e spostai l’attenzione sulla parete grigia, stranamente decorata rispetto alle altre stanze, completamente monocromatiche.
C’erano dei quadri davanti a me, tre per la precisione, da sinistra a destra colorati prevalentemente di blu, di rosso e di giallo. Mi avvicinai per guardarli: erano tutti molto leggeri… E sotto le loro cornici c’erano dei bottoni. Provai a spostare i quadri dalla parete per premerli, ma non riuscii a smuoverli in nessun modo. Quando premetti i bottoni non successe niente, quindi lasciai la faccenda in sospeso per fermarmi a riflettere.
Ricordai quei segni sul dorso del disco che avevo trovato non molto prima. Lo tirai fuori e lo guardai di nuovo: come ricordavo, c’era una freccia che indicava il senso orario, poi una sequenza di colori come quella dei quadri. Seguendo le indicazioni dal codice, premetti in ordine i bottoni, quindi il quadro rosso cadde. Mostrò una rientranza nel muro con una stecca di metallo al suo interno. La presi e la studiai, alzandomi gli occhiali dal naso per vederci meglio. Da un lato c’era una parte più sottile e che procedeva a spirale, come se dovesse essere avvitata, mentre dall’altra c’era una protuberanza frastagliata. Alzai nella mano libera anche il disco e avvicinai i due oggetti. A quanto pareva, la parte sottile della stecca di metallo e il buco nel disco sembravano avere la stessa dimensione. Li incastrai, e come pensavo, ottenni una chiave.
Per una chiave del genere non ci si poteva aspettare che una porta altrettanto difficile da scoprire; per quello, il mio pensiero corse subito alla porta nascosta dietro quelle due librerie, vicino a quella col codice dei colori. Mi ci fiondai letteralmente, pervaso da una certa foga. Speravo tanto che quella potesse essere una scoperta decisiva per evadere da quell’incubo. Inserii la chiave nella serratura con la mano leggermente tremante sia per l’eccitazione sia per la fretta, che mi stava mettendo ansia. Avanzai all’interno dello strano cunicolo in cui mi ritrovai stando vicino al muro per sentire dove stavo andando – non potevo vederlo a causa del buio: ma il rumore più vicino della pioggia di fuori mi costrinse ad accelerare fino a correre nuovamente.
Arrivai ad una scala bagnata. Stetti sotto la buca cui conduceva per qualche secondo, sorridendo rianimato, e sospirando sonoramente come se mi fossi tolto dalla schiena il peso di mattoni di piombo. Le gocce d’acqua mi bagnarono leggere il viso, urtando anche il vetro degli occhiali e scivolando lungo questo, rinfrescandomi i capelli, e l’odore di erba bagnata mi riempì i polmoni. Inspirai a fondo. Niente più aria viziata e di luogo chiuso. Non vedevo l’ora di uscire.
Ma qualcosa mi trattenne ancora dal salire: Takuro mi stava aspettando. Mi pulii con la parte asciutta della sciarpa le lenti per poi riprendere a correre, non curandomi di fare rumore: oramai eravamo ad un passo dall’uscire, non c’era più bisogno di stare attenti; bisognava solo essere veloci e reattivi.
Veloci e reattivi, come Takuro non poteva essere a causa della sua caviglia.
Quando lo avvisai, anche lui fu invaso dalla stessa eccitazione e felicità nervosa che assillava me, che mi ripeteva di sbrigarmi e di lasciare lì tutto al più presto, ma il suo non poter correre inquietò entrambi. Anche Takuro mi aveva sentito correre lungo il corridoio, ed entrambi avemmo lo stesso presentimento: non era stato l’unico.
Facemmo più in fretta possibile. Per aiutarlo, gli feci mettere un braccio intorno alle mie spalle e lo sostenni, andando più veloce che potevo per non farlo sforzare, e lui faceva di tutto per rimanere al passo. Spalancai la porta lasciandola per la prima volta aperta; non m’importava, non c’era motivo, l’unica cosa che importava al momento era di scappare.
Purtroppo per noi, però, avevamo immaginato bene. Come il mio compagno, anche il mostro aveva avvertito i miei passi, la mia posizione, e la mia eccitazione. Si doveva essere diretto mentre ero andato a prendere Takuro alla porta segreta, e magari trovandola scoperta si era affrettato a distruggere la nostra via di fuga.
Ed ora eccolo lì, le zanne di fuori che stringevano uno dei tanti pezzi di corda che erano sparsi per il tunnel, che agitava ferocemente il capo per continuare ad annientare quella che fino a non molto prima era una splendida scala verso la libertà.
Quando arrivammo al luogo dov’era la buca verso l’esterno, un tuono ci fece sobbalzare, facendoci vedere la sua figura prima in controluce, poi per quello che era: un’iratissima bestia. Riuscii a scorgere quasi delle fiamme nei suoi occhi, ora piccolissimi. Era spaventoso, e come se non bastasse, il fulmine aveva illuminato anche le nostre figure rendendole meglio visibili, e gli aveva permesso di accorgersi più in fretta di noi.
Rimanemmo pietrificati per qualche secondo prima che io fossi preso dal panico. Urlai di scappare anche a Takuro, ma nella foga del momento lo lasciai indietro. Grosso errore.
Lo sentii urlare all’improvviso dietro di me. Il demone gli si stava già avvicinando a passo lento, e lui, cercando di rialzarsi, lottava contro la sua caviglia che non voleva saperne di sostenerlo cercando di raggiungermi.
Ero sconvolto. L’ultimo sguardo che mi rivolse mi diceva chiaramente di mettermi in salvo anche senza di lui. Ormai non potevo fare altro, non avrei mai fatto in tempo a tirarlo via o a distrarre il mostro prima che potesse prenderlo, quindi rispettai il suo volere correndo a perdifiato. Più delle altre volte.
Tornai a rinchiudermi in un armadio, quello dove prima era nascosto Takuro. Tremavo, e mi tenevo la testa tra le mani. Non ero riuscito a salvare nemmeno lui. Quella specie di condanna non voleva saperne di terminare, ed il tempo che scorreva non faceva che reclutarci ad uno ad uno tra le fila del mostro.
Ma a differenza di come era capitato a Takeshi, no, io non mi sarei mai lasciato sopraffare da tutto quello che stava succedendo. Dovevo andare avanti! Dovevo uscire! Fuggire! Era un tormento, un terribile supplizio che doveva assolutamente finire!
Presi a trattenere il fiato quando sentii la porta sbattere ancora una volta e il respiro affannato del mostro che mi cercava. Ci aveva messo del tempo, ma avevo sentito distrattamente i suoi passi concitati per il corridoio; non era stato da Takuro. Forse c’era ancora una possibilità. Mi aggrappai con tutte le mie forze a quella speranza mentre chiesi mentalmente al mostro di non trovarmi, e mi strinsi ancora di più le gambe al petto.
Sobbalzai silenziosamente quando il mostro aprì un’anta dell’armadio per vedervi nervosamente all’interno. Sbiancai. Tuttora non ho idea di quanto tempo passò a guardare l’armadio in quel modo, ma posso immaginare che fu molto meno dell’infinità che mi sembrò, perché sbatté altrettanto furioso la porta e se ne andò.
Capii dopo qualche secondo quello che era successo. Stringendomi ancora di più, avevo fatto appena in tempo a farmi abbastanza da parte da non risultare visibile da un lato dell’armadio; e a quanto sembrava ero stato abbastanza fortunato da stare dal lato giusto per scampare la mia cattura. Già, la fortuna era davvero dalla mia parte. Quando non sentii più niente, un po’ rassicurato da ciò che era appena successo, uscii ed andai a esaminare ancora il tunnel della porta nascosta.
Ma già appena entrai capii che Takuro non era più lì, e quella sottospecie di entusiasmo che avevo si spense come una candela intrappolata sotto un bicchiere di vetro. Non si sentivano altri rumori eccetto quello insistente della pioggia, che era diventata più violenta; andai fino in fondo a dov’era la scala, ma non trovai nulla. O meglio, quasi nulla.
Un nuovo lampo fece luccicare qualcosa vicino a dei pezzi di corda. Mi abbassai a vedere: era ancora un’altra chiave. Rispetto all’ultima che avevo trovato, quella della cella, questa era più sottile e chiara, anche meglio messa. La sua parte terminale era caratterizzata da un codice di serratura davvero complesso. Non poteva che essere il pass d’accesso all’ultima bloccata dell’edificio annesso.
L’uscio sul retro, nella stanza delle bambole.
Ancora un po’ disorientato dallo scoraggiamento di non aver trovato ancora il mio amico – la qual cosa mi spaventava e tranquillizzava allo stesso tempo, perché poteva significare sia che era riuscito miracolosamente a nascondersi di nuovo sia che era stato catturato e portato chissà dove – varcai nuovamente la soglia passata poco prima nella direzione opposta, e camminai a passo lento verso l’uscita della cantina, continuando a rigirarmi la chiave tra le mani, sovrappensiero.
Stavo ricordando lo sguardo di Takuro prima di scappare. Era uno sguardo così preso dal terrore e supplichevole che mi aveva fatto rabbrividire. E a fianco al suo volto, ricordai gli occhi fissi nel vuoto di Takeshi che penzolava dalla corda, l’espressione di Mika mentre cercavo di svegliarla nella stanza da letto e quella poco prima di trasformarsi in un mostro. Tuttavia, per quanto mi inquietassero e mi innervosissero, tanto quanto i pozzi neri che erano gli occhi del demone, questa volta non c’erano altri pensieri ad affollarmi la testa.
Niente.
Un silenzio assordante regnava nella mia mente, e contagiava anche l’esterno, che si fondeva con esso e diveniva quasi impossibile da distinguere. Non ero preso dai sensi di colpa, e non sentivo la mia coscienza rimproverarmi di non aver fatto abbastanza come prima. Non ero preso dallo spavento, e non udivo nessuna incitazione a sbrigare la mia fuga. Non ero preso dalla disperazione, e niente mi incitava ripetendomi che forse c’era ancora qualcosa da fare.
Assolutamente niente… finché qualcosa non ruggì alle mie spalle.
Il mostro, dopo aver lasciato la stanza in cui ero nascosto chiuso nell’armadio, non si era rassegnato ancora dal cercarmi come le altre volte. Aveva ancora i denti aguzzi digrignati, e la sua espressione mi parve ancora più alterata di prima. Inorridii e ricominciai a correre, col fiato smorzato dallo sgomento.
Arrivai ancora per primo alla stanza delle bambole. Spensi di nuovo la luce, ma lo stesso trucco non poteva funzionare due volte; non solo l’avevo già ingannato in precedenza in quella maniera, ma ora anche la lampadina avvitata sul corpo della bambola di legno continuava a segnalare la mia presenza lì.
Stavolta arrivai subito alla porta e feci scattare in fretta la serratura.
Fui sorpreso dalla pioggia non appena superai l’uscita dalla stanza: era un passaggio esterno.
Per prendere tempo, decisi di chiudere di nuovo a chiave la porta, e feci appena in tempo per sentire il tonfo del mostro che ci sbatteva contro per aprirla. Persi l’equilibrio cadendo all’indietro, ma subito mi rialzai nonostante il fango che mi faceva scivolare, lasciai la chiave e ripresi a correre. Ma poi rallentai il passo, fermandomi in mezzo all’erba della stradina segnata da quella specie di recinto di colonne che impediva la fuga, e guardai in alto.
A differenza di quando avevo guardato il cielo dal basso del tunnel celato, ora tutte quelle nuvole mi sembravano davvero pesanti. La pioggia batteva sulle mie spalle e sul mio corpo come se volesse spingermi di nuovo sottoterra. Il grigio imperava severo sopra di me, e mi condannava ad una nuova serie di enigmi che sapevo attendermi al terminare del passaggio esterno. Mi sentii come una marionetta in mano a qualcosa più grande e incomprensibile per una semplice mente umana, qualcosa che stava semplicemente giocando con una delle sue impotenti creature, le quali non potevano fare altro che abbassare la testa e accondiscendere a tutto ciò che veniva loro imposto.
Gridai preso dal furore contemporaneamente ad un nuovo tonfo proveniente dalla porta chiusa alle mie spalle.
Non l’avrei data vinta a quel cinico pianificatore che stava sogghignando da lassù, nascondendosi dietro le nubi sue serve che mi riferivano il suo messaggio: “Sei impotente, non puoi che continuare”, da perfetto codardo. E non l’avrei data vinta nemmeno a quell’obbrobrio che mi stava dando la caccia da ore.
Mi ripromisi che, una volta fuori di lì, avrei fatto di tutto per salvare i miei amici, o quantomeno vendicarli. Ormai parlare di assurdità in quella situazione era un vero e proprio paradosso; chi poteva confermare con sicurezza che non c’era rimedio a tutto quello che stava succedendo dopo essere stato perseguitato per un pomeriggio intero da un essere la cui esistenza andava contro ogni logica? Nessuno. E per quello sarei andato avanti.
Ripresi a camminare a passo deciso, ignorando gli ultimi colpi che il mostro diede alla porta prima che quella cedesse, ed ebbi accesso alla struttura successiva. Mentre iniziai a perlustrare le stanze che mi erano proposte dalla costruzione ripartendo per la terza volta da zero, sentii i mostri che si fermarono nel passaggio esterno. La mia direzione era ovvia, ma per qualche motivo che non compresi, smisero di seguirmi e non sentii più passi alle mie spalle. Ero di nuovo solo, e la solitudine rafforzò ancora di più il mio desiderio di uscire. Ma non era più un desiderio disperato. Era un desiderio ardente e irremovibile, carico di volontà, ma anche di fermezza e di sangue freddo. Ero determinato a porre fine a quell’incubo, e niente mi avrebbe smosso più.
Lo giurai di fronte alla madonna di una piccola cappella che scoprii al piano terra.
E tutt’oggi lo ricordo come se l’avessi fatto ieri, e vi manterrò fede fino alla morte.

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Capitolo 5
*** Takuro ***


Takuro

C’ero così vicino.
Così vicino.
Quando il demone si era limitato a toccarmi le spalle e le gambe, bruciandomi la pelle in alcuni punti, prima di inseguire Hiroshi avevo pensato davvero che me la sarei potuta cavare con qualche leggera scottatura. Qualcosa mi disse che anche Mika e Takeshi l’avevano creduto. Eppure non era così. Tutti e tre eravamo stati inghiottiti da quel mostro.
All’inizio non me ne ero accorto. Stranamente, al tocco di quella bestia la caviglia aveva smesso di far male, come se addirittura l’avesse risanata di proposito. Non riuscii a spiegarmi quell’avvenimento, ma il fatto di essere ancora vivo già mi aveva meravigliato abbastanza, quindi decisi di non dar troppo peso all’accaduto e di raggiungere di nuovo Hiroshi. Volevo anche farmi perdonare per aver perso l’occasione di fuggire da lì aiutandolo a risolvere gli enigmi, ma per quanto lo pedinassi lui non mi notava, ed andava molto più svelto di me. Sembrava molto più agguerrito e motivato di prima, quando correva con quella fretta disperata fino alla corda che poi scoprimmo distrutta. Ero sollevato per lui.
Riuscii a raggiungerlo solamente quando raccolse l’ultimo pezzo del quadro-puzzle che stava completando.
Detto in poche parole, sparsi per il terzo edificio c’erano dei pezzi di un quadro blu nascosti, e lo scopo di Hiroshi era trovarli e incastrarli in un quadro di un corridoio bianco, davanti ad una porta serrata, l’ultima. Il meccanismo avrebbe fatto scattare la serratura che finalmente ci avrebbe… no, l’avrebbe condotto alla libertà.
Ricordo che fu molto contento di rivedermi quando mi mostrai a lui, in una gabbia nascosta nei sotterranei, anche se lo feci sobbalzare. Mi aveva dato per spacciato a quanto pareva, e io ridacchiai. “Non mi arrendo per così poco”; gli avevo risposto qualcosa di questo genere. Ma sentii anche un’altra parte di me che continuava a ridere, sinistra. Non riuscivo a capire perché lo facesse, però una seconda volta ignorai la stranezza. Ero sicuro che lo stress di quella situazione impensabile mi avesse dato alla testa, e la cosa sarebbe stata pure normale per una mente umana.
Però non era così.
Gli stetti alle spalle seguendolo fino all’ultimo corridoio, e nello stesso posto stetti anche mentre stava per incastrare il pezzo.
Avevo notato che stranamente il demone non aveva impedito che il mio amico facesse tutto indisturbato. Certo, l’aveva ostacolato durante tutta la ricerca degli altri pezzi; però, mi chiedevo, perché proprio ora che era così vicino alla salvezza aveva gettato la spugna?
Ma alla vista di quel blu capii che era tutta una trappola. Avvertii qualcosa in me che cambiava e che mutava; percepii che la mia altezza stava cambiando, e che la testa cominciava a deformarsi, a farsi pesante, e a pulsare dolorosamente. Ebbi l’impulso di tenermela con le mani, ma qualcosa me lo impedì; riuscii solo a scoprire di essere diventato anch’io una belva dalla pelle blu dal colorito dei palmi e delle dita che fissavo, e dalla faccia atterrita di Hiroshi che scrutai in seguito.
Ci fu un lungo scambio di sguardi. Ero almeno tanto sorpreso e scoraggiato quanto lui, ma non credo che avrebbe potuto notarlo. Scoprii in seguito che anche la mia espressione era diventata muta e priva di emozioni, e così doveva essere stato anche allora; potevo ritrovare il vecchio me stesso solo scrutando a fondo il bagliore degli occhi, ma capivo che per le persone normali soffermarsi su quei pozzi bui era insostenibile, quindi alla fine tutti noi nuovi e vecchi mostri apparivamo semplicemente come statue scolpite dal diavolo.
Ma non sarebbe stato così, non per me! Non mi sarei arreso a quella nuova entità che voleva farmi diventare una bestia assassina, mi sarei ribellato! Questi erano i miei pensieri mentre gli stavo di fronte, finché non vennero bruscamente interrotti da un sussurro.
“Perché mi hai tradito anche tu…”
Tradito… Quella parola mi toccò nel profondo.
No. Non l’avevo affatto tradito.
Si svegliò in me la forza di bloccare quella sorta di metamorfosi, e rimasi cosciente. Udii nella mia mente la bestia urlare come un ossesso, un grido satanico che sembrò distruggermi le orecchie, ma io ero deciso a tener testa a quella tortura. Cosa che probabilmente fece inferocire il demone che tentava di prendere possesso del nuovo corpo ed avere momentaneamente la meglio su di me.
Vidi Hiroshi che cominciava a correre via, e il mostro lo rincorse. Potevo percepire le sue intenzioni e i suoi pensieri, come se fossi diventato una cosa sola con quella mente raccapricciante, come se fossimo costantemente collegati in una conversazione telepatica, sebbene lui non mi desse per niente retta a parte dei momenti di compiacimento.
Non gli permetterò di diventare come me. Quella preda merita la morte per avermi sfidato e respinto così a lungo!
Avevo l’impressione che il mio corpo andasse leggermente più veloce di tutte le altre bestie. Forse la frustrazione della mia anima gli stava dando una forza maggiore, oppure era la volontà di reprimermi che avevano avuto anche gli altri mostri con Takeshi e Mika? Non lo sapevo, ma continuai a combattere la mia battaglia, distraendomi dal presente.
Quando finalmente vinsi sulla tenacità dell’intruso nel mio corpo smisi di camminare e mi guardai intorno. Mi resi conto che Hiroshi non c’era più, e che ero finito nel corridoio principale al piano terra dell’edificio. C’erano Mika e Takeshi che stavano osservando la scena, ma nei loro occhi non leggevo più niente che appartenesse ai miei amici. La cosa mi infervorò ancora di più, anche se non riuscii a comunicare anche con loro, né a dire una sola parola. Quel corpo non conosceva più la parola, a quanto pare… Ma finché ero ancora in grado di muovermi, ero convinto che non tutto fosse perduto.
Li guardai con uno sguardo tanto intenso che vidi sobbalzare leggermente i loro corpi. Chi lo sa, magari in qualche modo ero riuscito ad esprimere il mio disappunto per la loro arresa? Volevo dir loro tante di quelle cose… Prima di tutte, che un nostro caro amico ancora stava combattendo per la sua vita, quindi anche se fosse stato il nostro ultimo atto prima di svanire nel nulla della manipolazione di quel demone, l’avremmo dovuto aiutare.
Vidi che anche nel profondo dei loro occhi qualcosa cominciò a vacillare. E sollevato, vidi che entrambi si voltarono e se ne andarono, rassegnati al non voler inseguire ancora l’albino.
Ora però avevo un’altra cosa da fare.
Diedi anch’io loro le spalle quando sparirono dietro l’uscio che conduceva al passaggio verso l’edificio annesso alla villa, quindi mi affrettai a raggiungere la cappella e a scendere le scale, quindi a percorrere il corridoio bianco e uscire dalla porta, ormai sbloccata.
Dovevo far capire ad Hiroshi che ero ancora io nonostante fossi stato catturato.
Dovevo fargli capire che avevamo bisogno d’aiuto, e che non potevamo essere abbandonati in quel modo; doveva esserci una soluzione anche per noi!
E soprattutto… dovevo fargli capire che non l’avrei mai tradito. Mai.
Il nuovo corridoio in cui mi trovai procedeva verso est, ed era simile al resto del sotterraneo se non fosse per una rampa di scale che portava all’esterno. Il rumore di pioggia era terribilmente forte, e sembrava richiamare il ragazzo, che si avviava verso di essa per le scale. Gli andai dietro, ma quando lui si accorse di me accelerò il passo. Così feci anch’io, e il rumore pesante dei miei passi sovrastò il suo.
Fummo fuori. Delle gocce mi colpirono gli occhi e mi accecarono per qualche secondo mentre l’altro correva a perdifiato contro il cancello aperto, ma non mi diedi ancora per vinto, sebbene ormai avessi capito che non c’era più nulla da fare.
Il sollievo per il salvataggio del mio amico fu sovrastato da un’angosciante sensazione di rimpianto. Rallentai, quindi mi fermai di fronte all’uscita dal labirinto, abbattuto. Sentii il sorriso statico della consueta espressione del mostro afflosciarsi insieme a me. Hiroshi diventava sempre più lontano tra gli alberi della foresta, e si voltò una sola volta prima di sparire, fissando la mia figura immobile a guardarlo.
Sentii i capelli incollati al mio viso, e la coda bassa che mi pungeva fastidiosamente la schiena nuda. Diversi rivoli di pioggia scendevano lungo le mie gambe e il mio busto senza accennare a fermarsi, e così correvano giù lungo la schiena, lungo le braccia e lungo il mio viso.
Alla pioggia si unì una sola mia lacrima, che subito si disperse.
Era davvero…finita?

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo

Il ragazzo albino fu una delle poche persone se non l’unica che uscì viva da quella villa maledetta.
Quando tornò era sotto shock, e non riuscì a raccontare cos’era successo tra quelle mura o ai suoi amici. Le uniche volte che parlò disse solamente frasi sconnesse che accennavano ad un mostro, al blu, a qualcosa di spaventoso e malato; quando invece si accennava ai suoi amici spariti, in particolare, non osava dire parola, e semplicemente impallidiva e se ne andava. Si diceva che avesse intenzione di tornare in quel luogo una volta che sarebbe stato pronto.
E quella prontezza arrivò dopo la quinta sparizione.
La quinta vittima di quel luogo si ebbe due anni dopo la prima visita dei ragazzi: era un operaio, un uomo alto e grassoccio, che durante la pausa pranzo si era allontanato dal campo di lavoro non si seppe mai per quale motivo. Certo fu che il posto dove si diresse fu il maniero abbandonato, perché ore dopo il suo allontanamento dal cantiere i suoi colleghi trovarono fuori al cancello il suo copricapo giallo rovesciato sopra la maglia arancione e la salopette di jeans, sporche di polvere e di uno strano liquido blu non identificato, squarciate in più punti come se fossero state tirate al punto di strapparsi. Uno spettacolo raccapricciante che Hiroshi però si costrinse a vedere.
Superata l’area controllata dalla polizia locale per non far accedere i curiosi all’area sotto indagine, ovvero il cortile esterno all’abitazione, un tardo pomeriggio estivo il ragazzo si recò una seconda volta alla villa passando per il bosco, lungo la stessa strada per cui aveva corso con il suo gruppo tempo prima. Il colore blu della salopette che scavalcò per passare risvegliò in lui quei tremendi ricordi che l’avevano tormentato fino ad allora: la trasformazione di Mika, gli occhi vuoti di Takeshi impiccato, lo sguardo implorante di Takuro. Ma ora, seppur col batticuore, sapeva a cosa andava incontro. Sapeva che il mostro non aveva nessun potere particolare, se non quello di pietrificare con un solo sguardo dal terrore, ma ormai lui conosceva quell’aspetto. E non si sarebbe fatto prendere nemmeno stavolta.
Entrò nell’edificio, e quando si richiuse la porta alle spalle sentì quel leggero “tic” che indicava la serratura dell’ingresso. Rimase con la mano sulla maniglia per pochi secondi; tentò anche di aprire, ma come poteva aspettarsi, la porta non scattò. Passarono diversi secondi prima che si convincesse a rigirarsi e a riscoprire quell’ingresso.
I colori del crepuscolo donavano ai corridoi un’atmosfera tanto più calda quanto più sapente di morte. Una morsa di terrore gli strinse lo stomaco, ma resistette, costringendosi ad avanzare verso quella che ricordava essere la biblioteca. Quando provò ad aprirla, nessun blocco fece resistenza, quindi spalancò l’uscio ed entrò lasciandolo aperto.
La luce penetrò solo fino ad un certo punto, limitata dagli scaffali, ed illuminò solo la parte della stanza più prossima all’entrata. Seguì i raggi che entravano fino alla scrivania, e prima di questa osservò le finestre sulla parete dall’altra parte della sala, ovviamente chiuse. Non si sorprese di trovarle sbarrate; per il mostro non potevano che essere un vantaggio, dopotutto.
Toccò con una mano il dorso di un libro che aveva davanti; spostò la sedia per farsi più vicino, quindi passò sfiorando le superfici con le dita su un altro libro aperto. Sentì che delle pagine erano rialzate, e la curiosità lo spinse a spostarle per vedere cosa nascondevano. Immaginava che ci fosse una chiave o qualcosa del genere per ricominciare la serie di rebus, ma invece di ciò trovò un foglietto ripiegato più e più volte, appiccicoso di blu, ma su cui ancora si distingueva la scrittura.
L’albino spalancò gli occhi. Era datato, segnava il giorno di fine autunno della loro prima visita. E quella scrittura apparteneva a Takuro.
Quasi contemporaneamente a quando riconobbe la calligrafia dell’amico, un passo pesante interruppe il silenzio della stanza, fu seguito da altri rumori identici, ed infine da respiri profondi. Hiroshi si costrinse a mantenere il sangue freddo, e si voltò solo dopo qualche secondo, quando i passi cessarono.
Le figure che l’osservavano a prima vista erano tre. In quella penombra che regnava fino alla seconda serie di scaffali prima di diventare totalmente buio, si poteva notare che in fondo agli occhi avessero un bagliore giallastro, sinistro sì, ma tremolante in modo insicuro. Ancora prima che si esponessero un po’ di più alla luce, Hiroshi capì che si trattava dei suoi amici. Il suo cuore cominciò a battere nuovamente in modo accelerato, percorso da una marea di emozioni che partivano dalla rabbia e dal non aver ancora accettato quel loro stato alla nostalgia per i vecchi tempi della scuola. Tuttavia non mostrò un solo segno di cedimento, e cominciò a sussurrare.
“Amici miei…”
Uno dei tre bagliori tremolò ancora di più, e la figura a cui apparteneva si fece avanti. Era Takuro, lo si poteva riconoscere dalla coda che aveva ancora intatta da quel giorno. Sembrava cosciente, e sebbene non rispondesse niente sembrava tanto contento quanto allarmato di vederlo lì.
Lo seguirono le altre due figure, prima quella di Mika, poi di Takeshi, ma rimasero vicino allo scaffale da cui erano sbucate senza allontanarsi di un solo passo. Intuendo che Hiroshi era stato riconosciuto, l’albino si lasciò sfuggire un sorriso incerto prima di continuare a parlare, inspirando ed espirando a fondo per mantenere la calma di sempre.
“Non vi ho abbandonati qui e non vi abbandonerò. Abbiate pazienza, riuscirò a liberarvi.”
I volti dei mostri che erano diventati gli ex compagni di Hiroshi sembrarono sorridere, animati da un nuovo barlume di speranza, ma non durò nemmeno un secondo prima che il bagliore di tutti si mosse ancora.
Un quarto paio di lumi cremisi comparve in fronte alla stanza, fissando il ragazzo con sguardo assassino.
Era il demone principale, che stava costringendo i ragazzi a farsi da parte per far emergere il lato cruento e demoniaco dei loro nuovi istinti. Hiroshi avrebbe potuto riconoscerlo dovunque, e sì, stavolta fu scosso da un evidente brivido, che scese lungo la schiena e risalì sentendo un grugnito grottesco dall’angolo.
Attimi di tensione, e nessun movimento.
Gli occhi del mostro non sembravano curarsi di quella indecisione dei suoi simili, che fissavano un punto nel vuoto immobili come statue, combattendo contro la tirannia del loro aggressore. Erano puntati su Hiroshi come laser di fucili, e lo stavano uccidendo con lo sguardo; lo stavano mangiando ed azzannando con l’immaginazione, con un desiderio talmente morboso e vivido da sembrare palpabile. In confronto, quelli fermi e dotati di una sicurezza sempre più barcollante dell’albino non erano niente.
Hiroshi non avrebbe saputo dire quanto tempo durò quella sorta di stallo, ma all’improvviso anche Takeshi ringhiò. Aveva ceduto, e quel cedimento fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Anche Mika perse possesso del suo corpo, diventando minacciosa, e fu la prima a fare passi avanti, ma non superò Takuro e si bloccò ancora. Hiroshi prese istintivamente il biglietto di Takuro e se lo mise in tasca, quindi prese la sedia dallo schienale e l’alzò leggermente come per usarla a mo’ di arma da difesa.
Il ragazzo con il codino fu l’ultimo a demordere. Ancora una volta, comunicò con l’amico attraverso lo sguardo, ed Hiroshi lo capì al volo.
Sappiamo che manterrai la promessa, ma ora scappa.
Come se lanciasse un urlo di guerra, il demone per eccellenza scattò all’inseguimento. Hiroshi trasalì, ma rimase abbastanza lucido da afferrare la sedia e scappare in cucina. Se lo sentì a un passo da sé mentre raggiungeva il corridoio opposto a quello che portava alla cucina, il corridoio ovest, e sentì anche i passi degli altri dietro di lui. Si sentì male per loro all’idea di essere oppressi e usati per scopi altrui, e come se non bastasse anche malvagi.
Purtroppo per lui, la sedia gli rallentava la corsa, ma la stringeva senza mollarla, sicuro che sarebbe potuta servire a qualcosa. Quando si diresse verso il bagno, sentì la porta sbattere, come se ci fosse stato un colpo di vento; ma un secondo rumore lo indusse a pensare che un altro mostro stesse tentando di sfondarla per chiudergli la strada.
Sfondare.
L’idea gli balzò in mente come un lampo, e senza pensarci alzò i piedi della sedia di legno e la buttò con tutta la forza che aveva contro la finestra. Sebbene un tempo fosse sbarrata, ormai il tempo aveva rovinato le sbarre di ferro, ed ora era possibile passare senza problemi. Il mostro dietro di lui ruggì irato per la via di fuga, ma non fece in tempo ad acciuffarlo prima che l’intruso saltasse fuori attraverso i vetri rotti.
Alcune schegge ferirono il viso e le braccia di Hiroshi durante la rottura del vetro, ma lui sopportò, riprendendo a correre a perdifiato. Piccolo déjà vu: gli sembrò la stessa scena desolante di quando si lasciò Takuro alle spalle, all’uscita dal terzo edificio.
Ancora una volta fuggì solo, però questa volta c’era qualcosa di diverso: un indizio, che esaminò a casa con calma prima di mettersi a dormire. Era così contento di aver ottenuto qualcosa di così importante… quella era la vera prova che c’era ancora speranza per i suoi amici. Però non aveva idea di che genere di prova fosse.
 
Ero steso a pancia in su con una gamba piegata e il biglietto tra le mani, ancora gli occhiali sul naso, e la lampada al neon che avevo sul comodino accesa per far luce sulla carta. Erano le tre di notte, ma non riuscivo a prendere sonno in alcun modo. Ero curioso di vedere cosa avesse scritto Takuro quel giorno, di capire quando l’aveva scritto di preciso, ma soprattutto il contenuto del suo messaggio.
Staccando delicatamente il collante, aprii completamente il foglio, quindi cominciai a leggerlo.
La prima parte raffigurava proprio lo stesso Takuro che conoscevo prima di entrare in quel luogo. Altruista, positivo, sincero. Sembrava che a parte la forma del suo corpo non fosse cambiato niente di lui, quindi quasi mi sentii in colpa per averlo lasciato lì. Mi morsi il labbro verso la metà del suo scritto, però quando arrivai a metà di quella che era una vera e propria lettera qualcosa cambiò radicalmente. La scrittura si deformò tutto ad un tratto, e qualche macchia di penna interruppe una frase del mio amico, che non venne più conclusa. Andò a capo, e da lì la scrittura deformata continuò a scrivere.
Spalancai gli occhi. Era il suo stesso demone.
Lessi ascoltando il rumore dell’orologio appeso alla parete, il mio respiro ed il mio battito che componevano una melodia inquietante nelle mie orecchie, le quali si sforzavano di udire qualcosa oltre il silenzio che non sopportavo. Dovevo avere gli occhi spalancati, perché dopo un po’ presero a bruciare.
Quando abbassai il biglietto, lo divisi a metà d’impulso, accartocciai la seconda parte e lanciai tutto via.
Non seppi nemmeno dove i due pezzi di carta andarono a finire, lì per lì; mi accorsi solo la mattina dopo che erano al centro del pavimento, uno sopra l’altro, come se strappare la carta non fosse stato abbastanza per dividere i due scritti. Spensi la luce e mi voltai su un fianco, verso il muro, poggiando la fronte contro il muro.
Non riuscii a prendere sonno per un sacco di tempo, e il passare dei minuti e delle ore mi sembrò così indistinto e irreale da darmi l’impressione di aver dormito tre ore ma allo stesso tempo dodici ore.
Non riuscivo a non pensare all’ultima parte.
A quelle parole.
A quella violenza con cui erano state scritte.
Ma soprattutto, a quella firma blu che occupava un angolo della carta.
 
 
 
“Non posso ancora credere che sia successo tutto questo.
Scrivo a te, Hiroshi, che ora sei salvo al di fuori di quei cancelli. Io, Takeshi e Mika siamo intrappolati. Siamo ancora tutti qui! Il mostro ci controlla, ma noi non ci arrendiamo e ti aspettiamo, sperando di essere venuti a prendere al più presto. Sappiamo che tornerai, perché tu sei sempre stato il nostro leader. Però abbiamo un solo desiderio che scrivo a nome di t—(illeggibile)
 
Non vediamo l’ora che torni, Hiroshi. Ci stiamo divertendo tutti un mondo, qui. Di recente è anche venuto un altro ospite a farci visita, quindi nemmeno soffriamo la solitudine, anzi: è fantastico quando qualcuno entra nella villa e si ritrova chiuso dentro. Speriamo che tu ci raggiunga; così, anche se avremo questi aspetti demoniaci, potremmo vivere le nostre vite da ragazzi senza preoccupazioni, per sempre.
Nei tuoi sogni…
L’Ao Oni ti aspetta.”

 
 
NOTE FINALI DELL’AUTRICE:
 
Finitooo! E’ la prima fanfic che riesco a concludere qui, ne avrò cancellate almeno un paio tempo fa! Mi sento realizzata, contenta! Talmente gasata che probabilmente comincerò a scrivere subito qualcosa di nuovo, magari ancora ispirandomi a cose già esistenti prima di muovermi da sola con una storia tutta mia. Ora come ora sono innamorata delle creepypasta sui Pokémon, anche se sono dei traumi terribili; di sicuro, prima o poi pubblicherò qualcosa su Lost Silver e Easter Egg – Neve sul Monte Argento.
Spero che sia piaciuto il finale x3 Mi è venuto in mente ripensando ad una ricerca che ho fatto su Tumblr tempo fa, la cosa che mi ha convinto a scrivere questa fic. Era una lettera di Takuro simile a questa. Pensavo fosse perfetta per concludere.
Beene, detto ciò direi che posso pure smetterla di sproloquiare a vanvera. C: Alla prossima!
P.S.: sentitevi liberi di esprimere giudizi anche negativi o di segnalarmi qualche errore. Ce la metto tutta per scrivere al meglio, ma sono umana – e ragazzina – anch’io, quindi chiedo venia >u<’
Bye bye~

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