Nobody said it was easy

di Noth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nobody said it was easy. ***
Capitolo 2: *** No one ever sad it would be this hard. ***
Capitolo 3: *** I'll take you back to the start. ***
Capitolo 4: *** Come up to meet you. ***
Capitolo 5: *** Tell me your secrets. ***
Capitolo 6: *** You don't know how lovely you are. ***
Capitolo 7: *** I have to find you. ***
Capitolo 8: *** Tell you I need you. ***
Capitolo 9: *** And tell me you love me. ***
Capitolo 10: *** I was just guessing at numbers and figures. ***
Capitolo 11: *** Come back and haunt me. ***
Capitolo 12: *** Heads are a science apart. ***
Capitolo 13: *** Chasin' our tails. ***
Capitolo 14: *** Easy was it said nobody. ***



Capitolo 1
*** Nobody said it was easy. ***


Nobody said it was easy.
-Capitolo 1-







“Dov’è mio figlio?”
“Non temere, figliolo noi… troveremo una soluzione. Tu non andrai all’inferno.”
“Devi essere forte, non è colpa tua, guarirai, vedrai che tornerai etero come prima.”


Non riuscivo a smettere di pensare a quelle frasi, mi si erano impresse nella pelle, memorizzate al punto che avrei potuto ripeterle per filo e per segno lasciando che mi consumassero il cuore. Il mio coming out non era andato come previsto. Mia madre aveva iniziato a singhiozzare e, Dio, non c’era nessun suono paragonabile a quello. Mi frantumava il cuore. Mio padre si era alzato, aveva camminato avanti e indietro per qualche minuto, aveva imprecato, aveva alzato la voce, mi aveva chiesto come fosse successo, e non avevo saputo rispondere. Mi piacevano i ragazzi, era così, semplice come nascere, respirare ed amare. Nessuno mi aveva insegnato ad amare, avevo semplicemente amato ciò che percepivo come giusto.

Sentivano che qualcosa non andava in me, credevano fosse colpa loro e decisero per il loro figlio. Come sempre. Decisero che sarei guarito, in un modo o nell’altro, perché quella schifosa omosessualità era una malattia ed andava estirpata dal mio corpo malato ed infetto. Sarei tornato normale, e loro mi avrebbero amato come prima.

Ero un mostro.

Mi avevano portato ad odiarmi.

Ero un qualcosa di sbagliato.

In un certo senso volevo restarlo, ma le mie proteste non furono accolte e mi mandarono nella clinica di St. Louis, specializzata nella cura dell’omosessualità.

Avrebbero dovuto guarirmi, ma le cose non andarono come sperato. Affatto, perché lì conobbi Kurt.

 
 
 
La mia stanza era di un’anonimità terrificante. Pareti bianche, un tavolino bianco, un pavimento di legno bianco, uno sgabello bianco, un quadro raffigurante della neve e una finestra dalla quale entrava la luce del sole che, riflettendo su tutto quel bianco, diventava accecante.

Ero arrivato la sera tardi, quindi ero stato mandato in stanza senza troppe cerimonie, mi avevano spiegato delle cose che ero troppo stanco per ricordare e
mi ero svegliato quella mattina in un letto sconosciuto, in una stanza oltremodo luminosa e solo. Vuoto. Sbagliato. Errato. Abbandonato.

Erano le otto, e ricordavo qualche spezzone di istruzioni datemi la sera precedente. Svegliati, mettiti i vestiti che troverai nell’armadio, è la divisa degli internati. Scendi e fai colazione, poi vai in segreteria e ti daranno un programma.

Quella era una vita da robot senza sentimenti. Chissà cosa pensavano di noi tutti quei medici. Chissà che credevano. I loro sguardi freddi ed affilati erano
una tortura. Mi sentivo sempre sotto processo, ma che avevo fatto di così sbagliato? Non credevo che mai sarei stato punito per essermi innamorato.

Indossai una semplice t-shirt bianca e dei pantaloni troppo larghi per me che mi scendevano fastidiosamente lungo i fianchi sempre dello stesso orrido colore che rendeva tutto schifosamente banale e uguale.

Volevano uniformarci. Renderci una cosa sola, unica, completa, giusta, corretta. Normale.

Uscii in corridoio, i capelli spettinati tanto che mi importava di sembrare qualcuno che non ero? Di migliorarmi? Di non fare schifo? Ero già un qualcosa di
terribilmente sbagliato ed orrendo, quindi.

Scesi le scale assieme ad una decina di altri ragazzi. Quanti eravamo là dentro? Venti? Trenta? Tutti in una volta sola? E volevano guarirci? E inoltre, era
possibile guarire?

Mi trovai dinanzi ad un’altra enorme stanza bianca, dove una trentina di persone vestite tutte identiche si prendeva la colazione su un vassoio di plastica con una tazza sbeccata sopra.

Preso il mio e mi misi in coda. Il ragazzo davanti a me era appena più alto di quanto fossi io, con capelli castano chiari incredibilmente in piega per essere
internato in quella prigione. Guardava tutto con un’aria assente, gli occhi cerulei fissi in un punto lontano. Sembrava un ragazzino, non adatto a quel luogo,
anche se non è che io fossi molto diverso da lui.

La fila si smaltiva in fretta e, al banco, delle donne dalle facce completamente inespressive ti davano delle tazze con del caffè e un paio di biscotti dal colore
poco invitante. Ci sedemmo in ordine di arrivo, quindi capitai di fronte al ragazzo che stava davanti a me nella fila. Era impossibile non notarlo, anche in
mezzo a tutti quei corpi identici. Era luminoso, brillava, o meglio pareva portare il ricordo di un antico bagliore. Gli internati erano divisi a gruppi, un po’ per età e un po’ per tavolata. Alcuni stavano soli, e sembravano veramente infelici.

Io ero triste, ero arrabbiato ma, più di tutto, detestavo me stesso. Non volevo finire isolato per il resto della mia vita, così mi costrinsi a dire qualcosa al
ragazzo seduto di fronte a me.

Non sapevo come iniziare.

« Sono Blaine. » dissi, senza far capire che parlassi direttamente con lui, infatti non rispose, così mi schiarii la gola.

Lui alzò appena lo sguardo, non particolarmente attento. Pareva essere nel suo mondo, chiuso da chiunque volesse entrarci dall’esterno.

« Sono… Blaine. » ripetei, intingendo uno di quei biscotti sabbiosi nel caffè sbiadito ed arrossendo come un ingenuo.

« Sono gay, non sordo. » rispose, muovendosi a disagio sulla sedia.

Che caratterino. Avevo beccato il più simpatico del gruppo, perfetto, fortunato come sempre. Non avrei dovuto cedere alla voglia di interagire, al bisogno di
parlare, di aprire la bocca e semplicemente avere una conversazione normale, avrei dovuto stare zitto come avevo progettato dall’inizio. Mi misi a fissare il color fango del caffè dinanzi a me, dimenticando ogni cosa e con la sensazione nauseante che la giornata fosse partita col piede sbagliato. Tutto quel bianco mi metteva a disagio, tutto quel pulito, tutta quella luce… come se noi fossimo stati sporchi. E pagavamo pure per essere lì.

« Comunque io sono Kurt. » disse poi, il viso una maschera impenetrabile. Mescolava il suo caffè senza prestarci particolare attenzione. Pareva essere sempre troppo assorto per fare caso a tutto ciò che gli accadeva intorno e mi domandai da quanto tempo fosse lì, se stesse guarendo.

Forse avrei dovuto chiederglielo.

« Io… sono nuovo qui. »

Kurt annuì e non mostrò il minimo accenno di sorpresa.

« S’era notato. »

Deglutii il biscotto sabbioso e insapore. Mi lasciò un sapore amaro in bocca.

« Da cosa? » domandai, chiedendomi se la sua acidità fosse normale o se risultassi davvero così sgradevole da rendere detestabile l’idea di una
conversazione.

Il chiacchiericcio nella sala era pacato e privo di emozioni. Riecheggiava sulle pareti bianche della stanza distorcendosi paurosamente.

Kurt fece spallucce.

« Ti guardi ancora attorno come se tutto questo bianco volesse mangiarti. Osservi gli altri internati e ti domandi se siano guariti. Hai quello sguardo
sgomento che hanno tutti, i primi giorni. »

Mi scottai la lingua mentre bevevo e cercai di non darlo a vedere.

« Poi diventa come il tuo? »

Lui fece un verso scettico, sospirando.

« Non devi per forza essere un caso disperato come me. »

« Esistono dei casi disperati? »

Lui annuì, abbassando lo sguardo e cercando di non sorridere.

« Sono più malato di quanto non sembri. »

Mi morsi il labbro inferiore. Kurt non aveva idea di quanto fossi disperato. Chissà se anche lui si odiava, se si sentiva in colpa, solo, sporco, sbagliato, pazzo, escluso, obbligato ad omologarsi ad una massa che non riusciva a rispecchiarlo, una delusione per tutti a partire dai suoi genitori, un errore.

Quella sensazione era come una bestia oscura annidata dentro di me, che montava come rabbia, triplicandosi ad ogni respiro. Consumava ed inghiottiva ogni cosa, sempre più presente.

« Senti, vedo che sei molto impegnato, ma se tu mi spiegassi come vanno le cose qui, sarebbe fantastico. » borbottai, non sapendo come etichettare lo
sguardo che mi lanciavano i suoi occhi dal colore così mutevole. Erano davvero grandi, e mi guardavano criptici.

« Stai zitto. Dagli ragione. Fai come ti dicono. Soffri in silenzio. Non legare con nessuno. Sii normale come loro vogliono. »

Deglutii.

« Cosa mi faranno? »

Kurt stette zitto, mordendosi un labbro fino a che non divenne bianco, ed infine mi inchiodò con lo sguardo ed abbassò la voce, quasi sibilando.

« Ti uccideranno. Ti impediranno di essere te stesso e te lo faranno odiare. »

Feci un sorriso amaro, e guardai altrove.

« Per questo non c’è pericolo, mi odio già. »

« Dicevo così anche io. Fidati, non c’è mai fine all’odio per se stessi. » sussurrò, tanto a bassa voce che credetti di essermelo immaginato. « Ora alzati e metti
via tutto. Poggialo sopra il tavolo. È il momento della sedia elettrica. » disse, e mi oltrepassò sparendo in mezzo agli altri internati tutti identici.

Prima o poi, magari, avrei iniziato a distinguerli. Per ora, per quanto fosse strano, l’unico con il quale volevo avere a che fare era quel ragazzo silenzioso con
il quale avevo appena parlato.

C’era qualcosa di pericolosamente affascinante in lui. Qualcosa che mi diceva di non lasciare che mi passasse davanti agli occhi come niente fosse.

Non lo avevo deciso io, fosse stato per me avrei ignorato di sana pianta ogni essere vivente in quell’edificio, ma la verità era che ero terrorizzato all’idea di
rimanere solo.

I paramedici batterono le mani due volte, ce ne erano tre all’entrata di quella che avevo ormai identificato come la mensa, e ci indicarono di seguirli con un
sorriso che non mi rassicurava affatto. Mi sentivo un coniglio in gabbia, Kurt aveva parlato di una sedia elettrica, ed io volevo solo uscire da lì. Scappare.

Trovare la mia libertà, essere chi ero, amare chi volevo senza dover essere obbligato a uccidere una parte di me.

Perché mamma e papà mi avevano fatto quello? Ed io perché glielo avevo permesso? Ah, già, non avevo avuto scelta.


 
Ci condussero tutti davanti a delle porte, bianche come sempre, con una maniglia argentata e ci fecero entrare a turno. Non capivo cosa stesse succedendo, forse io avrei dovuto fare qualcosa di diverso da loro, effettivamente non ero ancora andato in segreteria a chiedere informazioni più dettagliate, ma tutti si erano alzati, ed avevo convenuto fosse il caso di imitarli.

Da dentro le porte qualche volta provenivano sei singhiozzi sommessi, e mi domandai se li stessero picchiando, se parlassero con uno psicologo di argomenti particolarmente dolorosi, ma non riuscii ad avere la risposta.

Kurt era nella fila accanto alla mia, si stringeva le braccia attorno al petto e pareva volersi arricciare su se stesso pur di non dover oltrepassare quella soglia.

Si sentì osservato ed alzò lo sguardo. Mi fissò con compassione, forse rendendosi conto che per me era la prima volta. Il primo giorno. Il primo tutto.

Era il mio turno e continuavo a fissarlo fino a che lui sillabò: “Non piangere.” Non capii a che si riferisse, finché non entrai e chiusero la porta alle mie spalle.

Davanti a me c’erano due medici ed un proiettore. Da esso diverse immagini di uomini nudi scorrevano sul muro bianco, dinanzi a una sedia. Accanto ad
essa delle pinze collegate ad un macchinario.

Sedia elettrica.

Cominciavo a capire.

Mi veniva già da piangere.






















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Spazio autrice:
Eccomi qua con questa nuova long in cui prometto molto angst, molto fluff e fin troppa Klaine.
Sono abbastanza documentata sull'argomento essendo molto legata alla faccenda.
In ogni caso spero che vi piaccia, spero sempre che ciò che scrivo faccia breccia nel cuore di qualcuno.

Voglio dedicare questo capitolo a El, Marta, Assunta, Martina, Sofia, Ilaria, Giulia, Bianca, Dorica, Luigi, Maria e un sacco di altre persone nel gruppo YKMN.
Vi voglio bene, grazie per il sostegno.

E grazie a voi che avete iniziato a leggere.

vostra,
noth.

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Capitolo 2
*** No one ever sad it would be this hard. ***


Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 2-








Dolore. Era tutto ciò che percepivo, mi scuoteva nell’intimo e faceva davvero male. Partiva dall’inguine fino ad arrivare a tutti i recettori del corpo, delle scosse continue, violente, che stavano logorando i miei nervi. Mi avevano spogliato, posizionato su quella sedia bianca, stretto i polsi con dei legacci e fissato le caviglie alle gambe di legno con delle cinghie. Da lì, avevamo trafficato con le pinzette, piazzandomele soprattutto sull’inguine e sul petto.

Non pensavo che il dolore potesse essere così forte, ma la cosa peggiore era come mi sentivo dentro. Ad ogni foto che passava nel proiettore, corrispondeva una scossa. Dentro di me si accentuava l’idea dell’errore. Che avevo fatto per meritare quel trattamento? Ero così malato? C’era bisogno di così tanta violenza per guarirmi?

Il sudore mi colava lungo il petto, sulla schiena e sulla fronte.

Dovevo odiare ciò che amavo. Non doveva piacermi. Se lo avessi fatto il dolore si sarebbe fermato.

Sentii le lacrime salirmi agli occhi, bruciavano come se stessero scavando in profondità. Degli artigli mi bucavano dall’interno, tutto ciò che ero si stava facendo a pezzi. Ero un internato, un malato, un pazzo.

Sì, ma sono nato così.Mi lamentai, e le lacrime presero a scorrere sul mio viso. Kurt aveva detto di non farlo, lui mi aveva pregato di non piangere, ma era
troppo tardi, non c’ero riuscito. Mi sentivo un verme. Mi sentivo miserabile. Avevo paura e faceva male.

I due medici nella stanza con me si lanciarono un’occhiata complice, ed uno dei due prese una specie di strofinaccio. La vista mi si era annebbiata, quindi non capivo cosa stesse succedendo, sembrava che il mondo stesse sfuggendo al mio controllo e, oramai, cercavo di evitare di guardare le foto che mi scorrevano davanti. Non volevo guardare se significava soffrire.

Uno degli uomini mi strinse la mascella e mi obbligò a fissare lo scorrere continuo di tutti quegli uomini, la loro pelle, i loro occhi, i loro capelli… e non potevo non guardare. Poi mi prese la testa e me la abbassò, in modo che potessi guardare le immagini e lasciare la schiena in bella vista.

E fu allora che gridai. Iniziarono a colpirmi più volte con lo strofinaccio, che graffiava e bruciava. Gridavo, ma non potevo muovermi. Ero fermo, anche se la mia schiena stava andando a fuoco. Le scosse non terminavano, le lacrime scorrevano sempre più copiosamente, la mascella mi faceva male e la schiena era così scorticata che oramai vedevo rosso.

Fu il quarto d’ora più lungo della mia vita. Quando i medici finirono di torturarmi non riuscivo a reggermi sulle gambe, e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era: perché?

Mi dissero di alzarmi, e giuro che ci provai, ma mi tremavano troppo le caviglie e le ginocchia per farlo. Inoltre ad ogni movimento la schiena mi andava a fuoco.

« Questa è stata la sua prima seduta. Ci dispiace vedere che ha pianto, signor Anderson, deve essere forte. La debolezza è una via per il vizio e il cedimento.
La debolezza va di pari passo con la sua omosessualità. Sia forte, e vedrà che guarirà presto. » fece una pausa ed alzai appena la testa, a scatti, per guardare
negli occhi i miei carnefici oltre i ricci sudati che mi cadevano sulla fronte. Non vi era nessuna emozione nel loro sguardo, e mi domandai se seguissero un corso per restare impassibili di fronte alle sofferenze altrui. Forse, però, a pensarci bene non ci vedevano nemmeno come umani. Forse eravamo solo degli scherzi della natura che loro si divertivano a raddrizzare, a correggere. « Ora, signor Anderson, prenda i suoi vestiti e vada nella classe di Educazione. Secondo i programmi dovrebbe essere una lezione particolarmente interessante. Oh, e speriamo che abbia già consegnato i suoi effetti personali contaminanti in segreteria al suo arrivo, se non l’ha fatto è pregato di andare al più presto, o al prossimo controllo rischierà una pesante sanzione. Detto questo, non si arrenda. C’è sempre una soluzione. Guarirà, vedrà. »

Strinsi i denti e mi issai in piedi, rischiando di cadere immediatamente sul suolo freddo fatto di mattonelle bianche. Le ginocchia mi bruciavano, anzi, tutto il corpo sembrava essermi stato immerso nella lava bollente. Avevo la nausea, come se stessi per vomitare. Afferrai i vestiti, costringendo il mio corpo ad accucciarsi e le mie dita ad afferrare quegli anonimi abiti bianchi e a cercare di mettermeli addosso. Quando mi infilai, faticosamente, la maglietta, non appena sfiorò la schiena, lanciai un grido e mi cedettero le ginocchia. Bruciava, bruciava tanto che credevo di non poterlo sopportare. Era come se qualcuno mi passasse costantemente della carta vetrata su una ferita, rischiavo di diventare pazzo.

O lo ero già?

Uno dei due medici mi si avvicinò e mi tirò giù la maglia, lasciando una scia di dolore lungo tutta la spina dorsale. Mi infilarono i pantaloni a forza, mentre mi
arrendevo al dolore, quasi svenni, sentii la terra mancarmi da sotto i piedi, poi mi presero per sotto le ascelle, mi misero in piedi senza assicurarsi che fossi stabile e mi spinsero fuori dalla porta, dove la luce mi colpì come un pugno in faccia. Non vedevo bene, tutto girava, tutto sembrava cadere, tutto pareva essere in procinto di crollare.

Ogni passo mi graffiava violentemente, come se la stoffa degli abiti fosse stata fitta di aghi. Inoltre sentivo ancora nelle orecchie il ronzio della scarica elettrica che mi aveva ripetutamente attraversato. Era peggio che morire, era davvero peggio. La sensazione era quella di essere uno zero, di soffrire come un cane, anzi, peggio. Di non esistere, di essere solo dolore.

Fu allora che feci qualche passo poco convinto, non riuscendomi a reggere in piedi, e poi stramazzai al suolo, senza nemmeno capire cosa stesse succedendo.

Era tutto offuscato, come se fossi stato un miope senza occhiali. Il bianco abbracciava tutto ciò che vedevo, doveva essere il soffitto. Poi due occhi azzurri,
due enormi occhi chiari e null’altro.

Il buio più totale, ma il dolore non si placò mai. Non potevo avere pace. Non lì.
 


***
 
 
Profumava di lavanda, non so perché fu la prima cosa che percepii. Ero disteso su un letto con delle lenzuola seminuove, si avvertiva dalla ruvidità che provocavano sulla mia pelle ferita.

Ecco, ora ricordavo. La scossa, le foto, il bruciore, l’umiliazione. Il pavimento. E poi quegli occhi.

Dove avevo già visto quegli occhi?

Spalancai le palpebre, anche se mi sembrò di strapparle, e la luce mi ferì nell’immediato. Mi accorsi quasi subito di essere nella mia stanza, quella bianca e
orrenda che mi era stata assegnata, ed immaginavo che tutte le altre fossero uguali. Mi guardai in giro e, non appena mossi il collo, percepii la schiena tendersi e dolermi. Era meglio se stavo fermo.

Poi notai un bigliettino appoggiato sul tavolino accanto al letto, un bigliettino scritto con una penna blu a gel e, da quello che intravedevo, con una bella
calligrafia. Mi vennero in mente gli occhi azzurri che avevo visto, e scattai ad afferrarlo, anche se la colonna vertebrale mi frustò mentalmente per quel
gesto.

Lo aprii, le mani tremanti ed ancora con il sapore delle mie lacrime in bocca.

“ Mi hanno permesso di portarti qui di sopra, avrei voluto fermarmi ma le regole non lo permettono. Spero che tu ti possa svegliare presto. Appena
questo succede, scendi perché
nonsarai esentato dal programma del resto della giornata. Immagino che sarà stato difficile sopportare tutto questo il primo giorno. Dicono che poi va sempre meglio, a me deve ancora succedere. Beh, ci vediamo. Ciao. Kurt.”

Mi asciugai una lacrima dalla guancia. Mi aveva aiutato, però non era potuto restare a controllare come stessi perché eravamo solo dei froci schifosi che approfittavano di ogni occasione.

Quello faceva male. Quel pensiero. Quella costante sensazione di inadeguatezza. Quelle regole assurde, create per tenerci prigionieri in noi stessi, fino al momento in cui saremmo esplosi in un odio incontrollato per ciò che eravamo. Sì, quella sì che era una cura.

Me lo immaginavo, Kurt, così  bello e così freddo. Così inerte. Dava l’idea di una persona poco interessata, ma forse quella era solo la facciata che aveva costruito per sopravvivere là dentro. Forse avrei dovuto crearmene una anch’io. Ma allora com’era davvero Kurt? Avevo visto solo la sua maschera.

Com’era nella realtà?

Dovevo muovermi, e non ci dovevo pensare. I contatti erano a malapena permessi in quel luogo. Non potevo entrare in un centro di cura e prendermi una
cotta per un internato. Non potevo. Non sarebbe stato possibile, e non sarei mai guarito.

Potevo guarire?

Chissà.

Mi alzai da letto, sentendo le ferite sulla schiena stirarsi e bruciare. Dovevo tenere duro, dovevo essere forte e crearmi una facciata.

Dovevo inventare la maschera perfetta per me, ero sicuro esistesse.

Prima però dovevo trovare Kurt, dovevo ringraziarlo, dovevo chiedergli cos’altro sarebbe successo. Dovevo parlare con qualcuno o sarei impazzito. Dio,
quel luogo, quella gente, quei colori…

Eravamo noi i mostri o erano loro?




















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Spazio Autrice:
Scusatemi, lo so che la violenza è moltom descritta. Mi dispiace.
E' stato un calvario anche per me, ma è bene che certe cose si sappiano, e la pena non la ho inventata io.
Non sono stata io a inventare quella macchina.
Nel prossimo capitolo vi garantisco un interessante dialogo tra il nostro Blaine ed il criptico Kurt.

Spero vi sia piaciuto!
vostra,
Noth.

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Capitolo 3
*** I'll take you back to the start. ***


Nobody Said It Was Easy.
-Capitolo 3-








« Perché sei qui? »
Era già ora di pranzo, ed ancora il mio corpo gridava pietà ad ogni minimo movimento che facevo, ma era arrivato il momento di entrare in mensa, ed ero riuscito ad accodarmi di nuovo accanto a Kurt e a fargli quella domanda che sembrava quasi voler saltare fuori dalla mia bocca. Avevo bisogno di confidarmi, avevo bisogno di un amico e di non sentirmi l’unico pazzo là dentro. Avevo bisogno di qualcuno che capisse. Qualcuno che mi aiutasse. Avevo bisogno di Kurt.

Lui si voltò nella mia direzione, distrattamente come sempre, e parve sorpreso di vedermi già in piedi.

Non rispose.

Afferrai il vassoio e i muscoli delle braccia vibrarono pericolosamente in ricordo delle scariche elettriche di qualche ora prima. Kurt mise una mano sotto al mio vassoio, sostenendo il suo con una ed il mio con l’altra. I suoi occhi guizzarono alla mia espressione, preoccupati, per poi tornare impassibili, come se si fosse ricordato di colpo di qualcosa.

« Saresti dovuto restare a letto un altro po’. » disse, ritirando il braccio non appena essersi assicurato che le mie braccia avessero smesso di tremare. Il
sudore mi imperlava la fronte e mi scendeva a gocce lungo la schiena, minacciando di farmi impazzire da un momento all’altro. Ero a pezzi, era come muovere una macchina rotta. Difficile ed inutile.

« Ero sveglio. Non guarirò da oggi a domani, e comunque hai detto tu che sarei dovuto scendere prima possibile. »

Lui sbuffò, mordendosi un labbro con insistenza ed evitando di guardarmi, deliberatamente.

« Sì, possibilmente avresti dovuto essere in grado di… non importa. Lascia stare. » rispose, e si voltò, dirigendosi verso dove le donne vestite di bianco
consegnavano un piatto dentro al quale non scorgevo cosa ci fosse.

« Perché sei qui? » ripetei, e lui si voltò appena nella mia direzione, evitando i miei occhi, ma io potei scorgere fin troppo bene i suoi. La rassegnazione, il dolore come un lampo cieco, l’amarezza trasparivano come segnali luminosi. Segnali che indicavano pericolo, che mi indicavano lo sguardo di una persona ferita, una persona alla quale, una volta che mi ci fossi attaccato, non sarei mai riuscito a staccarmi. Mi conoscevo, sapevo com’ero fatto. Avevo un vizio per le debolezze altrui. Mi piacevano le fragilità, e Kurt era un muro di gomma che si ostinava a nasconderle, ma riuscivo a vederle trapelare. La cosa mi mandò nel panico.

« Perché è la cosa giusta da fare. » rispose, ed afferrò il piatto che conteneva una bistecca dal colore sbiadito e dell’insalata moscia che mi fece venire voglia di vomitare. Volevano anche affamarci? Cibo di bassa qualità come eravamo noi?

Ci sedemmo ancora una volta l’uno di fronte all’altro e, per qualche minuto, mangiammo in silenzio. Percepivo sulla mia nuca lo sguardo dei medici in bianco, del personale che non ci perdeva mai di vista, come se stessimo aspettando una loro distrazione per fare qualcosa di assurdo, qualcosa di imperdonabile, qualcosa di malato.

« La cosa giusta? » chiesi poi, a bassa voce, non riuscendo a lasciare perdere il discorso. Volevo capire, dovevo capire.

Kurt alzò lo sguardo dal piatto e mi guardò come se lo stessi torturando. Implorava di cambiare discorso, e forse avrei dovuto farlo.

« Per favore, fammi capire cosa intendi. È importante. » mormorai, appoggiando le posate sul tavolo, perché mi ero appena reso conto di non avere alcuna voglia di mangiare. Mi continuavano ad apparire davanti agli occhi le foto che avevo visto oggi, le facce dei medici, gli occhi che mi erano lampeggiati davanti poco prima del nulla. Il mio stomaco aveva deciso di dare forfait.

« Perché è importante? » domandò, abbassando lo sguardo il più possibile ed infilzando con rabbia un pezzo della carne che aveva nel piatto.

Strinsi i denti, perché la schiena decise di farmi una fitta particolarmente forte. Il dolore mi percorse l’intera colonna vertebrale, come se qualcuno stesse passando aceto sulla ferita aperta.
Bruciava come acido.

« Perché, » dissi, prendendo fiato tra i denti, « non capisco perché dobbiamo essere qua. Siamo malati sul serio? I miei genitori hanno detto che se non guarisco andrò all’inferno ed il mondo mi odierà. Io voglio guarire, voglio vederli felici, voglio che tutto torni come un tempo, quando ero un bambino e a nessuno importava cosa amassi. Perché sei qui? Si può guarire? Come può un ragazzo della tua età essere stato internato qui dentro? Come ci siamo finiti qui? Io… io… »

« Sono qua di mia spontanea volontà. » mi interruppe, e lasciai cadere la mascella, scioccato perché non era affatto il tipo di risposta che immaginavo. Come si poteva entrare in un posto dove disprezzavano la tua identità, ti prendevano e ti torturavano fino al punto in cui non potevi fare a meno di odiare te stesso per com’eri fatto, per come il mondo ti vedeva, e che ti insegnava quanto essere diversi potesse fare male?

« Cosa… come… » boccheggiai, ma non sapevo cosa dire. Per me era inconcepibile. Quando avevo fatto coming-out, avevo sperato che i miei genitori avrebbero capito, che mi avrebbero amato comunque, o che almeno avrebbero avuto la decenza di accettare ciò che ero. Invece le cose erano andate molto peggio e l’intera famiglia era andata in pezzi, terminando con me internato a St. Louis e loro a casa a pregare per me. Era così amara come situazione che quasi mi veniva da piangere a pensarci.

« Lo ho fatto per mio padre. » spiegò, continuando a fissare il piatto, come se non fossi nemmeno dinanzi a lui.

« Quindi ti ha mandato lui qui? » domandai, rendendomi conto del nodo che avevo alla gola, che si aggiungeva alla lista dei miei dolori fisici. Cascavo a pezzi.  Mi sgretolavo.

Ancora vedevo tutti quegli uomini proiettati. Ancora mi lampeggiavano davanti. Non me li sarei dimenticati mai.
E mi piacevano, lo sapevo.

« No, ho chiesto io a lui di venire qua. »

Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui. Non riuscivo a respirare. Era come se una cappa di gelo mi fosse calata addosso.

« Ma… perché? »

Lui appoggiò le posate sul tavolo, spingendo lontano il piatto come se gli fosse passata la fame. Guardò di lato per qualche istante e poi si voltò verso di me,
inchiodandomi con quegli occhi che mi erano lampeggiati davanti dopo la tortura. Che mi avevano portato nella mia stanza e messo a letto. Due occhi che ora erano lucidi e giganteschi, e mi accusavano addolorati.

« Perché in paese tutti mormoravano. Alcuni omofobi avevano spaccato la serranda della sua officina, gli telefonavano a tutte le ore per dirgli che ero un finocchio, che doveva vergognarsi di me, che ero un mostro. Gli hanno scritto “gay” sulla fiancata della macchina e ci ha messo giorni a grattarla via. Non mi ha nemmeno permesso di aiutarlo. Così ho chiesto divenire portato qui. Di provare a guarire. Lui inizialmente non voleva, era convinto quanto me del fatto che non fosse una malattia, bensì una caratteristica che si aveva dalla nascita, ma l’ho obbligato. Così posso fingere di poter essere curato. Così starò lontano da casa nostra e quegli omofobi la smetteranno di tormentarlo quasi più di quanto non tormentassero me. »

« Ma quindi stai guarendo? » domandai, cercando di guardare altrove, ma quell’azzurro particolare occupava in pieno tutto il mio campo visivo.

Lui sorrise amaramente.

« Pensi seriamente che si possa guarire dall’amore verso qualcuno? »

Abbassai lo sguardo, scoraggiato e, allo stesso tempo, confuso.

« E come farai una volta tornato a casa? Sarà tutto come prima, non puoi fuggire per sempre. » dissi, forse inopportunamente, ma probabilmente tutte le
scariche elettriche ricevute mi avevano inibito i freni del cervello. Non sapevo più quello che dicevo. Non vi era più alcun filtro.

« Fingerò di essere guarito. » rispose, semplicemente, distogliendo di colpo lo sguardo, guardando di lato. La luce gli illuminava il viso, e potevo vedere le
lacrime restargli saldamente attaccate agli occhi. Non le avrebbe mai lasciate cadere. Mai.

« Cosa? Ma tu non puoi… non puoi vivere una vita infelice solo per fare piacere agli altri… » balbettai, sconvolto. Mi sentivo male. Mi veniva da vomitare.
Possibile che fosse solo quella la speranza di una vita dignitosa per noi omosessuali? Mentire? Vivere come dei miserabili?

Dio, no.

Non potevo crederci.

« Posso farlo. Devo solo deciderlo io. Non è poi così importante. » rispose, e non riuscii a trattenermi. Posai una mano sopra alla sua, istintivamente, non so
perché lo feci.

Fu un grosso errore e i suoi occhi si spalancarono, diventarono giganteschi ed il suo viso si contorse in una smorfia.

Non fece tempo a dire nulla che delle braccia mi presero e mi sollevarono di peso dalla sedia, trascinandomi fuori, mentre Kurt mi guardava sconvolto.

Cosa avevo fatto? Cosa avevo sbagliato?

Mi portarono in uno stanzino, erano due uomini piuttosto alti, e chiusero la porta dietro di loro, scaraventandomi contro un angolo. Li guardai con gli occhi
terrorizzati.

« Le carezze o qualsiasi gesto affettivo sono espressamente vietati all’interno della clinica. » disse uno dei due, quello con gli occhi più scuri e gli occhiali. Se
non fosse stato per quel particolare avrei detto che fossero gemelli, ma ero troppo occupato ad avere paura per preoccuparmene.

« Io… io non… » mi spinsero di nuovo a terra.

« Vietato! » ripetè l’altro, e in un secondo mi furono addosso, da quel momento decisi di spegnere il cervello ed iniziare a gridare.



















------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Mi spiace aver aggiornato così in fretta, però davvero avevo il capitolo pronto ed ho sfruttato il tempo libero per sistemarlo e tutto.
I prossimi aggiornamenti saranno più dilatati.

A proposito, molti mi hanno chiesto di questa "tortura" che non mi ero inventata.
Allora eccola qua: 
http://www.youtube.com/watch?v=QKEWIsUS7y0
Si tratta di un film, si chiama Latter Days ed è a tematica gay. Se andate a un'ora e 30 minuti, aspettate qualche secondo, ci sarà la scena della macchina infernale. Quella che da la scossa. Non temete, non è eccessivamente scioccante o che.
Se avete tempo, comunque, guardatelo questo film perchè vale davvero la pena, mi è piaciuto molto.

Detto qesto grazie per l'immediata fantastica risposta che questa storia ha ottenuto. Mi sento male al pensiero che piaccia così tanto.
Grazie di cuore a tutti coloro che la hanno inserita tra le preferite, le seguite o hanno commentato.
Siete speciali.
vistra,
Noth

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Capitolo 4
*** Come up to meet you. ***


Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 4-









Mi faceva male dappertutto. Mi avevano schiaffeggiato, tenendo il tempo delle frasi che mi urlavano in faccia, come se non fossi stato in grado di capirlo. Scandivano ogni regola, ogni cosa che dicevano, con un colpo.

Non riuscivo a capire se mi facesse più male il corpo o il cuore.

“Non sei gay”

“Hai scelto di essere gay”

“L’omosessualità non esiste”

“Hai scelto di venire picchiato”

“E’ colpa tua se ora dobbiamo punirti”

“Due uomini non stanno assieme. Né ora, né mai.”

Alla fine della punizione mi avevano preso di peso e portato in camera, stringendomi e non curandosi di starmi premendo forte dove si stavano formando i
lividi delle loro percosse. Mi sentivo un cane, un animale, un oggetto. Quando arrivammo nella mia stanza, mi buttarono sul letto, legandomi con delle cinghie che spuntarono dai suoi lati a mia insaputa, tenendomi fermo e lasciandomi a malapena lo spazio per respirare. Poi si avviarono verso il muro ed
estrassero un cartellone da un cassetto dell’armadio bianco pieno di abiti tutti uguali. Lo distesero sul muro e lo appesero con due puntine da disegno che
tenevano nel marsupio che si portavano sempre appresso. Con la coda dell’occhio lessi ciò che vi era scritto, mentre loro uscivano e mi lasciavano lì.

“Regole della Clinica St. Louis per la Cura dell’Omosessualità:

* divieto assoluto di parlare delle regole con gli altri clienti

* divieto di avere contatti fisici con altri clienti

* consentite le strette di mano

* consentita una pacca sulla spalla, vietate le carezze

* proibiti internet e TV

* vietate Madonna, Britney Spears, Bach e Beethoven

* i ragazzi possono portare l'orologio, ma solo quello

* obbligo di dormire indossando una maglietta maniche lunghe

* obbligatoria la redazione di un diario

* il diario deve essere letto davanti agli altri clienti

* vietato chiudere le porte

* vietato stare in bagno per più di quindici minuti

* obbligo di sottoporsi ad ispezioni quotidiane

* obbligo di fare la spia se altri non rispettano le regole”

Mi sentii male, mi veniva da vomitare e piansi ancora. Piansi perché quel posto era un incubo, una prigione per diversi data in mano a dei bigotti. Kurt aveva detto che non si poteva guarire, allora perché ero là? Era anche vero che i miei genitori non mi avrebbero mai portato a casa finché non fossi stato dichiarato sano. Come avrei fatto? Avrei passato il resto della mia vita lì dentro? Le cinghie mi obbligavano a stare a stretto contatto con le lenzuola ruvide, e grattavano la pelle, stringendo e soffocando. Mi avrebbero lasciato lì tutto il giorno? Ricoperto di lividi e legato ad un letto come un malato di mente?

Piansi ancora per circa mezz’ora, poi due occhi azzurri vennero a darmi conforto, come in una visione ed, esausto, mi addormentai.


 
***



La mattina dopo mi svegliai fin troppo presto. Non vi erano balconi, e la finestrella della mia stanza faceva entrare abbastanza luce da riflettere per tutto il bianco della stanza e da obbligarmi ad aprire gli occhi. Non ero più legato con le cinghie, forse erano entrati nella mia stanza durante la notte e mi avevano slegato. Avevo notato che indossavano sempre i guanti per toccarci, quasi come fossimo infetti e contagiosi.

Era vero che avevo dormito praticamente un intero pomeriggio ed un’intera notte, però il mio corpo ancora doleva come non mai. Le ginocchia bruciavano, così come tutte le ossa. Le spalle sembrava mi fossero state staccate dal resto del corpo, non riuscivo a reggermi in piedi, ma mi rendevo conto che se non fossi sceso io mi sarebbero venuti a prendere. Ed ero quasi certo che non sarebbe stato bello. Guardai l’orologio digitale incastrato sulla parete, segnava le 7:18, ed in dieci minuti avrei dovuto essere in mensa a fare colazione e a fingere che tutto fosse normale. Come se nulla fosse accaduto.

Rimuovere.

Dovevo diventare bravo a rimuovere.

Mi alzai, lasciando che la schiena mi strillasse di lasciarla in pace, e rimasi con gli stessi vestiti del giorno precedente.

Prima di andare esaminai il mio corpo. Ero ricoperto di lividi, avevo un labbro spaccato e contusioni ovunque. Facevano male se le premevo, e mi davano un aspetto ancora più malato.

Mi diressi verso la porta e, sotto di essa, trovai un bigliettino uguale in tutto e per tutto a quello che avevo trovato sopra il tavolino dopo la seduta elettrica.

La calligrafia era la stessa. Lo afferrai in fretta, rileggendo diverse volte per assicurarmi di aver capito bene: “Blaine, mi spiace non averti avvisato prima riguardo alle conseguenze di un semplice gesto. So che volevi confortarmi, mi spiace che abbiano soppresso questo lato così gentile di te. Scusami, non avrei nemmeno dovuto parlare dei miei problemi con te. Ti ho messo in una brutta situazione. Ti chiedo scusa, credo fosse la prima volta che mi fidavo di nuovo di qualcuno. Assurdo. Kurt.” Doveva essere stato molto scaltro per riuscire ad infilarlo sotto la porta dopo che fossero entrati a slegarmi. E doveva essere stato molto stupido, perché avrebbero potuto scoprirlo, entrare di nuovo, trovare quel pezzo di carta e picchiarlo tanto da farlo svenire.

Scesi le scale che portavano al piano inferiore, dove stavano tutti, e la testa mi doleva ad ogni passo che facevo. Non potei fare a meno di chiedermi se avessero punito anche Kurt a causa mia. Da quello che avevo sentito, aveva già sofferto abbastanza senza che mi ci mettessi anche io con le mie stronzate.

Qualcosa mi diceva che avrei dovuto lasciarlo in pace, a vivere la sua vita e a non metterlo nei guai con i medici. Qualcos’altro mi diceva che io e lui fossimo stati mandati lì per aiutarci a vicenda. Una parte stupida di me. Una parte con molta fantasia.

Però io ero sempre stato uno a cui piaceva credere alle favole.

Non so se fosse uno scherzo del destino, ma capitai nuovamente in coda con Kurt. Questa volta lui era dietro di me. Non ebbi il coraggio di iniziare la
conversazione, sapevo di avere gli occhi dei medici puntati addosso, e dovevo fingere normalità: costringermi a mangiare, camminare, non dare segno della mia debolezza. La associavano a quella che dicevano essere la nostra malattia. Dovevo essere impassibile, una roccia. Ora capivo Kurt.

E più di tutto avrei voluto fargli capire quanto tutto questo fosse sbagliato.

Ci sedemmo in silenzio, e giuro che mi concentrai per non cercare gli occhi di quel ragazzo. Per non tentare di capire dalla curva delle sue sopracciglia a cosa
stesse pensando. D’altra parte avevo ben poche distrazioni in quel posto.

Mi limitai a mangiare, pensando a quanto potevo essere stupido a dare così tanta importanza a una persona che non conoscevo affatto.

« Mi dispiace. » disse una voce. Inizialmente era talmente bassa che pensai quasi di essermela immaginata. Alzai lo sguardo, cercando la fonte, e ma non la identificai.

« Mi dispiace. » ripeté, e capii subito che il suono proveniva dalle labbra di Kurt.

Lo guardai, immobile, non sapendo bene se rispondergli, cosa rispondergli o cosa dire.

La spontaneità mi stava venendo portata via ogni giorno. D’altra parte se eri costretto a fingere tutto il tempo, tornare se stessi per un po’ diventava
terribilmente difficile.

« Per cosa? » risposi alla fine, cercando di mettere in bocca un biscotto senza farmi rivoltare lo stomaco su se stesso.

« Per averti messo in quella situazione. »

Alzai un sopracciglio.

« Ora è colpa tua se ho messo una mano sopra la tua? » chiesi, allibito. Non doveva scusarsi, ero stato io l’idiota. Io ero quello che non conosceva le regole.

« Sì, ho suscitato la tua compassione, non avrei dovuto parlartene, così non ti saresti sentito in dovere di… »

« Ma non ha alcun senso! » lo interruppi, sbottando, ed abbassai istantaneamente la voce. « Questo genere di cose non dovrebbe succedere. »

Lui sorrise appena, amaramente, guardando la sua tazza di caffè.

« Però succedono, e dobbiamo comportarci di conseguenza. » rispose.

Lo guardai con esasperazione.

« Kurt… »

« No, Blaine, ti prego. Accetta che sia stata colpa mia, per favore, mi sentirei meglio. »

Ed ecco che la voglia di prendergli la mano mi assaliva ancora, ma questa volta la bloccai.

« Perché sopporti tutto questo quando potresti vivere normalmente? » chiesi, sconvolto, ustionandomi la gola col caffè, sperando che quel dolore mi
distraesse da tutto il resto.

« Te lo ho già detto, è la cosa migliore. Il mondo andrà avanti come se non fossi mai esistito. Non c’è bisogno di causare problemi agli altri oltre che a me
stesso. »

Strinsi i denti.

« Kurt non dovremmo essere così di bassa categoria solo perché amiamo… differentemente. » spiegai, e mi sentii male dentro per averlo detto, perché tutto
ciò che stava accadendo in quella clinica mi diceva il contrario. Era come combattere costantemente una guerra da uno contro il mondo.

« Lo so. » sussurrò, e sentii la voce spezzarglisi.

Non avrebbe dovuto farlo, perché da quel momento seppi che lo avrei aiutato. Come lui aveva aiutato me, come mi aveva portato in camera, come si era
scusato, come mi aveva suggerito di non piangere, come mi aveva raccontato per quale motivo si trovava lì. Era il mio turno. Il turno di fargli capire che non
era solo, per quanto lo pensasse, e che non era giusto che si punisse in quel modo.

Avrei concentrato la mia presenza nella clinica su di lui. Sarei andato avanti per lui, sarei stato forte per lui, avrei reso la sua permanenza lì meno detestabile. Così nemmeno io sarei stato solo.

E poi, avevo la sensazione di sentire meno il dolore fisico standogli accanto. Forse era perché ogni pensiero era sovrastato dal battito frenetico del mio cuore.

Perché?



















-------------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Non ho molto da dire su questo capitolo, grazie a El per averlo letto in anteprima.
Spero vi piaccia,
il prossimo capitolo sarà molto interessante, vi avviso.

Se avete domande, opioni, idee, qualsiasi cosa da dire sono a vostra disposizione come sempre.
E grazie per il sostegno, siete meravigliosi.

Vostra,
Noth.

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Capitolo 5
*** Tell me your secrets. ***


Nobody Said It Was Easy.
-Capitolo 5-









Pensavo di aver toccato il fondo, ed invece dovetti ricredermi molto presto. Non avevo dato troppa importanza all’idea di dover tenere un diario, ma la realtà era che avrei dovuto. Andai in segreteria per farmi consegnare il programma della clinica e, oltre a quello, mi diedero anche una sorta di quadernetto con una copertina blu sulla quale era stampata la scritta “Guarire è possibile”. Mi tremavano le mani a tenerla in mano ed avevo un nodo così stretto in gola che mi pareva quasi impossibile respirare o deglutire. La donna che se ne stava al banco, sempre indossando i guanti, addolcì lo sguardo, un cambiamento quasi impercettibile.

« Vedrà che guarirà e tutto questo passerà presto. » disse, e non riuscii a sorriderle nonostante apprezzassi quell’unico accenno di umanità che avessi sperimentato lì dentro.

Annuii e me ne andai, trascinando i piedi come se fossero macigni, come se stessi sopportando un peso troppo pensante che minacciava di spezzarmi ogni secondo di più, schiacciandomi a terra e privandomi di qualunque energia.

Osservai il foglio del mio programma settimanale con le lacrime agli occhi:

“Scrittura diario, lettura del diario con gli altri pazienti ed un educatore (terapia guidata di gruppo), pranzo, lezione di educazione, battipanni, ora di silenzio e riflessione (ed eventualmente preghiera), cena, film educativo, riposo.”

Quello era ciò che dovevo fare durante la giornata. Quello era il modo in cui volevano cambiarmi e distruggermi, e sembrava così forte e studiato che mi domandai se sarei sopravvissuto e, se fosse successo, cosa sarebbe rimasto di me?


 
***


« … non pensavo che questo mi avrebbe portato in un centro di cura e mi avrebbe fatto odiare tanto me stesso. »

Un ragazzo che avrà avuto una ventina d’anni lesse il diario ad alta voce di fronte a tutti noi. Aveva gli occhi lucidi ed evitava di guardare davanti a sé, fingendo indifferenza. L’educatore batte le mani, solo, sfilandosi gli occhiali e guardandolo con un misto di approvazione e disgusto.

« Molto bene, Lucas, vedo che inizi ad accettare il tuo internamento, è un passo avanti. » spiegò, con un cenno. « Hai più fatto sogni riguardo a persone del tuo stesso sesso? » chiese, un bagliore strano nello sguardo.

Lucas abbassò gli occhi ed annuì impercettibilmente, allora l’uomo sospirò deluso.

« Bè, non si può pretendere di avere tutto subito. Dopo, al momento del battipanni, vedremo di aumentare la dose di medicina e speriamo di ottenere dei risultati. » si rimise gli occhiali e scribacchiò qualcosa nel taccuino che teneva in mano.

Lucas sbiancò di colpo, assumendo un colorito verdastro, mentre gli occhi gli si spalancavano terrorizzati.

« No… no, io… » cercò di replicare, con le gambe che gli tremavano.

L’educatore gli rivolse uno sguardo affilato.

« E’ per il tuo bene. » scandì, e gli fece cenno di tornare a sedersi, cosa che il ragazzo fece a stento senza stramazzare a terra, i capelli biondi gli si stavano attaccando alla fronte per il sudore.

Provai un’immensa tenerezza per la sua sofferenza.

Lo stavano demolendo, quella clinica era una macchina distruttiva, ed io non volevo venire ucciso.

Volevo poter restare me.

Mi ritrovai a pensare che non volevo nemmeno che riducessero in quello stato Kurt.

L’educatore parlò.

« Kurt Hummel, è il tuo turno. »

Mi voltai, guardando le sedie dietro di me e lo vidi, mi lanciò un’occhiata furtiva ed assunse una maschera impenetrabile, alzandosi e raggiungendo il posto adibito alla lettura, davanti a noi. Avevo paura di sentirlo parlare, quelle erano cosa private, non avrei dovuto saperle. Avrei voluto tapparmi le orecchie ed iniziare a cantare, ma non avrebbe giovato a nessuno dei due, quindi tenni le mani strette in grembo e gli incollai gli occhi addosso, mordendomi il labbro inferiore.

Lui si schiarì la voce.

« Sono già da qualche settimana in questo posto. Ho imparato che le routine sono imposte, che non posso vestirmi di colori sgargianti e che non posso necessitare di affetto come qualsiasi essere umano. Ho scoperto che odiarmi è sempre la cosa migliore da fare, così non posso incolpare nessun’altro che me stesso di tutto questo. Ed alla fine, qui, è ciò che ti insegnano. Con tutte le lezioni, le educazioni, le sedute, ho capito che c’è qualcosa di sbagliato in me. C’è qualcosa di terribilmente rotto se mi ha portato ad essere trattato in questo modo. Come feccia, come un animale. Ed è questo che mi ha fatto realizzare di voler guarire. Allora mi sono guardato attorno, ci ho pensato su e mi sono detto: “Kurt, perché non t’innamori di una donna?” ed allora mi sono concentrato, ho puntato tutto sul mio cuore e gli ho detto di farsi piacere una ragazza. A tutti piacciono le ragazze, le ragazze sono belle, sono gentili, sono esili, sono intelligenti, sorridono e sanno farti sentire bene. Almeno questo è quello che so, perché io non ho mai provato nulla di tutto questo. Ho tentato, ho voluto, ma non c’è stato nulla da fare. Non è nulla di più del fatto che non mi piacciono le cipolle, non mi sono mai piaciute e mai mi piaceranno. E ricordo che papà le faceva arrosto e sperava sempre che le mangiassi, per vedermi poi ogni volta osservare il piatto con aria triste, e deluderlo. È allora che sono giunto ad una conclusione: ogni volta che faccio una scelta deludo qualcuno, meglio non farne nessuna. »

Chiuse il diario e si morse il labbro inferiore, forte, fino a renderlo bianco, cercando di non piangere e sforzandosi per non fare rompere la voce.

L’educatore scribacchiò ancora sul suo quadernetto, e poi guardò Kurt con un misto di preoccupazione e di esasperazione.

« Kurt, Kurt, Kurt… Se si somministra continuamente le cipolle, le verdure, i broccoli a qualcuno, alla fine finiscono per piacergli per abitudine. Oppure lo si
lascia a morire di fame e poi gli si danno le cipolle, le mangerà anche se fanno schifo. »

Kurt fece una smorfia.

« Questo non gliele farebbe piacere, si accontenterebbe, soffrirebbe. » rispose.

L’educatore fece un sorriso, come se avesse il mondo in mano. Mi strinsi le mani così forte da rendermi conto in ritardo di starmi facendo male.

« A volte nella vita bisogna accontentarsi. » rispose l’uomo, liquidando Kurt con un gesto, e lui parve cercare di trattenersi, ma alla fine fu come se le parole
gli uscissero di bocca senza che riuscisse a bloccarle.

« Perché certe persone devono accontentarsi ed altre possono avere ciò che davvero vogliono? » sibilò, e poi si portò le mani alla bocca, come se avesse
commesso un terrificante errore.

L’educatore alzò lo sguardo, la mascella contratta e lo scrutò severamente.

« Perché, Kurt Hummel, non siamo tutti uguali a questo mondo. » rispose. « Ci rivediamo al battipanni. » concluse, e gli indicò di sedersi, senza dargli la possibilità di replicare e, forse, era meglio così. Kurt reprimeva se stesso al punto che aveva dei momenti in cui gli era impossibile trattenersi ed esplodeva, completamente fuori controllo.

Andò a sedersi, stringendosi forte il diario al petto e con le lacrime fin troppo visibili negli occhi. Si era pentito di avere parlato. Stava male. Soffriva. Lo
vedevo, e lo odiavo. Odiavo che l’educatore lo trattasse così, che ci trattassero così, che dovesse piangere.

Strinsi i pugni e provai a non gridare.

 

***



Capii in fretta perché lo chiamavano il battipanni. Capii in fretta le reazione degli altri quando lo menzionavano e sapevo che non avrei resistito neanche a quello. Non ero forte, avevo sempre finto di esserlo per convenienza, ma lì era impossibile fingere. Era tutto troppo vero, troppo reale, troppo doloroso.

Volevo solo scappare.

Mi spinsero nella stessa stanza dove avevo subito l’elettroshock, ed altri due medici come quelli della volta prima mi presero e mi fecero appoggiare su una piattaforma. L’ambiente bianco mi disturbava di meno, perché l’occhio ci aveva quasi fatto l’abitudine. Ma non al dolore. Mi piegai e poggiai i gomiti sulla piattaforma di legno situata più o meno sopra le mie ginocchia, tenendo la schiena dritta. Mi presi la testa tra le mani ed il dolore mi arrivò come una colata di lava sulle gambe e sulle natiche. Avevano una sorta di grossa racchetta di legno, con dei fori, e me la sbattevano sulle cosce e sul sedere. Percepivo la pelle che si graffiava, si scorticava, bruciava tanto che le lacrime nemmeno si accorsero di uscirmi dagli occhi, mentre mi mordevo le guance e le cancellavo immediatamente dal viso con le mani, sperando che i medici non le avessero viste e non mi riducessero come l’ultima volta. Mi misi le mani trai i capelli e li tirai. I colpi non smettevano, ed iniziai ad urlare, non riuscivo a non farlo.

Era troppo.

Troppo male.

Troppa umiliazione.

Pensai di colpo al fatto che Kurt sarebbe stato punito in maniera peggiore per il discorso fatto poco prima. Mi mancò l’aria, mi girò la testa.

Perché dovevano ferirci così?

Salvami, Kurt.



















------------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Sì, evidentemente amo farmi del male perchè a parlare di tutto questo mi sono sentita... morire.
Non so voi, spero di avervi passato le emozioni che ho provato io scrivendola.
Fatemi sapere, un parere è sempre ben accetto, magari qualcuno di voi capirà da dove è tratta questa punzione chiamata "battipanni".

Siete dei lettori eccezionali, grazie per ogni preferito, ogni storia seguita, ogni recensione.
Grazie.
Ilaria Rossetton, il capitolo è per te.

vostra,
noth.

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Capitolo 6
*** You don't know how lovely you are. ***


Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 6-








Uscito dalla stanza a malapena riuscivo a camminare. Sentivo la stoffa dei pantaloni strusciarmisi sulle palle scorticata ed in fiamme, ed il sapore delle lacrime bloccato in gola. Contemporaneamente a me venne sbattuto fuori da una delle stanze Kurt, che stramazzò a terra. Nessuno si avvicinò ad aiutarlo e ciò mi fece imbestialire. Tremava e respirava a fatica, mi si spezzava il cuore a guardarlo al punto che quasi dimenticai il mio dolore. Andai verso di lui e mi guardai attorno, mascherando il bruciore alle gambe con una smorfia, e vidi un’infermiera a poca distanza.

« Mi dà il permesso di portarlo nella sua stanza? Non credo sia saggio lasciarlo in corridoio. » dissi, dissimulando pacatezza. La donna, giovane ed annoiata, parve pensarci su qualche istante ma, alla fine, forse per pigrizia, fece un cenno di assenso col capo.

Mi accucciai e presi Kurt per sotto le ascelle, issandolo in piedi e percependo il mio dolore come un fuoco lontano, segregato da qualche parte nella mia mente, e fu allora che mi resi conto di quale fosse la mia medicina. Era Kurt, era preoccuparmi per qualcuno che non fossi io, fregarmene di me stesso, perché c’erano cose più importanti.

In quel momento il mio corpo era troppo occupato a pensare a lui e allo stato in cui si trovava per curarsene.

Kurt fece una smorfia di dolore non appena lo alzai. Vidi il sangue che gli imbrattava i pantaloni bianchi ed ebbi un conato. Strinsi i denti per non imprecare.

Come avevano potuto?

Lui mormorò qualcosa mentre, lentamente, lo portavo verso il piano superiore. Almeno era sveglio, anche se avrei preferito dormisse, così non avrebbe sentito alcun male.

« Che numero è la tua stanza? » chiesi, parlando a bassa voce perché potevo immaginare fin troppo bene quanto gli facesse male la testa per le troppe grida, perché doleva anche a me.

« … 87… » sussurrò, respirando fra i denti ed inciampando, rischiando di farci cadere entrambi.

« Ti ci porto io. » sussurrai, e salii le scale bianche, arrivando all’immenso corridoio puntellato di porte con un enorme numero rosso dipinto sopra. Il corpo
di Kurt era caldo ed aderiva al mio, facendomi venire un’inspiegabile pelle d’oca. Profumava di zucchero e sangue, si appoggiava a me con una fragilità che mi smuoveva qualcosa dentro. Qualcosa, non sapevo cosa.

Non avevo mai dovuto aiutare qualcuno in una condizione del genere, non avevo mai voluto salvare qualcuno così disperatamente. Ma poi perché? Non me lo sapevo spiegare.

Di colpo sentii una voce metallica e capii che proveniva dall’interfono del quale non conoscevo l’esistenza.

“Questa sera guarderemo il film di genere erotico ‘La giovane donna’, siete tutti pregati di farvi trovare in sala audiovisivi dopo cena. Buon proseguimento di guarigione.”

Avrei voluto sputare sugli altoparlanti e gridare. Non potevo credere che davvero volessero cambiarci mostrandoci del sesso eterosessuale: sembrava solo terribilmente normale e mi faceva sentire dannatamente sbagliato.

Raggiungemmo la stanza ed aprii la porta. Nessuna serratura era bloccata in quella clinica, non esisteva la privacy e si era sempre alla mercé di tutti.

Lo odiavo.

Kurt gemette, mentre entravamo, serrando gli occhi di colpo, probabilmente in preda ad una fitta. Non potevo distenderlo sulle lenzuola bianche con i pantaloni imbrattati. Lo distesi per terra, il suo corpo era terribilmente teso. Gli infilai i pollici dentro l’elastico dei pantaloni, sfiorando la sua pelle bollente, e gli sfilai i vestiti macchiati, prendendone di nuovi che erano evidentemente troppo lunghi per lui. Aveva la pelle chiara e liscia, e pensai fosse bellissima finchè non mi cadde l’occhio sulle ferite e dovetti stringere i pugni. Le mie non erano nulla in confronto a quelle che avevo davanti. La pelle gli si era lacerata, aprendo dei tagli che ancora sanguinavano, incapace di rimarginarsi del tutto. Tamponai leggermente le ferite coi pantaloni sporchi, soffiandoci sopra, e poi, lentamente, gli infilai i nuovi indumenti. Trattenne il fiato e si morse l’interno delle guance, finchè non lo presi da sotto la schiena e sotto le ginocchia e lo posai sul letto.

Non appena sentì il tocco delle lenzuola sbiancò ulteriormente, e strinse tra le mani la stoffa banca mentre le lacrime iniziavano a scendergli sul viso.

Si era lasciato andare, alla fine, nella finta privacy della sua stanza.

Sospirai e mi sedetti sul letto accanto a lui, gemendo a causa delle proteste delle mie cosce non appena vennero a contatto con il materasso.

Non avevo idea di quanto tempo mi fosse permesso restare, nemmeno se mi fosse permesso, in realtà.

Ascoltavo i suoi singhiozzi trattenuti a stento ed al suono di ognuno di essi mi si sbriciolava il cuore. Come lo avevano spezzato, quanto lo avevano ferito.

Bastardi.

Li odiavo a morte.

Non avrebbe dovuto avere senso ciò che sentivo, ma non mi importava che lo conoscessi appena, mi bastava che avesse cercato di aiutarmi, che mi avesse parlato, che mi avesse raccontato di sé, che mi avesse fatto sentire come qualcuno in mezzo a quel nulla assoluto. Bastava davvero poco perché iniziasse ad importarmi di una persona.

E poi perché dovevano ferire lui? Lui che era lì di sua spontanea volontà, che avrebbe potuto andarsene quando voleva, che aveva messo un muro tra se stesso ed il mondo per sopravvivere a tutto lo schifo che ci abitava.

I suoi singhiozzi silenziosi erano una tortura, mi facevano male. Volevo davvero portarlo via.

« Vattene. » gli sussurrai. « Torna a casa, per l’amor di Dio. »

Lui scosse la testa, deglutendo forzatamente.

« Non posso, ho giurato. » sibilò, tenendo gli occhi serrati con forza.

« Kurt, non puoi farti trattare in questo modo. A chi hai giurato che saresti rimasto? »

Lui prese fiato e parve costargli una fatica immensa.

« A me stesso. »

Mi morsi il labbro con forza, voltandomi per non doverlo guardare. Mi sentivo così inferiore, così debole. Mi arrabbiai, senza motivo.

« Lascia perdere questo giuramento insulso e salvati, Kurt, non ne vale la pena. » replicai, spostandogli i capelli sudati dalla fronte con un gesto nervoso.

Lui sorrise appena, aprendo uno spiraglio tra le sue lacrime.

« Imparerai presto che sono una persona che tiene fede alle promesse. » sussurrò, aprendo gli occhi solo per un secondo, per controllare la mia espressione.

Sorrisi tra me alle sue parole, distogliendo nuovamente lo sguardo per non incrociare le sue iridi. Non dovevo guardarle o sarei caduto in trappola, anzi, forse ci ero già caduto, come un ingenuo cerbiatto incappato in una tagliola.

Ma quegli occhi, diamine, per quegli occhi avrei preso dieci tagliole.

« Non farlo. » disse poi lui, guardandomi fisso.

« Fare cosa? »

« Innamorarti di me. Non ne vale la pena. » disse, tornando a chiudere gli occhi, il labbro inferiore gli tremava.

« Perché? » domandai, non negai, non sapevo cosa mi stava succedendo.

O forse sì.

E forse preferivo non saperlo perché ne avevo paura e là dentro sarebbe stato un suicidio sicuro.

Ma mi importava davvero?

« Perché non voglio che tu ti faccia del male, perché non sono quello giusto, perché non è il nostro momento… »

« E come lo sai? »

« Perché ho paura. Ho paura di te da quando sei entrato in questa clinica, del tuo modo di camminare, di parlare, di pensare, del suono della tua voce, dei
tuoi occhi e della tua fragilità. »

Boccheggiai.

« Paura? »

Lui annuì impercettibilmente.

« Perché mi colpisci. Mi impedisci di essere passivo a tutto questo, a non reagire. Mi emozioni. Mi dai speranza, e la speranza qui dentro non è ammessa.

Non posso permettermi di tenere a te, non qui dentro. »

« Stai dicendo che ci tieni a me? » chiesi.

Lui sorrise in modo triste.

« Sto dicendo che non posso. » rispose. « Ed ora è meglio che tu vada. Ti verranno a cercare e ti puniranno se scopriranno che sei rimasto così tanto. »

Mi alzai e mi diressi verso la porta, poggiai una mano sulla maniglia e mi voltai verso di lui.

« Ti importa. » dissi, ed uscii.

Uscii e capii che se ero lì c’era un motivo, che c’era un piano più grande per me, che andava oltre tutta quella sofferenza e che mi diceva che non c’era nulla
di sbagliato in me. Si chiamava Kurt, quello era il mio grande disegno. E avrei sofferto, questo era vero, ma avrei sofferto in ogni caso, quindi tanto valeva
soffrire nel modo più dolce possibile.

Non mi sarei arreso.





























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Spazio Autrice:
Ecco, bè, che dire, ecco che finalmente le cose vengono a galla. 
Vi consiglio l'ascolto di questa canzone che mi ha dato molta ispirazione alla canzone: http://www.youtube.com/watch?v=0wEYzY4pvBk&list=UUk40qSGYnVdFFBNXRjrvdpQ&index=11&feature=plcp   
E ovviamente non parliamo della performance degli AnderBros., già amavo da parecchio la canzone originale, ora potete dirmi addio.
Ebbene alla prossima.

Grazie a tutti per tutte le bellissime recensioni, ognuna di loro mi scalda il cuore.
Grazie.

vostra,
Noth

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Capitolo 7
*** I have to find you. ***


Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 7-








Tremavo ed avevo i brividi. Sudavo freddo e deglutivo con immensa fatica. Il film della serata era così dolce, così passionale, così esplicito che mi pareva di venire schiaffeggiato.

Fai schifo, sei un abominio, questa è perfezione.” Sembrava gridare lo schermo. Gli occhi dilatati degli educatori, inoltre, non facevano altro che accentuare il concetto. Vedevo lembi di carne, sbuffi di vapore e corpi sudati. I gemiti di piacere nella mia testa diventavano degli urli di terrore e dovetti davvero respirare profondamente per non tapparmi le orecchie o correre a vomitare. Gli altri pazienti sembravano quasi tutti impassibili. I loro sguardi fissi sullo schermo, le loro menti altrove. Avrei voluto essere così bravo. Cercai Kurt, mi voltai e lo vidi qualche fila più indietro che guardava il film con gli occhi lucidi e lo sguardo vacuo. C’era e non c’era, veniva e scompariva come un fantasma.

Lo guardai a lungo, finché un medico non mi colpì sulla spalla con un bastone e ci fulminò con lo sguardo. Trasalii e mi voltai di nuovo verso l’incubo. Nella mia testa l’idea del mostro si faceva sempre più chiara e continuavo a chiedermi se fossero loro i mostri o fossimo noi.

Dopo circa un quarto d’ora non ce la feci più e mi alzai dalla sedia, la mano davanti alla bocca alla ricerca di un educatore con lo sguardo. Lo vidi e
mi stava squadrando con aria interrogativa.

« Siediti. » mi intimò l’uomo, con tono autoritario. Il mio stomaco sobbalzò non appena mi voltai di nuovo verso lo schermo.

« Mi viene da vomitare! Per favore, posso andare in bagno? » domandai, le gambe tremanti, una patina di sudore che mi imperlava la fronte ed il viso che era probabilmente già di un malaticcio color verdognolo.

« Ora calmati e siediti. Passerà. » rispose, « Questo genere di espedienti non ti farà saltare la lezione. » sibilò, e poggiandomi il bastone sulla spallami costrinse a sedermi. Incrociai le braccia sul petto, boccheggiando alla ricerca di aria fresca che non c’era. Il mondo attorno a me girava come se fossi stato su una giostra e mi fluttuavano accanto luci accecanti, seni e bastoni di legno. Quando mi parve di sentire gridare mi tappai le orecchie e nella mia testa esplosero gli occhi di Kurt come un ultimo ammonimento, a ricordarmi ciò che ero e perché si erano impressi così bene nella mia memoria.

Poi il silenzio assoluto ed un sussurro gelido al mio orecchio.

“Abominio.”


 
***


 
Mi svegliai madido di sudore, immerso in una pozza di quello che poteva essere il mio vomito o semplicemente dell’acqua fresca. Alla fine si rivelò essere la seconda visto che ero appoggiato sul bordo della vasca di uno dei bagni, coi polsi immersi nel liquido freddo e la guancia appoggiata sul pelo dell’acqua. Ero in canottiera ed avevo sui polsi e sulle caviglie segni di prese strette fatte da mani poco delicate. Non riuscivo a fare il punto di ciò che era successo, ma dalla luce doveva essere notte fonda. Provai a richiamare a me i pensieri della serata togliendo i polsi dall’acqua, rabbrividendo e battendo i denti. Cercai qualcosa con cui asciugarmi ma vi era solo un asciugamano striminzito e nulla di più pesante per coprirmi, così feci in fretta e corsi fuori dal bagno, lasciando scendere nello scarico l’acqua della vasca, e quasi cadendo a terra non appena mi alzai in piedi, a causa dei capogiri.

Ci misi un po’ a trovare la mia stanza e, quando vi entrai, trovai il mio diario aperto sopra il tavolino, ed una scritta in grande.

“Comincialo.” Probabilmente dovevano essersi accorti che non ci scrivevo affatto.

Lo presi in mano e ne cadde un foglietto che riconobbi all’istante. Era della stessa carta delle pagine del mio diario ed uguale a tutti gli altri che avevo ricevuto.

Era uno dei biglietti di Kurt.

Lo afferrai con le dita tremanti, lieto di avere qualcosa che brillasse in modo benevolo in quell’incubo nauseante. Lo aprii in fretta e mi immersi in ciò che vi era scritto.

Blaine, che bisogno c’è che mi firmi ormai? So che domani avrai di sicuro molte domande su ciò che è accaduto questa sera, e ti aiuterò io. Non so perché ti sto scrivendo dopo quello che ti ho detto oggi. Che grande ipocrita, eh? Immagino, però, di potertene attribuire la colpa perché, nonostante tutto, io a te ci…tengo. Domani ti devo parlare, è importante.”

Il cuore già mi martellava irregolarmente nel petto mentre cercavo di metterlo a tacere, come se gli educatori avessero potuto sentirlo attraverso quei muri di carta.

Mi coricai cercando di non pensare a ciò che Kurt poteva volermi dire, a ciò che sarebbe successo o al resto della mia vita lì dentro, cioè una vita
da scarto umano pieno di timori e ferito irrimediabilmente.


 
***


 
Svegliarmi quella mattina era stato esattamente come avevo immaginato: terrificante e confuso. Mi bruciava la gola e gli occhi. Ricordavo di aver fatto un bel sogno, uno di quelli dai quali ti penti di esserti svegliato, però non ne rammentavo nessun’immagine. Mi infilai di malavoglia i pantaloni che strusciarono malamente sulle cosce ancora irritate, serrai gli occhi e guardai la sveglia. Era incredibile come riuscissi ad alzarmi sempre prima che suonasse. Una volta non ci sarei mai riuscito e, per qualche secondo, meditai sul fatto che forse stessero riuscendo sul serio a cambiarmi.

Rifiutai il pensiero ed uscii dalla stanza per dirigermi in mensa, terrorizzato all’idea di guardare coma comprendesse il programma che mi ero infilato in tasca.

Almeno a consolarmi c’era il pensiero che avrei visto lui . Imposi alle mie mani di non tremare ed entrai.

Presi sul vassoio il solito e mi sedetti su un posto a caso, attendendo che Kurt arrivasse, piluccando nervosamente e costringendomi a non pensare a ciò che potesse volermi dire.

E se avesse voluto troncare quella sorta di amicizia?

Ero pronto a ricominciare da solo?

Ma il problema non era davvero quello. Il problema era che ora avevo Kurt come chiodo fisso, e chi me lo levava più dalla testa?

Ed all’improvviso eccolo, ed ecco che io non riuscivo più a pensare.

Prese la colazione sul vassoio e venne nella mia direzione, per sedersi poi distrattamente di fronte a me. Lo fissai e lui sospirò.

« Come stai oggi? » chiese, guardandomi e distogliendo lo sguardo più volte.

Feci spallucce.

« Per dirlo dovrei capire bene cos’è successo. » risposi.

Lui si morse il labbro inferiore.

« Prima dobbiamo parlare. Parlare davvero. » disse, e deglutii a fatica.

« Va-va bene. »

I suoi occhi si incatenarono ai miei e non vi erano santi, né dèi, ne punizioni che potessero distogliermi dal pensare che fossero in assoluto i più belli che io avessi mai avutola possibilità di vedere.





























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Spazio Autrice.
Okay, wo, sono qui con Marta ed El, quindi ringraziate queste due benedette donne se ho avuto la possiblità di aggiornare!
Purtroppo non ho avuto il tempo di rileggerla, lo farò in seguito quindi spero mi perdonerete se ci sarà qualche errore.
Mi sto maledicendo.
Comunque mi mancava un cliffhanger, ahah, dovevo farlo prima o poi ve lo aspettavate, diciamocelo.
Spero comunque che le cose si stiano evolvendo in modo interessante e...Bè, grazie per essere arrivati fino a qui.
Grazie per ogni singola recensione che leggo sempre volentieri e spero di rispondere a tutte quante!
Alla prossima (presto),
Noth

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Capitolo 8
*** Tell you I need you. ***


Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 8-









« Non ce la faccio. » sussurrò, mescolando il suo caffè con aria distratta.

« Cosa? »

« Non so se sei venuto qui per mandare a quel paese tutto il mio lavoro o per salvarmi. » spiegò, evitando deliberatamente il mio sguardo e sbattendo freneticamente le palpebre.

« Io non... »

« Lasciami finire. » mormorò, cercando di mantenere un tono di voce fermo, riuscendoci a malapena.

Annuii.

« Io non... io volevo sopprimere tutti questi sentimenti. Io non volevo innamorarmi mai più di nessuno, per non ferire mio padre né tantomeno me stesso. Però... poi sei arrivato tu... così sfacciatamente gentile, così ingenuo... mi hai ricordato com’era quando ero a casa e a nessuno importava se amassi un uomo o una donna. Almeno non alle persone che contavano per me... Mi hai fatto stare bene, come una reazione chimica, come una cosa istintiva. Allora mi sono detto che era decisamente meglio se smettevo di pensarti ma io... io non ci riesco. Ed è passato così poco tempo che mi chiedo come sia possibile dopo tutto il lavoro che ho fatto per diventare impassibile. Hai risvegliato in me l’animo ribelle che avevo- che avevo faticosamente soppresso ed io... mi sono reso conto che non voglio perderlo e, per qualche strana ragione, non voglio perdere neanche te perché ho la stupida sensazione di aver trovato qualcosa che cercavo da una vita intera. » fece una pausa, lo sguardo basso e gli occhi lucidi che cercava di asciugare e di nascondere agli educatori che giravano per la stanza. «... E dopo mi sono reso conto di quanto fossi gentile e solidale nei miei confronti, di come tu mi avessi... toccato delicatamente ed ho avuto paura. Paura di poter essere ricambiato perché, voglio dire... come farei ad amare qualcuno qui dentro? » sorrise amaramente, piegando il capo. « Allora ti ho dissuaso, e quando tu non hai negato che ti importasse di me... mi sono sentito in trappola. Però non posso... non ce la faccio a lasciarti andare. Non sono forte, non voglio tornare nell’apatia ed io... io sto bene con te. Sono gli unici istanti in cui sto bene e nei quali mi dimentico chi sono. Mi hai ascoltato senza troppe pretese, hai... hai... » boccheggiò, guardandosi attorno come a cercare la forza di pronunciare quelle ultime parole. « ... hai mostrato di tenerci, di provare qualcosa per il mostro che sono. » sussurrò, e la sua voce si ruppe. Cercò di coprire lo stridio emesso con qualche colpo di tosse, ma notai che gli tremavano le mani.

Avrei voluto attraversare il tavolo della mensa, stringerlo tra le braccia e ripetergli mille volte che non era un mostro, che era una creatura gentile, dolce, e che non era ciò che pensavano gli educatori a determinare la sua vera essenza, perché lui era perfetto.

Mi aveva dato speranza quando speranza era tutto ciò di cui avevo bisogno. Se ero in difficoltà in qualche modo trovava la maniera di non farmi pesare troppo quel posto. Quando avevo parlato con lui la prima volta, avevo stretto un’alleanza che era cresciuta a velocità triplicata, perché lì dentro non c’era tempo e qualsiasi atto di gentilezza diventava un miracolo in mezzo a tanta cattiveria e odio.

« Io pensavo che fossi solo tu a fare stare bene me, e che fosse strano che... che mi sentissi così. » ammisi.

Lui sorrise appena, sempre evitando di guardarmi negli occhi.

« Forse non è strano, è solo che siamo qui dentro. »

Strinsi i pugni, rendendomi conto che eravamo giunti ad un punto, ma che non saremmo mai potuti andare avanti, non in quelle condizioni, non in quel luogo.

« Non è giusto. » mormorai tra i denti, ancora scosso da tutto ciò che aveva detto.

« Mh? »

« Si cerca una persona che possa essere quella giusta tutta la vita, poi la si trova e si ha sempre il mondo contro. » mi lamentai, stringendo il cucchiaio tra le mani. Kurt trattenne un sorriso
malinconico. A pensarci non lo avevo mai visto sorridere sul serio e mi si strinse un nodo in gola al pensiero.

« Forse è per questo che questa persona è così difficile da trovare. Il mondo vuole risparmiarti la sofferenza. » sussurrò, e per un attimo i nostri sguardi si incontrarono, e la sensazione fu la stessa di
un incidente stradale.

Si dice che l’amore sia una reazione chimica, chissà, forse i pigmenti dell’iride, il colore dei capelli, il suono della voce di qualcuno scatena le endorfine dentro di noi e ci fa diventare delle insulse creature
irrazionali.

Delle creature innamorate.

Ammetto che non avrei mai creduto sarebbe successo così in fretta, però.

« Non posso lasciarti scivolare via. » dissi, conscio di quanto sembrasse stupido e lo osservai mentre si mordeva nervosamente il labbro, sbriciolando un biscotto sabbioso nel caffè che, probabilmente,
non avrebbe bevuto.

« Ci penserò. Deve... deve esserci un modo... non possiamo essere capitati qui assieme per caso. » dissi, abbassando la voce sempre di più e lasciando che si fondesse con il monotono chiacchiericcio di
sottofondo degli altri internati.

« Facciamo così. » mormorò, schiarendosi la gola. « Se ancora mi vorrai quando e se troveremo una soluzione, allora vedremo cosa fare. Ti dico solo che qui dentro odiare tutto e tutti è fin troppo facile.
» disse, alzandosi, sbattendo le palpebre ed assumendo quell’espressione vuota e passiva che aveva sempre e che crollava solo mentre era con me.

« Perché mai dovrei odiarti? » domandai confuso.

« Perché io mi odio. Saresti capace di amare a lungo qualcuno che odia se stesso? » disse, e se ne andò.

Tentai di assumere la sua stessa espressione impassibile e lo seguii, vuotando il vassoio in contemporanea a lui nei vari cestini.

Poi sbottai.

« Continua a scrivermi, okay? Tu che sai come fare. » la voce quasi un sussurro perché nessuno sentisse.

Lui si morse le guance per non cedere ad un sorriso.

« In effetti... è un’arte. »

 

 

***

 

 

La mattinata fu più terrificante di quanto mi aspettassi. Era il giorno delle visite mensili dei parenti, ed il tutto andava ovviamente annotato sul diario per la lezione pomeridiana e letto ad alta voce.

Mi chiusero in una stanza candida, con una sedia ed un tavolino fronteggiato da due sgabello. Come facevano ad avere un luogo per ogni cosa? Come poteva essere così grande quell’edificio? Chi poteva
voler finanziare quell’abominio?

Probabilmente la gente poteva essere molto più cattiva di quanto pensassi.

I miei genitori entrarono. Mio padre sembrava particolarmente allegro e si sedette con aria bonaria.

« Allora, » disse, poggiando una mano sul tavolino chiaro, quasi scuotendolo nella sua fragilità lignea. « Come va con le ragazze? » domandò, sorridendo e squadrandomi attraverso gli occhiali.

« Papà... » mormorai, iniziando già a sentirmi male.

Non avrebbe mai capito.

« Non cominciare così, non ci vediamo da meno di una settimana ma ti vedo già cambiato. » commentò, dando di gomito a mia madre che mi guardava forzando un sorriso. Mi percorse un brivido alle
sue parole e mi toccai il viso, come a constatare che fossi ancora io. « Ti vedo più... più uomo. » aggiunse.

Un pugno allo stomaco, con la bile che mi risaliva in gola; deglutii a forza , il cervello in modalità off.

Mia madre mi guardava con occhi speranzosi e nello sguardo di mio padre vi era una punta di orgoglio che non vedevo da anni. Non potevo deluderli, non di nuovo.

« Sì, effettivamente mi sento più uomo. » mentii, piazzandomi sul volto un sorriso di plastica da pupazzo e mio padre ridacchiò soddisfatto.

« Hai visto Jane?  Sapevo che questo centro sarebbe stato una buona idea, me ne avevano parlato troppo bene. »

Il mio sorriso tremò qualche secondo.

« Già. »

« Ed il programma com’è? Non è date a sapere agli esterni, ma io e tua madre siamo molto curiosi ad essere sinceri. » strinse la mano di mamma e mi domandai perché non potessi farlo anche io,
stringere la mano di una donna e sentire che era okay, perché il mio cuore lo avrebbe giudicato tale.

Al contrario questo mi capitava quando parlavo con Kurt.

« Bè... è tosto, ecco. Ci fanno... riflettere su ciò che facciamo e ci puniscono se vedono che gli insegnamenti non attecchiscono. » mia madre sbiancò, e mi corressi. « Io non sono mai stato punito,
comunque. » e lei si rilassò all’istante.

« Bravo ragazzo. » gongolò mio padre, e questo aprì un centinaio di ferite dentro di me. Ferite insanabili, perché l’unico modo per far sì che mi avrebbero voluto ancora bene sarebbe stato fingermi
qualcuno che non ero. E non avrei mai pensato che facesse così male.

Continuarono a farmi domande, il petto di mio padre si gonfiava di più ad ogni bugia e mi domandai come potesse non vedere nei miei occhi un mondo che andava in pezzi pur di sentirgli dire che era
fiero di me.

« Prenditi tutto il tempo che vuoi. Immagino che presto ti dimetteranno, e ti dichiareranno guarito! » esclamò, stringendo più forte la mano di mia madre e sorridendo come un bambino.

Papà, come puoi essere così felice di una cosa così orribile?

« Bè, qui dentro sono molto severi e... preferisco rimanere qui e guarire bene piuttosto che uscire ed avere una ricaduta. » inventai, per spiegare il fatto che non sarei affatto uscito presto, perché non
sarei guarito mai. Mio padre annuì convinto.

« Assolutamente. »

« Blaine... » mia madre aprì bocca per la prima volta. « Stai bene? Ti vedo pallido e dimagrito... mangi abbastanza? » avrei voluto scoppiare a piangere, perché almeno lei aveva visto quanto fossi
disperato, cosa che mio padre rifiutava a priori.

« Certo, mamma, non ti preoccupare. Sai che ho sempre avuto problemi con il cibo delle mense, ma non darci peso, ci sto facendo l’abitudine. » risposi, e lei annuì poco convinta.

Mio padre si alzò in piedi.

« Bè, credo sia ora di andare Blaine, è stato un piacere vedere che stai tornando norm... che stai meglio. verremo ancora in mese prossimo e chissà, magari non dovrai più rimanere qui. » disse,
avvicinandosi alla porta. Sorrisi e mi alzai per accompagnarli, ma le cosce e la schiena si irrigidirono come se avessi ricevuto una frustata e mi piegai in ginocchio, facendo una smorfia e stringendo i
denti per non gridare.

« Figliolo! » gridò mio padre, ma alzai una mano per fermarlo.

« Ho solo dormito male questa notte. Torcicollo, sai com’è. » mentii, e loro annuirono preoccupati.

Avere sempre mentito poco, con loro, mi permetteva di non destava alcun dubbio. Era ovvio che stessi dicendo la verità.

« Bè, ci vediamo. » disse mio padre, lanciandomi un’occhiata soddisfatta. « Vai a letto a dormire se ti fa male. Sicuramente te lo permetteranno. »

Io sorrisi amaramente.

« C-certo. »

Li guardai allontanarsi lungo il corridoio fuori dalla porta, poi me la chiusi alle spalle, lasciai crollare il sorriso e scivolai lungo la porta singhiozzando come l’idiota che ero e sarei sempre stato.


























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Spazio Autrice.
Grazie, grazie davver per tutte le vostre bellissime recensioni, ognuna vale tantissimo per me ed amo leggere ogni vostro parere.
Vi prego, non smettete di leggermi, non v'è cosa più bella al mondo.

In ogni caso questo capitolo è un po' intriso di angst (maddai?) ma credo sia colpa dell'episodio straziante e ricco di blangst.
Andiamo, Darren e Fighter? Devo aggiungere altro?
Grazie, grazie come sempre di essermi così fedeli.

Noth

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Capitolo 9
*** And tell me you love me. ***




Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 9-










Scrissi sul diario furiosamente tutti i giorni del mese seguente, vomitando ogni terrificante pensiero su carta e leggendoli davanti ad una classe attonita e ad un educatore attento ed intento a prendere appunti.

« Bè, » commentò ad un mio scritto, « la rabbia è un sentimento forte, che porta al cambiamento, bene, Blaine, molto bene. Tutta questa rabbia deriva dalla tua omosessualità che odi e che ti fa
arrabbiare. Se cancelli l’omosessualità, cancelli la rabbia. »

« Si può cancellare? » domandai scettico.

« Volere è potere. » commentò. Facendo spallucce e puntandomi il dito contro. Annuii mestamente ed andai al posto, rischiando di scoppiare a ridergli in faccia per quanto ciò che affermasse fosse
utopico.

Era tutto così assurdo.

Fu il turno di Kurt, ed ogni volta che leggeva mi sentivo come se lo stessi violando, un intruso, come se non mi fosse permesso sapere, eppure non riuscivo a non ascoltare.

Kurt si posiziono davanti alla classe e tossicchiò un paio di volte, tirandosi giù le maniche della maglia bianca fino quasi ad allargarla, forse per irritare l’educatore ma non aveva mai fatto così, aveva
sempre cercato di mimetizzarsi e scomparire, per quanto gli fosse possibile. Che gli stava succedendo? Cosa gli passava per la testa? Farli innervosire non era mai una buona idea.

« Puoi cominciare, Kurt. » disse l’educatore, lanciandogli un’occhiata di ammonimento.

Lui tossì, mordendosi il labbro inferiore e parlò a voce bassa, appena udibile, ed era strano rispetto al solito, quando usava un tono forte e cercava di farsi udire come a porre domande o a richiedere
certezze.

« Ho fatto un sogno. Ho sognato che ero libero in un mondo dove non vi sarebbero stati limiti d’amore, un mondo nel quale avrei potuto innamorarmi e non sarebbe stato giudicato come un errore. Ci
ho vissuto per qualche ora e mi sono innamorato. Mi sono sentito bene come poche volte in vita mia, completo, vivo, normale. Ed ho scoperto che tutto questo non potrà mai essere, che nella realtà
delle cose io sono un mostro e devo essere torturato da uomini che dovrebbero essere miei pari, ma che si ergono giudici della normalità, rinchiudendomi in un luogo di dolore ed odio che mi domando
come potrà mai guarirmi da tutto questo. Credo invece che mi faranno odiare ogni cosa, questa gente compresa. Non voglio diventare come loro, se questo è quello che chiedono. Se la normalità deve
essere così orrida, allora sono felice di essere un mostro, perché conosco l’amore, so riconoscerne la differenza. E se amo un uomo è il caso di lasciarmelo fare e di fare ammenda per i vostri peccati ed
evitare di ergersi a giudici supremi di uomini che sono tanto peccatori quanto voi. Tutto questo è una stronzata. Sono tutti degl’ipocriti. » finì e serrò il diario, con gli occhi lucidi ed il volto pallido,
mentre cercava di nascondere il terrore.

L’educatore si era alzato in piedi non appena aveva finito di parlare. I muscoli della mascella gli guizzavano nervosamente, le braccia gli tremavano lungo i fianchi mentre stringeva il taccuino degli
appunti così forte che le dita gli erano diventate bianche. Gli occhi erano ridotti a due fessure.

Non bene.

Assolutamente non bene.

« Signor Hummel! » tuonò, ogni tentativo di trattenere la rabbia e l’ira era evaporato in quelle due uniche parole che trasmettevano un odio così intenso da far male solo ad ascoltarle, come se
ferissero i timpani.

Kurt alzò lo sguardo, respirando a fondo e sfidandolo con il mento alto.

Che stava facendo?

Che diamine stava facendo?

Dio, li stava provocando apposta.

« Lei era uno studente modello, fino alla scorsa settimana. Che è successo? Ha imboccato la via della perdizione? » lo rimproverò, scaraventando il taccuino a terra.

Kurt fece per pensarvi un attimo e sembrò in dubbio sul da farsi. Avevo il terrore che l’educatore gli si avvicinasse e lo schiaffeggiasse, e sapevo che sarei balzato in piedi perché sarebbe stata
un’enorme ingiustizia e, in ogni caso, si trattava di Kurt.

Alla fine lui scrollò le spalle con noncuranza.

Questo fece imbestialire l’educatore il doppio, che divenne rosso e sembrava sul punto di esplodere.

Credevo fossero tutti insensibili, esseri impassibili ad ogni cosa incapaci di arrabbiarsi o di provare sentimenti.

Sembrava mi sbagliassi.

« Signor Hummel, è fortunato che a me non sia permesso toccare nessuno di voi, altrimenti a quest’ora la mia punizione le sarebbe già piombata addosso. » sibilò. « La aspettano degli attimi di fuoco
questa sera. Dopo cena si recherà nella stanza 45, avviserò io gli addetti e compilerò un rapporto sulla sua accusa e la sua mancanza di rispetto. La chiameremo una ricaduta. Poi vedremo se avrà
ancora voglia di disprezzare il nostro lavoro. Siamo qui per aiutare tutti voi, non per esser presi per i fondelli da un branco di malati! Con tutto l’impegno che ci mettiamo! Farà meglio a collaborare,
signor Hummel. » gli intimò, e poi si rivolse verso di noi. « E fareste meglio a collaborare anche voi! Siete tutti malati, consumati nell’anima, non capite? Non vedete quanto la società vi disprezzi?
Tutti vi disprezzano! E lo faranno sempre. Perché siete un abominio inguardabile, a molti date il voltastomaco solo a guardarvi, e sapete una cosa? Noi siamo qui a sopportare tutto questo per
restituirvi al mondo in una versione corretta. Quindi guai a chi mai cercherà di nuovo di sbeffeggiare l’operato di una vita di questa clinica, è chiaro? Spero che tutti voi siate contenti, perché grazie al
brillante intervento del vostro compagno, il signor Kurt Hummel, tutti voi domani, invece di avere la mattinata di meditazione silenziosa, avrete il privilegio di testare una novità appena arrivata
questa mattina: il Dottor Marble. » terminò con un espressione di crudele soddisfazione.

Ci aveva distrutto.

« Il Dottor Marble? » qualcuno ebbe il coraggio di mormorare, mi voltai ma non capii chi.

L’educatore ghignò, ed assunse un’espressione di adorazione.

« Sì, il Dottor Marble. Egli ha sviluppato una propria tecnica specializzata nella cura di questa orribile malattia che è l’omosessualità. Mi è stata ben descritta, e devo dire che la trovo... davvero
ispirante. » terminò sospirando. Poi si voltò di nuovo verso Kurt. « Sta sera, alle otto, stanza 45. » poi fece dietrofront e lasciò la stanza, chiudendo la porta a chiave e dicendoci che ci avrebbe liberato solo dieci minuti prima della cena.

Ci lasciavano soli?

Poi, di colpo, esplose il rumore del riscaldamento, come uno scoppio violento, e ci guardammo tutti spaventati.

Voleva tenerci chiusi in una specie di sauna per punizione.

Che razza di idea era? Qualcuno avrebbe potuto stare male sul serio. L’educatore doveva essere impazzito.

« Ehi! Non potete chiuderci qui dentro col riscaldamento al massimo! La cosa finirà male! » gridò Kurt, il fiatone per via della paura.

Dall’altra parte della porta provenne una voce ovattata.

« Vi consiglio di tenervi addosso i vestiti, se quando torneremo qualcuno non avrà addosso la maglietta o i pantaloni della clinica non so cosa potrebbe succedergli, e spero di essere stato
sufficientemente chiaro. »

Il silenzio calò nella stanza, mentre tutti ci guardavamo in preda al panico. Una cosa del genere non doveva mai essere successa, era pazzia, qualcuno avrebbe rischiato di farsi del male sul serio, di
svenire, di...

Effettivamente fino ad allora ci avevano spinto al limite, forse non avrei dovuto stupirmi così tanto.

Istintivamente mi feci strada attraverso la folla di pazienti nel panico e raggiunsi Kurt.


Mi guardava con occhi confusi, una battaglia dentro di sé, una battaglia che non potevo capire. Che non riuscivo a comprendere.

Era effettivamente passato un mese e nessuno dei due era tornato sull’argomento. Sta di fatto che le cose stavano come stavano. E stavano che ci tenevo a lui, che era la mia roccia, il mio unico legame, ciò che mi permetteva di alzarmi dal letto la mattina perché lo avrei visto.

« Che cavolo hai fatto oggi? Perché lo hai provocato? » sbottai, non arrabbiato ma preoccupato.

Lui mantenne un’espressione costernata, nonostante la situazione stesse degenerando e stessero tutti iniziando a lamentarsi della temperatura crescente.


« Blaine... » iniziò.

« Perchè li hai provocati? Perché? Te li metterai contro! Sono capaci di spezzarti le gambe ed usarla come scusa per la tua guarigione che non avverrà mai! » gridai, e la mia voce sovrastò appena tutte
quelle degli altri pazienti che iniziavano a gridare e a parlare forte per sovrastare il rumore del riscaldamento sparato al massimo e della paura.

Lui cercò di non fissarmi, e voltò la testa, lasciando cadere a terra il suo diario.

Gli presi la mascella, e mi pentii all’istante di averlo toccato con così tanta veemenza, tanto che ritrassi la mano come se la sua pelle bruciasse.

Sul suo viso stava dipinto un sorriso malinconico.

« Sei tu quello che ho sognato, quello di cui parlavo nel diario. La persona con cui stavo in quel mondo perfetto, eri tu. »

Lo guardai con un’espressione triste, vedevo sul suo volto un dolore che avrei tanto voluto essere in grado di lenire ma che non ero capace di curare. Era come se stesse vedendo dinanzi a sé una
salvezza lontana, una salvezza che non sperava di trovare e che non pensava nemmeno esistesse, e la guardasse da lontano, conscio di non potersi avvicinare e di non poterla toccare.

Perché era così che era andata, alla fine. Ci eravamo conosciuti per un motivo terribilmente futile, un caso, un incubo senza vie di fuga. Come sprazzi di luce avevamo conosciuto l’altro, in un tempo che
era talmente breve da avere dell’incredibile. Ma io non avevo mai provato tanto affetto così in fretta per nessuno, anzi, forse non ne avevo davvero mai provato.

Era tutto buio, tutto il giorno in mezzo a quel bianco era oscurità. Ed avevo il terrore di tutto quel nero. Qualche sorriso, qualche biglietto, qualche parola di conforto, dei contatti involontari e temuti,
dei consigli, degli approcci lievi ed impercettibili ed eravamo arrivati ad essere l’uno la roccia dell’altro, ma senza dircelo, perché non ve n’era bisogno.

Era accaduto e, anche se era successo in un lasco di tempo terribilmente breve, non potevamo biasimarci. Non c’era abbastanza tempo. Non si poteva sprecare nessun attimo.

Avevo trovato qualcuno a cui aggrapparmi, qualcuno che mi tendeva la mano ogni volta.

Perché dovevo fermare il battito atrocemente veloce del mio cuore per dirmi che era troppo presto? Non avevo il tempo di dirmi che era troppo presto.

 « Cosa c’entra? » domandai senza fiato, mentre l’aria si faceva torrida e respirare diventava più una tortura che un sollievo.

« E’ che ho capito. » tossì lui, mentre si asciugava la fronte che iniziava ad imperlarsi di sudore.

« Cosa? »

Lo guardai, cercando disperatamente sul suo viso un segno di qualcosa che mi aiutasse a comprendere.

Senza preavviso mi sfiorò la mano, intrecciandola alla mia con una lentezza inaudita mentre sul suo volto appariva un’espressione combattuta.
Nella stanza gli altri continuavano a muoversi e ad urlare come pesci in trappola, come vermi nella vaschetta di terra, mentre a me pareva che noi fossimo due statue immobili, e lo fissai con aria
sorpresa.

« Ho capito. Ho capito che qua dentro ci siamo capitati assieme e che ne usciremo assieme. Tu, Blaine, sei tu il motivo per cui sono venuto qua. Il destino deve aver fatto un disegno davvero molto
complesso, per la mia vita, ma alla fine termina qui. Termina qui, con te. È stupido, probabilmente, ma è un mese che ti sogno ogni sacrosanta notte. Sempre. E non vedo perché dovremmo mentire.
Sono stanco di mentire a me stesso. Voglio te, sono malato di te, vedila come ti pare, ma sei stato quanto di meglio mi potesse capitare in quest’incubo. Hai presente quando fai un brutto sogno e poi ti
rendi conto che c’è tua mamma che ti abbraccia e ti stai svegliando? Tu sei quel momento, per me. » disse, gli occhi lucidi e non capii se per il caldo rovente o per l’emozione.

Il cuore aveva definitivamente deciso di abbandonarmi. Era partito per la tangente, anni luce avanti rispetto a me, probabilmente conscio di qualcosa che con la mente cercando di dimenticare per la
mia salvezza. Sì, perché era un sentimento destinato ad appassire e a morire sul nascere.

Amarsi dentro una clinica che avrebbe dovuto distruggere in noi ogni desiderio dell’uno per l’altro? Era praticamente impossibile.

« Kurt... » mormorai, il sudore che mi colava lungo la schiena mentre nella stanza scoppiava il caos e venivo spinto, da un uomo che arretrava, addosso a Kurt.

Lui mi tenne in piedi e si morse il labbro.

« Ho una soluzione. » sussurrò, al punto che lo sentii a malapena.

Lo guardai accigliato, mentre il fatto di avere una mano intrecciata alla sua e che nessuno lo notasse perché erano tutti troppo presi dal caldo, dal terrore, dalla sensazione di soffocare, mi faceva venir
voglia di abbracciarlo. Non mi ero mai sentito in grado di respirare meglio. Mi sentivo molto leggero, l’adrenalina e qualcos’altro dovevano essere entrate in circolo molto in fretta nel mio organismo.

« Io diventerò l’incubo di questa clinica. Sarò il peggior paziente che si possa immaginare, ho sperimentato oggi che posso. »

« E che senso avrebbe? Ti puniranno. » replicai, il calore mi stava distruggendo, era come stare in una camera a gas.

Lui scossa la testa.

« Domani verrà mio padre, è la giornata delle visite, e lo informerò del mio piano, così lui richiederà che mi venga assegnato un compagno, una sorta di buon esempio, un tutor. »

« Un... tutor? »

« Sì. E sarai tu. »

Boccheggiai.

« Chi ti dice che sarò io? Siamo tanti qua dentro. »

« Sì, ma nessuno spicca, nessuno è particolarmente bravo. Lo hai notato? Tu devi farti notare questa sera e domani mattina. Devi farti vedere forte, far finta di voler guarire e di stare guarendo.
L’educatore sembrava averti preso di buon occhio. » spiegò, iniziando ad ansimare pericolosamente, colpito dall’ondata di caldo che diventava sempre più come una coperta melmosa.

« Ci... ci proverò. Ma poi? Che senso ha? Non finirebbe comunque bene, Kurt... » mormorai, scuotendo la testa e fissando le nostre mani intrecciate. Mi piaceva tanto il tocco soffice e liscio delle mani di
Kurt. Era come avere tra le dita quelle di un angelo.

« Io posso uscire quando voglio, ricordi? Quindi non appena ti daranno per dimesso io potrò farmi tirare fuori di mio padre, lui non vede l’ora che torni a casa. »

« Mi daranno mai per dimesso? »

Lui sorrise.

« Se reciti bene sì. » rispose.

« E la storia dei bulli? Di tuo padre? »

Kurt si rabbuiò ed abbassò il capo.

« Quella è una cosa che devo sistemare da solo. » rispose.

Il caldo era divenuto soffocante, non riuscivo più a respirare e la mia mano attaccata a quella di Kurt non era un sostegno abbastanza forte. Mi sentii crollare e caddi sulle ginocchia, raggiungendo al
suolo metà di quelli che erano già piegati in due seduti sul pavimento ansimanti.

La vista mi si stava annebbiando e mi domandai quanti gradi ci fossero là dentro, se fosse così che era l’Inferno.

Caddi all’indietro con la testa, continuando a sentire i lamenti degli altri come una cantilena dissonante e spaventosa.

Era come avere un asciugamano infilato in gola.

Sentivo che stavo per perdere conoscenza, non c’era via di scampo, e non riuscii nemmeno a fare ordine nei miei pensieri su ciò che era appena successo.

« K-Kurt... » mormorai.

Lui era disteso accanto a me, e liberò la mia mano, forse conscio che, altrimenti, ci avrebbero trovati in una situazione spiacevole quando sarebbero venuti a liberarci da quel forno. Sperai che
mancasse poco.

« Mh? » mugugnò, ansimando faticosamente.

La mia bocca era un vero e proprio deserto.

« Ti-ti giuro che mi farò dichiarare guarito il più presto possibile, così non subirai tutte le punizioni che ti infliggeranno quando gli darai contro. Ce-ce la metterò tutta, te lo prometto... te lo prometto...
te lo... »

« Sono così felice che ora... qui accanto a me... ci-ci sia tu... »

Rispose in un fiato, mentre sembrava quasi che soffocasse.

Il mondo divenne una palla di fuoco nero e mi inglobò, così che non ebbi nemmeno il tempo di rispondere prima di perdere i sensi e lasciare che, come ogni volta che succedeva, gli occhi di Kurt mi
esplodessero nel cervello.

Per ricordarmi perché ero lì.

Perché ero quello che ero.

Perché ce l’avrei fatta.

Per Kurt.






















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Spazio Autrice:

Scusate la lentezza dell'aggiornamento, ma con la storia della nuova long, gli impegni e tutto non sono riuscita ad aggiornare prima.
Che dire, ogni volta che leggo una recensione mi viene voglia di piangere per quanto siate fantastiche. Sul serio.
Maledizione.
Seguita da 117 persone? Il mio cuore ha voglia di stringervi tutte in un abbraccio alla Darren Criss.

Nel prossimo capitolo avviso che ci sarà dell'angst, ma anche un angst positivo che vi farà amare tantissimo il nostro caro amico Burt.

E ci sarà del più che meritato fluff.

Spero che vi sia piaciuto, di aver chiarito alcuni dubbi sulla loro relazione, di aver spiegato bene tutto e, che dire, odiamo l'educatore, che dite?
Scrivere il suo pezzo è stato un calvario.
Grazie, dal profondo del cuore perchè siete davvero importanti per me, le migliori lettrici di sempre.
Grazie, mi rendete orgogliosa.

Vostra, 
Noth

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Capitolo 10
*** I was just guessing at numbers and figures. ***


Nobody Said It Was Easy.
-Capitolo 10-









Non so in che modo uscimmo da quella stanza, so solo che avevo le orecchie tappate, la testa pesante ed i vestiti impregnati del mio sudore. Mi sembrava di stare dentro ad un sogno, tutto era troppo brillante, sfuocato ed ovattato. Ci dirigemmo come automi, scortati dalle infermiere, verso la mensa. Non so con che forza presi il vassoio ed il cibo e mi sedetti al tavolo. Eravamo quasi soffocati per il caldo, gli pareva normale trattarci in quel modo? Forse sì. Ricordavo vagamente il piano di Kurt ed il modo in cui aveva provocato l’educatore, che era subito scattato. Inforchettavo qualcosa dal vago aspetto di lasagna e non ne sentivo nemmeno il sapore. Poi un suono di scalpiccio di posate mi svegliò un po’ dal torpore in cui ero caduto. Mi voltai e vidi Kurt che sbatteva la forchetta sul vassoio e stava in piedi davanti a me, dall’altra parte del tavolo. Per qualche istante mi domandai che diamine stesse facendo, poi capii che quello era il segnale.  Probabilmente dovevo dar prova della mia diligenza, fingermi uno studente modello e dare il via alla nostra operazione.

Ma ero capace di mentire così bene?

« Sono fiero di essere gay! »

Le grida di Kurt squarciavano il silenzio ed il cuore mi batteva all’impazzata mentre cercavo di deglutire la nausea e trovare qualcosa da fare. I medici si guardavano sconcertati, momentaneamente
sorpresi e presi in contropiede dall’atteggiamento irriverente di Kurt.

Il mio cervello cercò di mettersi in fretta alla pari, e mi domandai come potesse lui avere così tanta energia.

Recitava?

Mi alzai in piedi e mi allungai verso di lui quasi a rallentatore e gli presi il polso.

« Falla finita. »

  Lui mi guardò e nel suo sguardo offeso passò una luce vittoriosa.

« Non toccarmi. » sibilò, e capii  quanto fosse bravo. Così bravo che sarebbe riuscito a darla a bere anche agli educatori.

« Siediti subito. » gli intimai, e lui parve trattenersi dallo sbattere il vassoio sul tavolo, poi si diresse verso l’uscita dove due medici lo afferrarono da sotto le braccia.

L’educatore che ci aveva chiuso nella stanza al caldo si avvicinò a lui e sentii chiaramente ciò che mormorò a Kurt oltre il silenzio attonito di tutti gli altri.

« Il Dottor Marble si divertirà con te, domani, e ti passerà la voglia di fare il ribelle. Dio, eri un così bravo paziente, che ti è successo? »

Kurt digrignò i denti.

« Ho visto solo ora quanto poco volete aiutarci. »

L’uomo fece cenni ai medici di portarlo via – sperai nella sua stanza e non in una qualche cella di tortura.

Vi prego, non toccatelo. Pregai, ma sapevo benissimo quanto fosse inevitabile.

Mi sedetti e vidi l’educatore lanciarmi uno sguardo di approvazione. Deglutii faticosamente. Ripresi a mangiare per inerzia, senza gustare nulla, anche se non è che ci fosse molto da gustare, a dirla tutta.

L’uomo accanto a me mi diede di gomito. Era un signore sulla cinquantina, sovrappeso e con grossi baffi grigi. Gli lanciai un’occhiata di sfuggita e lui ricambiò lo sguardo.

« Che stai facendo, ragazzo? » borbottò sottovoce, mentre si ficcava in bocca la lasagna.

« Scusi? » domandai sbigottito.

Che voleva?

A cosa si riferiva?

Lui deglutì rumorosamente, passandosi una manona sui baffi.

« Fino all’altro giorno piagnucolavi ed eri sempre assieme a quel giovane, ed ora stai dalla loro parte? Che diamine stai facendo? » ripeté, abbassando la voce profonda.

« Io non... non lo so. » risposi, e fissai il piatto incassando la testa tra le spalle e chiedendomi come avesse potuto osservarmi così bene nel mese precedente. Avevo creduto di essere diventato quasi
invisibile.

« Qua dentro di nota tutto. » disse, come in risposta ai miei evidenti pensieri. « Quindi qualunque cosa stiate facendo state attenti. Non sono così stupidi. »

Lo guardai qualche istante e mi domandai come potesse un uomo grande e grosso della sua età essere finito lì dentro.

 

 

***

 

 

Era di nuovo una detestabile giornata della visite ed il mio stomaco reagiva già al mio nervosismo. Mi chiusero nello stesso stanzino del mese prima e mi obbligarono ad aspettare lì dentro, ma nessuno
arrivava.

Magari si erano dimenticati, magari non erano stati informati della data, magari non avrei dovuto inventarmi tutte quelle bugie un’altra volta.

Poi la porta si aprì di colpo e sobbalzai, aspettandomi di vedere mia madre abbracciata all’espressione soddisfatta ed orgogliosa di mio padre, ed invece sulla soglia c’era un uomo con un cappello col
frontino in testa ed una tuta da officina sulla quale il nome era ormai sbiadito. Mi fissava con aria costernata e preoccupata.

 « Ha sbagliato stanza. » lo informai, e lui invece di andarsene si chiuse la porta alle spalle.

« Sei Blaine? » domandò, scrutandomi.

Io annuii, confuso.

Come faceva a conoscermi?

« Allora sono nella stanza giusta. »

Mi accigliai, sulla difensiva. Che voleva quell’uomo?

Si avvicinò e prese posto dinanzi a me, levandosi il cappello per passarsi stancamente una mano sulla testa rasata e piantare due grandi occhi chiari nei miei. Il pomo d’Adamo sembrava volermi
soffocare mentre ogni muscolo del mio corpo si tendeva per la paura.

Cosa avevo fatto?

Quell’uomo non sembrava minaccioso, però.

« Sono Burt Hummel, e sono il padre di Kurt. » disse, stringendo le labbra con esasperazione. Il mio cuore perse un battito ed il cervello parve fermarsi per riuscire ad assorbire quell’informazione.

Quello era l’uomo che aveva provato ad impedire a Kurt di andare lì, che lo accettava e che era stato maltrattato per il fatto di avere un figlio gay. Mi resi conto di ammirare ed invidiare l’affetto che
provava per suo figlio.

« Cosa posso fare per lei? » sussurrai, la voce mi cedette e dovetti ripetere la frase un paio di volte prima che fosse comprensibile.

« Non per me, ma per Kurt. Voglio parlare con te. Mio figlio mi ha detto della vostra idea e della storia del tutor. » spiegò, e tutto mi apparve più chiaro.

Era colpa mia se Kurt ora stava provocando i medici e gli educatori, ero la motivazione di tutte le sue prossime dolorose punizioni. Al solo pensiero mi si chiuse la gola. Potevo benissimo immaginare
cosa pensasse quell’uomo che tanto amava suo figlio. Ero una mina vagante. Come avrebbe mai potuto approvare una cosa del genere o, oltretutto, una persona come me?

Mi resi conto di avere spesso di respirare.

« Ehi, ragazzo, respira. » mi disse. « Non sono qui per picchiarti, malmenarti o insultarti. Non mi permetterei mai di alzare un dito su di te. Sono solo venuto a vedere se quello che dice Kurt è vero, e
temo che abbia ragione sui tuoi occhi. Sono davvero belli e tristi. »

Esplosi.

« La prego, non ho avuto io l’idea. È che... Kurt... lui... è l’unica cosa alla quale sono riuscito ad appoggiarmi qui dentro. È stato... l’unica luce, da subito e... io non voglio che si faccia del male. Dio, è
l’ultima cosa che vorrei ma... è la sola idea che mi è venuta in mente... anzi, la ha pensata lui perché è molto più sveglio di me e... »

Lui mi bloccò con un cenno.

« Sono le stesse cose che mi ha detto lui, lo so. So anche che Kurt è terribilmente impulsivo e testardo, quando si mette in testa qualcosa sarebbe disposto a remare controcorrente pur di farla. Sono
venuto a chiederti se ci tieni sul serio a lui. »

Intrecciò le mano sopra le ginocchia e si sporse verso di me. Mi torsi le dita mentre il cuore, dentro di me, per qualche motivo gridava “sì, sì, sì...” ed io rispondevo:

« Non lo so. È – è passato così poco tempo, ci conosciamo da un mese e... »

Burt sorrise.

« Blaine, quando conobbi la madre di Kurt mi bastò un’ora per capire che era quella giusta. Come credi funzioni? Come una coda al supermercato? Si tratta di sentimenti, emozioni. Tu di solito che fai?
Ti arrabbi una volta ogni tre settimane? O magari sei felice solo dopo un mese? No, lo sei all’istante. È così che funziona. » spiegò.

Mi lasciai sfuggire un sospiro tremante ed abbassai lo sguardo.

« Allora sì, ci tengo molto. Sa dirmi perché? »

« Perché Kurt è speciale, e non lo dico perché è mio figlio. Okay, effettivamente magari un po’, ma ha un certo effetto sulle persone. Aveva perso quella sua scintilla come se fosse diventato opaco ed
oggi, invece, sono riuscito a scorgere di nuovo quel bagliore. Francamente, figliolo, non capisco come si possa odiare Kurt anche se, evidentemente, c’era chi ci riusciva. » un muscolo della mascella gli guizzò per il nervosismo e pensai subito a ciò che mi aveva detto Kurt a proposito dei bulli che avevano iniziato a prendersela con il negozio di Burt. Capii all’istante come si sentisse.

« Io non sono d’accordo con la vostra idea. » disse infine, e sobbalzai incontrollabilmente sulla sedia. « Però Kurt è molto deciso, ed io non posso dissuaderlo anche se non vorrei venisse ferito. Quindi, per quanto mi sarà possibile, vi sosterrò e richiederò che gli venga affidato il tutor migliore della clinica, quindi eccelli, Blaine, eccelli perché il mio Kurt ha bisogno di te. »

Finì, e provai un affetto senza pari per quell’uomo così gentile e comprensivo e, per qualche istante, sognai che fosse mio padre, e mi sentii terribilmente felice. Poi ricordai chi fosse in realtà e mi sgonfia come un palloncino, privato di qualsiasi orgoglio.

« Okay? » domandò.

« Okay. » risposi. « Lei è davvero un padre incredibile, sa? »

Lui sorrise.

« Puoi darmi del tu, Blaine? » chiese, ed io annuii. « I tuoi, invece? »

Quella domanda fu come un pugno in pieno petto che mi fece risalire la bile in gola.

« Mi hanno portato qui perché non andassi all’inferno. Gli ho mentito dicendogli che stessi guarendo ma, ovviamente, non è vero. Ed odieranno per sempre ciò che sono. » mi morsi il labbro per non
piangere, al pensiero che lo sguardo di mio padre sarebbe tornato cupo e spaventato come prima che entrassi in quella prigione. « Onestamente, non so cosa fare. »

Burt scosse la testa, e nei suoi occhi mi sentii quasi a casa, e capii quanto mi mancasse una vera figura paterna.

« Blaine, i genitori dovrebbero amare i propri figli in ogni caso, se c’è qualcuno che deve fare qualcosa, quelli sono loro. »

Risi amaramente.

« Non conosci mio padre. Se mai uscirò di qui dovrò fingere per tutta la vita, solo per poter avere la sua approvazione. » chiusi gli occhi per impedire alle lacrime di uscire. Burt sospirò e parve pensare
qualche secondo.

« Blaine, io e Kurt risparmiamo da anni per comprare un appartamento a New York, lui perché vorrebbe – o avrebbe voluto – continuare lì gli studi, mentre io vorrei aprire lì una nuova officina. Ci
dovrò pensare su, ma ti posso offrire un lavoro lì con me e puoi venire con noi. Saresti il benvenuto e nessuno se la prenderebbe con Kurt nella grande mela. Dovrebbe preoccuparsi molto meno per me.
»

La gentilezza di quell’uomo era senza confini. Sorrisi nella mia malinconia.

« Non potrei mai accettare dopo quello che sta accadendo a suo figlio per colpa mia. »

« Non saprei dire se sia una colpa o un merito. » precisò.

Lo fissai in silenzio.

« Bè, pensaci davvero. » disse, guardando l’orologio, « L’orario delle visite è finito e devo andare. Farò quanto detto, ma siate prudenti. » disse, e si alzò, andandosene con un sorriso stanco sul volto.

« Sai, mio figlio mi manca. Fallo uscire presto. » mormorò, prima di sparire oltre la porta.

Ogni battito del mio cuore urlava ‘Kurt’.

Potevamo farcela, forse, e mi sorpresi di quanto fossi improvvisamente diventato ottimista.

Sospirai e mi guardai le mani che tremavano. Quel pomeriggio ci sarebbe stato il Dottor Marble e avrei dovuto essere preoccupato, ma non riuscivo a pensare ad altro che alla parvenza di un futuro che
Burt aveva dipinto per noi.

Noi.

Non pensavo ad un vero futuro e ad un noi da parecchio.

‘Non illuderti’ diceva una voce dentro di me, ma la misi a tacere brutalmente anche, come al solito, avrei dovuto dargli ascolto.

Ma avevo delle speranze, e mi erano mancate così tanto che non me la sentivo di farle appassire ed incenerire come se non mi stessero gonfiando il petto come un aquilone.

Speranza, era più di quanto avrei mai potuto desiderare.





























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Spazio Autrice:

Scusatemi per il ritardo, con la storia dello stage e delle vacanze non ho avuto nessuna possibilità di scrivere!

Comunque ora comincia il vero piano, le vere speranze, le vere... insomma tutto ciò che ha a che fare con un possibile e futuro epilogo della storia,
un tentativo di fuga, una prova di forza d'animo.
Ce la faranno?
Ah boh, io non so proprio nulla, ragazze.
Ma zero!
Chiedete alle persone che sto stressando con le idee che ho per questa fanfic.

E le ringrazio tanto.
In questo capitolo in particolare vorrei ringraziare Ilaria Rossetton e Nancy Morellato.

Grazie a tutte. Ogni volta che leggo quanto mi apprezzate, anche solo un pochino, o che provate qualche emozione, mi si scioglie il cuore.
Giuro, mi si scioglie.
Grazie, non dirò mai grazie abbastanza.

Al prossimo aggiornamento,
vostra,
Noth

PS: E l'episodio di Whitney? Vogliamo parlarne? Le mie lacrime credo siano state abbastanza.

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Capitolo 11
*** Come back and haunt me. ***


Nobody Said It Was Easy.
-Capitolo 11-


 







   

WARNING: accenni di abusi sessuali.   

« Dentro quella porta, come al solito. E’ il tuo turno, il Dottor Marble ti aspetta. » mi disse un’infermiera. La guardai un attimo e feci del mio meglio per non apparire spaventato. Entrai e cercai di non pensare a cosa potesse voler fare quell’uomo di così terribile da far sorridere sadicamente l’educatore. All’interno la stanza non era come quando avevo subito l’elettroshock, e nemmeno come quando ero stato fatto sanguinare dalle cosce. Al centro c’era un lettino con dei cuscinetti di gommapiuma e, accanto, un tavolino con sopra delle boccette colorate. La stanza era illuminata soffusamente, tanto che sembrava quasi ci fosse un effetto nebbia. Non sapevo cosa aspettarmi, perché non ci avevano fatto interagire tra internati prima e dopo essere stati in quella stanza. Non sapevo com’erano ridotti, non mi avevano detto cosa sarebbe successo, ci avevano tenuti tutti separati.

Nella penombra, alle spalle del lettino, stava un uomo. Era alto, aveva spalle larghe e capelli biondi grigiastri tirati indietro.

Indossava un camice bianco ed era davvero molto alto ed imponente, quel genere di uomo che incute timore solo a vederlo di
schiena. Quando mi chiusi la porta alle spalle si voltò e mi squadrò con un sorriso che non seppi decifrare. Portava degli occhiali

a montatura fina, ed aveva baffi e barba sempre di quello strano colore misto tra biodo e cenere.

« Nome? » domandò, ed aveva una voce profonda. Colsi un velo di autorità malamente celata nel tono.

« Blaine Anderson, signore. » risposi, e lui rise silenziosamente, indicandomi il lettino.

« Non c’è bisogno che mi chiami signore. » sussurrò, facendo un sorriso terribile, di quelli che occupano il viso per intero e
finiscono per deturparlo.

Non mi piaceva, non mi piaceva affatto.

Ma dovevo essere un bravo studente, uno studente modello, quindi dovevo assolutamente restare calmo e fare ciò che mi
diceva. Evitare di piangere, se possibile, e respirare a fondo.

Mi sedetti sul lettino, poggiandomi le mani sulle gambe, e lo fissai in silenzio.

« Dovresti toglierti la maglia ed i pantaloni e distenderti, se non ti dispiace. » disse il dottore, prendendo una boccetta dal
tavolino e mettendosela sulle mani, annusandone il profumo di mandorla e vaniglia.

Mi irrigidii all’istante all’idea di dovermi spogliare, perché sapevo che significava dolore, solo non capivo come potesse farmi
male con degli oli essenziali. Forse bruciavano, o erano urticanti, o corrodevano. Bè, lo avrei scoperto presto.

Mi distesi sulla schiena e mi portai le mani giunte sullo stomaco, respirando profondamente e cercando di non pensarci. Di non
darci peso. Di rilassarmi.

Anche se era impossibile.

Lui fece scrocchiare il collo da una parte e dall’altra e ne seguirono le nocche. Mi guardò e sorrise quasi paternamente, ma non
c’era nulla di paterno in quella smorfia.

« Dovresti darmi la schiena, Blaine. » mi corresse, e così mi voltai, sentendo la gomma calda e pregna del sudore dei ragazzi che
erano entrati prima di me contro il mio petto.

Mi circondai la testa con le braccia e respirai a fondo più volte, serrando gli occhi perché non volevo vedere.

Dopo qualche secondo di silenzio, due mani ruvide iniziarono a spalmarmi l’olio essenziale sulla schiena. Mi scorrevnoa per
tutta la colonna vertebrale, e mi passavano per ogni singolo nervo. Il dottore mi massaggiò le spalle ed il profumo troppo forte
di mandorla mi fece iniziare a girare la testa e far venire da vomitare. Era un tocco troppo intimo, la luce della stanza, il suo
respiro sul collo, quel profumo nauseante e le sue mani sulla mia schiena nuda. Lo sentivo così sbagliato.

Era come se mi stesse violando, non mi piaceva.

Avevo i brividi al suo tocco, ma non lo volevo. Non volevo tremare sotto di lui, era una cosa che mi dava il voltastomaco.

Mi irrigidii immediatamente, e le sue mani esperte lo percepirono.

Mi girava la testa ed avevo quasi il fiato corto.

Volevo dargli un pugno e scappare via, uscire da quella clinica, trovare Kurt e accoccolarmi su di lui. Perché, forse, se mi avesse
toccato lui non sarebbe stato così disgustoso. Non mi avrebbe fatto sentire così sporco e non sarei mai stato così male.

« Blaine, Blaine, Blaine… » mormorò l’uomo, con una voce roca che non mi piaceva per nulla e che mi incuteva un terrore che
non credevo di poter provare. Il cuore mi sprofondò tra le costole e parve asserragliarsi in una prigione dove non avrebbe
potuto sentire quella disgustosa sensazione.

Ma purtroppo poteva.

« Un frocio come te non dovrebbe avere paura di un uomo che lo tocca, o sbaglio? » disse, mantenendo quel tono di voce che
mi faceva venire i brividi.

Mi bruciavano gli occhi, avevo capito benissimo il suo gioco.


Non potevo credere che fossero arrivati a tanto.

Era così squallido che mi veniva da vomitare.

Era quantomeno legale?

« Ecco, Blaine, rilassati. Sto solo giocando un po’ con te e, visti i tuoi… gusti, dovrebbe piacerti, no? » sibilò, mentre con la punta
del dito tracciava per intero la linea della mia colonna vertebrale, facendomi sobbalzare per il brivido e ridendo piano.

Era disgustoso.

Io ero disgustoso.

Dio, mi sentivo così sporco.

 

***



Uscii dalla stanza pallido come la morte, gli occhi inondati dalle lacrime che mi ero imposto di non lasciare cadere. Tremavo,
non sapevo come facevo a rimanere in piedi. Avevo le convulsioni al cuore. All’anima. Mi muovevo a scatti, come se avessi
avuto la sensazione di avere degli insetti addosso. Non appena fuori, incrociai gli occhi di un’infermiera che mi suggerì di andare
in camera finchè non fosse stata ora di pranzo. La sua voce mi arrivò ovattata, e mi parve quasi che parlasse un’altra lingua.

Annuii, cercando di non sembrare scioccato come mi sentivo dentro e mi avviai verso il piano superiore, per raggiungere la mia
stanza. Non appena fui fuori dal campo visivo di qualsiasi forma di vita iniziai a correre, sentendo la stoffa della maglia e dei
pantaloni che mi sfiorava là dove c’erano state le mani di quell’uomo. Nelle mie orecchie ancora rimbombavano le sue parole
piene di odio e d’insulti che mi aveva sussurrato all’orecchio mentre mi accarezzava.

Mi accorsi di stare singhiozzando silenziosamente, mentre mi mordevo il labbro così forte che mancava poco che sanguinasse.
Il corridoio traballava, mi sentivo come se avessi un buco dentro. Un qualcosa di orrendo appiccicato a me e mai, mai mi ero
sentito così orrido. Nemmeno quando mi avevano dato del succhiacazzi. Nemmeno quando mio padre non era riuscito a
guardarmi negli occhi dopo il mio coming-out.

Ed era quello che volevano ottenere.

Lo avevano ottenuto.

Mi facevo schifo, ero la cosa più disgustosa sulla faccia della terra.

Singhiozzando ormai talmente forte che il suono rimbalzava sulle pareti e mi pioveva addosso mi precipitai nella mia camera e
mi gettai sul letto, abbracciando quel cuscino bianco ed anonimo che era appena stato lavato e non profumava né di me né di
casa, e piansi forte contro la stoffa candida. Artigliai il guanciale con le mani tremanti, ed ero così arrabbiato, così sconvolto, che
non riuscivo nemmeno a pensare. Sapevo solo che non mi ero mai sentito peggio.

E che il piano di Kurt mi sembrava così futile ora.

Non sarei mai uscito.

Mi avevano privato di ogni speranza.

E poi ecco che mi balenò alla mente.

Kurt.

L’educatore avrebbe detto che lui avrebbe avuto un trattamento speciale. Improvvisamente ebbi voglia di gridare. Non
dovevano toccarlo. Non potevano toccarlo.

Non potevo sopportare che lo riducessero nel mio stesso stato, non l’avrebbe sopportato.

Però sapevo che se volevo che le cose funzionassero non potevo intervenire. Se avessi fatto qualcosa, qualsiasi cosa contro di
loro tutta l’idea del tutor, della finzione e di New York sarebbe stata inutile.

Cosa dovevo fare?

Il cuore mi si strappò con un suono sordo, e soffocai un grido sul cuscino.

Ero un grande idiota, prigioniero dell’inferno e che non riusciva nemmeno a salvare il ragazzo che…

Che cosa?

Che amava?

Non ero nemmeno sicuro di ricordare cosa fosse l’amore in quello stato.

Non riuscivo nemmeno più a ricordare come si stava quando si stava bene.

Sperai di soffocare.

 

***


Erano passate un paio d’ore. Era quasi ora di pranzo, e la struttura era silenziosa come sempre. Ora che le sensazioni forti
iniziavano a sciamare, molto lentamente, non riuscivo a fare a meno di pensare a Kurt. Era impossibile non pensarci. Avevo
bisogno di vederlo, perché sapevo che mi avrebbe aiutato. Avrebbe avuto le parole giuste. E poi, Dio, volevo solo un suo abbraccio, poterlo sfiorare e sentire che era tutto okay.

Ma i contatti erano proibiti.

Se mai ci avessero scoperto sarebbe stata la fine.

Mi alzai a fatica dal giaciglio che mi ero malamente costruito con il cuscino e le lenzuola e mi stropicciai la faccia. Presi un paio di
respiri e cercai di fermare il tremore intermittente alle mani.

Dovevo solo arrivare alla stanza di Kurt.

Era una pessima idea, lo sapevo, ma volevo farlo. Lo volevo così tanto che faceva terribilmente male. E che non riuscivo
nemmeno a rendermi conto di quanto fosse stupido.

Sgattaiolai fuori cercando di darmi un contegno, ma i flash di quei tocchi rubati non facevano altro che martellarmi il cervello.

Era un incubo.

Raggiunsi la stanza di Kurt e c’era solo silenzio. Chiaramente la porta non si poteva chiudere, quindi riuscii ad entrare senza
problemi. Bussai, ma non rispose nessuno. Forse non era ancora stato…

Non riuscii nemmeno a pensarlo.

Aprii lentamente la porta, con gli occhi annebbiati, cercando di non ricominciare a piangere. Nel letto non c’era nessuno, Kurt
era raggomitolato a terra, le lacrime gli scorrevano sul viso e sembrava svenuto.

Rimasi bloccato sulla porta.

Era come guardare le macerie di quella che prima era stata una stupenda costruzione.

Mi affondai le unghie nei palmi e mi chiusi la porta alle spalle, buttandomi a terra accanto a lui.

 

 

 













------------------------------------------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Innanzitutto mi rendo conto di aver trattato un tema cruento.
Chiaramente mi rendo conto del fatto che una cosa del genere non sia legale, in quanto violenza psicologica, più che fisica.
Ma, fidatevi, lo so e ho un piano anche riguardo a questo. Non avrei trattato questo tema se non fosse fondamentale per la fine della fanfiction. Vi prego solo di non odiarmi.

In ogni caso scusate, lo so che vi faccio penare, lo so, ma il mio angst torna sempre fuori come qualcosa di molto fluff.

Grazie per tutte le bellissime recensioni,
mi vien da piangere a guardarle.
Grazie per ogni complimento o parere o critica.

Grazie di tutto.
Scusate se sono lenta ad aggiornare, avete il permesso di uccidermi.

E sta notte episodi. Emozionate? Mancano solo 3 episodi.
3.
3.
E dico 3.
Okay, la smetto di farmi del male.

Vostra,
Noth. 

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Capitolo 12
*** Heads are a science apart. ***



Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 12-










Mi assicurai di avere come minimo chiuso la porta così che, se qualcuno fosse entrato, avrei almeno visto la maniglia abbassarsi. Mi avvicinai a Kurt, che respirava piano ed aveva le guance lucide di lacrime e le labbra viola. Mi accorsi di non volere sapere perché. Mi inginocchiai ma non sapevo cosa fare, non capisco se fosse ferito, se volesse essere lasciato solo. Non l’avrei comunque fatto. Lo presi in braccio e mi sedetti sul letto, poggiandogli la testa sulle mie ginocchia. Attesi che riprendesse conoscenza, che tornasse da me mentre sentivo il cuore pulsare per la rabbia. Potevano portarmi ad odiare me stesso, a sentirmi disgustoso, potevano violarmi ma non potevano distruggere Kurt.

Li avrei ammazzati.

Una parte di me, nonostante il piano, voleva correre giù dal Dottor Marble e prenderlo a pugni finchè non sarei più stato in
grado di distinguere la sua faccia.

Sfiorai la guancia di Kurt per levare quell’effetto lucido che mi faceva venir voglia di piangere, ma appena lo toccai lui sussultò,
si ritrasse e sobbalzò in avanti, inspirando di colpo come se stesse emergendo da infiniti minuti sott’acqua. Respirava forte ed
era pallido, gli occhi dilatati ed il petto tremante. Si allontanò a me, raggomitolandosi vicino alla testata del letto. Mi guardava
con occhi selvaggi.

« Kurt… » iniziai, e lui spalanco ulteriormente le palpebre.

« B-Blaine? » mormorò, con aria sorpresa. Non capivo, chi credeva fossi? Il Dottor Marble?

« Certo, sono io. » risposi, sentendo un brivido lungo la schiena ed una voglia malata di chiudere le palpebre e non aprirle mai
più al pensiero di quello che si era spacciato per un medico ma non lo era.

Kurt singhiozzò ed i suoi occhi si allagarono. Avrei voluto avvicinarmi ma avevo paura di peggiorare la situazione.

« Dio… » disse, e mi avvicinai lentamente a lui, non smettendo di fissare i lividi che lo ricoprivano.

« Lo so, mi dispiace. » mormorai, abbassando lo sguardo. « Posso… mi permetti di abbracciarti? » domandai. Nonostante al
momento detestassi l’idea di qualsiasi tipo di contatto fisico, avrei ucciso per essere toccato da Kurt, perché avrebbe messo
tutto a posto e forse avrei capito che non ero poi così disgustoso.

« Non abbracciarmi. Mi faccio ribrezzo. » disse in un sussurro, stringendosi le ginocchia e scoprendo una macchia scura sulla
pelle del collo. Mi morsi l’interno della guancia e deglutii, cercando di fermare il tremore alle mani.

« No, no. Non è vero. Te lo vogliono fare credere. » mi avvicinai impercettibilmente, e continuai a fissare quella creatura così
fragile che si presentava ora irrimediabilmente crepata.

Avrei dovuto usare molto scotch per ripararlo.

Lui alzò la testa e mi guardò, con un’espressione di innocenza violata, di confusione, di terrore, di voglia di fuggire.

« Tu non ti fai schifo ora? » chiese, con una convulsione alla schiena che gli contrasse il viso.

Non riuscii a mentirgli.

« Bè, sì. Ma magari… » presi fiato. « magari assieme possiamo aggiustarci a vicenda. Io non credo di… non credo di poterci
riuscire da solo. » incassai la testa tra le spalle, ricordando l’odore degli oli usati dal Dottor Marble ed avendo un conato. Chiusi
gli occhi e cercai di cancellare la nausea e le linee di fuoco che ancora sentivo brucianti e ben distinte sulla mia pelle.

Kurt mi fissò come un bambino sconvolto.

« Tu non fai schifo. » mugugnò, e mi lasciai scappare un sorriso amaro.

« Questo lo sai solo tu. » sussurrai, e lui lasciò le ginocchia con aria concentrata, si morse il labbro con violenza ed allargò le
braccia.

« Puoi… potresti abbracciarmi? » fiatò e, come se fossimo due animali che si scrutavano a rallentatore, ci avvicinammo
lentamente, fino ad incastrarci come se fosse una cosa che aspettavamo da una vita.

Ricordai i versi di una canzone.

“I finally found you, my missing puzzle piece. I’m complete.”

La pelle di Kurt era morbida, e le sue braccia mi stringevano con cautela. Se fosse entrato qualcuno, probabilmente saremmo
stati fottuti alla grande ma, in quel momento, volevo solo che Kurt prendesse ogni atomo di me e che mi curasse. Non
dall’omosessualità, ma da quell’odio che ci scavava dentro in maniera violenta, come una serpe velenosa e selvaggia. Il suo
profumo prendeva spazio nella mia mente al posto di quello degli oli, e la mia carne assorbiva la sua essenza con impeto,
guarendo le linee profane che mi scorticavano l’anima. Incastrò la testa nell’incavo del mio collo e sentivo i suoi capelli morbidi
solleticarmi il mento. Avevo aspettato di abbracciare così qualcuno tutta la vita.

« Io non so se ce la faccio a provocarli ancora… » sussurrò, e lo sentii deglutire rumorosamente.

« Non… non sei obbligato. Davvero, non voglio che ti fai del male solo per… »

« Solo per te? » rise senza divertimento.

« Solo per una cosa come me. » spiegai.

« Io credo proprio che tu non capisca. »

Tacqui, e ci staccammo. Mi tenne le mani con esitazione, come se combattesse contro un’antica abitudine. Non riuscii a
guardarlo negli occhi.

« Credo di capire piuttosto bene. »

« No. » disse secco. « Non capisci che non importava a nessuno di me, prima, se non a mio padre. Poi tu sei arrivato ed io ero
l’unica cosa di cui ti preoccupavi, senza apparente motivo. Ed io… ho iniziato a credere di non essere destinato solo al disprezzo
da tutti e, per questo… ho iniziato a capire che mi piacevi. Te lo avevo già detto. Il tuo modo di fare, di parlare, di ridere, di
piangere, di fingere… E’ questo che non capisci. È per questo che... lo devo fare. » spiegò, e non sapevo cosa rispondere, perchè
non mi aveva mai detto nessuno delle cose del genere. Cosa avrei dovuto rispondere?

« Chi l’avrebbe mai detto che sarei dovuto venire qui per trovare qualcuno come te. » dissi, e lui alzò un sopracciglio.

« Come me? »

« Perfetto nella tua imperfezione. » spiegai, e lui sbattè le palpebre sorpreso mentre, timidamente, gli stringevo le mani. Lui
sul momento si ritrasse con un brivido.

« Scusa, scusa. » sussurrò, abbassando lo sguardo e capii che ogni tocco lo faceva pensare a quel porco. E mi accorsi che ci
pensavo anche io e mi dava il voltastomaco. Mi avevano portato via l’intimità, ero arrabbiato e terrorizzato e dovetti respirare
a fondo per non urlare.

« Ne verremo fuori. » fiatai, sentendo una goccia di sudore colarmi fastidiosamente lungo la schiena al pensiero. Dovevo
lavarmi le mani ed il respiro di quell’uomo dalla mente.

« Sì. » rispose. « Ce la faremo. »

« Assurdo che dobbiamo comportarci come criminali, come internati in un campo di concentramento… Dio, siamo nel XXI
secolo ed in realtà non è ancora cambiato nulla per le minoranze. » commentai, alzandomi e venendo assalito dal ricordo di una
carezza sulla curva della schiena e quasi mi cedettero le ginocchia.

Non mi avrebbero rotto, non mi avrebbero rotto…

« Tutto… bene? » squittì Kurt, ed annuii a scatti.

« Certo. » risposi. « A te… che hanno fatto? » domandai, e lui si aggrappò alle lenzuola mentre, probabilmente, aveva un
capogiro.

« Mi dispiace, Blaine. Mi dispiace ma non voglio dirtelo. » disse impallidendo, ed annuii di nuovo, pensando che forse non
volevo saperlo.

Lo guardai e notai solo allora il livido che andava formandosi dalla sua tempia alle labbra viola.

Mi morsi così forte la guancia che pensai di strapparla.

Feci per parlare, ma qualcuno entrò nella stanza e feci un passo indietro. Un uomo con un camice bianco ed una mascherina ci
guardò con aria interrogativa.

Misi faticosamente in moto il cervello.

« Lo ho riportato in camera, si è svegliato confuso e gli ho illustrato i prossimi programmi della giornata. Credo di potere
tornare alla scrittura quotidiana del mio diario, se me lo permette. » mentii, con un’aria seria ed apatica.

L’uomo mi squadrò e mi fece cenno di andare, poi chiuse la porta e mi seguì, accompagnandomi fino alla mia stanza.

« Grazie dell’aiuto, sembra che tu abbia impressionato gli educatori alla mensa. Parlano bene di te. » disse, allontanandosi.

Dovevano essere proprio rare le eccellenze se li avevo impressionati con così poco. Forse era proprio per quel motivo che il
nostro piano poteva funzionare.

Forse.


















------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:

"Perfetto nella tua imperfezione" qualcuno ha la sensazione di averlo già sentito? Lol, amabile Fox.

Comunque scusatemi, davvero, mi picchierei a sangue solo per questo assurdo ritardo, what's wrong with me? In ogni caso spero che questo fluff vi abbia un po' risvegliato dall'ultimo capitolo, e vi avviso che ho deciso come farla finire ora, quindi abbiate paura, prima avevo dei dubbi.
Ora vi lascio, siete libere di picchiarmi!

Grazie per le recensioni, che sono sempre una meraviglia da leggere. Siete cos' gentili, vorrei venire là e mangiarvi. Solo per la vostra dolcezza e gentilezza.
Grazie.

Vostra,
Noth.

Pagina Facebook: http://www.facebook.com/pages/Noth-EFP/364038186940771

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Capitolo 13
*** Chasin' our tails. ***


Nobody Said It Was Easy
-Capitolo 13-










Era passata una settimana e, incredibilmente, ero stato affidato come tutor a Kurt. Forse spiccavo sul serio, forse il nostro
piano non era stato così tanto un’utopia. Gli educatori mi guardavano come fossi un prodigio, forse fingevo meglio di quando
chiunque altro avesse tentato prima di me. Le punizioni si ripetevano e ne arrivavano sempre di nuove. Il Dottor Marble,
grazie a Dio, non era più tornato, anche se questo non aveva placato i miei incubi ed i conati di vomito al pensiero. Mi sentivo
ancora bruciare e, nei miei sogni, l’avvenimento si ripeteva ad oltranza. Però potevo passare del tempo con Kurt, leggere a lui il mio diario – che veniva rigorosamente controllato – dirgli le solite frasi forti sulla nostra erroneità alla quale nessuno dei due credeva, ma che mi si spezzava il cuore a pronunciare perché mi sentivo uno di loro. E io non lo ero.

Fingevo per Kurt, fingevo per Kurt, fingevo…

Qualcuno bussò alla porta della mia stanza. Aggrottai le sopracciglia; nessuno bussava lì, non lo avevano mai fatto. Non sapevo
se fosse uno scherzo, ma risposi in automatico.

« S-sì, avanti. » balbettai, e la maniglia si abbassò all’istante facendo entrare quello che ormai consideravo l’educatore capo.

Mi trattenni dal trasalire e sperai di non tremare come ancora tendevo a fare come riflesso condizionato. In quel momento
potevo ancora sentire il caldo soffocante della stanza in cui ci aveva chiuso, e le scosse e le percosse dei suoi colleghi.

Ma non potevo darlo a vedere.

« Buongiorno, signor Anderson. » esordì, avvicinandosi.

« Buongiorno. » risposi, e lui sorrise, un sorriso da denti marci da zucchero. Inquietante, triste, cupo, non allegro.

« Ho fatto qualc… » iniziai, imponendomi di non tremare ed apparire calmo e sano, ma lui mi interruppe.

« Blaine Anderson, » cominciò. « il paziente modello dell’ultima settimana. Il paziente che guarisce. » sorrise di nuovo, e mi
costrinsi a non distogliere lo sguardo.

« Quindi non era mai guarito nessuno prima? » domandai, intrecciando le mani sopra le gambe e restando seduto sul letto
immacolato. Kurt aveva avuto ragione, in un certo senso si faceva l’abitudine al bianco. A tutto quel candore immacolato
ovunque.

« Ma certo che sì, certo che sì. » si affrettò a dire, ridendo, e scacciò il pensiero con un gesto della mano. « E’ tutta questione di
volontà, Signor Anderson. » spiegò.

« Oh, certo. » lo assecondai, annuendo.

Rimanemmo di nuovo in silenzio, e poi fu lui a parlare.

« Avrei un altro compito per te. Sono sicuro che un impegno in più non ti farà differenza e, in effetti, non è esattamente una
richiesta ma un ordine. »

« Un compito per… me? »

Lui rise ancora, un suono fastidioso.

« Ovviamente. »

Forzai della gentilezza, nonostante volessi saltargli addosso e ricoprirlo di pugni ed insulti.

« Cosa posso… fare per lei? » chiesi, e lui inarcò le sopracciglia.

« I miglioramenti del signor Hummel sono evidenti, deve avere una sorta di effetto balsamico sulle persone... sovversive. »

Abbozzai un sorriso.

« Mi è sempre piaciuto aiutare il prossimo. » feci spallucce e lui mi diede una misurata pacca sulla spalla. Mi trattenni dallo
scattare e mordergli la mano.

« E lo sta facendo piuttosto bene, per questo mi rivolgo a lei. È il primo internato al quale propongo una cosa del genere. » mi
ammonì, come se fossi un bambino. Io annuii accondiscendente ed aspettai che mi spiegasse.

Sorrise di nuovo, e avrei voluto pregarlo di smettere.

Mi resi conto di quante cose avrei voluto fare ma non facevo.

« Ehi, Signor Puckerman? » chiamò, voltandosi verso la porta. Alzai un sopracciglio quando questa si spalancò e un ragazzo con
le mani legate ed un bavaglio in bocca venne quasi spintonato dentro da qualcuno che non vedevo. « Bravo ragazzo. » disse
l’educatore, e applaudì malamente. Spostai il mio sguardo dal ragazzo all’uomo vicino a me, senza ben capire.

Il giovane era alto e muscoloso, avrebbe potuto tirargli un pugno in faccia e spaccargli la mascella se avesse voluto. I capelli
erano quasi rasati ai lati e teneva una cresta corta al centro della testa. Aveva occhi scuri e fiammeggiavano d’ira. Sicuramente,
se non fosse stato legato, avrebbe preso la testa dell’educatore e l’avrebbe schiantata sul muro. E lo capivo.

Forse, l’avrei perfino lasciato fare.

L’uomo accanto a me si alzò e prese il ragazzo per le mani legate.

« Signor Anderson, questo è Noah Puckerman, ed è un paziente particolarmente… vivace. Le nostre… terapie stanno avendo,
lentamente, il loro effetto, ma siamo convinti che un sano confronto con lei potrebbe aiutarlo. Soprattutto visto che è stata la
madre e richiedere un tutoraggio speciale in caso di comportamenti errati. » spiegò l’educatore, e gli alzò le braccia come se
fosse stato uno schiavo in vendita. Mi girò la testa.

Solo allora riuscii a vedere tutti i lividi dai quali era percorso, i tagli e la pelle arrossata. Cosa avevano fatto a quel povero
ragazzo? Che aveva detto per meritare quel trattamento? Ringraziai silenziosamente per il solo fatto che Kurt non fosse stato
trattato in quel modo. Forse c’era di peggio, o forse Noah era appena arrivato.

« Quindi io dovrei… »

« Lo stesso che fai con Kurt. Un semplice dialogo con qualcuno sulla via della redenzione potrebbe aiutare, non credi anche tu?
» disse, mentre Puckerman mugugnava qualcosa attraverso il fazzoletto che gli bloccava l’uso della bocca.

« Assolutamente. » risposi, e l’educatore si allontanò, mollando cautamente Noah e facendogli segno di sedersi sul letto accanto
a me mentre abbassava la maniglia e mi sorrideva fiducioso e con quel retrogusto amaro che mi faceva schifo.

« Mezz’oretta per oggi sarà sufficiente, poi sarà ora della terapia di gruppo con me, quindi vedremo i progressi. » specificò
prima di guardare Puckerman. « Perché ce ne saranno. » lo ammonì, e lui lo guardò con aria di sfida. L’educatore tornò a
guardarmi. « Decidi tu se slegarlo. »

La porta si chiuse alle sue spalle, e il ragazzo rimaneva legato.

Presi un respiro profondo e mi alzai in piedi. Quando mi avvicinai lui grugnì minaccioso e fece per allontanarsi.

« Vuoi che ti liberi le mani e la bocca oppure no? » sbottai, e lui si rilassò, così che potessi slacciare i nodi stretti che gli tiravano
la pelle.

Quando il fazzoletto gli fu rimosso dalla bocca lui tossì. Lo avevano ridotto ad uno straccio, e non era esattamente minuscolo e
poco imponente.

Lo squadrai.

« Ti hanno conciato per bene. » commentai.

« Che c’è? La smetti di fissarmi o sei anche tu un sadico schifoso? » sbottò, e si sedette a gambe incrociate sul pavimento, non
guardandomi mai negli occhi.

« Se mi stai paragonando a loro hai dei grossi problemi. Sono qui per aiutarti. » dissi, non sapendo esattamente in che modo
avrei mai potuto aiutarlo, visto che a malapena riuscivo ad aiutare me stesso.

« Ah sì? Davvero? Posso essere aiutato? Illuminami! Tanto io non voglio guarire. » sbottò, con un sorrisetto falso quanto
beffardo in volto. Capivo perfettamente come si sentiva, e non lo biasimavo per essere così arrabbiato.

« Innanzitutto dimmi chi è lui. »

« Lui chi? » domandò, colto in contropiede.

« Quello che ti ha fatto finire qui dentro. Quello che ti ha fatto capire chi eri, quello per il quale non vuoi guarire. »

Lui alzò in sopracciglio e mi guardò sorpreso.

« Chi ti dice che ci sia qualcuno? » sibilò, con aria di sfida.

« Perché se credi di essere l’unico ti sbagli. E di grosso. Ed è una cosa che so riconoscere bene, perché la vivo… in prima
persona. » aggiunsi abbassando la voce.

Puckerman distolse lo sguardo.

« Non ti picchierò per avermelo detto, Noah. » specificai.

« Tanto non ci riusciresti. » disse, e guardò accanto a sé.

Attesi per un tempo che mi parve interminabile, ma alla fine lui sospirò e si arrese.

« Si chiama Sam. » disse, in un sussurro, ed un sorriso impercettibile gli curvò le labbra. Un sorriso che racchiudeva dei
sentimenti di una dolcezza infinita, e mi domandai se mi si leggesse lo stesso cauto affetto mentre parlavo con Kurt.











































--------------------------------------------------------------
Spazio Autrice:
Ebbene sono tornata da Milano, finalmente, e sono riuscita ad aggiornare, scusate il ritardo.
Ebbene, chiunque mi conosca sa quanto io e la Sallingstreet e la Suck abbiamo un rapporto stretto.
Aspettavo da tanto di scrivere questo momento.

Ora mi servono davvero dei pareri sulla storia, siamo arrivati ad un punto abbastanza avanti e sono capitate diverse cose, ed un riscontro mi sarebbe incredibilmente utile, quindi chi meglio di voi fantastici (ed un po' pazzi a leggermi) lettori? 

Mi farebbe davvero piacere e mi sarebbe molto utile. 

Un bacio,
Vostra,
Noth

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Capitolo 14
*** Easy was it said nobody. ***


Nobody Said It Was Easy.
-Capitolo 14-









« Si chiama Sam. »

Le parole di Noah erano state chiare e decise. Il suo sguardo si era ammorbidito, ed aveva alzato il capo al soffitto, come se
avesse potuto vedere il cielo. Lo fissai, e congiunsi le mani sopra le ginocchia, sopprimendo l’istinto di sorridere, sapendo
benissimo che, essendo rinchiuso là dentro, le cose non dovevano andare per niente bene per lui. Probabilmente era separato
dal suo Sam, mentre io avevo avuto la fortuna di avere il mio Kurt all’interno della clinica.

« Come è successo? » domandai, cercando di non sembrare invadente, semplicemente volevo prima conoscerlo un po’ se
dovevo parlargli e continuare la farsa dello studente modello.

Lui si voltò verso di me con sguardo confuso.

« Cosa? »

« Tu e Sam. » ripetei, con un cenno del capo, e lui strinse le labbra con diffidenza.

Non sembrava intenzionato a parlarne.

« Non sono un educatore, non ti picchierò per ciò che mi dirai, non voglio farti… del male. » ripetei esasperato. Non era facile
come pensavo. Lui abbassò lo sguardo e strinse la stoffa dei pantaloni tra le mani, per poi lasciarla andare con un sospiro.

« Se lo dici a qualcuno ti ammazzo. » sibilò, e io deglutii un nodo d’ansia, annuendo.

Si inumidì le labbra e pensò a come cominciare quel discorso. Era importante spiegarlo bene, dopotutto? Far sapere a qualcuno
la propria storia in maniera impeccabile, solo per il gusto di sentire il filo narrativo di ciò che ci era successo?

Creature impressionabili, gli uomini.

« Io e Sam eravamo nella stessa squadra di football al liceo. Dal nostro primo anno avevamo legato moltissimo, seguivamo in
gran parte gli stessi corsi, pranzavamo assieme ed i pomeriggi in cui non eravamo occupati negli allenamenti li passavamo a
casa sua. Mio padre non mi permetteva di portare amici a casa, o meglio, mi aveva sempre lasciato fino a che non avevo
iniziato a portare solo Sam. Da quel momento iniziò a farmi dei discorsi sugli omosessuali. Mi spiegò cos’erano, la loro inutilità, il
fatto che fossero malati e che la malattia fosse terribilmente contagiosa. Mi disse di stare attento, che alla mia età ero molto più
vulnerabile. Iniziai a pensarci, iniziai ad arrovellarmi ed ebbi paura. Paura perché mi ritrovavo nella descrizione fatta da mio
padre. Non avevo mai voluto considerare la cosa, perché credevo fosse normale provare quel tipo di sentimento per un amico.
Ma ciò che sentivo per Sam era più della semplice amicizia. Non era come quella per gli altri compagni di squadra o di corso,
era più forte e mi resi conto che il mio cuore schizzava in orbita quando mi sorrideva. Iniziai a sospettare di essermi ammalato,
ma non lo sappi mai davvero, non finchè un giorno ero andato a casa di Sam di nascosto, dopo aver mentito a mio padre e
avergli detto che avrei partecipato ad una festa e invece avevo dormito da Sam. Nel letto matrimoniale della sua stanza, ad un
certo punto, ci siamo sfiorati le mani. Le abbiamo intrecciate ed il mio cuore pareva essere nel mezzo di una maratona,
sembrava sotto l’effetto di stupefacenti. Ci siamo baciati e non so nemmeno dire come successe. Il resto poi fu una catena di
eventi che portò mio padre a scoprirlo e a mandarmi qui. I genitori di Sam sono religiosi, eppure sono riusciti ad accettarlo,
perché mio padre, che non crede in nulla, privo di valori stabili se non l’alcool, non riesce nemmeno a guardarmi in faccia? Mia
madre, che mi ha sempre voluto bene, ora fatica a sfiorarmi? Quando uscirò di qui, se mai uscirò di qui, non voglio vederli mai
più. » terminò. « Non mi guariranno, io tornerò da Sam. »

Lo guardavo, mentre lui non abbassava lo sguardo per nascondersi dopo avermi raccontato ogni cosa. Mi osservava come se
avesse voluto mettermi alla prova, ma non sapeva che lo capivo alla perfezione. Non sapeva com’era stato per me, e non
sapeva cosa stavo architettando.

Non poteva sapere, non ancora.

Annuii e cercai di tendere l’orecchio, provando a capire se ci fosse stato qualcuno per i corridoi. Non mi parve di sentire nessun
rumore di passi, ma ero troppo prudente per parlare e basta. E non potevo farmi beccare, altrimenti addio Kurt. Ed era fuori
discussione.

« Sentimi bene, se ti chiedono io ti ho fatto fare una chiacchierata sulla correttezza, sulla deviazione del pensiero alla quale
porta l’omosessualità e sul fatto che ci siamo autoconvinti di ciò che siamo, ma questo non ci rende tali. Okay? Sono stato
chiaro? » mi avvicinai a lui e mi ci inginocchiai di fronte, parlando sottovoce e non smettendo di fissarlo. Dopo ciò che mi aveva
detto non ero in grado di fingermi il perfettino che volevano, non ero capace di raccontargli le solite frasi che ci dicevano da
quando eravamo lì dentro. Non me la sentivo, a mettermi nei suoi panni, con tutti quei lividi e tagli, la paternale era l’ultima
cosa che avrei voluto sentire.

E sarei stato un ipocrita, ma quello era l’ultimo dei miei problemi.

« Uh? Ma tu non dovresti essere uno di loro? » mi rispose, sorpreso, mentre si massaggiava i polsi e si passava un dito sopra
tutti le ferite che gli puntellavano la pelle ma, peggio di tutto, soprattutto l’anima. Perché quelle violenze erano il genere di
ferita che ti restava dentro, che non si cicatrizzava e che i pensieri andavano continuamente a stuzzicare.

« Non faccio parte di nessun team, io, non sono nessuno. Ed ora vai fuori, tanto ti rimanderanno da me presto, e parleremo di
quello che vuoi fare qui dentro. » dissi, sparando la prima cosa che mi venne in mente e dandomi dell’idiota, perché così
suonavo esattamente come un educatore.

In effetti era così che avrebbe dovuto essere.

Io, il cocco del mio assassino.

« Non mi fido di te. » sibilò.

« Non ho detto che ti devi fidare, ho detto che ti riporteranno da me, lo so per certo. » mi alzai in piedi ed allungai una mano
per aiutarlo ad alzarsi. Dopo qualche attimo Puckerman capì che era il mio modo di invitarlo ad andarsene, ed afferrò riluttante
la mano, stringendo i denti per non sentire il dolore che cercava di celare. Ci riusciva bene, ma non abbastanza. Non da
nasconderlo agli occhi di chi sapeva cosa si provava.

Lo accompagnai alla porta e lo feci uscire, senza salutarlo, senza dire nessun commento sul suo racconto, senza fargli capire
cosa pensassi, lasciandolo a se stesso come, forse, avrebbe dovuto essere.

Mi sedetti sul letto e cercai di fermare la mente, ma questa stava già viaggiando troppo velocemente. Stava già correndo.
Correndo a Kurt, alla vita che avremmo potuto avere. Pensai a cosa avrei raccontato se avessi dovuto dire come ci eravamo
resi conto di quel noi. Riflettei, e l’unica cosa che riusciva a formarsi nella mia mente era quell’incontro casuale, quel posto in
mensa, quella sedia elettrica, era stato come un elettroshock nella mia vita. Era ironico come ci avessero portato lì per farci
guarire, ed invece avessimo finito per trovare quella persona che si sogna di portare con sé per il resto della vita. Come ci
eravamo conosciuti? Com’era nato ciò che c’era tra di noi? Non riuscivo a formularlo a parole, forse ero pessimo a riguardo, o
forse non c’era modo di spiegarlo, come la maggior parte dei fenomeni che ci colpiscono durante tutta la vita.

Un po’ come una reazione chimica della quale ancora non avevo scoperto la formula.

Mi tremarono le mani, perché non era sicuro il risultato di quella reazione. Potevamo restare chiusi lì dentro in eterno, a venire
picchiati a causa di ciò che ci facevamo a vicenda, ad essere malmenati per via del nostro battito cardiaco che accelerava di
fronte alla persona sbagliata. Ma mica lo controlli, poi, il battito cardiaco.

 

***

Dopo la seduta con l’educatore avevo finalmente del tempo con Kurt. Stare con lui era una boccata d’aria fresca, come se per
tutto il resto del tempo trattenessi il respiro. Per le nostre prima sedute c’era sempre stato qualcuno alla porta, a sentire cosa
gli dicevo, le bugie ipocrite che mi inventavo e per controllare che tra di noi non vi fosse alcun contatto. A volte Kurt faceva il
difficile, così per mettermi alla prova e rendere il tutto più credibile. Ultimamente, però, avevano per qualche strano motivo
deciso di darmi fiducia, e la cosa era sfociata nell’avere del tempo da solo con Kurt. Mi pareva così strano che mi permettessero
di passare qualche attimo con lui senza essere controllato. Continuavo ad insistere che ci fosse qualcosa sotto, ma Kurt mi
dissuadeva sempre, ricordandomi che non esistevamo solo noi all’interno della clinica, e che vi erano casi più gravi del suo,
come Noah, ad esempio, che ancora si ostinava a rispondere agli educatori, nella speranza di venire espulso, o qualcosa del
genere. Non aveva ancora capito che era con i tipi come lui che gli educatori si divertivano di più. Stava sbagliando strada, ma
non potevo rivelargli quella giusta, o sarebbe sembrato sospetto, e avrebbero scoperto anche noi. Non potevo permetterlo, ci
stavamo impegnando tanto, e desideravo quel maledetto lieto fine come se ne andasse della mia vita.

Volevo essere felice, con Kurt, lo volevo così tanto.

Ero nuovamente seduto sul mio letto in attesa di Kurt, incredibile quanto tempo passassi appollaiato su quel materasso bianco
ed avvolto da quel fantomatico nulla che avrebbe dovuto indurmi a una sorta di purificazione. Le regole della clinica erano
ancora appese alla parete, come dei comandamenti malvagi, a bruciare ogni volta che le guardavo e a ricordarmi quanto le
seguissi come un automa. Certo, tutte meno quella di non stare con il ragazzo che amavo nella stessa stanza.

Qualcuno abbassò la maniglia e seppi già chi era prima che lo vedessi.

Era venuto il mio tanto agognato tempo da tutor.

Avevamo tre quarti d’ora tutti per noi.

Kurt sorrise lievemente, quando mi vide, e si chiuse la porta alle spalle come se lo avesse fatto un milione di volte, e non potei
fare a meno di immaginarmi in un ipotetico futuro, in una vera casa, magari con dei figli, e lui che tornava a casa e mi trovava
seduto sul divano a guardare la televisione. Poi avrebbe potuto stringermi la mano, toccarmi, baciarmi senza venire punito.

Si sedette per terra, non veniva mai sul mio letto. Allora io scivolavo giù e lo imitavo, incrociando le gambe sul pavimento
bianco. Lui sorrideva, e tirava fuori il suo diario. Non parlavamo, non ci salutavamo nemmeno.

Come ogni volta iniziò a leggere ciò che aveva scritto. Cose terribili, di solito, e non sapevo quali di queste pensasse sul serio e
quali esagerasse per sembrare incredibilmente problematico. Non mi interessava, poteva anche scrivere dell’apocalisse se solo
ci avesse potuto portare fuori di lì.

Come al solito lo lasciai parlare, e mi faceva male il cuore. Cercai di non dare a quelle parole affilate il peso che Kurt ci
attribuiva. Cercai di smetterla di vederle come se davvero fosse così tanto ferito, perché mi ci ritrovavo, e faceva male.

«… ed è per questo che mi domando che razza di errore possiamo essere, se il solo sfiorare un altro uomo può portarci a delle
ferite fisiche e psicologiche così profonde. Se devo essere toccato da qualcuno in modo da sentirmi violato per arrivare a
detestare me stesso pur di perdere questa fissa che fa parte di me che è l’amore per un altro ragazzo. E gli educatori ci
feriscono, perché loro per primi sanno di avere il dovere ed il potere di giudicare qualcosa che non è loro. Ma la verità è che è
l’umanità intera ad essere così. E ho paura di me, paura di tutto, paura del mondo e di questo mio essere sbagliato. Perché,
diciamocelo, forse dovrei guarire, chi mai potrebbe amare un mostro? È questo ciò che ci vogliono far credere. » terminò,
chiudendo il diario e lasciando lo sguardo basso. Pareva che il tempo si fosse fermato, sentivo tutto passarmi attorno in slow-
motion. Percepivo l’aria, i nostri respiri, le mie indecisioni, le paure che continuavo ad avere ma che, avevo imparato con Kurt,
non avrebbero potuto fermarmi.

E fu allora che decisi.

Gli presi la mano. Un gesto lento, un gesto che cercai di trattenere ma che venne da solo, stanco di restare bloccato nella mia
testa e nei miei pensieri. Lo misi in atto, un po’ come lo avevo sempre sognato, un po’ come il mio cuore decise di guidarlo. E
quando toccai la sua pelle pensai alla volta in cui lo avevo fatto e mi avevano trascinato via. Alla volta in cui ero stato punito per
quel singolo gesto innocente e che ancora adesso mi faceva non poca paura.  Kurt spalancò gli occhi, divennero enormi e si
puntarono nei miei. In un certo senso vi scorsi la stessa mia paura, dall’altra parte scorgevo una sorpresa celata
dall’aspettativa.

Gli brillavano gli occhi, ed era un po’ come osservare dei cristalli di ghiaccio riflettere la luce del sole. Un po’ come l’aurora
boreale.

Non so come lo decidemmo, non so chi ci diede il coraggio, non so con quale stupidità e mancanza di buon senso lo facemmo, so
solo che le nostre labbra si incontrarono, ed il mio mondo si capovolse, per poi esplodere. 












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Spazio Autrice:
Scusate, ci ho messo un mese, che pessima fanwriter. Avete il permesso scritto di picchiarmi.

Allora, eheh, doveva succedere prima o poi, diciamocelo. 

Non so cosa dire, è un momento piuttosto importante della storia, quindi un parere sarebbe davvero gradito.
Se volete spararmi per il ritardo fatelo pure. D:

Noth

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