The hill' silence

di Patta97
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Pilot chapter ***
Capitolo 2: *** 2. Il disastro aereo ***



Capitolo 1
*** 1. Pilot chapter ***


Mi chiamo Sabine Perrot e questa è la mia storia.
A diciotto anni, non avevo una casa, ma vivevo dove capitava.
Sei mesi prima ero fuggita dalla base sperimentale che era stata la mia casa negli ultimi sette anni.
L’abbandonai perché era in fiamme ed ero spacciata.
Lì morirono l’uomo che mi aveva cresciuta come una figlia, il mio gemello, la mia migliore amica e il mio maestro.
Dopo quel doloroso incidente mi rimasero solo il mio migliore amico e il figlioletto del primo morto che ho citato. Il bimbo, di sette anni, tornò subito dalla madre che lo aveva lasciato alla nascita. Il mio migliore amico rimase con me.
Come sempre.
Sedeva accanto a me, quel pomeriggio, sul marciapiede fradicio di una strada trafficata di Manhattan, e cercava di ripararmi col suo impermeabile malmesso.
Seguivo con lo sguardo le auto grigie che passavano sopra l’asfalto grigia sotto l’incessante pioggia grigia e il cielo plumbeo.
Ero intirizzita, e mi stringevo al tepore che emanava il mio amico.
Lui, improvvisamente, si stancò.
Sbuffò esasperato e si alzò in piedi, tenendomi avvolta nel suo impermeabile.
Svoltò nel primo vicolo sudicio e puzzolente che trovò.
Non avevamo mai avuto belle esperienze in vicoli come quello, ma lì eravamo più al riparo.
Scorgemmo un posto miracolosamente asciutto sotto le scale antincendio della palazzina dai mattoni scuri alle nostre spalle. Un cassonetto verde ci nascondeva ai passanti i quali, svelti e armati d’ombrello, camminavano all’imbocco del vicolo.
Mi lasciò cadere accanto a lui e sospirò nuovamente, frustrato.
Continuavo a rabbrividire dal freddo, nonostante il suo tepore confortevole.
E lui era arrabbiato di non poter fare di più per tenermi al caldo. Poteva rischiare di perdere il controllo di sé stesso.
Gli lanciai un’occhiata rassicurante, ma forse lui non afferrò.
- Fa così freddo per te, Sabine? – disse, ansioso.
Le sue parole provocarono una nuvoletta bianca attorno al suo viso pallido.
Io lo guardai come per sminuire il tutto e mi strusciai contro il suo fianco.
“Non basta per dargli conforto” pensai, e presi la mia decisione.
Presi un bel respiro e mi mancò per un attimo l’aria, ma riuscii a diventare di nuovo me e ad abbracciarlo.
Lui ricambiò la stretta per un attimo.
- Dovresti coprirti – disse subito, nervosamente, passandomi il suo impermeabile beige. – Per prima cosa: io ti ho vista nuda altre mille volte e per me non fa tanta differenza. Ma se passasse un altro uomo non credo resterebbe indifferente… seconda cosa: ti prenderai un brutto raffreddore –
Indossai l’impermeabile bollente e provai sollievo rispetto a  prima, nonostante sotto fossi del tutto spoglia.
- È un mese che non prendevo la mia forma umana – dissi, a fatica, mentre stringevo per bene la cintura. – Già stavo scordando come si fa a parlare, come ci si sente ad avere solo due piedi e com’è fatto il mio corpo –
Mi staccai da Simon e mi esaminai le gambe nude, i piedi e le mani.
I capelli scuri mi arrivavano già alle spalle e mi solleticavano la pelle del collo.
Simon cercava di guardare altrove e di mantenersi calmo, ma sapevo che, nonostante la sua apparente tranquillità, era davvero depresso.
- Non possiamo continuare così, Sabine – disse infatti poco dopo, mentre stavo di nuovo stretta a lui in cerca di altro tepore.
Mi baciò il naso con le sue labbra incandescenti e sentì il calore pervadermi il viso.
Rabbrividii di sollievo, chiudendo gli occhi.
Li riaprii e li incatenai ai suoi, marroni e dolci.
- Sì che possiamo. Dobbiamo – mormorai lentamente.
Incapace di trattenersi, diede un bacio svelto sulla mia bocca fredda.
Altro calore mi pervase, ma questa volta non solo il viso, ma anche tutto il resto del corpo.
Stavo per cedere e baciarlo io, con più trasporto.
Ma mi trattenni.
Per lui era già difficile senza che io mi mettessi a fare in quel modo.
Mi limitai ad avvicinare il mio viso al suo e gli baciai le guance rosse per l’imbarazzo e l’insoddisfazione.
- Questo potrebbe farti perdere il controllo e non va bene – sussurrai contro la sua pelle calda.
Poi trattenni di nuovo il respiro mentre i polmoni mi si stringevano e tornai alla mia forma di gatto. Gli saltai in grembo e mi raggomitolai contro il suo petto.
- Hai ragione – convenne, accarezzandomi la schiena, le orecchie e il muso.
Io chiusi gli occhi soddisfatta e feci le fusa.
Mi accorsi a malapena che stava continuando a parlare.
- Non posso più farti vivere così, amore. Devo andare via da Manhattan. E poi… odio la pioggia – disse.
Mentre diceva questo, io però ero già in dormiveglia grazie alle sue coccole. E mi addormentai, convinta di essermi immaginata tutto.
 
Mi svegliai intorpidita e per prima cosa mi accorsi con piacere che non pioveva più.
Spinsi le zampe anteriori in avanti portando il resto del corpo indietro, sbadigliando e tenendo gli occhi chiusi.
Mentre mi stiracchiavo, qualcosa mi cadde sul muso.
Era l’impermeabile beige di Simon.
Me lo scrollai immediatamente di dosso e giocherellai con la cintura di nylon.
Poi scossi la testa, stupita.
Era come se la sera prima quei dieci minuti da umana non fossero nemmeno esistiti.
Mi comportavo come un gatto qualunque. Ma io non ero un gatto.
Ero una diciottenne senza una casa.
Chissà dov’era Simon…
Mi sdraiai nuovamente sul tessuto ruvido dell’impermeabile, aspettando.
Sicuramente Simon era andato a procurare qualcosa per la colazione.
Aspettai, sonnecchiando.
Quando mi risvegliai dall’ennesimo cedimento, il sole era già alto nel cielo e picchiava forte.
Sembrava un contrasto netto con la sera prima.
Il grigio uggioso e la penombra delle nuvole con il bianco abbagliante del sole.
E Simon non c’era ancora.
Mi alzai e feci per fare qualche passo sulle mie quattro zampette nere, muovendo piano la coda.
Ma calpestai subito qualcosa ed abbassai la testa.
Era una carta sudicia con sopra delle parole sbiadite in uno stile che sembrava quello di una macchina da scrivere.
Sui lati bianchi, c’era però qualcosa.
Era una grafia abbastanza ordinata, con frasi brevi e scritte con una penna che inchiostrava a tratti.
Misi a fuoco le parole a stento.
Mi veniva sempre male a leggere quando ero un animale.
Finalmente riconobbi la grafia per una che aveva un non so che di familiare.
 
Sabine,
non potevo più vederti così.
Io sono andato via. Tenterò di trovare le mie origini.
Non mi cercare. Tu puoi trovare dei padroni. Sotto forma di qualunque animale.
Sei sempre adorabile. Ti amo e ti amerò sempre, amore.
Simon.  
 
Dovetti rileggere più volte per capire.
Attesi, interdetta, con le zampe anteriori poggiate su quel foglio malvagio.
Quel foglio che mi informava che Simon era andato via.
Come quando eravamo piccoli.
Mi aveva lasciata di nuovo…
Non potevo più vederti così
Questa è la prova che…
Sei sempre adorabile…
Non mi ama…
Ti amo e ti amerò sempre, amore...
Storie. Era scappato di nuovo.
Era di nuovo andato via da me.
Le lacrime si attardavano a venirmi agli occhi.
Mi resi conto, fin troppo lentamente col  mio cervello limitato e inceppato, che non sarebbero arrivate mai.
I gatti non piangono.
Reagendo d’impulso, senza pensare, mi trasformai in me.
Appena l’aria arrivò nei miei polmoni umani, iniziai a singhiozzare.
Non riuscivo a fermarmi.
Mi avvolsi nell’impermeabile. Era freddo.
Mi stravolse. Era freddo.
Come tutto, ora che Simon era andato via.
Piansi. Piansi. Piansi.
Quando smisi, il sole era arancione e il cielo… infuocato.
Mi asciugai le lacrime secche dal viso con una mano.
Poi sentii una risata roca provenire da qualche parte.
- Ma guarda chi si rivede – disse la voce roca, ancora ridacchiando.
E gelai dalla paura.

_____
Ciao!
Se sei arrivato/a fin qui in buona salute... grazie!
Spero che lascerai una recnsione e mi aiuterai a migliorare!
Patta97

PS Se non hai capito nulla della storia, ti assicuro che per adesso è assolutamente normale!

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Capitolo 2
*** 2. Il disastro aereo ***


TRE ANNI PRIMA
 
Calma, Celeste. Calma.
Ma avevo le mani artigliate ai braccioli della poltrona.
- Su, Cely, datti una calmata – mi rimbrottò la mia migliora amica, Edith.
In realtà era la mia sorellastra di due anni più grande di me. In pratica mia madre era sposata con Jimmy, il padre di Edith, ma poi aveva avuto me con mio padre e si era rimessa con Jimmy, dato che mio padre era un completo idiota. Diciamo che è complicato e mia madre non si era mai beccata begli epiteti per quella storia.
- Ho paura – sussurrai, gli occhi serrati.
- Ti assicuro che ancora siamo con le ruote ben salde all’asfalto. Se vuoi scendere… - mi provocò lei.
- Sai che non mi perderei questo viaggio per nulla al mondo! – scattai.
Però non appena la voce del capitano disse qualcosa tipo “adesso le assistenti di volo vi mostreranno cosa fare in caso di emergenza”, il respiro mi si mozzò.
- …O forse l’aereo potrebbe farmi cambiare idea – dissi, aprendo gli occhi e non perdendomi neanche una mossa delle hostess, che spiegavano come indossare il giubbotto salvagente, gonfiarlo e gettarsi in acqua in caso l’aereo fosse…
Non voglio neanche pensarci.
Erano mesi che programmavamo quel viaggio. Solo noi due: senza nostra madre, il mio patrigno e tanto meno il mio disastrato padre genetico. Anche se avevo solo quindici anni e mia sorella diciassette, la mia ricca ed impegnata madre ereditiera non si era fatta molti problemi. Idem per il padre di Edith, avvocato divorzista da dieci casi alla volta, a sentire lui. Per quanto riguardava mio padre, un alcolizzato, disoccupato a cui non importa nulla di nessuno… per lui, se avessi fatto una passeggiata in giardino o una in Francia non faceva differenza, per cui non contava molto.
Ma per arrivare a Fontainebleau da New York ci sono ben pochi mezzi a parte l’aereo.
Il fatto che avevo da sempre avuto una paura matta delle altezze e di volare ed avevo sempre evitato accuratamente di farlo. Ma si trattava della Francia… ed Edith mi aveva convinta.
Il comandante raccomandò alle hostess di prepararsi al decollo e disse ai passeggeri di accertarsi che le cinture fossero ben allacciate. Io strinsi la mia più che potei, tanto da farmi male.
Strinsi forte la mano di Edith, che se ne stava tranquilla dal lato del finestrino, mentre l’aereo si lanciava in una corsa pazza. Quando le ruote del velivolo si staccarono da terra, io avevo già le orecchie tappate e le mani sudate.
Mi si presentava davanti un volo di più di sette ore.
Edith riuscì a sfilare la sua mano dalla mia prima che gliela sbriciolassi e mi guardò in viso coi suoi occhioni azzurri.
Anche nel panico più totale, notai per l’ennesima volta quanto fosse più bella di me, con i capelli biondi impeccabili, il viso regolare e il fisico esile. L’opposto di me: troppo alta, un po’ sovrappeso, gli occhi irrimediabilmente marroni e i capelli rossicci senza forma, troppo lunghi.
- Forse sarebbe meglio che tu provassi a dormire – mi suggerì, leggermente preoccupata.
In effetti il cuore mi batteva all’impazzata, avevo come dei crampi alle braccia ed alle gambe e non ne potevo più di tenere fissi gli occhi sulla pelata del tizio seduto di fronte a me.
Chiusi gli occhi e mi addormentai di botto.
Ma non fu una bella esperienza: non fu come si sogna di solito, perché anche nel sonno ero consapevole di ogni minuto che passava. Forse era a causa del mio cuore che pompava sangue all’impazzata o per via di quel pizzicore sempre più insistente in ogni millimetro del mio corpo.
Non ero sicura che cose del genere si provassero mentre si dormiva sull’aereo.
I miei sogni furono agitati e confusi: uccelli. Uccelli di tutti i tipi possibili ed immaginabili che volavano alla velocità della luce.
Ci fu un interminabile minuto in cui vidi un colibrì da vicino e ogni suo battito corrispondeva al mio. Fu certamente una stranezza dovuta a quel sogno confuso, perché i colibrì avevano circa un battito al minuto superiore di almeno una cosa come… dieci volte quello umano. Non mi intendevo molto di animali, ma mi sembrava qualcosa del genere.
Dopo quella visione del colibrì dalle cangianti penne smeraldo, spalancai gli occhi.
Gettai un’occhiata allo schermo davanti al sedile, il quale diceva che saremmo atterrati tra poco meno di mezz’ora. Edith guardava estasiata fuori dal finestrino.
Appena notò il mio sguardo su di lei si girò ed inorridì.
- Celeste – sussurrò. – Ti senti bene? -
- Non molto – biascicai. La voce di Edith arrivava ovattata alle mie orecchie.
Mossi velocemente la mascella per poter sentire di nuovo bene, così come mi aveva spiegato la mia sorellastra prima di decollare. Ma non succedeva nulla.
Anzi, da quando avevo aperto gli occhi sentivo sempre peggio.
- Edith… - cominciai, ma mi bloccai subito, premendomi le orecchie.
La mia voce era molto più alta del normale, come se altre venti me urlassero le mie stesse lettere.
Le mani iniziarono a tremarmi e un dolore mi pervase tutta, come se il mio corpo fosse improvvisamente diventato il bersaglio di mille coltelli affilati.
L’udito tornò, ma avrei preferito restare sorda per non sentire quello che successe dopo.
- Celeste! – Edith aveva gli occhi spalancati e mi fissava come se fossi un alieno.
- Cosa c’è? – ancora la voce centuplicata.
Evidentemente anche gli altri passeggeri la udirono stavolta, perché si tapparono le orecchie con le mani.
Un bambino iniziò a piangere a dirotto, ma non sentii nessuno cercare di calmarlo.
Molti strillarono e si alzarono in piedi, nonostante il segnale luminoso di rimanere con le cinture allacciate: furono i primi a essere sbattuti contro il soffitto dell’aereo quando questo sbandò per la prima volta. Alcuni svennero, i più esili morirono.
Il bambino smise di piangere.
Il comandante non parlò all’altoparlante per rassicurare i passeggeri.
L’aereo era fuori controllo. Precipitavamo in caduta libera verso il terreno.
Fu Edith ad afferrarmi la mano, stavolta.
Le maschere per l’ossigeno penzolarono davanti a noi.
Tutti le indossarono in fretta, cercando di respirare regolarmente.
Ma io non lo feci: respiravo benissimo.
Edith me la portò al viso e la regolò, credo pensando che fossi troppo sotto shock per poterlo fare da sola. Ma non avevo nessun attacco di panico.
Mia sorella allontanò di botto le mani dalla mia testa, come se avesse preso la scossa.
Mi strappai la maschera di dosso e urlai, urlai di dolore e di paura.
Di dolore perché i coltelli si erano fatti sentire, più dolorosi che mai.
Di paura perché tutto attorno a me aveva iniziato a sfaldarsi.
Sentivo una pressione che mi pervadeva, come un campo di forza.
Sono io che faccio precipitare l’aereo. capii, in un lampo di pazza lucidità.
- Edith! – urlai. – Edith, afferra la mia mano! – e lei ubbidì, ad un passo dallo svenimento.
Non appena mia sorella mi prese la mano, quella specie di campo di forza luminoso avvolse anche lei. E l’aereo esplose.
Tutto si dissolse nell’aria. I corpi accanto a me erano ridotti a scheletri.
Io ed Edith eravamo a parecchi metri da terra, tutto il resto era svanito, dissolto, morto.
Precipitavamo anche noi due, adesso.
Il dolore era diventato insopportabile: più il terreno si avvicinava, più le fitte aumentavano.
Era strano e non me ne resi subito conto, ma potevo tenere gli occhi aperti anche a quella velocità e la pressione atmosferica non mi stava disintegrando.
Ci stavamo avvicinando a una velocità impressionante a una catena di montagne.
Poi, quasi accecata dal dolore, mi resi conto che qualcosa non andava: non sentivo più la presa della mano di Edith sulla mia.
Girai la testa da una parte all’altra, ma di mia sorella non c’era traccia, si era dissolta come tutti gli altri.
La pressione azzurrina attorno a me si dissolse, lavata via dalle lacrime che rigavano il mio viso, mentre mi abbandonavo alla velocità, alla compressione e al dolore.
Il mio corpo s’infuocò, trasformandomi in una meteora gigante.
Quando mi schiantai contro i Pirenei ero già svenuta.
Non potevo sapere che, dopo qualche minuto, un elegante gatta nera era arrivata e mi fissava con grandi occhi verdi, miagolando a gran voce.

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Ed eccoci al mio ritardatario secondo capitolo!
Spero che qualche anima buona recensisca ancora, o magari che arrivino nuovi recensitori...
Ne dubito fortemente, ma non abbandono la speranza.
Ricordo che questa è la mia prima storia originale, quindi vi prego di essere clementi!
Patta97

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