Come di mandorle amare

di Alkimia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Overture ***
Capitolo 2: *** Il diario ***
Capitolo 3: *** L'Angelo della Musica ***
Capitolo 4: *** Il teatro ***
Capitolo 5: *** Gustave ***
Capitolo 6: *** Graziana ***
Capitolo 7: *** Il gorgo di imbuto ***
Capitolo 8: *** Incontri ***
Capitolo 9: *** Fuoco ***
Capitolo 10: *** Fantasmi ***
Capitolo 11: *** Al buio ***
Capitolo 12: *** Lucia ***
Capitolo 13: *** Ricordi ***
Capitolo 14: *** Mastro Pulcinella ***
Capitolo 15: *** Ferite ***
Capitolo 16: *** Carte scoperte ***
Capitolo 17: *** Parole ***
Capitolo 18: *** La notte dei miracoli ***
Capitolo 19: *** Verità ***
Capitolo 20: *** Sotto la polvere ***



Capitolo 1
*** Overture ***


COME DI MANDORLE AMARE

Overture


~ Parigi, 7 febbraio 1871~

La facciata del teatro dell'Opera si stagliava maestosa contro un cielo privo di stelle.
Erano più di due anni che il duca Mariano Giusso mancava dalla Francia. Vi era tornato per un viaggio di piacere e gli era parsa mutata.
La Nazione che aveva riscritto il destino dell'Europa stava tentando di mandare via il sapore amaro della sconfitta militare contro la Prussia e la voce del cambiamento soffiava nell'aria come il fumo dalle ciminiere delle fabbriche. Il duca lo sapeva, poteva quasi sentirlo, dopotutto egli stesso proveniva da un Paese che in quegli anni ancora tentava a fatica di tenere insieme i pezzi di una bandiera che a volte, a qualcuno, sembrava essere costata più di quanto valesse.
I rintocchi delle campane di Notre Dame batterono le otto di sera e il duca ricacciò indietro quei pensieri. Luisa, sua figlia, si strinse un po' più forte al suo braccio e gli indicò un manifesto che la pioggia aveva cominciato a scolorire.
«Oh, c'è un nuovo spettacolo stasera all'Opera, il Don Juan Trionfante. Non ricordo di averne mai sentito parlare» commentò il duca, lanciò una lunga occhiata alla fila che si era accalcata davanti all'ingresso del teatro e scrollò le spalle.
Sua figlia lo strattonò leggermente per la manica del cappotto e additò l'Opera Populaire. Luisa aveva dodici anni, non parlava, era muta dalla nascita, ma sapeva come farsi intendere.
«Vuoi andarci?» chiese suo padre. «Ma, cara, non troveremo posto, ormai».
Luisa sorrise con fare incoraggiante.
«Tentar non nuoce, hai ragione» convenne l'uomo. «Ma questa volta, per amor del cielo, stammi vicino».
La giovinetta annuì con un energico cenno del capo. Il duca la scrutò di sottecchi mentre attraversavano la piazza e lei tentava di affrettare il passo.
«Non so se avremo il piacere di imbatterci di nuovo nel nostro strambo amico» aggiunse l'uomo. Luisa finse di non aver sentito.

Come il duca aveva previsto, non c'era più posto. La biglietteria aveva chiuso, esibendo un cartello che avvisava del tutto esaurito i numerosi spettatori ancora accalcati davanti all'ingresso.
La folla cominciò lentamente a disperdersi.
«Sarà per la prossima volta, magari» disse il duca.
Luisa sospirò e si diresse comunque verso l'ingresso del teatro.
In quel momento una fila di gendarmi armati di baionetta salì le scale ed entrò con discrezione da un'entrata secondaria. Il duca aggrottò la fronte perplesso, non pensava che l'agitazione cittadina fosse giunta fino a quel segno. Ammesso che fosse quello il motivo della presenza dei gendarmi ad uno rappresentazione teatrale.
Luisa trascinò suo padre fin dentro al foyer, pieno di persone che attendevano di poter prendere posto.
Il duca posò una mano su quella della bambina, rinnovando tacitamente la raccomandazione di stargli vicino. Non gli piaceva quella confusione e non era certo che sua figlia avesse imparato la lezione riguardo al non andare in giro da sola in luoghi affollati e sconosciuti.
«Credo che potremmo anche andarcene» disse lui, con una punta di apprensione nella voce. Luisa gli rivolse uno sguardo quasi implorante. Ah, se fosse stato un po' meno incapace di resistere a certi sguardi di sua figlia! Non aveva ben capito cosa lei si aspettasse da quella visita, ma all'improvviso scorse una figura in nero che si muoveva tra la calca, scivolando senza fatica tra i crocchi di signore imbellettate e le file di gentiluomini in doppiopetto. Dopo qualche minuto la figura imboccò la porta e uscì all'aperto.
Non ci fu bisogno di attendere che Luisa lo trascinasse. L'uomo e la bambina si fecero strada a fatica per uscire. Fuori il freddo sembrava essersi fatto un po' più pungente.
La figura in nero era appoggiata a una delle colonne di marmo, sembrava quasi che sperasse di confondersi con le ombre del porticato e sparire nel nulla in mezzo al buio della sera. Respirava con un certo affanno e il respiro le si condensava in fugaci boccate di fumo.
«Madame Giry» chiamò il duca.
La donna sobbalzò con così tanta veemenza che l'uomo quasi temette di ricevere uno schiaffo in viso.
«Monsieur Giussò?» disse la donna con un filo di voce, portandosi una mano al petto.
«Perdonate, non volevo spaventarvi. Io e mia figlia vi abbiamo vista...».
Lei spostò nervosamente lo sguardo tra l'uomo e la ragazzina,
«Voi e vostra figlia assisterete alla rappresentazione?» domandò dopo qualche istante di silenzio.
Al duca parve curiosamente allarmata. Era anche un po' più vecchia di come la ricordava, i due anni trascorsi dall'ultima volta che l'aveva vista sembravano aver lasciato un segno eccessivamente pesante sul bel viso della direttrice del balletto dell'Opera Populaire, come se il tempo fosse stato scandito da preoccupazioni e problemi.
«Oh no, madame. Non abbiamo trovato posto» le rispose in un ottimo francese. Dal rapido cenno di assenso che madame Giry gli rivolse, gli parve quasi che ne fosse sollevata. E comunque, cosa stava facendo lì fuori al freddo?
«Vi sentite bene?» aggiunse il duca.
Madame Giry restò a guardarlo per lunghi secondi, come se lui le avesse rivolto una domanda troppo complicata.
Era il freddo che le aveva inumidito gli occhi, o la donna stava per piangere?
«Oh, monsieur... sta per accadere qualcosa di terribile!» dichiarò infine madame Giry, agitando le mani in un gesto colmo di disperazione.
Luisa ebbe un fremito e mosse le labbra come a voler pronunciare un nome che sembrava esserle rimasto incastrato in gola.
«Sì... si tratta di...» farfugliò la donna.
«Di Erik» terminò il duca per lei in tono grave.

*******

~ Parigi, 24 maggio1869 ~

Luisa si era chiesta più volte se Dio potesse ascoltare lo stesso le sue preghiere, anche se lei non poteva formularle ad alta voce. In quel momento quel dubbio l'assalì più forte che mai, poi si ricordò della sua governante che le aveva spiegato che Dio ascolta i cuori e non le bocche, e si sentì un po' più sicura: per come gli martellava nel petto, il suo cuore stava certamente urlando e qualche angelo di passaggio avrebbe sicuramente potuto udire le sue preghiere anche se era lontanissima dal cielo. Più lontana di quanto fosse mai stata.
Il buio sembrava essere solido come cemento, tanto da toglierle il respiro. Era molto improbabile che qualche angelo potesse passare di lì, ma la bambina preferì non pensarci.
Se anche l'avesse sentita, forse Dio non l'avrebbe aiutata perché era stata cattiva. Non avrebbe dovuto allontanarsi da suo padre, non avrebbe dovuto mettersi a gironzolare da sola per i corridoi del collegio del teatro dell'Opera. È solo che aveva visto quelle giovani ballerine andare da qualche parte ed era curiosa di avvicinarsi a loro, per vedere se magari quelle scarpine di raso avessero le ali da permettere a chi le indossava di fare salti e piroette così leggiadre e portentose.
E alla fine si era persa.
Aveva sentito dei rumori e aveva pensato di seguire i suoni per ritrovare la strada. Di certo, se c'erano dei rumori, c'erano anche delle persone e queste persone avrebbero potuto riportarla da suo padre. Ma i suoni si allontanavano e lei non aveva voce per chiamare, doveva per forza raggiungere la fonte del rumore, perché da qualche parte doveva pur essere... in fondo a quel corridoio polveroso, di certo... e allora come mai il corridoio finiva in un vicolo cieco e non c'era nessuno? Era sicura che era da lì che provenivano i rumori, non potevano mica venire da dentro le pareti!
Forse si era sbagliata, non c'era proprio nessuno lì. Anzi, a giudicare da ciò che aveva visto, non c'era stato nessuno da molto, moltissimo tempo.
Quella zona del collegio era rimasta abbandonata durante i lavori di restauro. Aveva sentito il signore in livrea parlare a suo padre del restauro del palazzo dell'Opera e delle leggende sui cunicoli e sui passaggi segreti che erano stati usati durante la Rivoluzione Francese.
Aveva gironzolato per un po' in quelle stanze abbandonate, nella speranza di trovare la strada per tornare indietro. Poi era caduta.
Non sapeva come, quasi non si era accorta del pavimento che semplicemente le era sfuggito da sotto i piedi, come se ci fosse stata una botola. Ma le botole non si aprono da sole...
Se Dio non l'avesse ascoltata, allora non lo avrebbe fatto nessuno.
In mezzo a quell'oscurità pesante e appiccicosa come una coperta bagnata, Luisa aveva sentito voci allarmate che chiamavano il suo nome e aveva realizzato con sgomento non solo che non era in grado di rispondere, ma anche che quelle voci erano lontanissime, molti metri sopra la sua testa.
Forse era già morta ed era finita giù all'inferno, perché aveva disobbedito a suo padre che le aveva raccomandato più volte di non allontanarsi da sola.
La bambina si fermò e stese le braccia, cercando a tentoni un appiglio al quale reggersi per provare a camminare. C'erano delle pareti sia a destra che a sinistra, come in un corridoio.
Picchiò i pugni e prese a calci quei muri fatti di pietra gelida nella speranza di produrre abbastanza rumore da farsi sentire. Si graffiò le mani ma, a parte questo, non successe nient'altro.
Poi la luce apparve come all'improvviso, una luce gialla che danzava sulle pareti disegnando in chiaroscuro le irregolarità della pietra grezza di cui era fatto quel posto.
Era una luce calda, come un fuoco e sembrò asciugarle le lacrime sulle guance. Era la luce di una fiaccola che si avvicinava.
Ora restava da capire se era un angelo o un demonio quello che reggeva la fiaccola.
Quando l'ombra si proiettò sul pavimento impolverato, Luisa pensò che forse si trattava di un gigante e si rese conto di non sapere se i giganti stavano in paradiso o all'inferno.
Alla fine la bambina pensò che doveva trattarsi quasi sicuramente di un uomo. Adesso bisognava scoprire se era buono o cattivo.
Cattivo. Cattivissimo... fu il primo pensiero che attraversò la mente della piccola appena lo sconosciuto le si parò davanti. Aveva una maschera, una mezza maschera di cuoio bianco e solo i cattivi si nascondo dietro le maschere. E poi era vestito tutto di nero e dal modo in cui la guardava non sembrava affatto contento di averla trovata lì.
Però i suoi occhi avevano lo stesso colore del paradiso.
«Chi sei?» chiese l'uomo in tono asciutto e imperioso. Aveva parlato in italiano, con un forte accento straniero.
Lei deglutì poi si indicò la bocca e scosse piano la testa come in un cenno negativo.
«Sei muta?» domandò ancora lo sconosciuto con un'aria quasi sgomenta, come se trovasse la cosa veramente orribile.
Nessuno usava mai quell'aggettivo con lei, quel signore non doveva essere una persona molto delicata, proprio no!
Luisa arricciò il naso indispettita e scrollò le spalle.
«Sei la bambina che stanno cercando» continuò l'uomo mascherato. Lo sapeva già, allora, e sapeva anche che era italiana, la figlia del duca venuto a visitare il teatro. Comunque non le sembrava troppo a suo agio – e dire che era lei quella nei guai.
La bambina gli puntò un dito contro il petto, come a chiedergli: e tu chi sei?
Lui sorrise, di un sorriso strano e privo di allegria.
Oltre a essere indelicato era anche maleducato! Avrebbe dovuto rispondere a quella domanda. Luisa si sentì invadere dallo sconforto e cominciò a piangere.
I singhiozzi erano suoni bassi e sibilanti in fondo alla sua gola immobile. L'uomo non sembrò particolarmente dispiaciuto, solo seccato.
«Smettila di piangere, ti riporterò indietro» sbottò. Poi aggiunse qualcosa a bassa voce, tra sé e sé. A Luisa sembrò che avesse detto: «prima che comincino a raccontare che il Fantasma mangia i bambini».
L'uomo le fece cenno di seguirla, ma lei non si mosse. Non si fidava nemmeno un po' di lui e comunque era troppo scossa per muoversi.
Lo sconosciuto sbuffò, poi assunse un'espressione grave e solenne.
«Un consiglio: non provare a togliermi questa» le disse indicando la mezza maschera bianca. «O potrei decidere di lasciarti qui per il resto dei tuoi giorni».  Poi, con un gesto repentino, si chinò su di lei e la sollevò tra le braccia.
Luisa si dibatté e cominciò a scalciare e a mulinare i pugni.
«Ssh, calmati» fece l'uomo. La voce gli si era addolcita di colpo, come se all'improvviso si fosse ricordato che aveva a che fare con una bambina e che doveva trattarla un po' meglio di come aveva fatto fino a qualche secondo prima.
Lei lo guardò perplessa.
«Scusami, non mi capita spesso di avere visite» dichiarò l'uomo. Non si sforzò di sorridere, ma ora aveva un'aria un po' meno antipatica.
Luisa sbatté le palpebre e cercò di guardare meglio quel viso mascherato. Era un bel viso, di un uomo adulto ma ancora abbastanza giovane. Non aveva nessuna espressione particolare in quel momento, ma sembrava triste, impregnato di malinconia come se vi fosse stato immerso dentro. Ed era strano.
La bambina ricominciò a piangere, senza sapere nemmeno bene il perché.
Ora aveva paura che lui tornasse cattivo, invece l'uomo fece una cosa piuttosto inaspettata: si mise a cantare. Era una canzone di cui Luisa non riusciva a capire le parole, ma le parole non le sembrarono importanti... la voce che le stava spingendo nell'aria era così bella da farle sembrare poco importante anche il fatto di essere sotto terra chissà dove, con suo padre che sicuramente la stava cercando preoccupatissimo.
Non si accorse nemmeno che l'uomo aveva cominciato a camminare, tenendola sollevata tra le braccia, contro il suo petto. I suoi vestiti odoravano di profumo costoso e inchiostro.

L'aveva riportata in superficie, in una piccola stanza con un grande specchio appeso al muro, probabilmente uno dei camerini del teatro.
A Luisa era parso impossibile, ma era sicura che fossero passati attraverso le pareti, cioè che la parete si fosse aperta, girando su cardini di ferro, come una porta.
Lui era fermo a fissarla, come a chiedersi che fare perché la ritrovassero, quando lei urtò uno sgabello che cadde rumorosamente sul pavimento. Dopo qualche secondo la porta della stanza si aprì di schianto e suo padre entrò trafelato nel camerino.
Il lampo che balenò negli occhi dell'uomo mascherato lo fece sembrare di nuovo cattivo.
Suo padre aprì la bocca come per urlare, ma l'uomo gli fu addosso egli premette una mano sul viso. Ora Luisa aveva di nuovo paura.
«Vi ho riportato vostra figlia, signore» disse lo sconosciuto, sempre con quel suo italiano dall'accento strano, snocciolando la parola signore come se i suoni inciampassero sulla sua lingua. «Il minimo che possiate fare per ricambiare il favore è fingere di non avermi mai visto».
La bambina guardò suo padre annuendo, come a voler dare ragione all'uomo. Il duca non era tipo da lasciarsi turbare dalle stranezze, e come poteva visto che egli stesso veniva considerato un po' strambo da chi lo conosceva?
L'uomo scostò cautamente la mano dalla bocca del duca. Lui lo stava ancora fissando attonito, troppo sconvolto per avere una qualche reazione. Poi lo sconosciuto si voltò, si fermò davanti a Luisa e accennò una specie di inchino, si avviò verso il muro, fece scattare i cardini del passaggio segreto e sparì.

Luisa e suo padre erano andati a Parigi per un viaggio diplomatico. La famiglia Giusso era molto in vista nel panorama politico di quell'Italia ancora in fasce e a loro capitava spesso di viaggiare.
Quando erano a casa, a Napoli, il duca era solito frequentare artisti e Luisa aveva incontrato molti personaggi insoliti, ma mai nessuno insolito come quell'uomo.
Gli altri erano strani forse, ma lei, con l'intuito e la ferrea capacità di ragionamento tipica dei bambini, riusciva sempre a trovare il capo della matassa della loro vera o presunta follia. Lo sconosciuto con lo maschera invece era ben al di là della sua capacità di comprensione, e questo lo rendeva estremamente affascinante ai suoi occhi.

*******

~ Parigi, 7 febbraio 1871~

A quanto pareva non era cambiato quasi niente, era ancora solo in mezzo al buio.  
Da qualche parte, un rintocco di campane segnò la mezzanotte.
L'uomo poteva ancora scorgere in lontananza il riverbero rosso dell'immenso incendio che stava consumando l'Opera Populaire. Il vento freddo soffiava impietoso sul viso e sul petto lasciato scoperto dalla camicia di batista ormai sporca.
Il suo teatro bruciava, e anche lui. Malgrado l'aria pungente, sentiva il sudore colargli lungo la schiena e il calore malsano della febbre avvolgerlo come un abito troppo stretto.
Non sentiva altro rumore se non lo sciabordio dell'acqua della Senna che scorreva sotto al ponte sul quale si era fermato. Poggiò i palmi delle mani sul parapetto di marmo, stordito.
La sua era una mente abituata a pensare, elaborare, calcolare, e anche in quel momento, dentro la sua testa i pensieri si mettevano in fila, facendo scorrere uno dopo l'altro  i ricordi e le immagini.  
C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia. Forse il dolore, il rimpianto? No, ogni cosa era evaporata quando aveva guardato la fanciulla e le aveva detto di andare via. Mentre Christine si allontanava, lasciandosi alle spalle quella strana favola che aveva gocciolato lacrime e sangue sui velluti e sui marmi dell'Opera Populaire, l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera aveva sentito la sua stessa anima evaporare.
Non gli restava niente.
«Adesso voi verrete con me». La voce gli trafisse i pensieri come una lama, un dolore pulsante gli attraversò le tempie.
Non poteva trattarsi di un gendarme, rilevò Erik, aveva un accento straniero.
Si voltò lentamente. Non aveva più la sua maschera, ma non importava. Quella sera ogni maschera era caduta una volta per tutte.
Scrutò nella penombra la persona che aveva parlato. Non aveva la forza d'animo di stupirsi nel riconoscere l'uomo che aveva davanti.
«Venire con voi?» disse con voce flebile e roca. «E perché mai?».

Il duca Mariano Giusso era sempre stato un tipo singolare. Talmente tanto singolare da incaponirsi e andare a cercarlo, quella primavera di due anni prima. Erik, ricordava, si era fatto trovare, perché se quello stolto avesse continuato ancora a lungo a cercare botole e passaggi sarebbe finito con il collo spezzato in una delle sue trappole, o forse addirittura avrebbe finito per farlo scoprire. E tutto perché sua figlia, la piccina muta, era convinta che lui fosse una specie di... bah, un angelo con le ali spezzate o qualcosa di simile. A quanto pare quella di farsi passare per un angelo era diventata un'abilità innata.
In quelle settimane che il duca e sua figlia avevano trascorso a Parigi, il Fantasma dell'Opera aveva quasi dovuto fare i conti con la circostanza di ricevere visite. Non che avesse mai avuto l'ardire di portare il duca e la bambina fino alla Dimora sul Lago, ma riusciva a trovare il modo di incontrarsi con Luisa e bearsi per qualche manciata di ore del sorriso della bambina mentre lo ascoltava cantare.
Erik non era avvezzo a sentimenti come l'affetto e la gratitudine, per questo non capiva il comportamento della bambina né quello di suo padre. Eppure, anche se si era trattata solo di una fugace parentesi nella sua esistenza da esiliato, gli era piaciuta.  
Ma questo era stato prima. Quando era... sì, quando era fragile davanti alla notte che lo circondava. Prima che decidesse di prendere quella notte, plasmarla, farne musica e offrirla alla sua piccola, dolce musa. Era stato prima di convincersi una volta e per tutte che non c'era posto per lui. Era stato prima del sangue e prima del fuoco. Era stato anche prima dell'amore.

«Venire con voi? E perché mai?».
Il duca prese qualcosa dalla tasca interna del cappotto.
Erik sentì la vista che gli si appannava, ma riconobbe lo stesso la sagoma bianca della sua maschera,
«Quella appartiene a un assassino, duca, e di certo a un uomo ormai perduto» commentò in tono inespressivo, con la voce ovattata dalla febbre.
«Ho un debito di riconoscenza con voi, Erik» replicò il duca. «Tempo fa aiutaste me e mia figlia, e non mi riferisco solo al fatto che l'avete condotta fuori dai sotterranei. Avete compiuto atti che non posso approvare, ma c'è qualcosa che devo fare per saldare il mio debito e credo consista nel non credervi perduto, a prescindere da cosa pensiate di voi stesso».
«Non credo di avere la capacità di replicare. Non credo di avere la capacità per fare nulla, in effetti...».
«Venite con me, vi prego»
«Non mi dovete niente, duca, non c'è alcun debito da saldare... Lasciatemi in pace». Le parole gli erano uscite in una fila di suoni strozzati. Il nero del cielo ora aveva invaso anche la sua testa e ora cominciava ad assediare anche i suoi occhi.
Un attimo dopo il buio vinse tutto e l'ultima cosa che Erik sentì fu la superficie ruvida del ciottolato contro il quale cadde.  
 
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Here, I have a note...

Andando per logica, la sera della rappresentazione del Don Juan dovrebbe essere, più o meno, una serata del febbraio 1871. Nel marzo di quell'anno sarebbe stata istituita la Comune di Parigi.

Tornare qui è un po' come essere a casa. Ritrovare Erik e riprendere a scrivere di lui è come rivedere un vecchio amico al quale non si è mai smesso di voler bene.
Spero che a chiunque passi tra queste pagine piaccia leggere questa storia anche solo la metà della metà di quanto sta piacendo a me scriverla.

I remain, gentlemen, your obidient servant.
  

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Capitolo 2
*** Il diario ***


Capitolo primo
Il diario


~ Parigi, 18 aprile 1892 ~

Il facchino che gli aveva aperto la porta stava per lasciarsi scappare di mano la custodia del suo Stradivari. Non era affatto un buon inizio.
«Per quanto tempo monsieur gradisce rimanere nostro ospite?».
La voce dell'albergatore suonava più leziosa che gentile. Il ragazzo fece un garbato sorriso mentre tentava di reprimere il moto di stizza nel vedere il facchino armeggiare in maniera maldestra con i suoi bagagli.
«Per una settimana» rispose.
Rumori ovattati riempivano l'aria dell'ampio ingesso pavimentato in marmo verde. Facchini e inservienti in giacca scura si muovevano lungo le scale, sui sofà damascati alcuni signori erano seduti a fumare o a leggere il giornale. L'albergo era più appariscente che elegante, ma glielo aveva consigliato un amico da poco rientrato da un viaggio in Francia, era in una zona centrale della città e Louis non era particolarmente schizzinoso né aveva altre idee riguardo al posto in cui alloggiare. Per quel pomeriggio gli bastava solo che il facchino non gli rovesciasse le valige lungo le scale.
Fuori, una leggera foschia cominciava a serpeggiare su Parigi. Louis aveva notato che man mano che si avvicinava alla destinazione del suo viaggio la primavera sembrava un po' più sfuggente, il clima era meno mite città dopo città.
L'albergatore gli consegnò la chiave della sua camera e si congedò con un largo sorriso, un cameriere gli fece strada lungo le scale e lo accompagnò fino alla porta.
La stanza aveva un'aria confortevole e anonima, con carta da parati chiara e tende scure. I vecchi mobili di noce dalle forme squadrate avevano un che di tetro, come pure il quadro in cima al letto, un mediocre dipinto di una Madonna vestita di azzurro.
A Louis non piacevano gli alberghi. Guardò i suoi due bauli da viaggio posati su un tavolino rotondo e di colpo si sentì svuotato. La stanchezza accumulata durante il viaggio si andava mescolando a uno strano senso di smarrimento. Il giovane si ritrovò a pensare che sarebbe tornato immediatamente indietro, se avesse potuto. Era una sciocchezza, certo, molti suoi amici gli avevano invidiato quel viaggio ed erano mesi che progettava di andare a Parigi, gli era parsa una cosa importante, ma adesso che era lì cominciava a chiedersi se non si era lasciato condizionare un po' troppo da sua madre. Era stata lei a regalargli il biglietto del treno per il suo ventesimo compleanno e gli aveva detto, con la scarsa convinzione che hanno le madri quando devono fare certe affermazioni, che era adulto e che era tempo che lui affrontasse certe cose, poi gli aveva dato il quaderno rilegato in pelle rossa che ora era sistemato dentro la custodia del suo violino.
Louis sapeva cos'era quel quaderno e sapeva perché sua madre glielo aveva dato. Quello che non capiva era come mai lei riteneva importante che lui andasse fino a Parigi per poterlo leggere, perché, dopo aver passato tutto quel tempo a proteggerlo da certi segreti, ora voleva che li affrontasse da solo, lontano da casa.
La camera era provvista di un'angusta stanza da bagno, Louis aprì il rubinetto del lavandino e la tubature emisero un lungo sibilo rauco prima che l'acqua cominciasse a scorrere. Il ragazzo si sciacquò il viso e osservò la sua immagine nello specchio chiazzato di umidità. Gli occhi scuri erano arrossati e stanchi, cerchiati da un accenno di occhiaie livide.
Odiava doverlo ammettere, ma l'idea di essere così lontano da casa gli metteva malinconia e nel silenzio della camera si sentì solo come non gli era mai accaduto prima di allora.
Il viaggio, fatto quasi tutto in treno, era stato noioso e lungo ma il ragazzo non aveva voluto concedersi troppe pause tra una stazione e l'altra, anche se spesso si ritrovava a guardare dal finestrino paesaggi che trovava incantevoli, scorci di cittadine e monumenti che avrebbe voluto visitare. Tuttavia aveva preferito non perdere tempo e continuare verso Parigi.
Nelle interminabili ore segnate dal dondolio del vagone e dal chiacchiericcio degli altri passeggeri, il suo sguardo si era posato spesso sulla custodia del violino, ma non l'aveva mai toccato e il quaderno era ancora lì, come il suo personale vaso di Pandora.
Non aveva toccato quel diario nemmeno durante le soste nelle locande dove passava la notte, nell'attesa della coincidenza che lo avrebbe portato qualche chilometro più vicino alla sua meta. In quelle serate preferiva mettersi a suonare. Suonava per se stesso, ma non gli dispiaceva lasciarsi ascoltare e così se ne restava un paio di ore nella sala comune di qualche piccola pensione in qualche cittadina sconosciuta, a suonare e ad accontentare le richieste che qualche locandiere o qualche viaggiatore di passaggio gli facevano. Quando gli andava bene, riusciva a far innamorare di sé una ragazza, almeno per il tempo di una sera e si ritrovava ad amoreggiare con qualche giovinetta graziosa sul retro della locanda, guardando il cielo e chiacchierando del posto da cui veniva o fantasticando del luogo verso cui era diretto.
Gli piacevano le ragazze. Sua madre avrebbe preferito che si trattasse di una ragazza, una qualsiasi, con un nome, dei modi gentili e il dono del sorriso. Lui per adesso preferiva le ragazze, senza nomi che occorresse ricordare.
Louis si lasciò cadere sul letto e affondò il viso tra i cuscini. Le lenzuola odoravano di pulito, ma il materasso era un po' troppo morbido e la rete cigolava. Tentò di dormire almeno un'ora, prima di cena, ma non ci riuscì affatto. C'era un silenzio terribile tra quelle quattro pareti, un silenzio che sembrava assordante come il peggiore dei rumori e che gli stava facendo venire un cerchio alla testa.
Il ragazzo si alzò, avvicinò una sedia alla finestra e continuò a leggere il romanzo che aveva comprato durante una sosta a Nizza, una vecchia copia rilegata in tela di un romanzo inglese. L'inglese non era la lingua che gli era più congeniale, ma impegnarsi in quella lettura aveva fatto trascorrere molto più velocemente le ore di viaggio e l'attesa in stazione prima che arrivasse il diretto per Parigi.
L'idea di aprire la custodia del violino e prendere il quaderno non lo sfiorò nemmeno. Forse domani, si disse. Forse mai.
«E se non fossi affatto pronto, madre?» mormorò al vuoto.
Sua madre non era il tipo di donna da sbagliarsi su certe cose, lo conosceva bene e di certo non si era mai sbagliata su di lui. Ma c'è sempre una prima volta.
Si era assopito sulla sedia, in una scomoda posizione, con il libro che gli era scivolato di mano. Stava anche cominciando a sognare quando fu risvegliato da uno schiamazzo di risate proveniente dalla strada. Scostò la tenda alla finestra, guardò fuori e scorse un crocchio di ragazzi e giovinette che passeggiava nella strada laterale all'albergo, parlavano rumorosamente e ridevano. Allora Louis si ricordò che era a Parigi, che quello era il viaggio che ogni ragazzo della sua età aveva sognato almeno una volta nella vita, che poteva essere, tutto sommato, un viaggio di piacere, il regalo per i suoi vent'anni da poco compiuti.
Mise da parte la stanchezza e la malinconia, si cambiò i vestiti, pettinò i capelli scuri e lisci – che aveva deciso di lasciar crescere ma che per ora arrivavano solo fino alla nuca – e uscì dalla stanza fischiettando tra sé e sé il motivetto di un'aria lirica.
«Monsieur non cena con noi?» domandò cortesemente l'albergatore vedendo che era diretto verso il portone.
«Non stasera, grazie» rispose il giovane con un rapido sorriso, prima di uscire e andare incontro a un tramonto leggermente velato da una sottile nebbiolina e a un labirinto di strade e luoghi sconosciuti e affascinanti.

La serata era umida malgrado fosse già aprile inoltrato, Louis si chiese come faceva la gente a vivere in un posto con un clima tanto impietoso.
Si infilò in un bar con un'insegna tarlata che recava la scritta Messidor. Era un posto del tutto ordinario e anonimo, ma c'era un bel tepore e il vecchio che suonava la fisarmonica in un angolo stava eseguendo un motivetto allegro.
Il ragazzo ordinò un bicchiere di cognac e lo sorseggiò lentamente, guardandosi attorno e origliando i discorsi degli altri avventori per mettere alla prova il suo francese, una lingua che conosceva molto bene ma nella quale non si esercitava da un bel po'.
Dopo diverso tempo, decise che per uscire da quel bar e affrontare l'aria fredda di quella serata gli serviva un altro goccio di liquore e considerò che non gli importava se aveva bevuto già il goccio di troppo, dopo il quale i pensieri cominciano a mettere le ali.
Louis ingollò il cognac che gli avevano appena servito e restò a fissare il bicchiere vuoto con sguardo vacuo.
«Bevete come uno che è triste. Siete triste, monsieur?» domandò la cameriera, riponendo alcuni boccali puliti su una mensola.
«Ottima domanda, ragazza».
Cielo, la cameriera doveva avere un paio di anni meno di lui, perché lo chiamava monsieur? Aveva davvero l'aria da giovane signore per bene? Forse sì, era sempre stato un po' vanitoso e, visti gli ambienti che frequentava in Italia e l'educazione ricevuta, aveva preso l'abitudine a mantenere un contegno distinto un po' in tutte le circostanze.
Louis uscì dal bar qualche minuto dopo e trovò comunque molto piacevole camminare senza meta per le strade sconosciute della capitale francese. La città sembrava non conoscere la differenza tra il giorno e la notte. Anche il posto da dove proveniva lui era trafficato ad ogni ora, ma lì il confine tra la notte il giorno era ben chiaro, anche se non gli aveva mai fatto particolarmente paura, lui conosceva le ombre della sua città e sapeva come attraversarle senza esserne danneggiato, quando cresci in certi luoghi diventa naturale.
Parigi però vibrava di vita attorno a lui, nelle luci dei lampioni che facevano concorrenza alle stelle riflettendosi sulla superficie della Senna, nel viavai di passanti. Le voci della città erano una sinfonia di accenti diversi, turisti e gente del luogo riempivano le vie o sostavano all'ombra di palazzi maestosi e imponenti come la storia che avevano visto passare sotto le loro finestre. A qualche incrocio c'erano degli artisti di strada che raccoglievano piccole folle, Louis indugiò nel guardarli tutti per lunghi minuti ogni volta che ne scorgeva qualcuno, e di colpo si sentì dimentico della nostalgia, della stanchezza e dei fantasmi che erano ancora in attesa dietro la copertina del quaderno.

Quando il ragazzo fece ritorno in albergo, l'euforia provocatagli dall'alcol e da quella sensazione di entusiasmo che accompagna sempre le cose nuove stava ormai scemando, restituendogli amplificato tutto il senso di spossatezza e quella gelida sensazione di solitudine e smarrimento che aveva provato solo poche ore prima.
Salutò svogliatamente l'albergatore all'ingresso e andò a chiudersi in camera, dove si spogliò tra uno sbadiglio e l'altro.
Spense le luci, dalla finestra entrava un leggero alone dello scintillio di Parigi che disegnava un'incerta linea di luce attraverso uno spiraglio tra le tende chiuse. Nel semibuio della stanza, fece per raggiungere il letto, ma urtò i bauli sul tavolino e la custodia dello Stradivari che vi era poggiata sopra cadde a terra, aprendosi e facendo rovinare sul pavimento il suo contenuto.
«Maledizione!». Il ragazzo si chinò a raccogliere il violino, assicurandosi che non si fosse danneggiato. Sospirò di sollievo quando vide che la superficie lucida di abete rosso non aveva nemmeno un graffio. La fascia laterale dello strumento recava intarsi di madreperla disposti a creare una sobria decorazione geometrica, sulla parte destra la decorazione si interrompeva per lasciare il posto a una minuscola scritta in lettere dorate: Pour Louis.
Il ragazzo ripose il violino nella custodia che posò su una sedia. Il quaderno era rimasto a terra, accanto ai piedi del tavolo. Louis scorse la sagoma rettangolare nella penombra, la copertina di pelle rosa era lisa dal tempo e le decorazioni dorate negli angoli ormai erano quasi del tutto invisibili.
Avvicinò cautamente la mano all'oggetto che era riverso sul pavimento, come se temesse di scottarsi toccandolo, lo sollevò e fece scorrere le pagine di spessa carta ingiallita contro il polpastrello del pollice.
Era certo colpa della stanchezza, di quel bicchiere di troppo e delle emozioni della serata appena trascorsa, ma il fruscio dei fogli sembrò simile a un sussurro che soffiava impercettibile il suo nome.      
«Va bene...» mormorò Louis, accendendo la lampada sul comodino. Posò il quaderno sotto il cono di luce giallastra e sollevò la copertina. Le vecchie pagine avevano un odore appena percettibile, una fragranza dolciastra come di fiori appassiti. Prima di iniziare a leggere allungò una mano per cercare a tentoni il suo cappotto, c'era un portasigarette di argento nella tasca interna. Non era un gran fumatore, molto tempo prima suo padre gli aveva detto che il fumo rovina la voce. Non che la cosa fosse rilevante, Louis non aveva una voce particolarmente bella e non aveva mai avuto attitudine per il canto, solo per la musica. Ad ogni modo, fumare lo aiutava a distendersi quando era nervoso e in quel momento sentiva una strana ansia che gli attanagliava lo stomaco e un senso di irritazione per una circostanza che aveva cominciato a trovare del tutto inconcepibile.

Ho sempre saputo... tanto, ho sempre saputo...

Si ripeté che aveva sempre saputo che c'era qualcosa di drammatico che riguardava la sua famiglia, qualcosa che lui prima o poi avrebbe dovuto conoscere. Fin da quando lo aveva capito non aveva fatto altro che aspettare il momento della verità ma ora che il momento era arrivato si accorse di avere paura.   

Tanto non cambia niente...

Pensò che era tutto inutile. Cosa sarebbe cambiato ormai? Conoscere o meno il contenuto di quelle pagine non avrebbe fatto alcuna differenza, non avrebbe aggiunto o sottratto un solo grammo di amore per la sua famiglia.
Fu tentato di chiudere il quaderno, riporlo in fondo a uno dei bauli e dimenticarsene fino al suo ritorno a casa. Ma non lo fece
Louis aspirò un lungo tiro dalla sua sigaretta poi soffiò dalle labbra schiuse una nuvola di soffice fumo bianco e cominciò a leggere.
La data sulla prima pagina era quella del 2 marzo 1871. Erano scritte poche righe, in francese, in un corsivo allungato, una calligrafia elegante ma troppo frettolosa:

Curioso che il primo dono che io abbia mai ricevuto sia questo diario.
Curioso che mi si inviti a scrivere quando non ho più parole da dire... ne ho avute mai?
Ciò che so è che non ho mai avuto un posto nel mondo, e allora mi chiedo come mai mi sento così in esilio, così distante da ciò che credevo mio al punto che ormai neanche tornare con i ricordi a quello che è stato riesce più a farmi male.
Non sento niente se non un vuoto nel quale riecheggiano rimpianti dei quali non parlerò affinché la loro voce possa zittire.
Non sento nemmeno un vero e proprio malessere dell'anima. Forse perché il dolore è per chi ha qualcosa da perdere e io ho già perso tutto (compresa la mia anima, evidentemente).
È stato per una donna, per...

Louis corrugò la fronte.
A quel punto della frase c'erano dei segni imprecisi, come se la mano di chi scriveva avesse improvvisamente avuto un tremito fortissimo, e su quelle lettere sformate c'erano diversi segni di cancellatura. Il proprietario del diario era andato a capo e aveva ripreso a scrivere.

Non scriverò quel nome, né mai lo pronuncerò. Quali e quanti che siano i giorni che ho da vivere saranno nuovamente solo miei.

Il ragazzo si morse le labbra a sangue. Non gli piacevano quelle parole, non solo per la tetra malinconia che trasmettevano, ma anche per i sottintesi che lasciavano intuire e per tutto quello che non lasciavano capire. Cosa era accaduto? Per quale donna? Perché?
Louis aveva atteso a lungo di conoscere la storia di suo padre e lui ora non c'era più, tutto ciò che restava della verità da cui lo avevano sempre voluto proteggere – così dicevano – era un diario in cui già dalla prima pagina non c'erano altro che omissioni.
Il ragazzo scagliò via il quaderno con rabbia, l'oggetto urtò il muro e cadde, alcune pagine si staccarono dalla rilegatura e volarono lontano.
Il giovane restò a fissare i fogli immobili sul pavimento e la copertina di pelle ora ammaccata in un angolo.
Aveva amato quell'uomo, aveva amato suo padre. Questo fu l'unico motivo che lo spinse ad alzarsi, raccogliere il diario e le pagine staccate e riporre tutto sul comodino prima di scivolare in un sonno profondo e senza sogni.  

*******

~ Napoli, 02 marzo 1871 ~

Una volta, aveva costruito il suo mondo dal silenzio e dal buio, riempiendolo della sua musica e dello sfavillio delle candele che riflettevano le loro fiamme negli specchi.
Una volta era bravo a combattere il nulla e a trarne piccole, personali magie, prodigio dopo prodigio, notte dopo notte, lacrima dopo lacrima. Poteva farlo, un tempo, con la forza di chi cela dentro di sé così tanto ingegno, così tanta immaginazione da far tremare le stelle.
Ora quel mondo che non era il suo, quella città straniera tentavano di invadere il nulla che aveva dentro, l'ultimo baluardo contro la pazzia che aveva minacciato di distruggere quel po' che restava di lui.
Come ogni mattina, furono i rumori della strada a svegliarlo. Erik aprì gli occhi su quella camera elegante, presa da assedio da un sole tiepido e smagliante come un sorriso finto. Da quando era giunto in quel posto aveva dovuto abituarsi a molte cose e quello di cambiare abitudini non era uno dei suoi talenti migliori. Il solo fatto di trovarsi in una casa dannatamente piena di luce e di gente, un palazzo nobiliare nel centro di Napoli, lo rendeva irrequieto.
Non che avesse mai incontrato quella gente, comunque: sia i domestici sia gli ospiti di Palazzo Giusso non mettevano piede in quelle stanze, su perentorie istruzioni del duca. Mariano Giusso era convinto che gli servisse tempo e glielo stava concedendo in gran quantità. I giorni passavano senza peso e senza volto, ed erano già quasi due settimane che era lì.
Come se fosse una questione di tempo!

«Avete mai visto uno specchio rotto ricomporsi?» aveva chiesto a bruciapelo al duca, in uno di quei pomeriggi in cui il nobiluomo veniva a fargli visita e trascorreva lunghe ore in silenzio, in attesa che lui parlasse.
«Avete mai visto miracoli avvenire senza la fede?» aveva replicato il suo ospite.
Erik non aveva risposto. La fede era una faccenda che non lo riguardava, era una dote che non possedeva ed era certo che, se anche ci fosse stato qualcuno in grado di compiere qualche miracolo, non sarebbe stato lui a beneficiarne.
L'istinto invece, quello sì che ne aveva. Era stato l'istinto a convincerlo a lasciare la Dimora sul Lago, un attimo prima che la folla inferocita che si era riversata nei sotterranei dell'Opera lo raggiungesse. Quando si era risvegliato in quella camera da letto, giorni dopo, aveva maledetto se stesso e ogni singolo passo che lo aveva condotto lontano da quella gente e dalla loro rabbia.
Non era stata una sua scelta quella di essere salvato ed essere portato via da Parigi. Del viaggio in nave non conservava quasi alcun ricordo, nelle poche ore in cui era stato vigile aveva sentito solo la sua pelle bruciare e la gola ardere, per tutto il tempo la febbre non gli aveva lasciato tregua. Poi si era semplicemente risvegliato, con la testa pesante e lo sguardo appannato, e aveva capito di essere lontano, lontanissimo da tutto ciò che aveva conosciuto. Questa consapevolezza gli aveva dato le vertigini, poi lentamente era affiorato il nulla, il ricordo che di quel suo mondo non era rimasto niente. Nemmeno il buio, forse, nemmeno il silenzio. Solo frammenti di illusione e pezzi di vetro sulla pietra nuda.
E a lui adesso non rimaneva nemmeno il dolore. Non si piange la perdita di qualcosa che non si è mai posseduto.
Dopo tutto ciò che aveva sempre sperato, con tutto ciò che aveva desiderato fino a smarrire la ragione, aveva ottenuto solo cose che non gli occorrevano. La salvezza e l'aiuto di un brav'uomo erano cose importanti ma a lui non servivano. Lui non...

Io non le merito.

Aveva passato alcuni giorni a letto, a riprendersi dagli strascichi della malattia. Poi semplicemente aveva preso atto della sua condanna: essere vivo.

Le lunghe visite del duca, durante le quali restava semplicemente seduto vicino a lui senza dire nulla, stavano cominciando a diventare fastidiose.
Dentro di sé, Erik sapeva che avrebbe dovuto essere grato a quell'uomo e non aveva intenzione di incolparlo della delusione che provava nel sentire il proprio cuore battere ancora.
La coscienza fa fare cose strane e assurde, come aiutare un folle assassino o lasciare andare la donna che si ama proprio in nome dell'amore.
Erik sapeva che prima o poi avrebbe dovuto trovare delle parole per il duca e, miracoli o meno, avrebbe anche dovuto prendere una decisione su cosa fare e su dove andare.

E poi c'erano le visite della ragazzina. La piccola Luisa compariva spesso nella sua stanza, con la caparbietà dei bambini che credono che tutto si possa risolvere, che vedono il mondo come una favola in cui a tutti spetta un lieto fine.
Il primo giorno in cui era venuta da lui, Luisa gli aveva chiesto, a suo modo, di cantare.
«Non oggi... e nemmeno domani. Mai più» le aveva risposto lui. E lo aveva detto con il tono di un giuramento, come se fossero parole incise su una lapide, eterne e definitive. L'Angelo della Musica era morto quando la fanciulla che lo aveva chiamato a sé anni prima se n'era andata lasciandolo solo con la sua disperazione e con la sua sconfitta.
Il giorno dopo Luisa era tornata e gli aveva chiesto di nuovo di cantare. Lui le aveva detto di no ancora una volta, senza nemmeno voltarsi a guardarla, continuando a fissare dalla finestra il cielo che si tendeva verso la primavera in arrivo.
Il terzo giorno la bambina si era presentata nella sua stanza con un violino, era vecchio e impolverato, forse apparteneva a qualche parente che non c'era più ed era rimasto a lungo chiuso da qualche parte.
Doveva volerlo a tutti i costi il suo lieto fine quella ragazzina caparbia.
«No» aveva detto lui lanciando un'occhiata torva allo strumento.
La piccola aveva annuito e aveva poggiato il violino sul piano di un mobile poi, come faceva ogni volta, si era seduta alla finestra, di fronte a lui, e si era messa a guardare la strada fino a quando qualcuno non l'aveva chiamata per dirle che era ora di cena.
Il quarto giorno, quando Luisa era tornata, Erik le aveva detto che il violino era scordato e che una delle corde era sul punto di spezzarsi. Lei aveva fatto un sorriso furbo e l'uomo le aveva rivolto un'occhiataccia.
Il quinto giorno Erik aveva suonato per lei. E aveva pianto.  

Quando quel pomeriggio Luisa tornò a fargli visita, Erik capì subito che aveva qualcosa nascosto dietro la schiena, ma finse di non accorgersene.
La ragazzina era ancora convinta di potergli regalare un lieto fine in qualche modo e Erik non aveva alcuna arma per persuaderla del contrario.
Dopo aver lanciato uno sguardo preoccupato al vassoio con il pranzo che non era stato toccato, la bambina saltellò fino alla sedia su cui era seduto e gli mostrò cosa aveva per lui. Era un oggetto rettangolare, avvolto in un paio di strati di carta velina.
«Ti ringrazio» mormorò Erik con aria non troppo convinta.
Il pacchetto conteneva un grosso quaderno rilegato in pelle rossa, con dei ghirigori dorati negli angoli della copertina. L'uomo lo guardò senza capire.
Luisa prese un foglio dallo scrittoio e tracciò una parola a matita.
«Diario?» fece Erik perplesso. «Io non scrivo diari. Non credi che sia sciocco?».
La bambina arricciò il naso in un'espressione crucciata e scosse energicamente la testa, poi si batté l'indice sul petto.
«Ne hai uno anche tu?» chiese Erik, lei annuì. «E non credi che io sia... troppo grande?».
Luisa sbuffò e prese un altro foglio e scrisse a grandi lettere, calcando il tratto con gesti stizziti:
SERVE PER PARLARE CON TE STESSO QUANDO NON SI PARLA CON GLI ALTRI
TU NON PARLI MAI CON GLI ALTRI

«Non ho bisogno di parlare con me stesso» protestò Erik.
La ragazzina lo guardò con occhi sottili e dondolò la testa coma a dire: sì, invece!
L'uomo sospirò. Un tempo, in quella primavera di due anni prima, gli era piaciuta la compagnia di quella bambina, gli piaceva ancora ma cominciava a rendersi conto che ciò che lo turbava di quella situazione era il fatto che Luisa e suo padre nutrivano delle speranze per lui e a Erik la speranza ormai sembrava solo una tortura.
Ah, se solo avessero potuto guardargli dentro, avrebbero scoperto che non aveva più un cuore né un anima. Non era cambiato nulla da quella notte a Parigi, restava soltanto...

… soltanto la musica.

Restava la musica – glielo aveva dimostrato quella piccola peste cocciuta. E un quaderno pieno di pagine bianche che lui non sapeva come riempire.
Non parlava con gli altri perché non aveva nulla da dire – e in ogni caso non era una cosa alla quale era avvezzo, non poteva parlare con se stesso perché non aveva più voce. Dopo tutti quegli anni in cui la sua anima aveva urlato e implorato per farsi ascoltare da un Dio assente, non gli rimaneva più fiato.  
Lo sguardo di Luisa si era fatto penetrante, colmo di attesa, e aveva ben poco di infantile. Quella ragazzina era cresciuta in fretta e non doveva essere stato facile crescere senza voce e senza madre. Di certo, quando si è costretti a stare in silenzio si impara ad avere la pazienza di comprendere e di ascoltare. Ma Erik non aveva nulla da dirle o da farle capire.
«D'accordo. Lo metto qua» concesse posando il quaderno sullo scrittoio. «Se mi verrà voglia di parlare con me stesso lo farò».
La ragazzina inclinò la testa di lato e sbatté le palpebre.
«Promesso» aggiunse l'uomo.

*

Era ormai sera inoltrata e Erik sentiva il sonno cominciare a bruciargli gli occhi. Non amava dormire, non gli piaceva l'idea trascorrere ore di inattività e quasi odiava il fatto di avere bisogno di riposo, come tutti gli altri.
Era abituato a non dormire molto, era quasi come un'abilità coltivata nei giorni in cui la sua vita era fatta di note su uno spartito, quei lunghi mesi dedicati alla stesura di un'opera, il Don Juan Trionfante, il suo stesso sangue fatto musica e poesia. Un componimento che parlava del trionfo del peccato, della vittoria dell'inferno sul paradiso e della passione su ogni altra istanza.
Poteva restare un giorno e una notte seduto al suo organo a scrivere, senza mangiare, senza preoccuparsi di niente, senza rammentarsi di nulla. Quando aveva completato la stesura di quell'opera era stato certo che non sarebbe mai più riuscito a comporre musica, anzi, era stato così sicuro che tutto il suo sangue fosse su quegli spartiti tanto da sentire il cuore saltare un battito dopo l'altro, e non gli era importato: aveva finito, poteva anche andarsene, poteva anche smettere di preoccuparsi del buio. Ma invece il suo cuore stava battendo, batteva per una fanciulla.
Il Figlio del Diavolo aveva osato posare lo sguardo su una delle migliori creature di Dio.
Come aveva potuto essere così sciocco da non capire che tutto ciò sarebbe stata la sua fine? Come aveva potuto concedersi di sperare?
La mente di Erik mise da parte quelle domande, non aveva senso tormentarsi oltre, non occorreva cercare risposte che non gli sarebbero state più di alcuna utilità.
L'aveva amata... l'amava, l'avrebbe sempre amata. Era una consapevolezza talmente potente e così ingombrante nella sua testa da non aver bisogno di altri pensieri, di non aver bisogno nemmeno del ricordo.
L'eloquenza di quell'amore riusciva a sopraffare persino le immagini di morte che popolavano i suoi incubi, era un canto che si innalzava al di sopra della sinfonia di distruzione che intonava la sua mente ogni volta che il Fantasma dell'Opera tentava di guardarsi alle spalle.
 
L'uomo chiuse gli occhi e si beò semplicemente della quiete che regnava attorno a lui. Durante il giorno c'era sempre rumore, ma ora c'era solo buio e silenzio, proprio come la volta precedente in cui aveva cominciato a lottare contro il suo destino.
Senza più curarsi del sonno e della stanchezza, Erik accese la lampada sullo scrittoio e guardò il quaderno che gli aveva regalato Luisa, accarezzò la copertina di pelle liscia e morbida al tatto e si lasciò sfuggire uno strano ghigno.
C'erano tante pagine bianche in quel diario, e regalarglielo non era stato un invito a scrivere il suo lieto fine, era stato come augurargli di avere una vita con cui riempirle, di prorogare il finale ancora molto a lungo. Erik si accorse di non volere davvero una vita, ma ancora una volta avrebbe strappato al mondo tutto il sole che poteva e avrebbe nutrito la sua personale notte senza fine. Se proprio doveva continuare a camminare sulla quella terra maledetta privo di anima, allora lo avrebbe fatto seguendo la sua strada.
Sollevò la copertina, intinse la penna nel calamaio e cominciò a scrivere.   

Curioso che il primo dono che io abbia mai ricevuto sia questo diario...


___________________________________

Here, I have a note...

I Giusso erano una ricca famiglia nobiliare italiana di origini genovesi che si trasferì a Napoli agli inizi del 1800. Il loro palazzo, acquistato dal duca Luigi Giusso, è ancora lì ed è attualmente la sede dell'Università Orientale, uno degli atenei di Napoli. Nella seconda metà dell'800 il loro nome era parecchio influente a Napoli, infatti a partire dal 1878 Girolamo Giusso fu sindaco della città e poi ministro e senatore del Regno d'Italia. Il duca Mariano Giusso e sua figlia, nonostante siano collocati nel vero palazzo, sono comunque di mia invenzione (come tutti gli altri personaggi originali che compariranno nella storia).

La storia è molto avanti sul mio pc, per cui pensavo di postare regolarmente un capitolo a settimana. Ci si legge mercoledì prossimo!

I remain, gentlemen, your obidient servant.

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Capitolo 3
*** L'Angelo della Musica ***


Capitolo secondo
L'Angelo della Musica


~ Napoli, 07 marzo 1871~

Guglielmo Marchesi sperò di morire fulminato nello stesso istante in cui aprì gli occhi. Il dolore alla testa era davvero lancinante e la stanza ondeggiava sotto il suo sguardo ancora velato di sonno e spossatezza.
Si girò di schiena, scalciando via le lenzuola di seta e sentì una stretta attorno al collo. Allungò una mano a toccarsi la gola e si accorse di avere ancora la cravatta annodata, anzi di essere praticamente ancora vestito dalla testa ai piedi, anche se i suoi abiti ormai erano un ammasso bistrattato di pieghe, maleodorante di alcol e di fumo.
Anche lui si sentiva un ammasso di pieghe maleodorante.
Si strappò la cravatta e la lanciò via. Deglutì più volte e si umettò le labbra, poi si stropicciò il viso e si decise a guardarsi attorno anche se la poca luce che entrava dalle finestre gli feriva gli occhi come se stesse tentando di fissare il sole di mezzogiorno. Riconobbe di essere nella sua camera da letto e lo interpretò come un buon segno, anche se non era altrettanto buono il fatto che non ricordava come e quando vi aveva fatto ritorno la sera precedente.
Nella sua testa martoriata dai postumi della sbornia si disegnò l'immagine del suo amico che gli versava l'ennesimo bicchiere di liquore, rispondendo ai suoi gesti di diniego con sardoniche esclamazioni riguardo al fatto che a trent'anni si è ancora abbastanza giovani da reggere una bevuta come si deve.
In realtà, in quei suoi trent'anni di onesta esistenza su quella terra, Guglielmo non aveva mai avuto occasione di farsi molte bevute come si deve, per questo non era poi così abituato a reggerle quando si presentava la circostanza.
Sperò che sua madre non lo avesse visto rientrare ubriaco fradicio – a trent'anni non ci si dovrebbe preoccupare nemmeno di cose simili, pensò, ma le sue erano circostanze particolari. Ad ogni modo, quella sua speranza finì delusa quasi subito.
Una violenta bussata alla porta fece eco tra le sue tempie doloranti, l'uomo si mise a sedere in mezzo al letto e avvertì un violento conato di vomito.
«Sarà meglio che tu esca da questa stanza con una buona spiegazione per l'indicibile stato in cui i tuoi amici ti hanno riportato a casa stanotte... anzi, dovrei dire stamattina». La voce di sua madre suonò come una tromba dell'Apocalisse tra le pareti affrescate della camera.
Una spiegazione, in realtà, Guglielmo l'aveva anche se non era certo di poterla condividere con qualcuno, meno che mai con sua madre.
Aveva saputo che un certo ambasciatore straniero sarebbe venuto in visita lì a Napoli con la sua famiglia tra due mesi e che nel periodo in cui sarebbe stato ospite della città partenopea cadeva il compleanno della sua adorata figliola, la quale aveva chiesto, come regalo, di essere portata al teatro San Carlo. La cosa poteva anche non essere eccessivamente drammatica, non fosse che la cara ragazza aveva espresso il desiderio di vedere rappresentata quella sera la sua opera preferita della produzione lirica italiana, La Traviata del maestro Verdi. Il sindaco di Napoli si era messo in contatto con il direttore del San Carlo e aveva chiesto – o per meglio dire, ordinato – di sospendere qualsiasi altra attività e di dedicarsi unicamente a preparare un'imponente, stupenda, moderna, straordinaria rappresentazione de La Traviata, senza badare a spese e assicurandosi che tutto andasse bene, che ogni cosa fosse perfetta e bellissima...
Anche questo non avrebbe dovuto essere particolarmente drammatico per Guglielmo, non fosse che il direttore del San Carlo, al momento, era proprio lui. E lo era soltanto perché suo padre aveva smosso mari e monti – e anche più che discrete somme di denaro – perché lo diventasse, dopotutto nessuno poteva dire di no al signor Bruno Marchesi, il più grande banchiere di Napoli, nemmeno suo figlio.
Ad essere onesti, Guglielmo non era bravo a dire di no in generale. E ora si era ritrovato impigliato mani e piedi in quella situazione. La richiesta del sindaco non era in realtà così assurda, ma per mettere in scena una straordinaria rappresentazione di un'importante opera lirica occorreva un direttore di teatro capace, cosa che lui non era.
E questo era più o meno il motivo che lo aveva abbattuto tanto da convincerlo ad alzare il gomito la sera prima, unitamente al fatto di aver ormai classificato come impossibile e irrealizzabile il suo sospiroso amore platonico per la primadonna del teatro che tentava tanto maldestramente di dirigere.  
Vinto dalla sconforto, Guglielmo si lasciò cadere sul guanciale e riprese a dormire fino a quando sua madre non entrò per svegliarlo, battendogli sul naso una busta da lettere.
«Quando avrai la decenza di alzarti e renderti presentabile,» gracchiò la donna, «spero che tu voglia ricordarti di questo».
La signora Giovanna Marchesi era un'imponente donna di mezz'età, una vera e propria matrona che sentiva su di sé tutto il peso e l'eroico orgoglio di essere la madre di tre figli maschi. Lanciò la busta da lettere contro il suo terzogenito e si portò le mani ai fianchi, in attesa che questi desse segni di vita.
«Scusate, mammà» biascicò Guglielmo tentando di mettersi in piedi, sperando di non vomitare sulla gonna della signora Marchesi. «Sapete com'è, queste serate tra amici...».
Lei gli riservò il peggiore dei suoi sguardi torvi e gli indicò la lettera.
«È per stasera, alle sette. Ti faccio notare che sono già le tre del pomeriggio, pensi di farcela?» borbottò.
«Senz'altro» mentì l'uomo, spaesato. Non aveva idea di cosa ci fosse in quella lettera, né sapeva se si sarebbe ripreso in tempo per le sette di quella sera, ma avrebbe detto qualsiasi cosa pur di far uscire sua madre dalla sua stanza e avere qualche altra ora di quiete.
Quando la donna lo lasciò solo, Guglielmo andò a sciacquarsi il viso e chiese ai domestici di preparargli un bagno e dei vestiti puliti, poi prese la lettera che aveva lasciato su letto e scoprì di conoscere già il suo contenuto, aveva già letto quel biglietto, ma in quel momento faceva fatica a rammentare persino il proprio nome. Si trattava di un invito alla festa di compleanno del duca Giusso, e nel rileggere il messaggio uno strano pensiero gli balenò nella testa ancora dolorante. Il duca conosceva un sacco di gente brava e capace nel panorama artistico della città e forse avrebbe potuto dargli qualche consiglio su come rendere meno drammatica la sua personale tragedia incombente.

*

Erik riuscì a sento a trattenere un ghigno compiaciuto quando il duca, in piedi alle sue spalle, mormorò con voce flebile e incrinata dalla sorpresa: «Come avete detto?».
Si voltò a guardarlo senza tradire alcuna particolare emozione,
«Ho detto che verrò senz'altro» ripeté.
«Ah, dimenticavo che siete un uomo che ama stupire» commentò Giusso con un sorriso titubante.
Sì, gli piaceva stupire. Gli piaceva costruire lo stupore e poi scagliarlo contro la gente. Era facile quando c'era un teatro intero che riusciva a piegare al suo volere, quando il suo genio riluceva nei colori di una scenografia o nel raso di un costume di scena. Era facile quando aveva dalla sua parte le armi della paura e la protezione delle ombre e delle botole.
Adesso non sarebbe stato altrettanto facile, non era più in casa sua e avrebbe dovuto sottostare alle regole di un gioco che non aveva architettato lui – almeno per il momento. Adesso era lui che aveva paura perché la scelta che aveva compiuto lo avrebbe portato a entrare in quel mondo che egli stesso aveva temuto più di quanto era riuscito a terrorizzare.
Ma non aveva perso le sue attitudini né la capacità di sfruttare le situazioni a proprio vantaggio e trasformare i suoi timori in una corazza che lo rendeva inattaccabile. Era ancora il Fantasma dell'Opera, era ancora il Figlio del Diavolo. Ma questa volta il mondo non avrebbe potuto costruirgli attorno più nessuna prigione.
Non sarebbe stato facile, ma ogni scelta che aveva preso prima di allora lo aveva portato inesorabilmente verso la disfatta. Ora, che di scelte non ne aveva, poteva concedersi di credere alla fortuna o a qualcosa di simile.
«Mi avete aiutato quando avevo alle calcagna una città intera che mi odiava» continuò con voce pacata, imprimendo a quelle parole tutto il calore e il sentimento di cui era capace.
La sua voce, che straordinario strumento poteva essere! Con che maestria poteva fingere, con che potenza poteva ammaliare, con quale dolcezza poteva sedurre e assoggettare.
«Mi avete aiutato ed è ora che io tragga qualche frutto dalla bontà che mi avete riservato» concluse.
Il duca aveva l'aria di qualcuno che era stato colto alla sprovvista. Quell'uomo non era sciocco e forse non gli voleva credere fino in fondo.
«Perché lo fate?» domandò corrugando la fronte.
«Mi avete parlato così a lungo dei miracoli. Se ci fosse una motivazione da cercare non sarebbero tali» replicò Erik.
«Quand'è così, ne sono lieto».
Erik accennò un sorriso, il duca sembrò davvero contento mentre lasciava la sua stanza. Dopotutto aveva organizzato la sua festa di compleanno in modo che il suo ospite fosse parecchio incentivato a prendervi parte.

Dopo pranzo, Luisa venne a fargli visita. Suo padre doveva averle detto che aveva invitato il loro strano ospite alla sua festa di compleanno e lui aveva accettato di presenziare al ricevimento, perché la ragazzina sembrava raggiante. Entrò nella stanza e gli corse incontro, quando gli fu vicino lo abbracciò. La testa ricciuta della piccola arrivava appena sotto il petto di Erik.
Lui restò interdetto per un attimo, non gli piaceva essere toccato e la ragazzina non aveva mai osato tanto, nemmeno in quei giorni lontani di due anni prima. Posò le mani sulle spalle di Luisa e la staccò delicatamente da sé. Ad ogni modo, non gli dispiacque averle dato l'idea di quel tanto sospirato lieto fine che lei cercava, non gli dispiacque vederla sorridere contenta: far sorridere qualcuno era più di quanto fosse mai riuscito a fare prima di allora.
«Ascolta, dovresti fare una cosa per me, puoi?» le chiese.
Luisa annuì con aria convinta, Erik le fece cenno di sedersi e cominciò a spiegarle che c'erano alcune di cose di cui avrebbe avuto bisogno per la serata.

*

A Mariano Giusso piacevano molto le feste, gli piaceva avere gente attorno e vedere casa sua riempirsi di amici. Alcuni erano amici sinceri, altri un po' meno, ma a lui non importava, non quella sera.
La sala più grande del palazzo era stata tirata a lucido e addobbata con ghirlande di fiori – un'idea di Luisa. I domestici si stavano dando un gran da fare per rifornire gli ospiti di vino e cibarie mentre una piccola orchestra in abito bianco suonava sistemata su un rialzo tappezzato di velluto.
Tutta l'alta società di Napoli era presente a quel ricevimento, ma non c'erano solo nobiluomini, dame e signori benestanti tra gli invitati, c'erano anche gli artisti a cui Mariano Giusso aveva fatto da mecenate in quegli anni. Tuttavia, chi fossero i presenti non aveva particolare importanza: il salone del palazzo era un tappeto di maschere colorate e vestiti vistosi, volti di satiri e di animali, crinoline, veli, raso e merletti.  
Il duca non avrebbe potuto festeggiare il suo compleanno in maniera meno originale. Con i suoi invitati aveva accampato una scherzosa scusa riguardo al fatto che si era perso i festeggiamenti del Carnevale mentre era in Francia e, anche se non si trattava totalmente di una scusa, c'era un altro più valido motivo per quella scelta che era apparsa tanto bizzarra.
Il duca cominciava a chiedersi come mai Erik non si fosse ancora presentato. I festeggiamenti erano cominciati da più di un'ora e di lui non c'era nessuna traccia. Forse ci aveva ripensato, forse era arrivato fino alla soglia del salone e si era lasciato spaventare dal cicaleccio della piccola folla raccolta nella stanza. Perché in fin dei conti quell'uomo aveva paura, il duca lo sapeva bene, anche se quella mattina, quando gli aveva detto che sarebbe venuto al ricevimento, aveva visto uno strano lampo nel suo sguardo, una luce che non aveva più rivisto da quando lo aveva condotto via da Parigi, quella scintilla di arguzia e furia che segnava il confine tra l'uomo che si celava dietro la maschera e quell'essere oscuro e terribile che era il Fantasma dell'Opera. Che era stato il Fantasma dell'Opera, così Mariano Giusso ripeteva a se stesso, certo che quell'essere fosse morto una vola per sempre nell'incendio che aveva distrutto il teatro. Dopotutto, non era più Parigi, non c'era più alcuna Opera e forse i fantasmi avrebbero potuto sparire un giorno, sotto il bel sole di Napoli. Così almeno voleva credere il duca, era ciò che gli serviva per dimenticarsi di quello che aveva visto quella stessa mattina mentre parlava con Erik.
Era così assorto nei suoi pensieri che quasi non si accorse della mano che gli aveva afferrato il braccio. Sussultò rischiando di far cadere il suo calice di vino.
«Guglielmo! Mi avete spaventato» mormorò, riconoscendo dietro un'elaborata maschera di cartapesta dorata il figlio più giovane del banchiere Bruno Marchesi che gli si era appena aggrappato al braccio.
«Scusate, signor duca. Io mi chiedevo se posso parlarvi un minuto» disse questi.
«Ma certamente».
Giusso pilotò il suo ospite in un angolo del salone. Gli aveva sempre fatto una certa tenerezza quel povero figliuolo che aveva passato la vita ad assecondare i suoi assillanti e ambiziosi genitori, portando sulle spalle il peso del successo dei due fratelli più grandi. Il maggiore dei figli del banchiere Marchesi avrebbe ereditato il posto e il prestigio di suo padre e aveva contratto un ottimo matrimonio, portando altro denaro alle casse della famiglia e ulteriore lustro al loro nome, il secondogenito aveva intrapreso invece la carriera militare e stava facendo strada nell'esercito sabaudo. A Guglielmo era tocca l'arte, così avevano voluto suo padre e sua madre, e poco era importato se il ragazzo non aveva un particolare talento: il signor Marchesi sembrava davvero convinto che il denaro potesse comprare anche quello. Guglielmo aveva frequentato il conservatorio di San Pietro e si era diplomato in pianoforte. Suonava discretamente e aveva anche una certa attitudine al canto, ma non era speciale nella misura in cui la sua famiglia avrebbe voluto che fosse. Poi suo padre aveva avuto quella balzana idea di fargli riempire a tutti i costi il posto da direttore del teatro San Carlo, lasciato vacante da un uomo eccellente che si era ritirato il mese prima per motivi di salute.
A Guglielmo il teatro piaceva e certamente aveva a cuore la musica, ma non aveva affatto la stoffa, le competenze e nemmeno i nervi per dirigere una delle più prestigiose culle dell'arte canora italiana.
«Perdonatemi, signor duca, ma mi vedo costretto a chiedere il vostro aiuto» disse il giovane Marchesi, abbassando la maschera e guardandosi attorno con aria circospetta per assicurarsi che nessuno dei presenti ascoltasse quella conversazione. «Il sindaco mi ha chiesto di mettere in scena un'opera in occasione della visita di un diplomatico straniero, io naturalmente voglio accontentarlo ma si da il caso che non... beh, non mi sento ancora molto a mio agio in questa veste di direttore del teatro e temo che potrei non essere all'altezza delle aspettative, e... insomma...».
Guglielmo deglutì nervosamente. Una sfumatura molto intensa di rosso stava salendo dal colletto della sua camicia e gli stava colorando la faccia, le orecchie erano già di uno smagliante color porpora quando il duca decise di toglierlo dall'imbarazzo.
«Ma certo, capisco perfettamente» disse con un sorriso gentile, rivolgendogli una lunga occhiata complice. «Sono certo che tra le mie conoscenze c'è qualcuno che potrà aiutarvi in questa impresa, senza rivelarsi eccessivamente invadente. Lasciatemi solo il tempo di pensare a chi è la persona più adatta».
«Oh, certo. Certamente duca, vi ringrazio...». Il rossore stava lentamente abbandonando il volto di Guglielmo e ora il giovane figlio del banchiere cominciava a sorridere in una maniera un po' più rilassata.
Il duca gli batté amichevolmente una mano sulla spalla. Stava per dirgli di continuare a godersi la serata quando vide con la coda dell'occhio sua figlia Luisa, in uno sfarzoso costume da Colombina, attraversare la sala facendosi largo a fatica tra i presenti. Giusso seguì con lo sguardo la ragazzina mentre saliva sul palchetto dove erano sistemati i musicisti.
Luisa sollevò le braccia, agitò le mani coperte da guanti di pizzo scuro, ma ci volle qualche minuto prima che l'orchestra capisse e si decidesse a interrompere la musica.
Nello stesso istante in cui i musicisti smisero di eseguire il valzer che erano intenti a suonare, uno strano e innaturale silenzio calò sulla sala. Le coppie che stavano danzando si fermarono interdette e tutti guardarono perplessi in direzione del piccolo palco allestito in fondo alla sala.
Al duca bastarono una manciata di secondi per capire, comprese ancora prima di vedere la figura che stava salendo sul palchetto facendosi spazio tra i musicisti.
Era vestito completamente di nero, con un mantello di pesante velluto color sangue drappeggiato sulle spalle che faceva apparire la sua elegante figura ancora più imponente. Aveva qualcosa di magnetico e terrificante, con quegli occhi che sembravano catturare la luce delle candele e quella mezza maschera bianca che ricalcava con precisione la fisionomia della porzione di volto scoperto.
C'era un violino tra le mani dell'uomo.
Il duca provò uno strano fremito, fu solo un attimo, poi si riscosse e passò in rassegna con lo sguardo tutti i presenti. Erano certamente stupiti, alcune donne fissarono l'ospite appena arrivato in attesa che il suo sguardo si posasse su di loro, ma lui non guardò nessuno. Con un gesto garbato allungò la mano verso Luisa che era rimasta in piedi sul ciglio del palco, le dita sottili della bambina si posarono sul palmo grande dell'uomo che l'aiutò a scendere, poi lui fece un profondo inchino verso i presenti, si appoggiò il violino sulla spalla e cominciò a suonare.
Le note alte e vibranti di quel bolero riempirono l'aria, scivolando come pioggia sulle persone raccolte nel salone. Per qualche secondo nessuno si mosse, poi lentamente le coppie ripresero a ballare, tutti gli altri semplicemente ascoltavano.     
Dopo lunghi minuti la musica cessò, sfumando lentamente in un silenzio che durò appena un battito di ciglia, prima che la sala esplodesse in un applauso ammirato.
L'uomo ripeté il suo inchino ai presenti, ne rivolse un altro in direzione del padrone di casa, poi si voltò e uscì dalla sala senza fermarsi a parlare con nessuno.
Il duca conosceva i prodigi di quella musica, le cose straordinarie che gli strumenti erano in grado di fare sotto il tocco di quelle dita e si ritrovò quasi a ridere per l'euforia che quella strana incursione gli aveva fatto provare. Da Erik non ci si poteva aspettare un'entrata meno trionfale di quella.
Luisa si accostò a suo padre e lo tirò per la manica. Lui la guardò continuando a sorridere e lei gli lanciò un'occhiata furba.
«Sì, cara, mi è piaciuta moltissimo la sorpresa» disse il duca.
Guglielmo Marchesi si avvicinò al padrone di casa, uno sguardo stranito faceva capolino dai fori della sua maschera,
«Signor duca, chi era quell'uomo?» domandò.
È l'Angelo della Musica, avrebbe voluto rispondere Giusso.
«Credo che sia la vostra persona più adatta, amico mio» dichiarò invece con un sorriso ammiccante.

*

“Masquerade!
Paper faces on parade.
Masquerade!
Hide your face so the world will never find you!”

Si chiuse la porta alle spalle e sospirò. Le note che aveva appena suonato gli rimbalzavano nella mente, aprendo squarci nella tela dei ricordi attraverso i quali poteva rivedere la sfavillante e imponente bellezza del foyer dell'Opera illuminato a giorno da una miriade di candele, la bolgia di volti mascherati e la baraonda di persone lanciate nel turbinio della danza.
Quello era il suo mondo, il suo dominio, del quale non rimaneva altro che un sordo rimpianto e il sentore di un'assenza che aveva già cominciato a inaridirlo.
Dovette ammettere con se stesso che ora era letteralmente scappato dalla sala e che la fuga non era da ritenersi una soluzione praticabile in futuro, ma non aveva voglia di parlare con nessuno. Non avrebbe mai voluto parlare con nessuno, in effetti, voleva solo riprendersi la sua musica.
Per fortuna nemmeno il duca si fece venire in testa l'idea di venirlo a cercare ed Erik decise che per quella sera poteva bastare. Salì le scale che portavano al piano superiore del palazzo, dove c'erano le camere da letto. La casa era vuota e si faceva sempre più silenziosa man mano che ci si allontanava dal salone della festa.
Erik entrò nella sua stanza e chiuse la porta, poi si diresse immediatamente allo scrittoio, prese il diario dal cassetto e cominciò a scrivere.
 
Luisa lo sorprese chino sulle pagine e allargò il migliore dei suoi sorrisi mentre attraversava la stanza avvolta nel fruscio del suo costume colorato. Era graziosa, forse da grande sarebbe diventa molto bella, ed era intelligente e solare, anche se le mancava la voce. Peccato che il mondo tenga così in scarsa considerazione le cose spezzate, pensò l'uomo mentre osservava la ragazzina venire verso di lui.  
«A quest'ora dovresti essere a letto da un pezzo» commentò severo distogliendo lo sguardo. Quello era il suo piccolo trionfo e non aveva voglia di condividerlo con lei.
Luisa scrollò le spalle, poi batté le mani in un rumoroso ed entusiastico applauso.
«Lieto che l'esibizione sia stata di tuo gradimento», le concesse un mezzo sorriso.
La ragazzina gli posò una mano sulla sua per costringerlo a tornare a guardarla, poi si tolse la sua maschera da Colombina. Erik la fissò, augurandosi di aver capito male, ma quando Luisa gli puntò contro l'indice e gli scoccò un'occhiata fin troppo eloquente per appartenere a una dodicenne, lui si ritrasse con uno scatto. Una stilettata di gelo lo colpì al petto.
«Mai. Non occorre né a te né a me» borbottò aspro.      
Le labbra della piccola si arricciarono in una piega triste, afferrò un foglio e scrisse: occorre, è fiducia.
«No» concluse Erik. Luisa gli rivolse uno sguardo rabbioso, si voltò di scatto e lasciò la stanza.

Non dormì affatto quella notte. Era ormai quasi mattina quando decise di uscire.
Era abituato a girovagare senza meta di notte, quando Parigi viveva la sua seconda vita fatta di osterie, bordelli e scorribande di malfattori, quando anche le luci dell'Opera si spegnavano e ogni magia veniva rimandata al giorno successivo.
Si gettò il mantello sulle spalle, attraversò i corridoi del palazzo senza farsi scorgere dalla servitù già al lavoro, intenta a riportare la casa alla normalità dopo i festeggiamenti della nottata appena trascorsa.
Oltrepassata la soglia del portone del palazzo sentì freddo e non volle indugiare a tentare di capire se fosse davvero una sensazione fisica dovuta all'aria umida delle prime ore del giorno.
Un banco di nuvole opponeva una leggera resistenza alle prime luci dell'alba, il cielo cominciava a malapena a rischiararsi dietro ai palazzi e la città sembrava ancora quasi deserta.
Un paio di piccioni planarono sulla piccola piazza sulla quale affacciava il palazzo del duca, il profilo della Basilica di San Giovanni Maggiore si ergeva maestoso e immobile proiettando un'ombra cupa sul pavimento di sampietrini.
Erik voltò l'angolo e si ritrovò in una stretta via tra basse palazzine dove l'intonaco delle facciate era in più punti scrostato e cadente. Anche a quell'ora ogni tanto qualcuno usciva da un portone e si incamminava frettolosamente sparendo all'angolo di qualche vicolo, ma nessuno faceva caso all'uomo mascherato e ai suoi occhi sconosciuti che si posavano con avidità su ogni scorcio e sulle porzioni di cielo che si intravedevano tra i tetti delle case.
Era abituato a camminare molto, alla svelta e senza far rumore. Le ripide scalinate e i cunicoli che mettevano in comunicazione la Dimora sul Lago con la superficie non gli erano mai parse faticose. Quando le percorreva in salita sapeva che stava andando verso la luce, quando tornava in discesa sapeva che stava facendo ritorno alla sua musica. Quella era la sua vita, scandita da ritmi precisi che lo facevano sentire al sicuro, luoghi, voci e facce sempre uguali, familiari anche se ostili. Napoli invece aveva un volto strano e l'uomo si domandò in che modo ora quella città avrebbe cambiato la fisionomia della sua miserabile esistenza.

La stretta stradina proseguiva quasi diritta sbucando in un viale più largo e in un altro ancora più ampio, 'Via Toledo' diceva il cartello di ferro battuto.
Erik doveva aver camminato parecchio perché l'alba aveva cominciato già a rendere più netto lo strano gioco di chiaroscuri sul volto di Napoli. Quando mosse i primi passi sulle lastre di pietra lavica che pavimentavano la strada, sentì un odore forte invadergli le narici, un profumo che non gli era familiare e che avvolgeva la città predominando su qualsiasi altro odore, sulla fragranza che cominciava a sprigionarsi dalle botteghe dei fornai così come sul tanfo di acqua stagnante che si alzava dai tombini.
Come un bambino affascinato dall'ignoto, Erik avrebbe voluto seguire quell'odore, ma si accorse che era ovunque, impossibile determinarne la provenienza.
Continuò semplicemente a camminare. Ora la città cominciava a essere trafficata dai primi mercanti e dai braccianti che si dirigevano al porto. Erik fremette per tutti quegli sguardi sconosciuti che lo sfioravano, scivolando su di lui e poi lasciandolo proseguire per la sua strada.
L'abbraccio del colonnato di Piazza del Plebiscito lo colse quasi all'improvviso, alla fine del largo viale. Erik ebbe l'impressione che ogni singolo respiro gli esplodesse nel petto e, per una strana vecchia abitudine, si ritrovò a stringersi in un angolo, rintanato all'ombra di quella che doveva essere stata una delle reggie costruite dai Borboni durante il Regno delle Due Sicilie. Alle sue spalle la sagoma squadrata del teatro San Carlo vegliava immobile sulla strada e sul suo concitato viavai mattutino.    
Senza staccare gli occhi dal colonnato semicircolare e dall'armoniosa figura della chiesa di San Francesco, Erik proseguì a passo sempre più lento, riempiendosi gli occhi di un pezzo di quel mondo che aveva temuto, un mondo con il quel era ancora in conflitto ma che adesso sembrava tendergli una mano, almeno per l'arco di tempo di una mattina.
Fu dopo qualche metro che l'uomo capì qual'era la fonte dell'odore magnetico che aveva sentito. Dopo la piazza, la strada proseguiva per alcune centinaia di metri terminando in un incrocio con la via del lungomare.
Erik non aveva mai visto il mare, per questo non ne aveva riconosciuto il profumo.
Il silenzio di quel primo mattino era rotto dai rumori e dalle voci che si alzavano sempre più prepotenti dal porto, insieme ai versi dei gabbiani che attraversavano il cielo per andare a posarsi sulle merlature di Castell dell'Ovo.
La via del lungomare era costruita a ridosso della riva fatta di scogli spigolosi interrotti solo in qualche punto da piccole strisce di spiaggia dalla sabbia scura, bagnata da onde miti che lasciavano rapide carezze di spuma sul bagnasciuga.
Erik si appoggiò al parapetto di ferro che separava la strada dagli scogli e aspirò lunghe boccate di aria salmastra. Poteva non avere più un cuore e un'anima, ma non avrebbe mai perso la capacità di emozionarsi davanti alle cose belle. E Napoli era bella, bella e tremenda, era... come lui, come un angelo caduto che si dibatte tra gli sfregi della miseria e lo splendore prepotente e fugace della sua parte migliore. Anche il colore di quel mare assomigliava a quello dei suoi occhi.
Il riflesso del sole sull'acqua gli ferì lo sguardo. Ora le voci della città erano più forti, nitide, ed Erik capì che era il momento di rientrare.

*******

~ Parigi, 14 maggio 1872 ~

Il dolore pulsava in ondate calde, scintille purpuree cominciarono a danzare dietro le sue palpebre serrate.
La giovane moglie del visconte De Chagny non aveva mai avuto particolare paura di quel momento, ma adesso cominciava a rendersi conto che i dolori del parto erano tutt'altro che facili da affrontare.
Mentre il suo corpo impazzito cedeva alle fiammeggianti fitte che salivano dal bassoventre, la sua mente era lucida e le parve di poter sentire ogni cosa, persino i passi nervosi di Raoul fuori la porta della camera da letto. Lei avrebbe voluto che non fosse lì, che non sentisse.
Si erano sposati nel maggio dell'anno prima. Il loro era stato il matrimonio più chiacchierato dell'alta società di Parigi: il nobile che sposa la cantante di teatro, quella stessa ragazza coinvolta nell'incresciosa vicenda dell'incendio dell'Opera Populaire...
A Christine non era importato, l'amore è di chi si ama e tutti gli altri non possono sapere, così si era detta. E adesso era su quel letto ad aspettare che il frutto di quell'amore aggiungesse il tassello mancante a quella felicità che lei e suo marito si erano così faticosamente conquistati.
Il tempo si stemperò in minuti lunghissimi.
Ad un certo punto, la porta della stanza si aprì di colpo. Christine riuscì a vedere il viso di suo marito che spiava all'interno, sembrava terrorizzato, ma fu solo un attimo fugace, prima che una concitata madame Giry entrasse e chiudesse la porta alle sue spalle.
Era stata lei a chiedere di farla chiamare. Ogni fanciulla in quel momento avrebbe dovuto aver vicino la propria madre e quella donna era l'unica madre che lei avesse mai conosciuto.
Le dita calde di madame Giry si strinsero attorno alle sue, sudate e stranamente fredde.
Le lancette dell'orologio dovevano essere diventate di piombo e poi di pietra.
La mente di Christine cominciò ad andare alla deriva. Sentiva i suoi strilli, ma era come se fossero quelli di un'altra persona e lei fosse molto lontana da quella stanza.
In uno scampolo di lucidità vide di nuovo la porta della camera aprirsi, vide il dottore entrare, restare alcuni minuti sulla soglia a questionare con Raoul che cercava di farlo da parte ed entrare.
Qualcosa stava andando storto.
Poi all'improvviso il gelo.
«Visconte, devo saperlo» fece il dottore. «Se le cose si mettessero male devo salvare la madre o il bambino?».

No, no... no!
Mio figlio deve vivere...

Cercò di gridarlo, al di sopra del dolore, al di sopra dei visi sudati delle donne chine su di lei. Ma le parole restarono a fare eco dentro la sua testa e un attimo dopo ogni luce svanì.
Non era più in quella stanza, su quel letto. Le urla che le attraversavano il cervello non erano più le sue, cenere e schegge di legno infuocato piovevano sulla pietra gelida sotto i suoi piedi nudi.
La cenere prese a vorticare nella penombra vasta e fredda, confondendosi con la nebbia che spirava dalle acque del lago sotterraneo, sotto la luce di fiamme di candele che si riflettevano negli specchi addossati al fondo della grotta.
Il dolore adesso non era più una sensazione fisica, veniva dal cuore, ad ogni battito si spingeva sempre più a fondo dentro di lei, dalla pelle, ai muscoli, alle ossa, fino all'anima come per marchiarla.
Christine ansimò angosciata e fece scivolare le mani su quell'abito da sposa che le fasciava la vita. Da qualche parte, molto lontano, le parole rabbiose di una folla inferocita si confondevano al crepitare del fuoco. E lui era lì, come era stato a farle visita nei suoi incubi la notte, nelle settimane successive alla sera dell'incendio, il suo Angelo della Musica con le ali e il cuore spezzati. Ed era stata lei a spezzare quel cuore, senza intenzione, senza cattiveria, ma lo aveva fatto.
Le lacrime che rigavano quel volto distorto avevano l'odore del sangue. Christine cominciò a piangere, in piedi sulla sponda del lago, desiderando di venire trascinata via. Il dolore scava dentro di lei, le grattava la pelle.
Passarono ore prima che riuscisse a riprendersi. Anche prigioniera in quell'incubo, si ricordò del figlio che stava per nascere... che rischiava di non arrivare a vedere la luce.
«Ti prego...» mormorò a fior di labbra, rivolta all'Angelo della Musica, come se ancora una volta la sua sorte fosse legata a quell'uomo. Ma stavolta lui non c'entrava, stavolta la sua sofferenza le parve una meritata punizione per ciò che aveva fatto.
«Ti prego, non mio figlio...» disse, la voce rotta che si perdeva nel silenzio infinito di quel luogo disumano.
Il suo Angelo sollevò lo sguardo, il volto rigato di lacrime uguali alle sue. Scosse il capo, non poteva fare niente, avrebbe voluto aiutarla, ma stavolta lui non c'entrava. Lui era morto, lo sapevano tutti.
Il carillon a forma di scimmia cominciò a suonare flebile le note della Masquerade, posato su un rialzo di pietra.
«Christine, ti amo...». La voce vibrò all'improvviso, una voce che avrebbe potuto spegnere le stelle, così dovevano suonare le parole di un demonio che si era arreso all'amore.
La fanciulla avvertì un'altra ondata di dolore, più forte e intensa, il male più profondo che aveva mai provato. Chiuse gli occhi, sopraffatta, e quando li riaprì la grotta era vuota, frammenti di specchio luccicavano sul pavimento, pezzi di un'illusione tradita.

No... no, no!
Mio figlio deve vivere, ho fatto a pezzi l'anima di un uomo per l'amore che l'ha fatto nascere...

Un pianto sordo fece eco da lontano, ogni singhiozzo le portava via un battito. Poi le note del pianto cambiarono, si fecero più acute e meno disperate.
Quando Christine riaprì gli occhi era nel suo letto, madida di sudore. Davanti a lei la levatrice stava avvolgendo in un lenzuolo un corpicino, due manine minuscole affioravano tra i lembi di stoffa candida.
«È un maschio, madame» annunciò.
«Gustave...» sussurrò la fanciulla in un respiro faticoso.
Sentiva il cuore batterle violentemente contro le costole, e un senso di stanchezza più forte del dolore la fece crollare riversa contro la pila di cuscini mentre il medico le tastava con dita gentili il polso.
Raoul sarebbe impazzito di gioia, lo sapeva. Il loro amore era sopravvissuto a prove indicibili e crudeli e lei aveva dovuto ricominciare a costruire la felicità giorno dopo giorno, facendola riemerge dall'oscurità e dalle ombre che sembrava avrebbero potuto aleggiare per sempre sulla sua esistenza e sulla sua famiglia.
Ma ora aveva un figlio. Ora aveva il dovere di dimenticare e di andare avanti.

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Here, I have a note...

Per l'aspetto di quella zona del centro di Napoli e per i luoghi citati mi sto rifacendo a immagini d'epoca e cose simili (si ringrazia l'augusto genitore che ha messo a disposizione undici tomi di 'enciclopedia sulla Napoli di un tempo). Ad ogni modo, la disposizione delle strade non doveva essere molto diversa da come è oggi, visto che molti palazzi storici, munumenti e chiese e via dicendo sono antecedenti agli anni in cui è ambientata la fanfiction. Via Toledo, naturalmente è l'attuale Via Roma.
Il percorso fatto da Erik lo conosco abbastanza bene, anche se è da un po' che manco da quella città (Google Maps è stato un valido assistente nella stesura di quella scena XD), ad ogni modo, se c'è un napoletano tra il pubblico e ha rivelato qualche errore, sarò ben lieta di correggere.

Al prossimo mercoledì

I remain, gentlemen, your obidient servant.


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Capitolo 4
*** Il teatro ***


Capitolo terzo
Il teatro

~ Napoli, 13 marzo 1871~

Napoli era un rettangolo di cielo azzurro oltre la finestra, pronto a cedere ai primi palpiti della primavera in arrivo. Un cielo invitante e carico di promesse, per un uomo che si sentiva così tristemente prigioniero.
Guglielmo era seduto alla scrivania del suo ufficio, con il mento appoggiato sul pugno chiuso e l'aria assorta. Tentava di ricordare quello che il duca Giusso gli aveva detto a proposito del maestro francese e più ci provava, più l'agitazione gli serrava lo stomaco.
Per il giovane Marchesi, in realtà, il duca rappresentava lo stadio più avanzato di bizzarria che lui era in grado di comprendere e quindi di digerire. Ora sembrava che avrebbe avuto a che fare con qualcuno di notevolmente più bizzarro e, da quanto gli era parso di capire, anche assai meno affabile.
Insomma, quando il duca gli aveva parlato del suo amico francese aveva usato certe parole che avevano messo a disagio Guglielmo al solo sentirle pronunciare.
«Dovete lasciarlo fare e fidarvi di lui» gli aveva detto. «Più sarete fiducioso meno avrete bisogno di fargli domande. Purtroppo ha un carattere decisamente prevaricatore, può essere scontroso e poco incline alla compagnia e alla conversazione, ma vi assicuro che è la persona più capace che possiate mai avere la fortuna di incontrare».
«Ma, questo signore, ha un nome?» aveva chiesto lui.
A quel punto il duca era sembrato colto alla sprovvista e Guglielmo si era chiesto come fosse possibile non rammentare con facilità il nome di un amico.
«Si chiama Erik» gli aveva risposto il nobile dopo qualche secondo.
«Erik?»
«Erik.».
A questo punto Guglielmo era stato tentato di declinare l'offerta di Giusso. Che diamine erano tutti quei misteri e quelle raccomandazioni? Poi però si era ricordato che era stato egli stesso a chiedere aiuto al duca e che, in ogni caso, quell'uomo aveva fiuto per i talenti e se affermava che quel francese, Erik, fosse la persona più capace che potesse incontrare di certo lo diceva con cognizione di causa e poi lui stesso lo aveva sentito suonare e aveva colto una maestria insolita e del tutto lodevole. E poi, ad ogni modo, aveva forse altra scelta?
«Ah, e c'è un'altra cosa, mio caro» aveva detto Giusso. Un'altra ancora?!
«Oh, certo. Dite...»
«Gli artisti, come ben saprete, sono capricciosi, vezzosi e folli. Uno dei vezzi di Erik è la sua maschera, è meglio che fate finta di niente riguardo a quella. È meglio che tutti facciano finta di niente».
Ah, questi francesi! Così dannatamente artistici e originali!
«Io credevo che indossasse la maschera perché era ad una festa in maschera» aveva replicato Guglielmo, cominciando a tradire una certa titubanza.
«No, la porta sempre» aveva risposto il duca, come se fosse la cosa più normale del mondo.
«Sempre?»
«Sempre»
«Perché?»
«Vi ho appena detto di fare finta di niente. Insomma, lo volete il suo aiuto o no?».
Guglielmo non ne era più tanto sicuro, ma ormai quel che era fatto era fatto e il duca sarebbe arrivato a momenti assieme al suo amico francese, e lui ora doveva assicurarsi che tutto fosse pronto per accoglierlo, perché, dopo quel lungo elenco di stramberie, c'era ancora un ingrediente da aggiungere a quella ricetta indigesta. Erik sembrava poco interessato all'ammontare del suo salario, ma aveva preteso di alloggiare lì nel teatro e Guglielmo si era visto costretto a trasformare in una stanza da letto la saletta vuota accanto a quello che sarebbe diventato l'ufficio del maestro francese.
Il giovane Marchesi si affacciò alla finestra e vide la carrozza del duca fermarsi davanti all'ingresso del San Carlo. Si augurò solo che, dopo tanto affanno per venire in contro a quell'Erik, non avesse da pentirsi di averlo ingaggiato. 

*

Quel giorno era come una vertigine sull'orlo di un precipizio e Napoli era nient'altro che sole e odore di mare, lo stesso odore che lo aveva colto di sorpresa la mattina di alcuni giorni prima e che da allora, ogni mattina, lo convinceva a uscire di casa all'alba e attraversare quella fetta di città fino alla spiaggia, trascinato da una magia che non aveva mai conosciuto prima di allora.
Ogni volta, Erik scavalcava il parapetto di ferro e balzava sugli scogli. Non era difficile per il Signore delle Botole mantenersi in equilibrio su quella superficie irregolare e scivolosa, poteva raggiungere senza alcuna difficoltà il margine frastagliato delle rocce ammassate ad arginare la risacca e le maree.
Restava seduto lì, si toglieva il cappuccio del mantello scoprendosi il viso e fissava la propria immagine distorta dalle increspature dell'acqua. La parte sana del suo viso e quella nascosta dalla maschera si confondevano in quel riflesso e per quei pochi minuti Erik poteva sentire la sua mente libera da ogni pensiero, cullata dal rumore ritmico delle onde. Erano minuti di oblio e amnesia che lo aiutavano a trovare la forza di cui avrebbe avuto bisogno per andare incontro a ciò che lo attendeva.

Il San Carlo comparve mattone dopo mattone nel rettangolo del finestrino della carrozza. Dall'altro lato della strada c'erano alcune botteghe, alle loro spalle uno dei quartieri malfamati della città, uno dei pezzi in ombra di Napoli, così sorprendentemente vicino alla limpida e sobria bellezza di Piazza del Plebiscito e alla monumentale eleganza del Palazzo Reale.
Visto dall'esterno quel teatro non era molto diverso dai tanti altri palazzi di stampo settecentesco che sorgevano nel centro di Napoli, la facciata era quanto mai sobria, con il porticato costituito da arcate su grossi pilastri di mattoni in pietra grigia e la parte sovrastante affrescata di bianco, con una balconata sorretta da sottili colonne. Non c'erano stucchi o bassorilievi elaborati, né grandi muse alate vestite d'oro negli angoli, né statue di bronzo, nessun pegaso tentava di spiccare il volo da quel tetto, nessun Apollo mostrava fiero la sua lira, solo un complesso di sculture di marmo si ergeva armonioso sulla sommità del frontone anteriore.
Eppure Erik si ritrovò involontariamente a sorridere pensando di essere al cospetto del primo teatro lirico di tutta Europa, costruito oltre un secolo prima. Chissà quante cose straordinarie avevano udito quelle mura, chissà quanta bellezza era scivolata sotto gli occhi delle muse di marmo sulla sommità del tetto.
Il duca gli fece strada verso l'ingresso e lui indugiò un istante sulla soglia.

È davvero ciò che vuoi, Figlio del Diavolo?...

Non aveva una risposta.
Voleva credere che qualcosa si fosse salvato, che il suo genio potesse tornare a stupire e che questa volta lo avrebbe fatto in piena luce, senza maschere, senza sotterfugi e senza nascondigli. O almeno senza quelli che non erano davvero necessari.
Il foyer aveva un pavimento di lucido marmo bianco, il soffitto composto da ampie volte era decorato con sottili stucchi dorati dai motivi floreali. Il bianco e il dorato erano gli unici colori e davano alla sala un che di leggiadro ed elegante. Dal centro dell'ingresso partivano due scaloni di marmo con il corrimano in legno scuro che portavano alle balconate. Un breve corridoio formato da alcune file di colonne quadrate conduceva alla platea.
Erik si guardò attorno e per un attimo avvertì un senso quasi di serenità. Poi dei passi lungo le scale lo costrinsero a distogliere lo sguardo dalla meraviglia che i suoi occhi tentavano di assimilare.
Guglielmo Marchesi non doveva essere molto più giovane di lui, era un uomo dall'aria assolutamente anonima, un po' in carne, con un viso dai tratti morbidi quanto quelli di un bambino. Il duca era stato molto diplomatico e delicato nel descrivergli quel giovane signore e nello spiegargli le sue vicende famigliari e professionali, sembrava nutrire per lui una simpatia genuina ed istintiva e Erik non capiva come un tale smidollato potesse conquistare la simpatia di qualcuno dotato di un minimo di intelletto. Ad ogni modo, lui aveva acquisito una certa abilità a trattare con direttori di teatro dalla dubbia intelligenza e di certo non era lì per soccorrere Guglielmo Marchesi. Era lì per se stesso.
«Duca, Maestro, benvenuti!» disse il direttore del San Carlo con fare cerimonioso.
Erik mise da parte ogni sua riserva e tentò di mandare a mente ciò che aveva imparato in tanti anni trascorsi a vivere ininterrottamente in un teatro, respirando finzione, vivendoci immerso dentro. Tese la mano verso Marchesi,
«È un piacere conoscervi, signore» disse nel suo tono più affabile, la piccola virgola del rapido sorriso che gli rivolse era quasi amichevole.
Fu stupito della semplicità con cui pronunciò quelle parole e strinse quella mano in una stretta fugace ma decisa. Aveva sognato per troppo tempo di porsi da uomo a uomo con qualcuno e trovava strano e ingiusto il fatto che avvenisse ora, dopo che ogni altro sogno era stato spazzato via, quando il nulla che sentiva silente e freddo sotto la pelle annullava anche la gioia per quella piccola grande conquista.
Guglielmo Marchesi ricambiò la stretta, rigido come legno, scrutandolo con un misto di apprensione e speranza e allo stesso tempo sforzandosi di non indugiare troppo su quella mezza maschera bianca,
«Devo farvi i complimenti per il vostro impeccabile italiano, Maestro. Dove lo avete imparato?» gli fece con goffa ruffianeria.
Maestro. Da quanto tempo qualcuno non lo chiamava così? E quanto sapevano essere adulatori gli uomini quando volevano qualcosa da qualcun altro.
«Il mio italiano è tutt'altro che perfetto, in realtà. Più che altro l'ho imparato grazie alla lirica, ma sto cercando di perfezionarlo».
Seguirono alcuni secondi di silenzio che toccò al duca interrompere,
«I convenevoli sono così noiosi!» esclamò. «Perché non mostrate al Maestro il vostro teatro?».
Guglielmo scattò verso una porta laterale e fece strada ai suoi ospiti lungo un corridoio con il pavimento coperto per tutta la lunghezza da un soffice tappeto orientale. Il corridoio immetteva in una saletta sulla quale affacciavano alcune porte di legno lucido,
«Quello è il mio ufficio» disse Guglielmo indicando la prima sulla destra. «E questo è il vostro». Così dicendo aprì la seconda porta sulla destra mostrando ai suoi ospiti una stanza rettangolare, piccola ma molto elegante, al centro della quale torreggiava una scrivania di ciliegio. All'interno della stanza, sulla parete sinistra c'era un altra porta più piccola.
«E lì ci sono le... ehm, stanze che ho fatto preparare per voi. Il signor duca mi ha detto che preferite alloggiare nel teatro».
Marchesi buttò lì quella frase in tono del tutto neutrale, ma dallo sguardo che rivolse a Erik era chiaro che conteneva un'implicita richiesta di spiegazioni.
«Vi sembrerà eccessivo» convenne lui pacato. «Ma ho la sciatta e insana abitudine di lavorare agli orari più impensabili».
«Oh...».
Il direttore del teatro sembrava sempre più a disagio minuto dopo minuto. Erik avrebbe giurato che Marchesi stesse reprimendo a stento l'impulso di allentarsi il nodo alla cravatta.
Era questo l'effetto che faceva alle persone? Era la sua maschera? Era il nulla mostruoso che gridava attraverso i suoi occhi?
Molto bene, si disse, se il Fantasma dell'Opera riesce a turbare le persone anche nella sua veste più umana, allora poteva ancora fare l'impossibile.

È davvero ciò che vuoi, Figlio del Diavolo?

Era questo che voleva? Intimorire e soggiogare, usare il suo infinito talento per essere al di sopra degli altri in quel modo dispotico di chi usa le distanze come uno scudo?
Ancora una volta, non aveva una risposta. Ma sapeva che non conosceva altro modo di stare al mondo.
Giusso gli lanciò una strana occhiata complice, sembrava soddisfatto di come si stavano mettendo le cose. Gugliemo Marchesi gli indicò una pesante tenda di velluto che copriva un'apertura ad arco nell'anticamera degli uffici.
«Da questa parte si raggiunge direttamente il cuore del teatro» spiegò. «Si accede alle quinte del palcoscenico e da lì, ai camerini e ai livelli del sottopalco».
Il direttore condusse Erik e il duca nel corridoio del primo ordine della balconata e da lì li fece entrare in uno dei palchi.
Il San Carlo era magnifico. Non occorreva fare paragoni con l'Opera Populaire, si trattava di due luoghi assai diversi.
Il teatro contava quattro ordini di palchi e un loggione. Candelabri a quattro braccia erano appesi a ognuna delle colonnine che sorreggevano le balconate creando un'atmosfera piena di luce che rendeva più smagliante l'oro degli stucchi e più invitante il velluto delle tappezzerie color porpora.
Uno straordinario affresco circolare, raffigurante muse e divinità, copriva la parte centrale del soffitto. Il palcoscenico, lungo oltre trenta metri, era incorniciato da ricche decorazioni sormontate dallo stemma dei Borbone.
Tutto in quel luogo parlava di bellezza. Erik se ne riempì gli occhi con la stessa avidità di un naufrago che scorge la terraferma dopo ore di deriva.
«Posso azzardare a dire che ne siete estasiato?» gli mormorò il duca Giusso all'orecchio.
«Vi è mai stato qualcuno di cui non si può dire lo stesso?»
«Non tutti gli animi sono sensibili alle stesse cose. Gli animi, amico mio, sono una materia che dovreste cominciare a conoscere, se posso permettermi un consiglio».
Erik ignorò quelle parole e lasciò che Marchesi li conducesse verso il palcoscenico, dove aveva già notato alcune persone muoversi, e un musicista – o forse il direttore d'orchestra – che si avvicinava a un pianoforte a muro lasciato sulla scena.

All'improvviso, quando era già in prossimità delle quinte, successe...
Fu proprio una nota di pianoforte e poi una voce bellissima e limpida che cantava una canzone. Tutti gli sforzi compiuti in quei giorni per arginare i ricordi furono vanificati in un solo istante, quella musica, quella canzone era troppo. Un orribile e sadico scherzo del destino che ancora non aveva finito con lui.

"Think of me
think of me fondly
when we've said goodbye
remember me
once in a while,
please promise me you'll try..."

Ogni cosa gli tornò alla mente più forte e nitida che mai, ogni odore, ogni rumore... il cicaleccio delle ballerine in attesa dietro le quinte, il sentore di alcol degli alloggi dei macchinisti, il freddo della pietra nei sotterranei... nomi tetri dati a una leggenda lugubre, a malapena sussurrati per non destare i mostri: il Fantasma dell'Opera, il Figlio del Diavolo, il Signore delle Botole. E poi un nome bellissimo, proveniente da una favola, il nome che avrebbe voluto meritarsi senza esserne in grado: l'Angelo della Musica, e la voce, le labbra che avevano pronunciato quel nome... gli occhi di Christine, i suoi riccioli nei quali tante volte aveva sognato di affondare il viso. Il suo inferno e il suo paradiso, la sua speranza e la sua condanna. Era tutto lì, condensato in quelle note che quella voce perfetta e superba spingeva nell'aria senza curarsi del suo cuore che aveva cominciato a sanguinare.
«Maestro, vi sentite bene?» la voce di Gugliemo si era fatta tremula ma lui non lo ascoltò nemmeno.
Attratto dall'incantesimo della voce che stava cantando, Erik si avvicinò al palco, fermandosi dietro le quinte, incurante del duca, di Marchesi e degli altri presenti che lo fissavano basiti.

"... We never said
our love was evergreen
or as unchanging as the sea...
but please promise me,
that sometimes
you will think of me"

Chi era la giovane donna che stava cantando al centro del palco?
Erik scorse una ragazza di poco più di vent'anni, con i capelli biondi raccolti in una coda e un bel viso dai lineamenti delicati. La sua voce rasentava la perfezione e lui dovette riconoscere di non aver mai udito nulla di simile.
Quando la giovane smise di cantare, l'uomo sentì il sangue fuggirgli dal cuore e quasi si figurò una pozza purpurea allargarsi sul tessuto della camicia.
Si riscosse, si rese conto di essere appoggiato contro la parete.
Guglielmo gli rivolse un sorriso deliziato e fece per battergli una mano sulla spalla, ma lui lo fulminò con un'occhiata, così il direttore del teatro si limitò semplicemente a continuare a sorridere.
«Siete rimasto incantato anche voi, vero Maestro?» disse con malcelato entusiasmo. «Venite, lasciate che vi presenti la nostra incantevole primadonna, la signorina Graziana Rovesti».
Nel sentir pronunciare il suo nome, la ragazza bionda si voltò e sorrise ai tre uomini che camminavano verso di lei.
«Signor direttore, signor duca, lieta di rivedervi» disse con dolcezza.
Era di una bellezza davvero notevole. Ora che la osservava da vicino, Erik si accorse che nonostante la sua giovane età, la fanciulla sembrava una donna, o almeno questo era ciò che lasciavano trasparire i suoi occhi, e la piega un po' troppo seriosa delle labbra.
Lo sguardo della giovane indugiò su di lui. Forse la ragazza doveva avere straordinarie capacità recitative, ma non sembrò nemmeno notare che c'era una maschera sul viso che stava fissando. Per un attimo Erik scorse una scintilla di interesse in fondo a quegli occhi chiari da folletto e odiò l'imbarazzo che la cosa gli aveva provocato.
Guglielmo prese goffamente la mano della giovane tra le proprie e sembrò davvero bearsi di quel semplice contatto,
«Graziana, mia cara, vi presento il Maestro...» si interruppe di colpo e arricciò le labbra. Non aveva mai avuto un cognome, ma forse sarebbe stato meglio inventarsene uno, ad ogni modo, Guglielmo proseguì con la sua presentazione. «È un amico del duca, viene da Parigi ed è qui per aiutarci nella realizzazione della nostra futura produzione. E a quanto pare l'avete già stregato, come tutti».
La ragazza scosse piano la testa, con un adorabile accenno di sorriso, come a fingere di trovare eccessivamente lusinghiera quell'affermazione.  
«Lieta di conoscervi, signore» disse con un accenno di inchino.
«Il piacere è mio» replicò Erik salutandola con un delicato baciamano. «Lasciate che ve lo dica, avete la voce più portentosa che io abbia mai sentito»
«Siete gentile, Maestro. È solo che amo molto ciò che faccio».
Erik annuì. Certo, doveva volerci tanto amore per raggiungere una tale perfezione.
Mentre Guglielmo lo trascinava a fare la conoscenza del direttore d'orchestra e dei musicisti, fu quasi spaventato dai suoi stessi pensieri mentre la sua mente architettava già le cose meravigliose che avrebbe potuto fare avendo a sua disposizione una giovane con un tale, incommensurabile talento.
«Quando avete intenzione di cominciare le prove?» disse all'improvviso, fissando Marchesi con impazienza.
«Anche domani... direi che prima è e meglio sarà per tutti» rispose il direttore con un sospiro che tradiva una certa afflizione.

Dopo aver terminato il giro del teatro, il duca accompagnò Erik in quelli che sarebbero stati i suoi alloggi.
«Siete sicuro che non volete restare a casa mia?» gli domandò guardandosi attorno con aria scettica. La camera da letto era arredata con mobili nuovi e di buona fattura, aveva un'aria ricca ed elegante, ma a qualcuno avrebbe potuto far venire in mente la cella di un monastero.
«Avete già fatto troppo per me, duca» rispose. «Non mi avete mai detto che il San Carlo vanta una soprano così straordinaria».
Giusso sollevò le sopracciglia,
«Graziana, certo, la chiamano la Partenope Bionda, vedete, Partenope era una sirena...» disse. «E voi sapete cosa fanno le sirene. Ma del resto, se vivrete qui, verrete a conoscenza di ogni pettegolezzo, in fin dei conti potrebbe essere divertente».
Erik non rispose, non gli erano mai interessati i pettegolezzi e di certo non aveva alcun interesse per la ragazza che non fosse di natura strettamente artistica. Oh, certo, era bella e aveva sicuramente fatto palpitare il cuore a molti uomini, compreso – Erik ci avrebbe scommesso la testa – il caro Guglielmo, ma le donne non gli interessavano, non gli erano mai interessate davvero, non prima di...
«Credo che a mia figlia mancherete molto» aggiunse il duca.
«Salutate la piccola Luisa da parte mia» rispose Erik.
No che non le sarebbe mancato, le cose di cui si ha nostalgia sono le cose che cambiano il volto delle giornate, e lui non aveva mai fatto niente di simile per quella ragazzina. Forse era stata lei a fare molto di più per lui, o almeno aveva tentato, a suo modo. Forse... forse era a lui che sarebbe mancata.

Sciocchezze...

*******

~ Parigi, 21 aprile 1892~

Erano passati tre giorni da quando Louis era arrivato a Parigi. Aveva trascorso quasi tutto il giorno successivo al suo arrivo seduto nella sala d'ingresso dell'albergo a chiacchierare con chiunque gli capitasse a tiro, pur di non dover stare da solo. Aveva il naturale talento di risultare simpatico alle persone, ed era un'abilità che non risparmiava mai di utilizzare.
Pioveva e non aveva voglia di uscire, ma non voleva tornare nella sua camera e ritrovarsi ad affrontare di nuovo il diario di suo padre. Quasi gli sembrava che quei due occhi color acquamarina lo spiassero dalla copertina di pelle rossa. Del resto, il diario si era rivelato una delusione: a quanto sembrava, non conteneva spiegazioni sul passato di suo padre – come egli stesso aveva affermato fin dalle prime righe, non ne avrebbe mai fatto menzione – conteneva probabilmente solo la cronaca dei suoi primi mesi a Napoli.
Il secondo giorno però, Louis decise di riprendere a leggere. Non aveva trovato quello che si aspettava, ma almeno gli era piaciuto tuffarsi in quei ricordi che appartenevano a una persona alla quale era stato tanto legato. Alla quale era ancora legato, il fatto che Erik fosse morto non cambiava nulla...
Aveva letto della festa in maschera per il compleanno del duca e l'episodio gli aveva strappato più di un sorriso. Intanto, doveva riconoscere che Mariano Giusso era stato un uomo dall'astuzia piuttosto fine. In secondo luogo, leggere del tronfio autocompiacimento di suo padre per la riuscita della sua breve esibizione e per l'effetto che aveva provocato sugli invitati lo aveva davvero divertito.
Il sorriso gli era morto sulle labbra solo quando aveva letto di Luisa che era andata da lui chiedendogli di togliersi la maschera e delle cupe riflessioni segnate sul diario che erano scaturite da quell'episodio.
Louis era consapevole che la faccenda della maschera era qualcosa che andava ben oltre la sua comprensione. A suo avviso non c'era niente di mostruoso in suo padre, né nel suo aspetto, né nel suo cuore, ma lui lo vedeva con gli occhi di un figlio e poteva solo immaginare come Erik potesse apparire agli occhi di tutti gli altri... o ai suoi stessi occhi. Era certo di vivere in un mondo che non sapeva essere magnanimo di fronte all'imperfezione o alla diversità, ma suo padre era stato comunque un personaggio molto stimato nel mondo dell'arte e del teatro nella loro città, per cui Louis ancora non aveva capito cosa quello sfregio sul viso gli avesse tolto. Era ciò che sperava di scoprire da quel diario, ma per adesso si sentiva ancora molto lontano dalla verità.
La sua mente cominciò a fare un rapido elenco delle informazioni che fino a quel momento possedeva, e per ognuna di queste informazioni c'era almeno una domanda senza risposta.
Aveva scoperto che suo padre era scappato dalla Francia con l'aiuto del duca Giusso. Da cosa scappava? E perché un uomo che viveva a Parigi conosceva un nobile napoletano, e perché questo nobile lo aveva aiutato?
Sapeva anche che dopo il suo arrivo a Napoli, Erik era stato quasi un mese, per sua scelta, rintanato in una stanza nel palazzo del duca. Per quale santa ragione?
Inoltre ora sapeva anche che nei mesi successivi suo padre era vissuto chiuso in un piccolo appartamento all'interno del San Carlo. A questo, Louis non voleva neanche pensare!
Oh, poi c'era quella faccenda della canzone dell'Annibale di Chalumeau. E quelle annotazioni sul confronto tra il San Carlo e l'Opera di Parigi... certo, se suo padre si era sempre interessato di musica e teatro era abbastanza plausibile pensare che la conoscesse, ma nel diario ne parlava come si parla di un famigliare che non c'è più, di un amico che si è perduto...
Louis ora si sentiva uno sciocco.
Quando si è bambini si è abituati a considerare normale tutto ciò che si ha attorno, non si pensa al passato, non ci si immagina mai i propri genitori in un'età diversa da quella che hanno, non si pensa mai che le persone che si hanno vicino possiedono una storia. Si vive nella convinzione che tutto quello che si ha davanti agli occhi sia come nato il giorno precedente. E questo è il motivo per cui l'infanzia è un'età così felice, senza passato, senza futuro e quindi senza neanche il pensiero della morte.

Dopo pranzo, il ragazzo decise di uscire, pioveva ancora ma non gli sembrò importante. C'era qualcosa che lo aveva spinto verso le strade di Parigi battute dal temporale.
Comprò una cartina della città e si mise a consultarla rannicchiato sotto a una tettoia. Quando fu in grado di orientarsi, aprì l'ombrello e cominciò a camminare a passo svelto sul ciottolato scivoloso.
Da quel punto, tutte le vie confluivano in una grande piazza. Su un margine della piazza c'era quella che un tempo era stata l'Opera Populaire.
Louis alzò lo sguardo a spiare la facciata del palazzo. Scrosci di acqua cadevano in minuscole cascate dalle ali delle statue, scorrevano in piccoli canali nelle rientranze dei bassorilievi e lungo le braccia che Apollo teneva sollevate ad afferrare la sua lira.
Era bellissima, anche così, con la pioggia che confondeva i contorni delle decorazioni. A guardarla dal fondo della piazza non la si sarebbe detta nemmeno abbandonata, solo quando Louis si avvicinò alla costruzione notò che i vetri alle finestre erano rotti e che molte aperture erano chiuse da travi di legno inchiodate frettolosamente, a sfregiare il volto di quella vecchia signora che vegliava ancora silenziosa su Parigi, come se avesse storie da narrare e vite a cui fare la guardia.
In effetti, a guardare meglio, quel posto aveva qualcosa di spettrale, ma al ragazzo parve comunque un gioiello della storia, dimenticato in mezzo alla polvere del tempo.
Rischiando di scivolare, il ragazzo salì la scalinata di marmo ormai levigato che conduceva al portone, polvere e foglie secche erano ammucchiate sotto il taglio dei gradini. I due grossi battenti decorati erano tenuti chiusi da una catena arrugginita.
Suo padre era stato lì, chissà quanti anni fa. Chissà perché.
Louis non sapeva spiegare quello strano magnetismo che provava ora ad essere al cospetto dell'Opera Populaire, ma il vento che entrava dalle finestre rotte produceva una strana eco dall'interno e ancora una volta il ragazzo ebbe la sensazione di udire il suo nome sussurrato da lontano, con il respiro pungente che sa avere il destino.

Forse fu in quel momento che prese la decisione, forse fu mentre tornava verso l'albergo, ma ormai era certo di ciò che stava facendo.
Quando rientrò era fradicio, la pioggia gli attaccava alla fronte ciocche di capelli corvini.
«Monsieur, vi sentite bene?» esclamò l'albergatore con apprensione.
Louis sorrise, come se ai suoi piedi non si stesse affatto allargando una piccola pozzanghera di acqua piovana.
«Certamente. Ascoltate, ho deciso che rimarrò a Parigi per molto più tempo del previsto, e credo che mi occorrerà un appartamento, per caso voi sapreste indicarmi qualcuno a cui io possa rivolgermi?».  

____________________

Here, I have a note...

Del San Carlo ho visto solo l'ingresso e l'interno del teatro, ed è stato una vita fa... riguardo la collocazione di uffici, camerini e quant'altro, è tutta “improvvisazione”.
Attualmente di fronte al teatro c'è la galleria Umberto I, costruita tra il 1887 e il 1890. Prima di allora c'era un piccolo quartiere di pessima fama, fatto di stradine che mettevano in comunicazione Via Toledo con quella che è attualmente la piazza del Municipio.

Di solito non mi piace "spoilerare" sulle storie, ma un piccolo avvertimento riguardo al personaggio di Graziana voglio farlo: NON E' COME SEMBRA.


Ci si legge il prossimo mercoledì.

I remain, gentlemen, your obidient servant.




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Capitolo 5
*** Gustave ***


Capitolo quarto
Gustave


~ Parigi, 25 aprile 1892 ~

Prima ancora di vederla, Louis aveva pensato immediatamente che in quella piccola casa ci fosse qualcosa che non andava: l'affitto che gli era stato chiesto era una somma a dir poco ridicola per quanto era esigua e lui aveva contrattato e sistemato ogni cosa con un garbato attendente del proprietario, il quale gli era sembrato estremamente impaziente di far occupare da qualcuno, praticamente da chiunque – Louis ci avrebbe giurato – la graziosa mansarda al terzo piano di quell'elegante palazzina nel centro di Parigi.
La casa era piccola ma Louis se ne innamorò alla prima occhiata. I pavimenti erano in legno, lo stesso legno dalle venature scure e dal colore caldo delle travi sul soffitto, i muri erano tinteggiati di  fresco con un chiarissimo color pesca. Il mobilio era essenziale, la cucina e la sala formavano un unico ambiente appena si entrava, e sulla sinistra c'era la porta che conduceva nella camera da letto provvista di una sala da bagno. Sulla parete opposta alla sala d'ingresso c'era la porta di un balcone che rendeva luminosa e arieggiata tutta la sala e che immetteva su un piccolo terrazzino rettangolare, da lì il panorama non era particolarmente di nota, ma era comunque un buon posto per stare seduti all'aperto, magari a leggere o a bere un tè, dal momento che erano in arrivo le belle giornate.
Sulla parete dietro al letto c'era un grosso dipinto. Non era su tela, era stato realizzato direttamente sul muro e riproduceva un giardino in autunno in uno stile simile a quello di quel pittore francese di cui Louis al momento non rammentava il nome, però gli parve un bel dipinto e i colori utilizzato si intonavano a quelli delle pareti e del legno con un buon gusto davvero singolare. Forse era stato realizzato di recente, perché c'era ancora un sentore di prodotti per la pittura in giro per casa. Forse, prima di lui, quell'appartamento era stato occupato da uno di quegli artisti... bhoèmiens si facevano chiamare.
Louis aveva pagato un mese d'affitto anticipato all'uomo che si era incaricato di portare a termine la contrattazione, aveva fatto recapitare un telegramma a sua madre dicendole che aveva deciso di trattenersi a Parigi più del previsto e ora stava pensando di scriverle una lettera per spiegarle meglio il motivo di quella sua decisione.
Una volta solo davanti al foglio bianco, Louis si rese conto che non era facile spiegare a parole il perché di quella scelta, non riusciva a spiegarlo con precisione nemmeno a se stesso. Parigi lo aveva  stregato fin dalla prima serata che vi aveva trascorso, ma non era solo questo. Louis aveva sentito improvvisamente il bisogno di... di concedersi del tempo per stare da solo, leggere il diario di suo padre e capire. In quel quaderno non c'era la storia che lui avrebbe voluto ascoltare, all'inizio aveva creduto di non aver affatto bisogno di leggere quelle cose, che le vicende legate ai primi mesi che Erik aveva trascorso a Napoli erano cose di poco conto e che avrebbe potuto benissimo raccontargliele sua madre, un pomeriggio davanti a una tazza di caffè. Ma era anche vero che, dopo aver scorso le prime pagine, un'urgenza fortissima si era impossessata di lui, il bisogno di sentire di nuovo accanto a sé quell'uomo che troppe volte gli era parso sfuggente, incomprensibile in un modo in cui aveva fatto credere a Louis, negli anni della sua adolescenza, che suo padre non lo amasse abbastanza, che c'era qualcosa di sbagliato in lui come figlio da non riuscire a rendere felice appieno un genitore.
Quel diario gli stava regalando la certezza, troppo a lungo desiderata, di sapere che le ombre che talvolta passavano sul viso di Erik erano ombre di fantasmi lontani, molto lontani da lui, da sua madre, dalla loro famiglia. Il contenuto di quel quaderno permetteva a Louis di sperare che il dolore che quell'uomo aveva provato prima che lui nascesse non avesse fatto altro che amplificare la sua gioia per l'affetto della famiglia che era riuscito a mettere insieme.

Louis decise di rimandare la stesura della lettera a sua madre, fuori cominciava a fare sera e a lui serviva decisamente una boccata d'aria.
In quei giorni era stato così impegnato nelle ricerche della casa che non aveva avuto molto tempo per continuare a leggere il diario. Ora era curioso di sapere come erano stati i primi giorni di Erik al San Carlo, ma prima c'era un'altra cosa di cui aveva bisogno: la musica.
L'amore per la musica era sempre stato per lui una cosa naturale, come se ci fosse qualcosa che viaggiava nel suo sangue e portava al cervello il bisogno pressante di prendere in mano un violino o avvicinarsi al pianoforte. Era al di sopra di lui, quasi una maledizione, ma l'attimo in cui posava il violino sulla spalla e l'archetto sfiorava le corde producendo la prima nota era intenso come un uragano che abbatte una diga e fa tracimare un fiume in cui un suono segue un altro, sulle onde del ritmo. Una sensazione di abbandono così perfetta che Louis era certo che il Padreterno avesse provato la stessa identica emozione quando aveva deciso di creare la Terra.
Si era avvicinato alla musica fin da bambino. E come avrebbe potuto essere altrimenti, visto che la musica era ciò su cui si posava ogni sua singola giornata?
Da piccolo gli piaceva ascoltare suo padre suonare e gli era parso logico voler imparare, era così affascinato dall'idea che le sue mani su un pezzo di legno potessero produrre un tale incanto che era convinto che anche il resto del mondo aveva, prima o poi, provato a pizzicare le corde di un violino.
Aveva passato lunghe notti insonni a cercare di imparare, aveva trascorso pomeriggi interi ad osservare Erik e tentare di carpire ogni suo segreto, ma la verità è che il talento non è fatto di segreti, è la capacità di usare l'istinto come se fosse razionale... una capacità che Louis aveva temuto di non possedere, poi i suoni acuti e strozzati, le note disarticolate dei suoi primi tentativi si erano via via tramutate in suoni sempre più perfetti e armoniosi, con una rapidità che aveva sorpreso anche lui.
Per i suoi diciassette anni suo padre gli aveva regalato lo Stradivari. Lo aveva progettato lui stesso, disegnato ogni particolare, dai fori arricciati sulla parte bassa del ponticello alla decorazione di madreperla sulle fiancate, aveva mandato il progetto a Cremona e preteso che ci fosse un solo unico esemplare di quello strumento, quel violino doveva essere solo per lui, pour Louis.

Il ragazzo si accorse che la sua mansarda non era tanto lontana dal Messidor, il piccolo bar che aveva preso a frequentare tutte le sere. Aveva fatto amicizia con la giovane cameriera, Madeleine, e adesso lei non lo chiamava più monsieur e non gli dava più del voi, anzi gli rivolgeva dei sorrisi che Louis non le aveva visto fare a nessun altro cliente, nemmeno a quelli abituali che conoscevano quel posto meglio di lui.
Quella sera, il ragazzo entrò, ordinò un calice di vino e si sedette sul piano del tavolo più nascosto, in un angolo della saletta del bar.
Madeleine aveva visto che aveva portato il violino con sé, sembrava compiaciuta, erano diverse sere che gli chiedeva di suonare.
Louis estrasse il violino dalla custodia, vide la luce fioca delle candele disegnare riflessi acquosi sulla superficie di legno lucido. Appoggiò lo strumento contro la spalla, il contatto tra la guancia e il piano della cassa gli fece pensare alle carezze dei suoi genitori, a quelle di sua madre, tante, dolcissime, e a quelle di suo padre, rare e per questo ancora più dolci.

Palummella, zompa e vola
addò sta nennella mia...

Chiuse gli occhi, posò l'archetto sulle corde, lo mosse. La diga straripò in un secondo.
Quella musica portava con sé tanti ricordi, gliela aveva insegnata Erik ma era la musica di Napoli, una delle facce più lucenti di quel diamante grezzo che era la città partenopea.

Palummella, vola vola
a la rosa de sto core...
 
Suonò finché ne ebbe voglia. Alle volte sentiva davvero il bisogno di lasciarsi ascoltare, come quando era un ragazzino e c'erano i fantasmi negli occhi di suo padre e lui usava la musica per cacciarli via, almeno per un po'.
Ad ogni nota, anche i fantasmi che in quei giorni avevano bussato alla sua mente cominciarono ad andare via. Ad ogni movimento dell'archetto si facevano meno nitidi, ad ogni pressione sulle corde le loro voci diventano più fioche. Quando la musica cessò, erano andati via.
I presenti lo applaudirono ammirati, qualcuno chiese «ancora!» con la voce impastata dall'alcol. Louis bevve il suo bicchiere di vino.
«Ancora!» gridarono di nuovo un paio di voci da qualche punto indistinto.
«Non stasera, signori miei». Per quella sera aveva finito, per quella sera la sete si era estinta, il bisogno era placato.
Madeleine lo raggiunse districandosi tra i tavoli e gli portò un bicchiere di quello che, avevano scoperto insieme in quelle sere, doveva essere il suo cognac preferito.
«Questo lo offre la casa, anche se non te lo meriti, mi hai mentito» gli disse scostandosi dal viso una ciocca di capelli rossi.
«Mentito?»
«Avevi detto di essere un bravo musicista, ma sei davvero un genio»
«Lo so, ma se te lo avessi detto non mi avresti creduto» replicò Louis ironico, bevendo un lungo sorso di liquore.

Tornò a casa una decina di minuti dopo, non era tardi e le strade non erano ancora troppo affollate dalle orde di nottambuli incapaci di resistere alle stelle di Parigi, così come dai malfattori e dai disgraziati che ogni grande città si portava nella sua scia.
Salì le scale che conducevano alla mansarda, fischiettando. Fischiettava sempre, era l'unica alternativa che aveva al canto... lui odiava il fatto di non essere bravo a cantare.
Stava già per infilare la chiave di ottone nella toppa quando sentì dei rumori provenire dall'interno. Suoni sordi e ovattati di cose che venivano spostate.
Per un attimo restò fermo e guardò la porta: era chiusa, la serratura non era stata forzata ed era impossibile che qualcuno fosse entrato dalla finestra, perché non c'era modo di scalare i muri della palazzina e arrivare fino all'ultimo piano.
Forse i ladri parigini conoscevano qualche sofisticato modo di aprire le porte...
Louis appoggiò un orecchio allo stipite di legno di ciliegio. A giudicare dal poco rumore non dovevano esserci più di una o due persone lì dentro. Non si sentiva nemmeno un bisbiglio.
Il ragazzo decise che avrebbe benissimo potuto vedersela da solo. Ah, ma sarebbero stati i ladri a vederla!
Aprì la porta girando lentamente la chiave, senza produrre il minimo rumore. Sgusciò dentro protetto dal buio quasi totale in cui era avvolta la casa. La sala era vuota, come l'aveva lasciata, anche se erano state spostate le sedie, era stato sollevato il tappeto e i mobili erano stati scostati dal muro. Sembrava che il ladro stesse cercando qualcosa sul pavimento. Si aspettava forse di trovare qualche botola segreta colma di oro e gioielli?
La fonte del rumore ora si trovava in camera da letto. Louis pensò per un attimo di usare il violino come arma, ma il terrore di rovinarlo fu più forte della paura dei ladri, quindi posò lo strumento sul tavolo della cucina, stando attento a non emettere il minimo suono, raggiunse cautamente la soglia della stanza e guardò dentro. Anche lì tutto era stato spostato, c'era qualcuno steso prono, con la testa infilata sotto al letto. Per un attimo Louis temette di essere stato scoperto, perché la persona che si era ritrovato in casa emise un'acuta esclamazione, un «Ah!» che lo prese alla sprovvista e lo fece sobbalzare.
Lo sconosciuto tirò via la testa da sotto al letto e si alzò dandosi un'energica spinta con le braccia, ma una volta in piedi non si mosse, era di spalle e Louis non riusciva a vederlo in faccia. Sembrava stesse contemplando qualcosa che aveva tra le mani. Cosa poteva mai aver trovato sotto al letto se non un po' di fuliggine?
Ad ogni modo, Louis pensò che l'effetto sorpresa poteva essere un'ottima arma – dato che non ne aveva altre – e si lanciò violentemente contro lo sconosciuto. L'urto li fece cadere entrambi sul pavimento, Louis si ritrovò steso sopra il suo sgradito ospite e lo bloccò a terra con il suo peso.
«Non è la tua serata fortunata!» gli disse cercando di darsi un tono minaccioso.
«No, no, no! Fermati!» strillò l'altro, serrando gli occhi spaventato. «Non sono un ladro, te lo giuro!»
«Chissà come mai, ma non ti credo»
«Guarda...» fece l'intruso, muovendo a fatica il braccio trattenuto dalla stretta di Louis.
Il ragazzo distolse per un attimo lo sguardo, puntandolo sull'oggetto che l'altro gli stava mostrando.
«È un pennello» esclamò.
«Certo che è un pennello. Lasciami andare».
Louis si alzò e accese la lampada sul comodino. Non si sentiva ancora abbastanza bendisposto da aiutare l'altra persona ad alzarsi.
La lampada emanava una sfera di luce giallastra e calda che permise al ragazzo di vedere il volto del suo visitatore notturno. Era un giovane, doveva avere la sua stessa età anche se era più basso e meno robusto, aveva occhi color nocciola dal taglio quasi femminile e una massa intricata di riccioli biondi a incorniciargli il viso affilato. Era vestito troppo bene per essere un ladro, un gilè come quello che indossava doveva valere assai più del bottino che avrebbe raccolto derubando l'alloggio di un turista. 
«Scusa per l'intrusione, non avevo capito che qualcuno avesse già occupato la casa, ho ancora una copia delle chiavi» disse il ragazzo biondo, cavandosi dalla tasca una chiave di ottone identica a quella che avevano dato a Louis. «A proposito, mi chiamo Gustave De Chagny».
«Io sono Luigi... Louis, se preferisci» replicò senza troppa convinzione. Ormai era certo che quel De Chagny non fosse un ladro, aveva persino un cognome nobiliare, ma doveva ancora riprendersi dal colpo di esserselo ritrovato in casa. «E comunque, c'è un buon motivo perché tu ora sei qui, giusto? E me lo dirai, prima che io chiami i gendarmi, vero?».
Gustave annuì,
«Devi scusarmi, è che questa casa era il mio studio, fino a pochi giorni fa. La palazzina appartiene a mio padre» spiegò. «A lui non piace che io faccia il pittore e ha voluto che portassi via le mie cose, poi ha deciso di darla in affitto. Mi ero accorto di aver perso un pennello nuovo che avevo comprato da poco e sono venuto a cercarlo, non pensavo che fosse casa tua».
Louis pensò che doveva essere proprio una cosa orribile avere un padre che non vuole che il figlio faccia l'artista, a prescindere dal campo di applicazione. Quel ragazzo aveva un'aria dolce, un po' effeminata, sembrava gracile quanto una ragazzina in effetti, e sembrava sinceramente dispiaciuto per l'increscioso incidente.
«D'accordo, facciamo finta che non sia successo niente» concesse il ragazzo moro con un mezzo sorriso, non aveva voglia di infierire né di prolungare più del necessario quella visita. «Tu hai il tuo pennello, io non sono morto di infarto, direi che possiamo continuare a vivere le nostre vite».
Gustave sorrise,
«Sì, direi che possiamo».
Bene. Ora perché diamine restava impalato lì e non si toglieva dai piedi?
«Scusa Gustave, ma io sono un po' stanco e vorrei andare a dormire. Ti dispiacerebbe...» Louis non riuscì a terminare la frase, il ragazzo biondo era uscito dalla camera da letto e si era diretto verso la cucina.
«Sei un musicista!» esclamò, guardando deliziato la sagoma scura della custodia del violino. «A mia madre piacciono molto i musicisti».
E a me potrebbe piacere molto tua madre! Louis pensò seriamente di rispondere così, poi si ricordò  che la sua di madre sarebbe stata capace di mozzargli la lingua per una frase del genere e i volgari sottintesi che conteneva. Ma quel ragazzo cominciava a dargli sui nervi, sarebbe stato educato da parte sua sparire immediatamente per farsi perdonare del disturbo, e invece se ne stava lì, come se lui fosse un vecchio amico con il quale aveva voglia di conversare.
«Gustave, c'è qualcosa che posso fare per te?» disse dunque con infinita pazienza, tradendo quelle parole con uno sguardo seccato.
«Per caso hai qualcosa da bere?».

*******

~ Napoli, 15 marzo 1871 ~

Le note erano come una raffica di proiettili, esplodevano fendendo l'aria come frecce scoccate in mezzo alla nebbia, dirette, taglienti, fameliche. Poi fu un tremito della mano, forse un principio di indolenzimento ad altezza del polso, e lui stonò.
Erik lasciò cadere l'archetto del violino sulla scrivania e sospirò. C'erano poche cose davanti alle quali il suo genio e il suo orgoglio arretravano, ritirandosi in una trincea di frustrazione propria di chi si vede costretto a disegnare il limite del talento che sa di possedere. Una di queste cose era La Campanella di Paganini. Quando aveva letto quello spartito per la prima volta aveva sentito quasi un formicolio alle dita immaginando il ritmo serrato delle note risuonare nelle sue orecchie, il fiato spezzarsi per la concentrazione di tenere testa a quella musica infernale e superba che aveva amato fin dalla prima riga di pentagramma.
Conosceva le leggende macabre che ruotavano attorno alla figura del compositore genovese: corde di violino ricavate dalle viscere degli uomini che aveva assassinato, il patto con il Diavolo che aveva reso bellissime le sue composizioni ma che gli aveva corrotto la carne. Anche Paganini era un mostro, con il corpo scheletrico martoriato dalla sifilide e dal mercurio usato per curarla, un mostro con tante amanti e con il mondo ai propri piedi. Un mostro di cui Erik amava le note, soprattutto quelle del finale del suo secondo concerto per violino.
L'uomo posò il proprio violino sulla scrivania. Si trattava dello strumento che gli aveva fatto avere Luisa nelle sue prime settimane a palazzo Giusso. Erik dovette ammettere che se non avesse avuto qualcosa per suonare, sarebbe stato tutto molto più difficile.
Era fuori dal suo riparo da soli due giorni e il mondo che aveva trovato ad attenderlo era una matassa aggrovigliata di cose che lui faticava a capire. Non comprendeva la gente che aveva attorno, non comprendeva perché persone che disponevano di tutta la libertà possibile si affannassero a costruire con le proprie mani le prigioni che avrebbero finito per seppellirli. Guglielmo Marchesi, ad esempio, era il primo della fila in quella processione di follia masochista. Ad Erik era bastato così poco per intuire cosa si celava dietro la faccia tonda del direttore del San Carlo.
In primo luogo, era disperatamente innamorato della signorina Rovesti. Sullo scegliere donne al di fuori della propria portata Erik si sarebbe definito un maestro, ma Marchesi seguitava a sospirare per la bella soprano senza fare un minimo passo per colmare la distanza abissale che li separava.
In secondo luogo, come era possibile che un giovane uomo benestante fosse finito a ricoprire una posizione che detestava? Come aveva fatto a non opporsi mai, in tutti quegli anni, alle pretese e alle imposizioni della sua famiglia? Come può qualcuno scegliere di essere prigioniero quando non ci sono catene a trattenerlo?
Si ricordò di quello che gli aveva detto il duca, che avrebbe dovuto cominciare a comprendere gli animi delle persone. Ma quelle persone gli sembravano così sciocche e insignificanti e si preoccupavano di cose assurde e si sommergevano di domande, e mai che fossero le domande giuste!
Un delicato bussare alla porta riscosse Erik dai suoi pensieri.
Guglielmo Marchesi fece il suo ingresso come sempre aveva fatto prima di allora: reggendo tra le mani un piccolo vassoio con sopra due tazzine fumanti dalle quali si sprigionava l'inconfondibile aroma del caffè.
Le case napoletane, evidentemente, dovevano essere pregne di quell'odore fin dentro le fondamenta. Erik lo sentiva sempre, tutte le mattine, in cui rientrava dalla sua passeggiata sul lungomare,  sentiva quell'aroma forte e corposo provenire dalle finestre, spirare da un portone lasciato aperto o da un balcone. Lo aveva sentito anche in casa del duca, alzarsi piano dalle cucine, a diverse ore della giornata tutti i giorni in cui era rimasto lì.
Guglielmo Marchesi poi sembrava incapace di sostenere una qualsiasi conversazione senza avere davanti una tazza di caffè. Lo preparava lui stesso, così gli aveva detto, e il solo tremolio leggero dell'acqua che cominciava a bollire lo faceva già sentire meglio. Il perché Marchesi riteneva di dover condividere quella personale gioia del gusto con lui, ogni volta che ne sentiva la necessità, era un mistero che Erik ancora non era riuscito a sondare.
Erik aveva dovuto fare diversi tentativi prima di decidere quale fosse la giusta dose di zucchero perché il caffè di Marchesi non gli sembrasse sgradevole. Alla fine aveva scoperto che lo preferiva con un solo cucchiaino, quel tanto perché non fosse insopportabilmente amaro e perché, allo stesso tempo, il dolce non rovinasse il sapore della bevanda.
Il temuto Fantasma dell'Opera che beveva caffè con un inetto direttore di teatro. Era sciocco, ma cominciava a rendersi conto di una cosa assolutamente ovvia alla quale non aveva mai pensato prima di allora: il mondo esige ogni istante il suo tributo da chi ne fa parte. Il tributo di essere accettabile, una tassa indicibilmente salata per un uomo che non si era mai ritenuto accettabile, sotto nessun punto di vista, eppure non poteva fare a meno di pagarla, per quanto alle volte gli sembrava uno sforzo veramente inutile e penoso.    
«Permettete, Maestro?» mormorò Marchesi con la sua consueta cortesia un po' fanciullesca. «Vi ho portato il caffè. E già che sono qui pensavo di parlare dei costumi per la rappresentazione».
L'uomo annuì e fece cenno al direttore di sedersi, indicandogli una delle sedie davanti alla scrivania. Guglielmo non avrebbe fatto un passo se non fosse stato lui a dirglielo. Erik cominciava chiedersi se in quella testa ci fosse un solo pensiero che il giovane Marchesi aveva prodotto da solo, senza che qualcuno glielo avesse inculcato.
Se non altro, Marchesi aveva smesso quasi subito di avere quell'aria ansiosa quando era con lui.
Erik aprì un cassetto e tirò fuori una cartellina piena di fogli che porse al suo interlocutore.
«Sono i modelli dei costumi per lo spettacolo» esclamò Guglielmo, come se ci fosse bisogno di palesare l'ovvio. «Ma come... quando li avete disegnati? Ne abbiamo parlato appena ieri». 
Aveva lavorato a quei disegni tutta la notte, ed era stato proprio come un tempo, come cancellare tutto ciò che era accaduto nell'ultimo mese. Mentre la sua mano tracciava decisa segni di matita sui fogli, Erik aveva potuto trascinare la sua mente lontano da quel luogo e illudersi che quando avrebbe rialzato lo sguardo dalla scrivania sarebbe stato di nuovo nella Dimora sul Lago, con il suo fato ancora tutto da scrivere, con il suo cuore ancora intatto e ammorbidito dal balsamo dolce della speranza per un amore che mai, nemmeno per un singolo istante, aveva avuto una sola ragion d'essere.

È davvero ciò che vuoi, Figlio del Diavolo?

Di nuovo quella voce, dal fondo dei suoi pensieri, che spirava dubbio e gelo nella sua mente, che rimbombava nel cratere vuoto che aveva ormai al centro del petto. Cosa avrebbe voluto? Essere a Parigi, nei sotterranei dell'Opera, a strappare la luce goccia dopo goccia da quelle ombre infinite?
Considerò che, in fin dei conti, non c'era così tanta differenza tra il suo modo di vivere di allora e quello di adesso. Il fatto che le persone che lavoravano in quel teatro sapessero di lui non le rendeva più vicine e meno ostili, ma ormai non importava più, non avrebbe mai più implorato nessuno per essere riconosciuto come l'uomo che avrebbe voluto essere e non come il mostro che era diventato.

«È nella tua anima la vera deformità».

Quelle parole lo rincorrevano ovunque, nei suoi sogni, nei passi che ogni mattina lo portavano fino al mare, nelle ore che aveva trascorso a lavorare sui modelli dei costumi, gettando il sale di lacrime di rabbia e delusione sulle ferite ancora aperte. Erano state quelle parole a mettere il punto conclusivo a tutto, ancora prima di quelle ultime ore di violenta follia, prima che il fuoco dell'amore non tramutasse in cenere persino la sua malvagità.
Erik girò pigramente il cucchiaino nella tazza, come a dissipare con quel gesto le nuvole che gli stavano ombrando la mente.
«Ve l'avevo detto, ho l'abitudine di lavorare alle ore più insolite» rispose.
Guglielmo passava e ripassava lo sguardo su quei disegni, ogni volta sempre più soddisfatto e sorridente.
«Quando avete detto che avevate dei consigli per la sartoria, pensavo si trattasse di qualche suggerimento vago. Non sapevo che sapeste fare questo» commentò. C'erano domande sottintese in quelle parole, Marchesi non perdeva mai occasione per farlo, ma non aveva il coraggio di porre quesiti in modo diretto.
«Significa che sono di vostro gradimento?» replicò Erik.
«Oh, sì, certamente. Farò in modo che la sartoria cominci a lavorare oggi stesso a questi costumi, ho convocato gli attori per questo pomeriggio, perché i nostri costumisti comincino a prendere le misure».

*

Da lì a qualche giorno, ci sarebbero stati altri spettacoli al San Carlo, dei balletti e della prosa, ma in quelle sere il teatro era rimasto vuoto e lui si era sentito quasi in obbligo di esplorarlo, di farlo suo e cominciare a conoscerlo.
Anche al buio, quel posto non sembrava perdere quasi nulla della sua luminosità. Erik aveva scovato il passaggio che conduceva all'interno di Palazzo Reale, fatto costruire dal re Carlo di Borbone perché potesse recarsi agli spettacoli senza dover uscire in strada. Si era ripromesso di provare a risalire quella sorta di galleria nascosta, ma quella sera, immerso nella quiete del teatro ormai vuoto, fu la musica a tentarlo maggiormente.
Sul palco c'era ancora il piccolo pianoforte a muro, usato come accompagnamento per le prove del balletto che si erano svolte quel pomeriggio. Erik aveva ascoltato per un po' il Maestro Dibello suonare dei pezzi per far esercitare le ballerine ed era rimasto compiaciuto nel rendersi conto di trovarsi di fronte a qualcuno di abbastanza competente. Anche se sapeva che c'era molto lavoro da fare perché ogni cosa fosse perfetta e bellissima, come aveva detto Marchesi, per lo spettacolo che aveva il compito di allestire.
Ah, se il caro direttore voleva bellezza e perfezione lui era certo in grado di dargliele, ed era un bene che tutti in quel teatro fossero così capaci e collaborativi.
Erik si sedette al pianoforte e suonò un La. La nota vibrò nel vuoto, e ondeggiò per tutto il teatro prima di disperdersi nel silenzio.
L'uomo chiuse gli occhi e cominciò a suonare una scala di accordi, senza nemmeno pensarci, la scala si trasformò nella musica del suo Don Juan.
Non si accorse dei passi alle sua spalle, concentrato com'era sulla musica,
«È molto bella, di che si tratta?» disse la voce, dal nulla.   
Le dita di Erik si irrigidirono e tremarono, premendo male i tasti che produssero un suono greve e disarticolato. Si voltò, con la parte sana del viso deformata in una smorfia infastidita.
«Perdonate, Maestro. Non volevo spaventarvi».
Graziana Rovesti era in piedi alle sue spalle, avvolta in un abito color avorio. La sua figura aggraziata si disegnava incerta nel buio.
«Credevo che il teatro fosse vuoto» disse Erik brusco.
«Ero tornata indietro perché avevo dimenticato il mio foulard» spiegò lei. «Cosa stavate suonando?»
«Improvvisavo» mentì l'uomo.
«C'è qualcosa di assolutamente straordinario in voi, ma immagino che lo sappiate già».
Erik sentì qualcosa che gli si contorceva nello stomaco, un misto indefinibile di fastidio e orgoglio.
«Mi state adulando, Graziana?». La voce suonò meno severa di quanto avrebbe voluto.
«Vi sto ammirando, è diverso» replicò lei con un sorriso che sembrava brillare.
Lo stava... che cosa?
Erik cercò un modo per controbattere, cercò parole taglienti che avrebbero persuaso quella giovane donna e non ammirarlo più in futuro, ma non le trovò. Graziana aveva gli occhi di una persona perfettamente capace di stare al mondo e lui, fino a quel momento, del mondo era stato solo uno spettatore.
«Sono certo che siate più avvezza di me ai complimenti» disse infine l'uomo in tono inespressivo. «Credo sia ora di andare a dormire, signorina Rovesti».

*

Il suo amante l'aspettava in una carrozza. Glielo aveva regalato lui quell'orribile foulard di seta viola e lei aveva dovuto fingersi dispiaciuta quando si era accorta di averlo dimenticato nel suo camerino del teatro, quindi era tornata indietro a cercarlo e prima di uscire aveva sentito la musica, perfetta e bellissima risuonare nel vuoto.
Una volta c'era stata la moglie di uno dei suoi amanti che aveva scoperto la loro tresca e aveva fatto una scenata, minacciando di fare uno scandalo. Graziana aveva replicato soave che la cosa avrebbe danneggiato più la signora e il buon nome della sua famiglia che non lei. La donna le aveva dato della zoccola e Graziana, senza scomporsi, aveva osservato che c'era una sostanziale differenza tra lei e una prostituta: lei gli amanti se li sceglieva. E di solito la sua scelta cadeva su ricchi signori disposti a finanziare i suoi spettacoli, non le importava altro.
Uno di questi ricchi signori era l'uomo che attendeva nella carrozza posteggiata all'imbocco di via Toledo.
Che aspetti pure! Qualcuno stava suonando qualcosa di molto bello e lei voleva ascoltare.
Non si era stupita di trovare lì il Maestro francese. Quell'uomo era arrivato al San Carlo da soli due giorni e i pettegolezzi su di lui già cominciavano a gonfiarsi. Si sarebbero gonfiati giorno dopo giorno, di sicuro, fino a esplodere in una bolla di bugie, perché la verità era che nessuno sapeva niente di quello straniero, se non che fosse un amico del duca Giusso, che veniva da Parigi e che se ne intendeva di musica e spettacolo. Lo stesso duca rispondeva in modo evasivo a qualsiasi domanda gli veniva posta in merito all'uomo dalla mezza maschera – particolare bizzarro che non faceva che aumentare l'interesse attorno alla figura del Maestro del San Carlo.
Nessuno sapeva niente, ma questo rendeva solo più divertente fare congetture e poi vedere quelle congetture trasformarsi in fatti da far viaggiare, in tutte le varianti possibili, per la città, dal più periferico dei suoi bassifondi, al palazzo più alto della collina di Posillipo, come certamente sarebbe accaduto da lì a poco.
Graziana aveva capito che non sarebbe stato facile avere notizie nemmeno dal diretto interessato. Il Maestro, a quanto sembrava, non lasciava mai il suo ufficio se la cosa non era strettamente necessaria, e quei pochi che avevano avuto modo di parlare con lui lo descrivevano come un uomo dai modi estremamente signorili ed educati, ma dallo sguardo freddo come il ghiaccio. Uno sguardo capace di gelare il più affabile dei sorrisi e scoraggiare chiunque volesse parlare con lui.
Nemmeno Guglielmo Marchesi sapeva nulla, Graziana se n'era accorta subito e le era rimasta una tremenda curiosità di scoprire chi si celava dietro quella maschera. Perché il Maestro era un uomo estremamente attraente nella sua eleganza e nel suo algido distacco, e l'alone di mistero che lo circondava non faceva che renderlo più fascinoso agli occhi della giovane donna. Certo, c'era la questione della maschera, un'altra domanda senza risposta nell'infinita sequela di quesiti, ma a Graziana la cosa non sembrava particolarmente rilevante.
Quando era comparsa alle sua spalle, non voleva spaventarlo, se non altro perché non voleva farlo irritare, le aveva dato l'impressione di un uomo particolarmente incline alla collera, e nemmeno voleva interromperlo. Tuttavia, quando aveva sentito quella musica, non era riuscita a trattenersi dall'avvicinarsi e parlare con lui.
Alla fine non avevano scambiato che poche frasi, poi lui aveva osservato che era ora di andare a dormire e lei aveva capito che la conversazione – se tale si poteva definire – era purtroppo giunta al capolinea.
Salì sulla carrozza, sorridendo all'uomo che l'attendeva picchiettando impaziente le dita sul fondo del suo cappello a cilindro e si promise che alla prima occasione sarebbe riuscita a farsi dire almeno il suo nome.
Dopotutto avevano ben due mesi di prove da trascorrere assieme, e chissà in due mesi quante cose sarebbero potute accadere.

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Here, I have a note...

Capitolo di delirio a briglia sciolta... azzuffate notturne, intrusi non particolarmente svegli, pennelli da pittore e tazze di caffè... non so perché sia venuto fuori in questo modo.

“Palumbella” è un'antichissima (e a mio avviso bellissima e dolcissima) canzone della tradizione napoletana, e tornerà (forse tra millemila capitoli) in questa storia. Non so come possa suonare su un violino, ma mi piaceva immaginare Louis eseguire quella canzone.
Riguardo a La Campanella, il finale del secondo concerto per violino di Paganini, non chiedetemi perché, ma nella mia testa Erik adora quel brano.

Al prossimo mercoledì ^^

I remain, gentlemen, your obidient servant.


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Capitolo 6
*** Graziana ***


Capitolo quinto
Graziana


~ Napoli, 20 marzo 1871 ~

Graziana era contenta che le prove per La Traviata fossero cominciate. Il teatro, quel teatro, era l'unica ragione che la tratteneva in quell'odiosa città piena di caos e miseria.
Era arrivata a Napoli sei anni prima, dalle zone nebbiose dell'Emilia, figlia del proprietario di una piccola fabbrica tessile, scappata dallo scandalo che aveva minacciato di travolgerla per sempre e seppellirla, inchiodandola in quel paesino umido e squallido.
Era consapevole di non avere altri tesori se non la sua voce e il suo bell'aspetto e aveva intenzione di sfruttarli il più possibile.
L'arte, la musica, il canto, la bellezza erano tutte cose che Maurizio, l'apprendista del fabbro di quel piccolo paesino di pianura, non poteva capire ma lui stava per andare a Napoli, a lavorare nel pastificio di quel parente che aveva fatto fortuna nel Meridione, un posto dove la fortuna raramente era di casa, e in quegli anni a Napoli stavano accadendo grandi cose in quel teatro che lei aveva visto riprodotto una volta in una cartolina.
Aveva pensato di comprare un passaggio per la città partenopea e un tetto sulla testa una volta giunta lì con la sua prima volta, in un retrobottega polveroso che odorava di ruggine e acqua stagnante. Maurizio, dopotutto, le voleva proprio bene, gliene aveva sempre voluto... solo che lei gli aveva chiesto di fare attenzione, ma nella foga lui non l'aveva ascoltata. E così si era ritrovata in attesa di un figlio, come una maledizione. Niente più teatri, niente sogni di gloria e la vergogna come compagna di strada ogni volta che avrebbe messo il naso fuori dalla porta.
Lui non lo aveva mai saputo, ma era un giovane onesto e come ogni giovane onesto era uno sciocco. Anche senza mai sapere di quel figlio non voluto, le aveva chiesto di sposarla. Graziana era stata sul punto di accettare ma poi le avevano detto di quella zingara, in quell'accampamento oltre le vigne e i campi di grano; quella donna poteva strappare i bambini via dalla carne delle madri che non li volevano. Ma c'era da fare presto...
E Graziana aveva fatto presto.
Il ricordo del sangue che la colava tra le gambe e delle fitte di dolore all'addome, il sentore del freddo di quei ferri che si insinuavano dentro di lei era quasi del tutto sbiadito, era una specie di incubo nebbioso dissoltosi nelle luci di scena. Un prezzo esiguo da pagare per tutto quello che era poi venuto dopo.
Non era più nemmeno un vero ricordo oramai, non quella mattina, con il San Carlo ai suoi piedi, in attesa di sentire la sua voce.
Certo, non era stato tutto bello e semplice all'inizio, aveva dovuto fare la sua gavetta di ruoli marginali e piccolezze, ma le erano servite per addomesticare il talento e renderlo perfezione.
Graziana era certa che il suo pubblico non avrebbe potuto capire certe cose, nessuno di loro aveva mai visto il teatro dall'alto di un palco, la maestosità di quel posto scomparire nel buio quando le luci in sala venivano spente e il sipario si apriva, e poi tutto tornare al suo posto, dopo lo spettacolo, con la platea in piedi ad applaudire. Non avevano provato l'ebbrezza nel sentire il silenzio esplodere in una raffica di applausi così forti da poter smuovere anche le nuvole sull'affresco del soffitto. Non avevano provato lo stordimento del profumo di decine di mazzi di fiori ammassati nel camerino.
Per ogni serata in cui quel momento si ripeteva, perfetto, bellissimo, intenso, Graziana era certa che ne fosse valsa la pena, che tutto ciò che aveva fatto di biasimabile o di scorretto diventava giusto, comprensibile, ogni peccato era assolto nel fragore di quell'applauso.

Cominciare le prove per La Traviata avrebbe significato anche trascorrere del tempo con il Maestro francese. Graziana era curiosa di sapere come si sarebbe comportato quell'uomo a lavorare insieme a lei e alle altre persone della compagnia giorno dopo giorno, se la dedizione al suo lavoro l'avrebbe reso ancora più duro o se la musica era in grado di ammorbidirlo... se lei era in grado di ammorbidirlo, giacché quell'uomo aveva palesato una certa ammirazione per il suo talento.
Il direttore aveva convocato tutta la compagnia quella mattina, su precise istruzioni del Maestro. A quanto sembrava, il musicista francese aveva anche progettato personalmente i costumi di scena e le scenografie, in quei giorni era sceso di persona nella sartoria e nella falegnameria per controllare il lavoro di chi si stava occupando della realizzazione dei vestiti e dei fondali. Infine, aveva dato perentorie istruzioni sul fatto che nessuno, a parte chi era impegnato nella realizzazione, visionasse i progetti o i lavori in corso dei costumisti e degli scenografi. Il perché non era molto chiaro, ma tutti avevano imparato a non stupirsi più di tanto delle bizzarrie di quell'uomo e poi, Marchesi sembrava nutrire una fiducia cieca nelle sue competenze, per cui ogni suo ordine era come legge tra le pareti del San Carlo.
Graziana era arrivata puntuale per le prove ed era andata nel suo camerino a posare il soprabito e la borsa. Lì aveva trovato quella ragazzina di cui non riusciva mai a ricordare il nome, una degli inservienti del teatro, intenta a spolverare.
«Sei ancora qui?» le aveva borbottato. «A quest'ora non avresti dovuto già finire?».
La ragazzina, una di quelle poco sveglie che avevano paura persino della propria ombra, stava farfugliando delle scuse mortificate, quando arrivò Guglielmo Marchesi, tirato a lucido in un completo nuovo.
Nelle prime settimane in cui il figlio del banchiere era entrato a teatro in veste di direttore, Graziana aveva seriamente temuto per le sorti del San Carlo, ma il buon Guglielmo forse doveva essere meno sciocco di quanto sembrava se alla fine aveva deciso di avvalersi dell'ausilio del Maestro che sembrava notevolmente più competente e dotato del pugno saldo che a lui mancava.  
«Graziana, che piacere vedervi» esclamò immediatamente Marchesi sorridendole in quel suo modo da bambino, come se fosse stupito di trovarla lì.
«Buon giorno, signore» gli rispose lei, fingendo senza alcuna fatica un meraviglioso sorriso dolce e cordiale.
«Oggi iniziano le prove, dunque. Ditemi, siete preoccupata?»
«Dovrei esserlo, secondo voi?»
«Oh, no... voi... no, certo che no».
Le orecchie di Guglielmo stavano cominciando a diventare rosse. Ecco un'altra persona che aveva paura della propria ombra. Intanto quell'oca dell'inserviente stava ancora pulendo il suo camerino.
«Sapete, mi chiedevo se voi aveste visto i progetti per le scenografie e i modelli dei costumi» disse la giovane donna dandosi un'aria vaga e disinteressata.
«Sì, io li ho visti, certo che li ho visti» rispose Guglielmo annuendo.
«Ah, ecco. Mi sarebbe parso strano se il direttore del teatro non avesse visionato quei progetti, dopotutto l'ultima parola sugli spettacoli spetta a voi»
«Davvero?... ehm, sì, suppongo di sì».
Graziana sorrise con fare allegro,
«Mi piacerebbe molto vederli» ammise.
Guglielmo sollevò le sopracciglia fin quasi all'attaccatura dei capelli,
«Il Maestro ha detto che è meglio di no» le disse.
«E cosa n'è stato della vostra ultima parola?» lo provocò la donna con fare bonario di rimprovero.
Marchesi ristette corrugando la fronte. Evidentemente il ragionamento era troppo complesso per la sua mente semplice.
«Beh, se proprio volete, se ci tenete» mormorò titubante. «Potrei provare a... scusatemi, ma come mai tutto questo interesse? Si tratta solo di costumi e pezzi di legno e tela dipinti».
Graziana scrollò le spalle,
«La curiosità è donna» asserì, prima di voltarsi e sparire nel suo camerino.
L'inserviente era ancora lì, a raccogliere dei petali secchi che erano ammucchiati sotto a un mobile chissà da quanto.
«Essere lasciata in pace cinque minuti nel mio camerino è chiedere troppo?» borbottò la soprano con un sospiro di stizza.
«Scusate, signorina Rovesti» si affrettò a dire la giovinetta. «Stamattina ho rassettato la stanza del Maestro francese e ho perso del tempo...»
«Sì, sì, d'accordo, basta ciarlare. Puoi andare, continuerai a pulire dopo».

*

La ragazza portava al collo un minuscolo ciondolo d'argento con i simboli delle tre virtù cardinali e, curiosamente, si chiamava Fede. Non era un nomignolo o un diminutivo, era proprio il suo nome.
Era una tipetta bassa, un po' in carne, con un viso dolce e ciocche di capelli castani che sfuggivano alla presa della cuffia. Era una degli inservienti del San Carlo ed era terrorizzata da lui, senza un motivo preciso.
Erik incrociava la giovinetta ogni mattina, lei aveva il compito di rassettare la sua camera da letto e di pulire il suo ufficio quando lui non c'era. Fin dalla prima volta che se l'era trovata davanti, l'uomo aveva notato che Fede non riusciva nemmeno a sollevare lo sguardo su di lui, gli faceva un rapida riverenza e sgusciava via a svolgere le sue mansioni. Erik ci aveva provato – considerandolo una specie di gioco con se stesso – a usare il suo tono più gentile nell'augurarle buon giorno quando la incrociava prima che lei cominciasse a pulirgli la stanza, ma non c'era stato niente da fare, dopo una settimana Fede ancora sembrava trovarsi nel panico ogni volta che lui le si avvicinava anche solo per caso.
Quella mattina Fede gli era parsa, se possibile, ancora più nervosa del solito, ma Erik ormai aveva smesso di darsene pensiero.
L'uomo lasciò il suo ufficio e imboccò il passaggio che dall'anticamera portava direttamente al cuore del teatro.
La compagnia lirica del San Carlo era lì ad attenderlo, tutti seduti composti sulle sedie messe in fila  al centro del palco, con il Maestro Dibello già pronto davanti al pianoforte.
L'unica volta che si era trovato davvero su un palco di teatro non aveva avuto occhi che per Christine e non aveva ascoltato altro che le loro voci intonare il duetto del Don Juan. L'ultima scintilla prima del buio. Un ricordo che pesava come l'eternità e che faceva eco nella sua memoria rammentandogli quanto fosse stato sciocco a sperare che lei potesse preferirlo al giovane visconte, quel ragazzo che sapeva parlarle del sole e della libertà, quando lui voleva donarle nient'altro che un'infinita notte da provare a rischiarare assieme...
Adesso poteva vedere il teatro dalla prospettiva degli artisti, beandosi semplicemente di quella visione, immaginando quanto potesse essere meraviglioso trovarsi a cantare davanti a quella platea gremita, ai volti che facevano capolino dai parapetti delle balconate. Una prospettiva che comunque non sarebbe mai più stata la sua. Il suo canto era morto quella notte, mentre la sua voce ripeteva quasi senza pensarci le note della Masquerade che trillava sommessa nel carillon a forma di scimmia. Avrebbe voluto cantare ancora, ma sapeva di non poterlo fare, non ne era in grado, come la piccola Luisa, così sveglia e allegra ma senza la facoltà della parola.
«Ehm, Maestro?».
Da quanto tempo era lì immobile a fissare il teatro vuoto davanti a sé? La voce di Dibello lo riportò alla realtà, i cantanti e il pianista non aspettavano che un suo ordine per cominciare le prove.
Scese i pochi gradini che portavano alla platea e si sistemò nella poltrona centrale della prima fila, tenendo tra le mani la partitura dell'opera e il libretto.
«Da dove vogliamo cominciare, signori?» domandò semplicemente, sollevando lo sguardo sugli attori raggruppati al centro del palco. Ah, quanto gli costava guardare in quel modo la gente, così, faccia a faccia. Ogni singola occhiata che si posava su di lui era corroborata da un fiotto di sangue che scivolava via dal suo cuore già vuoto, eppure Erik non avrebbe ceduto, non poteva permetterselo.
Quando Graziana Rovesti si fece avanti, staccandosi dai compagni, il cuore gli si strinse e il lago di sangue nel suo petto minacciò di tracimare. Lo sguardo di quella ragazza era un tormento, era lo sguardo che aveva sempre desiderato ricevere da un altro essere umano e che ora giungeva a ricordargli che era troppo tardi. Era uno sguardo acceso da un interesse femminile che scivolava su di lui come pioggia gelida, ed Erik detestava la sensazione di non riuscire a trattenerlo più a lungo, tanto da farlo diventare calore sulla sua pelle.
Riuscì a fatica a non distogliere gli occhi dal bel viso di Graziana. Voleva sentirla cantare, si accorse di non aver desiderato altro dal primo giorno in cui era giunto al San Carlo e l'aveva udita intonare l'aria dell'Annibale per scaldarsi la voce, quella voce perfetta e meravigliosa, come i miracoli di cui parlava il duca Giusso. La bellezza di quella giovane, il modo in cui lo guardava, non gli sembravano minimamente interessanti quanto il suo talento, eppure smuovevano qualcosa dentro di lui, qualcosa di sopito e dimenticato che era stato sommerso dal nulla a cui si era costretto in quei giorni.
«Molto bene, signorina, potremmo cominciare con...». Lei lo interruppe con un sorriso bonario, dolce e quasi bruciante, come la prima boccata d'aria nei polmoni di qualcuno che ha appena rischiato di annegare.
«Con Sempre libera, Maestro, vi prego, amo molto quel brano» fece Graziana.
Dibello si voltò a guardare Erik, in attesa di una conferma. Lui sospirò impercettibilmente,
«Non amo essere interrotto quando parlo» disse. La ragazza si strinse nelle spalle, mortificata. «Ma giacché vi fa piacere cominciare con quel brano... signor Dibello, prego».
Il lago di sangue che gli si era formato nel petto ora minacciava di togliergli il fiato, sarebbe diventato un fiume di lacrime se il Fantasma dell'Opera ne avesse avuta ancora qualcuna da versare.

«È strano! è strano! in core
 Scolpiti ho quegli accenti!
 Sarìa per me sventura un serio amore?»

La voce si alzò perfetta e dolcissima, soffiando sul teatro tutto il trasporto di Violetta. Le dita di Erik si serrarono attorno al bracciolo della poltrona anche se lui si sforzava di mantenere un'espressione impassibile.
Aveva immaginato tante volte quel brano cantato per lui da Christine, cantato mentre erano soli e felici in un luogo indefinito, ma la voce di Graziana faceva momentaneamente sbiadire quel ricordo. Evidentemente la bellezza era in grado di uccidere l'amore tanto quanto il raccapriccio.

 «Follie! follie! delirio vano è questo!
 Povera donna, sola
 Abbandonata in questo
 Popoloso deserto
 Che appellano Parigi,
 Che spero or più?
Che far degg'io!
 Gioire,
 Di voluttà nei vortici perire.
 Sempre libera degg'io
 Folleggiar di gioia in gioia,
 Vo' che scorra il viver mio
 Pei sentieri del piacer,
 Nasca il giorno, o il giorno muoia,
 Sempre lieta ne' ritrovi
 A diletti sempre nuovi
 Dee volare il mio pensier.»

«Bellissima, no?» disse qualcuno, comparso improvvisamente accanto a lui, sul finire della canzone.
Erik non si voltò a guardare,
«La più bella voce che abbia mai udito» confessò rapito. Qualcosa infondo alla sua gola aveva tremato nel pronunciare quelle parole. Si riscosse all'improvviso, rendendosi conto solo il quel momento che la domanda a cui aveva dato risposta non proveniva dalla sua testa, ma da un signore che si era seduto sulla poltrona vuota alle sue spalle.
«Avevo chiesto di non far entrare nessuno durante le prove» borbottò senza voltarsi a guardare chi c'era dietro di lui, lanciando piuttosto uno sguardo di rimprovero a Guglielmo, seduto accanto al pianista.
«Il padre del direttore del teatro è un po' più che nessuno, signore» replicò bonaria la voce alle spalle di Erik. Lui si voltò e scorse un uomo elegante, con un cappotto dal collo di pelliccia e un bastone da passeggio con il pomo d'argento. Aveva la stessa faccia rotonda di Guglielmo ma – forse erano i baffi o i segni del tempo – il viso dell'uomo era nettamente più severo.
Non gli importava chi fosse quell'uomo, i suoi ordini sarebbero valsi anche per il figlio del re, peccato che a farli eseguire ci pensava il giovane Marchesi...
«Siete voi dunque il Maestro francese» disse l'uomo con un sorriso sotto i folti baffi impomatati. C'era una malcelata nota di irritazione nella sua voce.
Erik si alzò in piedi, maledicendo quel mondo e le sue regole che lo portavano a fare buon viso a cattivo gioco.
«Esattamente, signore» replicò pacato, allungando una mano all'uomo e allo stesso tempo lanciandogli uno sguardo che gli fece colorare di rosso le guance per un fugace istante.
Bruno Marchesi strinse la mano del musicista straniero.
«Papà, possiamo fare qualcosa per voi?» intervenne Guglielmo torcendosi nervosamente le mani.
«Niente. Lasciatemi seduto qui, e continuate con il vostro lavoro».
Erik trattenne a stento un moto di stizza. Conosceva quel sapore amaro che sentiva sotto la lingua e quel fumo che lentamente si alzava in spire nere dentro la sua mente; l'istinto di fare del male al prossimo per piegarlo e infine, quando occorreva, spezzarlo. Tuttavia si impose di mantenere la calma, fece nuovamente appello a tutte le sue doti teatrali e fu persino in grado di abbozzare un sorriso.
«Sono certo che un uomo importante come voi ha altro da fare che starsene qui a osservarci provare» disse con costruita gentilezza, con uno sguardo che riuscì ad apparire quasi dolce.
«Sono certo che per un uomo competente come voi non faccia alcuna differenza se io stia qui o meno» replicò il banchiere dopo qualche istante di silenzio. I modi e la voce di Erik dovevano averlo preso alla sprovvista.
«Perdonate, signore» disse Graziana avvicinandosi al proscenio, un sorriso pieno di umiltà stampato in viso. «Ma il Maestro ha ragione di chiedere che nessuno assista alle prove. Siamo appena al principio e chissà quanti errori potremmo fare oggi, la presenza di un così illustre ospite non farebbe che aumentare la nostra agitazione e il nostro imbarazzo. Sono certa che comprenderete».
Se avesse potuto, Erik avrebbe riso. Che razza di stregoneria poteva esercitare quella donna sugli uomini che le stavano accanto, tanto da far arrossire in un solo istante sia il padre che il figlio?
Bruno Marchesi impastò la bocca e per un attimo sembrò che le parole gli si impigliassero nei baffi. Si alzò in piedi e e sospirò,
«Ah, perdonate signorina Rovesti» disse con fare pomposo. «La voglia di sentirvi cantare e di ammirare insieme a voi i vostri colleghi mi ha reso un po' invadente. Avete ragione, vi lascio alle vostre prove. Buona giornata e buona continuazione, signori».
Erik guardò vagamente perplesso il banchiere allontanarsi nel fruscio del suo lungo cappotto, percorrendo a passi lenti la platea, facendo roteare il bastone da passeggio. Quando rivolse nuovamente lo sguardo verso il palco notò la luminosa occhiata di complicità che Graziana gli stava lanciando. C'era qualcosa di stucchevole in quei suoi modi ruffiani, eppure era una sensazione così strana e sconosciuta essere oggetto di attenzione da parte di una donna. Una donna bellissima che sarebbe certamente fuggita se avesse visto ciò che si celava dietro la sua maschera.
«Vostro padre è una persona deliziosa» commentò poi la soprano rivolta a Guglielmo. «Tutto sta nel saperlo prendere».
«Certamente è così...» borbottò il giovane Marchesi senza troppa convinzione.

Ah, le donne... che orribile potere possono avere...

Erik cominciava a diventare impaziente. Scosse piano il capo come per mandare via gli strani pensieri che avevano cominciato a vorticargli nella testa, invadenti e non desiderati quanto l'incursione del banchiere poc'anzi.
«Se non erro, noi staremmo provando» asserì brusco, poi fece un cenno in direzione di Antonio Bandiello, il tenore a cui era stata assegnata la parte di Alfredo. «Signor Bandiello, vorrete essere così gentile da stupirci con qualcosa che ci faccia passare di mente questa piccola interruzione?».
Il tenore, un imponente ed elegante signore di quarant'anni, fece qualche passo in direzione del proscenio.
«Certamente, Maestro. Cosa volete che canti?».
Erik ci pensò qualche secondo.
«Or testimoni vi chiamo... , che ne dite? Fate che lo sdegno di Alfredo mi faccia contorcere lo stomaco» concluse.   
Non era del tutto certo che la sottile critica sottintesa nella scelta di quel brano fosse meritata, ma la cosa aveva un che di divertente.  

*

Alla fine di quella prima giornata di prove Erik dovette ammettere di sentirsi soddisfatto. C'erano diversi dettagli da limare e qualche piccola miglioria da apportare nel modo di cantare e recitare dei signori della compagnia del San Carlo, ma era più che certo di poter offrire al sindaco di Napoli e ai suoi ospiti stranieri la miglior rappresentazione mai vista de La Traviata.
Si diresse verso il suo ufficio con l'intenzione di scrivere qualche nota sul suo diario ma sentì una voce concitata provenire dall'ufficio del direttore.
«È stata lei, lo so, chi altri può essere stato?!». La voce che aveva pronunciato brutalmente queste parole era certamente quella di Graziana.
Erik non volle sapere cosa stava accadendo, né aveva intenzione di ritrovarsi ancora in presenza di quella donna. Lei gli piaceva in qualche modo, probabilmente gli piaceva perché la invidiava,  doveva ammetterlo, e la cosa lo disturbava non poco. E comunque, nemmeno il dolore, nemmeno il vuoto potevano distruggere la sua ammirazione per la bellezza o per il talento.
Tuttavia, la porta dell'ufficio di Marchesi non era chiusa; oltre lo stipite di legno scuro Erik scorse la figura di Fede, la giovane inserviente, in piedi davanti alla scrivania del direttore, con accanto Graziana che la guardava furente. Non aveva mai visto la bella soprano tanto alterata, né Marchesi tanto in difficoltà.
«Posso sapere cosa succede?» domandò comparendo sulla soglia.
Fede sbiancò e strinse le spalle, come a cercare di farsi più piccola e proteggersi da qualcosa di tremendo che stava per abbattersi su di lei.
Graziana fece un lungo respiro, come a tentare di calmarsi, si scostò dalla fronte una ciocca di capelli biondi sfuggita impertinente alla presa del fermaglio d'argento.
«È presto detto, Maestro. C'era una banconota nella mia borsa che ora è sparita, ed è stata certamente questa piccola ladruncola a prenderla! È rimasta da sola nel mio camerino dopo che io sono venuta alle prove» spiegò la soprano, cercando di non alterarsi più di quanto non aveva già fatto.
Erik aveva passato una vita intera ad osservare le persone, e lo aveva fatto da un posto privilegiato, nascosto nelle sue ombre. Non capiva certi sentimenti fine a se stessi – la bontà di Giusso o l'arrendevolezza di Marchesi – ma riusciva a capire le persone semplicemente attraverso delle intuizioni e, se fosse dipeso da lui, da quello che era stato in grado di intuire, avrebbe giurato che la giovane inserviente non avrebbe mai rubato del danaro da una borsa.
«Che prove avete per accusare la ragazza?» domandò spostando lo sguardo tra i presenti.
Guglielmo non sembrava particolarmente all'altezza dell'imbarazzante situazione, tuttavia fu costretto a parlare.
«Il fatto che la banconota persa fosse nella sua tasca» dichiarò.
Erik inclinò la testa di lato. Era possibile che si fosse sbagliato sul conto di Fede, assolutamente possibile.
La ragazzina intanto avete cominciato a tremare.
«Non... non è la banconota della signorina Rovesti» disse tra un singhiozzo e l'altro, grosse lacrime le scivolarono lungo il mento cadendo a formare chiazze umide sul colletto del vestito. «Non sono... non sono una ladra... vi prego... non mi mandate via». Poi guardò con uno strano disprezzo la banconota da cinquanta lire poggiata sulla scrivania del direttore. «Io nemmeno li volevo quei soldi... sono sporchi...».
Erik non ricordava di aver mai provato pena per un altro essere umano prima di allora. La cosa non lo riguardava, eppure avrebbe voluto trovare un modo di risolvere la faccenda, anche se le prove erano inconfutabili e quasi sicuramente la ragazza aveva rubato quei soldi, altrimenti in che altro modo spiegare il fatto che la banconota fosse finita nella sua tasca?
«Dove avresti preso quel denaro, se non dalla borsa della signorina Rovesti, Fede?» chiese, fissando intensamente la giovane che sentendosi chiamare per nome da quella voce trasalì.
«Ah, Maestro, vi prego, è evidente che non ci sono spiegazioni né scusanti» replicò Graziana.
Erik la ignorò,
«Vuoi rispondermi?» insistette continuando a guardare la giovinetta.
Fede scosse piano il capo, non sembrava volesse dire niente. A quel punto non c'era altro da fare se non pensare che fosse colpevole.
«Perdonate» disse una voce estranea dall'uscio della stanza.
I presenti si voltarono verso la porta. C'era una giovane donna, sembrava avere ad occhio e croce la stessa età di Graziana, ma aveva i tratti tipici delle donne mediterranee, i capelli e gli occhi scuri che si intonavano a una carnagione leggermente ambrata. Gli occhi, pesantemente truccati di nero davano al suo aspetto un ché di zingaresco, quasi selvaggio. Ma quello era l'unico ornamento su quel giovane viso che portava i segni palesi della stanchezza e forse di molte notti insonni.
Graziana sollevò la testa con uno scatto stizzito.
«Voi?» disse, scagliando quelle tre lettere con un tale disgusto che Erik si trovò suo malgrado a fissare la sconosciuta, come a cercare di capire se ci fosse qualcosa di assolutamente repellente in lei che non aveva notato alla prima occhiata. Ma gli parve una giovane donna assolutamente ordinaria, persino graziosa, forse.
La sconosciuta ignorò Graziana e parlò senza rivolgersi a nessuno in particolare,
«Scusate, ho inavvertitamente ascoltato la conversazione» disse. «Mi sembrava giusto intervenire perché non so che fine abbia fatto la banconota della signorina Rovesti, ma di certo so che quella che ha Fede non è la stessa banconota, perché quella glielo data io stamattina».
Erik fissò la donna cercando di capire se stava mentendo. Fede le rivolse un'occhiata implorante e scosse piano il capo: le stava forse chiedendo tacitamente di non mentire e non compromettersi per lei? O le stava chiedendo di non aggiungere altro a una verità che non voleva venisse conosciuta?
«Ne siete sicura, signora?» disse Guglielmo tentando di darsi un tono severo in quella che sembrò una malriuscita caricatura di suo padre.
«Sì, signor Marchesi».
«Figurarsi!» obiettò Graziana incollerita. «Non potete provarlo».
«E voi non potete provare il contrario»
«La mia versione è più sensata della vostra».
Le due donne si lanciarono uno sguardo intenso, colmo di acredine. La donna mora stava per replicare qualcosa ma Antonio Bandiello, il tenore, entrò nell'ufficio con in mano un'altra banconota da cinquanta lire tra le dita.
«Credo che questa sia vostra, Graziana» disse. «L'ho trovata a terra, vicino al vostro camerino».
L'uomo era del tutto ignaro di quanto stava accadendo, per questo rispose con uno sguardo intimorito alle occhiate basite degli altri presenti. Poi i suoi occhi indugiarono un attimo sulla donna dai capelli scuri,
«Voi?» disse. E lo disse con un modo che era agli antipodi rispetto a quello che aveva usato Graziana. Lo disse con una strana, malinconica dolcezza.
Erik poteva sentire le emozioni vibrare nelle voci delle persone.
«Voi? È... era tempo che non... è da diverso tempo che non vi vedevo qui a teatro» farfugliò quindi Antonio tradendo un certo imbarazzo.
La donna bruna sorrise, di un sorriso rapido e tagliente, come se avesse colto nelle parole e nell'atteggiamento del tenore qualcosa che l'aveva indispettita.
«Grazie, signore» si limitò a rispondere.
Intanto Fede aveva riacquistato un po' di colorito e aveva smesso di tremare, contenta che nessuno badasse più a lei.
Graziana sospirò,
«Grazie, mio caro» disse avvicinandosi ad Antonio e riprendendo il suo denaro, poi fece per uscire dall'ufficio.
«Graziana...». La voce di Erik non suonò incollerita, ma chiamò quel nome con un tono così autoritario che la soprano restò bloccata sulla soglia per un paio di secondi, prima di voltarsi. «Direi che qui c'è qualcuno che merita di ricevere delle scuse».
La donna bruna sollevò piano la testa e rivolse a Erik un'occhiata e un accenno di sorriso quasi amichevole.
Graziana si lisciò le pieghe della gonna di velluto chiaro con un gesto nervoso.
«Certamente, Maestro, avete ragione» dichiarò racimolando tutta la cortesia che riuscì a trovare, ma stavolta nemmeno il suo infinito repertorio di trucchi recitativi riuscì a mascherare la collera per l'accaduto.
«Ti chiedo scusa, ragazza» fece, rivolta a Fede. «Spero che anche voi, direttore, e tutti quanti, vogliate perdonarmi per questo sciocco malinteso».
Guglielmo mise su un sorriso esagerato,
«Tutto è bene quel che finisce bene» esclamò battendo le mani.
Erik non seppe trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo e scuotere il capo prima di lasciare la stanza senza aggiungere altro.


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Here, I have a note...

Non mi piace come è venuto questo capitolo, ma dopo averlo cancellato e riscritto un paio di volte mi sono accorta di non riuscire a fare di meglio, visto anche gli “elementi” che ho dovuto usare. E non mi piace particolarmente scrivere dal punto di vista di Graziana, ma quando ci vuole ci vuole...
“Sempre libera...” è una bellissima aria della protagonista femminile de La Traviata in cui lei esprime tutta la sua gioia nell'aver trovato il vero amore. “Or testimoni vi chiamo...” è un pezzo del protagonista in cui da della poco di buono alla donna... diciamo che per Erik era un modo sottile per dare, se non altro, della ruffiana a Graziana. 
Naturalmente, gli altri fenomeni da baraccone del circo ambulante... gli altri, ehm, personaggi della fanfiction torneranno tutti, prima o poi.


Al prossimo mercoledì :-)
I remain, gentlemen, your obidient servant.

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Capitolo 7
*** Il gorgo di imbuto ***


Capitolo sesto
Il gorgo d'imbuto


~ Parigi, 8 dicembre 1877 ~

Nevicava da un paio di giorni. Il prato davanti alla tenuta nobiliare era coperto da un soffice strato bianco che di sera luccicava sotto la luce dei lampioni che contornavano il viale di ghiaia che portava dal cancello esterno al portone dell'elegante edificio poco distante dalla centro di Parigi.
Raoul De Chagny lanciò un'occhiata fuori dalla finestra, restando assorto qualche secondo a contemplare quel pacifico e rassicurante spettacolo.
Il fuoco scoppiettava nel camino, facendo danzare sul pavimento di parquet una calda luce dorata.
Il visconte fece un sospiro sereno e tornò ad aprire il libro che teneva poggiato sulle gambe, The life and strange surprising adventure of Robinson Crusoe. Una storia certamente singolare, che a ben pensarci lo lasciava anche un po' spaventato: come può un uomo sopravvivere a una così profonda e sciagurata solitudine? Si chiese Raoul voltando pagina.
A quel punto, un ricordo tornò ad affacciarsi tra i suoi pensieri, un ricordo che in tutti quegli anni era stato tenuto opportunamente confinato in un angolo buio e remoto della sua testa... un volto, una voce, l'immagine di un lago sotterraneo che sembrava essere fatto di lacrime versate nel corso di una lunga e buia esistenza, la corda ruvida che si stringeva attorno alla sua gola... Christine, la sua bocca su quella di...
Il visconte sollevò la testa di scatto. Quel brutto sogno era finito con le luci dell'alba che avevano intravisto mentre risalivano da quei sotterranei maledetti, non aveva senso rammentarsene meno che mai dopo tutti quegli anni, ora che lui e la sua Piccola Lottie erano così felici.
Si alzò dalla poltrona e si avvicinò alla finestra. La neve continuava a cadere silenziosa, impigliandosi in cristalli bianchi tra gli alberi del giardino. Alle sue spalle c'era l'amichevole tepore che si spargeva dal caminetto, intorno a lui il silenzio rassicurante di casa sua e...
CRASH!
Un rumore di vetri rotti proveniente dal piano inferiore lo fece sussultare, seguito da suoni bassi e concitati, poi dalla voce di sua moglie che parlava in tono leggermente affannato e decisamente mortificato.
«Oh, madame, vi siete fatta male?... GUSTAVE! Torna subito qui!... madame... vi aiuto ad alzarvi?... ah, le palline dell'albero di Natale... Gustave, sta' lontano dai vetri...».
Raoul si strinse nella sua giacca da camera e scese al piano inferiore per controllare cosa fosse accaduto. Quando raggiunse il salone, si trovò ad assistere a una scena disastrosa.
C'erano voluti tre uomini per trasportare fin lì quel grosso abete, come ogni anno Christine non avrebbe rinunciato al divertimento di addobbare l'albero di Natale. L'abete sembrava l'unica cosa ad essersi salvata dalla catastrofe.
La scatola che conteneva gli addobbi, sfere di vetro colorato di ogni dimensione, era caduta e ora il pavimento ai piedi dell'albero era un mosaico di frammenti di schegge scintillanti. Accanto a ciò che restava delle palline decorative, c'era madame Colette, la governante che si era offerta di aiutare Christine ad addobbare l'albero. Addosso a madame Colette c'era la pesante scala di legno che sarebbe servita per mettere il puntale di latta dorata sulla cima dell'abete. In un angolo della stanza, appiattito tra il camino e il muro, c'era Gustave che fissava con uno sguardo indecifrabile sua madre tentare di spostare la scala e aiutare la governante ad alzarsi.  
«Che cosa è successo? È forse entrata una tromba d'aria nel salone?» esclamò Raoul raggiungendo il centro della stanza. Fece cenno a sua moglie di spostarsi, allontanò la pesante scala di legno e aiutò  madame Colette a rimettersi in piedi.
«State bene, madame?» disse Christine con apprensione.
«Sì, viscontessa, mi fa appena male la spalla, non datevi pensiero per me...».
Le due donne puntarono contemporaneamente gli occhi in faccia al piccolo Gustave, che non si era mosso dal suo angolino. Raoul sospirò,
«Cosa ha fatto stavolta?» chiese alzando gli occhi al cielo.
Per tutta risposta, Christine gli mostrò un minuscolo cilindro di cera colorata, uno dei pastelli dell'inseparabile scatola di colori che avevano regalato a Gustave il mese prima e che lui dimenticava abitualmente sparsi per casa. Raoul si figurò la scena: madame Colette non aveva visto il pastello di cera, ci era finita sul col piede ed era scivolata, cadendo aveva urtato la scatola che rovesciandosi aveva urtato la scala poggiata in equilibrio già precario contro il muro.
«Gustave!» esclamò Christine.
«Gustave, hai sentito che tua madre ti ha chiamato?» le fece eco Raoul.
Quel bambino era un angelo, lo era nell'aspetto, con quei riccioli biondi che gli danzavano sulla fronte, facendo da cornice al suo bellissimo viso di infante, e lo era nel carattere, sempre buono e gentile con tutti, educato, obbediente e rispettoso. Purtroppo era anche distratto e con il vizio di vivere in un mondo tutto suo, popolato di gallerie d'arte piene dei suoi futuri quadri, o almeno così diceva.
Quando il precettore aveva suggerito ai coniugi De Chagny di trovare un interesse da far coltivare al bambino, Christine aveva immediatamente proposto di assumere un maestro di musica, Raoul aveva risposto con una battuta riguardo al fatto che già sua madre amava troppo la musica e lui non aveva intenzione di dividere anche il cuore di suo figlio con quel tipo di diletto, per cui gli avevano regalato una scatola di colori e un album di fogli bianchi, in attesa di scoprire se il bambino fosse portato o meno per l'arte figurativa, promettendosi che tra qualche anno avrebbero assunto un maestro di disegno, se la cosa lo avesse appassionato. A quanto pare Gustave era più che appassionato e sembrava avere, nel suo modo acerbo e infantile di mettere insieme linee e colori, un certo gusto che forse un domani si sarebbe potuto arrivare a chiamare talento.
Il piccolo si avvicinò ai genitori e strinse le labbra in una buffa espressione contrita. Sollevò i suoi occhi scuri sul volto della governante e sospirò,
«Mi dispiace che madame si è fatta male» disse. «Ma non sono stato io, è stato il pastello a farla inciampare».
Raoul provò così tanta tenerezza per l'espressione e il ragionamento di suo figlio che fu sul punto di scoppiare a ridere. Anche Christine sembrava faticare a mantenere un'espressione seria e severa.  
«D'accordo. Ma devi promettere che starai più attento a non lasciare in giro le tue cose» lo ammonì il visconte fingendo un'aria dura.
«Sì, padre!» rispose meccanicamente il bambino. «Madame Colette, posso darvi un bacino sul braccio per farvi passare la bua...».
La governante sorrise,
«Non ce ne sarà bisogno, signorino».
In quello stesso momento, il maggiordomo entrò con discrezione nella sala, lanciò una rapida occhiata al caos di vetri rotti che subito finse di ignorare, dirigendosi verso il padrone di casa con un vassoio sul quale portava una lettera.
«Per madame» disse rivolto a Christine.
La ragazza prese la lettera, il foglio all'interno era una carta intestata del teatro dell'Odeon.
«Sarà certamente di Meg» indovinò spiegando la pagina e cominciando a leggere.
Meg Giry, la giovane che era stata come una sorella per lei, non aveva mai smesso di volerle bene, neanche dopo che le loro strade si erano separate e avevano portato la piccola Christine Daaè a diventare la moglie del visconte De Chagny e lei a proseguire con la sua carriera di ballerina. Era diventata famosa, quella giovinetta bionda dallo sguardo furbo, il suo talento l'aveva portata a calcare i plachi di tutta Europa in quegli ultimi anni, e Christine era sempre stata felice per lei, tanto che suo marito si era chiesto più volte se il teatro, l'arte, non le mancassero più di quanto aveva dato a vedere, rinunciando una volta per sempre a quel mondo il giorno in cui aveva accettato di sposare lui.
Erano questi timori che facevano temere a Raoul l'arrivo delle lettere di Meg, specie quelle che la giovane Giry inviava nelle settimane che precedevano il Natale. Erano passati sei anni da quando Meg era entrata nella compagnia del teatro dell'Odeon, subito dopo la distruzione dell'Opera Populaire, e ogni volta, nelle prime settimane di dicembre, inviava a Christine una lettera in cui la informava del galà natalizio che si sarebbe tenuto nel teatro e al quale la invitava a partecipare, non come spettatrice ma come cantante; «una volta all'anno, che male c'è? Tanto lo so che ami ancora la musica» le diceva. Ogni volta Christine rifiutava ma Raoul cominciava a pensare che quei rifiuti le costassero più cari di quanto lui poteva immaginare.
Certo che Christine amava ancora la musica! Come avrebbe potuto essere altrimenti? Sua moglie era stata toccata da un miracolo, e la musica scorreva dentro di lei come l'ossigeno che rende l'aria respirabile. Non importava se quel miracolo si era trasformato nell'orribile incubo che avevano dovuto affrontare, non importava se il soffio che le aveva spinto la musica nelle vene era quello di un mostro che aveva minacciato di distruggere le loro vite. Certe cose sono eterne, come certi amori che non smettono mai di agitarsi nei cuori più tormentati...
«Potresti andarci» disse Raoul, quando sua moglie lo informò del contenuto della lettera. Pronunciare quelle parole gli era costato assai caro, il visconte temeva la musica, il teatro, quasi l'arte in generale ormai. Dopo quella notte non era riuscito a fare altrimenti, dopo aver visto a cosa la passione può condurre... perché ne era certo, non era solo l'amore ad aver spinto il Fantasma a bramare Christine, così come era stata la dedizione all'arte a spingere lei nelle sue braccia prima di scoprire la verità sull'Angelo della Musica.
Quello era il gorgo d'imbuto della loro esistenza, dove nessuna felicità sarebbe mai stata abbastanza luminosa da dissipare le ombre.
«Potresti andarci, ti è sempre piaciuto cantare» osservò, distogliendo lo sguardo dal volto della ragazza.
Per un attimo, il viso di Christine si illuminò di una luce tale che Raoul temette di esserne accecato, ma fu un istante breve e fugace, il sorriso che era affiorato sulle labbra della giovane donna sparì prima ancora di sbocciare del tutto.
«No, non ci andrò... non è così importante» replicò con un'alzata di spalle.
Raoul seppe che si trattava di una menzogna e si chiese se era giusto essere grato al cielo che sua moglie riuscisse a reprimere con così tanta lucidità quell'amore mai dimenticato.

*******

~ Napoli, 25 marzo 1871 ~

Era sceso fino all'ultimo livello del sottopalco. Non c'erano corsi d'acqua nascosti né rifugi o passaggi segreti nel cuore della terra dove si artigliavano le fondamenta del San Carlo. C'erano solo i laboratori dei sarti, della falegnameria e degli artigiani che preparavano gli oggetti di scena.
Era sceso a controllare che i lavori stessero procedendo come sperava, ad un ritmo che permettesse di avere tutto pronto per la sera della prova generale.
Era soddisfatto. Davanti a suoi occhi c'era un mondo nuovo che stava lentamente cominciando a prendere forma. Certo, era tutto diverso, forse ancora più fragile di come era stato un tempo. Una volta c'era un mostro che si nascondeva agli occhi del mondo, adesso c'era un uomo che doveva celare agli occhi di altre persone il mostro che si nascondeva dentro di lui, un uomo che doveva dimenticare che le sue mani erano lorde di sangue, che doveva spazzare via il ricordo dell'infelicità che aveva causato e continuare, giorno dopo giorno, a sottostare alle regole di un gioco in cui non era ancora troppo esperto.
Il duca era venuto a fargli visita quel pomeriggio, insieme a sua figlia. Luisa gli era corsa incontro e l'aveva abbracciato, e ancora una volta lui avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto, ma si era ritrovato a posare goffamente una mano sulla schiena della giovinetta e nascondere il fastidio.
Giusso si era intrattenuto a lungo a parlare con lui e, con quei suoi soliti modi sicuri e gentili, era riuscito a convincerlo ad andare a cena a casa sua.
Non era ancora del tutto sera quando Erik lasciò il teatro. Il sole era una sfera dorata, sospesa sul mare, che si apprestava a lasciarsi inghiottire dall'orizzonte limpido. Quando il cielo era così terso, Erik aveva notato che si riusciva a distinguere il profilo dell'isola di Capri stagliarsi al di sopra dell'acqua quasi come un'apparizione.
«State uscendo?» la voce di Marchesi lo colse alla sprovvista, mentre indugiava nei suoi pensieri. Perché diamine il direttore sembrava così perplesso? Forse perché lo immaginava sempre chiuso in quell'ufficio? Lui usciva, trascorreva molto più tempo fuori di lì di quanto quel giovanotto pensasse. Usciva all'alba per guardare il mare, e usciva di notte, per vedere Napoli vivere una seconda vita, dove la miseria che velava il volto della città si addobbava a festa, nei vicoli, nelle taverne, per le strade. Di giorno la città apparteneva ai commercianti, ai signori ben vestiti che attraversavano via Toledo diretti a svolgere i loro affari, ai ricchi turisti stranieri che sostavano all'ombra delle statue di piazza del Plebiscito. Ma di notte Napoli era della sua gente, del popolo, che la riconquistava e la faceva scintillare di una luce nuova che faceva loro dimenticare la fame e le ingiustizie di quel pezzo di mondo che persino il Regno d'Italia fingeva di aver dimenticato.
Le ultime carrozze si attardavano fuori ai ricchi palazzi e alcuni commercianti servivano i loro ultimi clienti mentre la città si preparava ad accogliere la sera.
Erik percorse via Toledo, poi svoltò, camminò per qualche metro e si trovò a costeggiare il muro di cinta del chiostro di Santa Chiara. Infine, imboccò un piccolo vicolo deserto e spuntò direttamente in piazza San Giovanni Maggiore, dove affacciava il palazzo del duca.
Mariano Giusso parlava sempre tanto, ma Erik cominciava ad essere un po' meno sfiancato dall'arte della conversazione. La serata non fu spiacevole e mentre consumava la cena a base di pesce Erik trovò un certo gusto a raccontare al padrone di casa del suo lavoro in teatro.
«Mi dicono che non avete mostrato a nessuno né le scenografie né i costumi. Siete sempre l'uomo a cui piace stupire, eh» osservò Giusso versando a sé e al suo ospite un altro bicchiere di vino bianco.
«Così pare. Ma a sentirvi sembra che sappiate più cose di quante ne so io stesso» replicò Erik.
«Cosa volete farci? Napoli è una città a cui piacciono le storie e più il protagonista è misterioso più la storia fa eco»
«Si raccontano storie su di me?».
Giusso sorrise divertito, mandando giù un sorso di vino,
«Non ne siete al corrente? Avreste dovuto immaginarlo. Ad ogni modo, non si racconta niente di cui possiate dispiacervi, non temete» dichiarò agitando la mano a mezz'aria. «A proposito di storie, raccontatene voi qualcuna a me: la nostra bionda sirena vi ha già rapito il cuore?».
Lo sguardo di Erik si indurì, l'espressione di compita cordialità sparì dal suo viso,
«Non ho un cuore che si lascia portar via con tanta facilità» commentò caustico.   
«Scusate, non intendevo offendervi né impicciarmi nei vostri affari. Ma dicono in giro che Graziana abbia un certo debole per voi e vi assicuro che non siete il genere di uomo che solitamente frequenta».
Graziana... ah, Graziana e la sua voce di strega, e il suo corpo da sirena! Quella donna era tutto ciò che lui avrebbe voluto essere, la invidiava e ne ammirava il talento come non aveva mai fatto con nessuno. Eppure...
«La signorina Rovesti è bella come un'apparizione, canta come un angelo, ma temo sia del tutto priva di...» si interruppe fissando il vino nel suo calice. «Temo sia del tutto priva di anima, se non quella che riversa nel suo amore per il canto».
Giusso annuì,
«Non l'avevo mai sentita descrivere in questo modo, ma credo che abbiate ragione».
Una fitta di gelo attraversò la mente di Erik. Perché il duca aveva quell'aria così compiaciuta e sollevata? Credeva che se la bella soprano del San Carlo gli avesse toccato il cuore, la storia avrebbe potuto ripetersi? Credeva che lui avesse potuto amare alla follia un'altra donna e fare del male per lei? No, una discesa all'inferno è un viaggio che può compiersi una sola volta e, Erik ne era sicuro, poche donne al mondo possono valerne la pena. Il suo viaggio lo aveva compiuto e vi era sopravvissuto per miracolo, la sua prova del fuoco l'aveva già affrontata e miseramente fallita.
«Potete stare tranquillo, duca, non ho altro amore che la musica» sentenziò con una certa ilarità, cercando di ritrovare l'aria rilassata di poco prima.
«Tutto ciò ha un che di monastico»
«Può darsi, ma non mi dispiace».
Giusso tamburellò le dita sul piano del tavolo e sospirò,
«E io invece vi auguro di cambiare opinione un giorno. La musica è un amore di tutto rispetto, una vocazione pari a quella religiosa magari, ma siete pur sempre un uomo» osservò.
Erik strinse le dita attorno al tovagliolo. Il duca non voleva di certo fargli del male, ma non si rendeva conto che certe ferite erano ancora aperte e certe parole non potevano che gettarvi sopra del sale che le faceva bruciare. Cercò di mandare via la voce che ora gli cantilenava nel cervello, la sua stessa voce ferita e amareggiata che rispondeva a quell'orribile, immeritata insinuazione di Christine...

«Il destino che mi condanna a rotolarmi nel sangue mi ha negato anche le gioie della carne...»

Sospirò rigirandosi tra le dita lo stelo del calice, il vino roteò nel bicchiere. Infine riuscì a trovare la forza d'animo di fingere un sorriso noncurante,
«Oramai dovreste ben sapere che non sono un uomo come gli altri».

Era sera inoltrata quando lasciò palazzo Giusso. Il cielo di Napoli era trapuntato di stelle, offuscate di tanto in tanto da qualche nuvola passeggera, ultimo retaggio dei due giorni di pioggia appena trascorsi.
L'aria della sera era un po' umida, quel marzo non si era ancora del tutto arreso alla primavera da poco iniziata, ma Erik trovava sempre piacevole attraversare quelle strade specie quando erano deserte – come accadeva al mattino presto – o quando la gente che vi si riversava era troppo presa dai suoi affari per badare a lui.
Non che basassero a lui, comunque. Erik aveva dovuto prenderne atto; forse era merito del fatto che  in città circolavano storie su di lui che lo rendevano in qualche misura famoso e, per contrasto, lo facevano apparire meno estraneo agli occhi della gente. Forse era perché al mondo lui non interessava, malgrado il suo aspetto reso singolare dalla maschera. Era un pensiero che gli faceva ribollire il sangue ogni volta... quanto male aveva dovuto fargli quel mondo prima di perdere interesse per lui?
Erik si fermò al centro dello spiazzo vuoto, nel punto in cui via Toledo si dipartiva in altre strade secondarie. Alla sua sinistra c'era il teatro, l'uomo lo guardò, poi sollevò gli occhi al cielo e posò una mano avvolta dal guanto sulla superficie di cuoio della maschera.
La luna era una macchia di bianco contro il cielo nero, dal suo contorno si spargeva un opaco riverbero lattiginoso che schiariva il contorno di un piccolo banco di nuvole.
Forse Dio guardava davvero l'umanità dall'altro del cielo, forse stava guardando anche lui adesso. Erik pensò di lasciare che le dita tirassero via quella maschera per gettare contro quel Dio assente e silenzioso l'orrore del suo volto, come una bestemmia, ma alla fine si appoggiò semplicemente con le spalle contro il muro di un edificio e restò a guardare i gruppi di passanti che camminavano sul lastricato di piazza del Plebiscito.
Alla sua sinistra c'era il teatro e c'era una carrozza ferma all'angolo del San Carlo, Erik la notò subito e si chiese a chi appartenesse, chi era che veniva nel suo teatro a quell'ora di sera. Provò quasi un senso di fastidio e si ritrasse nel cono d'ombra proiettato dalle palazzine, a spiare come era abituato a fare quando la leggenda del Fantasma dell'Opera avrebbe fatto tremare persino Apollo sul tetto del teatro parigino.
Dopo qualche minuto la vettura della carrozza tremò come se qualcuno al suo interno si stesse muovendo, lo sportello si aprì e ne uscì un signore corpulento avvolto in un cappotto dal collo di pelliccia.
«Il banchiere Marchesi?» le labbra di Erik formularono perplessi quella domanda retorica, senza che la voce arrivasse a pronunciarla. «Che diavolo fa? Viene a controllare il giocattolo di suo figlio anche di notte?».
Un istante dopo, il Fantasma capì che Marchesi non era affatto lì per controllare e che evidentemente il teatro doveva essere l'ultima delle sue preoccupazioni. Erik vide la figura in bianco attraversare il colonnato e dirigersi verso la carrozza. Spariva per un attimo dietro a un pilastro e poi riappariva, poi spariva nuovamente dietro al pilastro successivo, in uno sfarfallio di stoffa chiara, come uno spettro. In realtà si trattava di una donna, dal momento che aveva indosso un lungo abito dall'ampia gonna. Attraversò il porticato, scendendo con grazia le scale e volò come una rondine tra le braccia di Marchesi.
A Erik venne quasi da ridere, anche se uno strano senso di delusione e squallore gli ricacciò in gola la risata di scherno che gli stava scappando dalle labbra: Bruno Marchesi aveva un'amante e quest'amante era Graziana Rovesti. Era certamente lei, Erik l'avrebbe riconosciuta anche al buio per quanto si era abituato ad osservarla in quei giorni.
Adesso tutto era chiaro. Ecco perché il banchiere si era premurato così tanto di assicurare al suo poco talentuoso figliolo il posto di direttore di quel teatro, ecco perché aveva la pessima abitudine di contrastare il suo desiderio e di piombare al San Carlo durante le prove. Erik si sentì uno sciocco a non averlo capito prima... ed era questo che forse intendeva il duca quando aveva detto che lui non era il tipo d'uomo a cui Graziana si interessava di solito, lei preferiva i ricchi signori, e magari anche già sposati, così da non dover essere obbligata a legarsi a loro più di quanto fosse necessario per beneficiare della loro posizione.
Restò a fissare i due che salivano sulla vettura e la carrozza che si allontanava verso il lato opposto della strada, verso il Maschio Angioino e i giardini.
Fece qualche passo, incamminandosi verso il teatro. L'aria fresca della sera smuoveva le nuvole ma non riusciva a dissipare quelle che gli ombravano la fronte. Non gli importava – non in quel modo almeno – di Graziana e dei suoi amanti, ma ciò che aveva appena visto gli diede da pensare.
Era certo di essere vissuto troppo a lungo da esiliato, ad essere nient'altro che uno spettatore e anche se aveva visto passare sotto ai propri occhi molte strane vicende come spesso accadeva nell'ambiente dello spettacolo, c'erano molte cose che non capiva. In momenti come quello, Erik si rendeva conto dei suoi limiti, di quanto il non conoscere certe cose gli impedisse di comprenderne altre forse più importanti per sondare un po' più a fondo l'intricato labirinto della natura umana.
Le donne, ad esempio. Ne aveva amata... ne amava... una, quel sentimento lo aveva reso folle e cieco, lo aveva portato a distruggere quel po' di buono che era riuscito a preservare dal suo personale inferno fino a quella notte. Ma quell'amore era un sentimento unico, nato dal buio, tra le righe di una favola, era diventato così forte e prepotente perché era l'unica sua ancora di salvezza, aveva contato così tanto perché quella donna era l'unica nella quale poteva sperare...
Erik spinse le mani nelle tasche del soprabito. Il mondo delle persone normali proprio non faceva per lui! Non solo quelle persone erano artefici delle loro stesse condanne e delle loro prigionie, ma su certe cose si comportavano come se non avessero scelta, quando invece avevano tutte le opzioni possibili sotto i loro occhi. Perché una donna come Graziana, che avrebbe potuto far innamorare di sé chiunque, che avrebbe potuto rubare la luce alle aureole degli angeli e illuminare la propria anima e quella di chi le stava vicino, aveva scelto una condotta così bassa? E perché un uomo avrebbe dovuto prestarsi a quel gioco così umiliante e accettare la compagnia di una donna che, era palese, amava di lui solo il suo denaro?
Le parole inopportune del duca risuonarono nella sua testa come a suggerirgli una risposta.

… ma siete pur sempre un uomo.

Ah, era dunque questo quello che facevano gli uomini? Cedono per le promesse vuote di un bel viso di donna pronto a sorridere a comando? E cedono per cosa poi? Per il piacere, per quelle gioie delle carne?
Erik ora aveva voglia di ridere di se stesso e per tutto ciò che sfuggiva alla sua comprensione. La passione gli aveva avvelenato la mente come la più letale delle pozioni venefiche, l'urgenza di un contatto umano più profondo e la curiosità per i piaceri che gli erano stati negati talvolta lo avevano tormentato nelle lunghe notti di Parigi, ma lui...

Sei uno sciocco sentimentale...

La voce nella sua testa si faceva beffa di lui e aveva ragione. Forse non era propriamente un sentimentale, ma aveva sempre conservato un'idea così alta e idealistica dell'amore che gli aveva impedito di cedere alla tentazione di un'esperienza che gli sarebbe sembrata vuota se vissuta senza sentimento. Per questo non aveva mai ceduto alle donne di malaffare che attendevano fuori alle taverne nei bassifondi di Parigi, quei vicoli torbidi così terribilmente vicini al palazzo dell'Opera.
Ma forse, chissà, era tempo di cambiare idea, pensò con una punta di bieco sarcasmo rivolto a se stesso.
Guardò l'ingresso del teatro e pensò che non aveva voglia di tornare nei suoi alloggi. Non voleva restare da solo, in silenzio, non quella sera almeno, aveva bisogno della voce di Napoli, quella cacofonia di suoni provenienti dalle taverne e dai vicoli più reconditi che urlavano al cielo quanto quella città fosse viva. Voltò le spalle al portone e osservò le palazzine che perimetravano il quartiere che si trovava davanti al San Carlo, uno dei peggiori della città, così  dicevano. Si ricordò che durante le sue gite notturne non era mai stato lì e pensò che fosse ora di rimediare a quella mancanza.
Si infilò in uno stretto passaggio tra due edifici e si incamminò nella ragnatela di vicoli avvolti dalla penombra.
Il quartiere era un intricato labirinto di stradine strette sulle quali affacciavano palazzi dalle facciate malridotte. Alcune di queste costruzioni erano vuote, con assi di legno inchiodate alla meno peggio per sbarrare porte e finestre cieche, ma altre erano abitate e dalle aperture usciva la luce di candele e lampade che lottava fieramente contro il buio, quasi riuscendo a vincerlo.
A guardarsi bene in giro si sarebbe giurato che persino il sole si teneva a distanza da quel quartiere. Le strade con il ciottolato rovinato erano un tappeto di pozzanghere formate dalla pioggia che era caduta nei giorni precedenti e che aveva reso opache le acque del mare. Quello doveva essere il gorgo di imbuto della città, dove la luce non arriva, in qualsiasi direzione la si punti.
Anche se era molto tardi, c'era un odore di cibo che usciva dalle porte di alcune bettole. Un odore gradevole che contrastava con l'aspetto squallido di quei posti di cui Erik riusciva a scorgere l'interno attraverso le porte aperte che immettevano in stanzoni arredati da tavolacci tarlati e sedie spaiate. Sembrava che in quel posto tutte le porte fossero aperte e l'uomo si chiese come era possibile vista la brutta fama di quel quartiere.
La stradina che aveva imboccato sbucava in una piazza sulla quale affacciava una taverna con una vecchia insegna dipinta di azzurro, scorticata in alcuni punti, che recava la scritta in lettere blu: Notte 'e vierno. Alcuni avventori erano seduti a un lungo tavolo rettangolare, addossato alla parete esterna e bevevano del vino in bicchieri cilindrici di vetro scheggiato. Parlavano a voce alta, ma Erik non riusciva a capire cosa dicessero, trovava veramente ostico il dialetto napoletano, lo sentiva parlare dagli inservienti a teatro e a volte lo aveva sentito anche dal duca e da Gugliemo, c'erano alcune parole che assomigliavano al francese e, andava detto, era una lingua assolutamente musicale con tutti quelle vocali accentate a fine parola, che sarebbe andata benissimo per comporre ballate e poesie, ma non era una lingua facile da assimilare, né era facile imitare la sua pittoresca inflessione.
Erik voltò la testa a guardare il lato opposto della piazzetta. C'era una palazzina dall'aria talmente graziosa da sembrare dipinta su un muro, la sua facciata di mattoni di tufo dal caldo colore giallo stonava terribilmente con l'ambiente circostante. Era un edificio a tre piani, con alcuni balconi dalle elaborate ringhiere di ferro battuto adorne di fioriere di terracotta dalle quali spuntavano gerani rossi e rosa che cadevano verso il basso come boccoli di una parrucca. Il portone della palazzina era uno dei pochi in quelle strade ad essere chiuso, accanto al battente c'era una targa di ottone ossidato con la scritta: l'Araba Fenice.
Il portone era di legno scuro, con un battente a forma di testa di leone. Si aprì all'improvviso ed Erik ebbe la fugace visione di un ingresso sfarzoso, illuminato a giorno e pieno di sofà damascati e vasi di fiori.
«Eh, vi conviene 'e trasì» esclamò rivolto a lui uno degli uomini che era seduto fuori dalla taverna.
'e trasì, "di entrare" riuscì a discernere Erik.
«Solo i signori ponno trasì. Beati voi» aggiunse l'uomo con una risata allegra, priva di malizia.
Erik si ritrovò a ricambiare il sorriso quasi senza accorgersene. Da quanto tempo non sorrideva?
Quello doveva essere un bordello, intuì. Aveva visto altre case di malaffare in quel quartiere e in altre strade di Napoli ma evidentemente quel luogo era davvero riservato ai signori, come aveva detto l'uomo della taverna.
Restò a fissare la facciata di mattoni di tufo per lunghi secondi. Un pensiero cominciò a farsi strada nella sua mente, prima indistinto e flebile poi sempre più netto.
Avrebbe potuto entrare lì, perché no? Avrebbe potuto trovare una donna graziosa con cui passare la notte e...
Il portone si aprì di nuovo, ne uscì una giovinetta al braccio di un signore ben vestito. Quando lo sguardo di Erik arrivò a posarsi sul viso della ragazza per poco non gli venne un conato di vomito. Era... era davvero Fede, la cameriera? Era possibile che fosse lei? Aveva al collo lo stesso piccolo ciondolo  con l'ancora, il cuore e la croce.
Quando la ragazza gli passò accanto, parlando con fare civettuolo al suo accompagnatore, Erik notò che era più magra di Fede, con un volto più affilato, ma per il resto era identica a lei. Se non era la ragazza che lavorava a teatro doveva certamente essere sua sorella gemella.
L'uomo si voltò a guardare la giovinetta e il signore sparire dietro l'angolo, la sua mente mise insieme i pezzi e lui riuscì a dedurre che Fede aveva una sorella che lavorava in quel bordello, forse era da lei che venivano i soldi che l'inserviente del teatro aveva in tasca quella mattina, per questo li aveva definiti “soldi sporchi”.
Erik si portò una mano alla tempia, sentì i primi segni di quella che sarebbe certo diventata una brutta emicrania cominciare a manifestarsi. Quel mondo era folle, folle quasi quanto lui, e forse era per questo che non riusciva ad andarci d'accordo.
Lanciò un'ultima occhiata alla facciata della palazzina che aveva davanti, sentendosi a disagio per i pensieri formulati poc'anzi, poi si voltò e si incamminò sulla via del ritorno.     
 

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Here, I have a note...

“Notte 'e vierno” sta per “notte di inverno”

Erik, le donne e il sesso... mi domando perché io mi voglia andare a impergolare in certi viaggi labirintici e senza possibilità di ritorno... io ho una mia visione della faccenda, tra l'altro l'avevo già espressa nella precedente long-fic Quanta più notte che può: nella mia testa Erik ha un'idea talmente alta dell'amore che, nonostante tutto, gli impedisce di pensare al sesso come una cosa fine a se stessa (tra l'altro, se così non fosse stato, non voglio pensare a cosa avrebbe potuto fare a Christine sconvolto com'era quando l'ha portata nei sotterranei dopo il Don Juan), motivo per cui non ha mai ceduto alla tentazione. So che ci sono diverse “scuole di pensiero” sull'argomento... e ognuno può interpretare come vuole... ma questa fanfiction è mia e tra queste pagine si interpreta a modo mio! XD

In generale io ho una mia visione di Erik e del suo rapporto con tutte le “altre cose” che è molto... mia, per l'appunto e che è quella che poi viene fuori quando scrivo fanfiction. Cose che succedono quando si ha a che fare con i personaggi di un musical, che possono risultare un po' più “nebulosi” di quelli di film e romanzi.


Al prossimo mercoledì ^^

I remain, gentlemen, your obidient servant.

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Capitolo 8
*** Incontri ***


Capitolo settimo
Incontri


~ Parigi, 30 aprile 1892 ~

C'era un sole primaverile che filtrava a malapena dagli scuri, disegnando linee spezzate di luce e pulviscolo nella penombra della stanza.
Louis era ancora in un piacevole stato di dormiveglia, attraverso le palpebre socchiuse, i suoi occhi velati di sonno potevano scorgere distintamente lo sbuffo di rosso tra il bianco delle lenzuola e il rosa pallido di una schiena nuda.
Ah, le donne parigine! Se qualcuno glielo avesse detto prima...
La sera precedente, aveva passato molto tempo seduto a un tavolo del Messidor. Attorno a lui, gli altri clienti chiacchieravano, ma Louis era rimasto seduto da solo, in silenzio a rigirarsi tra le mani il bicchiere di cognac che nemmeno aveva voglia di bere.
Le ultime pagine del diario di suo padre lo avevano lasciato perplesso. Aveva letto delle prove de La Traviata, di Graziana Rovesti, della cena a casa del duca e di tutte quelle riflessioni sulle donne e su ciò che Erik non conosceva. Louis aveva impiegato qualche minuto per assimilare la cosa, ma quando aveva riposto il diario nel cassetto, prima di uscire, si era trovato a fare i conti con un pensiero che gli sembrava sempre più scioccante, minuto dopo minuto. Suo padre non aveva mai avuto una donna prima di allora, prima di quella strana primavera del 1871 di cui il ragazzo stava leggendo nel diario, quando aveva già superato i trent'anni di età. Louis stentava a crederlo.
In realtà, Erik non gli era mai parso troppo sensibile al fascino femminile, questo Louis lo aveva sempre notato, e gli era stato quasi di peso avere un padre che non mostrava alcuna complicità per le piccole vicende amorose del figlio, che anzi criticava con una certa asprezza la sua leggerezza in materia di donne. Ma Louis aveva sempre creduto che fosse perché Erik aveva un affetto profondo e sincero per sua madre e quindi trovava vuote e biasimabili le sue avventure.  
Quella sera, seduto al tavolino del Messidor, Louis aveva cominciato a chiedersi se suo padre non avesse avuto sempre ragione sulla questione delle donne, che un uomo dovesse impegnarsi con una persona e dedicarsi unicamente a lei. Eppure il ragazzo trovava inconcepibile l'idea che fino a trentatré anni, Erik non avesse mai avuto una donna... era per la faccenda della maschera? Era per quella donna di cui nel diario non era mai scritto il nome? O forse era per entrambe le cose? Louis non aveva abbastanza elementi per dare una risposta a queste domande, che si andavano ad aggiungere a un elenco di questioni irrisolte che si infoltiva ad ogni riga del diario.
«Non vorrei disturbare, ma è un po' tardi» aveva detto il padrone del bar, strappandolo alle sue riflessioni. Il ragazzo si era trovato a chiedersi da quanto tempo fosse seduto lì a rimuginare, attorno a lui tutti gli altri tavolini erano vuoti, e non aveva nemmeno finito il suo cognac.
Si era scusato con il barista, aveva bevuto d'un fiato il liquore e si era avvicinato al bancone per pagare.
«Mi aspetti? Devo solo sistemare i tavoli poi vado via» aveva chiesto Magdeleine, la cameriera dai capelli rossi. A Louis era bastato poco per capire che si trattava di una proposta bella e buona.
Magdeleine aveva sistemato i suoi tavoli ed era uscita portando con sé una bottiglia di liquore, sottratto dalla cantina. Dopo un breve tratto di strada insieme, si era deciso che la bottiglia e la ragazza avrebbero trovato un'ottima collocazione in casa di Louis per quella sera.
Il ragazzo si rese conto di aver esagerato con il liquore solo la mattina dopo, quando aprì gli occhi e si rese conto che la testa gli faceva un gran male. Ma ne era decisamente valsa la pena.
Magdeleine stava ancora dormendo profondamente accanto a lui e il ragazzo pensò che non aveva la benché minima voglia di alzarsi, anche perché era quasi certo che se lo avesse fatto la testa gli si sarebbe staccata dal collo.
Restò steso, con le mani incrociate dietro la nuca a fissare il soffitto e a pensare che forse suo padre non aveva affatto ragione sulla questione delle donne. Ma suo padre era stato innamorato – della donna senza nome e certamente anche di sua madre, Louis no.
I colpi alla porta gli suonarono nelle orecchie come la musica di un'orchestra composta solo da tamburi e grancasse.
«Louis, sono io, Gustave!» esclamò una voce squillante dal ballatoio davanti all'ingresso.
«Oh, no... me l'ero dimenticato» mugugnò stropicciandosi la faccia.
Magdeleine accanto a lui alzò lentamente la testa. I capelli spettinati sembravano fiammelle di candele che le danzavano sul capo.
«Che succede?» chiese con voce impastata.
«L'undicesima piaga d'Egitto» le rispose lui, lanciando via le coperte e afferrando i primi vestiti che riuscì a trovare, sparsi sul pavimento dalla sera precedente.
Gustave bussò di nuovo.
«Louis, sei in casa?».
Magdeleine strabuzzò gli occhi arrossati.
«Chi è?» domandò ancora.
Louis sospirò pesantemente.
«Perdonami» le disse con una certa dolcezza. «Mia madre dice sempre che a fare del bene non si sbaglia mai ma ho la sensazione di aver fatto un madornale sbaglio. Rivestiti, a lui ci penso io».
Così dicendo si fiondò fuori dalla camera da letto, curandosi di chiuderne la porta. Ciondolando attraverso la sala, arrivò alla porta d'ingresso e l'aprì con un gesto secco.
«Gustave, in nome di Dio, vuoi smetterla di urlare!» borbottò guardando in cagnesco il suo ospite fermo sulla soglia.
Gustave De Chagny accennò un sorriso,
«Non sto affatto urlando» dichiarò. «È la sbronza che ti da questa impressione».
«Sì, sì, come ti pare... entra e non dare fastidio».
Il ragazzo biondo aveva sotto braccio la sua cassetta di colori. Sul pianerottolo erano ammucchiati un cavalletto e delle tele. Louis si chiese come gli era venuto in mente di proporre a quello strano giovane di continuare a usare la mansarda come studio, anche se ora lui vi abitava.
Gustave si tolse il cappello, liberando la massa di ricci biondi. Perché diamine non si tagliava quei capelli impossibili?
«Sembri un putto dipinto male» commentò bieco Louis.
«Mi dai una mano a portare dentro quelli?». Gustave indicò gli oggetti lasciati sul ballatoio, il suo ospite sgranò gli occhi.
«Certamente!» gli fece sarcastico. «E monsieur gradisce anche una tazza di tè, o magari una spazzolata alla criniera?»
«I capelli me li ho già pettinati, grazie».
Louis lo fissò basito, chiedendosi se quella fosse una replica ironica alla sua battuta o se Gustave facesse sul serio. Non era ancora riuscito a capire se quel De Chagny fosse stupido di natura o se il suo era un atteggiamento costruito per risultare simpatico.
Dopo il loro primo e rocambolesco incontro, lo aveva rivisto per caso ad una mostra di pittura che aveva deciso di visitare durante una delle sue passeggiate. Gustave lo aveva riconosciuto in mezzo ai presenti, era andato a salutarlo e aveva incominciato, dal nulla, un discorso sulla pittura degli impressionisti. Un discorso del quale Louis aveva capito ben poco, non era mai stato molto bravo in quel genere di cose, ma la passione e il trasporto con cui Gustave parlava di quegli argomenti lo avevano intenerito. Da quando lo aveva incontrato quella sera nella mansarda, non era riuscito a fare a meno di pensare a quanto possa essere tremendo avere un genitore che ostacola le aspirazioni artistiche di un figlio. Forse il visconte De Chagny temeva che il ragazzo prendesse una brutta strada e si accodasse al movimento bohemiens che aveva rapito il cuore a un sacco di giovani di buona famiglia, scappati di casa per mettersi a fare gli artisti. Louis poteva comprendere la preoccupazione del padre di Gustave, ma trovava comunque inconcepibile che gli si proibisse di dipingere, per questo gli aveva offerto di continuare a usare la mansarda come studio, anche se lui ci viveva.
Gustave non si era lasciato convincere subito, aveva replicato che quella era casa sua adesso e che lui non voleva essere di disturbo. Allora Louis gli aveva proposto uno scambio: la mattina Gustave sarebbe venuto da lui a dipingere – purché se ne stesse in un angolo, davanti al balcone possibilmente in silenzio – e al pomeriggio lo avrebbe accompagnato in giro per Parigi, dato che a lui serviva una guida, i suoi giri senza meta e senza scopo per la città cominciavano a diventare noiosi.
Stavano ancora trasportando dentro casa tutto l'armamentario da pittore, quando Magdeleine uscì dalla camera da letto.
«Buongiorno, mademoiselle» la salutò galantemente Gustave.
La ragazza gli sorrise,
«Buongiorno a voi» disse, per poi dirigersi verso Louis. Gli circondò le spalle con un braccio, lo attirò a sé e lo baciò con foga. «Conto di rivederti, sappilo» gli intimò prima di sparire oltre la porta.
Gustave, che aveva ritenuto opportuno voltarsi verso il balcone, fingendosi interessato al colore del cielo, fece una mezza risatina.
Louis gli lanciò un'occhiataccia,
«Rammenti quando ti ho detto che devi stare in silenzio? Ecco, comincia da subito» gli gracchiò contro.
Gustave fece finta di nulla e cominciò a sistemare il suo cavalletto in modo da sfruttare al meglio la luce proveniente dal balcone.
«Ho detto di te a mia madre» disse al suo ospite dopo qualche secondo di silenzio. «Ha trovato assolutamente adorabile il tuo gesto di lasciarmi usare la casa... lei è contenta che io dipinga. Qualche volta devo fartela conoscere».
Louis pensò non aveva alcuna voglia di conoscere la madre di Gustave, non avrebbe voluto conoscere nessun parente di Gustave se c'era la probabilità che somigliassero a lui anche lontanamente.
Ignorando il ragazzo che cominciava ad armeggiare con la tavolozza di colori, Louis prese il diario, si sedette sul tavolo della sala e cominciò a leggere. La pagina che aveva davanti portava la data del 29 marzo 1871.

È sera, la pioggia insistente mi ha costretto a rimanere nei miei alloggi, nel teatro. Potrebbe anche essere un bene, non fosse che non ho alcuna voglia di suonare. Era tempo che non mi concedevo qualche ora di totale inattività, fin da quando sono giunto qui al San Carlo mi sono sempre dato da fare, forse nel timore che se mi fossi fermato i pensieri sarebbero tornati ad assalirmi. Ma ormai comincio a pensare che non ci sia alcuna via di scampo ai ricordi, certi debiti non si possono saldare.
Talvolta ho l'illusione che la mia vita sia un po' vicina a quell'idea di normalità che tanto mi affascinava un tempo, ma basta un niente e tutto torna oscuro e distorto. Come stamane... ho fatto un incontro e...  

Lousi sospirò. L'umore di suo padre era sempre stato altalenante, anche nei momenti migliori. Ma a volte leggere quel diario gli dava le vertigini per quanti scossoni sembravano ricevere le emozioni di Erik nei giorni in cui aveva scritto quelle pagine.
Sollevò lo sguardo e fissò Gustave intento a mescolare delle tempere. Forse non era stata poi una cattiva idea invitare lì quel ragazzo. Forse cominciava a sentirsi solo e malinconico come le pagine che aveva tra le mani ed era un bene avere accanto qualcuno che lo distraesse.

*******

~ Napoli, 29 marzo 1871 ~

Dopo un paio di giorni di sereno, la fine di quel marzo si preannunciava nuovamente all'insegna del brutto tempo.
Anche nella flebile luce di quell'alba non ancora sorta, Erik poteva vedere le gocce di pioggia disegnare minuscoli schizzi sul lastricato che pavimentava piazza del Plebiscito. Non trovò la cosa particolarmente rilevante, non abbastanza da indurlo a rinunciare alla sua passeggiata, quella era la sua personale via di fuga, un piacere del quale non si sarebbe privato per quattro schizzi di pioggia.
Una leggera brezza stava già cominciando a mandare via le nuvole più pesanti quando Erik raggiunse il lungomare. Nubi grigie si stavano ora addensando sulla cima del Vesuvio, l'imponente vulcano che torreggiava sul golfo di Napoli, visibile da ogni punto della città, tanto da apparire quasi come un monumento rappresentativo, come il Colosseo di Roma o le piramidi d'Egitto.
Il cielo plumbeo, insieme al riflesso dei primi raggi di sole, faceva sembrare il mare un'enorme lastra di piombo accartocciato. Il vento faceva alzare onde schiumose che si abbattevano contro gli scogli sollevando grossi schizzi di spuma dall'odore salmastro.
Erik inspirò profonde boccate di aria di mare e, come gli capitava ogni mattina, si sentì in pace. Restò qualche minuto fermo, appoggiato al parapetto. Il profilo dell'isola di Capri era scomparso, inghiottito da un orizzonte cupo. Alla sua destra vide la ormai familiare sagoma squadrata di Castel dell'Ovo e decise che quella mattina si sarebbe spinto fino all'antica costruzione.
Gli toccò camminare più a lungo di quanto aveva previsto, quel vecchio edificio non sembrava così lontano in linea d'aria, ma la strada seguiva la curva della riva e rendeva quella meta un po' più distante di quanto la si sarebbe detta.  
Il castello sorgeva immenso e maestoso su un isolotto, lo scoglio di Megaride, collegato alla terraferma da un sottile istmo di roccia di tufo sul quale era stato costruito un passeggio con un alto parapetto di pietra e sopra di esso dei basamenti sui quali poggiavano alti lampioni. Era da quell'isolotto che era nata la città, lì erano approdati i greci e lì dimorava la sirena Partenope che aveva dato il nome al luogo destinato a diventare Napoli. Quelle mura aveva tenuti prigionieri rivoluzionari e uomini dell'antica Carboneria e, andando ancora più indietro nel tempo, Corradino di Svevia, la cui morte sulla piazza del Mercato aveva distrutto le speranze di un Italia più forte e unita secoli prima l'avvento dei Savoia.  
Erik guardò ammirato l'imponente struttura di pietra spoglia. Ebbe come l'impressione che il vento, entrando nel castello attraverso le fenditure e le vecchie finestre, ne uscisse poi portando con se l'eco della Storia.
Percorse il lungo ponte con passo lento, riempiendosi gli occhi di ciò aveva dinnanzi. Si fermò a pochi metri dal portone del castello, sentiva il mare rimescolato dalle raffiche di vento come ribollire, infrangersi con sempre maggiore violenza contro le fondamenta del ponte. E al di sopra di quel suono ritmico e graffiante, sentì dei singhiozzi soffocati.
Erano forse le anime delle persone che erano state imprigionate nelle segrete di Castel dell'Ovo? No, di certo era solo un effetto provocato dal vento o forse uno scherzo strano della sua mente ormai troppo avvezza alla follia.
Fece ancora qualche passo, sicuro di sentire quel suono cessare. Ma i singhiozzi provenivano in realtà dalla gola di qualcuno, una donna seduta sul parapetto, era rannicchiata dietro al basamento di uno dei lampioni, per questo Erik non l'aveva scorta subito. Aveva la fronte poggiata sulle ginocchia e le braccia a circondare le gambe. Il vento faceva danzare i suoi ricci corvini allo stesso ritmo delle onde.
L'uomo pensò che fosse il caso di allontanarsi e lasciare quella donna alle sue pene che di certo non lo riguardavano, ma nell'indietreggiare mise il piede su una piastrella di pietra che si stava staccando e questa produsse un sordo schiocco che fece sollevare di scatto la testa della donna.
Il Signore delle Botole tradito da un mattone guasto! Erik non ebbe il tempo di pensarci, perché dovette lanciarsi contro la donna e afferrarla al volo prima che cadesse dal parapetto. Aveva sussultato quando il rumore le aveva rivelato la presenza di un'altra persona e aveva rischiato di perdere l'equilibrio, cadendo in mare.
Erik le circondò il busto con le braccia, trattenendola mentre era già in bilico sul taglio della murata di pietra, poi con uno strattone la riportò sul ponte.
La donna alzò lo sguardo su di lui, aveva gli occhi gonfi e arrossati e un'espressione stranamente irritata. Erik la riconobbe subito come la donna bruna che era venuta quella mattina a teatro e aveva salvato Fede dalle accuse di Graziana.
«Vi divertite a spiare la gente?!» borbottò la donna spingendolo debolmente via da sé.
«La parola grazie non è contemplata nel vostro vocabolario, signora?» la rimbeccò lui infastidito dal tono irritato della sconosciuta.
«Grazie tante, signore. Ma se non mi aveste spaventato non avrei rischiato di cadere!».
La donna gli diede le spalle, i ricci scuri ondeggiarono nel vento come l'ala di un corvo.
«Qualsiasi sia il motivo del vostro turbamento, non vedo perché io debba esserne oggetto» protestò Erik cupo.
«Avete ragione» disse la donna, ma il suo tono di voce non si era addolcito e continuava a dargli le spalle. «Vi chiedo scusa, ma vorrei essere lasciata sola».
Sì, anch'io... pensò Erik. Ecco un'altra creatura fortunata che sciupa la sua buona sorte.
«Una giovane donna di bell'aspetto non dovrebbe starsene da sola a piangere su una murata a picco sul mare» borbottò. Fu come un pensiero, solo che aveva formulato ad alta voce. Non aveva alcuna intenzione di immischiarsi negli affari di quella ragazza, né voleva farle la paternale o gli stava a cuore consolarla. Ma quelle parole gli fuggirono dalla labbra, come un moto di nervosismo che non si riesce a trattenere.
La sconosciuta si voltò a guardarlo, arricciò il naso e strabuzzò gli occhi in una buffa espressione quasi spazientita,
«Una... giovane donna di bell'aspetto? Ah, è evidente che vi interessate ai pettegolezzi della città meno di quanto questi si interessino a voi» commentò con sarcasmo.
«Prego?»
«Voglio dire: non sapete chi sono, ma io so chi siete voi, il Maestro francese del San Carlo. Pensavo non usciste mai dal teatro, almeno così dicono».
Erik scrollò le spalle,
«In questa città si parla troppo, e si raccontano anche troppe menzogne».
Certo che usciva da quel teatro, dannazione! Ogni mattina da quando era lì e ogni notte da quando aveva lasciato palazzo Giusso. Negli ultimi giorni aveva persino imparato a memoria le strade di quel quartiere malfamato in cui la brava gente di Napoli non metteva piede. Ci era tornato tutte le notti dopo la sua prima incursione, tutte le notti era arrivato fino alla soglia del bordello nella piazzetta e ogni notte non era stato capace di varcarla.
«Il fatto è che Napoli è una città a cui piacciono le favole». Ora la voce della donna si era fatta morbida, velata da una leggera tenerezza.   
«Lo dite come se l'amaste molto la vostra città».
Un sorriso strano, colmo di pena, increspò le labbra della sconosciuta,
«Purtroppo...»
«Purtroppo?»
«A volte si ama e si crede di essere ricambiati, quando si scopre che non è così cosa resta? La pena più dolce e il dolore più profondo. Questo è ciò che questa città mi ha fatto e io la amo, sì, anche se è sciocco, sciocco quanto l'aver sperato...». Anche queste parole sembrano pronunciate come se fossero un pensiero troppo pressante che aveva bisogno di essere espresso a voce, anche senza bisogno di orecchie che lo ascoltassero, specie se si trattava di orecchie estranee.
Quelle parole fecero nuovamente sanguinare il cuore di Erik, riaprendo le vecchie ferite che ormai erano veri e propri solchi sulla sua anima, scoprendo carne viva e squarciando la tela dei ricordi, lì dove l'uomo avrebbe voluto che certe memorie restassero sepolte per sempre.
«Capisco...» disse in un soffio.
La donna estrasse un fazzoletto dalla tasca e si asciugò una nuova lacrima che era capitolata oltre le ciglia; fu come se il gesto avesse spazzato via ogni pensiero triste,
«Dio, che stupida, sto qui ad annoiarvi con i miei problemi!» esclamò cercando di darsi un'aria più allegra.
L'uomo non ebbe tempo di prestare attenzione a quel repentino cambio di umore e atteggiamento.
«Lucia!» chiamò una voce proveniente dall'estremità del ponte. «Lucia! State qui, mannaggia 'a capa vostra, tornate a casa, ja', che c'abbiamo da fare».
Erik e la ragazza si voltarono, scorsero una donna anziana avvolta in un cappotto liso e troppo grande per lei.
Lucia agitò una mano in direzione della donna, poi si voltò verso Erik.
«Arrivederci, Maestro, spero passiate una buona giornata» disse sbrigativa, prima di voltarsi e camminare a grandi passi verso la donna che l'aveva chiamata.
«Buona giornata a voi, signora» le rispose, guardandola allontanarsi e chiedendosi cosa mai poteva essere capitato a una donna che, a prima vista, sembrava avere tutte le fortune del mondo.

*

Guglielmo sentì il borbottio dell'acqua bollire tra le pareti metalliche della caffettiera posata sul fornello. Un filo di fumo sottile si levò dal beccuccio e soffiò nell'aria l'aroma del caffè.
L'uomo sorrise deliziato, prese un panno e vi avvolse il manico della caffettiera per non scottarsi. Sistemò con cura le due tazzine di porcellana sui piattini dal bordo dorato, la zuccheriera, i cucchiaini d'argento e i fazzoletti al centro del vassoio, versò il caffè e contemplò compiaciuto la sua opera.
Era quasi sera, le prove erano finite, il teatro si stava sgombrando e lui aveva bisogno del suo personalissimo angolo di piacere in tazza prima di tornare a casa.
Afferrò il vassoio e si diresse, canticchiando tra sé e sé, verso l'ufficio del Maestro.
Non che potesse vantarsi di aver compreso molto di quell'uomo ombroso, ma non poteva fare a meno di ammirarne la competenza e la dedizione che metteva nel suo lavoro. Era severo con i cantanti durante le prove, ma quegli artisti, che a Guglielmo erano parsi già abbastanza competenti mesi prima, stavano facendo straordinari progressi sotto la sua guida.
Quello di Erik era un genio nato per stupire il mondo, e Guglielmo si chiedeva spesso come mai il suo nome non fosse già uno dei più famosi in Europa, perché non gli era mai stata assegnata la direzione di un importante teatro. Certo, doveva esserci qualcosa di terribile nel passato di quell'uomo, come doveva esserci qualcosa di... sgradevole sotto quella maschera, lo aveva capito da tempo, eppure non gli importava affatto. Il talento del Maestro era così splendente da lasciare in ombra qualsiasi altra cosa lo riguardasse e Guglielmo cominciava a credere che ci fosse del buono in lui, più di quanto egli stesso pensava. Il Maestro francese non era l'unico ad essere un buon osservatore, anche Marchesi lo era, aveva passato la vita rannicchiato nel suo angolo ad osservare e sapeva cogliere certe sfumature, come il totale rapimento che si disegnava sul volto di Erik quando suonava – perché lo aveva visto suonare, non solo quella sera in casa del duca, ma anche in quei pomeriggi in cui il teatro era vuoto e lui credeva di non essere visto. Una persona capace di trarre tanta bellezza e tanto piacere dalla musica non poteva avere un'anima del tutto guasta, anche se l'anima del Maestro avrebbe forse avuto bisogno di una spolverata.
All'inizio non era stato facile avere a che fare con lui, ma lentamente il giovane Marchesi aveva preso un certo gusto a tirare le parole di bocca a quell'uomo, una ad una, a forza di bevute di caffè. E ne era sempre valsa la pena.
Guglielmo bussò con discrezione alla porta dell'ufficio e attese il permesso di entrare. Una volta dentro, posò il vassoio sulla scrivania, scostando i fogli che si ammucchiavano sempre più in disordine sul piano di ciliegio. Il Maestro non voleva che l'inserviente che gli puliva l'ufficio toccasse nulla dalla sua scrivania e così si era creato quel pittoresco caos di partiture, pagine di appunti e schizzi di disegni, come quelli che ritraevano la ragazza con i ricci e gli occhi lacrimosi, così l'aveva definita Guglielmo, anche se non aveva mai voluto chiedere al Maestro chi fosse il soggetto di quei ritratti e come fosse possibile che la ritraesse sempre uguale, in maniera così meticolosa, pur non avendola lì.
Il direttore allungò il piattino con la tazza verso il musicista francese che lo ringraziò. Guglielmo non aveva ancora capito se a lui piaceva davvero il caffè, ma dalla prima volta che glielo aveva portato, si era reso conto che non sarebbe riuscito ad avvicinarlo in altro modo e quindi quella era diventato il suo pretesto ufficiale per intrattenersi a parlare col Maestro.
«Debbo farvi una domanda, Guglielmo» disse l'uomo mascherato. Certo, lo tempestava continuamente di domande – quando era in vena di conversare, sui vecchi allestimenti delle opere, sul passato professionale dei cantanti e dei musicisti, sui successi e gli insuccessi registrati dal teatro nel corso degli ultimi anni...
«Dite pure, Maestro».
Erik sorseggiò con gusto il caffè caldo prima di parlare. Forse, dopotutto gli piaceva.
«Ricordate la scorsa settimana, quando ci fu quello spiacevole incidente con Fede?»
«Fede... chi?».
Il Maestro non sembrò molto contento nel vedere che lui non ricordava quel nome, ma mica poteva tenere a mente i nomi di tutti quelli che lavoravano lì dentro? A volte il San Carlo sembrava proprio un circo ambulante. Non lo avrebbe mai detto prima di diventarne il direttore.  
Guglielmo attese pazientemente che il suo interlocutore lo illuminasse.
«Fede, l'inserviente che si occupa dei camerini e dei miei alloggi» disse questi, dopo qualche secondo. «C'era stato un malinteso con la signorina Rovesti riguardo a una banconota che si credeva la ragazza avesse rubato. Rammentate?». Guglielmo annuì. Sì, ricordava. Avrebbe voluto morire quella mattina; Graziana così irritata, la ragazzina che frignava e implorava e lui che non sapeva cosa fare, anche se la sua posizione lo rendeva oggetto delle aspettative della signorina Rovesti riguardo al trovare una soluzione soddisfacente... cercò di non pensare a tutte quelle cose sgradevoli e fece cenno al Maestro di proseguire.
«Ebbene, mentre si discuteva la questione arrivò una donna, ho avuto come l'impressione che la conosceste tutti. Ditemi, chi è?».
Guglielmo aggrottò le sopracciglia. Certo, il Maestro non aveva mai mostrato interesse per i pettegolezzi e le cose futili, ed era a Napoli da troppo poco tempo per conoscere tutte le vicende della città. Ad ogni modo, il Maestro non si era mai interessato tanto esplicitamente di niente e nessuno, e adesso, tra le tante persone che avrebbero potuto colpirlo, tra le tante vicende di cui poteva chiedere, voleva parlare proprio di quella donna!
«Perché vi interessa?» gli chiese. La domanda gli venne spontanea anche se non era certo che sarebbe stata gradita.
«Semplice curiosità, l'ho incrociata per strada e mi chiedevo chi fosse».
«L'avete... ehm, incrociata per strada?»
«È quello che ho appena detto. Quindi?».
Oh, non gli piaceva quando si spazientiva, gli metteva paura. Comunque, se era tanto interessato a quella persona, tanto valeva che sapesse la storia... così forse avrebbe orientato altrove il suo raro interessamento filantropico.
«Si chiama Lucia Aiello, da queste parti la conoscono tutti, una volta veniva spesso anche ad assistere agli spettacoli qui in teatro, accompagnava alcuni signori, insomma... ehm, un tempo era la, con decenza parlando, prostituta più famosa e ricercata di tutta Napoli, potremmo dire una meretrice di lusso. C'è un bordello molto conosciuto in una strada nel quartiere qui di fronte».
«L'Araba Fenice?».
Guglielmo trattenne a stento un moto di sorpresa; non credeva che il Maestro conoscesse quel nome, né pensava che fosse tipo da interessarsi alle donne di malaffare. Non gli sembrava affatto tipo da interessarsi alle donne, in generale. Che altro si sarebbe potuto pensare di un uomo che ignorava le palesi attenzioni di quell'angelo di Graziana?
Era come se Erik vivesse esclusivamente per la musica. Ma dopotutto, era pur sempre un uomo, un uomo con una certa strana avvenenza anche, e quindi doveva pur avere i suoi divertimenti al di fuori di quel teatro... o no?
«Lo conoscete quel posto?» non riuscì a fare a meno di domandare. Guglielmo non aveva mai avuto troppo successo con le signore, ma anche così, non gli era mai venuto in mente di frequentare delle case di piacere. Nemmeno l'Araba Fenice. A sua madre sarebbe venuto un colpo e poi, no, decisamente quelle cose non facevano per lui... anche se... l'Araba Fenice, ah, aveva sentito dire cose strabilianti sulle donne che lavoravano in quel posto. E Lucia Aiello veniva proprio da lì, e lui aveva avuto modo di incontrarla spesso a teatro e si era chiesto perché una donna come lei fosse finita a fare la meretrice, una meretrice di lusso, trattata a champagne e velluto, ma pur sempre una che vendeva il suo corpo in cambio di denaro.   
«Non esattamente, conosco il quartiere più che altro. Mi stavate dicendo della ragazza, perché avete detto un tempo? È ancora giovane mi pare» disse il Maestro riscuotendolo dai suoi pensieri.
Guglielmo si sentì sollevato all'idea che Erik non frequentasse case di malaffare.  
«Oh, sì, sì lo è, e suppongo che la si possa trovare bella... se a qualcuno piace, ehm... il genere. Ma, vedete, molti mesi fa, lei fu coinvolta in un incendio e pare che ne porti i segni, per questo ha smesso di esercitare la sua professione»
«Una storia piuttosto triste»
«Sì, molto triste. Ma forse chissà, Iddio ha voluto che la ragazza si salvasse dalla perdizione o qualcosa del genere».
Lo sguardo del Maestro si incupì, la sua voce assunse una strana sfumatura, come di ferocia repressa e allo stesso tempo di pena, quando parlò,
«Credo, onestamente, che la sfortuna sia più spesso la strada migliore per la perdizione, non una via di salvezza» dichiarò, spostando lo sguardo e fissandolo oltre la finestra alla sua sinistra.
«In effetti, credo che la ragazza lavori ancora nel bordello con altre... ehm, mansioni» aggiunse Guglielmo e sentì quell'orribile, familiare sensazione del rossore che gli saliva lungo il collo arrivando ad accendergli le guance e rendendogli le orecchie scarlatte e incandescenti. Dio, quanto doveva sembrare stupido quando succedeva!
Il Maestro, comunque, tornò a guardarlo e gli rivolse un rapido sorriso. Alle sue labbra il sorriso non piaceva, lo trattenevano per un fugace istante e poi lo lasciavano andare, come si tenta di cancellare un pensiero inopportuno.
«Non siate così turbato a parlare di certe cose, non sono mica vostra madre» concluse il Maestro con tono quasi bonario. No, non lo era, e Guglielmo a volte si chiedeva con quale dei due era peggio aver a che fare.   

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Niente da dichiarare su questo capitolo. Ora sapete chi era la donna bruna dell'altro capitolo... fatele ciao ciao con la manina e datele il benvenuto in questo circo ambulante XD
Al prossimo mercoledì ^^

... your obidient servant!

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Capitolo 9
*** Fuoco ***


Capitolo ottavo
Fuoco


~ Napoli, 03 aprile 1871 ~

Lo sguardo le si fissò sulla fiamma dentro le pareti di vetro e metallo della lampada: sembrava così innocua. Sognava il fuoco ogni notte, lo sognava aggrapparsi con dita impietose alla sua pelle, consumarla, violarla, rammentandole che era fragile, come tutti quelli che credeva di essere in grado di consolare.
Lucia distolse lo sguardo dalla lampada che rischiarava la stanza, facendo emergere dalla penombra i disegni della carta da parati azzurra. Dal corridoio veniva il calpestio di tanti passi concitati, al piano di sopra qualcuno stava spostando una pesante poltrona, ogni tanto si sentivano risate provenire da un punto indistinto dell'edificio. Il silenzio non era mai stato una prerogativa di quel luogo, ma non era nemmeno una prerogativa di quella città.
Nei suoi sogni di bambina, Napoli era il centro del mondo, una sconfinata distesa di vita che pulsava sotto l'ombra del vulcano addormentato, tra le carezze del mare. Era una linea scura all'orizzonte, che si disegnava incerta quando saliva sulla sommità più alta della scogliera di Capri, l'isola dove era cresciuta.
Negli anni in cui era stata bambina aveva visto la sua isola riempirsi di turisti, gente che parlava lingue sconosciute ma che guardava con lo stesso identico sguardo ammirato l'acqua cristallina e i superbi speroni di roccia che formavano grotte e cale a pelo d'acqua. A lei non piaceva quell'isola, le stava stretta; Lucia non poteva rammentare il giorno in cui vi era stata condotta per la prima volta, era troppo piccola, ma in cuor suo era sempre stata certa di averla odiata fin da allora. Non avrebbe mai voluto lasciare Napoli, ma aveva tre anni ed era rimasta orfana, così non aveva avuto altra scelta se non quella di raggiungere sua nonna paterna.
Nonna Maruzza era una sarta, viveva sull'isola di Capri in una piccola casa in fondo a una stradina, dove a guardare dalla finestra non si sarebbe detto che il mare era così vicino, tutto attorno a quello sputo di terra. Sua nonna l'aveva mandata a scuola in quella piccola chiesa dove le suore insegnavano a leggere e scrivere ai figli dei pescatori e le aveva regalato un sacco di libri per farle compagnia nelle ore in cui non era impegnata a imparare il taglio e il cucito.
Nonna Maruzza diceva a tutti che sua nipote era una ragazza intelligente e che avrebbe avuto un gran futuro. Ma si era sbagliata.
Lucia aveva sedici anni quando l'anziana donna cominciò ad ammalarsi. La ragazza non era una sarta abile quanto lei e i lavori di taglio e cucito non bastavano a mandare avanti la piccola casa e a pagare le cure per la nonna. Tutto su quella maledetta isola costava troppo perché veniva da fuori, veniva dalla terraferma, dalla città, da Napoli. La ragazza aveva pensato che Napoli potesse essere la soluzione a tutti i suoi problemi, ci aveva creduto davvero, con l'ingenuo ottimismo delle menti giovani.
Erano gli anni dell'Unità d'Italia appena conquistata, la terra era ancora morbida del sudore e del sangue di cui si era impregnata e una nuova speranza sembrava soffiare via dall'orizzonte tutte le nuvole. Ma Napoli, come altre città e come tutto il Mezzogiorno, stava ancora saldando i debiti delle battaglie. Uomini nuovi ridisegnavano il futuro e parlavano ancora di altre guerre e di altre battaglie, lì al nord.
Lucia aveva lasciato sua nonna alle cure delle suore ed era partita. Aveva trovato Napoli avvolta da ombre più dense di quelle che c'erano quando l'aveva lasciata. Un luogo dove la vita era dura e non c'erano molte scelte. E Lucia fece la sua di scelta senza troppi rimpianti.
Nonna Maruzza non l'aveva mai saputo. Lei era lì, sull'isola, a godersi il meritato riposo dopo anni di lavoro, dopo tutto quel tempo passato a prendersi cura di sua nipote, e non avrebbe mai lasciato Capri, per cui il segreto di Lucia era al sicuro.
Guardandosi alle spalle, la giovane donna non aveva mai voluto compiangersi. Non era stata una scelta difficile, nessuna scelta può esserlo quando si rivela l'unica opzione. E non era stato nemmeno troppo brutto all'inizio.
Era finita in quella piazzetta quasi per caso; aveva visto il bel palazzo con i mattoni di tufo dove alcuni facchini stavano trasportando del mobilio nuovo. Aveva pensato che forse lì c'era bisogno di una cameriera. La donna bassa all'ingresso le aveva detto che non volevano cameriere, ma che le avrebbe trovato un posto e qualcosa da fare, se avesse voluto. Lucia aveva capito quasi subito di che si trattava e non si era tirata indietro.
Si era sentita sporca e vigliacca quando la maîtresse Madame Fantine, quella donna bassa che faceva finta di essere francese, aveva contrattato il prezzo della sua verginità. Ma la sera del suo primo cliente, Lucia aveva capito in un solo istante cosa le sarebbe servito per sopravvivere in quel mondo.
L'uomo era un ricco signore di quarant'anni, uno di quegli uomini nuovi in quel Paese dalle idee ancora troppo vecchie per spiccare il volo. Aveva uno sguardo che... c'era uno strano senso di ammirazione in fondo a quegli occhi e c'era una bottiglia di vino nella sua mano. Lucia era restata impalata a fissare in alternanza l'uomo e la bottiglia mentre nella sua mente facevano eco le istruzioni di Madame Fantine ripetute come una nenia. Lui aveva versato del vino per entrambi e si era seduto, poi aveva cominciato a parlare. Aveva parlato per un tempo lunghissimo di cose di cui Lucia non capiva nulla, cose che avevano a che fare con tribunali e titoli di borsa e notizie sul giornale.
«Mi capite, signorina?» aveva chiesto l'uomo dopo una sequela infinita di parole. E lo aveva fatto senza alcun tono di rimprovero, aveva solo bisogno di sentirsi rispondere di sì.
Era questo che volevano gli uomini, dunque? Essere ascoltati, capiti e consolati, con le parole e con le carezze ancora prima che con il piacere? Forse non tutti gli uomini, indovinò Lucia, ma i ricchi signori che frequentavano l'Araba Fenice sì, gente pressata dalla propria vita, dai doveri, dal perbenismo e forse persino dai suoi stessi soldi, che cercava riparo nello sguardo di una donna che non avesse alcuna pretesa su di lei o sul suo nome, una donna che sarebbe stata ben felice di essere dimenticata la mattina dopo e che non si aspettava fiori o doni ma che sapeva gioire come nessun'altra se li riceveva.
Era l'aver compreso tutto ciò che l'aveva resa la migliore, la più desiderata. Non era per la sua bellezza, un tipo di grazia comune a quasi tutte le giovani donne dai tratti mediterranei, e nemmeno per quelle arti amatorie che aveva impiegato tempo ad affinare, era per il modo in cui li guardava mentre le parlavano.
Lentamente aveva persino imparato ad ascoltarli davvero. Non tutti erano patetici e noiosi e poi, quando era diventata così conosciuta e ricercata e aveva imparato ad apparire bella come un gioiello, avevano cominciato a portarla con loro in tanti posti che non avrebbe mai potuto nemmeno guardare dall'esterno. Il teatro, ad esempio.
E poi un giorno, un anno prima, era arrivato un uomo, dalla Francia, un tipo singolare con il sorriso più bello che Lucia avesse mai visto. Dopo tutto quel tempo, la ragazza quasi si vergognava ad ammettere di averlo amato...
Poi, quella sera di sei mesi prima, a quel ricevimento in quella villa di campagna un signore maldestro aveva urtato una lampada accanto a una tenda...
E Napoli ora già cominciava a dimenticarla, come il suo amore francese di un tempo, già fingeva di non riconoscere in lei la donna che aveva cullato con le sue braccia tanti cuori stanchi, che aveva rubato al cielo della città un po' di luce e l'aveva restituita in quella camera dalle pareti azzurre.
Solo Madame Fantine non l'aveva voluta abbandonare, lei era la sua stella del buon augurio: quanti signori disposti a pagare somme indicibili aveva trattenuto nella sua casa?
«Devi insegnare alle altre come fai» le aveva detto. «Mi devi aiutare a mandare avanti questo posto, perché è l'unica casa che abbiamo».
Ed era vero, non c'era altra casa per lei, se non quella di nonna Maruzza, ma lei non poteva tornarci a mani vuote, sconfitta. E non c'era altra casa per tante altre ragazze, e quello che Lucia poteva fare per loro era insegnare a usare qualcosa di più del proprio corpo, perché quello era l'unico modo per non sporcarsi del tutto, per tenersi al sicuro anche da se stesse.
Se non altro, da quando aveva smesso di lavorare, le restava molto più tempo per sé, tutto quello che non aveva mai avuto. Di giorno aiutava a sbrigare le commissioni che c'erano da fare in una casa tanto grande, come il bucato da stendere sul terrazzo e la spesa al mercato. Oppure aiutava Madame Fantine a fare i conti, cosa per cui la maîtresse dell'Araba Fenice non era particolarmente portata. Ma la sera, quando le altre ragazze si intrattenevano con i clienti, lei poteva concedersi il lusso di starsene in camera sua a leggere un libro, oppure uscire e partecipare alla folle e instancabile vita notturna di Napoli.  
Lucia si avvicinò alla finestra. Madame Fantine le aveva permesso di tenere la sua vecchia camera, la più spaziosa della palazzina, anche se era una di quelle prive di balcone. La stanza aveva una finestra che affacciava sulla piazzetta davanti all'edificio, da lì la ragazza osservava il viavai incessante dei clienti della taverna Notte 'e vierno e spiava curiosa tutti quelli che entravano e uscivano dal bordello. Da quasi una decina di giorni vedeva sempre anche quell'uomo, il Maestro francese, spuntare da un angolo della piazzetta, avvicinarsi alla palazzina e fermarsi a qualche metro dalla soglia, senza mai varcarla. Nelle due sere in cui era piovuto a catinelle l'uomo non si era fatto vedere, ma adesso era lì, con i pugni serrati, come a combattere una vecchia battaglia contro se stesso. E sì che quel signore aveva l'aria di essere perennemente in battaglia, contro se stesso, contro qualcun altro o forse contro il mondo intero.
Lucia aveva provato a scommettere quando il Maestro si sarebbe deciso a entrare, ma ormai non era più nemmeno sicura che lo avrebbe fatto. La ragazza ridacchiò, scosse il capo e andò a prendere la montagna di calze e biancheria che aveva da rammendare. C'era sempre un sacco di roba da rammendare in un posto come quello. Tirò fuori la scatola del cucito, con il ditale in argento che le aveva dato sua nonna, e tornò a sedersi, poggiandosi in grembo una piccola catasta di calze e sottovesti.
Dopo forse sarebbe uscita e sarebbe andata ad ascoltare Mastro Pulcinella.

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~ Napoli, 04 aprile 1871 ~

Fuoco. Grida. Orrore... e poi buio. Un silenzio duro e impenetrabile come marmo e poi il ticchettio ritmico di gocce che cadevano su un pavimento di pietra. E poi ancora fuoco, e altre grida, e le lacrime... ah, quante lacrime! Lacrime che si mischiavano alle gocce di umidità e andavano a formare quel lago. E sulla sponda del lago drappi di seta, specchi, candelabri votivi, statue, fogli...
E di nuovo il fuoco, che saliva d'acqua, prosciugandola centimetro dopo centimetro come se fosse olio di colza, si alzava fino al soffitto della grotta, inchiodandolo in quell'inferno per sempre, senza via di fuga.
Una voce tremenda, bellissima, disperata che si alzava oltre il crepitio delle fiamme.

«Angelo della Musica... mi hai tradito...»

E poi la luce, accecante, che lo colpiva in viso come un pugno.

Erik aprì gli occhi, spalancandoli contro quella luce, come a sperare di potervi trovare riparo. Era alla sua scrivania; si era addormentato lì, sul piano di ciliegio, con la finestra aperta dalla quale ora entrava un sole fortissimo che asciugava Napoli dalla pioggia dei giorni passati.
Che ore erano? Ah, si era anche perso la sua passeggiata mattutina. Questo è quello che accade a chi passa le ore notturne a girare senza meta per i bassifondi di Napoli, pensò, come un...

… un fantasma.

Troppe ore di buio consumate a vagare per la città, troppe poche ore di sonno. Forse, dopotutto, stava invecchiando. Forse anche quello faceva parte dello scotto da pagare per la normalità.
Stiracchiò i muscoli della schiena, intorpiditi da quella posa scomoda in cui era rimasto chissà da quanto tempo.
«Maestro». Qualcuno stava bussando alla porta.
Non era Fede, l'inserviente, forse lei era già passata, lo aveva trovato lì e non aveva avuto il coraggio di svegliarlo.
«Maestro, ci siete?».
«Entrate, Graziana» concesse passandosi una mano tra i capelli e stropicciandosi il lato scoperto del viso.
In un angolo della scrivania erano ammucchiati diversi pezzi di legno e ritagli di stoffa che aveva trovato nella falegnameria e nella sartoria quando andava a visionare i lavori degli operai. Aveva deciso che nel tempo libero avrebbe costruito un carillon, lo aveva già fatto una volta e adesso aveva un gran bisogno di impiegare in qualche modo le sue ore di inattività e le sue notti insonni.  
La giovane soprano entrò richiudendosi la porta alle spalle. Come al solito vestiva un colore chiarissimo e la seta della sua gonna frusciava ad ogni passo.
Erik la guardò pensando che Dio dovesse avere un tremendo senso dell'umorismo: creava creature bellissime, gli donava una voce di angelo ma non un cuore. E poi creava i mostri e li dotava di un'anima talmente grande da farli impazzire e di un cuore troppo fragile e malato.
«Buongiorno, signorina. Cosa posso fare per voi?» domandò in tono educato.
Graziana camminò leggiadra fino alla scrivania e si mise a sedere senza attendere alcun invito.
«In realtà, Maestro, è una cosa un po' sciocca e spero non ve ne abbiate a male. Con il rischio di sembrarvi un po' frivola...».

Non lo sembrate, lo siete...

«Con il rischio di sembrarvi un po' frivola, volevo chiedervi di poter vedere il mio costume prima che sia finito» spiegò la ragazza. «So che avete detto che non volete che i costumi e le scenografie siano visionati da qualcuno prima della prova generale, ma io ci terrei molto a poter vedere il mio. È indicibilmente stupido, me ne rendo conto, ma sono... ecco, piuttosto vanitosa riguardo ai miei costumi di scena e non vorrei che la sera prima dello spettacolo, vedendolo, non mi trovassi a mio agio...».
Erik inarcò un sopracciglio. Che non conoscesse affatto le donne, era una realtà con la quale aveva imparato a fare i conti, ma che quella donna in particolare fosse così stupida e civettuola non lo avrebbe mai creduto. Eppure... ah, perché lo guardava a quel modo?
«Ho la presunzione di possedere un ottimo senso estetico. Ho disegnato io il vostro costume e l'ho fatto tenendo ben a mente la persona che doveva indossarlo» concluse l'uomo, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi alla finestra per sottrarsi a quello sguardo maliardo.
«Oh, Erik, vi prego...» insistette lei con il tono più dolce che aveva mai udito nelle parole di una donna.
Erik?... Cosa sperava di ottenere usando quel nome? Se solo avesse saputo quanto gli faceva male sentirlo pronunciare. Se lo avesse saputo forse non avrebbe fatto molta differenza, concluse l'uomo.
Ma gli occhi di Graziana, il modo in cui lei lo guardava, erano quella mano tesa che il mondo gli aveva sempre rifiutato, e adesso gli sembrava così difficile afferrarla e lasciarsi guidare. L'armistizio era arrivato troppo tardi.
«Abbiate un briciolo di fiducia, signorina Rovesti. Vi ho mai deluso?» replicò Erik, continuando a evitare di fissare la sua interlocutrice, pensando con amarezza che quello di scappare e nascondersi era ancora il migliore dei suoi talenti. Non c'erano botole o passaggi segreti, ma c'erano silenzi e parole cortesi o dure, modellate ad arte dalla sua voce.
La sentì avvicinarsi a lui, alle sue spalle.
«In realtà un po' sì» dichiarò la ragazza, ma aveva una voce suadente.
Erik era certo che se si fosse voltato in quel momento e se la fosse trovata faccia a faccia, l'avrebbe scagliata via con tanta forza da farla fuggire fino all'angolo più remoto del teatro. Anche quello era un talento che certamente non aveva perduto. La paura era come la musica, permeava ogni fibra del suo essere e si scagliava contro gli altri, che lo volesse o meno.
«È deludente tutta questa indifferenza» soffiò Graziana contro la sua nuca.
Erik provò uno strano, orribile senso di vertigine, come quello dato da un alcolico troppo pesante. Che diamine...
Quando era successo? Quand'è che si era voltato e l'aveva guardata? E cosa ci facevano le sue labbra su quelle di lei?
Il senso di vertigine si fece più forte, lo prese alla testa e allo stomaco, proprio come una sbornia. Però le sue labbra erano ancora lì. Quella sensazione sgradevole proveniva dal suo cervello, dalla sua coscienza nera probabilmente, ma non riusciva a interrompere quel contatto. Non era stato lui a gettarsi tra le sue braccia, di certo era stata lei. E lei lo teneva inchiodato lì, con i pugni chiusi contro il suo petto.
Qualcosa nella mente di Erik scricchiolò mentre cingeva la vita sottile della giovane in un abbraccio. Era così strano baciare una donna che non aveva il viso bagnato di lacrime. Era così ingiusto che si trattasse di quella ragazza, che profumava di eau de toilette costosa, all'aroma di gelsomino, che aveva labbra di donna, fameliche ed esperte.
Lo scricchiolio nella sua mente diventò il frastuono secco di mura che cadevano, barriere erette in migliaia di giorni di solitudine che cedevano. Dietro quelle mura c'era qualcosa di orribile e doloroso, gelido come il tocco della morte, come la sua pelle quando lui emergeva dai sotterranei.
Poi un barlume di lucidità e di autocontrollo affiorò in mezzo a quel caos.
Erik la spinse via, e dovette fare appello a tutto il suo buon senso per non essere davvero rude. Arretrò di un passo, scoprendo di essere con le spalle contro il davanzale della finestra.
«Non fatelo mai più» sibilò, lo stomaco che si contorceva per una sensazione che non avrebbe saputo identificare. Non era disgustato, come avrebbe potuto esserlo? Eppure si rendeva conto che c'era qualcosa di assolutamente sbagliato in quello che era appena successo. Non solo perché non provava nulla per quella persona, ad eccezione dell'ammirazione professionale. Sentiva il bacio, dolce e appassionato della ragazza, immeritato quanto la bontà del duca, quanto la fiducia di Guglielmo.
Graziana lo guardò basita. Non sembrava offesa, era semplicemente incredula, incapace di spiegarsi il motivo di quella reazione improvvisa. D'un tratto si riscosse e si lasciò scappare una risata allegra e argentina come quella di un infante. Un suono che rimescolò i pensieri di Erik rendendoli un groviglio di sangue, oscurità, dolore, freddo...
«Come se avessi fatto tutto da sola» trillò la giovane scuotendo il capo. Allungò una mano a toccare quella di lui, ma Erik si ritrasse, più spaventato che infastidito.
«Non fatelo» ripeté cupo.
Stavolta la ragazza si mostrò piccata. L'uomo sperò vivamente che non gli facesse una scenata, non avrebbe saputo come arginare un simile ostacolo, non in quel frangente, non con quella sinfonia di distruzione che suonava nella sua mente.
Dio, come si sentiva sciocco! Non si sarebbe mai definito uno stolto eppure da settimane il mondo non faceva altro che minare quella sua certezza, sorpresa dopo sorpresa, come un insieme di colpi di scena in un'opera buffa.
«È colpa mia» disse subito, sentendosi ancora più sciocco, sentendosi uno come tutti gli altri. «Non avrei dovuto. Io non sono il tipo d'uomo adatto a una giovane donna come voi, non voglio che vi facciate un'idea sbagliata. Perdonatemi e dimenticate questa sciocchezza».
Era... ridicolo! Si stava scusando. Lui si stava scusando con una soprano dalla condotta da cortigiana. Sentì lo stomaco ridotto a un grumo in fondo al suo addome.
«Perché siete sempre così... distante? Con me, con tutti? Cosa vi abbiamo fatto? Che vi ha fatto il mondo?» borbottò la donna risentita. Il suo sguardo indugiò sulla maschera; una stilettata di gelo attraversò il cuore dell'uomo.
La pazienza di Erik cominciava ad assottigliarsi. Non voleva che la corda si spezzasse, non in quel momento, non con Graziana. Non voleva che il mostro folle che ancora si agitava dentro di lui si aprisse uno spiraglio attraverso quell'assurdo momento di debolezza, non ora che aveva il suo teatro, una vita alla luce del sole...
«Credetemi, non volete saperlo davvero» disse. La voce gli uscì fredda e tagliente, un pezzo di cristallo gelido.
«Potreste... potreste parlare con me, vi giuro che io potrei...» tentò di dire Graziana. Mentiva, certamente mentiva, lei non avrebbe potuto proprio un bel niente, nessuno avrebbe potuto, meno che mai una donna che aveva per lui un così forte e insensato interesse.
«Non potete. Vi prego, lasciate il mio ufficio e dimenticate questo episodio increscioso» concluse lui con un sospiro stanco, celando la rabbia e la frustrazione dietro uno sguardo impassibile.
Graziana si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, fece un lungo respiro e incrociò le braccia sul petto. Le ci volle ancora qualche secondo perché l'espressione sul suo viso tornasse calma, la bellissima maschera di fata che indossava abitualmente. Ma alla fine quel sorriso roseo ricomparve sul suo incantevole volto.
«Abbiamo ancora molto tempo da passare insieme» osservò con la medesima semplicità con cui si discorre del tempo. «E io sono una persona assai caparbia».
Erik la fissò in silenzio mentre usciva dall'ufficio.
È meglio che non sappiate quanto posso esserlo anch'io, pensò cupamente.

*******

~ Parigi, 4 maggio 1892 ~

Gustave aveva preparato il té, come faceva ogni sera da quando aveva preso a frequentare quella casa. Il liquido ambrato ora fumava nelle tazze di porcellana e lo sguardo di Louis era grave e distante. Quando il suo compagno biondo gli aveva proposto di andare a visitare la torre Eiffel, lui gli aveva risposto che non aveva voglia di uscire e Gustave, con la sua incrollabile calma, aveva messo a bollire l'acqua per il tè e si era seduto di fronte al suo amico.

Amico?...

Questa parola aveva sempre avuto un significato un po' sfuggente per Louis. Non che non avesse compagni di scorribande e colleghi musicisti con cui passare il tempo, lì a Napoli, ma c'erano ombre e fantasmi nella sua vita, spettri che soffiavano da lontano attraverso gli occhi di suo padre, in certi sguardi che lui e sua madre si scambiavano. E di questo Louis non poteva parlare con nessuno.
Eppure in quei giorni aveva scoperto che Gustave era l'anima più affine alla propria che avesse mai incontrato, nonostante avesse un temperamento del tutto diverso dal suo.
«Che cos'hai?» chiese il ragazzo biondo, guardando la zolletta di zucchero affondare nella tazza.
Louis sollevò il capo,
«Temo di aver scoperto qualcosa di non troppo gradevole sul conto di mia madre» ammise, scoprendosi incapace di guardare in viso l'altro giovane.
Gustave fece tintinnare il cucchiaino sul bordo della tazza, scrollando qualche goccia di tè.
«Sì, è capitato anche a me» replicò con un tono serioso che Louis non gli aveva mai sentito.
Il ragazzo moro spalancò gli occhi, stupito: la madre di Gustave, della quale non riusciva a rammentare il nome, era la moglie di un visconte, cosa ci può essere di sgradevole sul conto di una donna del genere?
Gustave si stiracchiò contro lo schienale della sedia,
«La gente chiacchiera» aggiunse con semplicità, quasi come se avesse indovinato i pensieri del suo interlocutore. «Fin da quando ero molto giovane mi ero reso conto che mia madre non era molto ben vista nell'alta società, eppure la nostra famiglia è importante qui a Parigi, però sembra che la memoria delle persone sia una macchina inarrestabile: mia madre una volta era una cantante di teatro. Una cantante che sposa un visconte di Francia è un'anomalia difficilmente perdonabile. Poi si diceva che lei fosse coinvolta nella vicenda dell'incendio che distrusse l'Opera Populaire tanti anni fa... ma non ho mai scoperto se è vero, forse è una delle tante voci messe in giro per screditarla».
Louis aveva ascoltato attentamente il racconto del compagno. Certo, la nobiltà francese non doveva essere particolarmente tollerante, nemmeno quella italiana lo era, ad eccezione di pochi personaggi che comunque erano marchiati come caratteri originali dai loro stessi amici. Louis avrebbe voluto replicare che non c'era motivo per cui una cantante di teatro non poteva essere adatta a un visconte, ma sarebbe suonato insincero: conosceva il mondo del teatro e sapeva quali erano le idee e i comportamenti di molte persone che vi facevano parte. E poi, quello che aveva appena letto nel diario...
«Io invece temo di aver scoperto che mia madre era... beh... ecco, non la persona più raccomandabile del mondo. E dire che pensavo che fosse mio padre quello strano» concluse Louis sbuffando.
«Volesse il cielo mio padre fosse strano!» replicò Gustave come se stesse pensando ad alta voce.
I due ragazzi si guardarono in viso e risero.
«La nostra cameriera prepara un tè assai migliore di questo» disse a un certo punto il giovane De Chagny, appoggiando la tazza sul piattino.
Louis inarcò un sopracciglio con aria sarcastica,
«Non ci vuole molto a preparare un tè migliore del tuo» borbottò canzonatorio.
«Perché non vieni a casa nostra, domani? È da quando ho parlato a mia madre di te che dice che vorrebbe conoscerti»
«Sei gentile, ma non so...»
«Perché no? Basta che non ti lasci scappare con mio padre il fatto che mi ospiti qui per dipingere».
Louis non era convinto che fosse una buona idea, però il fatto che la madre di Gustave fosse stata una cantante lo incuriosiva. Chissà, forse sapeva davvero qualcosa dell'incendio dell'Opera, magari aveva anche conosciuto suo padre...
No, impossibile! Chissà quanto tempo era passato.
«D'accordo, verrò volentieri a bere un tè con i tuoi genitori. Basta che tu non mi metta in imbarazzo chiedendomi di suonare».    


_______________________

E vabbuò, Graziana mi ha baciato il Maestro... non era previsto. Tipico esempio di quando i personaggi fanno tutto di testa loro.
Altro capitolo un po' delirante...
@ Keyra93: oui, deve essere successo qualcosa con il precedente capitolo (tipo quelle cose che faccio io, tipo rileggerlo, sistemarlo e poi non cliccare su salva prima di chiudere il programma di scrittura, o non so...). Appena ho tempo, sistemo tutte le cose schifide che ci sono, grazie per avermelo fatto notare :)

Al prossimo mercoledì!

I remain, gentlemen, your obidient servant.

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Capitolo 10
*** Fantasmi ***


Capitolo nono
Fantasmi


~ Napoli, 10 aprile 1871 ~

Quando Marchesi gli aveva detto che il teatro sarebbe rimasto chiuso in occasione delle festività pasquali, la reazione di Erik era stata piuttosto burrascosa. Quel suo “Come sarebbe a dire?!” lo aveva quasi urlato, tanto che il buon Guglielmo si era rannicchiato su stesso e per poco non si era infilato sotto il piano della scrivania.
L'annuncio che il San Carlo sarebbe rimasto chiuso per ben cinque giorni aveva lasciato Erik assolutamente contrariato. Avrebbe voluto replicare che l'arte non conosce feste e vacanze, ma qualcosa gli aveva suggerito che sarebbe suonato tremendamente fuori luogo. Lui non conosceva feste e vacanze, ed era un problema assolutamente suo. Come molte altre cose, del resto.
Da dietro la scrivania del suo ufficio, Erik controllava e ridimensionava con caparbia precisione i tasselli della sua nuova esistenza, di quella seconda possibilità non voluta, cercando di non prestare attenzione a tutte quelle schegge impazzite che non sapeva ancora dove collocare, alla miriade di cose che sentiva estranee e inconcepibili.
Era questo il mondo di cui aveva sempre desiderato di far parte?
L'uomo cominciava a rendersi conto che non gli importava del mondo, che non gli era mai importato. Ciò che vedeva davanti a sé, ciò che una volta gli era stato precluso, era solo una folla indistinta di occhi e orecchie tese ad ascoltare, ad ammirare il suo genio. Tutto il resto non contava, questo era il solo ossigeno di cui la sua esistenza necessitava, ma per gli altri non era così. Lui era un Fantasma, loro erano persone. Lui era poco più di un'ombra che muoveva le corde di un violino, una voce appena sussurrata che poteva prendere le voci degli altri e portarle fino allo straordinario, facendo brillare il talento altrui di luce riflessa. Al di fuori di quei piccoli grandi prodigi non c'era molto, il trucco che rimaneva nascosto quando finiva la magia era lo squallido riflesso di un nulla incolmabile.
Più ci pensava e più si rendeva conto che non c'era una vera e propria ragione dietro ai suoi gesti, né c'era un motivo valido per quel suo caparbio attaccamento alla vita, un'esistenza alla quale tante volte aveva desiderato di porre fine senza mai riuscirvi. Tutti gli altri invece avevano i loro motivi. Graziana, ad esempio aveva fame di gloria – perseguita magari con fini del tutto opinabili, ma era pur sempre una ragione che dava senso a tutto, anche alle brutture che nascondeva dietro al suo viso di fata. Lui, invece, cosa aveva? Cosa lo muoveva verso la musica?
Fu quasi con raccapriccio che Erik si accorse di non avere una risposta a questa domanda. Lui non si stava muovendo verso la musica, verso niente, lui stava solo fingendo di scappare da un buio e da un silenzio che ormai erano mischiati al suo stesso sangue, che avevano messo radici così profonde dentro di lui da far appassire qualsiasi altra cosa. Persino l'amore che gli aveva avvelenato la mente sbiadiva in mezzo a tutto quel vuoto, ingoiato da un pozzo senza fondo in cui ogni sua emozione precipitava all'infinito, muta e impotente.
La musica, il teatro, lo splendore che stava tentando di imprigionare nelle scenografie e nei costumi che aveva progettato, erano solo lustrini in mezzo alla spazzatura, un velo di vernice dorata che copriva il marciume.
Le sue notti erano costellate di immagini di sangue e fuoco che gli avevano marchiato l'anima, lasciando i segni indelebili del rammarico, del dolore. In quegli incubi Erik vedeva i suoi occhi spegnarsi piano, come quelli degli uomini a cui aveva tolto la vita.
C'era una barriera dentro di lui che arginava tutto quell'orrore, ma adesso la barriera era crollata, ridotta in frantumi dal bacio non voluto di una donna non desiderata. Una donna che aveva tremato di piacere contro il suo petto e che avrebbe tremato ancora di più se quella maschera fosse caduta, se ogni maschera fosse caduta.
Il Fantasma dell'Opera era lì, non se n'era mai andato. La sua voce faceva eco nei suoi pensieri, il suo respiro si agitava nell'eco dei suoi passi, e tutto quel fuggire non era altro che un continuare a nascondersi perché lui non poteva mostrare al mondo ciò che era, non poteva aspettarsi che qualcuno gli posasse una mano sul petto e si rendesse conto che in realtà il suo cuore non stava davvero battendo.
Il sole stava tramontando oltre la cupola della chiesa di San Francesco, gettando nel cielo terso un riverbero quasi dorato. Erik si chiese perché quel mare, che sotto quella luce assumeva lo stesso colore del sangue, non potesse semplicemente giungere fin lì e inghiottirlo, ora che tutti erano andati via, che il teatro era rimasto vuoto per le vacanze pasquali, come aveva detto Marchesi...
Qualcuno bussò alla porta facendolo sobbalzare.
«Non adesso!» ringhiò. Chi diamine era? Non c'era nessuno nel San Carlo.
Inutile, la porta si aprì lo stesso e malgrado la rabbia che rimescolava la nebbia dei suoi pensieri, lo sguardo di Erik si addolcì un po' quando vide chi era stato ad entrare.
La piccola Luisa attese sulla soglia, fissandolo con una certa apprensione. Da dove era saltata fuori? Era una strega quella bambina da avere occhi che sapevano guardare così dentro di lui?
Quando Erik pensava di non aver mai provato pena per un altro essere umano, in realtà era in errore. Aveva provato pena per quella ragazzina, alla quale era toccata quella che gli sembrava una sorte ben peggiore della sua: non avere voce, che infernale supplizio deve essere! Ed era da questa pena che era nato uno strano affetto capace di ammansire il mostro come nemmeno la sua dolce musa aveva potuto fare in quel tempo che ormai appariva lontanissimo.
«Tu... come mai sei qui?» chiese con un filo di voce, sorpreso dai suoi stessi pensieri.
La ragazzina attraversò l'ufficio e si fermò accanto a lui, lo prese per mano e lo tirò verso di sé indicandogli con l'altra mano libera la porta aperta.
«Dove vuoi che venga?» le domandò ancora l'uomo, sentendo che non avrebbe avuto la forza nemmeno di seguirla oltre la soglia.
Luisa si batté una mano sul petto.
«A casa tua? L'idea che io possa avere voglia di stare da solo non è contemplata nei tuoi progetti?».
Lei sbuffò e si strinse nelle spalle, poi sorrise.
No, l'idea non era affatto contemplata e lui avrebbe dovuto adattarsi, che gli piacesse o meno!
«Non verrò con te...».
Luisa gli tirò un buffetto leggero sul braccio e annuì con un energico cenno del capo: sì che verrai!
«PASQUA» articolarono le sue labbra, senza che ne uscisse un solo suono.
«Cosa ti fa credere che me ne importi?».
La ragazzina aggrottò le sopracciglia e lo spinse via in modo brusco. Esasperata, si avvicinò alla scrivania e afferrò un foglio.
IMPORTA A ME, scrisse.
Ah, certo... si trattava di quell'attitudine del tutto femminile di riuscire a mettere gli individui con le spalle al muro. Lo aveva fatto Graziana, letteralmente, e adesso lo stava facendo la ragazzina con un sistema un po' meno brusco. Provava della gratitudine per lei, per la costanza con la quale gli era stata vicino, sommando i propri silenzi ai suoi, senza mai chiedergli nulla, e senza che lui avesse bisogno di fare domande. Luisa sapeva trovare le risposta per entrambi con una caparbietà che lasciava Erik disarmato.  
«Ho ucciso delle persone». La frase fuggì dalle labbra dell'uomo come il primo cristallo di ghiaccio che si stacca dal fianco di una montagna e genera una valanga.
Luisa si fermò, impietrita in mezzo alla stanza, con la mano a mezz'aria che si tendeva verso la sua. Dopo qualche secondo pesante come l'eternità, si mosse, scosse il capo.
«È vero» insistette Erik cupo.
Gli occhi della giovinetta si velarono di lacrime. Qualcosa da qualche parte nella mente dell'uomo andò in frantumi. Il pozzo senza fondo succhiava anche la luce e il calore degli ultimi raggi di sole.  
Che lo vedesse, che vedesse il mostro, che ne fosse spaventata...
Luisa prese un altro foglio.
NON SEI STATO TU, È STATO IL FANTASMA.
«Sono io il Fantasma».
NON PIÙ.
«Non puoi salvarmi, piccola mia, nessuno può».
TU PUOI.

No, non posso...

*

Le prime stelle occhieggiavano pigramente dal cielo che andava scurendosi.
Il duca stava passeggiando avanti e indietro davanti al colonnato del San Carlo, in attesa che sua figlia uscisse e lui potesse scoprire se Luisa era riuscita o meno nel suo intento. Era stato un'idea della piccola invitare Erik da loro per Pasqua, quando aveva saputo che il teatro sarebbe rimasto chiuso e vuoto. Non che lui non ci avesse pensato, ma era quasi del tutto certo che il loro amico francese avrebbe detto di no.
Mariano Giusso aveva cominciato a nutrire qualche dubbio sulla riuscita del suo progetto. All'inizio gli era sembrata un'ottima idea quella di rendere a Erik il suo mondo, offrirgli la possibilità di fare ciò che aveva sempre fatto, di permettergli di mostrare il suo genio alla luce del sole. Sapeva che quell'uomo non era fatto per stare in mezzo alle persone, troppi anni di solitudine gli avevano deformato l'anima e la mente, ma all'inizio il duca era convinto che la novità avrebbe prevalso, che il sole avrebbe vinto il buio.
Adesso che guardava la sera stendersi nel cielo di Napoli, Mariano Giusso cominciava a pensare che qualsiasi sforzo si possa compiere, la notte giunge sempre. Ed Erik apparteneva alla notte.

Dov'è finita la tua fede nei miracoli?...

«Dov'è finita la tua fede nei miracoli?». Glielo aveva chiesto anche sua moglie, tanto tempo prima, quando i medici aveva già detto che non c'era più niente da fare. In effetti, anche lì la fede non aveva potuto molto... e lui aveva bisogno di un nuovo miracolo da attendere. Non c'era davvero un motivo preciso per cui aveva sperato che il miracolo in questione fosse la salvezza di Erik, quando lo aveva trovato sulla sua strada lo aveva interpretato come un segno. Ma nelle sue visite al San Carlo, quando era andato a trovare il Maestro francese – Dio, il titolo doveva compiacerlo non poco!  – si  era reso conto che era ancora l'angelo con le ali spezzate, che i suoi tentativi di spiccare il volo erano maldestri e destinati a fallire.
Oh, Erik era ammirato da tutti in quel teatro, era ammirato per le sue competenze e per il suo talento ma non bastava, perché lui prendeva questa ammirazione e la sommergeva con tutto il dolore che non era ancora riuscito ad affrontare.
E Giusso era certo che fosse accaduto qualcosa in quegli ultimi giorni, qualcosa che aveva definitivamente tarpato le ali a quell'angelo caduto, qualcosa che lo aveva sconvolto. Gli occhi di Erik erano tornati distanti, velati da quello sguardo che il duca aveva temuto, quello sguardo che spazzava via la possibilità di ogni miracolo.
«Oh, Signore... aiutalo» aveva pensato Giusso qualche giorno prima. «Aiuta lui o dovrai aiutare noi tutti».
Ripeté quella preghiera a fior di labbra, ricordando i racconti di madame Giry a proposito dell'uomo che era stato – che forse ancora era – il Fantasma dell'Opera.
Il battente del portone del teatro si aprì cigolando.
Luisa fece capolino oltre la soglia. Erik le teneva la mano.
Il duca sorrise. Forse c'era ancora qualche speranza.  

*******
 
~ Parigi, 06 maggio 1892 ~

Che Dio maledica lui e tutti i De Chagny!
Fu il primo pensiero che formulò Luois uscendo dal portone della palazzina, quando si trovò davanti Gustave, in piedi sulla panca di un calesse al quale era attaccato un cavallo bianco che sembrava uscito da un libro di favole. Accanto al ragazzo biondo c'era quello che avrebbe dovuto essere il conducente, probabilmente un galoppino di suo padre, ma era il giovane figlio del visconte a tenere in mano le redini, sorridendo come un bambino davanti a un nuovo giocattolo.
Aveva davvero intenzione di attraversare Parigi in calesse?
«Una magnifica giornata, non trovi?» esclamò Gustave entusiasta, rigirandosi tra le mani le redini di cuoio.
«Sì, o almeno lo era fino a un attimo fa» borbottò Louis, chiedendosi perché si era fidato di quel ragazzo folle con i capelli a salice piangente. Gli aveva detto che avrebbe preso una carrozza per raggiungere la tenuta della sua famiglia, ma lui aveva insistito che non avrebbe mai permesso a un suo caro amico di affrontare quel viaggio da solo. Come se dovesse arrivare in Portogallo!
La tenuta dei De Chagny era appena fuori Parigi, tutti la conoscevano e Louis sarebbe stato perfettamente in grado di arrivarci da solo, ma Gustave aveva voluto essere premuroso e ora avrebbero dovuto andarsene in giro come turisti esagitati, in una giornata soleggiata ma parecchio ventosa, tra l'altro.
«Perché un calesse?» chiese Louis salendo sul sedile, con il vento che gli scompigliava i capelli.
In quei giorni, a Napoli, i primi temerari cominciavano a tuffarsi in mare. Lì a Parigi sembrava che il sole fosse lontanissimo, molto più in alto di dove si trovava di solito.
Era lì da circa tre settimane e ora gli toccava ammettere che cominciava a sentire la nostalgia di casa, la nostalgia della sua città e di sua madre. Chissà come se la stava cavando lei da sola...
Ma Louis non avrebbe lasciato la Francia prima di aver concluso la lettura del diario e di aver capito perché sua madre l'aveva spedito fin lì per lasciare che lui leggesse.
Intanto, il vento gli seccava le labbra e gli inumidiva gli occhi, mentre Gustave lanciava il cavallo al galoppo per le strade di Parigi.
Il viaggio non fu per niente piacevole. Ogni volta che le ruote finivano per urtare un rialzo o incontrare una buca nel terreno, il calesse riceveva uno scossone che Louis sentiva vibrare attraverso ognuna delle sue vertebre. Per un attimo pensò che gli si sarebbe spappolato il cervello a forza di urti e strattoni. Attorno a lui la gente si voltava a guardare incuriosita, quel mezzo di trasporto doveva apparire così sorpassato...
Poi finalmente si lasciarono la città alle spalle. Il centro di Parigi sembrava una foresta che si andava diradando verso il deserto, le costruzioni si facevano più piccole e più distanti le une dalle altre, man mano che ci si avvicinava alla campagna.
Percorsero un'ampia strada sterrata, con il vento che soffiava addosso a Louis polvere e foglie morte, poi la tenuta della famiglia De Chagny comparve all'orizzonte come un miraggio.
Era una bella palazzina dalla facciata neoclassica, preceduta da un viale alberato con ai margini un prato che sembrava un tappeto soffice di seta color smeraldo.
Louis si chiese cosa se ne facesse una famiglia di tre persone di una casa così grande e di tutto quello spazio, e tra sé e sé si sentì grato di essere sempre vissuto in un attico di una palazzina che affacciava sul lungomare.
Gustave frenò bruscamente, facendo quasi cadere il passeggero dal sedile sul quale era scomodamente appollaiato.
«Benvenuto!» esclamò balzando a terra.
Louis fu certo che la schiena gli si sarebbe spezzata nel momento in cui avrebbe tentato di tornare in posizione eretta, ad ogni modo cercò di darsi un'aria disinvolta e scese dal calesse, quasi inciampando sulla ghiaia che scricchiolò sotto le sue scarpe.
Appena varcarono la soglia, un domestico andò loro incontro e gli prese le giacche. Louis cominciava già a sentirsi a disagio ed era certo che se avesse parlato la sua voce avrebbe fatto eco tra quelle pareti. Quando Gustave chiese a un maggiordomo di informare usa madre del loro arrivo, il ragazzo si sentì quasi angosciato. Era già stato in case di nobili, aveva frequentato tanta gente dell'alta società, ma tutto quello sfarzo e tutta quella formalità cominciavano a metterlo a disagio.
Era più che certo che la madre di Gustave si sarebbe rivelata una donnina del tutto insipida e odiosa e che nel giro di cinque minuti lui si sarebbe pentito di aver accettato l'invito dell'amico per quel tè.
«Madame può ricevervi» annunciò il maggiordomo con un sorriso reverenziale.
Louis seguì Gustave in un salottino piccolo e accogliente, inondato dal sole che in quelle ore della giornata doveva battere proprio in direzione di quell'ala del palazzo. Seduta su un sofà al centro della camera c'era un donna che si alzò appena li vide entrare.
«Buon pomeriggio, maman» mormorò Gustave. «Lasciate che vi presenti Louis».
Il giovane cercò di celare l'espressione stupita che stava per affiorargli in viso, mentre la viscontessa De Chagny muoveva un passo verso di lui.
Era una donna ancora giovane, di corporatura minuta, con un bellissimo viso dai grandi occhi castani. Portava i capelli, ricci e ribelli come quelli di suo figlio, legati in una semplice coda alla quale sfuggiva qualche ricciolo che le ricadeva impertinente sulla fronte di porcellana. C'era una dolcezza nello sguardo e nell'espressione di madame De Chagny che rimandò alle mente di Louis l'immagine di sua madre, soffiando un velo di malinconica e tenera nostalgia nei suoi pensieri.
Il giovane prese la mano della donna e vi impresse un lieve bacio.
«Sono lieto di conoscervi, madame» mormorò in tono formale.
«Christine» lo ammonì dolcemente la donna. «Vi prego, solo Christine». Il sorriso le disegnava sottili solchi agli angoli della bocca, ma Louis la trovò comunque bellissima, più di quanto Gustave gli aveva raccontato.
La padrona di casa fece cenno al suo ospite di accomodarsi. Quando si furono seduti, madame De Chagny chiamò una domestica e chiese di preparare il tè.
«Gustave mi ha parlato così tanto di voi» esordì Christine spiando con interesse il viso del giovane. «Che mi sembra di conoscervi già, anche il vostro viso ha un'aria familiare, sapete. Mi dice che siete un eccellente musicista, tra l'altro».
Louis sorrise imbarazzato,
«Non avete insegnato a vostro figlio a non dire bugie?» scherzò. «Mi piace la musica, tutto qui».
«Adesso fai il modesto, amico mio. Sapete maman, ha un violino che suo padre ha fatto costruire appositamente per lui. Dovreste sentirlo suonare... non sono riuscito a convincerlo a portare il violino con sé» trillò Gustave.
Il giovane avrebbe voluto zittire il ragazzo biondo con un calcio. Era davvero un bravo musicista, forse persino eccellente... ma adesso era troppo in imbarazzo per pensare di suonare. E non capiva per quale ragione si sentiva così scioccamente un pesce fuor d'acqua seduto su quella poltrona, sotto lo sguardo di quella donna che lo guardava come a cercare di ricordarsi dove lo avesse visto.
«Avete fatto molto male a non portare con voi il vostro violino» lo riprese in tono bonario Christine. «Ma voglio sperare che questo non sia il nostro ultimo incontro».
«Non sarà di sicuro così, madame... ehm, Christine»
«Bene. Amo molto la musica, sapete. E temo di avere già parecchio a cuore voi, per tutto quello che mi ha raccontato mio figlio».
In quel momento la porta del salottino si aprì. Louis si aspettava di vedere entrare la cameriera con il vassoio del tè invece entrò un uomo sulla quarantina. Doveva trattarsi certamente del visconte De Chagny. Era un bell'uomo, dal portamento elegante, i capelli biondi dello stesso colore dorato di quelli di suoi figlio cominciavano ad essere striati da rari fili d'argento, ma il viso conservava ancora dei tratti giovanili e gentili, resi un po' più seriosi da un paio di baffi dello stesso colore del grano maturo. Aveva gli occhi di una bellissima tinta di azzurro, sereni come un cielo primaverile.
Louis si alzò rispettosamente in piedi, appena l'uomo mosse i primi passi nella stanza.
«Monsieur visconte, è un onore potervi incontrare» disse cortese.
L'uomo gli rivolse un sorriso squisito e gli strinse la mano.
«Voi dovete essere Louis, il musicista italiano. L'onore è mio».
Louis avrebbe giurato che c'era stata una nota rigida di gravità nel modo in cui l'uomo aveva pronunciato la parola musicista. Dall'idea che si era fatto di lui, attraverso i racconti di Gustave, il giovane era convinto che il visconte fosse un uomo decisamente poco amante dell'arte, e lo aveva immaginato un dispotico vecchio brontoloso. Ma l'uomo che aveva davanti non corrispondeva neppure lontanamente all'immagine che il ragazzo aveva avuto in testa in quei giorni.  
«Stavamo giusto dicendo a Louis quanto male ha fatto a non portare con sé il suo violino» dichiarò Christine.
Il visconte ebbe una specie di sussulto, poi agitò la mano come a sottolineare qualcosa di scarsa importanza e si andò a sedere accanto a sua moglie.
«Mia cara, tu sarai molto più competente di me in materia, ma io preferisco conoscere le persone da come parlano e non da come suonano. Dico bene, Louis?» fece con tono allegro.
«Dipende, visconte, dipende».
L'uomo si lisciò i baffi. Era diffidenza quella che ora gli si leggeva nello sguardo?
La cameriera entrò a servire il tè.
Gustave prese a raccontare di come aveva conosciuto Louis a quella mostra di pittura, omettendo l'episodio relativo al pennello perduto che era andato a recuperare nella mansarda. Poi la conversazione si spostò sull'Italia e sulla città di origine dell'ospite dei De Chagny.
Il visconte sembrava molto informato in materia di politica estera e Louis trovò piacevole commentare alcuni recenti fatti di cronaca, confrontandosi con lui su diverse idee nelle quali erano in disaccordo. Tuttavia, se non si parlava di musica o di pittura, Raoul De Chagny sembrava la persona più aperta e disponibile del mondo.
A Louis cominciava a piacere davvero la compagnia di quella famiglia, non erano affatto i nobili pesanti e bigotti che aveva immaginato.
«Perdonate la curiosità, ma come mai avete un nome francese, caro?» chiese il visconte, al termine di una discussione sulla scomodità dei viaggi in treno.
Il ragazzo bevve l'ultimo sorso di tè ormai freddo,
«Mi chiamo Luigi, in realtà. Mio padre era francese e usava chiamarmi Louis» spiegò.
«Oh, è vero, Gustave ce l'aveva detto» gli fece eco Christine.
«E tuo padre cosa fa?» chiese ancora Raoul.
«È venuto a mancare due anni fa, monsieur»
«Oh, mi dispiace...»
«Ad ogni modo, era anche lui un musicista e lui sì che era eccellente. È stato il direttore del San Carlo per molti anni, fino a quando non ci ha lasciati».
Louis notò il volto di madame De Chagny illuminarsi,
«Ah, allora la musica è una tra dizione di famiglia» esclamò con entusiasmo.
«Così sembrerebbe. Ma mi diceva Gustave che anche voi avete avuto un passato d'artista, Christine».
Il giovane vide il visconte irrigidirsi; per un attimo il bel viso gentile dell'uomo sembrò quello di un'anima smarrita. Gustave lanciò uno sguardo allarmato ai suoi genitori e la donna impiegò qualche secondo a rispondere, come se stesse cercando le parole più adatte a esprimere qualcosa di molto complesso.
«Sì, è vero, un tempo ho accarezzato il sogno di diventare una cantante di successo» ammise con un impercettibile sospiro che sembrava stanco, il rumore esatto di un petalo che cade da un fiore appassito. «Ma la musica mi ha tolto molto più di quanto mi ha dato».
Louis sentì che stava arrossendo e non era una circostanza che si verificava spesso.
«Perdonate... non volevo ridestare ricordi tristi o essere invadente» mormorò.
Christine cancellò le ombre dal suo viso con un sorriso che diventò un po' più sereno nell'istante in cui sollevò lo sguardo su suo marito e suo figlio.
«È stato tantissimi anni fa, e vi giuro che il tempo mi ha restituito ogni cosa, e molto di più» concluse. Louis ebbe l'impressione che quell'ultima frase fosse stata detta a solo beneficio del visconte.
«Bene... sì... ehm, volete fermarvi a cena con noi, Louis?» propose Raoul, battendo le mani come a smuovere l'aria, disperdendo le ultime nubi che sembravano essersi addensate nella stanza.
Gli sarebbe piaciuto, ma aveva appuntamento con Magdelaine, però...
«Padre» fece Gustave in tono soave e innocente, «Louis ha impegni assai più dolci dell'anatra all'arancia preparata dal nostro cuoco...».
Louis avrebbe voluto ucciderlo seduta stante.
«Gustave!» lo rimproverò sua madre tirandogli un buffo affettuoso sul braccio.
Il visconte De Chagny rise di gusto e batté una mano sulla spalla del suo ospite,
«Ma certo, capisco! Ma vi lasciamo andare solo se ci fate la promessa di tornare» gli disse.
«Tornerò quando avrete diseredato vostro figlio, monsieur...» borbottò il ragazzo lanciando occhiate di fuoco al suo amico. Gustave ricambiò quegli sguardi accigliati scrollando le spalle e curiosamente, Louis ebbe come la sensazione di essere a casa.

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Here, I have a note...

Gaaah! I De Chagny al completo... non credevo ce l'avrei mai fatta a scrivere questa reclame della Mulino Bianco, non riesco a immaginarmeli in nessun altro modo però. Ci sarebbe stata bene una scena alla Conte di Montecristo, con Christine che vede Louis e le viene un colpo... ma è troppo presto!
Capitolozzo breve e di passaggio, ma per il prossimo ho in mente qualcosa di particolare che si è inserito da solo nella storia all'ultimo momento... quindi, ci leggiamo mercoledì prossimo!
Quanto prima prometto che rispondo anche alle recensioni ^^"

I remain, gentlemen, your obidient servant.

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Capitolo 11
*** Al buio ***


Capitolo decimo
Al buio


~ Parigi, 07 maggio 1892 ~

«E questa sarebbe la tua idea geniale per la serata?» borbottò Louis. «Ho detto di no a Magdeleine per venire con te e tu mi trascini qui?».
Gustave inclinò la testa di lato, fissando l'amico con aria attonita come se non capisse il motivo delle sue recriminazioni. Aveva una sacca in spalla che lasciò scivolare a terra,
«Cosa c'è che non va?» domandò innocentemente.
«Ma ti rendi conto che è un rudere?... Un rudere bellissimo, magari, ma pur sempre un rudere». Louis indicò con un gesto nervoso la facciata dell'Opera Populaire dove la luce dei lampioni creava un cupo gioco di chiaroscuri.
«Dici questo solo perché non sai cosa c'è dentro» replicò il giovane De Chagny con un sorriso, ostentando un'aria furba che non gli si confaceva.
«Ah, e cosa c'è dentro?»
«Non lo so»
«Gustave!».
Il ragazzo biondo si gettò nuovamente la sacca in spalla, il suo contenuto fece uno strano tintinnio metallico.
Louis cominciava a diventare inquieto: che cosa voleva fare quel pazzo con i capelli a fronda di salice? Che cosa sperava di trovare lì dentro?
«Ascolta, amico mio» disse Gustave con infinita, paziente dolcezza. «Forse ti sembrerà buffo, ma sono anni che sogno di esplorare l'interno dell'Opera Populaire. Soltanto che da solo non ho mai avuto il fegato di farlo, pensavo che anche tu fossi curioso».
Il ragazzo italiano sgranò gli occhi. Sì, essere curioso faceva parte del suo carattere, l'Opera Populaire aveva esercitato su di lui uno strano fascino fin dalla prima volta che l'aveva vista, ma introdursi di notte in un edificio pericolante gli sembrava veramente esagerato. Anche se quell'edificio era in qualche modo legato al passato di suo padre e anche a quello della madre del suo amico. Certo, ora poteva capire perché Gustave ne fosse attratto probabilmente più di lui: che tremenda tentazione doveva essere stata avere quel luogo davanti agli occhi e così a portata di mano senza avere il coraggio di entrare a curiosare.
«Non ti è mai venuto in mente che possa essere pericoloso?» domandò con una smorfia.
«No, mi sono informato. Il teatro è stato distrutto da un incendio ma non ci sono mai stati crolli o altre cose del genere»
«E perché l'hanno sigillato e nessuno ci entra mai allora?»
«Perché ci sono i fantasmi, o almeno questo è quello che dicono».
Louis inarcò il sopracciglio con aria scettica – quando faceva quell'espressione, sua madre gli diceva sempre quanto ricordasse suo padre. Fantasmi? A Parigi, sulla soglia del ventesimo secolo, la gente credeva ancora ai fantasmi?
«Non dico che non mi piacerebbe accompagnarti in questa piccola esplorazione, ma non riusciremo mai a entrare là dentro, è tutto chiuso da catene e travi» obiettò infine il ragazzo moro. «E io non voglio farmi arrestare solo perché tu sei curioso di scoprire cosa c'è in un vecchio teatro fatiscente».
Gustave scrollò le spalle,
«So come entrare» concluse come se fosse la cosa più ovvia del mondo, poi si tolse la sacca dalla spalle e l'aprì. «E ho lampade ad olio, torce, fiammiferi e corda!».
Louis quasi rise: il suo biondo amico aveva preparato tutto, stava davvero aspettando solo qualcuno abbastanza fuori di testa da accompagnarlo.   
«D'accordo, ma se mi succede qualcosa mentre siamo lì dentro ti raso a zero quei tuoi boccoli da puttino» concluse il giovane dondolando il capo.
«Cosa vuoi che succeda?».
Louis percorse la sagoma dell'edificio con lo sguardo, dal basso verso l'altro, indugiando nel fissare la statua di Apollo sulla sommità del tetto. Cosa voleva che succedesse?
Non lo so, ma ho i brividi.

La serata era mite, con una grande luna piena che svettava in un angolo del cielo trapuntato di stelle, come in un quadro o come nei versi stucchevoli di una banale poesia.
Gustave attraversò l'immenso piazzale incorniciato da ricche palazzine antiche, da bar di lusso e bistrò davanti a i quali si fermavano numerose carrozze che lasciavano scendere ricchi signori e dame in abiti da sera. I due giovani raggiunsero una viuzza laterale con l'insegna mezza sbiadita e corrosa dalla ruggine: Rue Scribe, lesse Louis.
Il vicolo era stretto e spoglio, costeggiava il lato destro del teatro che appariva ancora più maestoso e minaccioso visto in quello spazio angusto. La fiancata dell'edificio si alzava verso l'alto in un alternarsi di finestre, semicolonne e bassorilievi. Ogni apertura era cerchiata da solchi neri, laddove le fiamme si erano accanite esplodendo dall'interno e mandando in frantumi i vetri.
I due giovani si mossero cauti nel cono d'ombra proiettato dai muri. Sembrava che anche la luce si tenesse lontana da quel luogo.
Gustave cercò a tentoni qualcosa in basso, al margine della parete, e quando la trovò estrasse un bastone di legno dalla sacca che usò per fare leva su uno sportello chiuso, nascosto dalla polvere.
Louis si guardava nervosamente attorno, sperando che nessuno li sorprendesse, ma la luce non era l'unica a starsene alla larga da quel posto; il piccolo viale era vuoto e nell'aria c'era l'odore sgradevole dell'acqua stagnate e dell'urina di gatto.
Un forte cigolio metallico fece sobbalzare i ragazzi.
«Gustave, in nome di Dio! Vuoi fare più piano?!» sibilò Louis a denti stretti.
Il giovane De Chagny si tolse una ciocca di capelli dalla fronte e sorrise,
«Beh, ce l'ho fatta» disse piano, indicando con orgoglio un piccolo sportello aperto a livello della strada.
Come prima cosa, il ragazzo francese gettò la sacca attraverso l'apertura, poi si calò cautamente all'interno. Louis serrò i denti guardando il suo amico sparire in quella bocca di pietra dal fondo nero. Dopo qualche secondo sentì il suono di un fiammifero che veniva sfregato contro la parete e vide la fiammella accendersi in mezzo a quel buio pesto. Gustave era solo un metro più in basso,
«Scendi, avanti, non è alto» lo invitò.
Ma che cosa sto facendo? Si chiese il giovane. Uno strano pensiero gli balenò nella mente: suo padre avrebbe approvato. Non che Erik sarebbe stato contento di sapere suo figlio immischiato in qualcosa di pericoloso e sconsiderato, ma era da lui che Louis aveva ereditato la curiosità e quel briciolo di istintività e irruenza. Sorridendo tra sé e sé, si calò attraverso l'apertura.
I suoi piedi toccarono subito un pavimento di pietra. Richiuse con cautela lo sportello sopra la sua testa e cercò di orientarsi in quel buio quasi totale nel quale scorgeva a malapena il profilo di Gustave intento ad accendere la lampada.
Quando la fiammella tra le pareti di vetro illuminò l'ambiente attorno a loro, i ragazzi si resero conto di essere in una piccola stanza che immetteva in un cunicolo. Laddove le pareti non erano totalmente annerite dalle bruciature era possibile scorgere i resti di affreschi ormai sbiaditi, dove le linee dei disegni erano indistinguibili e non rivelavano altro che macchie di colore.
I giovani si incamminarono lungo il cunicolo, procedendo alla cieca arrivarono fino a quello che doveva essere stato il foyer. L'aria era densa di polvere e odore di umidità; più di una volta i due esploratori improvvisati si ritrovarono a tossicchiare o a starnutire. In quell'immenso salone l'incendio non aveva fatto troppi danni, sotto uno strato grigio di fuliggine si celavano marmi bellissimi e stucchi il cui riflesso dorato era ancora visibile dove lo sporco non si era depositato interamente.
Lo scalone centrale, che si dipartiva poi in due scale che si congiungevano ad altezza della balconata di primo ordine, aveva un corrimano di colonne con davanti due alti piedistalli sui quali si ergevano alte e slanciate due statue di figure femminili che reggevano candelabri a molte braccia. Le nappe dei tendaggi penzolavano come dita di cadaveri riversi sull'orlo di una fossa.
Un brivido più intenso percorse la schiena di Louis che allungò, come ipnotizzato, una mano verso il piede di una statua rimuovendo con i polpastrelli lo strato di polvere, facendo riemergere il dorato ancora intatto della vernice.
Che posto grandioso che doveva essere stata l'Opera Populaire!
«Toglie il fiato, eh?» mormorò Gustave come se gli avesse letto nel pensiero.
Il marmo coperto dalla polvere era scivoloso. I due ragazzi ebbero bisogno di molta cautela per salire le scale; si ressero al corrimano, incuranti degli abiti ormai lerci. Si incamminarono verso il breve corridoio che conduceva alla platea e man mano che si addentravano verso il cuore del teatro i segni della distruzione si facevano più evidenti.
Presto si trovarono in un immenso spazio che sembrava il ventre di un gigante morto. Sopra le loro teste si alzavano diversi ordini di balconate i cui parapetti, che un tempo dovevano essere stati ricoperti di velluti e stucchi, erano stati corrosi dal fuoco e ora i palchetti sembravano file di denti guasti e marci nella bocca di un morto. Solo alcuni spunzoni di metallo o legno incenerito si alzavano dal parterre dove un tempo dovevano esserci stati morbidi sedili di velluto. Mentre Gustave muoveva la lampada facendo spostare il cerchio di luce su tutto l'ambiente, emergevano dal buio resti di cariatidi dorate a forma di corpi femminili adagiati contro le pareti in una posa languida.
Una cornice riccamente decorata circondava il palco, e lì c'era il particolare più orribile e stupefacente. Si trattava di un enorme lampadario di cristallo, crollato e riverso per metà nella buca dell'orchestra e per metà sulle assi del palcoscenico. Doveva essere stato il crollo del lampadario a provocare l'incendio.
«Come diamine è possibile che un lampadario come quello crolli?» domandò Louis con un filo di voce, come se gli sembrasse blasfemo profanare il silenzio sepolcrale di ciò che rimaneva dell'Opera Populaire.
Gustave scosse il capo,
«Dicono che sia stato un brutto incidente, ma chi c'era ha raccontato strane storie... una volta si credeva che ci fosse un fantasma nel teatro. Si continua a credere, a dir la verità, ma allora il Fantasma dell'Opera, così lo chiamavano, pare facesse sentire in maniera piuttosto pressante la sua presenza» spiegò. «Non sono mai riuscito a saperne troppo, è una di quelle storie che Parigi ha cercato di dimenticare, come le tante leggende macabre su cose accadute dopo la Rivoluzione e altra roba simile... a questa città non piacciono i ricordi oscuri»
«Da dove vengo io è l'esatto opposto» scherzò Louis, per stemperare l'angoscia delle spiegazioni dell'amico. «A Napoli ci vanno a braccetto con le storie macabre e abbiamo un sacco di fantasmi dalle nostre parti...».
«Louis! Guarda!» Gustave aveva smesso di prestare attenzione alle parole del compagno ed era balzato su una trave caduta che faceva da ponte tra la platea e il palcoscenico.
«Gustave, dove diamine vai?! Torna indietro e non lasciarmi al buio!».
Louis fu costretto a seguirlo perché il giovane De Chagny aveva con sé la lampada e allontanandosi  gli stava portando via la luce.
Gustave percorse la trave con rapide falcate, il legno scricchiolò sotto i suoi passi. Il suo compagno lo fissò sconvolto,
«Io non sono sicuro che il palco regga» borbottò.
«Così pavido, Louis?».
Santi Numi! Riccioli d'oro meritava proprio che gli crollasse qualcosa il testa.
Suo malgrado Louis fu costretto a seguirlo e mosse i primi cauti passi sulla trave inclinata a mo' di passerella tra il parterre e il palco, sospesa sopra il vuoto della buca d'orchestra. Ma lui era più alto e più robusto di Gustave e il legno non resse il suo peso; la trave si spezzò quando lui era a metà strada, facendolo cadere e sollevando una densa nuvola di cenere, polvere e schegge.
Il ragazzo rovinò sul pavimento con un grido di stizza e dolore.
«Mannaggia 'a famme*» imprecò nel suo dialetto.
Gustave si precipitò, piegandosi sulle ginocchia ad altezza della ribalta e puntò la lampada verso il basso,
«Ti sei fatto male?!» chiese preoccupato.
«No! È stato un piacere!» strillò l'altro ragazzo con voce stridula.
Louis si rimise faticosamente in piedi. La caduta non era stata grave, ma si sentiva ancora un po' frastornato per la botta. Starnutì violentemente per lo sbuffo di polvere che aveva inalato, si aggrappò al bordo del palco e si diede una spinta con le braccia. Gli dolevano il gomito e il ginocchio destro, dal lato in cui aveva urtato contro il pavimento, ma con un piccolo sforzo riuscì a issarsi fino al palco.
«Dio mio, giuro che non mi intrufolerò mai più in un teatro in rovina» mormorò massaggiandosi le parti indolenzite. «E tu, che accidenti avevi visto da arrampicarti su travi pericolanti?».
«Mi dispiace che tu ti sia fatto male» mormorò Gustave, gli occhioni da ragazzina che assumevano un'espressione mortificata. «Comunque, guarda anche tu».
Il ragazzo puntò la lampada in direzione delle quinte. Sul lato sinistro l'incendio era divampato divorando ogni cosa, ma a destra sembrava che il fuoco fosse stato domato prima che avesse il tempo di distruggere tutto. Forse, al momento della tragedia, su quel lato del palco c'erano più persone che si erano subito impegnate a contenere i danni, oppure semplicemente, per un caso fortuito, le fiamme non si erano propagate in quella direzione. Su quel lato, il teatro doveva essere rimasto quasi intatto, qualsiasi cosa ci fosse.
«Oh, interessante. Però avrei preferito non rischiare di rompermi una gamba per scoprirlo» borbottò il ragazzo seguendo l'amico verso le quinte di sinistra, con andatura un po' zoppicante.
Mentre si lasciavano alle spalle il palco, Louis quasi inciampò in qualcosa che era per terra e sbatté goffamente contro la parete.
«Maledizione, questo posto sembra cospirare contro di me...» borbottò.
«Forse non sei simpatico ai fantasmi» esclamò Gustave.
«Smettila di dire idiozie e passami la lampada».
Louis illuminò il pavimento davanti a sé e scoprì che l'oggetto che gli aveva fatto perdere l'equilibrio era una maschera. C'era proprio una maschera di cuoio nero per terra, con i nastri per essere allacciata dietro la nuca, era sporca e ammaccata ma il ragazzo si chinò a raccoglierla e la sventolò per rimuovere il grosso della polvere; senza nemmeno sapere perché, la pulì alla meno peggio con le dita e la mise in tasca.
«Ti piacciono le maschere?» chiese Gustave ricominciando a camminare.
«Le odio» mormorò il giovane italiano.
Percorsero un corridoio dove era ancora possibile scorgere la ricca carta da parati, staccata in più punti ma con le tinte e le decorazioni ancora intatte sotto lo strato di sporco – il fatto che non battesse il sole doveva aver preservato i colori laddove il fuoco non aveva distrutto ogni cosa.
Il corridoio si stringeva in un arco nella parete, sulla cui sommità era inchiodata un'insegna di legno con la scritta dipinta: Loges d'acteurs.
I due ragazzi si scambiarono uno sguardo entusiasta,
«I camerini!» esclamò Louis. «Dovrebbero essere intatti».
Si precipitarono oltre l'arco e percorsero qualche metro ritrovandosi su un corridoio più stretto sul quale affacciavano diverse porte di legno smaltato. La loro attenzione fu catturata da una porta divelta, l'unica che era stata letteralmente strappata dai cardini, mentre le altre erano chiuse e al loro posto. Sulla porta scardinata c'era ancora la targa sulla quale si leggeva: Primadonna.
I due giovani si fiondarono oltre la soglia. Louis pensò che quel luogo non era molto diverso dai camerini che aveva visto dietro le quinte del San Carlo, si trattava di una saletta quadrata con dei mobili barocchi sui quali erano posati molti vasi di porcellana e ninnoli di cristallo, in un angolo c'era un ricco mobile da toeletta con uno specchio incorniciato d'ottone, ragnatele spesse come fazzoletti penzolavano dagli spigoli... niente di strano. Almeno fino a quando Gustave non puntò la lampada verso la parete sul fondo.
«E quello cos'è?». I due ragazzi pronunciarono queste parole quasi all'unisono, rimanendo impalati a fissare lo strano spettacolo che avevano dinnanzi.
C'era uno specchio alto almeno due metri, incassato nella parete... o almeno avrebbe dovuto essere fissato al muro, ma era ruotato verso l'interno come una porta che girava attorno a un perno centrale; oltre l'apertura si stendeva un ampio corridoio di pietra.
«Tu pensi che potremmo...» azzardò Gustave, ma non sembrava troppo convinto.  
Louis sentì il sangue gelarsi nelle vene e qualcosa di freddo che gli solleticava la nuca. No, era una pessima idea, non avrebbero dovuto mettere piede in quel posto, non avrebbero dovuto essere lì... ma già che c'erano, che differenza avrebbe fatto?
«Perché no?» disse senza alcuna incertezza.
«Dove pensi che porterà quel cunicolo?»
«Probabilmente ai livelli del sottopalco. Nel San Carlo di Napoli ci sono diversi livelli dove si trovano le sartorie, le falegnamerie e i depositi, e poi...». Mentre stava parlando, Louis vide di nuovo la luce che si allontanava e capì che Gustave aveva smesso di ascoltarlo e si era spostato, si voltò per cercarlo con lo sguardo e lo vide immobile davanti a una grande locandina appoggiata contro la parete che aveva provveduto a ripulire dalla polvere.
Sul manifesto era raffigurata una ragazza in abiti dalla foggia tipica dei costumi tradizionali spagnoli, in piedi davanti a un grosso falò. Don Juan Triumphant diceva il titolo, in alto a grandi lettere dorate. Avec Christine Daae c'era scritto in basso.
«È mia madre» squittì Gustave sorpreso. «La ragazza sul disegno della locandina, è mia madre».
Louis guardò con più attenzione e constatò che, se il disegno era somigliante, la madre del suo amico doveva essere stata un vero gioiello,
«Era bella» ammise.
Il ragazzo biondo fece un sorriso ebete,
«Lo è ancora» dichiarò con un energico cenno di assenso.
«Certo, certo... andiamo a vedere cosa c'è in fondo al corridoio».

Il corridoio proseguiva per metri e metri, terminando in una scala che si perdeva come un'infinita spirale verso il buio. Louis cominciò a scendere i primi gradini, ma Gustave lo trattenne per la manica della giacca.
«Non vorrai scendere? Sono certo che non c'è niente laggiù» disse.
Il suo compagno lo guardò con un mezzo sorriso canzonatorio,
«Ma come? L'idea è stata tua! Mi hai trascinato qui dentro, sono anche caduto...» protestò sarcastico.
Gustave scrollò le spalle in quel suo modo infantile,
«Lo so, ma ho la sensazione che non dovremmo andare» mormorò.
E perché mai? Louis sentiva uno strano magnetismo invece, qualcosa che lo spingeva a continuare in quell'assurda discesa,
«Così pavido, Gustave?» canzonò l'amico e gli diede una pacca sulla spalla per poi continuare a scendere i gradini.
Stavano scendendo già da molti minuti quando cominciarono a sentire l'odore dell'umidità e dell'acqua stagnante. Sopra le loro teste c'era la grande spirale di pietra delle scale già percorse.
«Io credo che sarà una faticaccia immane risalire»  osservò il giovane De Chagny con un sospiro.
«Coraggio, non capita mica tutti i giorni» lo rimbeccò il compagno.
La discesa terminava su quello che sembrava un piccolo molo, davanti a un canale con un corso d'acqua imprigionato tra spesse pareti di pietra chiazzata di muffa e umidità.
«Che peccato, non ci sono zattere, direi che possiamo andarcene» esclamò Gustave, forse sollevato dall'idea che quello strano viaggio fosse finito. «Louis, che stai facendo?».
Louis si era accovacciato a terra e aveva spiato l'acqua torbida cercando di scorgere il fondale.
«Non sembra profonda» osservò dopo qualche secondo.
«Ma la cosa non ci riguarda» replicò Gustave. Prima che riuscisse ad aggiungere altro, il ragazzo moro si era calato nell'acqua che gli arrivava alla vita; al suo compagno non restò che seguirlo.
«È gelida... se non altro ci stiamo ripulendo dalla polvere però» mormorò Gustave passando la lampada a Louis per tenere sollevata la sacca, in modo da non far bagnare le loro altre fonti di illuminazione: se fossero rimasti al buio non sarebbero mai più stati in grado di ritrovare la strada per l'uscita.
Il canale terminava in un'apertura dalla forma irregolare dove l'acqua si faceva un po' più profonda e, se possibile, ancora più gelida. Louis allungò il passo, muovendosi a fatica e sollevando grossi schizzi.
Sul fondo dell'apertura c'era una grata, oltre la grata c'era un'ampia distesa d'acqua, come un piccolo lago.
I ragazzi si avvicinarono il più possibile alla grata, Louis sollevò la lampada per cercare di guardare meglio all'interno. Non riusciva a vedere bene perché il buio vinceva quell'unica luce con troppa facilità, tuttavia riuscì a illuminare abbastanza ciò che aveva davanti da poter distinguere le forme, se di forme si poteva parlare. Davanti a lui si apriva una grotta dall'alto soffitto di pietra irregolare, sul fondo della grande insenatura c'era una riva piena di oggetti o di ciò che rimaneva di loro, molte cose erano state distrutte e fatte in pezzi, ma si riusciva a distinguere nettamente un materasso squarciato gettato in terra ai piedi di quello che doveva essere stato un letto con la testata intagliata ormai malandata. Gradini scolpiti direttamente nella roccia portavano ai vari rialzi, da un lato c'erano resti di mobili, ormai ridotti ad ammassi di schegge, e al centro, sul rialzo più sollevato, come su un altare, c'era quello che certamente doveva essere stato un organo. Le canne di metallo ancora svettavano verso l'alto, anche se erano ammaccate in più punti, come se qualcuno avesse tentato di frantumarle senza risultati e si era quindi abbattuto sulla tastiera dello strumento, mandando in pezzi le fiancate decorate con intarsi e dorature.
«Ci viveva qualcuno qui...» sussurrò Louis sentendo una strana angoscia prendergli lo stomaco. Chi mai avrebbe meritato un'esistenza così buia e infelice? E perché tutto era stato distrutto come per cancellare ogni traccia di quell'esistenza?
«È orribile» gli fece eco Gustave, fissando attonito lo spettacolo oltre la grata, rabbrividendo non solo per il gelo dell'acqua. «Louis, stai piangendo...».
No, non stava piangendo, maledizione! Era il freddo, era certamente solo il freddo. Almeno così volle pensare il ragazzo mentre una lacrima gli solcava lentamente la guancia.
«Se sto piangendo io, stai piangendo anche tu» disse con voce grave.
Le lacrime sul viso di Gustave erano due.

*******

~ Napoli, 13 aprile 1871 ~

La folla si mise lentamente in fila verso l'altare. Lucia guardò per un istante il sacerdote che stava per officiare il rito dell'Eucarestia e restò con le spalle appoggiate alla colonna, sentendo il freddo del marmo contro i palmi delle mani.
Credeva in Dio, ci credeva con tutta se stessa e il fatto che fosse arrabbiata con Lui non cambiava lo stato delle cose: la fede era sempre stata un dato di fatto oltre che una necessità.
Dalla sua prima notte come prostituta aveva deciso di tenersi alla larga dai confessionali: non voleva alcuna assoluzione. Non che non ne avesse bisogno, ma le sembrava davvero di chiedere troppo.
La ragazza attese pazientemente che la messa della mattina di Pasqua terminasse. Nella piccola processione che si dirigeva composta verso l'uscita, Lucia scorse diverse facce conosciute, tra le tante solo una persona indugiò un istante accanto a lei per salutarla: il duca Mariano Giusso, con al braccio sua figlia, la piccina che non parlava. Conosceva quell'uomo molto vagamente, si erano incrociati qualche volta a teatro, e in un'occasione lei aveva regalato alla ragazzina, che quella sera accompagnava il padre, il suo fermaglio, un dono di uno di quei corteggiatori assolutamente non degni di nota, che per un qualche strano motivo aveva colpito molto la piccola Luisa – era così che si chiamava la giovinetta, forse. Il duca era una persona a modo, non priva di una certa simpatia e di un certo spirito spesso estranei a quelli del suo rango.
Quando tutti furono andati via, nella chiesa non restò altro che silenzio e odore di incenso. E freddo, faceva sempre freddo dentro le chiese.
La porticina della sagrestia si aprì e la figura in nero camminò a grandi passi verso di lei.
«Suor Antonia» salutò la ragazza con un sorriso.
La suora si fermò di fronte a lei, la fissò per qualche secondo e poi le tese le braccia. Lucia ricordava che era sempre stata molto affettuosa con tutti loro, con tutti i bambini della scuola improvvisata nella sagrestia della chiesa del porto di Capri. Ed era sempre stata... giovane. Erano passati tanti anni da quando Lucia era una bambina che dimenticava sempre gli apostrofi e il volto di Suor Antonia non sembrava invecchiato di un giorno, solo la ruga in cima al naso si era fatta leggermente più accentuata. La ragazza immaginò che fosse quello che accadeva a chi ha il cuore in pace.
«Come stai, Lucia?» chiese la suora con dolcezza.
Suor Antonia veniva a Napoli quasi tutti i mesi, andava al convento di Santa Chiara dove le consorelle del suo ordine tenevano da parte delle offerte per le suore di Capri, per permettere loro di mandare avanti la piccola scuola per i figli dei pescatori e degli isolani meno abbienti. E tutti i mesi Lucia faceva in modo di riuscire a incontrarla, la buona sorella le portava notizie di sua nonna e accettava di buon grado di portare alla vecchia Maruzza qualsiasi cosa Lucia avesse bisogno di farle avere, da coperte, a lettere a somme di denaro nascoste dentro scatole di cioccolatini, perché l'anziana donna non si arrabbiasse nel vedersi consegnare dalle mani di una religiosa buste con dentro delle banconote.
Lucia non aveva mai detto a Suor Antonia cosa faceva a Napoli, ma era ovvio che lei lo sapesse. Tutte le volte che la ragazza aveva provato a lasciarle delle offerte per la chiesa la suora aveva sempre rifiutato, così un giorno, invece di provare a darle del denaro, la giovane le aveva fatto trovare un pacco con dentro quaderni, penne, inchiostro, matite e gessi per lavagna. Quelle cose proprio non potevano essere né rifiutate né buttate via. E da allora, ogni volta che doveva incontrarsi con Suor Antonia, Lucia si presentava con un grosso pacco di cartoleria.
E ogni volta che lei e la sorella si incontravano, a Lucia veniva rivolta la medesima domanda.
«Quando torni?» le chiese la suora, anche quella volta.
«Non lo so...» rispose la giovane con un mezzo sorriso, colmo di malinconia.
Cercò di guardare il lato positivo: dire non lo so prevedeva comunque che un giorno, prima o poi, sarebbe tornata.

*

Quella di andare a passare le festività a palazzo Giusso si stava rivelando una pessima scelta. O meglio, gli ultimi due giorni erano stati piuttosto tranquilli, quasi piacevoli: erano trascorsi con immensa calma e meravigliosamente vuoti, fatti di chiacchierate non troppo impegnative e partite di scacchi con il duca – che il buon uomo non era mai stato in grado di vincere. La sera suonava il violino per Luisa e si beava dei sorrisi della ragazzina – sì, cominciava vagamente ad abituarsi all'idea di essere in grado di far sorridere qualcuno. Poi però era arrivato il giorno di Pasqua. In quella santa domenica ci sarebbe stato un grande pranzo al palazzo, con un quantitativo di invitati intollerabile.
Erik sospirò guardando l'orologio dove le lancette si stavano pericolosamente avvicinando all'ora del pranzo.
Se le settimane trascorse a lavorare in teatro erano servite a dimostrare che, dopotutto, poteva guadagnarsi il suo posto nel mondo attraverso il proprio talento, le giornate a palazzo Giusso potevano servire a dimostrare che il Fantasma dell'Opera era in grado di essere una persona come tutti gli altri. Poteva fingere benissimo di essere una persona come tutti gli altri.
Non ne aveva alcuna voglia, ma mostrare gratitudine faceva parte delle regole del gioco. E lui, adesso, era davvero grato al duca e a sua figlia. Tutti i pensieri cupi di quei giorni gli erano serviti a creare un contrasto tra ciò che c'era di orribile in lui e ciò che di buono aveva trovato sulla propria strada. E qualcosa, nel profondo della sua anima distorta, aveva cominciato a smuoversi, come ingranaggi arrugginiti e induriti dal disuso che lentamente riprendevano a girare.
Da dietro la finestra, Erik vide il nobile con la ragazzina al braccio rientrare dalla messa mattutina. Non ci volle molto prima che qualcuno bussasse alla sua porta.
La piccola Luisa si era tolta in fretta i nastri dai capelli e le scarpine di vernice ed era corsa da lui. In mano reggeva un quaderno dalla copertina marrone.
Lo guardò arrossendo; per la prima volta sembrava in difficoltà.
«Cosa c'è?» le chiese Erik perplesso.
Lei abbassò lo sguardo sulla punta delle pantofole di feltro e quasi con riluttanza gli mise il quaderno tra le mani facendogli segno di aspettare ad aprirlo, poi prese un foglio dallo scrittoio, come faceva sempre quando doveva dire qualcosa di troppo complesso da esprimersi a gesti.
VUOI FARMI UN REGALO? Scrisse.
Erik la fissò stringendo le labbra,
«Posso provarci» rispose dopo qualche secondo.
Luisa gli indicò il quaderno e lui lo aprì. Mentre sollevava la copertina le guance della giovinetta si colorarono ancora più intensamente di rosso.
L'uomo sfogliò le pagine, erano piene di versi scritti con una calligrafia larga e spigolosa ma molto ordinata.
«Poesie? Le hai scritte tu?» domandò.
Lei annuì, facendo vagare lo sguardo in giro per la stanza. Sembrava davvero imbarazzata, doveva tenere molto al fatto che lui leggesse quei suoi componimenti e allo stesso tempo forse aveva paura del suo giudizio.
D'un tratto, Luisa posò una mano su quella di Erik, poi aggiunse alcune parole su foglio.
IL REGALO: LA TUA VOCE. VUOI LEGGERLE PER ME?
Quando la giovinetta sollevò di nuovo lo sguardo su di lui, l'uomo si accorse che aveva gli occhi lucidi.
«Con piacere» mormorò aprendo il quaderno alla prima pagina.


_____________________

Here, I have a note...

* mannaggia alla fame. Non so se sia molto “tradizionale” nel dialetto napoletano, ma conosco qualcuno che la usa come imprecazione.

Due piccole precisazioni sulla “gita scolastica” dei ragazzi (oh, quanto mi è piaciuto scriverla!):
Nel romanzo di Leroux, in Rue Scribe c'era uno degli accessi segreti al teatro usati dal Fantasma dell'Opera. Nella mia testa ho sempre supposto che nel film fosse quello da cui entra Erik bambino quando viene portato a teatro da Madame Giry (e a cui eventualmente porta il passaggio segreto che lui apre rompendo lo specchio alla fine del film). Nel film non si fa menzione di Rue Scribe e del passaggio, ma io ho sempre fatto questa associazione.
I pargoli in gita all'Opera arrivano ai sotterranei senza farsi male, già... il passaggio dietro lo specchio del camerino della primadonna in teoria dovrebbe essere quello attraverso il quale Meg guida la folla inferocita alla fine del film (perché la ragazza lo scopre nella scena dopo Music of the Night), se tutta quella marmaglia era arrivata intatta nei sotterranei da lì, non vedo perché non ci debbano arrivare anche i due rampolli.


A mercoledì prossimo ^^

I remain, gentlemen, your obidient servant.



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Capitolo 12
*** Lucia ***


Capitolo undicesimo
Lucia


~ Parigi, 09 maggio 1892 ~

«Whishing you were somehow here again,
knowing we must say goodbey...»

Gustave si chiuse la porta di casa alle spalle, sospirando di sollievo. Suo padre lo aveva tenuto inchiodato a quella scrivania tutto il pomeriggio perché lo aiutasse a consultare i rendiconto delle loro proprietà, occupazione che il visconte De Chagny voleva divenisse prioritaria per il suo unico figlio ed erede. Il ragazzo aveva deciso di assecondarlo e di non avercela con lui, non tutti possono nascere con un animo sensibile all'arte e, a voler essere onesti, Gustave doveva riconoscere che l'animo di suo padre era sensibile già a troppe cose.
Si era sempre sentito fortunato per lo sconfinato amore che aveva ricevuto dai suoi genitori e anche per lo sconfinato amore che loro nutrivano reciprocamente, era raro trovare coppie così affiatate nell'alta società.

«Whishing you were somehow here again,
knowing we must say goodbey...»

Si era sentito privilegiato per essere nato in mezzo al benessere e fortunato per essere cresciuto così tanto amato, non gli era mai importato di quelle strane frasi lasciate a metà che ogni tanto sfuggivano a sua madre, come pensieri che Christine teneva nascosti in un angolo della sua mente e che ogni tanto scalpitavano per tornare in superficie. Lui aveva sempre finto che non gli importasse del passato dei suoi genitori, delle chiacchiere che dicevano che la moglie del visconte era stata coinvolta nel disastro che aveva distrutto l'Opera Populaire... per lui quel palazzo era davvero stato solo un rudere in passato, come aveva detto Louis, anche se una volta, quando era un ragazzino, si era ritrovato seduto nella piazza del vecchio teatro, armato di blocco da disegno e carboncino, e aveva passato un intero pomeriggio a ritrarre l'edificio.
Per lui disegnare, dipingere, era aprire una finestra e poter guardare oltre, un miracolo che suo padre forse non avrebbe mai potuto comprendere. Aveva disegnato l'Opera come se stesse facendo il ritratto ad una vecchia signora, ma non gli era piaciuto guardare oltre, aveva visto ombre, cose oscure, voci sepolcrali che sussurravano nel buio... e da allora aveva deciso che mai si sarebbe interessato alla storia che legava sua madre e suo padre a quel posto. Fino a un paio di sere prima, almeno, perché poi era arrivato Louis, con il suo violino e ombre che non gli appartenevano ma che gli si agitavano in fondo allo sguardo, nella durezza e nella freddezza di certe sue espressioni inconsulte. Ah, certo non era colpa del suo caro amico musicista, ma da quando gli aveva raccontato del diario di suo padre, da quando si era confidato con lui sui sentimenti che di volta in volta provava nel leggerlo, Gustave aveva cominciato a chiedersi se non fosse giusto affrontare le ombre, puntargli contro una luce e vederle sparire.
Tuttavia, nonostante le emozioni di quell'assurdo viaggio nei meandri dell'Opera, Gustave ancora non sapeva se avrebbe trovato mai lo stimolo per accendere quella luce.
E, a proposito di luci... come mai quella della mansarda era spenta?
Era quasi sera, il balcone della casa in cui viveva Louis era chiuso, dietro ai vetri si vedeva solo il buio. Gustave restò fermo sotto al palazzo a guardare quel rettangolo di nero, chiedendosi dove fosse il suo amico, perché non lo aveva aspettato prima di uscire.
Quella strana e triste canzone che a volte sentiva intonare a sua madre, quando credeva di essere sola, senza nessuno che la sentisse, gli fischiava nelle orecchie insieme allo scirocco caldo che spostava le nuvole e cominciava a lasciar intuire le prime promesse dell'estate.

«Whishing you were somehow here again,
knowing we must say goodbye...
try to forgive, teach me to leave,
give me the strenght to try...»

Gustave sospirò e si mise le mani nelle tasche, avviandosi in direzione del Messidor. Quando entrò nel bar fu accolto dal solito allegro vociare degli avventori e da una preoccupatissima Magdeleine che si diresse a grandi passi verso di lui.
«Oh, monsieur De Chagny! Sono contenta che siate venuto» esclamò la giovane tormentandosi una ciocca di capelli ramati.
Gustave sogghignò,
«Mademoiselle, non sono certo io il vostro preferito» disse divertito.
La ragazza alzò gli occhi al cielo e lo afferrò per un braccio, pilotandolo verso un angolo della sala per poi indicargli un tavolo seminascosto dietro ad un appendiabiti al quale sedeva Louis, da solo, con un bicchiere e una bottiglia di cognac già mezza vuota.
Gustave batté le palpebre più volte, come ad assicurarsi di aver visto bene.
«È arrivato qui appena abbiamo aperto» spiegò Magdeleine con apprensione. «Si è seduto lì, ha ordinato quella bottiglia e ha cominciato a bere. Ho provato a parlargli, ma non vuole dirmi cosa è successo...».
Il ragazzo biondo inclinò la testa di lato e fissò l'amico da lontano.
«Direi che è... sconvolto per qualcosa» sentenziò.
«E voi, che siete suo amico, saprete certamente cosa fare» replicò la giovane spazientita.
«Onestamente, mademoiselle? Non credo di saperlo, ma farò un tentativo».
Così dicendo, Gustave si liberò gentilmente dalla presa di Magdeleine che si era fatta più salda sul suo braccio secondo dopo secondo, e si avvicinò al tavolo di Louis fermandosi di fronte a lui. Il ragazzo italiano sollevò per un secondo lo sguardo sul suo amico, gli occhi erano lucidi per il troppo bere e forse, ipotizzò Gustave, non solo per quello.
«Buona sera, Louis» disse il giovane De Chagny in tono tranquillo, scostò una sedia e vi si sedette. L'altro non disse niente, ingollò un altro sorso di liquore, sette immobile qualche secondo, con lo sguardo nel vuoto, poi si scosse e si versò un'altra generosa dose di cognac. Gustave vide che la bottiglia era vuota più della metà.
«A cosa brindi?» fece, in tono del tutto neutro.
Le dita di Louis si strinsero nervosamente attorno al bicchiere.
«Perché non te ne torni a casa dalla tua famiglia perfetta?» replicò dopo qualche secondo di silenzio.
«Perché non mi va. E, per inciso, la mia famiglia non è perfetta... quale famiglia lo è?».
Il giovane moro sollevò la testa per guardare in direzione dell'amico, lo fece con una tremenda lentezza, come se il suo stesso sguardo pesasse.
«Tu... tu...Gustave De Chagny, ami tuo padre?» borbottò con la voce impastata dall'alcol.
«Faccio del mio meglio»
«Lo ameresti sempre... comunque?»
«Temo di sì. È l'inghippo dell'essere figlio suppongo».
Louis scoppiò a ridere battendosi una mano sulla fronte, la sua era una risata nervosa e strascicata. Quando tornò ad alzare lo sguardo, c'era una lacrima che gli stava rigando la guancia.
Gustave gli tolse dalle mani il bicchiere, strappandoglielo con uno scatto brusco del quale non lo si sarebbe creduto capace.
«Molto bene. Sono certo che il tuo stomaco non può contenere più cognac di quello che già ha all'interno, quindi ora andiamo a casa» concluse, alzandosi con fare deciso.
Louis lo guardò con uno strano cruccio, dondolando il capo, poi sbuffò.
«Chi sei tu, dov'è il mio amico Gustave, quello tonto?» snocciolò tra un ghigno e una smorfia.
«È andato a cercare il suo amico Louis, quello ponderato che non si mette a bere come una spugna».
Così dicendo, il giovane De Chagny afferrò il compagno per le spalle e lo fece alzare. Louis era più alto e robusto di lui e non fu facile trascinarlo fuori dal bar, facendolo sfilare tra i tavoli pieni di gente. Gustave pregò di avere la forza di reggere l'amico fino alla soglia di casa.
Dopo il primo isolato, Louis si liberò dalla presa dell'altro ragazzo, si infilò in un vicolo cieco e buio e vomitò.
Gustave ritenette che la cosa fosse una faccenda assai intima tra Louis e Louis, per cui restò a distanza, aspettando che l'amico, che era rimasto ancora piegato con i palmi sulle ginocchia, si riprendesse. Non si era mai ubriacato, ma pensò che fosse un bene che il musicista avesse vomitato subito, almeno non avrebbe rischiato di affogare nel sonno.
Louis riemerse dal vicolo con una faccia di un innaturale colorito olivastro e gli occhi iniettati di sangue. Gustave pensò che gli sarebbe servito da lezione.
«Uccidimi adesso...» blaterò il giovane moro.
«Non ne ho voglia, magari domani».
Raggiunsero la palazzina, con Gustave che tentava di tenere dietro al passo barcollante dell'amico. Una volta entrati in casa, Louis si fiondò in bagno e si sciacquò il viso e la bocca, poi si trascinò fino al letto e si lasciò cadere sul materasso. Il suo sguardo si fissò sulla maschera nera che aveva portato con sé dall'Opera, e che ora era appoggiata sul comodino a guardare con i suoi occhi vuoti la stanza buia.
Il giovane De Chagny prese una sedia dal tavolo della sala e la trascinò ai piedi del letto, si sedette incrociando le braccia sul petto e attese.
«Mio padre...» fece Louis all'improvviso, quando il suo amico ormai credeva che si fosse addormentato. «Mio padre...».
«Tuo padre cosa?»
«Oh, Gustave...».
Il ragazzo italiano rotolò su un fianco e affondò il viso tra i cuscini. Dopo qualche secondo Gustave lo udì singhiozzare, lo lasciò piangere per qualche minuto, poi gli si avvicinò cauto e gli posò una mano sulla spalla.
Quando Louis sollevò il capo, il suo viso era una maschera di angoscia. Si aggrappò al colletto della camicia dell'amico come se non avesse la forza di tirarsi su da solo, lo strattonò bruscamente e strinse così forte le dita attorno ai lembi di stoffa che le sue nocche sbiancarono.
«Mio padre... ha ucciso delle persone, Gustave».
Il giovane De Chagny sussultò, sentì come un colpo di cannone esplodere nel centro esatto della sua mente.
«Come... cosa? È nel diario?» farfugliò atterrito. In quel momento non era quella terribile affermazione ad averlo sconvolto, quanto l'effetto che stava avendo sul suo amico. Non sapeva cosa dire, non sapeva da dove cominciare per consolarlo...
«Perché mia madre ha voluto che affrontassi tutto questo da solo? Io non sono... Gustave... io non sono in grado».
Il ragazzo biondo appoggiò delicatamente le mani sulle spalle dell'amico e lo spinse verso il basso, lasciando che si stendesse sul materasso.
«Lo sei, sono certo che lo sei» gli disse con tutta la dolcezza e la convinzione che riuscì a trovare.
«No... io non... mia madre, perché mi ha fatto questo?» sibilò il ragazzo steso sul letto, prendendo a pugni il guanciale e tormentando le lenzuola. «Lei... lei lo sapeva, lei deve averlo sempre saputo...».
Gustave lanciò uno sguardo colmo di orrore al diario poggiato sul comodino lì accanto. Non capiva, davvero non era in grado di comprende, anche solo di immaginare...
All'improvviso bussò la porta, tre colpi secchi e pesanti come rintocchi di campane nel silenzio pesante della casa.
«Louis, monsieur De Chagny! Aprite!». Era la voce di Magdeleine, certo quella ragazza doveva essersi affezionata molto a Louis, ma forse il suo amico non aveva voglia di condividere anche con lei quel momento tremendo. Tuttavia, Gustave si vide costretto ad andare ad aprire.
Appena ebbe scostato il battente dall'uscio, la ragazza lo spinse via ed entrò.
«In nome di Dio, volete dirmi che sta succedendo? Dov'è quello sciagurato?!» esclamò agitando i pugni a mezz'aria.
A Gustave non piacevano le ragazze così dannatamente energiche.
«Mademoiselle, non gridate, vi prego, non mi siete di aiuto» le disse portandosi l'indice alle labbra. «Ma se volete darmi una mano, potete fare una cosa... ecco...».
Il ragazzo si lanciò alla ricerca di un foglio, di un pezzo di carta, qualcosa per scrivere...
Trovò il quaderno da musicista di Louis, accanto alla custodia del violino, ne strappò una pagina bianca e scrisse calcando il tratto con la matita perché le lettere fossero leggibili al di sopra delle strette righe dei pentagrammi, poi strappò la pagina e la ripiegò. Si frugò le tasche estraendo del denaro, mise il biglietto e i soldi in mano a Magdeleine.
«Questi dovrebbero bastare per andare alla farmacia e comprare del valium: portatemelo. Poi, con quello che avanza, prendete una carrozza, andate a casa mia e fate avere questo biglietto a mia madre» disse perentorio, pensando nel mentre che doveva far sparire la maschera dal comodino di Louis.
«Ma cosa?...»
«Siete venuta per dare una mano, no? Vi assicuro che per adesso questo è tutto quello che possiamo fare, mademoiselle».
Magdeleine allungò il collo, cercando di spiare oltre la soglia della camera da letto.
«E cosa c'entra vostra madre?»
«Dato che la sua è a diverse centinaia di chilometri di distanza, temo ne occorra una di riserva...».  

*******

~ Napoli, 16 aprile 1871 ~

I giorni passati lontano dal teatro, a casa del duca, erano stati giorni strani, giorni trascorsi con un tempo un po' sfasato e con una lentezza singolare, come Erik immaginava dovessero essere i giorni di vacanza. Certo, se per vacanza si intendeva un periodo di riposo, quelle quattro giornate trascorse a palazzo Giusso non erano state affatto riposanti.
Aveva dormito poco e male quasi tutte le sere. I suoi pensieri erano rivolti alternativamente ora al lavoro che lo attendeva quando tutti avrebbero fatto ritorno al San Carlo – sperava che quei quattro giorni non avessero fatto passare di mente agli attori della compagnia e ai musicisti dell'orchestra tutto ciò che lui aveva insegnato loro – ora agli incubi e ai ricordi che lo avevano tormentato.
Il sangue era una cosa impossibile da lavare via da una coscienza. Era stato versato per difesa quando aveva ucciso il suo carceriere, da bambino, e quando aveva tolto la vita a Buquet. Ed era stato per pura follia che aveva ucciso Ubaldo Piangi, non aveva nulla contro quel mediocre tenore, si era solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: quella sera avrebbe distrutto qualsiasi cosa si fosse trovata tra lui e Christine. Ma tutto ciò era incancellabile, un peso che sarebbe rimasto immutato dentro di lui, andandosi a sommare al suo nulla fatto di fantasmi invadenti.
Non era un vero e proprio rimorso quello che sentiva, era più che altro la rabbia che prova un uomo davanti a qualcosa di inevitabile incontrato sulla propria strada.
Ma in quei giorni cupi, ogni volta che i fantasmi allungavano le dita o alzavano la voce, la tranquillità della casa del duca portava un po' di luce che bastava a zittirli e a farli arretrare.
Luisa gli aveva fatto leggere le sue poesie e lui le aveva trovate davvero belle per una bambina di quell'età. Gli aveva chiesto di leggerle ad alta voce e aveva visto gli occhi della piccola illuminarsi, il suo respiro quasi spezzarsi nell'emozione di sentire le sue parole suonare sulle labbra di qualcuno.  
Poi gli aveva chiesto di nuovo di cantare e lui aveva detto di nuovo di no. Sembrava che alla fine lei si fosse arresa, che avesse compreso quanto lui fosse irremovibile su quel punto. Lui non poteva più cantare, non ci riusciva. Però aveva potuto suonare, suonare per gli ospiti del duca che avevano invaso il palazzo per quel grande pranzo la domenica di Pasqua. Durante le ore trascorse a tavola, Erik aveva recitato il suo ruolo consunto di persona normale, per quanto normale potesse sembrare agli occhi della gente un uomo che porta perennemente una maschera sul viso. Aveva eluso le domande che vertevano su di lui, sul suo passato in Francia, e aveva conversato con chiunque volesse discutere di arte, teatro, cultura, stupendo i presenti con la sua sconfinata conoscenza in quasi ogni branca del sapere. E poi, dopo quell'interminabile e straziante pranzo, il duca gli aveva chiesto un nuovo regalo, come quello che aveva ricevuto in occasione del suo compleanno. Quella era stata decisamente la parte più interessante della giornata. Aveva provato un certo perverso compiacimento, proprio come alla festa in maschera del mese precedente, si era beato dell'ammirazione stampata sui volti dei presenti e lo aveva fatto con un gusto e con un piacere che difficilmente quella gente avrebbe potuto comprendere.
Alla fine, aveva dovuto ammettere, che quella sorta di vacanza non era stata spiacevole. Aveva lasciato il palazzo del duca sentendo qualcosa di nuovo che aleggiava nella sua mente, una scintilla quasi di bontà, il bisogno di fare qualcosa di buono fine a se stesso.
Tuttavia, si sentì molto più a suo agio la mattina del martedì, attraversando a piedi il pezzo di città che separava palazzo Giusso dal San Carlo, mentre l'alba rischiarava lentamente il cielo.
Aveva fissato le prove con l'orchestra per quella mattina stessa, litigandosi il palco con la direttrice del balletto che doveva far esercitare le sue ballerine.   
La mattina era trascorsa tranquilla, persino rivedere Guglielmo Marchesi e ritrovarselo tra i piedi con tutta la sua reverenzialità non gli era parso troppo sgradevole.
Non aveva convocato gli attori della compagnia per quelle prove. Doveva semplicemente sistemare delle faccende con l'orchestra, il suo orecchio assoluto – diventato oggetto di profonda ammirazione tra i musicisti del San Carlo – aveva rivelato troppe discordanze nelle ultime volte che aveva sentito gli orchestrali suonare e gli errori andavano corretti prima di subito. Dopotutto mancava solo un mese alla messa in scena dell'opera.

I musicisti lasciarono il teatro ad ora di pranzo. Erik si ritirò nel suo ufficio e poco dopo Guglielmo lo seguì, bussando alla sua porta con l'immancabile tazza di caffè.
Il giovane Marchesi non sembrava di buon umore, evidentemente i giorni trascorsi in casa con la sua famiglia non erano stati salutari e sembrava che le pene d'amore che lo affliggevano si fossero fatte ancora più... penose.
«Maestro, ditemi la verità» disse Guglielmo all'improvviso, rigirandosi tra le mani la tazzina di caffè ormai vuota. «Cosa ne pensate della signorina Rovesti?».
Erik dovette reprimere l'impulso di lanciargli contro il fermacarte di marmo.
«Perché questa domanda?» chiese, caricando le parole con tutto il suo fastidio sperando così di dissuadere il suo interlocutore dall'indugiare in quel discorso.
«Perché... io darei tutto l'oro del mondo per essere al vostro posto...» mormorò invece il giovane signore abbassando lo sguardo.
Eccolo. Ecco il mostro che si dibatteva nella sua prigione di forzata normalità, che gridava prepotente. Ecco, la furia che cominciava a rendergli il sangue incandescente. Essere al suo posto?
Ah, che l'inferno ti porti! Ah, Dio come hai potuto creare creature così stupide?
«Essere al mio posto?» ripeté gelido. Anni, decenni di rabbia, frustrazione e solitudine si condensavano in quelle parole, le rendevano brucianti nella sua gola.
Guglielmo Marchesi ora aveva l'aria di uno a cui si era gelato il sangue.
Erik fu costretto ad alzarsi e voltarsi di spalle, avvicinandosi alla finestra. Temeva davvero che se avesse avuto per un solo istante ancora il volto di quell'imbecille davanti agli occhi avrebbe potuto commettere uno sproposito.
Essere al suo posto?!
«Sì!» esclamò Marchesi d'un tratto, convinto, con la voce ferma. Erik stava fremendo di rabbia, ma si costrinse a voltarsi e a guardarlo, lo fece con gli occhi che fiammeggiavano di furia, eppure Guglielmo resse lo sguardo, per la prima volta da quando lo conosceva sembrava assolutamente sicuro di sé.
«Sì, sì Erik, vorrei essere al vostro posto, perché credetemi, qualsiasi cosa ci sia sotto quella maschera, voi siete un uomo straordinario... ed è tutta la vita che sogno di essere anche solo un decimo di ciò che siete voi. E sì, baratterei tutta la fortuna della mia famiglia per essere guardato una sola volta da Graziana come lei guarda voi».

Qualsiasi cosa ci sia sotto quella maschera...
Un uomo straordinario...

Povero, piccolo Guglielmo, così ignaro, così solo, così disperato,così in trappola. Forse assomigliava a lui più di quanto pensasse!
«Non sapete ciò che state dicendo, credetemi» concluse infine Erik, ritrovando un po' calma e di lucidità, sentendosi quasi solidale con il suo sciocco interlocutore. «Non sapete ciò che state dicendo, né in merito a me, né in merito alla signorina Rovesti... lei non vi merita»
«Che dite?...»
«Mi ammirate tanto, a sentirvi, eppure non volete fidarvi di me su una cosa così ovvia»
«Ovvia? Voi... forse siete voi che non sapete...».
Erik sospirò pesantemente.
«Avete un cuore troppo grande, Guglielmo» dichiarò abbassando le armi una volta per tutte, deponendo la furia e l'odio, e pensando semplicemente a porsi da uomo a uomo in modo onesto per la prima volta da quando era cominciata quella strana avventura. «Avete un cuore così grande che la piccolezza di quella donna vi farebbe eco».
Gugliemo corrugò la fronte in una smorfia offesa, ma nel vedere l'espressione così placida e accorata del suo interlocutore sembrò rabbonirsi.
«Non potete saperlo» mormorò a fior di labbra.
«Sì, posso. Un tempo anche la mia piccolezza ha fatto eco nel cuore di un'altra persona e le conseguenze sono state orribili» replicò Erik. «Ciò che c'è sotto questa maschera è nulla al confronto dei segni che mi porto dentro».

*

Le sere cominciavano a farsi notevolmente più calde. Non pioveva da giorni e il vento che soffiava su Napoli era tiepido, amichevole.
Gli avventori che passavano le serate al bar Notte 'e vierno ormai preferivano restarsene fuori. Ce n'era sempre almeno una dozzina quando usciva, e tutti si toglievano il cappello e la salutavano con fare rispettoso. Lucia ricambiava con il miglior sorriso che aveva e poi proseguiva per la sua strada.
Era più tardi del solito quella sera, la ragazza si chiuse alle spalle il pesante portone della palazzina e lasciò che il chiacchiericcio degli uomini seduti fuori al bar facesse prendere quota alla sua allegria, quell'allegria che tentava di trattenere, a volte riuscendoci a stento, con le dita dei piedi. Perché non fuggisse via, aveva bisogno di alimentarla con la musica di Napoli, con tutta la musica di quella città.
Si strinse il foulard attorno al collo e voltò l'angolo della piazzetta. Andò quasi a sbattere contro l'uomo che camminava in direzione opposta alla sua.
«Scusate...» mormorò.
Ah, era quell'uomo, il Maestro Francese. Era più di una settimana che non lo vedeva fermarsi nella piazza, in contemplazione delle facciata della palazzina che ospitava il bordello. Se n'era quasi dimenticata.
Si sarebbe aspettata un «no, scusate voi», ma l'uomo non rispose. Non che le fosse mai parso un tipo abituato a conversare, ma quella sera aveva un'aria particolarmente cupa e stanca, l'aria di qualcuno provato da troppi pensieri molesti. Era insensato forse, ma Lucia trovava che in quell'uomo ci fosse qualcosa di stranamente buffo e divertente, un po' come in quelle situazioni imbarazzanti che dovrebbero preoccupare e invece fanno ridere. Ecco, quell'uomo era buffo nella sua gravità, forse erano i modo impacciati che tentava di dissimulare dietro quell'aria signorile e composta – se n'era accorta quella volta in teatro, era brava a osservare gli uomini e a coglierne i particolari. Anche se poi, a guardarlo negli occhi, passava davvero la voglia di ridere di qualsiasi cosa. Quella sera in particolar modo aveva uno sguardo piuttosto malinconico e smarrito.
«Credevo aveste smesso di frequentare le nostre zone» gli disse.
L'uomo la fissò come si fissa un granello di polvere sul bavero della giacca, poi si riscosse e le rivolse uno sguardo vagamente più umano ed educato.
«Siete voi quella che non dovrebbe frequentare quartieri bui di sera» borbottò meccanicamente, come per una frase di circostanza.
Si sentiva in dovere di mettere in guardia una donna sola dal passeggiare di sera in un quartiere ritenuto malfamato?
Lucia inarcò le sopracciglia,
«Bah, i quartieri bui non fanno male ai loro stessi abitanti, soprattutto qui a Napoli, non lo sapevate?» replicò.
«Onestamente, per quanto stia imparando ad amare questa città, ci sono parecchie cose che ancora non so».
La ragazza ridacchiò,
«Certo, certo, su Napoli non si finisce mai di imparare. Ma, se posso permettermi, restare a fissare la facciata di un palazzo non è molto istruttivo».
L'uomo sembrò irritarsi, il sopracciglio sinistro assunse una strana curva a metà tra lo sdegno e la perplessità.
«Faccio ciò che preferisco del mio tempo» concluse torvo.
«Naturalmente. Ma io stavo andando ad ascoltare della musica... avete mai ascoltato niente della nostra musica? No? Volete dirmi che da quando siete qui vi siete limitato ad ascoltare pomposi orchestrali e maliarde soprano?»
«Vi interessa così tanto?»
«Ero solo curiosa. Come vi ho già detto, stuzzicate fin troppo la curiosità della città, e io appartengo alla città».
Era vero, era curiosa, come tutti e forse molto più di altri. Sentiva così spesso parlare dei prodigi che quell'uomo stava compiendo in teatro e le sarebbe piaciuto scoprire se era davvero l'artista così sensazionale che tutti dicevano.
«Avete qualche particolare avversione per il teatro?» chiese l'uomo. A Lucia sembrò che non volesse interrompere la loro conversazione ma che la trascinasse in maniera un po' forzata, come quando si tenta di attaccare bottone con un compagno di viaggio estraneo durante un lungo tragitto.
Si sentiva così solo e malinconico da aver voglia di parlare con qualcuno, chiunque fosse? Oppure c'era qualche motivo che lo portava ad essere interessato a parlare con lei? Oh, forse aveva saputo la sua storia e la trovava curiosa, già... sono sempre curiosi da guardare gli uccelli in gabbia. Ma allora la cosa era reciproca e Lucia non ebbe voglia di rimuginare sulla questione.
«Io amo il teatro, l'ho frequentato spesso in effetti, o almeno lo frequentavo tempo fa» gli disse scrollando le spalle. «Immagino ormai abbiate imparato una storia o due sulle facce note della zona, quindi probabilmente lo saprete».
L'uomo sembrò assumere per un attimo un'espressione basita. Non doveva essere il tipo di persona abituata alla semplice e modesta schiettezza, doveva appartenere probabilmente a quella categoria di persone che ritengono il dolore un'onta da celare agli occhi del mondo, salvo poi usarlo come un'arma nel caso venissero messi alle strette. Beh, lei di certo non era tipa da mettersi a fare la vittima con uno sconosciuto, ma a che serviva fingere che non ci fossero ombre sulla sua vita quando tutta Napoli ne era al corrente?
«Amo il teatro» ripeté. «Ma a volte ho bisogno di ascoltare qualcosa di diverso»
«Ad esempio?»
«Santi numi! Allora avete davvero ascoltato solo usignoli e tromboni!»
«Perché la cosa sembra turbare più voi che me?»
«Non mi turba, è che vi facevo un tipo amante delle cose belle. E la musica napoletana è una cosa bella».
L'uomo le concesse un accenno di sorriso, fu un cambio di espressione quasi istantaneo, poi il suo viso tornò a essere impassibile e freddo.
«Avete così tanto desiderio di farmi da guida?» le domandò dopo qualche secondo.
Lucia scrollò le spalle. No, non aveva particolare desiderio di trascorrere del tempo con lui o fargli da guida alla scoperta della città e dei suoi tesori, ma già che c'era perché non portarlo con sé quella sera e provare a togliergli quell'aria da cane bastonato dalla faccia?
Quando aveva uomini che facevano la fila alla sua porta, e quando tra questi si presentava qualche straniero particolarmente interessato alla tradizione napoletana, Lucia gli suggeriva sempre di andare nel posto in cui era diretta lei stessa quella sera. Peccato che pochi di loro fossero disposti a smettere di recitare il loro ruolo da signori e ad apprezzare qualcosa che doveva apparire così basso e povero ai loro occhi.
«Se volete fare qualcosa di diverso dal restare a fissare la palazzina in fondo alla piazza...» suggerì sarcastica.
L'uomo deglutì. Vuoi vedere che quella era proprio la sera in cui aveva deciso di mettere piede nel bordello? A Madame Fantine non sarebbe piaciuto perdere l'occasione di avere tra i suoi clienti uno dei personaggi più chiacchierati di Napoli in quelle settimane.
«Ma se avete altri impegni, non sarò io a trattenervi» aggiunse la ragazza, facendo per andarsene.
Il Maestro la fermò,
«Temo mi abbiate offerto una tentazione troppo grande» disse, senza alcuna ironia. «La musica è sempre stata la mia peggiore dannazione».
Lucia sorrise. Questa sarebbe stata divertente da raccontare alle ragazze il giorno dopo!
L'uomo la seguì fuori dal quartiere, attraversarono lo spiazzo davanti al teatro, costeggiarono piazza del Plebiscito e si addentrarono in un vicolo spoglio. Il Maestro non fu di molte parole e Lucia non aveva particolare voglia di mettersi a conversare o, quanto meno, non aveva niente da dirgli.
Raggiunsero una palazzina fatiscente, un gatto randagio tagliò loro la strada mentre si avvicinavano a una stretta porta di ferro arrugginito.
Quando la ragazza aprì la porta fu come se ci fosse il sole tenuto prigioniero dietro di essa. La luce di quelle che dovevano essere almeno cento lampade e candele disegnò un rettangolo chiaro sul ciottolato. Oltre la soglia c'era una piccola scala di pietra, una cacofonia di voci alte e sgraziate risuonava dall'interno.
L'uomo continuò a seguire la ragazza senza dire niente e senza fare domande. Ai piedi della scala c'era una donna che stava lavorando a maglia, davanti a un tavolino sul quale teneva un barattolo di latta.
«Bona sera, 'onna Lucì» disse la donna sollevando per un solo istante lo sguardo dall'informe rete di fili di lana che aveva tra le mani.
Lucia prese delle monete dalla tasca e le lanciò nel barattolo.
Sulle pareti di pietra spoglia, chiazzata di umidità, erano attaccati alcuni santini di cartone ormai sbiaditi.
L'uomo si guardò attorno con un certo interesse. Bene, almeno era curioso!
La ragazza gli fece cenno di seguirlo e imboccò uno stretto corridoio, il cui soffitto era tappezzato di ragnatele, come dita spettrali, che ondeggiavano al minimo spostamento d'aria.
Il corridoio immetteva in uno stanzone rettangolare, con le pareti di tufo alle quali erano appesi dei bruttissimi quadri con scene di caccia e paesaggi improbabili, alcuni tavolacci di legno tarlato erano addossati alle pareti. Quel seminterrato era pieno di gente e c'era un fortissimo odore di fumo, di chiuso e di polvere.
L'uomo guardò perplesso i grappoli di pomodorini appesi in giro e alcune grosse damigiane di vetro verde dalle quali saliva ancora un forte odore di vino in fermentazione.      
Lucia batté una mano sulla spalla del proprio accompagnatore e gli indicò di guardare oltre il crocchio di teste raccolte a fissare tutte nello stesso punto.
C'era qualcuno in fondo alla stanza, un uomo con un consunto costume da Pulcinella, con il bianco che era piuttosto ingiallito, il berretto sformato gli pendeva sulla nuca e la maschera nera aveva qualche scheggiatura. Da sotto il profilo della maschera spuntavano un mento un po' appuntivo velato di barba sfatta e una bocca leggermente raggrinzita. Accanto a Pulcinella c'era un ragazzo che imbracciava un mandolino e una ragazza che armeggiava con un tamburello.
Il ragazzo pizzicò le corde del mandolino e cominciò ad accordarlo. Quando ebbe finito, fece un cenno a Pulcinella e cominciò a suonare.
Lucia spiò il viso del suo compagno e le sembrò avesse un'espressione soddisfatta e interessata. Poi, quando Pulcinella iniziò a cantare, quel volto così duro, si aprì al primo sorriso – probabilmente un sorriso istintivo e non voluto – che lei gli avesse mai visto fare nelle poche volte che lo aveva incrociato.

 Palummella, zompa e vola
 addó' sta nennélla mia...
 Non fermarte pe' la via
 vola, zompa a chella llá...

La ragazza smise di prestare attenzione all'uomo che era con sé e preferì concentrarsi sulla musica: quella era una delle sue canzoni preferite. La voce di Mastro Pulcinella era come un balsamo sui suoi pensieri, ed era sempre il piacere più grande che fosse mai riuscita a concedersi.

Palummella, vola vola
 a la rosa de 'sto core...
 Non ce sta cchiù bello sciore
 che t'avesse da piacé...

Lucia sentiva la tenerezza assediarle il cuore. Nota dopo nota, ogni dispiacere andava via.
«Che ve ne pare?» chiese all'uomo accanto a sé.
Lui sembrava sinceramente ammirato,
«È la cosa più dolce che abbia mai udito» ammise, senza guardarla, ancora perso nei suoni della musica. «Purtroppo non capisco le parole. Di cosa parla?».
La ragazza sentì il cuore mancarle un battito.
«Parla... della nostalgia per una persona che si ama» disse con un sospiro.
«Lo dite come se vi toccasse»
«E mi tocca, infatti. O credete che una come me non possa amare?».
L'uomo arricciò la bocca e deglutì, come se dovesse ingoiare qualcosa di amaro. Poi fece uno strano sorriso triste e scosse il capo.
«Non lo credo. Se persino uno come me è stato in grado di farlo...».
Lasciò la frase in sospeso, i suoi occhi si persero inseguendo un ricordo pesante come una nuvola carica di pioggia.
Pulcinella cantò a lungo, fino a quando sembrò averne voglia, poi se ne andò tra gli applausi dei presenti.
Quando se ne fu andato, la gente ricominciò a parlare ad alta voce e la stanza si riempì di parole dialettali e di risate.
Lucia indicò al Maestro un tavolino vuoto con due sedie di paglia, poi sparì in mezzo alla calca per tornare qualche minuto dopo con una caraffa di vino bianco e due bicchieri. Posò il tutto sul tavolino e sorrise, quasi con aria di scusa,
«Il vino non è dei migliori, certo sarete abituato a qualcosa di più raffinato...».
«Sono certo che andrà benissimo» rispose lui, e le sembrò persino gentile.
La ragazza si sedette e versò il vino.
«Avete detto che avete frequentato molto il teatro» disse il Maestro, alzando la voce per farsi sentire al di sopra di quel caos. La ragazza annuì. «Parlatemene».

*  

Lo sguardo della ragazza viaggiava lontano mentre parlava. Di tanto in tanto si interrompeva nel tentativo di mettere insieme un nuovo ricordo, e allora lo guardava in viso.
Gli stava raccontando dei vecchi spettacoli a cui aveva assistito, descrivendogli con dovizia di particolari il modo in cui erano stati allestiti al San Carlo. Erik le conosceva tutte quelle rappresentazioni, le aveva viste replicate forse decine di volte, ma assorbiva con avidità e interesse i racconti di Lucia.
La ragazza, per sua stessa ammissione, non era una grande esperta di musica e canto, ma era certo un'ottima osservatrice e una spettatrice con un certo gusto.
Il seminterrato era già quasi del tutto vuoto quando lei smise di raccontare.
Lucia si guardò attorno e coprì uno sbadiglio con la mano. Doveva essere piuttosto tardi.
«Credo sia ora di andare a letto. Voi cosa ne dite, Maestro?».
Erik si rigirò il bicchiere tra le mani. Aveva totalmente perso la cognizione del tempo. Quella serata gli era parsa solo una delle tante schegge impazzite del mosaico che tentava di risistemare, ma gli era piaciuta la musica, una musica di cui non capiva le parole ma della quale avvertiva distintamente il sapore agrodolce delle melodie. In quanto alla ragazza, gli era parso strano ritrovarsi a conversare con qualcuno che sentiva così odiosamente vicino a sé. Non che pensasse che Lucia fosse in grado di capirlo e che le cose che aveva provato somigliassero davvero alle sue pene, ma era pur sempre la persona con una storia e con un modo di sentire più simile al suo che avesse mai avuto modo di incontrare. Ed era l'unica persona che non gli aveva fatto domande.
«Credo che abbiate ragione. Vi accompagno» le disse con misurata galanteria, alzandosi per scostarle la sedia.
Mentre ritornavano verso la piazzetta sulla quale affacciava l'Araba Fenice, Erik avrebbe voluto essere lui a farle delle domande. Non gli interessava quella ragazza, il suo animo, ma voleva sapere come riusciva a convivere con sé stessa.
Mentre voltavano l'angolo, incrociando un crocchio di uomini che stavano lasciando la Notte 'e vierno, ci fu una sola domanda che affiorò nella mente di Erik, un pensiero assurdo che cominciò subito a fare eco tra i suoi pensieri, con la caparbietà delle idee balzane e moleste.
L'uomo tentò di dire a se stesso che era una sciocchezza, una folle idea da non perseguire, ma alla fine le parole gli fuggirono di bocca. E fu come quando aveva ricambiato il bacio di Graziana, o come quando aveva parlato a Guglielmo quello stesso pomeriggio: sgradevole e liberatorio allo stesso tempo.
Lucia stava per voltarsi verso di lui e augurargli la buona notte, ma Erik la fissò, trovando il coraggio di guardarla negli occhi, spoglio da ogni riserva.
«Posso tornare e chiedere di voi?» le disse.
Quella domanda fu un bagno gelato persino per se stesso. Non osava immaginare cosa stesse pensando ora la ragazza. Come diamine aveva potuto venirgli in mente una tale assurdità?
Ma era un'assurdità? Ora che il nulla aveva sommerso anche l'amore e non aveva lasciato altro che i ricordi più mostruosi, che senso aveva mantenere ancora delle riserve?
Non si era mai fidato di nessuno, non aveva nemmeno intenzione di fidarsi della ragazza, ma era l'unica con il quale sarebbe riuscito a non stare sempre sul chi vive, dopotutto avevano qualcosa in comune.
Per un attimo Lucia sembrò spiazzata, poi assunse un'espressione tranquilla e paziente.
«Cercare di me?» disse. «Qualsiasi cosa vi abbiano raccontato, non sono più quella di un tempo».
Erik avrebbe voluto avere la forza di girare sui tacchi e andarsene. Ma non lo fece.
«Non è importante...».
La ragazza aggrottò leggermente la fronte e incrociò le braccia sul petto,
«E cosa lo è?» chiese.
L'uomo si indicò la maschera senza dire nulla. La giovane sospirò e assunse un'espressione pensosa, poi dopo qualche secondo sospirò,
«Certo, capisco» asserì con una certa tristezza nel tono. Il suo sguardo si era fatto un po' più duro. «Ebbene, anche io potrei avere qualcosa che non voglio mi venga tolto».
Erik annuì dondolando il capo.
«Avete la mia parola, se io ho la vostra» concluse.
Lucia accennò uno strano sorriso, quasi amichevole,
«L'avete».   

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Capitolo 13
*** Ricordi ***


Capitolo dodicesimo
Ricordi


~ Parigi, 10 maggio 1892 ~

Louis aveva una mente straordinariamente abile a trattenere i ricordi. Scene, suoni, persino profumi di tanti anni addietro erano capaci di riaffiorare tra i suoi ricordi con una nitidezza e una precisione meravigliosa. O almeno, a lui sembrava una cosa meravigliosa dato che quasi tutti i suoi ricordi erano belli, aveva avuto una vita felice, un'infanzia serena e una giovinezza agiata. Poi suo padre era morto... e poi... e poi questo. Quelle parole tremende e inquietanti vergate dalla mano dell'uomo che lo aveva cresciuto.

Il sangue che ho versato mi annega nei miei incubi. Non sarò mai abbastanza lontano dal mio passato da dimenticare di essere stato un assassino.

Parole scritte come una qualsiasi constatazione. Non c'era rimpianto, non c'era rimorso. L'unico rimpianto di suo padre era quella donna, la fanciulla di cui parlava nelle pagine più tristi e angosciate di quel diario, la ragazza senza nome per la quale Erik si era dannato l'anima, il cui ricordo lo consumava come una candela, goccia dopo goccia.
Louis strinse le palpebre. Sentiva gli occhi bruciargli per il sonno, aveva passato tutta la notte a rigirarsi nel letto, incapace di dormire e incapace di restare davvero sveglio. Aveva sentito qualcuno entrare e parlare con Gustave – Gustave! Era davvero rimasto con lui tutto il tempo? – e poi, dopo un po' di tempo qualcun altro arrivare e sedersi su una sedia accanto al letto.
Uno dei suoi tanti ricordi era affiorato dal nulla, in mezzo a quel caos di sconcerto e smarrimento e lo aveva colpito in viso come uno schiaffo. Era un ricordo bello e dolcissimo, forse uno dei ricordi più dolci legati alla figura di suo padre.
Louis aveva sette anni, c'era stato un inverno particolarmente rigido e molti bambini si erano ammalati. «Nessuno è mai morto di raffreddore» dicevano le comari alle finestre, ma nonostante i giorni di riposo, le cure e le medicine, il raffreddore di Louis si era trasformato in una febbre fortissima che non accennava a scendere. Era debole e frastornato dalla malattia, riusciva a stento a parlare eppure era rimasto lucido e vigile tutto il tempo, tanto da sentire sua madre piangere sulla soglia della sua camera da letto e gli incoraggiamenti titubanti del medico che ogni giorno veniva a fargli visita.
Sua madre passava ore e ore al suo capezzale, tamponandogli la fronte con un panno umido, cercando di farlo mangiare o semplicemente fissandolo... Dio, che strazio tremendo deve essere per una madre quello di restare a guardare il proprio figlio, contando i respiri, fissando il suo petto sollevarsi e abbassassi, temendo che l'istante successivo quel respiro si spezzi!
Suo padre invece... Louis non aveva visto altro che quell'imponente figura fermarsi sulla soglia della camera, aveva sentito su di sé lo sguardo di quegli occhi che gli dispiaceva non aver ereditato, e quasi aveva sofferto più che per la malattia, per il dolore che stava procurando ai suoi genitori.
«Fa' qualcosa...» aveva udito sua madre mormorare a fior di labbra. Forse era una preghiera rivolta al Signore, ma non fu certo la mano di Dio quella che Louis sentì posarsi sulla propria fronte bollente. Era suo padre, da dove diamine era spuntato?
«Va' a riposare, ci penso io a lui» aveva detto Erik, a bassa voce, senza tradire alcuna emozione particolare. Sua madre aveva esitato prima di allontanarsi dal letto, ma alla fine aveva lasciato la stanza, trascinandosi con passo stanco verso la porta che poi aveva richiuso piano alle sue spalle.  Louis avrebbe voluto richiamarla indietro, ma non ne ebbe la forza.
Erik restò a guardarlo per un tempo che sembrò infinito, Louis sollevò faticosamente lo sguardo su di lui. La febbre lo scuoteva con dei brividi tremendi, sentiva la pelle bruciare come se fosse fatta di fuoco, ma il sangue sembrava essersi tramutato in fiocchi di neve.
L'uomo scostò le coperte e si stese nel minuscolo lettino accanto a suo figlio, poi avvolse entrambi nei diversi strati di trapunte di lana, circondò le spalle del bambino con un braccio e lo strinse a sé. Louis sentì un vago senso di sollievo quando la sua guancia si posò sulla stoffa fresca e morbida della camicia di suo padre.
«Mi dispiace...» mormorò, ed era dispiaciuto davvero.
«Tu sei la mia anima, Louis. Per nessuna ragione al mondo permetterei che mi venissi portato via» sussurrò Erik al suo orecchio, con quella sua voce di angelo che lui tanto gli invidiava e che glielo aveva reso, se possibile, ancora più amabile e degno di ammirazione.
Louis non ricordava altro, se non il fatto che si fosse raggomitolato contro il petto dell'uomo e che si fosse addormentato. Si era risvegliato il mattino dopo, Erik era ancora lì accanto a lui. La febbre non era scesa, ma si sentiva un po' meno debole, quel tanto che bastava per sollevarsi e gettare le braccia la collo di suo padre. Erik lo aveva avvolto nelle coperte, lo aveva preso in braccio e lo aveva portato accanto alla finestra, facendolo restare seduto sulle sue ginocchia. Insieme avevano osservato il mare infrangersi contro gli scogli, il vento spazzare la strada e far volare via i cappelli dei passanti.
Ci erano voluti altri due giorni perché la malattia cominciasse a dare segni di miglioramento, ma quando Louis era stato in grado di scendere dal letto e reggersi in piedi, aveva sentito la cameriera dire era un bambino troppo amato perché gli potesse capitare davvero qualcosa di male, che la febbre aveva avuto paura dell'amore alla fine...
E allora come era possibile che lo stesso uomo che lo aveva tenuto tra le braccia quella notte, quasi come a volerlo nascondere alla vista della Morte, avesse ucciso qualcuno?
Era una domanda che si rigirava nella sua mente come un ferro rovente in una ferita. Louis avrebbe potuto quasi urlare per il dolore.
C'era un meraviglioso sole primaverile che filtrava dagli scuri socchiusi. Parigi cominciava ad avere odore di fiori e di erba tagliata, in giornate come quella la capitale francese era di una bellezza luminosa, splendida... tanto che Louis l'avrebbe trovata oltraggiosa per lo stato in cui era.
All'improvviso sentì una mano fresca posarsi gentile sulla sua fronte e un profumo buono. Si girò di lato, sollevando le palpebre gonfie e intravide la figura esile e minuta di madame De Chagny seduta  sul bordo del letto, come sua madre tanti anni prima. Dunque era lei la persona che aveva sentito entrare durante la notte... Louis si sentì quasi imbarazzato.
«Christine?...» farfugliò con la voce impastata.
«Gustave era molto preoccupato per voi, come vi sentite?» disse la donna con un sorriso dolce.
Il giovane si sentì sprofondare. Gustave l'aveva mandata a chiamare... dei del cielo! Perché mai? Cosa le aveva raccontato?
Grazie a Dio il suo amico aveva fatto sparire la maschera dal comodino, se la signora avesse fatto qualche domanda in proposito lui non sarebbe stato particolarmente abile a trovare qualche menzogna adatta.
«Siete piombata qui in piena notte? Cosa dirà vostro marito?» borbottò Louis arrossendo.
«Ah, non vi preoccupate, Raoul di certo non me ne vorrà per essere venuta in soccorso di mio figlio».
Il figlio in questione spuntò oltre la soglia.
«Come ti senti, Louis?» domandò, guardando l'amico con apprensione.
«Non tanto male da trattenere oltre tua madre» rispose il ragazzo moro con un sospiro. «Vi siete già dati tutti troppa pena per me...». Non voleva parlare a madame De Chagny di quello che era accaduto, di quello che aveva scoperto. Gli piaceva quella donna, gli piaceva la famiglia di Gustave, non voleva essere compatito da loro, né voleva turbarli...
«Non dite sciocchezze, siete qui da solo, se non sono gli amici a prendersi cura di voi... e poi, se mio figlio fosse lontano da casa, vorrei che qualcuno facesse lo stesso per lui» replicò Christine con fermezza, guardando Louis negli occhi. «Gustave non mi ha detto cosa è accaduto, e non siete tenuto a parlarmene, però vorrei tanto che non restaste qui da solo. Ho una carrozza che mi aspetta di sotto, perché non venite a casa con noi?».

*******

~ Napoli, 20 aprile 1871~

I ricordi sono il peggior supplizio che si possa infliggere a un essere umano.
Questo pensiero volteggiò nella mente della ragazza come una bolla di sapone, librandosi al di sopra di ogni altra idea, fino a infrangersi e sparire nella curva di un ricciolo che non voleva saperne di stare al suo posto.
Lucia pettinò con gesti stizziti i capelli che aveva appena lavato, fingendo di non aver visto quel vecchio libro caduto dalla mensola mentre cercava la spazzola.
Il libro, dalla lisa copertina di tela azzurra, era rimasto sul tappeto a soffiare nel silenzio della stanza una musica straziante, ogni nota era una notte insonne, un batticuore prima bellissimo e poi trasformatosi nel suono di vetri e sogni infranti.
Forse il peggior supplizio toccato all'animo umano non era la facoltà del ricordo quanto la tentazione dell'amore, un canto di sirene che non si può fingere di non ascoltare e che ti trascina inesorabilmente verso il fondo. Almeno, questo era quanto accadeva a donne come lei... così si era sempre detta quando il suo cuore straziato aveva chiesto alla ragione di trovare un motivo per spiegare come mai le cose fossero andate in quel modo.
Ci vollero diversi minuti prima che Lucia approvasse la propria immagine riflessa nello specchio, prima che quell'aria assorta abbandonasse il suo viso e lei riuscisse a posare lo sguardo sul libro fingendo indifferenza.
Si alzò per raccoglierlo, l'abito che non aveva ancora finito di abbottonare le scivolò di lato scoprendole la spalla. Mentre si voltava, la ragazza vide con la coda dell'occhio il segno rosso e frastagliato dell'ustione e i ricordi minacciarono di assediarle nuovamente la mente, distruggendo ogni scampolo di luce che era riuscita a preservare.
Fortunatamente qualcuno bussò alla porta e i ricordi si dispersero come uccelli appollaiati su un albero dopo il suono di uno sparo.
«Lucia!». La voce di Madame Fantine aveva un suono strano, scocciato.
«Entrate pure». La ragazza ripose il libro sulla mensola, dietro a un vaso di porcellana, come a nasconderlo, e si sistemò il vestito, mentre la maîtresse dell'Araba Fenice entrava quasi a passo di marcia nella stanza, in un tintinnio di braccialetti e orecchini vistosi come lampadari.
«Scusate, Lucia» fece sbrigativa la donna. Il fatto che le desse del voi e che le si rivolgesse con una certa premura era un'abitudine nata quando lei aveva cominciato a diventare famosa tra i clienti del bordello. Non che Madame Fantine fosse una persona sgradevole, di solito, ma il suo lavoro la portava ad essere doverosamente pratica e spiccia con le sue ragazze.
«Scusate, ma se non venivo quello era capace di stare qua tutta la sera. Che scocciatura» esordì la donna; Lucia non capì ma lanciò a Madame uno sguardo per incitarla a spiegarsi. «C'è uno che ha chiesto di voi... ha chiesto di voi e io gli ho detto di no, ma quello ha insistito e ha detto che ve lo dovevo venire a dire».
Madame Fantine non usava mai quel tono davanti ai clienti, era meravigliosamente ossequiosa con tutti loro, ma quando parlava a porte chiuse tutti i signori diventavano quello.
«Non ditemelo: è il Maestro francese» fece Lucia, tradendo una certa sorpresa. Non era certa che l'uomo si sarebbe presentato, ed erano passati già quattro giorni da quando ne avevano parlato.
«Eh, quello lì. Ma perché? Lo sapevate che veniva? Io gli ho detto che voi non ricevete ma lui si è fatto brutto brutto e ha insistito»
«Non preoccupatevi, lasciatelo passare».
Madame Fantine fece una tale espressione sorpresa che le sopracciglia quasi sparirono sotto l'attaccatura della parrucca a boccoli bianchi.
«Overamènte?!»
«Sì, veramente». Lucia sorrise con dolcezza allo sguardo perplesso della donna, come a sottolineare che era tutto a posto e che non c'era niente di cui preoccuparsi.
Madame annuì, ancora poco convinta.
«Vabbuò... lo vado a chiamare» concluse uscendo con passo felpato dalla stanza.

*

Varcare quella soglia non era stato facile. Erik aveva il sentore che niente sarebbe stato facile quella sera e si era chiesto per l'ennesima volta che cosa stava facendo lui lì.
In quel mese aveva avuto tutto ciò che aveva sempre desiderato: la direzione di uno spettacolo teatrale, una compagnia di artisti decentemente competenti che pendevano dalle sue labbra, l'ammirazione delle persone per il suo genio, persino l'interesse di una donna che molti uomini avrebbero fatto carte false per avere nel proprio letto. E lui era finito lì, in un bordello nel cuore di Napoli...
La risposta più sensata che aveva trovato alla domanda era che necessitava di qualcosa che fosse solo suo, un angolo di buio dove era lui a decidere, gestire, controllare. Il fatto che il terreno su cui si muoveva gli era tremendamente estraneo era un particolare a cui preferiva non pensare.
Avrebbe potuto cedere alle lusinghe di Graziana, era la scelta in apparenza più sensata... ma Erik si era dato una lunga lista di motivi per giustificare con se stesso il fatto di aver scartato quell'opzione. In primo luogo non amava l'iniziativa altrui e le iniziative di Graziana erano più che mai prepotenti. In secondo luogo non stimava quella ragazza. Certo, non stimava nemmeno Lucia che conosceva a malapena, ma il fatto di essere lui ad aver scelto lei lo faceva sentire assai meno a disagio.
Mentre varcava la soglia dell'Araba Fenice e veniva investito dall'odore di fiori, Erik si vide costretto a mettere da parte ogni elucubrazione e a ritenere ogni moto della ragione assolutamente non valido. Ormai era lì, aveva semplicemente deciso così...

Past the point of no return,
the final threshold...

Erano passati solo due mesi da quella sera terribile, dal momento in cui ogni sua speranza si era rivelata vana e illusoria. E per quanto buio e per quanto nulla ci fosse dentro di lui, quell'amore non era mai andato via, anche se ogni tanto riusciva a concedersi di credere che il nulla avesse vinto anche sui suoi sentimenti per Christine.
Tuttavia, in quei mesi, Erik era diventato bravo a seppellire le proprie emozioni, a celare il fastidio e lo smarrimento quando interagiva con quel mondo incomprensibile. Era riuscito a domare i fantasmi e fin tanto che teneva la guardia alzata, fin tanto che parlava a se stesso del presente attraverso le pagine del suo diario, il passato rimaneva silente nell'angolo in cui lui voleva che restasse.
Lasciare quel passato e il ricordo ancora troppo doloroso e lucente di quell'amore folle fuori dalla soglia della palazzina era stato come sentire ancora una volta la propria anima evaporare e sfuggirgli dalle dita come se non fosse altro che un filo di fumo.

L'ingresso dell'Araba Fenice era una saletta rettangolare, adorna di specchi e sofà damascati, con enormi vasi di porcellana madreperlata pieni di fiori. L'atrio era illuminato a giorno da un lampadario e da miriade di candele che riflettevano la loro luce negli specchi amplificandone l'intensità. Per contrasto, il corridoio che si apriva nell'angolo a destra era buio e privo di illuminazione.
Sui sofà, c'erano tanti signori ben vestiti che bevevano vino da calici di cristallo e discorrevano amabilmente con le ragazze. Ragazze anche loro ben vestite, dall'aspetto curato, senza abiti succinti né niente che le rendesse volgari o lascive. Se non fosse stato al corrente di trovarsi in un bordello, Erik avrebbe scambiato quel luogo per il salone di ingresso di una casa qualsiasi in una serata di festa.
Nessuno badava agli altri che erano intorno; signori che alla luce del giorno si sarebbero salutati con fare ossequioso, lì potevano persino fingere di non conoscersi, in una sorta di muto accordo che prevedeva che quel luogo fosse una sorta di zona franca, dove non esistevano nomi, titoli o formalità. Nessuno fece caso nemmeno a lui, forse solo un paio di sguardi indugiarono qualche secondo sulla mezza maschera bianca, ma Erik non fece in tempo a notarlo perché una donna venne verso di lui.
«Madame Fantine, al vostro servizio» disse lei con un inchino.
L'uomo capì subito che, a dispetto del nome, la signora era francese tanto quanto lui era napoletano. E comunque, Madame Fantine era un vero e proprio monumento al grottesco, con quella parrucca incipriata e quel vestito dai colori sgargianti. A guardarla, Erik pensò che ogni minima speranza di sentirsi a proprio agio in un luogo come quello stava miseramente scemando, tuttavia si costrinse al suo solito contegno signorile e composto e accennò una sorta di leggero inchino.
«Buona sera, Madame» disse. «Vorrei poter vedere la signorina Lucia. Potreste essere così gentile da annunciarmi?».
La donna inclinò il capo di lato, tanto che Erik temette che le scivolasse via la parrucca. Dopo un primo attimo di perplessità, la maîtresse sorrise amabilmente in uno sfarfallio di ciglia truccate.
«Temo che sia impossibile, signore. Ma potrei presentarvi a...»
«No. Dite solo a Lucia che sono qui».
Madame Fantine aggrottò la fronte, cominciava a mostrare un certo fastidio. Forse troppe volte aveva dovuto ripetere quella scena con altri signori che era venuti a chiedere della ragazza. Forse era già tanto tempo che avevano smesso di chiedere di lei.
«Mi dispiace davvero, ma sono certa che Lucia non vi può ricevere» tentò di dire la donna, conservando uno scampolo della sua professionale cortesia.
«Sono certo del contrario» replicò Erik senza scomparsi. «Dunque, volete farmi attendere ancora a lungo, Madame? Vi credevo assai più celere ed ospitale, o forse la fama della vostra casa è immeritata?».
Sentendosi certamente punta nel vivo, la donna restò immobile a fissare l'uomo con aria di sfida. Dopo qualche secondo l'espressione del Maestro però la fece desistere dalla sua ostinazione e lei sospirò stizzita.
«Provo a dirle che siete qui» capitolò. «Ma temo che avete perso il vostro tempo, oltre che ad avermi fatto perdere il mio».
Madame Fantine sparì nel buio del corridoio e ne riemerse alcuni minuti dopo con una faccia talmente ridicola e sorpresa che Erik non ebbe nemmeno voglia di infierire e farsi dare atto del suo piccolo trionfo.
La donna non disse niente, gli fece cenno di seguirlo e lo accompagnò nel corridoio, uno stretto ambiente in fondo al quale si apriva una scalinata di marmo e sul quale affacciavano solo due porte.
Il passaggio dallo sfavillio dell'ingresso al buio del corridoio segnava davvero il punto di non ritorno, oltre il quale le maschere dei signori ora raccolti nella sala forse cadevano una volta per tutte, insieme ai vestiti delle ragazze.
Erik si costrinse a continuare a camminare verso la seconda porta, quella più vicina alla scala.
«È qui, vi aspetta» sussurrò Madame Fantine con la voce bassa e cauta che si usa quando si parla in una chiesa.
Erik bussò alla porta.

La stanza, elegante e ordinata, era tappezzata di azzurro. Sulla parete a sinistra era disposto gran parte del mobilio, un armadio, uno scaffale con – incredibile a dirsi – diverse decine di libri e un tavolino da toeletta. Sulla parete di destra c'era un piccolo scrittoio, una chaise longue di velluto blu e un paravento con i pannelli di tela a righe colorate.
Erik si sentì terribilmente estraneo, un intruso in un mondo che non gli apparteneva, che gli sembrava quasi di violare.
Lucia era seduta davanti allo specchio, si alzò appena lo vide entrare e restò a fissarlo con uno strano sorriso.
«Buonasera, signore» gli disse. «Non credevo sareste venuto».
Erik notò il suo sorrisetto indecifrabile e arricciò le labbra.
«Non capisco se la cosa vi diverta o vi arrechi disturbo» ammise ritrovando tutto il suo temperamento algido e distaccato.
«Nessuna delle due, potete credermi». C'era una strana, soave dolcezza nel tono che aveva assunto la voce della ragazza. «Ad ogni modo, potete venire avanti, il tappeto non vi morderà, ve lo prometto».
Alla fine fu lei ad avvicinarsi e allungò una mano verso di lui. Erik fissò quella mano con un'espressione che doveva davvero sembrare ostile.
«Voglio solo aiutarvi a togliere la giacca» sospirò infatti Lucia. «Non mi sembrate particolarmente avvezzo a questo genere di cose».
Sentì una morsa allo stomaco, non quella sensazione sgradevole di agitazione che provava con Graziana, né il fastidio che sentiva quando si trovava da solo a dover parlare con altre persone, ma non gli piacque comunque... non gli piaceva la voce che nella sua testa rideva di lui e che gli intimava di lasciar cadere anche le sue maschere. No, non la maschera che portava sul viso, ma le altre, tutte le altre...
Erik dovette fare uno sforzo immane per mettere insieme quelle parole, ma la consapevolezze delle cose in comune che sapeva di avere con la ragazza gli aveva fatto capire in quel momento che non avrebbe potuto nasconderle certe cose. E poi, lei era abituata a trattare con gli uomini, avrebbe certamente capito anche se lui non glielo avesse detto...
«Se vi dicessi che non sono affatto avvezzo a questo genere di cose?» disse.
Lucia ristette, poi scrollò le spalle come se fosse davvero una cosa di poco conto. Erik sentì lo stomaco fare una capriola.
«Direi che rende la cosa solo più interessante» concluse lei.
L'uomo ebbe uno scatto, una scintilla dell'antica furia gli attraversò il cervello e si ritrovò a muoversi verso di lei e afferrarle il braccio in una presa salda e violenta.
«Vi prendete gioco di me?!».
Ecco... lo sapeva, lo sapeva che era stato un errore. Come aveva anche solo potuto pensare di gestire una simile situazione? Come aveva potuto pensare che i fantasmi non avrebbero approfittato di ogni sua minima debolezza per uscire allo scoperto?
Ma se la voce dei fantasmi aveva tuonato tra quelle quattro pareti, Lucia non sembrava averci fatto caso. La ragazza si limitò ad appoggiare una mano su quella di Erik e scostargliela via con un gesto deciso, poi semplicemente gli sfilò la giacca e la andò a sistemare con cura sulla spalliera della sedia.
«Dicono che noi puttane siamo meravigliosamente capaci di mentire con gli uomini» disse lei, senza che la sua voce perdesse un solo grammo della dolcezza di un minuto prima. «Per quel che mi riguarda, non dico menzogne agli uomini che non vogliono sentirne. Se non volete menzogne da me vi assicuro che non ne avrete».
«A volte ho la sensazione che non si possa stare al mondo senza ricorrere alle menzogne» replicò Erik torvo.
«Signore mio! Questo non è il mondo, questa stanza è come un confessionale» borbottò Lucia con una punta di sarcasmo. «È per questo che ritengo che dovreste fidarvi di me, fintanto che siamo qui dentro».
Il suono confidenziale e ironico di quelle parole fece sentire Erik vagamente meno inquieto.
«Tutto ciò ha un che di minaccioso, signora» rispose con un mezzo sorriso.
«Sciocchezze. Non avreste potuto incontrare persona meno pericolosa di me».

E tu non avresti potuto incontrare uomo più pericoloso di me, ragazza...

«Ad ogni modo, mi dicono che in teatro quasi nessuno conosce il vostro nome» aggiunse Lucia. «Volete dirlo a me?».
«Se proprio occorre... potete chiamarmi Erik».
«Siete ancora sulla porta, Erik».
L'uomo non se ne era accorto. Si maledisse per quanto doveva esserle sembrato ridicolo e fece qualche passo verso il centro della stanza, guardandosi attorno e indugiando a fissare l'ampio letto dall'alta testata di ciliegio. Faceva dannatamente freddo in quella stanza, anche se fuori di lì la primavera era già esplosa in un susseguirsi di giornate miti e soleggiate e le sere erano scompigliate dal soffio tiepido dello scirocco.  
«Volete concedermi un minuto?» chiese Lucia. «Confesso che non ero preparata al vostro arrivo. Voi intanto sedete».
«Prendete tutto il tempo che vi occorre» concesse lui, avvicinandosi alla libreria e scrutando curioso i titoli dei volumi posati sugli scaffali.
Lucia sparì dietro al paravento, dal lato opposto della stanza. Erik sentì il rumore della stoffa del vestito scivolare via, e la tensione gli fece quasi provare un conato di vomito. Tornò a guardare i libri; pensare a quegli oggetti almeno lo distraeva.
I volumi erano tutti in italiano, molti di quei titoli li aveva solo sentiti nominare. Erano tutti romanzi, certo Lucia non doveva essere una conoscitrice di scienza e filosofia, ma il fatto che leggesse e che si esprimesse in un modo così corretto la faceva sembrare di certo un gradino al di sopra delle altre ragazze nella sua stessa condizione.
«Volete che faccia portare qualcosa da bere?» chiese la giovane da dietro al paravento.
«Non per me, vi ringrazio»
«Ah, signore, non avete vizi? Allora è vero ciò che si dice, che vivete solo per la musica».

Se solo tu sapessi, ragazza. Se solo tu sapessi...

Lucia riemerse da dietro al paravento. Si era tolta il vestito, portava una camicia da notte di lino bianco e sopra una vestaglia di spesso cotone allacciata in vita.
Erik la osservò venire verso di lui. Era certamente graziosa, di quella bellezza semplice e fresca delle giovani donne, ingentilita maggiormente da quei suoi modi composti, ma il suo aspetto non aveva niente di particolarmente straordinario, non era tanto più bella di altre giovani della sua età, di certo non era più bella di Graziana. L'uomo si ritrovò a chiedersi cosa l'avesse resa la prostituta più popolare di Napoli quando era evidente che non era l'aspetto il suo maggior pregio.
Lucia lo guardò per qualche secondo, sembrava un po' impensierita e forse si stava chiedendo che cosa fare.
«Dunque, rammentatemi quali sono le condizioni» gli disse poi.
«Ce n'è una sola, e la conoscete già» rispose Erik. Non le avrebbe chiesto niente se non di non togliergli la maschera, ed era certo che lei non sarebbe venuta meno a quest'unico desiderio, dopotutto, come aveva detto, aveva anche lei qualcosa che non voleva che le venisse tolta. «Ditemi piuttosto quali sono le vostre».
Lucia sorrise tranquilla,
«Spero vorrete essere così gentile da lasciare la mia camicia da notte esattamente dove si trova, lì ad altezza delle spalle» concluse.
Alla fine, si voltò con noncuranza e si diresse verso il letto, si mise a sedere con la schiena contro la spalliera, cingendo le gambe con le braccia.
«Venite qui, non mordo, proprio come il mio tappeto» aggiunse, battendo una mano sul posto vuoto accanto a sé.
Erik si andò a sedere nell'angolo opposto del materasso e la fissò. All'improvviso Lucia sorrise in un modo strano, fu il sorriso più tenero che lui avesse mai visto sul viso di una donna... un sorriso che sarebbe potuto comparire solo sul viso di una donna perché era un sorriso di una madre, di una sorella e di un'amante nello stesso tempo.
«Parlatemi» gli disse con voce tranquilla. «Parlatemi della Francia...».  
 
*

Il sole entrava timido dalla finestra alla destra del letto. Erik aprì gli occhi e considerò che doveva essere da poco sorta l'alba, non era troppo in ritardo per la sua passeggiata in riva al mare ma non riusciva a muoversi. Non sapeva se era bene svegliare la ragazza o semplicemente sgattaiolare via prima che lei si destasse. Probabilmente per lei non avrebbe fatto molta differenza, ma l'uomo era quasi certo che se si fosse mosso l'avrebbe svegliata e sentiva su di sé tutto il goffo imbarazzo di chi non è abituato a dividere il letto con un'altra persona, motivo per il quale si era ritrovato a dormire nell'angolo di materasso più distante possibile da lei.
Voltò piano la testa a spiare Lucia stesa su un fianco, girata nella sua direzione. Dormiva così tranquillamente che Erik si chiese se quella giovane donna non fosse abituata ai fantasmi più di quanto lui potesse immaginare. Dovevano esserne passati tanti in quella camera evidentemente, i fantasmi che ogni uomo si porta dentro, forse meno tremendi dei suoi, ma comunque capaci di urlare e dibattersi nel tentativo di soffiare il loro gelo sopra il calore di un abbraccio, di una carezza, di un bacio...
Perché lei lo aveva baciato. Il ricordo più nitido della sera precedente era proprio quel primo bacio tenero, paziente, quasi discreto per un contatto così intimo. A dirla tutta, ogni singola azione della ragazza era stata permeata di tenerezza e pazienza ed Erik aveva sempre immaginato che era così che dovessero essere le donne nel profondo, tutte le donne.
Lucia scivolò piano di lato, finendo stesa supina con il viso che affondava nei cuscini. La camicia da notte si scostò appena rivelando una linea scura e irregolare sulla pelle della spalla sinistra, il segno di un'ustione chissà quanto profonda, chissà quanto estesa. Erik non lo voleva sapere, non avrebbe dovuto vedere, faceva parte del patto. Con estrema delicatezza, prendendo con due dita il bordo della veste, ricoprì la spalla scoperta e sospirò.
D'accordo, doveva andarsene da lì. Doveva...
«Buongiorno».
La voce di Lucia era impastata dal sonno, per poco non lo fece cadere dal letto. La ragazza si voltò tirandosi le coperte fin sotto al mento e gli lanciò uno sguardo ancora annebbiato.
«È usanza comune rispondere a un saluto» lo informò sarcastica.
«Scusate... buongiorno» borbottò lui.
«Va già meglio». Lo guardò ancora qualche istante, poi sorrise in quel suo modo assolutamente indecifrabile che faceva contorcere lo stomaco di Erik come uno straccio. «Andrebbe notevolmente meglio se non aveste quell'espressione smarrita».
«Non mi siete di aiuto se vi burlate di me»
«Invece credo che se foste un po' meno serio e severo con voi stesso vi aiutereste benissimo».
Erik non rispose, Lucia gli lanciò un ultimo sorriso e si alzò dal letto recuperando la sua vestaglia. Lui non era in animo di mostrarsi bellicoso con quella ragazza, non dopo che le aveva lasciato abbattere quasi tutte le sue difese. Che poi, non è che glielo avesse lasciato fare, era semplicemente successo e lui non era stato in grado di opporsi. Tuttavia, non gli sembrava tollerabile il fatto che lei ora fosse così sfacciata; non aveva bisogno dei suoi consigli.
L'uomo osservò per qualche secondo la ragazza che si muoveva per la stanza, raggiungeva lo specchio e si pettinava i capelli.
C'era un che di assurdo in quella situazione e cominciava a maledirsi per l'essere rimasto lì a dormire. Non aveva intenzione di farlo, ma aveva semplicemente preso sonno senza accorgersene, non si era mia sentito così stanco.
Notò i suoi vestiti piegati ordinatamente sulla seduta della sedia accanto alla finestra. Si era svegliata nel cuore della notte e li aveva piegati lei?
Lucia si voltò a guardarlo.
«Dunque, vi lascio solo. Dietro al paravento troverete tutto quello che vi serve» disse, poi gli si avvicinò e gli depose un bacio sulla tempia sinistra lasciata scoperta dalla maschera.
Non attese risposta, perché probabilmente sapeva che non ce ne sarebbe stata una e lasciò la stanza.

Una volta uscito dalla palazzina, Erik trovò ad accoglierlo il silenzioso vuoto della piazza. La locanda Notte 'e vierno era chiusa, sedie spaiate erano appoggiate alla rovescia sul tavolo e gli unici rumori che arrivavano ovattati e distanti erano quelli degli scuri delle finestre che venivano aperti e dei portoni che si richiudevano alle spalle di chi usciva per andare a lavoro.
Affrontare Madame Fantine all'uscita era stato quasi penoso, quella donna lo guardava con aria vagamente indispettita. Forse non era abituata a non essere messa al corrente di cosa sceglievano di fare le ragazze della sua casa. Era stato penoso anche pagarla per la notte trascorsa lì, era una cosa che andava contro ogni suo principio... o almeno così era stato, una volta. Ma appena si era chiuso il portone della palazzina dietro di lui, Erik aveva avuto la sensazione che ogni cosa fosse tornata al suo posto.
Aveva camminato tranquillo fino al lungomare e si era poggiato alla grossa ringhiera che costeggiava la strada.
Il mare era calmo, piatto come una tavola, e faceva da specchio alle forme delle rade nuvole che si rincorrevano nel cielo scintillante di azzurro. Il rumore delle onde era appena percettibile, ma ben presto, quel suono lieve coprì ogni altro suono, ogni rumore della città che alle sue spalle cominciava a mettersi in moto, diventando quasi ipnotico e facendo riaffiorare nella mente di Erik i ricordi della sera precedente.

Respiri... respiri che si inseguono in una corsa sempre più frenetica. Per lunghi secondi non c'è nient'altro. Il bisogno d'aria si fa così pressante che copre tutto, anche i brividi che salgono improvvisi, anche quelle ondate piacevoli che sono quasi fitte di dolore.
Il mondo è un rettangolo di luci fatue fuori dalla finestra, stelle e lampioni che si fanno concorrenza, molto lontano da lì.
Nei pensieri dell'uomo all'improvviso c'è solo il rumore di vetri rotti. Poi tutto precipita e c'è di nuovo solo respiro. E lei gliene porta via un pezzo, posando le labbra sulle sue. La sente sorridere contro la sua bocca. Sente tutti i sorrisi che non ha mai avuto in quel caos di sensazioni nuove, e lui si sente in bilico tra la tenerezza e la violenza, serra un lembo di lenzuolo tra le dita e si china a cercare ancora le sue labbra soltanto per sentire se c'è ancora il sorriso su di loro. E si sente così alla deriva, così arreso mentre il freddo della stanza si infrange come un'onda contro la sua pelle nuda... arreso più a se stesso che a lei.
Ed è esattamente come deve essere, è solo umanità nella sua forma più giusta e lui di giustizia ne sa così poco, e forse è per questo che gli viene da chiedersi come mai, dopotutto, fa così male.
La ragazza scioglie l'abbraccio, ora le sue mani affondano tra i cuscini e i suoi occhi sono aperti, due pozze nere. Forse è per questo che fa male... o forse c'è luce lì in fondo, da qualche parte...
Certo che c'è luce! Una luce che esplode e poi si spegne sulla punta delle dita tese ad afferrarla. Nella sua scia luminosa restano solo respiri spezzati che tentano di tornare regolari.

_________________________

Avviso:
La prossima settimana non ci sarà l'aggiornamento perché, cause di forza maggiore, quasi sicuramente sarò senza computer. Anche per la settimana ancora successiva non prometto niente, ma per la fine del mese dovrei riprendere ad aggiornare regolarmente.
Intanto, spero che il capitolo non vi abbia fatto venire il diabete e ne approfitto per augurare una buona Pasqua a chiunque passi di qui in questi giorni.

... your obidient servant.

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Capitolo 14
*** Mastro Pulcinella ***


Capitolo tredicesimo
Mastro Pulcinella


~ Napoli, 23 novembre 1870 ~

Aveva creduto davvero che sarebbe morta. Mentre il fumo copriva tutto e le toglieva l'aria, l'unica cosa a cui era stata in grado di pensare era quanto fosse tremendo morire poco dopo che si è trovata una ragione vera per cui vivere. Perché lei l'aveva trovata una ragione per cui vivere, ne era certa. Era certa che lui, il suo André, sarebbe stato lì ad aspettarla quella sera, quando sarebbe rientrata, che l'avrebbe portata via, lontano... sì, perché per lui avrebbe lasciato anche la sua amata città, avrebbe lasciato ogni cosa. E la paura che aveva avuto di perderlo il quei giorni, l'idea che ci fosse un'altra donna che si stava mettendo tra di loro, era solo un pensiero sciocco, la congettura assurda di un cuore troppo innamorato. Ah, perché lo amava, così irrimediabilmente, amava quel folle, vanesio, strambo ragazzo francese. E lui amava lei, certo. Anche se l'aveva lasciata andare da sola a quella festa in campagna, non voleva dire che fosse con un'altra, non voleva dire proprio niente, perché lei lo avrebbe trovato lì ad aspettarla per lasciarsi portare in capo al mondo, ovunque...
Ma il suo bellissimo André avrebbe atteso invano. Lei non sarebbe mai più tornata, non sarebbe uscita da quell'inferno e sarebbe stata confinata in un infinito girone di dannazione a rimpiangerlo per sempre.
Il crepitare del fuoco era un rumore fortissimo e assordante, non le era mai parso così tremendo quando da bambina guardava i pupazzi di paglia bruciare la notte di Sant'Antonio. Non le era mai parso così aggressivo, così ostile, così crudele.
Il fuoco sembrava avere una voce, sembrava ridere e sembrava gridarle: «Sei mia! Mia... miamiamia!».
Il dolore la inchiodava al pavimento più del peso di quella trave che le era crollata addosso. Era un dolore da smarrire il senno, che affondava dentro di lei come una lama, come mille lame che pugnalavano contemporaneamente lo stesso angolo di pelle. Lo aveva sentito, l'odore nauseabondo del suo corpo che bruciava, la stava accompagnando verso l'inferno ed era un viaggio senza ritorno.
Il fumo poi si fece più grande di qualsiasi cosa, come un'enorme muraglia fatta di briciole di cenere che danzavano nel vuoto, sovrastò tutto, l'aria, la luce, il fuoco stesso. Sovrastò anche lei e Lucia chiuse gli occhi pensando che non li avrebbe riaperti mai più.
Invece li riaprì, attorno a lei c'era l'azzurro dolce e accogliente della sua stanza all'Araba Fenice e un tremendo olezzo di fiori che le fece venire un conato di vomito. La stanza traboccava di fiori, come una cappella del cimitero subito dopo un funerale. Quei fiori erano l'ultimo omaggio di una città che l'avrebbe dimenticata nel giro di poche settimane, ma lei ancora non poteva saperlo.
Lucia spalancò gli occhi, l'azzurro e il colore dei fiori furono sommersi da scintille scure che le appannarono la vista. Il dolore alla spalla era lancinante, la giovane premette il viso contro il cuscino per soffocare il grido e pregò di perdere di nuovo i sensi, pregò di morire piuttosto che doverlo sopportare di nuovo.
Era stesa a pancia in sotto, quando fu in grado di guardarsi attorno vide il viso di Madame Fantine chino su di lei e sentì i bisbigli delle altre ragazze accalcate accanto alla porta.
«Si è svegliata, si è svegliata...» mormorarono
«Lassa ffà a Maronna*!».
«Ssst, oche! Andatevene a starnazzare da un'altra parte» le rimproverò Madame Fantine, agitando le mani come se stesse allontanando un insetto molesto.
Le ragazze sgusciarono via; nella stanza ora c'erano solo lei e Madame.
«Dov'è?» disse Lucia, mettendo assieme a fatica il fiato necessario a pronunciare quelle parole. Lo sguardo della donna al suo capezzale era colmo di risposte troppo tristi per essere anche solo prese in considerazione. Il dolore alla spalla la inchiodava lì, le spezzava il respiro, le annebbiava i pensieri.
«Potete... potete mandarlo a chiamare?...». Stava implorando.
«L'ho già fatto. Non è venuto».
Lucia credeva che non ci fosse niente di peggio di quel dolore assurdo che aveva sentito, ma adesso qualcosa di molto più terribile la stava straziando dall'interno.
Scoppiò in un pianto disperato, dibattendosi contro il materasso. Ad ogni movimento la spalla pulsava, bruciava, formicolava. Il dolore era esteso dalla scapola fino all'interno del braccio, e arrivava quasi ad altezza del gomito, ma non le importava.

Il dottore le aveva detto che doveva restare immobile il più possibile perché la ferita da ustione si rimarginasse al meglio. Lo sfregio sarebbe rimasto per sempre, ma se fosse riuscita a far risanare la pelle nel modo adeguato non avrebbe corso il rischio di perdere la funzione muscolare e quindi l'uso del braccio. Veniva a somministrarle regolarmente generose dosi di morfina per il dolore, le disse che lentamente sarebbe sparito anche quello.
Non le importava, c'era un dolore assai più profondo per il quale non esistevano medicine.
Ah, ma doveva esserci una spiegazione. Andrè non l'avrebbe mai lasciata, non così. Forse l'aveva creduta morta, forse il messaggio di Madame Fantine non gli era arrivato. Doveva vederlo.
«Non esiste proprio che voi lasciate questa stanza!» aveva esclamato Madame quando lei le aveva detto che sarebbe uscita e sarebbe andata a cercarlo.
Non aveva la forza di questionare, lasciò che la donna sbuffasse e imprecasse e che poi se ne andasse. Lasciò che il medico venisse a somministrarle la dose serale di morfina, e lottò per lunghi minuti contro l'effetto del farmaco, non voleva dormire, voleva solo che le andasse via il dolore quel tanto che bastava per reggersi in piedi.
Vestirsi fu un supplizio tremendo; la pelle dalla spalla all'avambraccio era tesa, i muscoli non sembravano rispondere a dovere, ma alla fine ce la fece. Uscì di nascosto, dal retro del palazzo, avvolta in un pesante mantello di lana per proteggersi dal freddo. Percorse quasi trascinandosi il labirinto di viuzze che spuntava sul viale davanti al San Carlo, costeggiò Palazzo Reale e poi voltò a destra, verso il lungomare con le gambe che tremavano e sembravano sul punto di spezzarsi per l'effetto della morfina, ma lei proseguì e spuntò in quella strada dove affacciavano tutti gli alberghi e i ristornati che attraevano i turisti e i signori benestanti. C'era stata tante in volte in quasi tutti quei posti bellissimi, c'era stata anche con André, sapeva che lui doveva essere lì, alla Ginestra, era il suo preferito.
Si avvicinò cauta alla vetrina, all'interno era tutto bianco e giallo, con enormi ginestre disegnate sulle pareti. E lui era lì... lì con lei, le loro mani erano intrecciate sulla tovaglia color oro, i loro visi sorridevano. Erano lontanissimi, oltre quel vetro, lontanissimi da lei, dalla sua pena, dal suo dolore.
«Vattenne!» borbottò una voce aspra. Un cameriere era uscito e l'aveva spinta via con fare brusco, forse l'aveva presa per una mendicante.

No, no... voglio stare qui e guardare... voglio che mi si fermi il cuore con la loro gioia!

L'avevano trovata la mattina dopo, all'alba, sotto il porticato del teatro. Lei non ricordava nemmeno come aveva fatto ad arrivarci, con quale forza aveva percorso la strada del ritorno fin lì, prima che la disperazione e la morfina avessero la meglio.
Si era risvegliata nuovamente nella sua stanza. Madame Fantine era furiosa, ma cercava di trattenersi.
«Cosa vi ho fatto, eh? Lucì, cosa vi ho fatto per farmi morire di paura? Come vi è venuto in testa?». La donna ripeteva ossessivamente quelle domande, tormentandosi la gonna e alzando le mani al cielo.
«Dovevo vedere...» rispose debolmente la ragazza.
«Dovevate vedere? Ma che cosa volevate trovare?! Non lo sapete che per quelli come noi l'amore non ci sta?».
Era vero. Era stata sciocca lei a credere il contrario...
«E comunque» continuò Madame con il tono colmo di ansia. «Il dottore dice che vi è andata bene stavolta! Ma se fate un'altra sciocchezza va a finire che quel braccio ve lo dobbiamo tagliare!».
Che lo tagliassero! Che la facessero a pezzi... tanto ormai di lei rimaneva così poco...

*******

~ Napoli, 22 aprile 1871 ~

«E dai, com'è che non ci volete dire niente? Così brutto è stato?» disse Carla, una delle più giovani ragazze che lavoravano all'Araba Fenice, versando altro olio sulle verdure lessate.
Madame Fantine aveva fatto di quella casa una sorta di collegio. Aveva attrezzato il retro della palazzina perché fungesse da cucina e refettorio, aveva assunto delle cameriere che si occupassero di sistemare le stanze e preparare i pasti. Le ragazze vivevano lì, tutte assieme, e non sentivano la miseria. Era più di quanto potevano aspettarsi giovani donne sventurate come loro e Lucia era certa che tanto bastava a Madame per essere in pace con se stessa. Certo, doveva dargliene atto, aveva sentito di altre case di malaffare dove le cose andavano veramente male per chi ci lavorava. Lì, tutto sommato, tra la clientela di alto rango e il posto confortevole, quelle esistenze da esiliate potevano assomigliare a vite normali.
«E dai, Lucì, raccontate!» aggiunse un'altra ragazza.
«Eh, raccontate, che mi sta venendo il curioso pure a me» si intromise Madame Fantine. «Com'è sto signore?».
Lucia si strinse nelle spalle. Quei discorsi erano di prassi, le ragazze non facevano altro che parlare dei loro clienti e non c'era segreto che potesse essere tenuto tra quelle pareti, anche se nessuno di quei segreti sarebbe mai uscito dalla palazzina; era una sorta di dovere che Madame Fantine riteneva di avere verso i suoi clienti. Le ragazze potevano spettegolare tra loro quanto volevano, ma di quei pettegolezzi nemmeno una virgola doveva varcare la soglia dell'Araba Fenice.
«Non c'è veramente niente da dire» disse Lucia scuotendo il capo.
Oh, in realtà ci sarebbe stato molto da dire, ma non del genere di cose che alle ragazze si sarebbero divertite ad ascoltare.
Certo, il fatto che Erik non fosse mai stato con una donna prima di quella sera avrebbe potuto essere un interessante argomento di discussione, ma non era un pettegolezzo che Lucia aveva voglia di condividere e il resoconto della serata non avrebbe avuto molto senso se avesse celato quel particolare. Non sarebbe riuscita a spiegare in altro modo la strana, goffa dolcezza di Erik nel momento dell'amplesso, né il suo algido e imbarazzato distacco dopo.
«E voi mi volete far credere che uno come quello lì è normale?» sbottò Madame Fantine ridendo.
«Assai più di molti altri uomini con i quali ho avuto a che fare» dichiarò Lucia. Il che, da un certo punto di vista, era vero.
«Ma che ha detto? Che torna?» chiese Carla con interesse.
«E certo che torna! Quando mai uno non è tornato da Lucia!».
Questo invece non era affatto vero.

*

Guglielmo si alzò di scatto, buttando per aria lo sgabello che cadde facendo una baccano di inferno quando andò sbattere contro le assi di legno del palcoscenico.
Erik non lo credeva possibile, ma il giovane Marchesi era arrossito più del solito, in quel momento la sua faccia si sarebbe mimetizzata perfettamente tra le pieghe del sipario color cremisi.
«Oh, Maestro» squittì il direttore del San Carlo. «Mi avete spaventato».
Erik gli si avvicinò e gli batté una mano sulla spalla. Il gesto sorprese entrambi gli uomini.
«Stavate suonando. Non sapevo che sapeste suonare» disse il musicista straniero.
Guglielmo si passò i palmo delle mani sul davanti della giacca e boccheggiò nel tentativo di mettere insieme qualche parola.
«Io... ehm, sarei diplomato al Conservatorio, sapete? Ma la parola suonare pronunciata da voi assume tutto un altro significato».
Erik inarcò il sopracciglio. Era lì da un mese e non aveva mai saputo che Marchesi era un musicista – un discreto musicista, a giudicare da ciò che aveva appena sentito. Quando il duca gli aveva raccontato la storia del figlio del banchiere si era limitato a spiegargli che Guglielmo si era ritrovato, del tutto impreparato, a ricoprire la carica di direttore del teatro solo perché costretto dalle ambizioni della famiglia. Lui non si era mai dato pena di scoprire di più.
Aveva sempre considerato gli altri come degli strumenti ed era certo che in quella situazione fosse egli stesso nient'altro che un mezzo per salvare Marchesi dalla triste figura che avrebbe fatto se non fosse riuscito ad allestire lo spettacolo secondo i desideri del sindaco. Non c'era nient'altro, era certo che le azioni umane fossero, per lo più, spiegabili con l'opportunismo, lui stesso non era stato mosso che da quello... anche quel giorno di tanti anni prima quando aveva raccontato a una bambina di essere il suo Angelo della Musica, e aveva usato quella bambina per portare nel mondo un po' del suo genio rinchiuso nell'oscurità. Poi quella bambina era cresciuta ed era diventata il mezzo attraverso il quale il Figlio del Diavolo avrebbe potuto perseguire la propria salvezza.

«È nella tua anima la vera deformità»

Era vero, tremendamente vero, più di quanto Christine stessa aveva potuto intuire, più di quanto tutta quella gente che si chiedeva cosa ci fosse dietro la sua maschera o dentro al suo passato avrebbe potuto immaginare. 
«Sapete, ho riflettuto» disse all'improvviso Guglielmo, mettendosi a passeggiare su e giù per il palco. La sua voce si perdeva nel maestoso silenzio del teatro vuoto. «Ho riflettuto su quello che mi avete detto, riguardo a Graziana».
Erik dovette sforzarsi di ricordare quando avevano parlato di Graziana e cosa si erano detti. Era stato uno dei suoi pochi slanci davvero umani e disinteressati verso il suo prossimo e lo aveva già quasi rimosso.

«È nella tua anima la vera deformità»

«Non volevo turbarvi con quel discorso, credetemi» dichiarò cupo.
«No, certo che no. È che, vedete, anche se potreste aver ragione... io la amo. Ecco, l'ho detto». Guglielmo si lasciò scappare un forte sospiro liberatorio. Non che la cosa non fosse evidente anche alle statue sul frontone del teatro, ma quell'uomo doveva aver tenuto dentro di sé quelle parole così a lungo che avrebbe rischiato di esplodere se non le avesse pronunciate davanti a qualcun altro in grado di ascoltarle.
Ma perché, con tante persone, aveva scelto proprio lui per discutere la faccenda?
«Sono l'ultima persona al mondo con la quale dovreste parlare di queste cose» disse con semplicità.
«Voi dite, Maestro? Siete la persona con la quale io abbia parlato di più in vita mia».
Se per parlare, Marchesi intendeva le interminabili sequele di ciarle snocciolate davanti alle infinite tazze di caffè, allora forse poteva anche essere vero. E se era vero, era molto triste, quasi più triste del fatto che quel suo amore non gli avrebbe portato altro che pena.
All'improvviso Marchesi ridacchiò, una risatina acuta e nervosa,
«E, perdonate l'impudenza, ma ho il sospetto che anche io sia la persona con cui  voi abbiate parlato di più. Da diverso tempo a questa parte, almeno» asserì scuotendo il capo.
Erik stava per dargli ragione, ma si ricordò di un'altra persona con la quale aveva trascorso assai meno tempo di quanto ne aveva passato con lui, ma con la quale aveva parlato almeno il doppio: Lucia. Quella sera, nel seminterrato, avevano discusso di spettacoli teatrali per ore, e poi due giorni prima, quando aveva passato la notte con lei, lo aveva ascoltato per un tempo che doveva esserle sembrato interminabile, lo aveva ascoltato parlare di Parigi, della neve che trasformava il piazzale dell'Opera in una immensa distesa di bianco, della Senna che scorreva sotto i ponti e che lui aveva visto solo di notte, come un laccio di seta nera accarezzare la città... tutte cose che a lui stesso erano sembrate sciocche e insignificanti ma che ora ridisegnavano il profilo di ricordi carichi di rimpianto. Se solo avesse provato allora a fidarsi un po' di più del mondo... ma il mondo per lui si era condensato tutto negli occhi di una fanciulla che gli aveva voltato le spalle ai primi sospiri di un bellissimo e imberbe corteggiatore.
Chissà, forse Lucia sarebbe stata capace di ascoltarlo persino se le avesse parlato di Christine. Il cuore di quella ragazza dai capelli corvini era spezzato come il suo... forse in pezzi meno piccoli, forse meno marcio, ma di certo non era intatto né immacolato.
«Mi piace pensare che sia all'amore che devo la mia pena e la mia condanna» disse Erik, con lo sguardo che si perdeva nel vuoto, fuggendo lontano a ricalcare il profilo di ombre infinite che si trascinavano sotto terra, fino alle sponde di un lago sepolto in mezzo al buio. «Ma a volte ho l'impressione che l'amore vero sia ben altra cosa rispetto a ciò che ho provato io. A ciò che, mi duole dirlo, provo ancora».
Guglielmo deglutì,
«Voi? È per una donna dunque che...» tentò di dire, non sapendo fin dove poteva osare.
«È così. Ho fatto cose tremende, Guglielmo, cose che vi farebbero tremare di orrore se ve le raccontassi e credevo che non ci fosse ragione più grande dell'amore per giustificarle. Troppo tardi ho compreso che ero in errore».
«Credo, amico mio, che gli errori si commettono quando si è troppo soli perché qualcuno ci aiuti a trovare la via. E credo che se un uomo come voi ha avuto la sfortuna di una solitudine così profonda, allora dev'essere colpa di chi non vi ha compreso, non certo vostra».
Era una lacrima quella che Erik sentiva pizzicargli l'angolo dell'occhio? No, era sicuramente solo un granello di polvere. Forse però quella che luccicava tra le ciglia di Guglielmo era una lacrima sul serio.
Una luce brillò in fondo alla sua mente, da qualche parte, forse in quel luogo nel quale aveva relegato la speranza pensando che era un sentimento del quale non avrebbe avuto più bisogno. Nelle parole e negli occhi di Marchesi c'era l'assoluzione che Erik aveva implorato silenziosamente fin dal momento in cui aveva lasciato il teatro due mesi prima.
Gli sorrise, sorrise al suo interlocutore e sorrise per se stesso. Fu solo un istante, ma l'idea che aveva accarezzato durante le festività pasquali a casa del duca tornò a bussargli alla testa, e sì, era un'idea che lo faceva davvero sorridere, qualcosa di buono senza alcun secondo fine.
«Ho bisogno di un favore, Guglielmo» disse, mentre accompagnava l'uomo verso l'uscita. «Ho bisogno di questo teatro, per una sera. Ho un'idea che mi piacerebbe attuare, un regalo per una persona che mi è cara».
Marchesi si picchiettò l'indice contro il mento con aria pensosa.
«Mi sto abituando a credere che ogni vostra idea sia meravigliosa, ma mi piacerebbe saperne di più, Maestro».
«In teatro non vengono rappresentati che due o tre spettacoli a settimana, giusto?» esordì Erik, Guglielmo annuì. «Ebbene, c'è una piccola cosa che vorrei mettere in scena, una sera, tra due settimane, in cui il teatro sarà libero e lo si potrà lasciare aperto a tutti».
«A... a tutti?» squittì il direttore del San Carlo strabuzzando gli occhi.
«Sì, esattamente. Pensateci, tutte le persone che non avrebbero mai occasione di visitare questo posto o assistere a uno spettacolo»
«Ehm... temo che al signor sindaco verrebbe un infarto, e probabilmente anche a me».
Erik agitò la mano in un gesto di disinteresse,
«Sono certo che i vostri cuori reggeranno» borbottò. «Sarebbe una cosa unica, in città non si parlerebbe d'altro e il vostro nome diventerebbe assai più stimato».
«E il vostro?».
Il musicista scrollò le spalle,
«Non sono solito fare qualcosa per niente. Ebbene, questa è l'eccezione che conferma la regola» dichiarò. «Lasciatemi fare».
Quelle ultime parole erano suonate perentorie come un ordine, anche se erano state pronunciate con la solita composta cortesia. Guglielmo era sulla soglia del portone del teatro, si voltò a guardare il suo interlocutore e lo scrutò per lunghi secondi.
«C'è qualcosa di strano in voi, qualcosa di nuovo» asserì. «E, se posso permettermi, qualcosa di più luminoso».
Forse era vero. Non c'era un motivo particolare, eppure dai giorni di festa a palazzo Giusso, qualcosa si era smosso dentro di lui, qualcosa che grattava via il nero e ne faceva emergere minuscole insperate scintille.
«E ritengo che la cosa meriti di essere festeggiata, per cui, d'accordo, prendetevi il teatro» concluse Marchesi con un sospiro di resa.

*

Lucia era seduta alla finestra, in grembo aveva una catasta di biancheria da rammendare e stava approfittando degli ultimi scampoli di luce prima del tramonto per portare a termine quei piccoli lavori.
Le giornate erano diventate più lunghe e si facevano via via più calde e soleggiate. Il mare calmo già occhieggiava all'estate riflettendo l'azzurro limpido del cielo e nel giro di poche settimane, certamente, sarebbero comparsi i primi temerari che si sarebbero tuffati tra le onde tranquille.
Madame Fantine bussò alla sua porta, quando entrò aveva un'aria quasi sconvolta. Era piuttosto presto per l'arrivo dei clienti e lei non si era ancora preparata a riceverli, al posto dei suoi abiti sgargianti indossava una gonna di tela rattoppata in più punti e una camicia, non c'era nessuna parrucca a coprire i capelli crespi e grigi, solo una cuffia di cotone annodata sotto al mento.
«Quello lì è di nuovo qua» annunciò con un sospiro seguito da un sorriso furbesco. Non si capiva se la cosa le faceva piacere o la turbava – ma di certo non doveva essere contenta dell'essersi fatta trovare in abiti così sciatti. «Così presto, poi! Comunque... che gli devo dire?».
Lucia corrugò la fronte, perplessa. Era certa che Erik sarebbe tornato, raramente si sbagliava, ma che si presentasse lì persino prima di cena le pareva strano.
«Fatelo entrare» concesse con un'alzata di spalle.
«Non si può presentare qui a quest'ora!» replicò la maîtresse strabuzzando gli occhi. «Che cosa sfacciata!».
La ragazza ridacchiò. C'era davvero qualcosa di sfacciato o sconveniente in un luogo come quello? Le regole implicite di quella casa non avevano mai davvero dissuaso nessuno; il fatto che in genere i signori non bussassero a quella porta se non dopo cena era dovuto unicamente al fatto che avevano altri impegni fino a quell'ora, una casa, un lavoro, una famiglia... Erik non doveva avere molto al di fuori del teatro.
«Se la cosa vi rincresce, mandatelo via» concluse la giovane con fare tranquillo.
Madame Fantine le lanciò un'occhiata stringendo le palpebre, quello era il suo sguardo da sono più vecchia di te e la so lunga. In realtà non avrebbe mai mandato via un cliente, nemmeno se si fosse presentato a ora di pranzo, meno che mai avrebbe mandato via qualcuno che veniva per Lucia.
«Ah, figlia mia! Voi mi farete morire di crepacuore, io lo so!» borbottò la donna uscendo e alzando gli occhi al cielo.
Erik bussò alla porta dopo una manciata di secondi. Entrò nella stanza e Lucia fu lieta di constatare che aveva un'aria molto meno agitata delle volta precedente.
«Mi occorre il vostro aiuto, signora» le disse senza troppi preamboli.
La ragazza lo guardò stupita. C'era sempre qualcosa che le sfuggiva di quell'uomo, era certa che sarebbe tornato, ma non che avrebbe esordito con una frase del genere.
«Venite avanti, sedete. Cosa posso fare per voi?» chiese incuriosita, poi gli indicò la sedia vuota accanto allo specchio.
«Devo parlare con quell'uomo vestito da Pulcinella e con quelli che suonano con lui. Potete aiutarmi a trovarlo?».
Lucia lo guardò sorpresa. Non capiva il motivo della richiesta ed era certa che Erik non fosse uomo da amare le domande né da dilungarsi in spiegazioni che non riteneva necessarie. Tuttavia, non le dispiacque l'idea di poterlo aiutare a realizzare qualcosa, qualsiasi cosa la sua mente certamente un po' folle stesse architettando.
«Ho una mezza idea riguardo a dove possiamo trovarlo, in effetti. So dove abita, ma non vi prometto niente» disse.
«Ottimo. Possiamo andarci?» fece lui con uno strano scintillio negli occhi.
«Intendete dire adesso?»
«Avete altri impegni?».
Lucia ridacchiò e scosse il capo.
«Mi è concesso almeno il tempo di indossare il cappotto, signore?» domandò ironica.
«Dipende da quanto tempo vi occorre...».

Stava già cominciando a imbrunire quando lasciarono la palazzina e si lanciarono nel labirinto di vicoli e stradine. Di tanto in tanto incrociavano qualche manovale che rientrava da una giornata di lavoro al porto, o massaie che rincasavano con figli al collo.
Lucia pensò che non ci sarebbe voluto molto tempo prima che tutta Napoli cominciasse a parlare di loro, del misterioso straniero e della fanciulla sventurata che chissà come si erano ritrovati assieme. La cosa non le importava, ed evidentemente non doveva importare nemmeno a Erik, se non si dava alcun pensiero nel farsi vedere in sua compagnia.
L'uomo camminava svelto, tanto che la ragazza faticava a tenere il passo. Lucia sollevò l'orlo della veste e corse per raggiungere il suo compagno che era già un metro avanti a lei, gli si aggrappò al braccio per trattenerlo.
«Non correte, non ce n'è bisogno» disse con il fiato corto.
Lui rallentò,
«Non sono abituato ad avere dei complici» ammise lasciando che lei gli rimanesse sottobraccio, come se fosse una passeggiata di piacere. «Non vi è mai capitato di avere così tanta voglia di realizzare un progetto da non riuscire a trattenere la foga?»
«Onestamente, non ho mai avuto grossi progetti da realizzare. Posso sapere a cosa è dovuto tanto entusiasmo?».
Erik strinse le labbra, come se stesse cercando di mettere assieme le parole giuste per spiegarsi,
«Fingiamo che sia un esperimento, una piccola sfida con me stesso» mormorò. «Diciamo che ad un certo punto mi sono accorto di aver fatto ben poche cose buone nella mia vita e mi è venuta voglia di provare a rimediare».
La ragazza non chiese altro. Lo condusse fuori dal quartiere, di nuovo verso le stradine laterali che si districavano alle spalle di piazza del Plebiscito. Le prime stelle cominciavano ad apparire sbiadite sopra la cupola della chiesa.
La stradina che avevano imboccato era stretta e tutta in salita. Porte tarlate si affacciavano su quel minuscolo vicolo dove le ombre di misere costruzioni aggiungevano altro buio a quello della sera che stava ormai calando. Nel silenzio era possibile udire il verso di un gruppo di piccioni appollaiati su un davanzale, pochissime luci brillavano oltre le finestre.
Lucia si fermò davanti a una bassa palazzina al margine del vicolo. C'era un'apertura al pian terreno, a livello della strada, chiusa solo da una tenda lacera e impolverata. Erik la guardò vagamente perplesso, la ragazza gli mormorò all'orecchio,
«Lasciate fare a me». Scostò appena la tenda e simulò un leggero colpo di tosse. «È permesso?».
Una donnina magra, dai capelli arruffati comparve oltre la tenda e la sollevò, mostrando agli occhi dei visitatori una piccola abitazione composta da un'unica stanza, con dentro un tavolo, pochi mobili e un letto disfatto celato a malapena da un paravento bucherellato.
La donna guardò qualche secondo i suoi visitatori e fece loro un mezzo sorriso di benvenuto,
«Volete entrare?» disse scostandosi per farli passare.
Erik sembrava basito, non si capiva se per la disponibilità della padrone di casa o per il misero spettacolo che aveva dinnanzi. Era l'espressione più umana e spontanea che Lucia gli avesse mai visto in viso; gli strinse un po' di più il braccio in una sorta di muto incoraggiamento e lo trascinò con sé dentro la casa.
Un odore forte di legumi e tuberi messi a bollire si alzava da una pentola fumante poggiata sulla brace del camino.
«Buonasera, signora» salutò Lucia, affabile.
La donna continuava a sorridere, amichevole e tranquilla.
«Scusate, ma volevamo parlare con vostro marito» fece la ragazza lanciando un'occhiata all'uomo seduto accanto al tavolo, intento a sbocconcellare una fetta di pane.
«Eh, un signore e una signora a casa mia!» esclamò questi alzandosi e accennando un goffo inchino con fare reverenziale. «E cosa vorranno mai da me?».
L'uomo, quello che cantava nel seminterrato vestito da Pulcinella, era un tipo di mezz'età, con ispidi capelli brizzolati e con una brutta cicatrice che gli solcava lo zigomo sinistro. Le rughe marcate sul suo viso avevano lo strano effetto di ingentilire quel volto che non doveva essere stato particolarmente bello nemmeno nei suoi anni migliori.
«Lui» disse Lucia inclinando la testa a indicare Erik, «è il Maestro del San Carlo».
«E certo che lo è!» esclamò l'uomo quasi ridendo. «Servo vostro, Maestro».
La ragazza sentì Erik irrigidirsi accanto a sé.
«Certo... e avrebbe un favore da domandarvi. Appena gli si scioglierà la lingua, suppongo» concluse.
Il padrone di casa dondolò la testa e fissò il suo ospite,
«Volete un bicchiere d'acqua?» chiese, come se l'acqua dovesse essere una medicina contro il mutismo improvviso.
Erik si riscosse,
«No, vi ringrazio» borbottò impacciato, liberandosi dalla stretta di Lucia e avvicinandosi all'uomo. «Vi ho sentito cantare qualche sera fa in quella cantina, con voi c'erano anche due ragazzi che suonavano»
«Eh, i figli miei»
«Sì, bene. E vorrei che suonasse per me, una sera nel mio teatro».
L'uomo spalancò gli occhi, così tanto che Lucia temette che gli sarebbero rotolati via.
«Che avete detto?!» esclamò.
«Che avete detto?!» gli fece eco sua moglie.
«Avete capito. Voglio che suonate su quel palco, tra due settimane, scegliete voi le canzoni, cinque o sei andranno benissimo».
Pulcinella si allentò il colletto della camicia e deglutì più volte, spostando lo sguardo dall'uomo alla ragazza, come se si aspettasse che da un momento all'altro loro scoppiassero a ridere e gli dicessero che era uno scherzo.
«Ma... ma veramente fate?» balbettò, lasciandosi cadere sulla sedia. «Nina, portamelo a me il bicchiere d'acqua! Anzi mettici pure un poco di zucchero dentro».
Lucia rise e batté una mano sulla spalla di Mastro Pulcinella, mentre la donna scioglieva davvero un cucchiaino di zucchero nel bicchiere d'acqua.
«Ora, dovete dirmi il vostro prezzo» aggiunse Erik.
Pulcinella lo guardò da sopra l'orlo del bicchiere, gli andò di traverso un sorso d'acqua e cominciò a tossire.
«Dovrei pagare io a voi perché mi fate suonare nel teatro!» esclamò con una smorfia. «Facciamo che mi comprate un costume nuovo e siamo a posto».

Quando lasciarono la casa, Lucia dovette fare un enorme sforzo per trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«Ho la sensazione che vi stiate ancora burlando di me» commentò Erik.
«Sto solo cercando di decidere se mi fa più ridere il ricordo della vostra espressione o della sua» rispose lei.
«Sono lieto che, in ogni caso, vi ho dato motivo di essere divertita. Già che ci siamo, avete idea di dove si possa trovare un costume da Pulcinella?».
La ragazza spinse la mani nelle tasche del cappotto e scrollò le spalle,
«Immagino che la sartoria del teatro vi sarà di aiuto. Si può sapere cosa vi ha reso così perplesso?».
Erik si fermò a guardarla, scrutandola con aria seriosa,
«Lo splendore di certi sorrisi in mezzo alla miseria» mormorò come se fosse un pensiero pronunciato a fior di labbra, poi sollevò lo sguardo a fissare lo spicchio luna che faceva capolino sopra i tetti delle case, anche quello sembrava un sorriso stagliato contro il nero del cielo.
«Credo che la miseria possa avere due effetti sulle persone: o le rende cattive o le rende immensamente buone. Sono orgogliosa di dire che in questa città molto spesso si tratta del secondo caso» replicò lei.
Napoli cominciava già a pulsare dei folli palpiti della sua vita notturna attorno a loro mentre tornavano verso l'Araba Fenice.
Lucia sentiva un inaspettato senso di leggerezza e compiacimento mentre camminava in silenzio accanto al suo strano compagno. Non è che avesse compreso molto di quello che Erik stava architettando ma era certa che sarebbe stato qualcosa di bello e il ricordo della faccia di Mastro Pulcinella la faceva ancora sorridere. Da quanto tempo non sorrideva così?
«Immagino che non abbiate cenato, proprio come me» disse quando arrivarono davanti alla porta della palazzina. Erik la guardò come se non avesse capito, lei alzò gli occhi al cielo e lo afferrò per un braccio. «Avanti, venite con me».
Attraversarono l'ingresso sotto lo sguardo torvo di Madame Fantine, la ragazza disse all'uomo di aspettarla in camera sua e sgusciò nelle cucine. Questionò con la cameriera per qualche minuto, ma alla fine riuscì a mettere insieme un vassoio con del pane e del formaggio, tornò in camera sua dove Erik era rimasto ad attenderla in piedi accanto alla finestra.
Posò il vassoio sul letto e si lasciò cadere stesa a pancia in giù.
«Oh, santi numi, venite qui! Non comportatevi come se ci fossero serpi in agguato ad ogni angolo!» esclamò.
L'uomo finse una smorfia di sopportazione e andò a sedersi vicino a lei. Mentre consumavano quella cena frugale, lui le spiegò come mai era andato a cercare Pulcinella e cosa aveva in mente di fare. Alla fine lei lo guardò con un misto di stupore e ammirazione,
«Non vi facevo così... tenero» rispose lei, sinceramente colpita.
«Non ho mai creduto di esserlo. Non lo sono, in effetti» borbottò lui precipitosamente, preso alla sprovvista.
«Forse vi sono solo mancate le occasioni».
Il volto di Erik si incupì, il suo sguardo si fece lontano e distante, puntato su chissà quale orizzonte denso di malinconia. Lucia era certa che quell'uomo non solo avesse ferite profonde che non era ancora stato in grado di curare, ma era anche sicura che ci fossero ancora le lame conficcate in quei tagli e si chiese perché una persona che certamente doveva avere dello straordinario non era stata in grado di estrarle. Certo, era lo stesso anche per lei, ma lei non si sentiva affatto straordinaria...
Di colpo, l'uomo si voltò a fissarla e allungò una mano a prendere la sua, trascinandola con delicatezza accanto a sé.
«Insegnatemi» le disse guardandola in quel suo modo serio, irremovibile.    
«Certe cose davvero non si possono insegnare» replicò lei, posandogli una mano sulla guancia scoperta.
Erik sospirò,
«Provateci» mormorò, e sembrò quasi una preghiera.
 

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* Letteralmente sarebbe "lascia fare alla Madonna", si usa in senso di "grazie al cielo".

Scusate per il ritardo. Questo è un periodo notevolmente turbolento e spesso non sono a casa, ma cercherò comunque di aggiornare con constanza e non saltare più settimane.
Al prossimo mercoledì (spero)
  

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Capitolo 15
*** Ferite ***


Capitolo quattordicesimo
Ferite


~ Napoli, 29 aprile 1871 ~

La candela nella piccola bugia di ottone stava finendo. Si spense d'un tratto, levando una sottile spira di fumo più denso che disegnò grigie virgole a mezz'aria prima di dissolversi.
Erik, steso pigramente su un lato del letto, allungò una mano per sostituire il mozzicone di candela  ormai inservibile con quella nuova già pronta sul comodino. Sfregò lo zolfanello contro il margine della scatola, la fiamma gialla e blu scintillò nella stanza in penombra illuminando il suo viso e quello della ragazza seduta accanto a lui.
Lucia inspirò e incurvò la schiena, premendosi contro la spalliera di ciliegio.
«Cosa c'è?» chiese l'uomo distrattamente, mentre la fiamma avvolgeva lo stoppino della candela e restituiva alla camera dalle pareti azzurre un po' di luce.
La ragazza scosse piano la testa, come per dire: niente d'importante.
«Avete paura del fuoco» constatò Erik, posando nuovamente la bugia sul comodino.
Lucia annuì, ciocche ondulate dello stesso colore dell'ebano le danzarono sulla fronte. A lui piacevano quei capelli, gli piaceva stringerli tra le mani quando la prendeva o affondarvi il viso.
«Mi stavate dicendo dell'Annibale di Chalumeau all'Opera di Parigi» fece lei, tornando ad assumere una posa più rilassata.
Erik si voltò, stendendosi di schiena e fissò lo sguardo sul soffitto. La camicia mezza slacciata si apriva sul petto nudo; non era più il tempo delle formalità e delle riserve, la necessità di schermirsi e preservare le distanze era venuta meno la sera stessa in cui era tornato da lei per la seconda volta. Anche i mostri possono avere la facoltà di essere sinceri con se stessi: la ragazza era uno sfogo e non trovava ragione di negarselo. Oh, certo, non si trattava solo della pura e semplice ricerca del piacere dalla quale si era sottratto per tanto tempo, c'era qualcosa di più... semplice. Che Dio la maledica, quella ragazza aveva il pregio di essere un'ottima compagna di conversazione e la sua esperienza da attenta spettatrice di teatro rendeva il parlare con lei più che mai interessante agli occhi di Erik che era troppo amante della perfezione tecnica ed estetica per rendersi conto di quale fosse davvero il punto di vista di un semplice spettatore.
Lucia ascoltava con attenzione e avidità i suoi racconti sugli spettacoli dell'Opera, esprimeva pareri  che a volte magari si rivelavano ingenui ma i suoi discorsi non erano mai tediosi. E quando lui era in vena di ascoltare, la ragazza lo istruiva sulla cultura di Napoli, sulle vicende dell'Italia, sulla loro arte e sulla loro letteratura, per quel poco che ne conosceva.
«Sì, stavamo parlando dell'Annibale» disse Erik, il tepore della stanza come unica barriera ad arginare il gelo dei ricordi. «Vi sarebbe piaciuta la rappresentazione dell'Opera Populaire. Fu di una tale, stupefacente perfezione. Il vestito bianco di Elissa...».
La ragazza lo interruppe scuotendo il capo,
«Elissa non indossa nessun abito bianco nell'Annibale di Chalumeau» osservò arricciando le labbra.
«Quella sera ne indossava uno invece. Di tanto in tanto qualcuno riteneva che un tocco di originalità avrebbe giovato allo spettacolo e non mancava di suggerire in proposito» replicò Erik con uno strano accenno di sorriso. «E lei... lei, cioè la cantante, era davvero un angelo con quell'abito, un tale miracolo di splendore come nemmeno il Paradiso ne ha mai potuti vedere».
Lucia inclinò la testa lanciandogli un'occhiata penetrante che all'uomo fece lo stesso identico effetto di un pugno in pieno viso.
«Era la donna che amavate?» mormorò.
Erik sentì il respiro spezzarsi in fondo al suo petto e fu quasi con stupore che avvertì il leggero sussulto del cuore che batteva contro le costole. Perché il suo cuore poteva ancora battere... che cosa assurda e impensabile!
«Sì, è così» ammise semplicemente.
Lucia strinse le labbra, come a trattenere parole che forse era indecisa se pronunciare o meno. L'uomo sospirò; il mondo che reclamava la sua attenzione e la sua disponibilità lo irritava, talvolta lo spingeva fino alla soglia della rabbia, ma non in quella stanza, dove la necessità gli aveva imposto di abbassare le armi e lasciar cadere le maschere.
«Parlate, avanti» disse lui, senza mostrare alla ragazza quanta fatica stava impiegando per sostenere il suo sguardo. «Non avete nulla da temere da me». Per mia sfortuna...
Lucia sorrise in quel suo modo tenero, un po' complice un po' materno, e si strinse nelle spalle,
«Mi rammaricherebbe troppo far sanguinare nuovamente le vostre ferite» rispose distogliendo lo sguardo.
E quella cos'era? Una dichiarazione d'affetto? No, tra lui e la ragazza c'era un accordo sottinteso, una sorta di baratto. Se lei rappresentava uno sfogo, lui non era altro che la risposta alla necessità di Lucia di sentirsi ancora desiderabile e, probabilmente, di riuscire a fare ciò che sapeva fare meglio.
«Le mie ferite? E delle vostre, cosa mi dite?». Domanda impietosa e crudele, pronunciata in tono sprezzante. Se ne pentì un istante dopo averla formulata.
Il volto della ragazza si indurì e Lucia distolse lo sguardo puntandolo verso un angolo buio,
«Nulla che possa interessarvi. Se avete amato qualcuno che vi ha fatto soffrire immagino che qualsiasi cosa io possa raccontarvi non aggiungerebbe nulla di nuovo a quanto già avete conosciuto» disse tagliente.
Erik decise di incassare il colpo senza reagire e senza aggiungere altro.
Allungò una mano verso di lei,
«Venite qui» le disse con voce morbida.
Lucia scivolò accanto all'uomo che le posò un bacio sulle nocche delle dita.
Era buffo; quando gli capitava di pensare al tempo trascorso in quella casa di appuntamenti, gli veniva in mente uno strano paragone. Pensava ai suoi primi giorni in teatro, dopo che Madame Giry lo aveva condotto con sé all'Opera, alla curiosità di scoprire e allo stupore che seguiva ogni nuova  rivelazione su quel luogo che ai suoi occhi di bambino appariva così pieno di possibilità, che al suo cuore da esiliato, forgiato nelle lacrime e nella violenza, sembrava così sicuro e pacifico. L'intimità fisica era stata una scoperta dello stesso genere, c'era sempre qualcosa che lo stupiva e che, al di là del piacere in sé, andava a toccare la sua curiosità – caratteristica rimasta pressoché immutata da quando era nient'altro che un ragazzino spaurito.
«E il vostro piccolo progetto, come procede?» chiese Lucia.
Gli occhi di Erik si illuminarono,
«Procede. Anche se il signor Marchesi sembra sempre sull'orlo del collasso ogni volta che si fa menzione alla cosa».
«Povero Guglielmo. Non lo invidio, tra voi e il peso di tutte le responsabilità che deve portare...». Lucia ridacchiò nascondendo il viso nel materasso.
«Il signor Marchesi non si è mai lamentato della mia presenza o dei miei servigi» replicò l'uomo.
«Il signor Marchesi è troppo buono»
«E voi siete troppo sfacciata»
«Sì, e ne vado fiera» concluse la ragazza, puntellandosi sui gomiti e posando un bacio sulle labbra di Erik. Dopo qualche secondo la mano dell'uomo si posò sulla sua nuca, trattenendola contro di sé, affondando nella massa di onde corvine.
C'erano gesti e sguardi che segnavano automaticamente il punto di conclusione a ogni dialogo.
Lui le posò le mani sui fianchi e la fece sedere a cavalcioni sopra di sé, scostando l'orlo della corta camicia da notte. Era il momento che Erik detestava maggiormente, l'ultimo attimo di lucidità sprecato a pensare che da quel momento in poi sarebbe stata lei ad avere in mano le fila del gioco, perché era lei che sapeva esattamente cosa fare, come fargli dimenticare ogni cosa. E il mondo si stemperava in quella strana curva delle labbra sul volto della ragazza, a metà tra un sorriso e un gemito, quando lo accoglieva dentro di sé.

Anche la seconda candela si era ormai spenta. Lucia crollò sul petto di Erik, stringendo tra le dita i lembi della sua camicia.
Dopo qualche minuto, la ragazza si scansò e andò a sistemarsi sotto le lenzuola. Erik la imitò, stendendosi in silenzio accanto a lei, giocando ad avvolgere i suoi ricci sulla punta dell'indice.
«Verrete a vedere lo spettacolo, la prossima settimana?» le chiese dopo qualche minuto.
«Non mi perderei una cosa del genere per niente al mondo, signore» rispose.
«Bene, pensavo di mettervi nel palco centrale con il duca e il signor Marchesi».
Lucia si stropicciò il viso con la mano e scosse il capo. Erik la fissò inarcando un sopracciglio,
«Qualcosa in contrario?» domandò.
«Non dovete chiederlo a me, dovete chiederlo a loro».
Lui sbuffò, a sottolineare quanto la cosa gli sembrasse di scarsa rilevanza. Insomma, quella ragazza aveva frequentato il San Carlo al braccio degli uomini più in vista della città, Guglielmo e il duca non sarebbero stati così ipocriti da avere qualcosa da ridire.
«Ad ogni modo, vi assicuro che un posto sul loggione andrà benissimo» aggiunse lei, distogliendo lo sguardo come se si sentisse imbarazzata.
Che Lucia fosse incline all'imbarazzo era una cosa che Erik davvero non credeva possibile.
«Anzi, veramente, lo preferirei» aggiunse in un filo di voce.
Lui sgranò gli occhi,
«Niente affatto» replicò corrugando la fronte, in un tono che non ammetteva repliche. «Il loggione... come vi saltano in mente certe sciocchezze?».

*

Lucia fu svegliata dal dondolio del materasso accanto a sé. Era l'alba, doveva esserlo per forza, perché Erik si stava svegliando e lui si svegliava sempre all'alba.
Durante le prime sere, la ragazza era stata quasi propensa a credere che quell'uomo non dormisse affatto, poi una notte si era svegliata e aveva constato che anche lui dormiva. Anche se, quando lo aveva visto, più che crederlo addormentato, lo aveva creduto morto. Erik riposava immobile, con le braccia aperte e scomposte sul cuscino, senza muovere nemmeno un muscolo, respirando impercettibilmente. Solo fissandolo attentamente e a lungo, Lucia aveva notato gli scatti delle palpebre che si serravano e poi si rilassavano, come se immagini ora scurissime ora intensamente luminose si alternassero nei suoi sogni.
Chissà cosa sognano gli uomini come Erik, si era chiesta. Chissà quali e quanti fantasmi mormorano nella loro mente mentre sono addormentati.
Ad ogni modo, stava davvero albeggiando. In quell'ultima settimana la ragazza si era abituata a quelle destate così mattiniere, del resto, aveva tempo per riposare durante il giorno. Non capiva come Erik reggesse quei ritmi assurdi, ma non era un suo problema.
Al risveglio il rito si ripeteva sempre uguale, come la prima volta. Lei indossava la sua vestaglia, salutava il suo ospite con un bacio e lo lasciava solo a ricomporsi, sgusciando nelle cucine a vedere se era rimasto un po' di caffè dalla sera precedente – di solito, in quello, aveva fortuna. Alle volte, dopo che lui se ne era andato, Lucia tornava in camera e si rimetteva a dormire, altre volte ne approfittava per andare al mercato di buon'ora e comprare la frutta e la verdura migliori, prima che si facesse la solita ressa mattutina attorno ai bancali. Di tanto in tanto, aveva anche la fortuna di incappare in un rigattiere che, in mezzo alle sue cianfrusaglie, portava anche qualche vecchio libro usato che vendeva per pochi spiccioli.
Ad ogni modo, quella mattina, la consuetudine subì un'inattesa variazione.
La ragazza si allacciò la cintura di raso sotto al seno, indugiò un attimo davanti allo specchio per ravvivarsi i capelli e fece per uscire, ma Erik la trattenne.
«Aspettate un attimo, Lucia» disse alzandosi. «Ho una cosa per voi, ho dimenticato di darvela ieri sera».
Lei non volle mostrarsi troppo sorpresa, ma davvero non credeva che Erik fosse tipo da fare regali.
L'uomo prese il soprabito posato sulla spalliera della sedia e ne frugò la tasca interna, estraendone un libretto lungo come quello delle banche che porse alla ragazza.
Lucia prese l'oggetto con aria curiosa e ne sfogliò le pagine di spessa carta stampata.
«State scherzando?» borbottò dopo qualche secondo. Domanda stupida; Erik che scherzava, figurarsi!
«No, affatto» fece lui cominciando a sistemarsi la camicia.
La ragazza si rigirò ancora una volta tra le mani il libretto. Era una carnet con i biglietti di tutti gli spettacoli del San Carlo, fino alla fine della stagione.
«È molto generoso da parte vostra, vi ringrazio di cuore» disse chinando il capo per nascondere il fatto che stava arrossendo. Era un regalo davvero bello per lei ma Erik di certo non poteva sapere e sicuramente le aveva portato quei biglietti armato delle migliori intenzioni, tuttavia...
«Ma non posso accettarlo» aggiunse.
«No, sono io che non posso accettare un vostro rifiuto» la rimbeccò lui con una certa durezza.
Ah, santo cielo! Ci mancava solo che si mettesse a fare il caparbio con lei.
«Erik...» tentò di dire, ma lui la zittì posandole un dito sulle labbra.
«Insisto» dichiarò con un po' più di dolcezza.
D'accordo, avrebbe tenuto il maledetto libretto, se era quello che lui voleva, del resto non poteva certo obbligarla ad andare a vedere gli spettacoli, giusto? Beh, pensandoci, era sicura che Erik avrebbe trovato il modo di obbligare anche Vittorio Emanuele a cedergli la corona se si fosse messo di impegno.  
«Va bene, va bene... come volete!» concluse, andando a posare il libretto sullo scrittoio.
«Non capisco perché ogni tanto nella vostra bella testa si insinuino idee così stupide» fece lui a mezza voce. «Prima la storia del loggione e adesso questo...».
«State forse facendo dell'ironia? Impressionante, forse entro stasera verrà a nevicare».
Lei gli aveva usato la gentilezza di non indugiare sulle sue vecchie ferite; non gli avrebbe permesso di scoprire le proprie quindi continuò semplicemente a sorridere con fare canzonatorio.
«E il giorno che voi smetterete di fare del sarcasmo, temo che esploderà il Vesuvio» replicò l'uomo.
«Così mi incentivate a continuare»
«Sono certo che alla vostra lingua lunga non occorra alcun incentivo».
Lucia ridacchiò,
«Non sarei me stessa altrimenti» osservò con fare impertinente.
«E tutti noi ne soffriremmo molto» concluse lui, canzonatorio.
Mamm'do Carmine*, si era svegliato allegro!

*******

~ Parigi, 11 maggio 1892 ~

Il cocchiere diede uno strattone deciso alle redini e la carrozza si fermò davanti all'ingresso del palazzo con le ruote che stridevano sulla ghiaia.
Il cielo era di un bell'azzurro lucido e un vento tiepido soffiava nell'aria l'odore dei fiori e dell'erba del giardino.
Christine prese un gran respiro e si sporse dal finestrino della vettura, con il viso in direzione del sole, godendosi il tepore di quella bella giornata di primavera come una carezza. Poi tornò a guardare dentro; sul sedile di fronte a lei i due ragazzi dormivano, appoggiati l'uno contro la spalla dell'altro. Erano così teneramente buffi e dovevano essere parecchio stanchi e provati da crollare addormentati dopo i primi minuti di viaggio.
Non era stato così facile convincere il giovane Louis a venire con lei e suo figlio, quel benedetto ragazzo era caparbio e anche eccessivamente beneducato; sembrava davvero convinto che avrebbe potuto arrecare qualche disturbo – «Quale disturbo, caro? Saremmo più che lieti di avervi come nostro ospite, siamo solo in tre e quella casa è così grande». E si era preoccupato persino di quello che avrebbe detto il visconte – «Mio marito non potrà che essere contento, siete così caro al nostro Gustave...». Insomma, alla fine, dopo molte insistenze, e dopo fiumi di parole per blandirlo, si era deciso a prendere le sue cose e a seguirli a casa De Chagny. Christine ne era veramente lieta, intanto perché il ragazzo le stava simpatico e la incuriosiva, in secondo luogo perché il suo istinto materno non le avrebbe dato pace se avesse lasciato un giovane in preda a un qualsivoglia malessere abbandonato a se stesso, in una città straniera, lontano da casa. Certo, perché che cosa era effettivamente successo al povero Louis, madame De Chagny ancora non era stato in grado di capirlo, Gustave si era solo limitato a dirle che il suo amico aveva letto una notizia che lo aveva, a giusta ragione, sconvolto e lui le aveva suggerito di non fare domande perché la questione era molto delicata e Louis avrebbe potuto non avere voglia di parlarne. A Christine era sembrato più che lecito.
Se la questione non fosse stata legata alle pene di un caro giovane, la viscontessa avrebbe trovato la faccenda persino piacevole e divertente: qualcuno di nuovo in giro per casa, qualcuno che suonava il violino, per giunta – ah, prima o poi avrebbe vinto la ritrosia del suo ospite e lo avrebbe convinto a suonare.
Il cocchiere le porse la mano per aiutarla a scendere dalla carrozza. Christine non fece in tempo a posare il piede in terra che Raoul comparve sotto l'uscio del portone e si diresse verso di lei a grandi passi, camminando con così tanta veemenza che i sassolini di ghiaia schizzavano come scintille sotto la suola delle sue scarpe.
«Per l'amor del cielo!» esclamò il nobile. «Nostro figlio che manda biglietti di notte, tu che sparisci... che succede?! Gustave dov'è? Sta bene?».
La donna gli posò una mano sul braccio con fare rassicurante e gli sorrise facendogli cenno di abbassare la voce.
Raoul si sporse a guardare dentro la vettura della carrozza, scorgendo i due ragazzi ancora addormentati.
«Oh, che visione deliziosa e romantica!» borbottò sarcastico, con uno sbuffo che sembrò far tremare i baffi biondi come nappe di una tenda. «E tutto ciò è dovuto a cosa, esattamente?».
Christine gli riassunse brevemente l'accaduto,
«Sono certa che non avrai niente in contrario a tenere il ragazzo con noi per qualche giorno» concluse. «Mi è sembrata la cosa migliore da fare, non me la sento di lasciarlo da solo».
Il visconte annuì,
«Ma certo che il piccolo Paganini può restare con noi» dichiarò. «Però tu e nostro figlio mi avete fatto prendere un colpo».
«Sì, hai ragione, ti chiedo scusa. Ma era un'emergenza».
L'uomo tirò un lungo sospiro,
«D'accordo, adesso che siamo tutti qui sani e salvi, direi di svegliare Giulietta e Romeo»
«Certo, tu porta dentro i ragazzi, io vado a dire alle cameriere di preparare una stanza per Louis e di aggiungere un posto in più a tavola per il pranzo».

*

Era tutto così dannatamente assurdo!
Louis tirò un pugno contro il materasso e scosse il capo. Madame De Chagny era stata oltremodo gentile e premurosa a convincerlo ad andare a stare da loro, a preoccuparsi di non lasciarlo solo, ma non era quello il suo posto. Il suo posto sarebbe stato su un treno, diretto verso casa, ad affrontare sua madre.
Sua madre, Louis ne era convinto, era la persona che al mondo lo amava maggiormente. E allora come aveva potuto permettere che lui si ritrovasse da solo ad affrontare quell'orrore?
Il ragazzo ancora non trovava una risposta.
L'idea di lasciare Parigi, prendere il primo treno e tornare a casa continuava a ronzargli in testa. Nella sua città lo aspettavano facce familiari e un posto di tutto rispetto nell'orchestra del San Carlo. Mancavano ancora molte pagine alla fine del diario, ma ora non era più così sicuro di volerle leggere. Suo padre, l'uomo che lo aveva cresciuto, era solo un'ombra lontana e indistinta, probabilmente niente di più concreto di un miraggio. Quel diario apparteneva a una persona che Louis non conosceva, che non aveva mai conosciuto davvero e che senso poteva avere continuare a leggere le memorie di un estraneo?
La sua mente non si sarebbe mai abituata all'idea. Poteva davvero essere in grado di odiare Erik adesso che lui non c'era più?
La testa gli sarebbe esplosa a furia di fare domande destinate a rimanere senza risposte.
Si andò a sciacquare il viso nel catino, imponendosi di riacquistare il controllo di se stesso e dei propri pensieri. Adesso era ospite di una rispettabile famiglia di nobili e loro erano stati già troppo gentili a volerlo ospitare senza che lui gli imponesse anche la presenza di un rottame.
Forse, in compagnia di Gustave e dei suoi genitori avrebbe potuto fingere di dimenticare.

Louis stava guardando la roba che aveva portato con sé dalla mansarda, qualche domestico l'aveva accantonata sul sofà nell'angolo. La custodia del violino se ne stava appoggiata contro il bracciolo di velluto.
«Louis, è permesso?». Il visconte De Chagny stava bussando alla sua porta.
Il ragazzo si affrettò ad andare ad aprire.
Raoul gli sorrise gentile sotto i suoi curati baffi biondi, gli occhi chiari limpidi come laghi di montanga.
«Come vi sentite?» gli chiese.
Oh Dio del cielo, fa' che non si metta a fare domande...
«Bene, monsieur, vi ringrazio. E vi sono più che mai grato della vostra ospitalità. Vostra moglie ha insistito così tanto ma non vorrei mai esservi di peso...».
L'uomo agitò le mani,
«No, no! Non mettetevi a fare cerimonie con me. L'importante è che voi ora vi riprendiate da... qualsiasi cosa sia accaduta».
Louis si sentì avvampare, era ingiusto non fornire nemmeno una spiegazione ai genitori di Gustave che erano stati così premurosi nei suoi riguardi, conoscendolo così poco.
«Visconte, io credo di dovervi qualche giustificazione...» mormorò.
«Non mi dovete niente, figliolo».
Raoul De Chagny gli batté la mano sulla spalla. Il ragazzo sospirò.
Ah, perché suo padre non era stato come lui, come quell'uomo? Così limpido e gentile e sorridente...
«In realtà, pensandoci, c'è una cosa che potreste fare per noi tutti» fece il visconte dopo qualche secondo.
«Qualsiasi cosa, monsieur»
«Tra tre giorni cade il compleanno di Gustave, sia lui che mia moglie vi sarebbero immensamente grati se poteste allietarci la serata con il vostro violino».
Il padrone di casa aveva pronunciato quelle parole come se gli pesassero.
«Vostro figlio e vostra moglie, monsieur? Perché ho la sensazione che per voi la cosa non sarebbe affatto gradita?» domandò il ragazzo.
«Non amo la musica» ammise De Chagny con una certa gravità. «Ma questo è un mio problema che non deve in alcun modo mettervi a disagio. Dopotutto il compleanno è di Gustave»
«E io sarò ben felice di accontentarlo».

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* Mamm'do Carmine, equivalerebbe a “Oh, Madonna”, per la precisione la Madonna del Carmelo, il cui culto a Napoli fu diffuso durante la dominazione spagnola e rimane tutt'ora.


Al solito, la prossima settimana potrei non essere a casa e quindi non riuscire a postare. Ma dato che il capitolo nuovo è già pronto, se non succedono imprevisti... ci si legge il prossimo mercoledì ^^

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Capitolo 16
*** Carte scoperte ***


Capitolo quindicesimo
Carte scoperte


~  Napoli, 03 maggio 1871 ~


Sobbalzò quando sentì la porta del suo ufficio aprirsi e poi richiudersi violentemente con un tonfo.
Da un angolo della sua mente, le voci dei fantasmi che si celavano nel suo animo cominciarono a deriderlo. «Sei diventato come tutti gli altri. Sei un debole...».
Erik si alzò in piedi con un moto di irritazione, quasi scagliò via la sedia.
«Signorina Rovesti!» esclamò. Appena si rese conto che era stata Graziana a entrare nel suo ufficio in quel modo tanto brusco, una parte della sua rabbia scemò.
Poteva non ritenere quella giovane donna degna di stima, ma la sua voce era pur sempre un miracolo ed Erik non aveva mai smesso di ammirarla per questo. Né di invidiarla per tante altre cose alle quali preferiva non pensare.
Quando il suo sguardo – uno sguardo leggermente ostile – si posò sul viso della ragazza, si accorse che stava piangendo.
Graziana aveva il viso contratto per lo sforzo di trattenere i singhiozzi, una scia di rossore le velava le guance solcate da una piccola lacrima.
Erik non sopportava il pianto delle donne. Nella sua mente risuonava il rumore vibrante di specchi che andavano in frantumi, illusioni che annegavano e appassivano sopraffatte dalle lacrime.
«Maestro, posso parlarvi?». L'orgoglio della giovane riusciva a tenere ferma la voce, almeno un po'.
La donna chinò il capo, si asciugò due lacrime con la punta delle dita.
Per un attimo Erik pensò che anche quelle fossero il trucco di una brava attrice, ma chi era lui per giudicare l'ipocrisia altrui? Non stava forse fingendo di essere un uomo comune fin dal primo momento in cui aveva messo piede nel San Carlo? Non stava forse rinnegando, giorno dopo giorno, ciò che era sempre stato?
Un uomo ha il diritto di scappare dai proprio fantasmi, ne ha il dovere, anzi. Era arrivato persino a fingere di esserne convinto.
«Sedete, signorina Rovesti» disse infine, indicando con un cenno della mano la sedia vuota davanti alla sua scrivania, troppo stanco per imprimere alla voce un tono che dicesse di più di quel formale invito.
Lei mosse appena il capo in un cenno di diniego e sollevò lo sguardo su di lui. C'era qualcosa nei suoi occhi che le lacrime rendevano simili a specchi d'acqua; Erik si sentì annegare scoprendosi del tutto incapace di fronteggiarla. Qualsiasi fosse il motivo di un atteggiamento tanto melodrammatico da parte della primadonna, lui era...
… sei un debole!
La vece sibilava nella sua mente, come una spira di fumo, densa e impalpabile, come la nebbia sulle sponde del lago sotterraneo.
«Ecco, io...» esordì titubante Graziana, strappandolo alle sue riflessioni. «Devo chiedervelo Maestro, perché state facendo questo?».
L'uomo sospirò impercettibilmente, chiuse gli occhi e quasi pregò che i fantasmi tornassero a fare eco nella sua mente, che gli spingessero nelle vene un po' della sua antica furia, di quel gelo che lo poneva al di là del resto del mondo.
Graziana aggrottò appena le sopracciglia con fare quasi bellicoso e dopo una breve pausa ricominciò a parlare.
«Perdonate se ho l'ardire di sperare che nel vostro cuore serbiate un poco di affetto per me, per tutti noi» dichiarò con impeto. «Ma è per l'affetto che io nutro per voi che mi permetto di venire a parlarvi».
Quei preamboli lo stavano turbando, ma non voleva darlo a vedere. Erik tornò a sedersi e appoggiò le mani sul piano della scrivania.
«Vorrei davvero fare qualcosa per alleviare la vostra pena» borbottò in un tono che smentiva quelle stesse parole, «tuttavia, non riesco a seguirvi».
Graziana si lasciò sfuggire un mezzo sorriso addolorato,
«E perché dovreste? Ci sono così tante cose che non sapete» disse. «Credetemi, signore, le mie parole non sono per giudicarvi. Ma io mi sento in dovere di mettervi in guardia, ho saputo...».
Era paura quella che sentiva raggelargli il sangue e stringergli lo stomaco? Forse i fantasmi avevano ragione. Era davvero diventato un debole.
Probabilmente lo era sempre stato, come chiunque sente la necessità di nascondersi. E ora Erik cominciava a capire che non era più solo per il suo volto, e questa consapevolezza lo rendeva ancora più solo, lo spingeva ancora più in fondo verso il baratro del suo personale inferno.
«Non è mia abitudine impicciarmi negli affari altrui, Maestro, ma in città alcuni ne parlano. Di voi e di quella ragazza».
Tutte le parole di Graziana ora gli sembravano una corda d'arco tesa lentamente per scoccare una freccia con la punta avvelenata dal disprezzo. E c'era davvero tanto disprezzo nel modo in cui aveva detto «...quella ragazza», nella curva ostile delle sue belle labbra.
Per un attimo Erik fu quasi tentato di mettersi a ridere, ma la sua interlocutrice gli apparve così cupa da cancellare ogni minimo segno di ilarità dai suoi pensieri.
«Infatti, signorina Rovesti. Con tutto il rispetto ma credo che non dobbiate impicciarvi dei miei affari.» disse, ritrovando la sua calma, la parte meno umana di se stesso, quella che non accettava alcuna mano tesa perché non era mai stato abituata ad averne. Quella che non conosceva la debolezza, o almeno poteva fingere che fosse così.  
«Ah certo, voi siete un solitario che non si fida di nessun altro al mondo se non di se stesso. Ma poi decidete di dedicare il vostro tempo a quella cagna...» fece la ragazza, la voce di nuovo rotta dall'angoscia, priva di rabbia e colma di preoccupazione.
L'uomo sentì come un fastidioso colpo al petto nel sentire insultare Lucia.
«Dopo tutta questa freddezza verso tutti noi, vi fidate di lei? Di lei?» continuò Graziana tormentandosi i capelli. «Della donna più spregevole che avreste mai potuto incontrare? Non dovete fidarvi delle sue parole, dei suoi sorrisi, delle sue moine...»
«Dovrei fidarmi di voi?».
Graziana restò in silenzio per qualche secondo,
«Non oso chiedervelo. Ciò che vi sto dicendo è per voi, per la vostra pace, io non ci guadagno nulla» concluse con un sospiro.
Menzogne. Era bravo a riconoscerle, ne aveva raccontate tante, a se stesso, a quella bambina che credeva negli angeli... al duca, al signor Marchesi...
Menzogne, bugie che lo offendevano, come se fossero ingiurie contro la sua intelligenza. Che mettevano le ali alla sua rabbia.
L'uomo si concesse qualche secondo e un lungo respiro.
Era consapevole della propria vanità, le sue maniere signorili erano un effetto di quel vizio, quasi come i modi civettuoli delle fanciulle a un ballo di gala. E fu quell'abitudine alle buone maniere perpetuata tanto al lungo, come la parte replicata all'infinito di un attore consumato, a frenarlo dal dire ciò che stava pensando e a costringerlo a cercare parole meno brutali ma che tuttavia bastassero a zittire la primadonna.
Sorrise con freddezza. Una curva che sembrava disegnata gli increspò le labbra e Graziana parve stupita, quasi turbata.
«Signorina Rovesti» le disse in tono leggermente mellifluo, «quello che intendevo dire è che ognuno ha le proprie mancanze. Chi stabilisce che le mie siano più gravi di quelle di qualcun altro, delle vostre, ad esempio? Chi stabilisce chi di noi sia più immacolato?».
Forse non era poi così debole se lo sguardo malizioso e accusatorio che stava rivolgendo alla giovane donna bastò a farla impallidire. E no, stavolta non erano stati i fantasmi a far affiorare quella furia, a trasformare i suoi occhi in pozze di piombo fuso. Era stato qualcosa di profondamente umano; non c'era il soffio gelido di uno spettro nelle sue vene, ma qualcosa di caldo come era normale che fosse il sangue di un uomo.
Graziana scosse il capo con stizza e si morse le labbra.
«Così facendo, Maestro, mi fate torto» mormorò grave. «Io ero venuta per mettervi in guardia da...»
«Mettermi in guardia da Lucia? Sì, usiamo il suo nome, giacché ne ha uno»
«Esattamente, mettervi in guardia da Lucia. Ma voi ora sembra mi stiate accusando di Iddio sa cosa!»
«Dicono che Dio sia onnisciente, ma quello che conta è che lo sapete voi, come lo so anche io» concluse Erik. «E dal momento che voi avete avuto la premura di venire a esprimere un parere, lasciate che ne esprima uno anche io: il signor Marchesi non merita questo. E quando dico il signor Marchesi, mi riferisco al figlio, non al padre».
Graziana strinse le palpebre, fissandolo con un misto di imbarazzo e di collera, inspirando lentamente. Nel silenzio teso che si era venuto a creare, Erik quasi poteva sentire l'aria fremere nei polmoni della donna.
La soprano si voltò e si diresse alla porta, livida in volto.
Si fermò sull'uscio, con la mano appoggiata sulla maniglia,
«Mi avete ferito, Maestro» mormorò cupamente, voltando appena la testa di lato, guardando di sottecchi l'uomo alle sue spalle. «Non è mai bello né conveniente rifiutare l'offerta di un'amica».

*******

~ Parigi, 14 maggio 1892 ~

 


«Da quando ti conosco, mi hai portato solo guai!» esclamò Louis, afferrando distrattamente una coppa di qualcosa di molto costoso e alcolico che un cameriere gli stava servendo da un vassoio di argento. Dovette costringersi a un enorme sforzo di autocontrollo per non mandare giù il contenuto del bicchiere tutto d'un fiato.
Gustave, che era accanto a lui, si voltò flemmatico e lo fissò incredulo,
«Quali guai?» mormorò serafico, con innocenza, come se davvero non avesse capito.
Il sole faceva brillare l'erba del prato perfettamente falciato. Il vento faceva frusciare rumorosamente la stoffa del gazebo di tela bianca.
Il giardino di casa De Chagny era pieno di gente. Louis avrebbe giurato di non aver mai visto tanti frac, tube, merletti, stole di raso... tutti insieme nello stesso posto, nemmeno a teatro.
Festa di compleanno in giardino – idea del visconte Raoul, niente poteva essere più lontano dall'indole del festeggiato. E per quel che lo riguardava, Louis avrebbe preferito darsela a gambe.
«Gustave, chi è tutta questa gente? Dici sempre che non hai amici».
Il ragazzo biondo si lisciò con noncuranza il tessuto della giacca e lanciò un'occhiata vacua all'esercito di dame ingioiellate e signori impettiti disseminati nel giardino della tenuta.
«Infatti. Questi sono amici di mio padre» replicò con una scrollata di spalle. «Quali guai?» insistette.
«Era solo una battuta. Mentirei se dicessi che non sei un tipo bizzarro, ma sei un buon amico». Louis allargò uno dei suoi migliori sorrisi.
«Grazie. Anche tu» mormorò Gustave, con la soavità che gli era propria, senza alcun sorriso, come a sottolineare la genuina sincerità di quella affermazione. «Comunque, tu come stai?».
Il ragazzo italiano si guardò attorno con un certo imbarazzo,
«Mi sentirei molto meglio se non dovessi suonare davanti a tutta questa gente, comunque...»
«No, intendevo come ti senti visto quello che... per la storia di tuo padre, insomma».
Louis deglutì. Come si sentiva? Come se gli fosse stato piantato un paletto nel cuore e il legno fosse stato incendiato e continuasse ad ardere all'infinito. Come se una parte della sua vita fosse andata in frantumi, una statua di porcellana ridotta in pezzi che è impossibile riavvicinare.
«È il tuo compleanno, siamo ad una festa, dovremmo divertirci e non parlare dei miei dispiaceri» concluse abbassando lo sguardo.
«Tu ti stai divertendo?»
«Beh, devo ancora ambientarmi, ma tra qualche minuto, magari...»
«Sì, mi annoio anche io!»
«Non ho detto che mi sto annoiando»
«Ma non hai detto nemmeno che ti stai divertendo».
Louis sospirò, poi si concesse una risata e batté una pacca sulla spalla dell'amico, troppo forte per l'esile Gustave che si ritrovò a barcollare in avanti.
«Figliolo!». Il visconte De Chagny comparve all'improvviso accanto a loro, con un sorriso smagliante e gioviale sotto i baffi biondi. «Che ci fai rintanato in un angolo alla tua festa?».
«Cerco di dimenticare che è la mia festa, padre»
«Oh, non dire sciocchezze! Vieni a salutare i nostri amici»
«Preferisco fare compagnia a Louis, lui non conosce nessuno e non vorrei che si sentisse in imbarazzo».
Raoul De Chagny lanciò un'occhiata amichevole verso il ragazzo italiano,
«Sentirsi in imbarazzo? Un giovanotto così in gamba? Suvvia, figliolo, sono certo che Louis sopravviverà una mezz'ora senza di te» concluse.
«Sì, immagino di sì» dichiarò il giovane con un mezzo sorriso.
Gustave gli lanciò uno sguardo truce,
«Che sacrificio amichevole» borbottò.
L'amico si strinse nelle spalle, come a dire che non aveva potuto fare altrimenti, poi restò a fissare il ragazzo biondo che si allontanava insieme a suo padre e spariva tra la folla. Presto finì accerchiato da un crocchio di anziane signore – probabilmente vecchie parenti – come se fosse stato fagocitato dalle loro ampie gonne di seta.
Louis appoggiò il bicchiere vuoto su uno dei tavolini e si dileguò verso il punto meno affollato del giardino, dove un piccolo spiazzo di mattoncini rosa separava due file di aiuole di begonie.
Fu con un certo imbarazzo che il giovane scorse Madame De Chagny accoccolata in un angolo di un dondolo di vimini addossato al muro di un casotto da giardiniere.
La donna lo notò e sollevò lo sguardo su di lui. Le nubi di pensieri e ricordi addensate in fondo ai suoi occhi sparirono alla luce di un sorriso gentile.
«Vi state nascondendo, Louis?» disse la viscontessa.
«Come voi, a quanto pare»
«Sono una pessima padrona di casa»
«Non so, io al vostro posto avrei sprangato i cancelli all'arrivo di tutte queste persone».
Christine rise e scosse il capo,
«Forse dovrei andare dai miei ospiti e fare compagnia a mio marito. E salvare Gustave» commentò sarcastica.
«Gustave è capace di salvarsi da solo, fidatevi».
«Non è quello che una madre è disposta a pensare, di solito».
A Louis si spezzò il respiro. Cercando di non apparire troppo brusco, si voltò nascondendo il viso per non mostrare alla donna l'espressione di pena che gli era comparsa in volto. Non tutte le madri, avrebbe voluto risponderle. Sua madre lo aveva lasciato solo...
Questo pensiero bruciava, aumentava il dolore che stava provando come una manciata di sale gettata sulla carne viva di ferite aperte.
«Vi sentite bene, Louis?» domandò Christine, alzandosi e avvicinandosi a lui.
«Sì, certamente. Non vi lascerò senza musicista, è il mio regalo per Gustave, e per voi» rispose il ragazzo, ritrovando un'espressione neutrale e tranquilla.
«Per me?»
«Siete stata molto gentile e...».
Christine alzò le mani per zittirlo,
«Non ricominciate. Vi ho già detto che quel poco che abbiamo fatto per voi, lo abbiamo fatto con immenso piacere» asserì. «Sono certa che quando lascerete Parigi, Gustave sentirà molto la vostra mancanza».
Lasciare Parigi. In effetti, ancora non ci aveva pensato, ma di sicuro prima o poi avrebbe dovuto tornare a casa. Appena avrebbe finito di leggere quel diario.
Da quando si era trasferito nella residenza dei De Chagny, non aveva più avuto il coraggio di toccare quelle pagine, era come se ogni ricordo doloroso contenuto tra quelle righe fosse un insulto a quella casa, una mancanza verso quella famiglia così serena e piena di amore.
La prima sera in cui aveva aperto quel vecchio quaderno, aveva creduto che gli sarebbero bastati pochi giorni per terminarne la lettura, ma aveva scoperto che quell'inchiostro pesava come piombo fuso, che non era in grado di leggere più di un paio di pagine alla volta. Le parole di suo padre, a differenza di quanto Louis aveva creduto, non scorrevano sotto i suoi occhi come acqua limpida, ma erano dense, scivolavano lentamente come fango.
«A cosa pensate, Louis?» domandò all'improvviso Christine. «Perdonate se ve lo domando, ma certe volte vi vedo diventare così cupo che ho paura che il sole vi voli via dallo sguardo».
Il ragazzo si sentì arrossire e sentì il cuore riempirsi di qualcosa di simile a quello stesso fango di cui sembravano fatte le parole di Erik.
Il fango tracimò, coprì tutto di nero per un istante.
«Oh, Christine...». Louis stava quasi per singhiozzare. «Avete mai avuto un affetto grande per qualcuno che poi vi ha tradito, non per qualcosa che ha fatto a voi ma per qualcosa che faceva parte della sua natura? Oh... scusate, è una domanda così sciocca».
Il giovane vide la donna schiudere la bocca in un'espressione sorpresa, di colpo fitte nubi tornarono a ombrarle lo sguardo.
«Mi è accaduto, sì, ragazzo mio» disse. La sua voce suonò come se fossa lontanissima, persa in una nebbia che gettava le ombre del passato su quella bella giornata di sole.
«E che ne è stato del vostro affetto per quella persona?».
Christine sorrise, il sorriso più dolce e malinconico che Louis avesse mai visto comparire sul volto di qualcuno.
«È sopravvissuto ad ogni cosa, anche al dolore. Sopravvive ancora».
Quelle parole suonarono inesorabili, come una condanna. In quel momento Louis seppe solo che l'amore per suo padre sarebbe sopravvissuto a ogni cosa, anche all'orrore, anche alla rabbia. Perché aveva amato quell'uomo e, cosa ancora più importante, Erik aveva amato lui.
«Madre, Louis!». La voce di Gustave suonò come il soffio del vento che fa diradare le nubi dopo il temporale, ma non c'era ancora abbastanza sole nella mente del ragazzo italiano.
«Oh, Louis!» Gustave lo afferrò per la manica della camicia strattonandolo verso il giardino. «Ti prego, comincia a suonare...»
«Gustave!» esclamò madame De Chagny in tono di rimprovero. «Che modi sono mai questi?»
«Io ho bisogno che Louis si metta a suonare, così tutta questa gente smetterà di prestare attenzione a me e comincerà a tormentare lui»
«Molto amichevole da parte tua» replicò il ragazzo moro. «Pensi di resistere il tempo che mi occorre per prendere il violino?»
«Non ne sono sicuro».
Christine e Louis si scambiarono uno sguardo divertito, poi la donna si mise sottobraccio a suo figlio e insieme a lui si diresse dove erano raccolti tutti gli altri invitati.
Il giovane musicista andò a prendere il suo Stradivari e raggiunse in fretta una pedana di legno sistemata sotto a uno dei gazebo. In pochi minuti gli sguardi di tutti i presenti furono su di lui e il visconte De Chagny lo raggiunse per fare le dovute presentazioni.
«Miei cari amici» esordì il nobiluomo con un ampio sorriso, «non mi dilungherò in preamboli, ma il giovanotto qui presente pare sia un eccellente musicista. Tuttavia, il nostro Louis è tanto bravo quanto ritroso per cui non voglio rischiare di metterlo in imbarazzo, vi suggerisco semplicemente di prestargli orecchio».
Louis sorrise al visconte e ai presenti che avevano cominciato ad applaudire. Immaginò che doveva essere grato al padrone di casa per quelle parole tanto lusinghiere dettate unicamente dalle buone maniere e dalla fiducia, visto che fino ad allora né lui né sua moglie lo avevano ancora sentito suonare.
Il ragazzo lanciò uno sguardo davanti a sé, al mucchio di facce indistinte che si erano raccolte accanto alla pedana. Non era vero, non era affatto ritroso, aveva passato le settimane precedenti a suonare per puro piacere personale in un bar nel centro di Parigi, ma conoscendo la strana avversione del visconte all'arte e alla musica aveva preferito evitare di fare qualcosa che gli fosse sgradito, per questo in quei giorni aveva ignorato le velate richieste di Christine e le battute infelici di Gustave.
Ma ora era diverso.
Louis sorrise tra sé e sé mentre appoggiava il violino alla spalla. Guardò un attimo ancora le persone attorno a lui, distinse madame De Chagny ancora stretta al braccio di suo figlio che lo guardava con aria incoraggiante e persino un po' incuriosita e impaziente.
Oh, no... lui era tutt'altro che ritroso, era l'esatto opposto di un artista ritroso. Lui amava lasciarsi ascoltare, perché erano coloro che ascoltavano a dare una ragion d'essere a ogni musica. Suo padre gli aveva trasmesso l'orgoglio per lo stupore, la consapevolezza che il fine dell'arte è quello di stupire, di colpire... «L'arte, Louis, è un'arma. La più benedetta delle armi poiché colpisce senza fare male», così diceva Erik.
Il ragazzo chiuse gli occhi.
«L'arte, Louis, è un'arma. La più benedetta delle armi...».
Strinse le palpebre e, immerso nel silenzio che attendeva le sue note, si chiese per l'ennesima volta e con ancora più disperazione come fosse possibile che le mani di suo padre, che sapevano fare cose così belle e straordinarie con un'arma che non ferisce, fossero sporche di sangue.
Il fatto che non vi fosse una risposta a questa domanda apriva un baratro nella mente del giovane, un enorme pozzo buio in cui ogni cosa sarebbe potuta precipitare se non ci fosse stato quell'affetto, enorme, innegabile, senza rimedio. Quel sentimento che come quello di madame De Chagny sopravviveva ad ogni cosa.
Louis sentì le lacrime pungergli gli occhi. Il ricordo di suo padre sommerse ogni pensiero, la sua musica gli pulsò nelle vene allo stesso ritmo del battito del suo cuore. Suonare era come riportarlo un po' più vicino a lui, e questo era un legame che niente al mondo avrebbe potuto recidere.
Appoggiò l'archetto sulle corde. Emise la prima nota, poi la musica ruppe gli argini del silenzio, inarrestabile.
Era una vecchia canzone che suo padre suonava per lui quando era bambino, Louis ricordava vagamente di avergli sentito dire che era di origine svedese. Aveva un ritmo allegro e incalzante eppure non era priva di una certa dolcezza, gli era sempre piaciuta e anche se l'aveva scelta senza pensarci, guidato solo dalla prepotenza di un ricordo, ora cominciava a pensare di aver avuto un'ottima idea, di certo nessuno dei presenti conosceva quel pezzo.
Le note si rincorsero, perfette e sinuose, per lunghi minuti. Alla fine della ballata, Louis sollevò l'archetto dalle corde e alzò la testa con uno scatto, riaprì gli occhi per sorridere agli applausi ma subito cercò con lo sguardo il viso di Gustave e poi quello di Christine. Sperava di vedere un po' di contentezza nei loro visi, sperò di essere riuscito a strappare loro almeno un sorriso di cuore in quella giornata fatta di formali cortesie tra gentiluomini.
Ma quando il suo sguardo ritrovò madame De Chagny in mezzo alla piccola folla, Louis si trovò davanti l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere. Christine era pallida come un lenzuolo, una statua di sale dagli occhi sgranati, fissi con sconcerto su di lui.
Louis non capì, ma qualcosa nel volto della donna lo raggelò. Sentì un brivido di angosciato stupore scuoterlo fino alle viscere e strinse i pugni attorno al manico del violino.
I presenti erano ancora troppo impegnati ad applaudire per rendersi conto della strana reazione della viscontessa, ma in una manciata di secondi quella piccola ovazione si spense nell'esclamazione allarmata di Gustave.
«Madre! Cosa avete?» gridò il ragazzo.
Tutti si voltarono di colpo verso il giovane, Louis notò con la coda dell'occhio Raoul che si faceva largo tra i presenti, scansando precipitosamente le persone per raggiungere sua moglie.
Christine De Chagny era svenuta, ora giaceva con il volto esangue tra le braccia di suo figlio.  

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Come vi dicevo, in queste settimane non sono a casa, ma dopo qualche peripezia sono riuscita a trovare il modo di postare il capitolo e non rimandare oltre.
Per la prossima settimana dovrebbe essere tutto a posto ;)

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Capitolo 17
*** Parole ***


Capitolo sedicesimo
Parole


~ Parigi, 14 maggio 1892 ~

Per molti anni in quei sogni c'era stato solo dolore.
Quando di tanto in tanto le capitava di tornare in quel luogo mentre era addormentata, Christine si sentiva soffocare dalla sofferenza che permeava da quelle pareti di pietra spoglia, poi, lentamente, anno dopo anno, era sopraggiunto un senso di calma gelida, come un sonno indotto dai farmaci, come il silenzio innaturale dei cimiteri... dopotutto, quello era il mausoleo della sua giovinezza e delle sue illusioni.
Ad ogni modo, dopo tanto tempo, la viscontessa De Chagny non aveva ancora capito se quei sogni fossero un bene o un male. Forse erano solo la prova che certi ricordi non l'avrebbero mai abbandonata, ma del resto lei lo aveva sempre saputo. Lo aveva saputo nello stesso istante in cui aveva chiuso le sue dita attorno alla mano – una mano incredibilmente gelida – del suo Angelo della Musica nel momento in cui gli aveva restituito l'anello, prima di voltarsi e lasciarlo. Prima di lasciare che quel sogno divenuto incubo si dissolvesse nelle luci del mattino che stava sbocciando su Parigi dopo quella notte di fuoco, sangue e follia.
Aveva sognato per la prima volta la Dimora sul Lago il giorno in cui era nato suo figlio, quando il parto l'aveva quasi uccisa. Il dolore dei ricordi le aveva dato la forza per sopravvivere, per salvarsi senza perdere il bambino. Poi c'erano stati altri sogni, perché, che lo volesse o meno, c'era un pezzo della sua anima rimasta in quei sotterranei, quella parte di affetto, di amore, che niente avrebbe potuto cancellare, nemmeno l'orrore.
Ora era tornata lì, era stata una discesa terribile, come una caduta vorticosa in un pozzo senza fondo. C'era voluta un'eternità di buio prima che quella discesa si arrestasse e la conducesse in quel luogo.
L'acqua del lago sotterraneo era gelida, si aggrappava alle sue vesti e le rendeva pesanti, togliendole la forza di continuare a camminare verso la riva.
A lottare con quei ricordi, Christine non era mai stata brava.
Ma non c'era dolore, non c'era nemmeno la calma gelida e silenziosa. Ora c'era la musica, era ovunque, sembrava sgorgare nel gocciolio della cera delle candele, muoversi tra le pieghe dei tendaggi, serpeggiare tra le venature del legno... c'era la sua musica, la loro musica.   
E il dolore era solo il suo, di Christine. La donna lo sentì salì dal cuore agli occhi, lo sentì diventare calde lacrime che scivolavano quasi tagliandole le guance, ma lei non aveva il coraggio di singhiozzare, perché temeva che se avesse fatto rumore avrebbe spezzato l'incantesimo. Perché per troppo tempo aveva anelato di ascoltare ancora quella melodia...
Quando la sua mente riemerse dalle nebbie della commozione, la donna si rese conto che adesso la musica proveniva da un punto preciso, da dietro le tende del baldacchino del letto intagliato.
Lui non c'era mai nei suoi sogni, non lo aveva più rivisto, lo aveva solo sentito parlare alle volte, quasi come quando era bambina e lui cantava dietro lo specchio. Possibile che fosse tornato?
Christine fu consapevole del peso schiacciante di quell'emozione, del fatto che se non fosse stato solo un sogno ne sarebbe morta. Lentamente, come attratta da un magnetismo istintivo, si mosse verso le tende, restò qualche secondo con la mano sospesa a mezz'aria, esitante. Infine scostò il pesante drappo di velluto.
Non era il suo Angelo della Musica quello che stava suonando, in piedi accanto alla sponda del letto a forma di cigno. Era Louis, con il violino sulla spalla, gli occhi chiusi, rapito dalle sue stesse note.
Provò a chiamarlo più volte, urlò il suo nome, ma il ragazzo continuò a suonare, incapace di sentirla...
Certo, lui non apparteneva a quel luogo, lui non aveva niente a che fare con quei ricordi, apparteneva a giorni di luce e non a notti infinite. Non aveva niente a che fare con lei. Era solo un caso, un bizzarro, crudele tiro mancino del fato che quel ragazzo fosse capitato nella sua vita. Perché, e dopo averlo sentito suonare Christine ne era certa, Louis non poteva essere altri che il figlio di Erik.

*

Louis camminava avanti e indietro lungo quel breve tratto di corridoio, con ostinazione, quasi con rabbia, come se avesse voluto scavare un solco sul parquet di ciliegio.
I rettangoli di luce disegnati dal sole che batteva contro i vetri in stile inglese stavano sbiadendo, minuto dopo minuto diventavano sempre più simili alle ombre proiettare dalle tende semichiuse.
Louis continuava a camminare. Si fermava di tanto in tanto a fissare la porta chiusa dalla quale era entrato il dottore, poi continuava a fare su e giù, mordendosi il labbro, borbottando nervosamente tra sé e sé.
Si era già detto e ripetuto almeno dieci volte che lui non c'entrava niente, ma non riusciva a togliersi dalla testa la convinzione che il malessere di Christine fosse stato colpa sua, che in qualche modo era stato lui a provocarlo.
La sua mente aveva argomentato, confutato e smontato questa ipotesi in una miriade di ragionamenti folli, eppure Louis si sentiva in colpa. E non vedeva l'ora che quella dannata porta si aprisse e che qualcuno gli dicesse qualcosa, che Gustave spuntasse con in faccia un sorriso sollevato a dirgli che andava tutto bene, che non era accaduto niente, che sua madre si sarebbe ripresa.
«Che idiozia, dovrei essere io a confortare lui, semmai!» esclamò, fermandosi accanto alla finestra e scuotendo la testa, fino a quando non sentì su di sé il peso di uno sguardo. Si voltò e vide un cameriere in livrea che lo fissava perplesso.
«Oh... scusate, monsieur» squittì il domestico, prima di dileguarsi verso il fondo del corridoio, così in fretta che il giovane non fece nemmeno in tempo a trovare una scusa plausibile o a dire qualcosa a riprova del fatto che non fosse pazzo.
«Forse lo sono. Forse tutta questa storia mi sta facendo impazzire... il diario, mio padre, Gustave, il visconte, Christine... non posso essere stato io, non è colpa mia».
Il ragazzo si allentò il nodo del cravattino, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e guardò fuori. Da quel punto della casa, si vedeva solo un rettangolo di prato perfettamente falciato; in lontananza c'erano ancora i gazebo che si alzavano sull'erba come enormi funghi bianchi. Tutti gli ospiti se n'erano andati, mandati educatamente via dal visconte che sembrava preoccupato solo e soltanto della salute di sua moglie, come se non avesse avuto altro al mondo.
Louis aprì la finestra, inspirò una boccata di aria tiepida e guardò verso il cielo: una tavola di azzurro perfettamente tersa, appena velata dalle ombre che preannunciavano il tramonto.
Nel silenzio della casa, nella quiete immobile del giardino deserto, il ragazzo alzò gli occhi e cominciò a pregare. Pregò Dio per un filo di luce, non sapeva bene cosa aspettarsi, non era sicuro di ciò che desiderava in quel momento, voleva solo che giungesse qualcosa a portar via un po' di ombra.

*******

~ Napoli, 06 maggio 1872 ~

Quella era la sua serata.
Erik chiuse gli occhi e restò fermo davanti a quella tenda per un tempo lunghissimo, quasi gustando il silenzio che si riempiva lentamente del brusio delle persone che cominciavano ad arrivare. I passi felpati sulla moquette, i borbottii eccitati, le parole a mezza voce...
Quella era la sua serata, un'altra battaglia vinta in partenza tra i confini del suo dominio. Che il cuore pulsante appartenesse all'uomo o al fantasma non aveva importanza, ciò che contava era quella sensazione inebriante di trionfo.
Erik scostò piano una tenda che dava sulla platea e guardò il teatro riempirsi di gente. Di gente comune, come aveva voluto. Persone che non avrebbero mai potuto mettere piede nel San Carlo se non si fosse deciso di aprire il teatro a tutti per una sera.
Erano per lo più mercanti e lavoratori del porto quelli che stavano entrando nella platea, camminando piano tra le poltrone di velluto, con i nasi per aria e gli sguardi un po' smarriti, quasi si sentissero schiacciati dalle occhiate degli dei nell'affresco. Una miriade di visi cotti dal sole sotto lo sfavillio dei candelabri, labbra serrate in un silenzio rispettoso come quello di chi entra in una chiesa.
Erik notò un ragazzetto magro, con indosso quello che doveva essere il suo vestito buono della domenica, accarezzare rapito le nappe di seta lucida di una tenda.
Sorrise. Quella era la sua serata, ma non soltanto la sua...
«Siete sicuro di quello che state facendo, vero, Maestro?» domandò Guglielmo Marchesi, comparendo alle sue spalle e guardando con aria preoccupata i ragazzi e l'uomo con un immacolato costume da Pulcinella intenti ad accordare gli strumenti.
«Oramai non è più rilevante: è già fatto» replicò Erik voltandosi verso di lui.
Marchesi controllò il suo orologio da taschino e lanciò qualche occhiata nervosa verso il corridoio.
«Non verrà» lo informò Erik.
«Come dite?»
«La signorina Rovesti, non verrà».
Come da copione, Marchesi diventò più rosso delle tende del sipario. Ripose l'orologio nella tasca interna del doppiopetto e si lisciò i sottili baffi scuri.
«Voi dite?» chiese, ostentando un disinteresse del tutto falso.
«Abbiamo avuto una piccola divergenza, ragion per cui dubito che allieterà una serata fortemente voluta dal sottoscritto con la luce della sua presenza. Ora, se volete scusarmi, devo andare ad assicurarmi che sia tutto in ordine».
Quella era decisamente la sua serata. Ma era anche la serata della piccola Luisa, anche se lei non lo sapeva ancora.

*

Il duca Giusso osservò lo strano spettacolo davanti a sé, la platea del san Carlo piena di gente comune – i nobili e i ricchi si erano sistemati nei palchi, lontano dal popolo, tanto per non perdere occasione di sentirsi al di sopra. Era un bello spettacolo, un buffo, insolito, straordinario bello spettacolo.
Anche lui era in un palco, quello centrale del primo ordine, era lì che lo aveva sistemato Erik, ma gli sarebbe piaciuto mescolarsi alla gente comune e godere del loro stupore. E chissà quanto ne stava godendo il suo amico francese, lui che tanto amava sorprendere!
Luisa si sistemò sulla poltrona accanto al parapetto, il suo abito di seta frusciava come un tappeto di foglie in autunno e... oh, buon Dio! Cos'era quello che aveva sulle guance? Belletto?
Mariano Giusso fece un profondo respiro osservando con la coda dell'occhio sua figlia posare elegantemente in grembo le mani guantate che reggevano il ventaglio di pizzo. Come una vera signora.
Stava diventando una donna, molto in fretta, più in fretta di quanto avrebbe dovuto, purtroppo.
Il duca si sedette su una sedia alle sue spalle, lasciando gli altri due posti liberi alle altre persone che avrebbero dovuto occuparli. Luisa gli batté una mano sul braccio.
«E-r-i-k?» scandì con le labbra.
L'uomo scrollò le spalle,
«Non credo si unirà a noi durante lo spettacolo, tesoro. Immagino se ne starà rintanato da qualche parte a sogghignare di soddisfazione fino a domattina».
Luisa sorrise divertita e scosse il capo.
Un attimo dopo la porta del palco si aprì e fece il suo ingresso una donna. Indossava un elegante abito da sera, blu con i merletti neri, ma non portava gioielli.
Il duca non la riconobbe subito, ma si alzò al suo ingresso, come ordinava l'etichetta, per salutarla.
«Buona sera, signor duca» la donna rispose al suo saluto con un sorriso che sembrava persino un po' imbarazzato.
A quel punto l'uomo la riconobbe, doveva trattarsi certo di Lucia Aiello. E se Lucia Aiello era lì in quel palco quella sera, allora, dedusse Giusso, le voci che correvano su di lei e il Maestro francese dovevano essere vere e avevano viaggiato anche più in fretta di quanto accadesse di solito.
Il duca sorrise cordiale e l'aiutò galantemente ad accomodarsi, senza far trapelare la sua perplessità. Doveva riconoscerle una certa attrattiva, era una giovane donna graziosa, eppure si chiese come mai Erik, con la sua immensa ritrosia e con la sua totale sfiducia nel mondo, avesse scelto lei. Poi si ricordò dell'incendio in cui la ragazza era rimasta coinvolta, delle ustioni e quasi si sentì uno sciocco per non esserci arrivato subito.
«Spero non vi dispiaccia se, ehm...» farfugliò la ragazza.
Il duca allargò il suo sorriso gioviale,
«Signora, ho già avuto il piacere di condividere un palco con voi una volta, rammentate? Regalaste il vostro fermaglio a mia figlia in quell'occasione».
Lucia Aiello annuì e sorrise, ma nei suoi occhi c'era qualcosa che sembrava gridare a gran voce che quelle erano altre circostanze, che quelli erano altri tempi.
«Piuttosto, avete una vaga idea di che genere di spettacolo si tratti?» domandò Giusso dopo qualche secondo. Anche Luisa si voltò incuriosita per sentire la risposta.
«Oh, ne ho un'idea piuttosto precisa, ma sono sicura che il Maestro preferirebbe se continuasse a restare una sorpresa ancora per qualche minuto» rispose la giovane donna con aria divertita. «Comunque, sono assolutamente certa che vi piacerà».
«Ah, lo sapete. Dunque con voi si confida...». Giusso la fece apparire come un'esclamazione casuale, sfuggita per caso e del tutto ironica e innocente, ma la verità era che voleva saperne di più.
Tutto ciò che sapeva di Erik e le donne lo aveva saputo da Madame Giry la sera dell'incendio all'Opera Populaire, era stato un racconto molto confusionario e angosciante, e tuttavia era una storia terribile. Per questo sentiva che ora, con quella ragazza, non poteva concedersi il lusso della delicatezza e della diplomazia. Forse Lucia Aiello era solo una prostituta con la quale Erik aveva sentito una sorta di strano legame per via di certi problemi fisici, ma se fosse stato qualcosa di diverso, lui avrebbe voluto saperlo, avrebbe voluto essere pronto.
Ad ogni modo, se la ragazza aveva trovato indiscreto il suo commento non lo diede a vedere. Lucia Aiello poteva anche essere solo una prostituta, ma conosceva le buone maniere.
«Credo, signore, che Erik non si confidi davvero con nessuno. Tuttavia, parliamo spesso, sì. E abbiamo parlato anche di questa serata» disse.
Parlavano? Il duca Giusso non aveva mai sperimentato la compagnia di una cortigiana, aveva amato sua moglie ed era rimasto fedele alla sua memoria come era stato fedele alla sua persona quando era in vita, tuttavia non credeva che Erik e Lucia Aiello parlassero spesso. Cominciava persino a sentirsi confuso adesso.
«Immagino siate un'ottima compagnia» replicò, per poi rendersi conto solo un attimo dopo di quanto sciocca e ambigua suonasse la sua frase. Probabilmente arrossì e sperò che nella penombra del placo la cosa non venisse notata.
Lucia non disse niente perché in quel momento, grazie al cielo, la porta si aprì di nuovo ed entrò un trafelato Guglielmo Marchesi, con la faccia di un uomo che sente sulle proprie spalle il peso dell'universo.
Il direttore del San Carlo si appoggiò con i palmi delle mani allo schienale della sedia e sembrò trovare a fatica la forza necessaria a salutare i presenti.
«Buona sera» biascicò con la voce flebile, appena udibile.
«Guglielmo, mio caro, sedete prima che vi venga un attacco» fece il duca additandogli l'ultima poltrona libera.
«Signor duca, in nome del cielo, voi sapete niente di tutto ciò?» disse Marchesi mettendosi seduto.
«No, la signora qui ne è al corrente, ma in qualità di buona confidente del nostro amico francese, si rifiuta di dirci alcunché»
«Adesso mi mettete in difficoltà, duca» replicò Lucia con fare bonario. «Lo spettacolo non inizierà che tra pochi minuti e allora saprete tutti di che si tratta».
Guglielmo Marchesi strabuzzò gli occhi. Se ne stava premuto contro lo schienale della sedia, come se si aspettasse di ricevere una bastonata da un momento all'altro, teneva la testa talmente incassata tra le spalle che quando la muoveva sembrava un enorme esemplare di tartaruga.
«Signora, per la mia pace... potete dirmi qualcosa di più?» balbettò, guardando Lucia con fare implorante.
La ragazza sembrò stupita, come se non si aspettasse di essere davvero la sola a conoscere i progetti di Erik.
«Signor Marchesi, rilassatevi. Vi assicuro che stasera non vedrete nulla che possa dispiacervi o danneggiarvi».
Poi non poté aggiungere altro perché le luci in sala cominciarono a spegnersi. E non ci fu più tempo per parlare, c'era solo da ascoltare. Da ascoltare una famiglia di musicisti che suonavano la musica di Napoli, che cantavano quelle canzoni fatte di fango e sangue come i cuori della gente di quella città. Tra una canzone e l'altra il signor Bandiello, il primo tenore del teatro, recitava delle poesie, testi insoliti che nessuno tra i presenti aveva mai udito prima, insiemi di parole che grondavano speranza e forza.
Il duca aveva la bocca aperta in una O precisa di perfetto stupore. Lui le conosceva quelle poesie perché le aveva lette. Lentamente, come se temesse che un movimento troppo brusco potesse rompere qualcosa di quell'incanto, si voltò verso sua figlia.
Lo sguardo lucido di Luisa era inchiodato al palco, inchiodato a quelle parole che aveva scritto e che fino a quella sera non avevano mai avuto voce. Una lacrima di commozione – che era indiscutibilmente la lacrima di una donna, le solcava la guancia, arrivando fino all'angolo del suo sorriso stupito e soddisfatto.

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Here, I have a note...

D'accordo, tutta la faccenda di Christine fa un po' Conte di Montecristo ed è... da crudeltà mentale. Ma se anche io e la mia penna non fossimo riuscite a metterci d'accordo, avrei scritto comunque questa fanfiction solo per scrivere la scena in cui lei sente la musica di Erik suonata da Louis e sviene... e tutto quello che ne Il capitolo è un po' un fritto misto di POV e a me di solito non piacciono i capitoli così, ma questo è venuto fuori in questo modo perché evidentemente così s'aveva da fare. E non è venuto fuori nemmeno troppo facilmente.

Siamo quasi in dirittura d'arrivo con questa storia e avrei bisogno di rallentare un po', quindi aggiornerò con cadenza bisettimanale. Avviso, perché non sopporto di essere in ritardo ed è inutile promettervi il capitolo nuovo per il prossimo mercoledì quando so bene che non riuscirò ad averlo pronto.

I remain, gentlemen, your obidient servant.


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Capitolo 18
*** La notte dei miracoli ***


Capitolo diciassettesimo
La notte dei miracoli


~ Napoli, 06 maggio 1872 ~

Applausi.
I lumi che venivano riaccesi scacciarono via le ombre ed Erik si sentì quasi in dovere di voltarsi e sparire insieme a loro. Perché anche lui era un'ombra, una mano che muoveva i fili, il trucco dietro la magia che non va svelato.
Svanito il suono dello scrosciare degli applausi, non c'era più nulla per lui.
Il teatro vibrò di voci e risate per lunghi minuti mentre la gente usciva, camminando lentamente per riempirsi il più possibile gli occhi della meraviglia che aveva appena fatto in tempo ad assaporare.
Ora che l'incanto era finito, Erik non aveva voglia di restare ad ascoltare la normalità riprendere possesso di quel luogo. Lui non era fatto per la normalità.
Si diresse a grandi passi verso il suo ufficio, ma un attimo prima di raggiungere l'anticamera il passo gli fu sbarrato da una donna.
«Maestro!» esclamò lei, con gli occhi che scintillavano di ammirazione.
Erik la squadrò cercando di non apparire troppo infastidito. Qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto conoscerla, che certamente l'aveva già vista altre volte, ma non aveva idea di chi fosse. Qualcuno di nessuna importanza, evidentemente, se in tutto quel tempo non era riuscito a imprimersi nella memoria il suo viso e il suo nome – e soprattutto la sua posizione.
Si trattava di una ragazza di poco più di vent'anni, con una massa di capelli rossi e ricci e il viso pallido puntellato di lentiggini. Era bassa e minuta, molto magra, dalla vita incredibilmente sottile, tanto che la crinolina dell'abito la faceva sembrare un pallone aerostatico, di quelli che si vedevano nei disegni sui giornali.
L'uomo si costrinse alla sua maschera di cortesia e fece un mezzo inchino, troppo sbrigativo per essere davvero cortese.
«Non vi ricordate di me, lo so» disse la ragazza, senza però mostrarsi piccata. «Mi chiamo Cecilia, Cecilia Mauriello».
Il nome non lo aiutava per nulla a rammentare.
«Dovete perdonarmi, signora, ma non riesco a riportare alla mente chi voi siate» fu costretto ad ammettere. Detestava sembrare stupido ed essere colto impreparato, ma la ragazza gli aveva letteralmente sbarrato il passo e non sembrava voler lasciarlo andare.
Di solito le persone si trovavano a disagio con lui. Lei sembrava più che altro emozionata di potergli parlare e questo, in un altro momento, avrebbe persino potuto gettarlo nel panico. O sembrargli estremamente divertente.
«Non sono una signora, non ancora. Mi sposo il mese prossimo» precisò lei. Come se al suo interlocutore la cosa dovesse apparire di una qualche rilevanza – perché secondo le regole di quel gioco che Erik stava giocando fin da quando era entrato al San Carlo, davanti a certe notizie una persona dovrebbe mostrarsi interessata e compiaciuta.
«Congratulazioni».
Ora era Erik a sentirsi a disagio. La ragazza allargò il suo sorriso contento.
«Scusate, vi sto importunando» disse scuotendo la testa. «Solo che vi ho visto venire qui e... oh, desideravo da tanto presentarmi».
«E lo avete fatto». Ora, lasciatemi in pace.
«Sono la sostituta della primadonna» aggiunse la signorina Mauriello, finalmente decisa a dare qualche spiegazione che fosse di una qualche utilità.
Oh, ecco perché Erik aveva la sensazione di averla già vista, di sicuro l'aveva intravista girovagare per il teatro.
«Una sorte infame, essere la sostituta della Rovesti» continuò la ragazza scuotendo la testa. «Ad ogni modo, ho assistito alle prove. Lasciatemi dire, senza timore di sembrare ruffiana, che siete la cosa migliore che sia capitata a questo teatro da diversi anni a questa parte. E la serata di oggi! Oh, l'ho gradita molto».
Erik si ritrovò a sgranare gli occhi. Non era abituato per niente ai complimenti, non a quelli così diretti e sfacciati, eppure era davvero certo che la ragazza non stesse facendo la ruffiana, quello sembrava il suo modo naturale di fare. E lo infastidiva non poco.
«Vi ringrazio, signorina Mauriello» le rispose tuttavia, con un po' più di calore nella voce.
Lei sorrise ancora e fece una piccola riverenza,
«Vi auguro buona serata, Maestro»
«Altrettanto».
Erik restò a fissare la ragazza allontanarsi lungo il corridoio, in un fruscio di sete e nastri di raso, con lo sguardo alto e sicuro proprio di una giovane a cui la vita ha cominciato a sorridere. La seguì con lo sguardo fino a quando non sparì nella penombra.
Che strana giovane...
Stava già per aprire la porta del suo ufficio quando sentì il rumore di uno scalpiccio avvicinarsi rapido, qualcuno che stava correndo – si sarebbe potuto dire a perdifiato – sul marmo del lungo corridoio che dal foyer conduceva agli uffici.
Non fece in tempo a sollevare lo sguardo che una piccola ombra emerse dal buio e gli si avvinghiò ai fianchi.
La piccola Luisa era troppo bassa per arrivare a cingergli le spalle, ma la fanciulla adesso gli si era gettata addosso, stringendosi a lui e aveva affondato la testa nella stoffa del suo panciotto.
Erik sollevò un attimo lo sguardo, quasi frastornato da quell'assalto affettuoso. Vide Lucia, in piedi sotto l'arco che immetteva nell'anticamera, se ne stava con le braccia incrociate sul petto e il fianco appoggiato al muro, e lo guardava con un sorriso strano, come se fosse fiera di lui.
L'uomo fu costretto a sollevare Luisa tra le braccia, lei gli posò la testa sulla spalla e restò stretta a lui, incapace di staccarsi, non riuscendo a fare niente che esprimesse la sua più totale gratitudine.
Un pensiero quasi molesto folgorò la mente di Erik. Non aveva mai tenuto tra le braccia una bambina – anche se Luisa era un po' più che bambina. Il suo sguardo cercò quello di Lucia, che continuava a sorridergli. L'uomo quasi arrossì chiedendosi quanto dovesse apparire buffo in quel frangente... ridicolo, persino. Perché lui non era fatto per la normalità, e nemmeno per la tenerezza, perché lui era solo un fantasma e i fantasmi non hanno calore da regalare al mondo.
Ma per quanto continuasse a ripeterselo, per quanto sostenesse di esserne convinto, l'abbraccio di Luisa e il sorriso di Lucia erano là a smentirlo.
Ci vollero diversi minuti prima che la figlia del duca decidesse di averne abbastanza. Si staccò da lui e gli posò un sonoro bacio sulla guancia lasciata scoperta dalla maschera. Erik quasi trasalì e quando la rimise a terra ebbe un brivido, come di freddo, come se lontano dal contatto con un altro essere umano il gelo dei fantasmi celati nelle ombre tornasse a circondarlo.
«Tuo padre si starà chiedendo dove sei finita» disse Lucia, tendendo una mano verso la ragazzina.
Luisa lanciò un'ultima occhiata a Erik, poi si voltò e si allontanò di malavoglia per tornare verso il foyer.
Lucia aveva una bella stola di raso che si intonava al suo abito. La dispiegò e se la gettò sulle spalle.
Stava per voltarsi verso di lui e salutarlo, ma Erik non le lasciò il tempo.
«Restate» disse. Era una richiesta, non un ordine. Non aveva alcun potere su quella giovane donna e questo lo rendeva ancora più confuso. Ancora non era riuscito a chiarire con se stesso se quell'assenza di potere fosse un bene o un male.
Non avrebbe mai ammesso che non aveva voglia di restare da solo, lui che con la solitudine ci era cresciuto, tanto da essere riuscito a farne una corazza; il vuoto e il buio erano la sua inespugnabile fortezza, ma da quando era arrivato in quella strana città le mura delle barricate avevano cominciato a coprirsi di crepe, come se l'aria del mare le avesse consumate, come se il vento che portava voci, colori e sapori le avesse levigate, rese più fragili. Ed Erik odiava sentirsi fragile e indifeso.
Ma quella sera era diverso, quella sera niente aveva importanza. Mentre ogni bocca della città mormorava ammirata il suo nome e lui avrebbe continuato a sentirsi poco meno di un ombra senza qualcuno che gli restasse accanto; e non c'era nessun altro ad eccezione di quella giovane donna dallo sguardo che conosceva troppe cose.
Lucia lo guardò per qualche secondo, corrugando le sopracciglia, ma non disse niente, si limitò ad annuire e lui le tese la mano, facendole strada fino alle sue stanze.
Mentre il palmo della ragazza si richiudeva attorno al suo, Erik si chiese per l'ennesima volta se non fosse del tutto assurdo. Se quella città non lo avesse, in fin dei conto, fatto impazzire.
Sei sempre stato folle, Figlio del Diavolo...
Sì, lo era sempre stato. Folle come il fuoco a cui aveva dato in pasto il suo teatro. Come il suo cuore che batteva contro il petto così violentemente da annebbiare la mente.
Della follia aveva conosciuto solo la parte peggiore, quella che induce a fare del male, quella che porta alla disperazione.
Perché? Esistono forse altri tipi di follia?
Erik non conosceva la risposta a questa domanda, sapeva solo che era ingiusto il fatto che in quel momento stesse guardando la ragazza come si guarda un nemico.
Potresti farle del male, Fantasma dell'Opera...
La voce nella sua testa soffiò le parole come il vento freddo delle mattine d'inverno. Come la nebbia che strisciava silenziosa e invadente quella mattina gelida, in quel cimitero, quando lui si scagliò con tutta la sua rabbia e il suo furore contro quel giovane che voleva portarle via la sua dolce musa. Si avventò contro di lui cieco di rabbia, con la spada in pugno, e fu l'inizio della sua sconfitta.
Ma ora tutto era diverso. Non era più Parigi, non era più l'Opera Populaire, non c'erano più né angeli né muse. C'era solo...
… una prostituta. E potresti davvero farle del male. Oppure lei potrebbe farne a te.
Erik strinse un po' più forte la mano della ragazza nella sua.
Non era una follia e non c'era niente che potesse fare male. I sentimenti possono uccidere, ma lì non c'era nulla di più di uno strano scherzo del destino che aveva voluto incrociare due storie così lontane, due mondi distanti che si sfioravano appena senza mai entrare in collisione.
Sul serio? Allora mandala via.
Da quando in qua la voce dei suoi pensieri era diventata così petulante e infida? Da quando in qua la sua mente lo sfidava e lo metteva alla prova? Non aveva nulla da dimostrare.
Nemmeno a te stesso, Fantasma?
Nemmeno a se stesso.
Sei un folle...
No, non lo era!
… e soffrirai ancora.
No, mai più, per nessuno. Non aveva un cuore, come e perché avrebbe dovuto soffrire?
«Erik, vi sentite bene?» domandò Lucia all'improvviso.
«Benissimo» replicò lui in tono formale.
«Vivete davvero qui» osservò la ragazza, guardandosi attorno dopo che lui ebbe acceso un lume. «Per essere un genio, vi accontentate di poco».
«Chi ha mai detto che io sia un genio?».
La ragazza si voltò verso di lui, aggrottando le sopracciglia con aria saputa.
«Ogni vostra azione, da quando siete arrivato qui, direi» rispose con un sorriso furbo, avvicinandosi in quel modo che faceva sempre sentire Erik come un tiro di dadi giocato male.
Oh, no, non era la sua solita maniera da seduttrice, era qualcosa di strano e di diverso, molto meno minaccioso e più impaurito. Sembrava che per una volta fosse lei a sentirsi fuori posto. Che  stesse cominciando a provare della tenerezza per lui?
L'uomo rispose con poca convinzione quando la giovane donna posò le sue labbra sulle sue. Lucia ebbe uno strano sussulto e allontanò il viso da quello di lui; c'era uno strano accenno di pena nei suoi occhi scuri e a Erik fece male vedere quell'ombra attraversarle lo sguardo, perché si era sentito rifiutato tutta la vita e, per quanto fosse stato folle e crudele, quella non era uno sofferenza che avrebbe voluto mai imporre a un altro essere umano, di certo non era una sofferenza che Lucia meritava.
Le cinse la vita con le braccia, attirandola a sé, passandole una mano tra i capelli prima che le dita corressero ad armeggiare con i lacci che chiudevano il vestito.
Questo non sei tu, Figlio del Diavolo.
No, non era lui. E adesso, forse, cominciava a credere che tutto quello che era stato prima di quella sera fosse la parte sbagliata di sé.

*

La giovane si strinse un po' più forte nel suo scialle e continuò a camminare, malgrado il suo passo fosse ormai malfermo per il troppo bere.
Quella era stata una serata strana, la notte dei miracoli. Era entrata nel teatro, avevo visto un bello spettacolo, aveva pensino cantato insieme ai musicisti di strada, tutto il teatro aveva cantato in realtà.
Speranza si chiese se succedeva anche quando i grandi signori andavano a vedere l'opera, se anche loro cantavano tutti insieme le arie della lirica. Probabilmente no.
La ragazza si rese conto di star formulando pensieri assolutamente sciocchi e privi di senso. Era colpa del vino, sicuramente, ma non le importava.
Quella era la notte dei miracoli e per una volta aveva deciso di pensare a divertirsi.
Si passò la mano sul piccolo ciondolo d'argento che pendeva dalla sua catenina, i simboli delle tre virtù cardinali. Sua sorella Fede, la sua gemella, ne aveva uno uguale.
Sua sorella Fede non l'aveva mai lasciata entrare nel teatro, non nella platea almeno. Le poche volte che si era degnata di andare a parlare con lei lo aveva fatto uscendo da una porticina di servizio, lo aveva detto apertamente che non voleva che qualcuno la vedesse, anche se tutta la città sapeva.
Ad un certo punto, Speranza si era stancata, aveva cominciato a trovare umiliante quella situazione, per questo aveva chiesto a Lucia di andare lei da sua sorella; Lucia in teatro ci era stata, tante volte, nei posti da signori, prima che succedesse l'incidente, e al san Carlo la conoscevano tutti e poi Lucia era tanto brava a impapocchiare la gente di chiacchiere e sapeva come convincere Fede a prendere i soldi che lei cercava sempre di farle avere, quei soldi che sua sorella faceva sempre tanta fatica ad accettare, perché era sporchi, come diceva lei.
Speranza era convinta che non esistessero soldi sporchi o puliti, esisteva solo la differenza tra il morire di fame e il sopravvivere. E che a Fede piacesse o meno, con la loro madre malata, un po' più di denaro in tasca faceva comodo e lei guadagnava molto di più e molto più in fretta di quello che portava a casa Fede facendo l'inserviente al San Carlo. Era stata una questione di scelte, Fede non ce l'aveva fatta, Speranza sì.
Speranza sbuffò contro la luna, un fanale puntato sulla città appositamente per ricamare d'argento il mare increspato dal vento.
Quella era proprio la notte dei miracoli. Madame Fantine aveva dato a tutte loro la serata libera, in tante erano curiose di andare a teatro, soprattutto quelle che non c'erano mai state. E lei non ci era mai stata, non era bella come alcune sue compagne, né aveva quella strana abilità a capire le persone che invece aveva Lucia. Speranza voleva solo andare a teatro, vedere com'era il San Carlo dall'interno e divertirsi, non aveva mai voluto guai o problemi, per questo non pensò che quegli uomini fossero lì per lei.
Erano in tre, appoggiati al muro dove la strada faceva angolo e spuntava nella piazza dove affacciava il bordello. Sembravano normali clienti usciti da poco dalla taverna che doveva appena aver chiuso, ma quando la videro avvicinarsi, abbassarono i berretti sulle facce. Facce da sparvieri, facce rapaci.
Sì, era molto tardi e lei era rimasta in quella cantina a bere vino per troppo tempo. Troppo tardi e troppo vino, forse Madame Fantine le avrebbe fatto una ramanzina...
«Scusate, signorina» disse un uomo, bloccandole la strada.
Per un attimo Speranza ebbe paura, il vicolo era buio e deserto. Il posto che chiamava casa era appena dietro l'angolo ma ora le sembrava lontanissimo. Poi si ricordò che non era mai successo niente a nessuna di loro, si ricordò che il posto in cui lavorava era un luogo che godeva di uno strano rispetto in città e nessuno, nemmeno il più ubriaco degli ubriaconi vomitato dalla taverna aveva mai alzato un dito su una delle ragazze dell'Araba Fenice; quello era un posto da signori e le cose dei signori non si toccano.
La ragazza alzò lo sguardo un po' stralunato sull'uomo che le si era parato davanti.
«Sì, dite...» mormorò, sentendo la lingua annodata per i fumi dell'alcol.
E poi fu un attimo. Gli altri due uomini si strinsero di lato, afferrandole le braccia e spingendola contro il muro.
Forse doveva succedere prima o poi...
Si disse che forse doveva succedere, che prima o poi sarebbe spuntato qualcuno dal nulla che non avrebbe avuto alcun riguardo per il nome del posto da cui proveniva e che le avrebbe fatto del male.
Speranza era quasi pronta a non farsi prendere dal panico e dalla paura. Si disse che non poteva essere diverso da tutti gli altri uomini che aveva soddisfatto senza provarne il desiderio, si disse che sarebbe passata in fretta.
Ma quegli uomini non volevano abusare di lei. Se ne accorse quando vide per un attimo il baluginio della lama di un serramanico comparire davanti ai suoi occhi.
«Io... perché?... cosa volete?» squittì, incapace di reagire e di sottrarsi alla stretta dei due che la tenevano ferma per le braccia, inchiodata al muro come una vittima sacrificale su un altare.
«Lasciarti un omaggio» borbottò l'uomo con il coltello, afferrandole il mento con la mano libera dall'arma.
Cosa? Perché?
«Eh, vedi, certe cose non si devono fare» aggiunse il suo aguzzino, enfatizzando un'aria di monito.
Nella testa della ragazza comparvero immagini sfocate della bambina che era stata un tempo, si rivide seduta sulla panca di una chiesa. Nella sua mente facevano eco le parole di una preghiera che non avevano alcun senso per lei ma che aveva imparato a memoria perché il prete glielo aveva chiesto come penitenza la prima volta che si era andata a confessare.
Io non ho fatto niente.
Si chiese se recitare una preghiera a vuoto potesse salvarla. Se Dio avrebbe ascoltato ugualmente.
Non ho fatto niente...niente...
L'uomo la schiaffeggiò con violenza, impastò la bocca e le sputò in viso.
«Non si fanno arrabbiare...» le disse alzando la mano che reggeva il coltello. Poi l'abbassò.
La lama tracciò un solco bruciante dal sopracciglio destro alla mascella sinistra.
«... le brave persone, Lucia» concluse lui mentre la ragazza cominciava a sentire il sangue colarle sul volto.
Lucia? Io non sono Lucia...
Avrebbe voluto dirlo, gridarlo, ma non aveva più forze. Si lasciò cadere sul ciottolato e perse i sensi.  

*

Lucia si svegliò di colpo, aprì gli occhi e scattò a sedere in mezzo al materasso.
Dagli scuri chiusi filtrava la luce del mattino, mattino inoltrato a giudicare dalla luminosità di quella lama di sole che disegnava una riga precisa sul pavimento sotto la finestra.
La ragazza si stropicciò il viso e si voltò per sincerarsi di non aver svegliato Erik. Non avrebbe dovuto fermarsi a dormire lì, non avrebbe dovuto nemmeno accettare di restare, cosa le era preso?
Ora avrebbe voluto solo svegliarsi e andarsene senza che lui se ne accorgesse, perché nel momento stesso in cui Lucia aveva aperto gli occhi e aveva realizzato di essere in quegli strani alloggi dentro al teatro si era resa conto che, dopo tutte le sue peripezie e dopo tutti i suoi dispiaceri, c'era una cosa che proprio non era in grado di sopportare: Erik che la pagava. Di queste cose se n'era sempre occupata Madame Fantine e, a prescindere da tutto ciò, lei non era rimasta lì per lavoro. Era rimasta perché sapeva che il Maestro francese non aveva voglia di restare da solo e lei non aveva trovato una sola ragione valida per negargli il desiderio di avere compagnia.
Ora però, di ragioni valide ne trovava a migliaia.
Ed Erik era già sveglio, si era già alzato e adesso se ne stava seduto su una poltrona ai piedi del letto, leggendo un giornale.
«Me lo ha fatto avere il signor Marchesi di buon mattino» le disse subito, appena si voltò verso di lei, attirato dal fruscio delle lenzuola. «Pare che la serata di ieri abbia fatto notizia».
Certo che ha fatto notizia!
«Ne sarete immensamente soddisfatto, immagino. Dopotutto l'avete organizzata voi».
Erik annuì distrattamente. Sembrava godere del suo successo solo nell'attimo in cui avveniva, dopo tutto sfumava in un lampo per lui. Lucia scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.
Naturalmente, è un genio e i geni sono sempre affamati di nuove mete da raggiungere...
«E sarete contento di aver regalato una tale emozione alla piccola Luisa» aggiunse la ragazza, notando che gli occhi di Erik si illuminavano al sentir pronunciare quel nome.
Lui accennò un sorriso, uno dei suoi, talmente rapido e furtivo da sembrare solo un'illusione su quel viso dal cipiglio grave.
«Mi permettete una domanda, signora?» disse poi l'uomo, piegando il giornale che stava leggendo e appoggiandoselo in grembo. Non era esattamente una richiesta, Lucia se ne accorse dal modo in cui Erik la stava guardando negli occhi, con quel fare così... così inesorabile.
«Dipende dalla domanda»
«Cosa c'è tra voi e la signorina Rovesti?».
Lucia avrebbe davvero voluto evitare di rispondere, ma sapeva che in qualche modo Erik non glielo avrebbe permesso e sapeva anche che doveva esserci un motivo per il quale gli stava facendo quella domanda.
«Lei non ve lo ha detto?» chiese, mordendosi il labbro.
«Se ve lo sto chiedendo è perché sono interessato a quello che voi avete da dire» rispose lui, con pacata freddezza, come a lasciarle intendere che non voleva che si mettesse alla prova la sua pazienza.
«Lei si è sempre sentita minacciata da me» spiegò la ragazza. «Ambiva alla corte di certi signori che mi avevano dedicato le loro attenzioni, signori benestanti che avrebbero sovvenzionato i suoi spettacoli se lei fosse riuscita a entrare nelle loro grazie. Poi...».
Lucia si interruppe, chiedendosi se fosse il caso di continuare il suo racconto. Aveva già dato al suo interlocutore una risposta abbastanza esaustiva e non c'era bisogno di aggiungere altro, anche se dentro di lei sentiva che Erik meritava di conoscere tutta la storia, perché si stava fidando di lei, perché le aveva chiesto delle spiegazioni dimostrando di credere alla sua parola e non dare per scontato ciò che gli doveva aver detto quella maledetta sirena incantatrice.
«Continuate» la esortò Erik. «Nessuno meglio di voi sa quanto poco io conosca le donne, ma conosco l'astio e il risentimento più di chiunque altro, e quello che c'è tra voi e la signorina Rovesti non mi sembra una semplice rivalità tra donne molto popolari tra i ricchi signori».
«Ci innamorammo della medesima persona. Siete soddisfatto?». Lucia buttò fuori quelle parole quasi con rabbia e non capì se lo sguardo vagamente stupito di Erik fosse dovuto alla sua reazione o al senso delle parole che aveva detto.
Il suo cuore cominciò a sanguinare. Provò sincera rabbia per l'uomo che aveva di fronte e che la teneva inchiodata lì con quello sguardo di piombo fuso e mare in tempesta, non la sciandole scampo, pretendendo spiegazioni.
«Si chiamava Andrè. Era francese, come voi. Ed era mio...» sibilò Lucia, sentendo l'eco di ombre lontane che si dibattevano nella sua testa, voci che si mischiavano in una tremenda sinfonia che aveva il suono dello scoppiettare del fuoco. «Poi ci fu l'incendio. Io rimasi confinata a letto per non so quanto tempo a riprendermi dalle ustioni e lei me lo portò via».
E perché diamine lui la stava fissando in quel modo assurdo? Con quel sopracciglio inarcato e la bocca schiusa per lo stupore? Cosa altro voleva da lei?
Erik si voltò, distolse lo sguardo e fece piccoli respiri regolari, come se per un attimo gli fosse mancata l'aria e adesso aveva bisogno di tornare a respirare normalmente.
«E dov'è quest'uomo, ora?» chiese con la voce arrochita da una strana, penosa emozione.
«Evidentemente non amava né me né lei, perché dopo avermi abbandonata e dopo essere caduto tra le sue braccia, lasciò Napoli. Credo sia tornato in Francia, non ho più avuto sue notizie». La ragazza cercò di pronunciare quelle parole con il tono più calmo e freddo possibile, poi chinò il capo e restò lunghi secondi in silenzio.
Quando alzò di nuovo lo sguardo su Erik, che era rimasto anche lui immobile, con le dita serrate attorno ai braccioli della poltrona, Lucia comprese.
«È quello che è capitato anche a voi, giusto? Con la donna che amavate...» mormorò. Quella consapevolezza affiorata come dal nulla ebbe solo l'effetto di acuire il dolore che ora sentiva al petto.
«No, non esattamente. Lei scelse un altro perché amava lui e non me» concluse Erik con una voce che adesso sembrava lontanissima, come se ogni parte di lui stesse affondando in un mare di ricordi. E doveva essere proprio un mare in tempesta. «Amate ancora il vostro Andrè?».
«No. Dopo tutto questo tempo temo sia solo rimpianto e delusione. E voi, amate ancora quella donna?»
«Questa, signora, è una risposta che non so darvi».

*******

 ~ Parigi, 16 maggio 1892 ~

Christine accarezzò distrattamente l'orlo morbido del lenzuolo rimboccato sul suo letto, quel letto dove il medico l'aveva confinata per prudenza. La donna sapeva bene che la prudenza non apparteneva al dottore ma a suo marito, ma andava bene comunque. In tutti quegli anni Raoul non le aveva mai fatto mancare attenzioni e premure e se tre giorni a letto erano il prezzo da pagare, Christine ne era ben contenta.
Christine aveva pagato il prezzo di quell'amore molte volte e non aveva rimpianti. Tranne uno...
Per anni aveva tenuto i ricordi imprigionati in un angolo molto remoto della sua mente, quando distrattamente il pensiero andava a toccare i confini di quella gabbia della memoria, le immagini riaffioravano come spezzoni di una fiaba ascoltata tanto tempo prima, erano disegni sfocati, tele sfilacciate. E poi, naturalmente, c'erano gli incubi, ma con quelli aveva imparato a fare i conti, perché ad ogni brutto sogno seguiva un risveglio e al suo risveglio c'erano suo marito e suo figlio accanto a lei.
E poi era arrivato Louis, con il suo violino e la sua musica.
Christine non aveva idea di cosa fare, di come comportarsi con lui. Il ragazzo sembrava non avere la benché minima idea di chi fosse lei – di chi fosse, in relazione al passato di suo padre. Durante la sua convalescenza, la donna aveva persino pensato che quel giovane fosse giunto a Parigi mandato a cercare vendetta o qualcosa del genere, che ci fosse un piano prestabilito dietro quell'assurda coincidenza; ma era chiaro che Louis non sapesse nulla, era rimasto troppo turbato dal suo malore, parlava con discrezione della sua famiglia, era troppo troppo innocente.
E tuttavia Christine non sapeva cosa fare quando lo avrebbe rivisto, non sapeva se sarebbe stata in grado di celare il suo turbamento. Se quel ragazzo non aveva mai conosciuto il nome dei De Chagny è perché evidentemente lui... suo padre aveva voluto proteggerlo dalla verità di una storia troppo tremenda e troppo dolorosa e chi era lei per infliggere a quel giovane privo di colpe una condanna così grande? La verità su quella storia aveva fatto già fin troppe vittime in passato.
Eppure lei avrebbe desiderato tanto parlargli, insistere per sapere di più della sua famiglia, sapere chi era stato suo padre in tutti quegli anni, se era stato felice. Se il suo Angelo della Musica aveva trovato un grammo di paradiso di cui appropriarsi senza sofferenza.
In realtà, Louis era già una risposta abbastanza eloquente a tutte quelle domande. Era un bel ragazzo, di buon cuore, educato, allegro, senza tracce di sofferenza nei suoi occhi...
Christine non fu subito consapevole delle lacrime che le stavano rigando il viso, se ne accorse solo quando sentì dei movimenti concitati provenire dal corridoio.
«Lasciate che vi annunci, mademoiselle» stava dicendo il maggiordomo.
«Sciocchezze! So bussare da sola alla porta, grazie» aveva replicato una voce stizzita. «Christine, posso entrare?!».
Meg...
Christine si affrettò ad asciugarsi il viso rigato di pianto e si fece aria con le mani, sperando di soffiare via dagli occhi un po' di rossore.
Mag Giry bussò alla porta e chiamò il suo nome.
«Entra pure» la invitò la viscontessa, appoggiando le mani in grembo e tentando di assumere un'aria serena.
Meg aveva conservato tutta la grazia propria della giovane ballerina che era stata un tempo e non aveva mai perso quella sua aria giocosa e un po' impertinente, né quel suo fare risoluto. Tra lei e Meg, era la ballerina bionda a sapere sempre cosa dire, come fare, quali parole usare per rincuorarla quando lei era triste. Tra lei è Meg, Meg era quella che sapeva molte più cose o che, quanto meno, aveva il coraggio di non fingere, di non ignorare la verità quando questa arrivava a chiedere il proprio tributo... come la notte dell'incendio... come quando...
«Oh, Christine!» esclamò la donna bionda, attraversando la stanza con il suo passo aggraziato da felino, «sei stata male e io devo venirlo a sapere per caso da una signora in teatro!».
Certamente, Parigi non aveva mai smesso di parlare, e di certo non avrebbe mai smesso di parlare di lei.
«Mi dispiace Meg, ma non era niente di grave e non volevo distrarti dai tuoi impegni, ma grazie di essere venuta» disse Christine, stringendo le mani dell'amica nelle sue. Solo al contatto con le dita calde di Meg si accorse di quanto le sue mani invece fossero gelide.

Your hands are cold...
Your face, Christine, it's withe...
Don't be frightens.

Un pensiero sconnesso e disperato attraversò la mente di madame De Chagny. Meg era lì quando tutto aveva avuto inizio, ed era lì quando tutto era finito. Forse Meg avrebbe saputo ancora una volta cosa dire, darle qualche suggerimento su cosa fare con il giovane italiano, con il figlio di... il figlio del Fantasma dell'Opera.

Trak down this murderer,
he must be found!

«Christine, cos'hai? Sembri distante, a che pensi?» chiese Meg, con dolcezza, come quando si raggomitolavano sotto le coperte dello stesso letto nel dormitorio del collegio e lei non aveva il coraggio di parlarle del suo Angelo della Musica. Avrebbe dovuto parlargliene adesso? Avrebbe dovuto dirgli di Louis, di quello che aveva scoperto?

To long he's preyed on us
but now we know:
the Phantom of the Opera is there,
deep down below...

No, Meg non avrebbe capito. Meg era insieme agli latri quella notte, a guidare la folla inferocita che si era riversata nei sotterranei.
Ancora una volta Christine era sola e in balia dei fantasmi.

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Here, I have a note...


"Impapocchiare di chiacchiere" sta per "rabbonire e persuadere con le parole", più o meno (ci sono singole parole, nel dialetto napoletano, che esprimono con molta precisione concetti che tradotti in italiano meriterebbero frasi più lunghe).

Oook! Vorrei avere una scusa per questo abnorme ritardo, ma non ce l'ho, non una particolarmente eloquente e giustificante almeno. Però farò il possibile per aggiornare entro una settimana, facciamo che ci rileggiamo mercoledì prossimo, costi quel che costi!

I remain, gentlemen, your obidient servant.

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Capitolo 19
*** Verità ***


Capitolo diciottesimo
Verità


~ Napoli, 07 maggio 1872 ~

Erik era stato pazientemente alla finestra, ad attendere che facesse sera.
In quel periodo dell'anno le giornate cominciavano a diventare più lunghe e Napoli era una città che si teneva avidamente aggrappata alla luce del sole. Questa forse era una delle poche cose in cui lui e quel luogo non si assomigliavano per niente, Napoli sapeva tenersi stretta la luce, quando poteva, lui invece non era mai stato capace.
L'uomo guardò il suo diario posato sul piano della scrivania, lo aveva preso per scrivere di quell'ultima giornata di prove, della crescente agitazione che sentiva serpeggiare nel teatro man mano che la sera della prima si faceva più imminente. Ma alla fine non aveva scritto nemmeno una riga, aveva la strana sensazione che quel giorno non fosse affatto finito, sentiva nell'aria il peso di qualcosa di imminente. Si era dato dello sciocco, ma difficilmente le sue sensazioni lo traevano in inganno.
Alla fine aveva deciso di rimandare la stesura dell'aggiornamento del diario all'indomani, quando quelle strane impressioni sarebbero svanite. O sarebbero state verificate.
Si avvicinò alla scrivania e prese il quaderno tra le mani, facendo frusciare le pagine contro il pollice. Quando la piccola Luisa glielo aveva regalato, gli era sembrata una cosa così priva di senso. Se anche avesse immaginato di vivere nell'arco di pochi mesi tutte le cose che aveva effettivamente vissuto, non gli sarebbe mai venuto in mente di metterle per iscritto, pensava fosse un passatempo per giovinette o un vezzo da persone importanti che provano fin troppo diletto a crogiolarsi nel peso delle proprie parole. Si era ritrovato a scrivere per l'istintivo bisogno di dar voce ai suoi pensieri, quando ancora credeva che nessuno avrebbe mai ascoltato, alla fine aveva continuato perché vedere quelle pagine riempirsi gli dava la sensazione che la sua vita non stesse andando alla cieca, quelle righe che si susseguivano gli lasciavano l'illusione di avere un'anima, un'anima che poteva essere espressa, trasformata in inchiostro, e quindi resa più concreta. Quel diario sarebbe stato in qualche modo la prova che dietro la maschera del Fantasma dell'Opera c'era stato un uomo, poco importava se nessuno lo avrebbe mai letto.
Erik accarezzò distrattamente la copertina di pelle del quaderno, prima di riporlo nel cassetto. Poi decise che la sera era abbastanza prossima da indurlo a uscire.
Percorse la strada con il passo distratto e cadenzato dell'abitudine. Si fermò solo qualche secondo per lasciar cadere un paio di monete nel cappello di un suonatore di violino che suonava malamente uno strumento scordato all'angolo di un vicolo.
Aveva strani pensieri, quella sera. Pensieri grandi e rumorosi che coprivano quasi del tutto le voci della città. Nella sua mente il passato e il presente si mescolavano, diventando uno strano quadro dai contorni distorti.
Erik sospirò contro il cielo di Napoli, sapendo che non sarebbe mai stato in grado di affrontare i ricordi né di far pace con quello strano presente. Ogni volta che tentava di concentrarsi su una singola riflessione che riguardava qualche elemento della sua vita, tante altre immagini facevano capolino nella sua mente, rendendogli impossibile qualsiasi elucubrazione. Arricciò il naso, pensando che un uomo che non è in grado di far chiarezza dentro se stesso vale davvero molto poco e mai come quella sera lui si sentiva prossimo al considerarsi una nullità. Non perché si credeva privo di valore – aveva il suo talento, aveva la musica – ma perché, semplicemente, non sapeva più chi era.
Arrivò davanti al portone dell'Araba Fenice. Un pensiero ancora più amaro si agitò in fondo alla sua mente: lui non sapeva più chi era e nessun altro lo aveva mai saputo. Si erano tutti creati delle idee personali su di lui, ma la verità restava celata ed Erik si chiese cosa ne sarebbe stato della sua nuova vita se anche solo una di quelle persone avesse scoperto quell'enorme pozzo buio, quella voragine di sangue e fuoco, il personale inferno che lui si portava dentro, che aveva costruito con le sue stesse mani.
Per la prima volta, dopo tanto tempo, Erik si ritrovò a formulare una riflessione che giudicò folle un attimo dopo: sarebbe stato meravigliosamente liberatorio lasciare che qualcuno sapesse la verità. Il mostro che ancora era convinto di essere aveva fame di disprezzo.
«Follie...» mormorò tra sé e sé l'uomo, varcando la soglia della palazzina.

Nella sala di ingresso dell'Araba Fenice tutto sembrava al proprio posto, come era sempre stato, eppure la sua mania per i dettagli fece scorgere a Erik qualcosa di strano. Forse era per il cipiglio di Madame Fantine, meno giulivo del solito, forse era per i volti un po' tesi di alcune ragazze, il cui sorriso rivolto ai clienti appariva ancora più forzato e artificioso, oppure era per i fiori nei vasi, non freschi come al solito, come se non ci fosse stato tempo di sostituirli, come se fosse accaduto qualcosa che aveva distratto tutti quanti.
L'uomo decise di ignorare quei particolari, se la sua curiosità si fosse fatta particolarmente pressante avrebbe sempre potuto chiedere a Lucia, ma non gli importava particolarmente dei retroscena della quotidianità di quel posto.
«Non stasera». La voce di Madame Fantine arrivò perentoria, come il suo sguardo che si posava sul viso dell'uomo.
La maîtresse non aveva molta simpatia per lui, di questo non si era mai preoccupata di farne un mistero, ma dopo la prima sera, dopo il loro primo battibecco, le loro interazioni erano diventate brevi e formali e lei non aveva più manifestato alcuna obiezione alla sua presenza o al suo interesse esclusivo per Lucia. Adesso cosa diamine era quella novità?
«Come dite, Madame?» borbottò Erik, senza preoccuparsi di nascondere la propria irritazione.
«Non potete vederla, non stasera» rispose la donna, aspra.
«Non mi pare abbiate mai avuto molta voce in capitolo, fino ad ora»
«Non ho tempo per le vostre chiacchiere. Non vi può ricevere, questo è».
L'uomo inclinò appena la testa, scrutando il volto accigliato della buffa signora. C'era una certa gravità nello sguardo che lei gli stava rivolgendo ed Erik si disse che se proprio quella sera la tenutaria del bordello aveva deciso di impuntarsi, dopo tre settimane in cui era stata arrendevolmente rassegnata alla sua presenza, doveva certo essere accaduto qualcosa di grave.
«Cos'è successo?» le chiese, pacato ma deciso, con un tono e uno sguardo che fecero quasi capitolare la sua coriacea interlocutrice.
«Niente che vi riguarda. Abbiate pazienza, tornate un'altra volta» concluse lei con un sospiro, scuotendo la testa sotto la parrucca incipriata.
Erik sentì una stilettata di preoccupazione,
«Lucia sta bene?» si lasciò sfuggire.
Madame Fantine schiuse le labbra in una strana espressione stupita,
«Che ve ne importa?» disse con una freddezza tale che l'uomo si sentì davvero raggelare. Non credeva che qualcuno potesse davvero turbarlo così, meno che mai quella donna.
Restò in silenzio per lunghi secondi. Non pensò neanche di provare a dare una risposta a quella domanda, ma il cipiglio di Madame Fantine lo aveva turbato e lui conosceva un solo modo per reagire al turbamento: fare qualcosa.
Senza aggiungere altro, Erik si voltò, ignorando bellamente la donna, e si diresse a grandi passi verso il corridoio che conduceva alle stanze, procedendo spedito verso la camera di Lucia. Quale che fosse il motivo per cui lei non poteva vederlo, voleva conoscerlo di persona. E se avesse scoperto che era malata o che le era successo qualcosa di cui Madame Fantine aveva ritenuto di doverlo tenere all'oscuro... ah, ci avrebbe pensato dopo. Se c'era qualche motivo particolare per cui Lucia non voleva vederlo, allora avrebbe dovuto dirglielo lei di persona. E anche questa era una prospettiva non troppo piacevole a cui pensare.
«Dove state andando? Non potete... tornate qui...» borbottò la donna, sforzandosi di non alzare troppo la voce per non farsi sentire dalle altre persone nella saletta.
La maîtresse gli si precipitò dietro, in uno sbuffo di merletti e diversi strati di gonne che rendevano goffa la sua corsa nel tentativo di fermarlo.
Erik raggiunse la porta della stanza di Lucia prima che Madame Fantine gli fosse vicino e bussò cercando di imporsi una certa calma. Dall'interno non giunse nessuna risposta.
 «Non c'è... come ve lo devo dire? Ve ne dovete andare...» disse la donna, che lo aveva appena raggiunto, con il fiato corto.
Erik restò immobile con il pugno ancora poggiato contro lo stipite di legno, rendendosi conto di quanto doveva sembrare stupido e ottuso. Quella reazione così cieca ed istintiva non apparteneva all'uomo, ma al Fantasma e per un attimo ne fu spaventato.
Né all'uomo né al Fantasma avrebbe dovuto importare fino a quel segno di quella giovane donna.
Stava per convincersi di lasciar perdere, voltarsi verso la maîtresse, borbottare qualche scusa e magari chiedere semplicemente di riferire a Lucia che era passato. Questa era una reazione normale, l'unica reazione possibile dato che non c'erano risposte per la domanda che ve ne importa?
Ritrasse la mano che aveva tenuto ferma contro la porta della stanza e fece per voltarsi verso Madame Fantine, quando il suo sguardo intercettò qualcuno in piedi sugli ultimi gradini della scala che portava al piano superiore.
«Oh...». La persona sulla scala emise una specie di lamento strozzato, un verso che doveva essere di pena o di imbarazzo. O di paura.
Erik si ritrovò ad osservare confuso Fede, l'inserviente del teatro, immobile come una statua di sale, con una mano poggiata sul corrimano e l'altra chiusa a pugno per tenere sollevato l'orlo della gonna nell'atto di scendere gli ultimi gradini.
La ragazza era arrossita violentemente e poi il suo viso era sbiancato di colpo.
Erik si ricordò di aver visto una giovane praticamente identica a lei una delle prime volte che si era avvicinato al palazzo, ma gli riusciva impensabile credere che Fede avesse davvero qualcosa a che fare con quel posto.
Fede sembrava sul punto di mettersi a piangere.
«Madame...» mormorò con la voce tremula, a chiedere che la donna dicesse qualcosa, che spiegasse al Maestro la sua presenza in quel posto – anche se a a Erik non importava davvero, era convinto che la ragazza non gli dovesse alcuna spiegazione e che, in ogni caso, ognuno ha diritto ai propri segreti e lui non sarebbe andato in giro a dire di averla vista nei corridoio dell'Araba Fenice.
«Ah, San Gennaro mio, dacci i lumi!» gracchiò Madame Fantine scuotendo la testa. «Volevate Lucia, Maestro? Eh, adesso vi porto da Lucia. Mi farete uscire scema, tutti quanti...».
Erik sgranò gli occhi. L'atteggiamento della donna era cambiato di colpo, non sembrava più fredda e determinata a tenerlo lontano, adesso sembrava sull'orlo di una crisi di nervi e sembrava quasi intenzionata a farsi prendere la mano solo per fare un dispetto a tutti quanti. Doveva essere davvero turbata se aveva perso il suo solito lezioso contegno da perfetta padrona di casa. E adesso Erik si stava chiedendo cosa c'entrasse tutto questo con Lucia.
«Io ero scesa a prendere dell'acqua, signora» pigolò Fede, all'improvviso, con mesto tono di scusa.
«Sì, sì, tutto quello che ti serve, piccerè...» rispose la donna, poi si voltò e fece cenno a Erik di seguirla. «È successa una brutta cosa a una delle ragazze» spiegò mentre salivano le scale. «La sorella gemella della nenna che avete visto, la conoscete, no? Lavora nel teatro».
«La conosco» rispose Erik, cercando di mantenersi calmo. Avrebbe voluto far notare alla donna che non c'era bisogno di fare tante storie, che sarebbe stato meglio per tutti se lei gli avesse detto quelle cose fin da subito, ma capì che sarebbe stato inutile, avrebbe solo fatto indispettire ulteriormente la   maîtresse e, in ogni caso, adesso era turbato anche lui. Che cosa era successo di così brutto alla ragazza?
«Lucia se l'è presa assai a male, per tutte cose che non vi devo dire io, ve le dice lei se vuole» concluse brusca Madame Fantine, fermandosi davanti all'ultima camera in fondo al corridoio del secondo piano; aprì la porta quel tanto che bastava a guardare dentro, senza che Erik riuscisse a scorgere chi o cosa si trovava oltre la soglia.
«Lucia?» chiamò a bassa voce. «Il Maestro francese insiste per vedervi». Detto questo si voltò, rivolse all'uomo un'occhiata crucciata, poi sospirò, alzò gli occhi al cielo e si dileguò in fondo al corridoio, giù per le scale.
Dall'interno della camera Erik sentì provenire dei singhiozzi acuti, misti a dei rumori ovattati. All'improvviso fu assalito da un tremendo senso di imbarazzo. Era stata davvero una buona idea insistere per vedere Lucia? Cosa avrebbe dovuto dirle? Voleva solo sincerarsi che... che lei stesse bene e che non ci fossero dei motivi personali per quell'improvvisa assenza. Madame Fantine avrebbe potuto spiegargli da subito come stavano le cose e lui se ne sarebbe andato senza indugiare oltre. Ma di quello che era successo, qualsiasi cosa fosse, Erik non aveva ancora capito niente e non sapeva quanto era giusto pretendere delle spiegazioni da Lucia.
La giovane donna uscì dalla camera. Indossava gli stessi abiti eleganti con cui era andata via dal teatro quella stessa mattina, quando lo aveva lasciato; i capelli le ricadevano scomposti sulle spalle; era come se non si fosse mossa da quella stanza per tutto il giorno. Aveva il volto segnato dalla stanchezza e anche da qualcosa d'altro. Lucia aveva pianto e c'era un malessere pesante che aleggiava in fondo al suo sguardo.
Erik si sentì terribilmente fuori luogo quando lei gli puntò in viso quegli occhi stanchi e arrossati. Essere stato un avido spettatore di vite drammaticamente distanti dalla sua non lo rendeva anche un buon attore su quel genere di palcoscenico tanto insidioso.
«Volevate vedermi. Eccomi» disse Lucia con voce spenta. Sembrava distante, vagamente fredda; l'uomo non seppe dire se c'era una nota di rimprovero in quella voce, provò solo un'immensa pena e decise che era inutile tentare di sostenere un ruolo, tentare di fare l'attore.
«Madame Fantine non voleva spiegarmi cosa è successo. Mi sono impensierito» ammise semplicemente. «So che è accaduto qualcosa a una vostra compagna. Non volevo darvi noia».
Era sollievo quello che adesso stava comparendo sul viso di Lucia? Erik non fece in tempo a stabilirlo, perché lei voltò bruscamente il viso, puntando lo sguardo altrove nel tentativo di nascondergli le lacrime che le stavano inumidendo gli occhi.
«Vi... vi sono grata per il vostro interesse» farfugliò Lucia. Erik non si sarebbe mai aspettato di vederla così confusa e fragile. Confusa e fragile erano attributi che non le si addicevano.
«Cosa è successo alla vostra compagna?»
«È stata aggredita».
C'era stato un tempo in cui Erik non aveva capito come mai andasse attribuito tanto valore alla vita umana, forse perché lui stesso non dava valore alla propria, era deciso a sopravvivere con la caparbietà di un animale, ma il valore della vita era un concetto sfuggente per la sua mente, eppure, anche quando cospirava, minacciava e considerava con leggerezza l'omicidio come una soluzione legittima, aveva sempre avuto uno strano pudore rispetto al pensiero di far del male a una donna.
Ci sono mostri peggiori di me. Peggiori di ciò che io sono stato...
«Cosa le hanno fatto?». Si rese conto della stupidità della domanda solo dopo averla pronunciata.
«Oh, non è come credete. L'hanno sfregiata» spiegò Lucia, con le parole che le inciampavano in gola e venivano fuori come stille di veleno.
Ora l'uomo cominciava a capire. Doveva essere stato orribile per la ragazza scoprire che una sua compagna, forse persino più giovane, aveva subito la sua stessa sorte, e lui meglio di chiunque altro poteva comprendere cosa quella sorte implicasse. Comprendeva talmente tanto che non aveva parole.
«Era me che cercavano». Lucia pronunciò questa frase con un tono di voce talmente basso che per un attimo Erik credette di averla solo immaginata.
«Come dite?» esclamò, sgranando gli occhi.
«Erano lì per me. Se la sono presa con lei perché pensavano che fossi io».
La ragazza si appoggiò con le spalle contro il muro e chinò il capo. Erik restò a guardarla tentando di mettere in ordine i pensieri.
Qualcuno aveva voluto fare del male a Lucia. Una rabbia cieca gli esplose nel petto mentre ripercorreva gli eventi degli ultimi giorni. In mezzo alla cascata di pensieri e sentimenti furiosi, prese forma una voce che pronunciava lapidaria parole di cui solo adesso lui riusciva a cogliere il tono di minaccia.
«Mi avete ferito, Maestro. Non è mai bello né conveniente rifiutare l'offerta di un'amica».
Certo, la gelosia, l'umiliazione del rifiuto. Come aveva potuto non pensarci prima? Come aveva potuto essere tanto sciocco da sottovalutare la situazione? Proprio lui che era quasi morto per quelle stesse ragioni.
Con uno scatto si chinò su Lucia, afferrandole bruscamente le spalle e scuotendola perché alzasse il capo.
«Era una vendetta» affermò. La voce cupa, lontana, che apparteneva al Fantasma.
La ragazza ebbe un sussulto e spalancò gli occhi in preda all'agitazione.
«Erik...» mormorò, come a volergli intimare la calma.
«Lo era. Lo sapete, sapete anche chi e perché» continuò lui, incurante dell'espressione atterrita della giovane donna. Lucia annuì.
«Ditelo» le sibilò. «Dite quel nome».
Lei si divincolò dalla sua presa, tornando ad appiattirsi contro il muro.
«Dite quel nome» ripeté lui, in tono perentorio di comando.
La voce arrivò a fatica sulle labbra della ragazza, tra i respiri spezzati.
«Graziana» pronunciò e lo guardò negli occhi, senza sembrare più né turbata né spaventata.

*

Lucia sentiva quasi male là dove le mani di Erik si erano strette attorno alle sue braccia. Adesso negli occhi di quell'uomo c'erano cose che lei non conosceva, c'erano ombre che lei non aveva mai visto e che non sapeva affrontare.
Che fossero quelle ombre le ragioni delle ferite che lui tentava così disperatamente di celare?
Erik le stava chiedendo un nome. Non era davvero Erik, in realtà, non era l'uomo che lei aveva conosciuto.
«Graziana» gli disse, alla fine.
Il turbamento che aveva provato era sparito di colpo, come se il pronunciare quel nome avesse all'improvviso gettato un ponte tra lei e le ombre che si agitavano in fondo allo sguardo di Erik. Tutto quell'odio e quella rabbia non le appartenevano, quando aveva compreso cosa era realmente accaduto alla povera Speranza si era sentita semplicemente spiazzata, incredula, addolorata. Le faceva male l'idea che qualcuno avesse pagato al suo posto, e allo stesso tempo era convinta che non aveva fatto niente per cui meritava di pagare – motivo per cui la sorte di Speranza le sembrava ancora più ingiusta. Ma una consapevolezza rimaneva a pesarle sul capo come una spada di Damocle: qualcuno aveva voluto farle del male, poco importava se non ci era riuscito.
Presa dal turbamento in cui la sorte di Speranza l'aveva gettata, non si era minimamente data pena di cercare di capire chi fosse questo qualcuno e quali fossero le sue ragioni – se di ragioni si poteva parlare. Adesso che Erik l'aveva costretta a cercare la verità che la sua mente già conosceva, Lucia si sentiva ancora più spiazzata. Perché mai lui era giunto a quella conclusione con tanta facilità? Cos'è che sapeva e che lei non comprendeva?
L'odio. La risposta prese forma nella mente di Lucia senza ulteriori sforzi. Erik conosceva l'odio che muoveva certi gesti, per questo aveva capito subito come stavano le cose.
«Io non conosco l'odio, sapete...» mormorò lei a fior di labbra. Ed era vero, aveva conosciuto molte cose tremende, ma l'odio non era una di queste. Non aveva odiato Graziana nemmeno quella sera, quando aveva visto lei e Andrè sorridere oltre il vetro...
A quelle parole Erik sembrò riscuotersi, le lasciò andare le braccia e fece un passo indietro, con uno scatto, come se all'improvviso la ragazza fosse diventata incandescente.
Entrambi sentirono i passi che si avvicinavano lungo il corridoio e si voltarono per trovarsi davanti la giovane Fede che avanzava cauta, reggendo in mano un bacile pieno di acqua.
Povera, piccola Fede, il suo cuore non era fatto per sopportare cose del genere.
La ragazzetta sembrava un uccellino caduto dal nido quella sera e Lucia si accorse di quanto le fosse impossibile riuscire a guardare in direzione di Erik, che adesso se ne stava con le spalle appoggiate al muro sul lato opposto del corridoio.
«Signora Lucia» mormorò Fede. «Andate a riposarvi, ci sto io qua. Voi avete fatto già tanto».
Lucia le sorrise, ma non era vero, non aveva fatto niente perché non c'era niente da fare. Si limitò ad annuire senza aggiungere altro e le aprì la porta per lasciarla entrare nella camera.
Fede fu inghiottita dalla penombra silenziosa della stanza. Lucia restò a fissare per qualche secondo la porta chiusa, chiedendosi come sarebbe stato se i responsabili di quello scempio non avessero sbagliato persona, domandandosi se Erik l'avrebbe voluta ancora con il volto sfregiato.
Che domanda sciocca da farsi...
Erano di nuovo soli nel corridoio, con la luce giallastra delle lampade ad olio che sbiadiva le ombre.
Lucia fece per voltarsi.
«Forse ora è meglio che andiate, signore» disse, scoprendosi del tutto incapace di guardarlo in faccia. «Siete stato gentile a preoccuparvi così tanto».
«Non siate sciocca». La voce dell'uomo era priva di qualsiasi emozione e forse proprio per questo suonava così risoluta e imperiosa.
«Non è saggio immischiarvi in questa faccenda» gli disse con una punta di freddezza. «Siete a tutti gli effetti il direttore del San Carlo»
«Se anche la cosa fosse di qualche rilevanza, è un mio problema, non vostro».
Lucia sentì un dolore sordo propagarsi dalla sua mente al suo cuore, qualcosa di gelido e spinoso. Sapeva che un giorno sarebbe successo, sapeva che sarebbe venuto il momento in cui Erik se ne sarebbe dovuto andare o per sua scelta o perché lo avrebbe deciso lei, per proteggersi da quegli strani sentimenti che lui le suscitava. Aveva imparato che per una donna nella sua posizione era sciocco legarsi a un uomo, provare qualcosa per una persona mutevole e inafferrabile come Erik era a dir poco folle.
La donna fece appello a tutto il suo coraggio e si voltò verso il suo interlocutore. Non sarebbe stata lei a mandarlo via, se ne sarebbe andato lui, per sua scelta, perché lei adesso stava per fare qualcosa di cui non aveva diritto, stava per porgli un ultimatum a cui uno come Erik non si sarebbe mai piegato.
«Dovrei insistere che ve ne andiate, ma non posso costringervi» asserì Lucia, cercando di apparire risoluta mentre puntava i suoi occhi in quelli dell'uomo che adesso avevano un'espressione imperscrutabile. «Tuttavia, se vi sta così illogicamente a cuore la faccenda, mi vedo costretta a domandarvi la verità, quello che mi avete sempre, a buon diritto, celato».
Lucia non sapeva davvero quanto la richiesta fosse legittima, voleva solo irritarlo e fare in modo che se andasse.
«La verità?» mormorò Erik. «Potrei dirvi che se la scopriste, potreste essere voi stessa ad allontanarmi»
«Allora non correte il rischio che una puttana vi mandi via. Uscite da qui per vostra scelta e dimenticate quanto è successo»
«Così brutale, Lucia?».
Erik mormorò quelle parole al suo orecchio, era alle sue spalle e lei non lo aveva sentito avvicinarsi. Sentì uno strano brivido percorrerle la schiena.
«D'accordo» aggiunse Erik, prendendola per il polso e trascinandola giù, lungo le scale fino al pianterreno. Aprì la porta della camera di Lucia e quando furono dentro se la richiuse alle spalle con una spinta secca. Solo allora lei riuscì a ritrarre il braccio dalla sua presa.
Lucia lo guardò aggrottando le sopracciglia, ma non ebbe tempo di dire nulla perché lui cominciò a parlare.
«Il vostro amico francese, l'uomo che avete amato» esordì con la voce incrinata da uno strano nervosismo, «di certo avrà frequentato l'Opera Populaire. Ebbene, vi ha mai parlato di una strana storia, del fantasma che infestava il noto teatro di Parigi?».
Lucia non capiva, ma si rammentò del fatto che una volta Andrè aveva menzionato vagamente una cosa del genere.
«La leggenda del Fantasma dell'Opera» mormorò titubante.
«Ah, non era una leggenda, non lo era affatto, ma fino a qualche anno fa era plausibile pensare che lo fosse. Il Fantasma dell'Opera è esistito».
Lucia sentì il cuore mancare un battito.
«Voi...». Certo. Ora capiva perché Erik conosceva così bene l'Opera Populaire di Parigi e ricordava con straordinaria precisione i particolari di tutti gli spettacoli degli ultimi venti anni, era un arco di tempo enorme per così tante cose da ricordare, ma lei aveva sempre pensato che fosse solo una persona con un'ottima memoria e un genio con la mania per i dettagli.
«Sì, io, signora» confermò Erik con un'espressione di di disprezzo, come se trovasse profondamente disgustoso quel ricordo. «Ho vissuto in quel teatro fin da quando ero bambino, ogni singola pietra di quel posto mi apparteneva come se fosse un dito della mia mano. Conoscevo passaggi segreti per muovermi indisturbato in ogni angolo dell'Opera, e laddove non ve ne erano fui io stesso a costruirne. Per tanto tempo credetti che avrei potuto vivere d'arte e di buio, senza rimpianti. Finché restai di questo avviso, il Fantasma era quasi del tutto innocuo, capitavano piccoli incidenti a cantanti o musicisti particolarmente incapaci quando volevo sottolineare la loro inettitudine e fu così che nacque la leggenda, ma per il resto non si era mai verificato nulla di drammatico».
Lucia si lasciò cadere seduta sul bordo del letto. La storia che le stava raccontando Erik aveva dell'incredibile ma fino a quel momento le era sembrata solo l'avventura straordinaria di un uomo vessato da un tremendo castigo, quello che si celava sotto la maschera. Adesso non era più sicura di voler conoscere il continuo, ma aveva chiesto la verità e lui gliela stava dicendo.
«Non si era mai verificato nulla di drammatico, avete detto. Fino a che?» domandò. Pronunciare quelle parole le diede la sensazione di essersi appena strappata il cuore dal petto.
«Fino a che il Fantasma non comprese che l'arte e il buio non gli bastavano più» rispose Erik, sembrava che anche lui stesse facendo fatica ma si sforzava di sostenere il suo sguardo per quanto gli occhi smarriti e l'espressione sconvolta di Lucia dovevano pesare come una condanna. «Come vi ho detto, ci fu una donna, una fanciulla anzi... pronunciare il suo nome mi è intollerabile, ma il Fantasma se ne innamorò perdutamente, e ella fu la sua fine e la mia»
«Cosa intendete dire?»
«Che gli uomini forse possono sopravvivere all'amore, i fantasmi no. Il dolore di un fantasma genera morte e distruzione. Lui uccise pur di averla e distrusse quel teatro; gli parvero sacrifici accettabili, un olocausto che gli era dovuto»
«E... e poi... che n'è stato del Fantasma?»
«La fanciulla lo uccise, sapete. Lo uccise quando lo baciò, lo annegò con le sue lacrime quando si offrì di passare la vita con lui se il Fantasma avesse risparmiato il giovane di cui lei era innamorata e che era tenuto come ostaggio. Dopo quel bacio, i due giovani amanti furono liberi, perché il mostro che aveva tentato di sopraffarli era morto e l'uomo rimasto in quel guscio vuoto di sofferenza e orrore non era capace di portare fino in fondo quella scelleratezza. L'amore dei fantasmi è malato e distorto, quello dell'uomo era un amore comune, capace di accettare sconfitte e sacrifici. Il Fantasma è morto, ma il sangue e il fuoco di quella notte sono ricaduti sulle mie mani e a volte mi è insopportabile il pensiero che anche io non sia morto con lui. Questa è la verità che volevate, Lucia».
A giovane donna sentì l'impulso di alzarsi, di muoversi, di provare a se stessa che le parole di Erik non l'avevano tramutata in pietra. Si alzò e camminò attorno a letto, con il capo chino. Sentì le gambe cederle dopo qualche secondo e si appoggiò alla spalliera di legno prendendo grandi respiri.
Era sempre stata certa che ci fosse qualcosa di molto brutto e doloroso nel passato di quell'uomo, ma non immaginava fino a che punto, non poteva credere che un'anima così geniale, una persona dotata di così tanta smarrita umanità, fosse nata dalle ceneri di un mostro. Non poteva crederlo, non era in grado di accettarlo.
Mio Dio, no, ti prego, ti prego...
«Lucia?».
Dovevano essere passati dei lunghi minuti da quando Erik aveva smesso di parlare, probabilmente lui l'aveva osservata in silenzio muoversi febbrile per la stanza per lasciarle il tempo di assimilare quella verità tanto desiderata che adesso avrebbe voluto poter dimenticare.
La giovane donna si voltò verso di lui,
«Andatevene» gli disse, gelida e perentoria, come nemmeno credeva capace di essere.
Lui non provò a muovere alcuna protesta, non indugiò nemmeno un secondo. Si voltò e lasciò la stanza senza fare nemmeno rumore quando si richiuse la porta alle spalle.


*******

~ Parigi, 18 maggio 1892 ~

Louis chiuse il quaderno e lo lasciò cadere in mezzo all'erba.
Se n'era andato in un angolo del prato e si era seduto a leggere ai piedi di un grosso pioppo. Era una tiepida giornata di sole, lui era ancora ospite nella tenuta dei De Chagny. Aveva detto di voler togliere il disturbo quando Christine era stata allettata, per non creare un impiccio alla famiglia, ma il visconte aveva insistito affinché rimanesse, dicendo che sua moglie sarebbe stata molto dispiaciuta se non lo avesse trovato lì una volta che si fosse ripresa. Louis aveva la sensazione che non fosse solo l'obbligo dell'ospitalità a parlare, a loro faceva davvero piacere che lui restasse lì, ma da quando era accaduto quell'incidente durante la festa di Gustave lui aveva cominciato a sentirsi a disagio in quella casa. La sensazione di avere qualcosa a che fare con il malessere che aveva colto madame De Chagny aleggiava ancora prepotente nella sua testa. Era un pensiero del tutto illogico, eppure il raziocinio non riusciva a scacciarlo. Naturalmente, aveva preferito non parlarne con il suo amico Gustave.
Di buono c'era che in quegli ultimi due giorni, quando non era in compagnia dei suoi amabili ospiti, Louis aveva ricominciato a leggere il diario di suo padre. Era stata una specie di reazione istintiva alla confusione provocata dagli ultimi avvenimenti: pensava che concentrarsi sulla lettura delle memorie di Erik lo avrebbe aiutato a distrarsi dai nuovi malumori che gli annebbiavano la mente.
Per certi versi, aveva avuto ragione.
Erik non aveva scritto quel diario preoccupandosi della qualità narrativa di ciò che raccontava. Le lunghe pagine di cupe riflessioni personali spesso erano pesanti e ripetitive, ma i fatti che si erano avvicendati in quelle poche settimane di vent'anni prima avevano un che di avvincente e la storia adesso era giunta a un punto di svolta davvero singolare.
Louis aveva seguito quasi con divertimento gli sviluppi della realizzazione di quella serata di musica popolare al San Carlo, aveva letto quelle pagine con la curiosità con cui da bambino leggeva i feuilletton sul giornale, insieme a sua madre. Era ansioso di conoscere la reazione delle persone coinvolte nella storia e tutto il resto. Era una bella pagina quella in cui Erik raccontava dell'abbraccio di Luisa, della soddisfazione provata per la riuscita dello spettacolo, erano pensieri quasi luminosi, per la prima volta aperti alla speranza. E poi, come in ogni romanzo che si rispetti, proprio quando le cose sembravano sul punto di aggiustarsi, era avvenuto il disastro.
Louis aveva appena letto di quello che suo padre aveva scoperto la sera dopo lo spettacolo, recandosi all'Araba Fenice: la ragazza aggredita e sfigurata perché scambiata per la persona sbagliata, i sospetti che cadevano irrimediabilmente su Graziana Rovesti come mandataria degli aggressori, la rabbia di Erik nell'apprendere l'accaduto, il suo confronto con Lucia e il fatto che lei lo avesse scacciato.
Era stato un brutto colpo di scena, non solo per la drammaticità dei fatti in sé, ma anche perché riportava a galla vecchie ferite, sentimenti che il cuore di quell'uomo aveva appena cominciato a tentare di mettere da parte.
Louis aveva chiuso il quaderno, incapace di continuare la lettura. Era più che mai curioso di conoscere l'evolversi dei fatti, ma ne era anche spaventato. Non voleva leggere di altro sangue, di altra rabbia, di altra disperazione, di altre follie.
Il suo pensiero tornò a sua madre. Il ragazzo non poteva fare a meno di pensare che c'era qualcosa che non tornava nel comportamento di quella donna, nel fatto che lo avesse lasciato da solo ad affrontare quella storia. Lei lo conosceva, sapeva quali effetti avrebbe avuto su di lui la lettura di quelle pagine, eppure lo aveva mandato a Parigi perché lui le leggesse.
Per un attimo Louis fu tentato di scriverle una lunga lettera in cui le esprimeva tutte le sue perplessità riguardo al suo atteggiamento, ma gli sembrò quasi subito una cosa sciocca: quello era un argomento che voleva affrontare con lei faccia a faccia. Per quanto impaziente fosse di ricevere delle risposte, si disse che era meglio aspettare.
Si accorse che qualcuno gli si era avvicinato solo quando vide l'ombra di un'altra persona mettersi tra lui e la luce del sole.  
«Ti ubriacherai di nuovo?» domandò la voce pacata di Gustave.
«Eh?».
Il ragazzo biondo indicò con lo sguardo il diario abbandonato in mezzo all'erba.
«Non credo» disse Louis con un sorriso privo di allegria. «Il peggio è passato, almeno spero».
«Ha avuto una vita interessante tuo padre, almeno?»
«Oh, fin troppo. Ancora non mi spiego perché mi siano state taciute tutte queste cose per tutto questo tempo. Avrei voluto che me ne parlasse lui, quando era vivo».
Gustave si strinse nelle spalle.
«Forse lo avrebbe fatto. Visto che non ha potuto farlo di persona, tua madre ha voluto che fossero le sue memorie a parlare per lui, è una cosa romantica in un certo senso» dichiarò sogghignando.
«Hai ragione, sì. Mi manca molto, nonostante tutto...».
Nonostante tutto, Erik era stato un buon padre...
«Io credo che mia madre e mio padre non mi diranno mai la verità» aggiunse Gustave all'improvviso. «Su tutto quello che è successo prima, intendo. Ci sono dei ricordi che non sono stati scritti da nessuna parte e che io non conoscerò mai».
Louis guardò il suo amico, la luce del sole faceva brillare i suoi riccioli da putto e rendeva la sua pelle quasi diafana.
«Forse è meglio così» gli disse piano. «Certi ricordi possono fare molto male»
«Tu avresti preferito che non ti venisse dato quel diario?» replicò Gustave, con una vaga durezza nello sguardo.
Bella domanda! Ancora una volta il suo biondo amico aveva saputo andare più a fondo di quanto Louis si fosse aspettato, mettendolo spalle a muro, obbligando a cercare una risposta da dargli e da dare a se stesso.
«No. Alla fine è giusto che mia madre lo abbia fatto» concluse con un sospiro.
«Bene» Gustave annuì con aria grave, poi di colpo la sua espressione cambiò. «A proposito di cose romantiche, è arrivato questo per te» aggiunse prendendo un biglietto che aveva messo nella tasca.
Louis dispiegò il foglio di carta e lesse rapidamente.
«È di Magdeleine. Dovremo fare un salto in città stasera, prima che lei si presenti qui armata, a reclamare il mio cuore... o qualche altra parte del mio corpo» disse strabuzzando gli occhi, poi lui e Gustave si guardarono in faccia e scoppiarono a ridere.

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Here, I have a note...

Piccerè (abbreviazione di di piccirella) = piccola, bambina, in senso vezzeggiativo. Anche nenna (abbreviazzione di nennella) può intendersi allo stesso modo.

Ok, Lucia non ha avuto una reazione molto... ehm, “sportiva” al racconto di Erik, ma volevo che sembrasse umana e credo sia umano reagire male alla notizia che il tizio che hai di fronte, per quanto ti possa stare a cuore, è stato un pazzo assassino con discutibilissimi comportamenti sociali.

I feuilletton erano le storie a puntate che, fino al secolo scorso, venivano pubblicate sui giornali. Molti romanzi famosi dell'800 sono nati come feuilletton (in Italia le storie di Salgari, tanto per dire, ma per citare titoli più famosi direi Dracula di Bram Stoker, o molti dei romanzi di Dumas).

Ci leggiamo mercoledì prossimo con il nuovo capitolo. 

I remain, gentlemen, your obidient servant.


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Capitolo 20
*** Sotto la polvere ***


Capitolo diciannovesimo
Sotto la polvere


~ Napoli, 09 maggio 1872 ~

Il mare cominciava a riflettere l'incerto riverbero azzurrino delle prime luci dell'alba. C'era poco vento e l'acqua era solo leggermente increspata mentre rifletteva il colore indistinto del cielo che ancora non aveva preso i toni distinti e luminosi del giorno.
Erik ascoltava le onde infrangersi con il loro ritmo cadenzato contro gli scogli, cercava una musica da accordare a quel suono ripetitivo, come se fossero le battute di un metronomo.
In quei due giorni, da quando aveva lasciato l'Araba Fenice dopo aver raccontato la sua storia a Lucia, aveva cercato disperatamente di mettere ordine nei suoi pensieri. Quello che era accaduto gli sembrava simile a una pugnalata sferrata con una lama molto ben affilata che lascia che il bruciore del taglio si propaghi tempo dopo rispetto a quando il colpo è stato inflitto.
Per una parte, Erik trovava giusto quello che era accaduto. Non poteva sfuggire per sempre agli effetti delle sue azioni, era normale che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa che gli avrebbe imposto di scontare in qualche modo la sua pena. D'altro canto, la rassegnazione e l'arrendevolezza non erano mai stati atteggiamenti che facevano parte della sua indole: aveva dovuto sopportare troppe cose irrisolvibili per arrendersi a tutti gli altri tiri mancini che il destino gli aveva giocato nel corso della sua esistenza.
Adesso l'uomo si chiedeva cosa fosse giusto fare. E la risposta era sempre la stessa: la cosa giusta è non far nulla.
Per ogni volta che formulava questo pensiero, però, la voce che si agitava nella sua mente lo sfidava, sarcastica e pungente.
Da quando in qua ti interessi di cose giuste, Figlio del Diavolo?
E ogni volta quella voce riusciva ad averla vinta, perché faceva montare dentro di lui quell'antica rabbia, quella furia cieca che lo portava a lottare contro ciò che non era in grado di accettare, con la stolida convinzione che gli fosse dovuto qualcosa di diverso.
La reazione di Lucia lo aveva ferito, annientato. Ma era l'unica reazione plausibile, l'unica che si sarebbe potuto aspettare, l'unica che meritava. Reagire, imporsi, dar voce alla propria rabbia lo avrebbe fatto sentire uno stupido. Certe lezioni sono fatte per essere imparate, certe cicatrici servono da monito, anche se la sua, di cicatrice, continua a sanguinare.
La consapevolezza del dolore che la ragazza gli aveva procurato mandandolo via lo aveva costretto a fare i conti con i propri sentimenti. Gli importava di lei, forse gli era sempre importato, altrimenti l'idea che qualcuno avesse cercato di farle del male non lo avrebbe reso così furioso, altrimenti la sua assenza adesso non avrebbe prodotto un simile eco tanto assordante.
Ma la cosa giusta è non far nulla...  
Era giusto. O forse c'erano altri modi di non arrendersi, di combattere. Ma l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera non aveva conosciuto altri mezzi che il ricatto e l'omicidio.
Oh, torna in te! Fa' ciò che sai fare, va' a prenderti ciò che vuoi...
La voce sibilava nella sua mente, come le spire di un serpente incantatore, mischiandosi ai versi acuti dei gabbiani che volavano spediti incontro all'orizzonte.
Non lo avrebbe fatto, non c'era alcun motivo per farlo. Lui non voleva l'amore di quella ragazza, né voleva che lei soccombesse a lui, non aveva mai cercato di soggiogarla, aveva sempre voluto un rapporto alla pari per provare a se stesso la sua umanità, la sua capacità di essere come tutti gli altri. E ci era riuscito, fino a un certo punto. Non era stato l'uomo a distruggere quell'affetto, era stato il Fantasma, con il suo alito di morte che arrivava da un passato tanto lontano quanto indelebile.
A questo lui non sapeva porre rimedio. Se anche avesse voluto imporre la sua presenza alla ragazza fino a quando lei non si fosse rassegnata, se anche avesse voluto insistere a farsi ricevere da lei in veste di cliente, avrebbe comunque perso quella sorta di complicità, la spontaneità con cui Lucia lo trattava.  
Ho perso. Di nuovo.
Avrebbe dovuto essere dispiaciuto per il grave turbamento che aveva provocato a Lucia, ma in realtà riusciva a pensare solo a ciò che lui aveva perduto. L'unica cosa che poteva fare per lei e per se stesso era lasciarla in pace, per non dover subire di nuovo il peso dello sguardo freddo e distante della ragazza.
La luce del giorno adesso cominciava già a riflettersi sullo specchio d'acqua, facendo luccicare le increspature di bagliori che ferivano la vista.
Erik decise di tornare sui suoi passi e si incamminò verso il teatro.
Si era dato così tanto pensiero nel riflettere su Lucia, nel riportare ordine dentro di sé, che non aveva ancora pensato all'altro aspetto della faccenda: Graziana. Se era stata lei a mandare quegli uomini ad aggredire la ragazza – e non poteva essere altrimenti, dato che Lucia non aveva altri nemici – Erik non avrebbe permesso che una cosa simile restasse impunita. La questione aveva importanza per lui, a prescindere da Lucia. Era stato lui a innescare una tale reazione in Graziana, per quanto gli apparisse folle, e a lui adesso toccava fare giustizia.
Era appena giunto a teatro. Entrò da una porta secondaria e raggiunse i suoi alloggi, immerso nei suoi pensieri. Come danneggiare Graziana senza fare danno al San Carlo e senza mandare a monte quei mesi di lavoro per la rappresentazione della Traviata? Mancavano solo due settimane e non c'era tempo per architettare qualcosa che avesse senso.
Erik osservò il suo riflesso sbiadito contro il vetro di una finestra. Mai come quella mattina si era sentito così vuoto e rassegnato.
Quando era giunto a Napoli e si era risvegliato in quel letto a casa del duca dopo una lunga convalescenza, aveva desiderato di essere morto e si era piegato al destino semplicemente perché non gli importava più di nulla, perché era convinto di aver distrutto tutto ciò che aveva e che non ci sarebbe mai stato un posto nel mondo per lui, che ora che la sua dolce musa era andata via, nessun altro avrebbe potuto provare affetto o pena per quell'angelo dell'inferno.
E poi il destino lo aveva sorpreso, gli aveva mostrato che si sbagliava, che se solo fosse stato disposto ad accettare le regole di quella normalità che aveva sempre rifuggito, il mondo avrebbe potuto accoglierlo, le persone avrebbero potuto, se non amarlo, quanto meno stimarlo. Ma anche così, c'era qualcosa di distorto e manchevole nel suo fato. Erik non voleva tornare ad essere il Fantasma e, allo stesso tempo, non era capace di restare semplicemente un uomo.
I suoi stessi pensieri sembravano sfinirlo. Si chiuse la porta della sua camera alle spalle, poggiandosi contro lo stipite di ciliegio e sospirando stancamente. Quando alzò lo sguardo, si trovò davanti Fede, con in mano le lenzuola che aveva cambiato e che doveva portare a lavare.
La ragazza aveva il viso pallido, segnato dall'accenno di occhiaie di chi aveva passato tutta la notte sveglia. Ebbe un sussulto quando lo vide e immediatamente abbassò la testa per sfuggire al suo sguardo.
«Scusatemi» mormorò come se fosse una supplica. «Io... stamattina ho fatto tardi».
Erik la fissò quasi attonito. Certo che aveva fatto tardi, stava passando le notti a prendersi cura della sorella allettata e, comunque, le tempistiche entro le quali veniva sistemata la sua stanza non gli erano mai sembrate importanti.
«Non devi aver paura di me» le disse a bruciapelo.
«No, io non ho paura di voi» replicò lei immediatamente, per un istante riuscì anche a guardarlo in viso. «Solo che voi...».
«Sì?» Erik la esortò.
«Solo che voi, sembra che riuscite a vedere tutto».
L'uomo fissò la ragazza, un po' stupito da quell'affermazione che non riusciva a comprendere.
«Se anche fosse, non vedo niente di male in te, Fede».
Lei ebbe uno strano sussulto di sorpresa, come se non si aspettasse che lui conoscesse il suo nome, poi accennò persino una specie di timido sorriso. Fece una rapida riverenza, strinse la matassa di lenzuola e coperte e lasciò la stanza mormorando un saluto a mezza voce.
Erik restò qualche secondo in piedi, a fissare il vuoto davanti a sé. L'idea arrivò improvvisa, come un lampo e lui l'accolse con un sorriso di soddisfazione, un sorriso che avrebbe spaventato chiunque si fosse trovato a guardarlo in quel momento. Dopotutto poteva ben definirsi un genio e in quanto tale era assolutamente avvezzo alle illuminazioni.

*

Madame Fantine non sapeva né leggere né scrivere, sapeva a malapena far di conto, ma si era fatta insegnare da Lucia a scrivere e riconoscere i nomi di tutte le ragazze della casa. Lucia forse era convinta che gli servisse per annotare i guadagni di ogni singola prostituta, ma non era solo per quello.
La stanza della maîtresse dell'Araba Fenice era un ambiente angusto e spartano, distante dalle camere dove alloggiavano le ragazze, ricavato da un angolo della cucina che era stato separato dal resto con un muro irregolare.
Nella piccola camera non c'erano finestre, solo un piccolo lucernario rotondo sulla parete di fondo, e ci voleva una bella forza a far girare sui cardini lo sportellino arrugginito. Per il resto, l'arredo consisteva in un armadio tarlato, in una cassapanca e in un letto.
La donna si alzò dal letto cigolante su cui si era stesa a notte fonda, con la faccia ancora impiastricciata dal trucco ridotto ora a una maschera di chiazze rosa. Le faceva male la schiena, ogni mattina un po' di più.
Brutta cosa farsi vecchia, brutta assai...
E come se non bastasse, ci si mettevano di mezzo pure le preoccupazioni. Non pensava che essere la tenutaria di una casa di piacere fosse una cosa semplice, avrebbe dovuto essere meno buona e affezionata alle sue ragazze, forse, ma in quelle ultime settimane sembrava che la malasorte si fosse accanita tutta su di lei e sull'Araba Fenice. Prima il Maestro francese che si fissava con la povera Lucia e adesso l'aggressione a quella disgraziata di Speranza. E lei si sentiva in dovere di trovare una collocazione alla piccirella, perché non ce la faceva a buttarla in mezzo alla strada, non aveva mai buttato fuori nessuno. Forse poteva usarla come cameriera, o chissà se la ragazza sapeva cucinare... non era quella più sveglia e intelligente, questo era sicuro, ma qualche soluzione si sarebbe trovata. Certo, non avrebbe più guadagnato bene come prima, ma almeno non sarebbe morta di fame.  
Premendosi una mano all'altezza dei reni, Madame Fantine raggiunse la cassapanca e alzò il coperchio, tirò fuori un vestito dismesso e rattoppato che portava durante la giornata per stare più comoda. Gettò l'abito sul letto e restò qualche secondo a fissare i fogli appuntati sulla parte interna del coperchio di legno: pagine di calendario con i nomi delle ragazze scritti nella sua calligrafia imprecisa, e forse pure scritti con qualche lettera messa male. Avrebbe dovuto far controllare a Lucia, ma non voleva che lei sapesse dove teneva il suo calendario dove segnava le date delle regole delle sue ragazze. Se qualcuna rimaneva incinta, lei voleva saperlo prima e comunque, voleva essere certa che a nessuna di loro venisse in testa l'idea di tenerglielo nascosto; quello del calendario era un trucco che tutte quelle come lei usavano.
Era capitato in passato che qualche ragazza rimanesse incinta. Era sempre impossibile stabilire chi era il padre e se anche si fosse saputo, il padre in questione probabilmente se ne sarebbe del tutto disinteressato.
Madame Fantine era indulgente su un sacco di cose, ma non sull'idea di tenere bambini in quella casa. Allo stesso tempo però, quelli che usavano i ferri per tirare via i bambini dalla pancia delle donne le facevano orrore, l'idea di strappare via una creatura dal grembo di sua madre come si sradica un'erbaccia dall'orto le sembrava mostruoso e impossibile da tollerare. I bambini malauguratamente concepiti tra quelle mura erano venuti tutti alla luce, le ragazze che li avevano partoriti erano state curate e coccolate per tutto il tempo della gravidanza e della convalescenza. L'orfanotrofio di Pompei era pieno di creature nate in un letto dell'Araba Fenice. Essere orfano o a essere figlio di una puttana non è che facesse molta differenza, comunque. Madame Fantine era solo contenta di non avere sulla coscienza nessuno di quegli affarini innocenti, per il resto doveva pensare in termini pratici perché la fame era una brutta cosa ed evitare la fame a se stessa e alle ragazze era la sua principale occupazione.
La donna scorse i fogli del calendario e i nomi annotati tra le righe.
«Carla il 2 del mese, Annarella e Giovanna il 4... tutto a posto» mormorò, elencando nomi e date come se stesse recitando un rosario. «Tina la prossima settimana. Lucia...».
Di Lucia da un po' di tempo a questa parte aveva smesso di avere pensiero, ma aveva continuato ad annotare il suo nome sul calendario per semplice abitudine. E aveva fatto bene, visto che poi era arrivato il Maestro francese... era arrivato e se n'era pure andato, o almeno questo era quello che Madame Fantine aveva sospettato. La ragazza non gli aveva detto niente, ma doveva essere successo qualcosa di cui lei non voleva parlare; la sera dopo la sua ultima visita il Maestro non era tornato.
«Lucia a giorni» disse, e poi passò oltre, continuando a scorrere la lista di nomi.
Alla fine richiuse il coperchio con un sospiro e si decise a vestirsi.
Mentre si abbottonava l'abito, Madame Fantine si ritrovò a pensare, come era capitato altre volte, a cosa sarebbe successo se fosse stata Lucia a rimanere in attesa di un figlio. La donna era certa che lei non lo avrebbe messo al mondo e poi lasciato in un orfanotrofio, a costo di tornare a fare la sarta sull'isola dalla quale era venuta. Lucia era diversa dalle altre ragazze, questo Madame Fantine lo aveva sempre saputo, e in tutto quel tempo non aveva capito se la cosa dovesse essere motivo di orgoglio o di ulteriore preoccupazione.

*

Cecilia stava parlando con delle ballerine quando gli si avvicinò l'inserviente, quella ragazzetta piccola e minuta che sembrava aver paura della sua stessa ombra. La ragazza le porse un biglietto, la salutò timidamente e si dileguò.
Il foglio di spessa carta era piegato a metà, lei lo aprì e quasi le venne un infarto quando lesse la singola riga annotata in una calligrafia elegante ma frettolosa.

Signorina,
vi prego di recarvi nel mio ufficio appena vi è possibile.
Erik.

Erik. Certo, il vero nome del Maestro che nessuno osava mai pronunciare, come se il solo dirlo lo rendesse più umano e meno straordinario.
Era stata molto contenta di essere riuscita a incontrarlo un paio di sere prima. E non le era parso affatto così permeato di elegante fascino come sembrava dai racconti dei musicisti dell'orchestra con i quali spesso parlava. Naturalmente, era tanto elegante quanto affascinante, ma c'era qualcosa in lui, una certa impacciata rigidità che lo faceva sembrare quasi buffo, se non fosse stato per quegli occhi gelidi che non si accaloravano minimamente nemmeno quando accennava un sorriso o provava a dire qualcosa di cortese. Ma aveva sentito dire cose straordinarie su di lui e tanto le era bastato per incuriosirla, tra l'altro, doveva ammettere con se stessa che le aveva provocato una strana infantile emozione incontrarlo faccia a faccia. E adesso essere stata convocata da lui la rendeva euforica oltre ogni misura.
La richiesta in quel biglietto suonava tanto come un ordine che non ammetteva repliche e Cecilia era certa che quel «appena vi è possibile» significasse in realtà «prima di subito», ma non le importava. Lasciò le ballerine ai loro pettegolezzi e si diresse di gran carriera verso l'ufficio del Maestro francese.
Non sapeva cosa aspettarsi da quell'incontro. Cecilia si era iscritta al conservatorio e aveva completato gli studi con buoni voti; era entrata al San Carlo con la raccomandazione di uno dei suoi insegnati ma era sempre rimasta relegata al ruolo di sostituta, così minuta e priva di fascino non aveva mai mostrato le doti necessarie per calcare la scena come si conviene a un artista di un teatro tanto importante, anche se quando cantava tutti restavano ammirati dalla sua voce, così potente per una donnina tanto piccola.  
La giovane donna prese un paio di lunghi respiri quando giunse davanti alla porta chiusa, sperando di non avere l'aria di una che si era precipitata di corsa. In un gesto istintivo, si tastò i capelli raccolti in due trecce sollevate sulla nuca, per sincerarsi che fossero a posto, ma i suoi dannati capelli non erano mai abbastanza in ordine. Solo dopo qualche secondo si decise a bussare e attese educatamente il permesso di entrare.
Il Maestro, Erik, era seduto dietro la sua scrivania. C'era un pittoresco disordine di fogli male impilati in un angolo dell'elegante piano di legno e sulla superficie liscia e lucida spuntavano di tanto in tanto, come funghi in un prato, dei fogli appallottolati e lasciati lì. Su una mensola, cecilia notò anche una scatola di legno aperta con uno strano ingranaggio che sembrava tanto essere il meccanismo interno di un carillon. Tutto si poteva dire di quell'uomo tranne che non fosse assolutamente singolare, e la mezza maschera bianca che si ostinava a portare non era nemmeno il particolare più bizzarro.
«Buon giorno, signorina Mauriello. Sedete, prego» la invitò l'uomo, indicandole con un cenno la sedia libera davanti alla scrivania. Lei obbedì e lo guardò in attesa che le dicesse il motivo di quell'inaspettata convocazione.
Ora sì che sembrava davvero misterioso e affascinante. Forse era capace di rendersi tale solo quando sceglieva lui il come e il quando di un incontro oppure solo nei momenti in cui poteva esercitare la sua autorità su chi gli era sottoposto, come in quel caso.
Sei un prepotente, eh, Erik?
«Innanzitutto devo porvi le mie scuse» esordì l'uomo, con un tono di infinita squisitezza che fu capace di confondere la ragazza.
«Le... vostre scuse, Maestro?» domandò lei, titubante.
«Sì. In tutto questo tempo non vi ho dato la giusta considerazione, ed è stato molto scortese da parte mia, oltre che negligente da un punto di vista professionale»
«Maestro, sono solo una sostituta...»
«Togliete quel solo. Non vi ho mai chiamata per le prove, scioccamente non ho preso in considerazione la possibilità che la signorina Rovesti potesse non essere in grado di cantare la sera della prima»
«Da che ricordo, la signorina Rovesti non è mai mancata a un evento importante»
«Non vuol dire che ciò non possa accadere» replicò Erik con una punta di durezza. Non gli piaceva essere contraddetto, dietro la sua maschera di perfetta cortesia doveva celarsi una persona molto impaziente e forse anche assai brusca, ma la sua voce aveva qualcosa di strano, Cecilia si convinse subito che lui avrebbe convinto la Terra a girare al contrario solo con il giusto tono di voce.
«Vorrei provare con voi» aggiunse il Maestro.
La donna aggrottò le sopracciglia,
«Mi fa molto piacere, ma devo farvi notare che mancano meno di due settimane alla sera della prima» gli disse in tono pratico.
«Siete così poco dotata che un paio di settimane non basterebbero?» la provocò lui, diretto e perentorio. «Sono certo che non è così. Non voglio lasciare nulla al caso, non voglio andare alla cieca nell'eventualità in cui la signorina Rovesti dovesse avere dei problemi la sera della prima».
La Rovesti salirebbe sul palco anche moribonda piuttosto che farsi sostituire!
Cecilia dovette fare un grande sforzo per non scoppiare a ridere,
«Voi avete carta bianca e tutto il teatro è al vostro servizio» asserì. «Se voi volete provare con me, io sarò ben lieta di accontentarvi, ma posso esprimere la mia opinione?»
«Prego. Anche perché credo che la esprimereste comunque»
«È inutile, e quando la signorina Rovesti lo saprà si farà venire una crisi di nervi e voi non avrete altro che tanta tensione tra la compagnia».
Erik si lasciò cadere con le spalle contro lo schienale della sua poltrona. All'improvviso sorrise, anche se non era un vero e proprio sorriso, era una smorfia tirata che sembrava quasi minacciosa. Mosse la mano in un gesto di disinteresse, con la stessa grazia di un felino che si prepara ad attaccare una preda.
«La signorina Rovesti non lo saprà. Voi e io proveremo quando gli altri saranno andati via» concluse, tranquillo. «Cominceremo oggi stesso»
«Sembra una congiura»
«Forse lo è. Buona giornata, signorina Mauriello».
Cecilia restò impietrita a fissare l'uomo sbattendo ritmicamente le palpebre. Si alzò goffamente, tanto il suo atteggiamento l'aveva spiazzata, e lasciò la stanza mormorando un saluto in modo così confusionario che quasi sembrò che la lingua le si fosse annodata contro il palato.
Uscì dall'ufficio e si appoggiò con le spalle contro il muro dell'anticamera.
Non sapeva cosa il Maestro francese stesse tramando, ma era quasi del tutto certa che la cosa aveva a che fare con lei che cantava ne La Traviata al posto di Graziana Rovesti la sera della prima.  

*******

~ Parigi, 20 maggio 1892 ~

Il visconte De Chagny sembrava davvero amareggiato a causa di quell'impegno imprevisto che lo aveva costretto a partire quella mattina, qualcosa che aveva a che fare con dei possedimenti di famiglia in Normandia. Si era sporto fuori dal finestrino quasi con tutto il busto, per chinarsi verso Gustave e dirgli: «Mi raccomando, prenditi cura di tua madre», poi aveva dato a suo figlio un affettuoso scappellotto in mezzo alla testa ed era partito.
Gustave sembrava compiaciuto; non che trovasse niente di piacevole nel fatto che sua madre fosse stata poco bene, ma se non fosse stato per quella eventualità, suo padre lo avrebbe trascinato con sé ad occuparsi di qualcosa che, a detta del giovane biondo, doveva essere molto noioso.
Louis non aveva idea di cosa volesse dire avere dei possedimenti di famiglia a centinaia di chilometri da casa. Il lavoro di suo padre gli aveva permesso una vita agiata e di certo non poteva dire di aver provato sulla sua pelle la miseria, però ne aveva vista tanta, di miseria, nel suo paese. Una miseria contro la quale nessuno aveva ancora mai alzato un dito, nemmeno quell'Italia per cui le generazioni prima di lui avevano dato la vita, il sudore e il sangue.
Ma non era quello il momento di indugiare in simili riflessioni. Louis era del tutto intenzionato ad aiutare Gustave a prendersi cura di sua madre, se c'era qualcosa in cui loro due potevano essere d'aiuto a madame De Chagny, dato che ancora si sentiva in colpa per quello che era successo durante la festa di compleanno del suo amico.
Christine salutò Raoul con la tenerezza malinconia di una moglie ancora molto innamorata, che al solo pensiero della partenza già sente la nostalgia del marito. Restò a guardare la carrozza allontanarsi lungo il viale alberato e poi si voltò e rientrò in casa con l'aria di qualcuno che sta pensando a qualcosa di macchinoso da attuare.
«Mi è venuta un'idea!» esclamò all'improvviso, battendo le mani con l'aria entusiasta di una bambina e guardando i due ragazzi che si erano seduti su un sofà.
«Madre?» domandò Gustave un po' perplesso.
Forse Christine voleva semplicemente tenersi impegnata per non pensare alla mancanza del visconte.
«Era da tempo che volevo sistemare la soffitta, ora che ho del tempo a disposizione e posso contare sull'aiuto di due giovanotti, credo proprio che ne approfitterò, se a Louis non dispiace»
«Ma voi dovete riposare, madre!» protestò il giovane De Chagny. «La soffitta possono pulirla i domestici»
«No! I ricordi sono nostri, tocca a noi fare ordine. È una lezione che dovresti ricordare, Gustave» lo rimbeccò lei, voltandosi con una specie di piroetta che fece disegnare un cerchio perfetto alla sua gonna di raso. Rise e la sua risata sembrò quella di una bambina.
Louis restò a fissarla mentre si avviava verso le scale. Era perplesso, c'era una strana vitalità che animava lo sguardo della donna, una specie di euforia propria di chi ha tra le mani qualcosa di nuovo con cui cimentarsi o di chi sta per partire per una qualche straordinaria avventura.
«Beh, magari sarà divertente» disse alla fine il ragazzo, dando una gomitata al suo amico.
Gustave si arrese con un sospiro e insieme a Louis seguì sua madre fino in soffitta.

La soffitta della casa seguiva il perimetro del corpo centrale della villa, era un'enorme stanza quadrata con sottili lucernari, ingombra di scatoli e vecchi mobili coperti ci polvere.
Louis si tolse la giacca e la appese a un gancio, al riparo dalla fuliggine.
«Cosa ne dite, amico mio?» domandò Christine, guardandolo con un mezzo sorriso.
«Che sarà un lungo lavoro»
«Avete forse altri impegni?».
Il giovane sorrise, se anche ne avesse avuti, vi avrebbe rinunciato più che volentieri.
«No, Christine» concluse.
La donna cominciò ad aprire elle scatole dalle quali estrasse una serie di statuine di porcellana avvolte dentro a degli stracci perché non urtassero tra loro. Le depose una ad una sulla superficie di un vecchio tavolino tarlato che era addossato al muro. Il risultato fu che in dieci minuti c'era una fila di orribili pastorelli, donnine e madonne di porcellana allineate sotto ai loro occhi.
«Queste immagino fossero della nonna» borbottò Gustave, guardandole con una smorfia.
«Non so nemmeno perché le ho tirate fuori da quello scatolo» commentò Christine scuotendo il capo. «Potremmo portarle da un qualche rigattiere. Ah, ma cosa abbiamo qui?».
Christine si diresse verso l'angolo più remoto della stanza, dove il soffitto si inclinava e lei era costretta a procedere curva.
«Oh, no, Dio Onnipotente, ti prego...» bofonchiò Gustave riconoscendo l'oggetto che sua madre stava faticosamente trascinando verso il centro della soffitta.
I due ragazzi si affrettarono a darle una mano, sporcandosi le dita di polvere e inalando l'aria viziata che c'era nella stanza.
A Louis venne in mente di quando lui e Gustave erano stati a visitare il teatro dell'Opera. Anche lì aveva respirato quell'aria polverosa e stagnante, ma ogni angolo di quel posto gridava malinconia – e forse qualcosa di ancora più drammatico. E scendendo le scale non si andava verso la luce, verso una casa abitata da una famiglia felice, ma verso un luogo fatto di buio, dove un'anima era rimasta a patire la solitudine, perché Louis era convinto che in quei sotterranei fosse davvero vissuto qualcuno.
L'oggetto che madame De Chagny aveva scelto di ispezionare era una culla. Una culla con il dondolo verniciata di bianco, tenuta al riparo dalla polvere grazie a un telo grezzo.
«Oh, che tenerezza» esclamò Louis canzonatorio, battendo una mano sulla schiena di Gustave. In realtà si stava chiedendo se a casa sua, nella soffitta, sua madre avesse conservato la sua culla.
«Non capisco la necessità di conservare una cosa simile, è ingombrante» borbottò il ragazzo biondo.
Sua madre lo guardò scuotendo la testa,
«Un giorno, se Dio vorrà concederti la benedizione dei figli, forse capirai» sospirò.
Dentro la culla, sopra al materasso leggermente ingiallito dal tempo, erano sistemate due scatole che Christine tirò fuori, intenzionata ad esaminarne il contenuto.
Da una scatola uscirono fuori delle biglie di vetro colorato e una cartellina piena di fogli. Louis fece per prenderla, ma l'amico gliela strappò di mano e si avvicinò a uno dei lucernari, sfruttando la poca luce che filtrava dai vetri impolverati per esaminare il contenuto della cartellina, sicuramente i suoi primi disegni da bambino. Louis lo lasciò a scorrere quei fogli, osservando per qualche secondo la sua aria assorta, senza capire se fosse emozionato, divertito o disgustato da quello che vedeva. Piuttosto, lui aiutò Christine a sollevare l'altra scatola che era molto più pesante. La donna gli fece cenno di posarla sul ripiano di un vecchio comò e l'aprì, tirando fuori un carillon con sopra un pupazzo a forma di animale piuttosto irriconoscibile, non si capiva se era una pessima imitazione di uno scoiattolo o una mancata riproduzione di un cane.
Louis osservò perplesso lo strano oggetto mentre Christine lo puliva alla buona con le dita.
«Ne ho visti di migliori» gli disse lei all'improvviso. «Fatti meglio, con molta più cura per i particolari». Poi diede la carica e il carillon cominciò a suonare un motivo di Mozart, mentre l'animale muoveva meccanicamente le zampe anteriori su e giù.
«Anche io ne ho visti di migliori. Ne avevo uno che mi aveva costruito mio padre, era veramente ben fatto»
«Vostro padre sapeva costruire carillon? Ma mi avevate detto che era un musicista». La voce di Christine aveva un tono allegro, leggero, ma i suoi occhi sembravano molto seri e concentrati su quello che lui stava per dire.
«Era un musicista, ma sapeva costruire un sacco di cose, credo che sarebbe stato in grado di costruire anche una città se fosse stato necessario» rispose il ragazzo, scuotendo la testa con un mezzo sorriso. Gli piaceva ricordare le cose migliori di lui.
«Che uomo era? Gli somigliate?»
«Oh, è una buffa domanda, sapete. Era un uomo complicato, come tutti gli artisti immagino. Mia madre dice che gli somiglio solo nelle cose migliori... e nella testardaggine»
«Un testardo, certo...».
Lo sguardo di Christine si fece cupo e lontano. Nelle sue parole c'era qualcosa che pesava e di colpo Louis si sentì turbato.
«Avete dimestichezza con i testardi?» le chiese, con aria ironica, cercando di alleggerire quella strana tensione che di colpo era caduta su di loro.
«Ne ho conosciuto uno, diciamo così...» mormorò lei, senza ricambiare il sorriso del suo giovane interlocutore, ma poi si riscosse all'improvviso e il suo sguardo tornò sereno. «Mi stavate dicendo di vostro padre. Era felice?».
Louis aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra. Era una domanda strana, insolita e di colpo anche lui si sentì cupo
«Mi piace pensare che io e mia madre gli bastassimo. Aveva parecchi dispiaceri da dimenticare e voglio credere che ci sia riuscito prima di morire».
Christine sorrise, non era un sorriso allegro, era più che altro malinconico e tenero allo stesso tempo, e fece sentire a Louis un colpo al cuore.
«Sono sicura che nessuno può avere un figlio come voi ed essere infelice» concluse la donna.

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Da oggi sono più o meno in vacanza e non avendo altri capitoli pronti non sono sicura che riuscirò ad aggiornare entro una settimana (ma ciò on toglie che ci proverò). Se non ci leggiamo mercoledì prossimo vi prometto comunque che non vi farò aspettare secoli per l'aggiornamento ^^
La lista dei motivi per cui voglio concludere la stesura di questa fanfiction si va infittendo, quindi non mancherò di provvedere.

Your obidient servant.

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