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Kazuya
non capiva niente.
Guardava gente muoversi, spintonarsi. Mantelli che vorticavano sulle
spalle di persone a lui conosciute e non che correvano per i corridoi
urlando ordini, chiamando nomi, mentre lui rimaneva impalato di fronte
la porta delle sue stanze.
Il cozzare del metallo gli rimbombava nelle orecchie, rintronandolo.
E ancora gemiti, risate sguaiate, ansiti, grida.
Sentiva voci contorcersi, mescolarsi, avvilupparsi nel suo cevello, ma
non riusciva a tornare presente a sè stesso, come se quello
che
accadeva non fosse reale.
La spallata di qualche uomo in corsa lo riscosse per un momento.
Inquadrò Ichirouta a qualche metro da lui, che incrociava la
spada con una Guardia. La coda con cui di solito legava i suoi capelli
turchesi era sciolta, e ciocche scomposte gli ricadevano sugli occhi
color nocciola, impedendogli la visuale.
Lo vide muovere velocemente le mani, mandare al tappeto il suo
avversario, procedere con il successivo che si stava già
avventando su di lui.
"Cosa succede?" continuava a chiedersi.
Era uscito dalle sue stanze, attirato dai fin troppo familiari rumori
di battaglia, ed aveva trovato una mischia di uomini che si battevano
in nome di non aveva nemmeno fatto in tempo a chiedersi chi o cosa.
"Cosa succede?" non fece in tempo a cercare una risposta, che si
ritrovò a schivare un fendente che, se l'avesse colpito,
l'avrebbe probabilmente squarciato dall'inguine alla spalla.
Tirò fuori la spada che teneva al fianco e parò
il colpo
successivo, accorgendosi che anche il suo avversario era una Guardia,
il mantello rosso che ondeggiava ai movimenti. Disarmò
l'avversario ed indietreggiò, un'espressione angosciata sul
colorito terreo.
Lui era un Cavaliere del Re, non aveva motivo di uccidere una Guardia
della Corona. Erano entrambi sotto gli ordini dello stesso sovrano, al
servizio dello stesso re. L'avevano giurato al cospetto del sole
nascente, l'avevano giurato sulla propria vita, sulla propria spada.
Perchè lo stavano attaccando?
"Tradimento." scosse la testa.
Lo sguardo vagò ancora per il corridoio, e con orrore si
accorse
che il tappeto di velluto rosso sul pavimento era dipinto di macchie
più scure. Guardie si aggrappavano ferite alla parete, altre
giacevano a terra, altre si davano battaglia tra loro.
Ichirouta continuava a menare fendenti e ad esercitare il proprio
dominio di Maestro. Lo vide generare onde d'urto, piccoli tornadi,
sferzate d'aria che allontanavano chiunque cercasse di raggiungerlo.
Shinichi era poco avanti al Cavaliere dai capelli turchesi, e come lui
combatteva con le sue lame, incrociandole con quelle dei nemici.
I suoni giungevano ovattati alle orecchie di Kazuya.
Vedeva i due Cavalieri suoi compagni urlargli qualcosa, ma non riusciva
a comprendere cosa gli stessero dicendo.
Si ritrovò a schivare una compatta palla di fuoco, e
finì
con le spalle al muro battendo la testa, mentre una Guardia dominatore
del fuoco utilizzava le fiamme delle lanterne del corridoio per
sferrare i propri attacchi.
Oramai conscio del pericolo, Kazuya bloccò il braccio
dell'avversario, la testa che gli girava appena, non temendo le fiamme,
che anzi rivoltò contro di lui. Parte furono assorbite dalla
sua
spada, parte le dissolse con un semplice movimento delle dita, mentre
la Guardia si accorgeva con orrore di avere davanti il Maestro del
Fuoco a capo dei Cavalieri del Re e tentava di fuggire.
Prima di riuscirci cadde a terra svenuto grazie a un pugno ben
assestato sul naso da parte del Cavaliere, che sentiva l'adrenalina
circolargli in corpo, i muscoli tesi nei movimenti.
"Tradimento." gli gridava il suo cervello mentre correva verso i suoi
compagni, che ansimando continuavano a combattere.
-Il re è caduto!- gli urlò Ichirouta, e
finalmente potè udirlo chiaramente.
"Tradimento!" la parola gli rimbalzava in testa, mentre gocce di sudore
freddo gli scivolavano giù per il collo, dentro l'armatura
argentata "Tradimento! Tradimento! Tradimento!"
Ignorò le altre urla che lo chiamavano mentre superava i
Cavalieri e svoltava al primo corridoio, le gambe che gli dolevano per
la corsa esageratamente veloce.
Si fermò quando arrivò ad un bivio, e un pensiero
gli balenò in testa.
Lei. Lei dov'era? Stava bene?
La tentazione di cambiare direzione gli bruciò nello
stomaco, la preoccupazione gli attanagliò le viscere.
Fu un attimo. Poi scosse la testa e continuò per la sua
strada, i denti digrignati.
Salì scale, schivò lame, oltrepassò
camere.
La Sala del Trono.
Lì doveva arrivare.
Doveva proteggere il suo re. A costo della sua stessa vita. Lo aveva
giurato.
L'ultima rampa di scale si estese di fronte i suoi occhi proprio mentre
sentiva le caviglie cedergli. Saltò i gradini a due, a tre
alla
volta, mentre vampate di fuoco scaturivano dai palmi delle sue mani
ogni qualvolta qualcuno tentava di fermarlo, in una danza bruciante e
mortale.
Fu la vista di Asuka a farlo indugiare.
Il Cavaliere era abbandonato sugli scalini, il capo basso, la mano a
tenersi la pelle sotto la stoffa e la cotta di maglia di ferro
lacerate, che gocciolavano sangue. Il suo mantello blu era bruciato e
strappato in più punti.
Chiamò il suo nome con disperazione, rinfoderando la spada,
e si
accovacciò di fianco a lui, scuotendolo per le spalle.
Gli sollevò la mano dalla ferita e represse un gemito nel
constatare quanto fosse profonda e slabbrata, irregolare.
Il Cavaliere di fronte a lui alzò lo sguardo sbiadito,
liquido
su di lui -Comandante.- mugolò, la voce comunque ferma -Non
sono
riuscito... Non ho...- un accesso di tosse lo piegò in due,
mentre altro sangue sgorgava dalla ferita al suo fianco.
Kazuya lo pregò di non parlare altrimenti e strinse la mano
tra le sue.
-Il re...- sussurrò come se non lo avesse sentito il
Cavaliere.
Il suo secondo. Il suo migliore amico -E così ho fallito
anche
questa volta.- una risata rantolante faticò ad uscire dalle
sue
labbra.
I suoi capelli grigiastri erano appiccicosi di sangue, il suo volto
appariva più magro del solito.
Kazuya voleva dirgli che non aveva fallito, che tutto quello che stava
succedendo non aveva senso. Ma non riuscì a dire nulla,
mentre
sentiva le mani tremargli in preda a spasmi che non riusciva a
controllare.
Il colorito di Asuka era sempre più pallido. Respirava a
fatica
-Non rimanere qui.- tossì ancora, e strinse
impercettibilmente
la mano tremante dell'altro -Non ha senso... Il re...-
ripetè,
ed ammiccò debolmente alle scale, alla porta oltre le scale,
alla Sala del Trono -Io... sto bene.- un piccolo sorriso si
allargò sulle sue labbra.
Con gli occhi che gli pizzicavano terribilmente e un groppo in gola che
lo dilaniava, Kazuya posò un lieve bacio sulla fronte
dell'amico
e si alzò, i pugni stretti, il mento alto.
Lo guardò per istanti che parvero interminabili, dicendogli
con
gli occhi tutto quello che non riusciva ad esprimere a parole,
perchè sapeva che se solo avesse aperto bocca sarebbe
scoppiato
a piangere e sarebbe rimasto a morire lì con lui.
-Proteggila.- riuscì a dire Asuka prima di abbandonare il
capo alla parete -Promettimelo.-
Il Comandante dei Cavalieri del Re non ebbe bisogno di chiedere chi
dovesse proteggere. Lo capì all'istante. E promise.
"Addio, amico mio." lo salutò, mentre quello gli ammiccava e
tornava a distendere un sorriso sul volto. Poi, tornò ad
avanzare, lasciandolo dietro di lui.
La Guardia lo prese alle spalle. Doveva essere un dominatore dell'aria,
perchè non l'aveva sentito arrivare.
Se ne accorse a sue spese, mentre ormai la pesante porta d'acciaio
della Sala del Trono si mostrava di fronte ai suoi occhi: una lama gli
incise la coscia destra in profondità.
Cadde in avanti, pervaso da un dolore lancinante che gli pulsava dalla
gamba e gli risaliva a martellargli in testa.
Si costrinse a rotolare su di un fianco e ad estrarre nuovamente la
spada, mentre schivava il fendente che incastrò la lama
avversaria a terra, affondata nello spesso tappeto di velluto rosso.
Approfittò di quel momento per atterrare l'avversario con
una
stoccata al petto e successivamente un colpo di piatto all'elmo.
Impresse tanta forza da far cadere la Guardia all'indietro, a rotolare
giù per le scale.
Stringendo i denti ed alzandosi a fatica, si trascinò per le
ultime scale tenendosi alla parete, la gamba che gli mandava stilettate
di dolore ad ogni movimento e gli faceva vedere nero.
Doveva arrivare fino in fondo. Capire di più. Proteggere il
re
ed il regno. Vendicare Asuka. La testa gli doleva, ma strinse i denti.
"Tradimento!"
Arrivò alla porta, priva di controllo, che ansimava.
Ed entrò.
Sentiva il mantello blu appartenente al suo ordine di Cavaliere
ondeggiare appena dietro alle sue spalle.
I corridoi erano nuovamente silenziosi, i tappeti di velluto erano
stati rimossi, ed ora a terra non c'era che il nudo pavimento.
Zoppicava visibilmente, ma si costrinse a non chiedere aiuto a nessuno,
nè a reggersi alla parete, e proseguì, a testa
alta,
l'elmo sotto un braccio, la spada nell'altra mano.
Salire nuovamente la rampa di scale che portava alla Sala del Trono fu
una sofferenza, continuava a sentire la ferita pulsare sotto le bende,
circondata dalla morsa dell'armatura d'argento.
Oltrepassò la spessa porta ed avanzò per l'enorme
sala,
vuota anch'essa dei tappeti e degli arazzi che sempre aveva visto alle
pareti, dirigendosi verso il fondo.
Il trono era in penombra, e ai suoi lati vi erano una Guardia e un uomo
dai capelli rossicci legati in una coda bassa. In mezzo a loro, seduto
sull'altro scranno, gambe accavallate e sorriso talmente bianco da
vedersi attraverso le tenebre, il re.
L'Imperatore.
Kazuya si inchinò, la testa bassa, ed il movimento gli
procurò un'ondata di dolore lancinante -Mio Sovrano.- la sua
voce riecheggiò nella grande stanza -Tu sei il mio
re; il
mio Imperatore. Lo giurai davanti al sole e ribadisco la mia promessa:
il mio elmo è nelle tue mani- poggiò l'oggetto di
fronte
a lui -e la mia spada al tuo servizio.- prese la lama tra le mani e,
lentamente, la sistemò di fronte l'elmo.
Il sangue aveva lasciato tracce visibili sull'acciaio.
Alzò lo sguardo ed incrociò solo l'ombra che
oscurava il
volto del nuovo sovrano. Ancora una volta, notò solo il suo
sorriso scintillante.
Lo vide sistemarsi meglio sullo scranno, poi schioccare le dita -E'
bene, Cavaliere.- disse. La sua voce era bassa, ma tra quelle mura
pareva roboante -Tuo compito è proteggere il re, e in caso
esso
muoia, il re dopo di lui, fino alla tua morte.- il suo tono pareva
quasi irrisorio -Mi compiaccio che tu sia rimasto per dare onore alla
tua promessa.- il sorriso si allargò -E voglio sperare che
tu me
l'abbia dimostrato anche con i fatti, Cavaliere.- Kazuya fu sicuro che
lo sguardo dell'uomo si fosse posato sulla sua lama insanguinata -E' il
sangue dell'Erede?- chiese l'Imperatore, una vena di impaziente
trepidazione nella voce.
"Tradimento!"
Kazuya chinò nuovamente il capo, talmente tanto da toccare
terra.
Ora aveva un nuovo Sovrano. Non importava chi fosse, come agisse,
perchè lui l'avrebbe protetto a costo della vita. E
qualsiasi
cosa gli avesse chiesto di fare, lui avrebbe eseguito,
perchè
così doveva essere.
Lo aveva giurato.
"Tradimento."
Il suo sguardo si piantò sul pavimento di pietra grigio
scuro.
-Come lei ha chiesto, Mio Sovrano, si.- la sua voce era piatta ma ferma.
Rimase con il capo chino -L'ho ucciso con le mie mani, Grande
Imperatore.-
"Tradimento..."
Ma oramai non era che un flebile sussurro nella sua testa.
Era solo l'inizio del
Quinto Impero.
*
Ok. Ho preso come oro colato il consiglio di Zael ed ho deciso di
postare questa fanfiction, per vostra enorme gioia *A*!! *cade*
Il titolo è ovviamente ripreso dal Fifth Sector, visto che
la
trama si concentrerà sui personaggi del GO, a parte questo
Prologo, dove il protagonista è il nostro caro Ichinose. I
capitoli non saranno tutti seriosi come questo, però avranno
una
lunghezza abbastanza notevole (sette, otto pagine di word in Verdana
10, per capirci), e spero davvero che non annoino nessuno. In caso, li
accorcerò u.u E mi dispiace per Domon
çAç! E' uno
dei miei personaggi preferiti, ma-- dovevo! Mi serviva, e-- scusatemi
çAç *si inchina*!!
All'interno della fanfiction (ambientata da ora in poi quindici anni
dopo il prologo) i personaggi (che saranno chiamati sempre per nome e
non per cognome) saranno in grado di dominare i quattro elementi
(fuoco, acqua, terra, aria), e questo è l'unico spunto preso
dalla serie Avatar, che è una serie meravigliosa,
fantastica,
che tutti voi dovreste vedere e alla cui io non sto assolutamente
facendo pubblicità *svagheggia*.
Il motivo per cui mi è nata l'idea di far muovere i
personaggi
del GO (che adoro <3) all'interno di un mondo fantasy di quelli
tradizionali, dove non mancheranno la magia e le creature
sovrannaturali, non posso spiegarlo in questa sede, perchè
sarebbe uno spoiler al primo capitolo, quindi rimando le spiegazioni
alla prossima volta xD
Posso solo anticipare che ogni capitolo avrà protagonisti
diversi, a turno, e che ognuno avrà una situazione diversa
da
raccontare e, chissà, forse alla fine si incontreranno
tutti. Ho
bei progettini al riguardo dehe :D
Avverto per la presenza di crack pairing, che non vi anticipo
perchè sono curiosa di vedere come ne prenderete alcuni xD
Con gli avvertimenti ho finito. Ho come obiettivo il terminare questa
fic, perchè grossomodo ho la storia già tutta in
testa.
Spero davvero che avrete voglia di seguirmi *inchin* (_ _)
Infine, vorrei ringraziare tantissimo Enrica, che ha ascoltato i miei
vaneggiamenti e i miei fangirlamenti campati in aria mentre ideavo la
trama e qualche particolare. Grazie davvero <3 E intanto gongolo
perchè lo sto facendo online (?) buahahahahahah!!
Detto ciò, visto che come al solito le note stanno
diventando più lunghe del capitolo, mi ritiro xD
Alla prossima, grazie mille per aver letto <3 *porge biscotti*
Un pezzo di pane e qualche mela.
Espirò pesantemente. Non poteva aspettarsi molto di più, da un villaggio di
contadini, con i tempi che giravano. Decise che si sarebbe accontentato, e a
passo svelto, silenzioso come suo solito, si diresse verso l’unica locanda che
aveva intravisto mentre si dirigeva dalle parti del
mercato, che tra l’altro aveva trovato semivuoto.
Niente di che. Una baracca, più che altro. L’insegna di legno dondolava al
vento, gonfia d’umidità e rovinata dal tempo.
Si tirò il cappuccio più giù ed entrò, giusto in tempo per vedere un manipolo
di Guardie della Corona uscire tra risate e schiamazzi, lasciando la locanda
nel caos più totale.
I suoi occhi vagarono sullo spettacolo pietoso: tavoli rovesciati, avventori
stesi a terra e garzoni attaccati alla parete, tremanti nelle loro scialbe
divise sporche di olio e vino.
Si fece avanti in silenzio, aiutando quello che apparentemente sembrava il
padrone della locanda (spalle larghe, capelli ondulati di uno strano colore
marrone chiaro e grandi occhi color nocciola) ad alzare un paio di tavoli e
qualche sedia. In cambio ricevette un paio d’occhiate riconoscenti, mentre
l’uomo (avrà avuto poco più di quarant’anni),
commentava con un basso –Basta che non mi facciano
chiudere.- seguito da una mezza risatina per stemperare la tensione.
Non replicò. Per quanto lo riguardava, più le Guardie della Corona gli stavano
lontano e meglio era, per la sua sicurezza e soprattutto per la loro.
-Non c’è molta gente.- si limitò a constatare,
guardandosi attorno: quei pochi clienti che erano presenti al suo arrivo erano
fuggiti a gambe levate appena avevano potuto, e probabilmente anche senza
pagare.
L’altro parve rabbuiarsi –Hanno portato via tutti i dominatori della terra del
villaggio.- disse –E’ rimasto chi ancora non è in grado di esercitare il
potere. O chi non lo ha mai esercitato.- si portò una mano al petto –A parte
qualche viandante, siamo rimasti in pochi, qui.- lo sguardo dell’uomo passò sui
suoi aiutanti, che stavano terminando di mettere in ordine –Facciamo quel che
possiamo.- concluse, pulendosi le mani sul grembiule –Allora, era qui per
mangiare o prendere una stanza, signor…?-
-Kyousuke.-
rispose secco il ragazzo, osservando lo sguardo buono
del capo locandiere da sotto il cappuccio –Per prendere una camera. Devo
fermarmi per una notte.- spiegò laconico, porgendogli un piccolo sacchetto –Mi
mostra la stanza?- chiese quindi.
L’uomo soppesò il contenuto del sacchetto, sgranando gli
occhi –C-Certo, da questa parte.- fece strada. Proprio mentre stava per
mettere piede sul primo gradino della scala che conduceva al piano di sopra,
però, si fermò –Signor Lionel!- lo richiamò una voce.
Quello si voltò, aggrottando le sopracciglia, mentre un ragazzo di non più di
diciassette anni, dai capelli ondulati di un castano sbiadito e gli occhi color
nocciola (Kyousuke si stupì di quanto le poche
persone di quel villaggio si somigliassero tra loro), lo raggiungeva. Si piegò
sulle ginocchia, ansimando. Poi alzò lo sguardo –Cosa è
successo? Ho visto le Guardie qui fuori!- esclamò, accorato, sul
volto disegnata un’espressione parecchio preoccupata.
Il capo locandiere (ufficialmente Signor Lionel),
scrollò le spalle –E’ tutto a posto, Takuto.- gli
rivolse un sorriso gentile, passando una mano tra i suoi capelli,
scompigliandoglieli –La solita giornata rumorosa.- si sciolse in una risata che
rimbombò nelle orecchie di Kyousuke.
Il ragazzo socchiuse gli occhi, stringendo i pugni –Hanno
di nuovo messo sottosopra il locale?- chiese, guardandosi attorno, e prima che
l’altro potesse rispondere grugnì un –Devono smetterla. Non possono
trattarci così, non ne hanno il diritto.- alzò lo sguardo sul più grande
–Perché non dice niente?- -Takuto…- sospirò il Signor Lionel,
facendo per replicare, ma la mezza risatina di Kyousuke
lo interruppe, facendoli voltare entrambi.
-Scusi?- tale Takuto inarcò un sopracciglio, le
labbra strette, cercando di trafiggere il ragazzo incappucciato con lo sguardo.
Quello, per tutta risposta, scosse la testa, lasciando che l’ultimo sbuffo
divertito fuoriuscisse dalle sue labbra –E secondo te le Guardie della Corona
si farebbero intimorire da un locandiere e un ragazzino? Che tra l’altro non dominano nemmeno la terra?- incrociò le braccia al petto. Takuto fece per dire altro, ma infine si risolse ad
avvampare di rabbia –E cosa suggeriresti di fare, tu,
che nemmeno hai idea di cosa stiamo passando, noi, qui?- sibilò, mentre il
Signor Lionel tentava di calmarlo in qualche modo.
-Sii realista. Sfidando le Guardie rischieresti solo di mettere ulteriormente
in pericolo gli abitanti di questo villaggio.- replicò Kyousuke,
questa volta serio, mentre scrutava Takuto da sotto la stoffa leggera del cappuccio. Talmente serio che l’altro ragazzo non potè fare altro che
stringere ulteriormente i pugni e rimanere in silenzio.
Abbassò il capo di modo che la frangia gli coprisse gli occhi –E quindi dovremmo rimanere loro schiavi per sempre, chiusi qui
dentro?- tremava –E’ insopportabile!- abbaiò, alzando gli occhi all’improvviso.
Quindi indietreggiò ed uscì dalla locanda di corsa.
-Perdonalo.- sussurrò il capo locandiere, dopo aver tirato un lungo sospiro,
tornando a salire le scale, dando le spalle a Kyousuke
–Sua madre e suo padre sono stati portati via dalle Guardie. Non lo biasimo per
la sua voglia di ribellarsi.- sorrise mesto.
Il più piccolo non disse altro. Trovava stupida l’idea di ribellarsi alle
truppe dell’Impero. Erano formate interamente da dominatori esperti.
Specialmente Maestri di Dominio. Il che significava non avere alcuna
possibilità di riuscita contro uno di loro. Figurarsi
contro un manipolo. Specialmente quando non avevi nulla con
cui difenderti. “Evidentemente quel ragazzo è convinto di non avere
nulla da perdere” pensò con un sorriso amaro Kyousuke.
Lui qualcosa da perdere l’aveva avuta. E aveva
paura che non fosse più recuperabile.
L’Impero aveva oramai esteso i suoi artigli
sulla maggior parte del territorio del Continente. Non c’erano cittadine o
villaggi salvi dalle sue grinfie, tutti in qualche modo gli erano sottoposti o
avevano nei suoi riguardi un debito incolmabile.
Le città più estese e ricche non avevano alcun tipo di
problema, anzi, dalla guerra traevano qualche vantaggio. Il problema era
per i piccoli paesi, dal quale l’Impero pretendeva forza lavoro e raccolto, e
spesso anche dominatori per rimpolpare l’esercito delle Guardie della Corona.
Molti venivano anche spediti nelle miniere, se erano fortunati e non erano
costretti a combattere contro i propri villaggi e le proprie
famiglie.
Ciò a cui aspirava l’Impero, però, era avere il completo monopolio dei Maestri
di Dominio. Uomini in grado di esercitare il loro potere
sugli elementi senza bisogno di fonti esterne, in grado di generarli dal nulla.
Le loro abilità erano quanto di più simile alla magia rimanesse
nel Continente. Molti di loro si erano uniti spontaneamente
alle forze imperiali, e per questo la loro categoria era ormai vista in
malo modo dovunque. Ma nessuno sapeva che cosa avessero
intenzione di fare esattamente, una volta raccolto il maggior numero di
Maestri.
Nemmeno Kyousuke ne aveva idea.
I Maestri di Dominio, rispetto alla popolazione del Continente, erano in
minoranza. Esisteva chi nasceva già con l’abilità di autogenerare il proprio elemento, e chi invece aveva
bisogno di anni e anni di studio intenso e pratica con il dominio. Ogni essere umano veniva al mondo con le capacità di usufruire del
dominio. Acqua, fuoco, vento o aria lo decidevano la
propria discendenza e le attitudini naturali. In ogni caso, riuscire ad averne
il pieno controllo era un’impresa del tutto ardua, visto
e considerato che non tutti gli esseri umani sono in grado di portarsi ad un
livello di simbiosi con la natura circostante.
Molte persone preferivano lasciare il proprio potere allo stato di base e non
usufruirne, anche se spesso si rivelava decisamente
utile, che fosse per lavoro o anche per svolgere azioni quotidiane.
In ogni caso, essendo i villaggi più piccoli spesso pieni di buoni dominatori,
fortificati dai lavori fisici nei campi o nelle miniere, l’Impero non poteva
permettersi di lasciarli incustoditi, così inviava ogni sei mesi un cambio di
Guardie della Corona che li controllassero e che
riscuotessero il dovuto di uomini e raccolti.
L’unica cosa che Kyousuke non riusciva a spiegarsi,
era come mai in quel preciso villaggio ce ne fossero
così tanti.
Ogni via era presidiata da almeno una Guardia, il volto celato dagli elmi fini
e leggeri, il busto stretto nell’armatura argentata riportante il simbolo
dell’Impero (due ali da tre piume appuntite di colore bianco), il mantello
rosso che a prima vista pareva pesante come un tappeto. I Maestri di Dominio,
se mai indossavano un’armatura, portavano il mantello blu, per distinguerli dal
resto dell’esercito e ricordare agli altri comuni dominatori quanto fossero inferiori rispetto a loro nonostante si trovassero
sotto la guida dello stesso comandante.
Un sorrisetto sarcastico comparve sulle labbra di Kyousuke,
mentre percorreva le strade vuote del villaggio senza una meta precisa.
Era ormai il tramonto, e a quell’ora la cittadina gli
sembrava ancora più triste di quanto non fosse di giorno.
Ad un certo punto la sua attenzione venne attirata da
un vociare poco distante. Tenendosi all’ombra dei palazzi per non farsi notare,
si avvicinò, incuriosito. Attraversò un paio di stradine laterali, fino a che, facendo
capolino da un angolo, la schiena poggiata al muro dell’edificio dietro di lui,
inquadrò una piccola piazza. Due Guardie dal mantello rosso, un uomo,
una donna e un bambino, tutti e tre con i capelli di quell’insolito castano
sbiadito si trovavano, al centro, vicino a quella che una volta doveva essere
la gogna del villaggio, ormai ben rovinata. Scorse da sotto il cappuccio varie teste affacciarsi dalle
finestre delle case tutt’attorno alla piazza, occhi sbirciare furtivamente
dagli angoli, persone che camminavano velocemente per allontanarsi.
Ma il silenzio era assoluto.
-Questo bambino è un dominatore.- sentì dire ad una delle due Guardie, che con
uno strattone attirò il bambino, che non aveva più di
otto anni, a sé, strappandolo alle braccia della donna.
Quella si buttò in ginocchio –Vi prego, è solo un
bambino… Non può nuocere a nessuno…- si tese verso il piccolo, che allungò le
manine verso di lei.
L’altra Guardia la ricacciò riluttante indietro con il piede, allontanando
ulteriormente il piccolo –Aspetta qualche anno e vedrai come potrà nuocere a
voi.- ghignò, prendendogli le guance tra le dita e voltandolo da una parte
e dall’altra come fosse merce di scambio. Il bambino ingoiò le lacrime, stringendo le labbra –Potrebbe crescere
bene. Un ottimo acquisto per noi Guardie. Non credi?- si rivolse al compagno,
che nel frattempo aveva steso con una ginocchiata l’uomo, probabilmente il
padre del ragazzino. Quello scrollò le spalle e si aprì in un sorriso
eccessivamente mellifluo. Si voltò di nuovo verso la coppia a
terra –Pensateci. Il ragazzo verrebbe di certo
nutrito meglio che dentro questo schifo di villaggio, al Comando. E
diventerebbe l’orgoglio della mamma e del papà per essere entrato tra le fila
delle Guardie.- spiegò come se ai due genitori fosse data la possibilità di
scegliere per il futuro di loro figlio. Kyousukesi irrigidì dietro
l’angolo, serrando e rilasciando i pugni, mentre il pianto della donna gli
entrava con prepotenza nelle orecchie.
Si costrinse a non guardare oltre, e quando tornò ad affacciarsi, le Guardie,
le teste dietro le finestre, gli occhi che sbirciavano e i passi veloci di
persone nascoste non c’erano più. Rimanevano l’uomo, riverso su sé stesso, le mani a tenersi lo stomaco, e la donna, che con
i palmi premuti sugli occhi continuava a piangere sommessamente.
Si tirò il cappuccio più giù che poteva e fece per tornare alla locanda, quando
una voce conosciuta tornò a farlo voltare. Takuto, il
ragazzo di quella mattina, era corso verso la coppia chiamando i due per nome,
e adesso ascoltava basito, tra un singhiozzo e l’altro della donna, quello che
era successo.
Lo vide scuotere la donna
–Lo hanno preso? Dove lo hanno portato? Irenee,
dove lo hanno portato?- chiese concitato. Kyousuke non potè fare a meno di notare il tremito delle
sue mani mentre sorreggeva la madre del bambino che
era stato portato via.
Poi voltò lo sguardo e tornò indietro.
Lionel
era dietro al bancone, quando finalmente Kyousuke
rientrò alla locanda. Stava pulendo il ripiano in
legno con un panno umido, lo sguardo basso e il volto scuro.
Presupponendo il motivo, il ragazzo fece per dirigersi direttamente alla stanza
che gli aveva assegnato il capo locandiere (che tra l’altro era l’unica ad
essere occupata). Ma evidentemente quella non poteva
essere una giornata tranquilla.
Come se la gente che corresse e gridasse fosse del tutto normale, lì al
villaggio (e come se non ne avesse sentite o viste
abbastanza), una ragazza entrò strillando nel modo più acuto e sottile che Kyousuke avesse mai sentito –Vuole andare a prenderlo!- si
aggrappò al bancone, la voce un basso lamento, rischiando di rovinare a terra
–Vuole andare a prendere Jun!- aveva preso a scuotere
la testa –Non sono riuscita a fermarlo, è già andato, vuole riprenderlo. Non ce
la può fare, Lionel, Takuto
non ce la può fare…- rantolava tra un ansito e
l’altro, mentre il suo colorito diventava man mano più bianco. Kyousuke sgranò gli occhi quando
sentì il nome di Takuto. Allora alla fine aveva
davvero deciso di mettersi contro le Guardie. Si ritrovò a scuotere impercettibilmente
il capo.
Il locandiere scavalcò il bancone per sorreggere la giovane, e lei si aggrappò
al suo grembiule –Porteranno via anche lui…- si morse
il labbro, mentre Lionel tentava invano di calmarla –Lionel, vallo a prendere…- singhiozzò, affondando il volto
tra le braccia del più grande. -Akane! Dov’è? Dov’è che tengono Jun?-le chiese, le
sopracciglia aggrottate in un’espressione ansiosa e preoccupata al tempo
stesso.
La ragazza non sembrò afferrare per bene, tant’è che
gli occhi le si erano già velati –A-Al
vecchio capannone…- riuscì a soffiare prima di cadere svenuta. Lionel espirò dal naso e prese in braccio Akane. Si guardò intorno e, inquadrato Kyousuke,
si diresse verso di lui a passo svelto –Ho bisogno di
un favore.- disse solo, porgendogli la ragazza.
Solo in quel momento Kyousuke, che non aveva potuto
fare a meno di ascoltare, notò la carnagione bianca, i
capelli del solito colore chiaro raccolti in due piccole trecce; gli occhi però
erano di un colore simile al lilla. Alzò lo sguardo sul locandiere e tese le
braccia per prenderla. -Akaneè di salute
cagionevole. Ti prego solo di portarla al piano di sopra e di metterla a letto.
Non c’è tempo.- disse solo, facendo per correre fuori dalla
locanda. Kyousuke respirava piano, mentre guardava le spalle
del più grande alzarsi ed abbassarsi al ritmo della sua corsa. Gli ricordarono un altro paio di spalle.
–Lionel.- disse
solo, richiamando la sua attenzione. Si riavvicinò all’uomo, fermo sulla soglia
della porta, e gli rimise Akane tra le mani –Vado
io.- concluse.
-Cos…-
-Non c’è tempo.- ribadì il ragazzo –Dov’è questo
capannone?- e ad un tintinnio metallico proveniente da sotto il mantello del
più giovane, il locandiere decise che sarebbe stato meglio dirgli cosa fare.
Il vecchio capannone, così chiamato dagli abitanti del villaggio, non era altro
che un deposito per il raccolto oramai inutilizzato, visto che la maggiorparte dei prodotti presenti lì venivano presi
dall’Impero.
Veniva ricordato come il luogo in cui erano stati radunati i dominatori la
prima volta che le Guardie della Corona erano venuti a prenderli per portarli
all’esercito, e così, ogni qualvolta un nuovo dominatore mostrava le sue
capacità, veniva rinchiuso lì fino a che il corriere diretto al Comando non
passava per ritirarlo.
Come fosse un pacco.
Il deposito era lungo almeno una ventina di metri e largo una quindicina, ed
era stato rivestito in ferro di modo che i dominatori della terra non potessero
combinarci niente. Anche parecchi metri di terra
attorno all’edificio erano stati pavimentati, così da evitare sommosse. Takuto aveva percorso l’intero perimetro in cerca di
un’entrata secondaria, e tutto ciò che aveva trovato erano state le piccole
finestre, situate a circa tre metri e mezzo da terra, che un tempo avevano permesso al raccolto di non andare a male dopo un
pomeriggio.
Imprecò a denti stretti, mentre sbirciava l’ingresso, dove le due Guardie che
avevano portato via il piccolo Jun giocavano a dadi
come se nulla fosse.
Sentì la rabbia ribollirgli nelle vene.
Valutò la situazione. Due Guardie contro un ragazzo.
Chissà che tipo di dominatori erano.
Fossero stati dominatori del fuoco, il loro potere sarebbe stato del tutto
inutile, ragionò, visto che di fuoco lì intorno non ce ne era.
E nemmeno acqua. Improbabile che
fossero dominatori della terra. Di certo dovevano riuscire a controllare
l’aria. E, diamine, di aria lì intorno ce ne era
quanta volevano.
Fece per tornare indietro e cercare una finestra più bassa, o una scala per
arrivare a quelle più alte (o anche un dannato albero), ma
andò a sbattere contro qualcuno.
-Ah.- la voce gracchiante della Guardia lo colse alla sprovvista –Guarda un
po’. Ancora tu.- sorrise, sgranchendosi le spalle.
Gli occhi sgranati per la sorpresa, il più piccolo indietreggiò, ma –Ops. Preso.- ghignò la seconda Guardia, afferrandolo sotto
le braccia.
Bene.
No, davvero. Bene.
Che diamine se l’era fatto a fare il perimetro se poi quelli lo beccavano con
tanta facilità?
Prese a dimenarsi, tentando di divincolarsi.
Ovviamente inutile.
Con un gesto veloce della mano, la Guardia che ancora lo teneva ben stretto
esercitò il suo dominio. Non che ce ne fosse mai stato bisogno, lì al
villaggio, dove tutti obbedivano ciecamente all’Impero, pensò Takuto con un sorriso amaro, mentre sentiva l’aria
mancargli.
Dannata Guardia. Dannato dominio. Dannato impero.
Una delle peculiarità del dominio dell’aria era che,
chi fosse capace di manovrarla, fosse anche in grado di privarne gli altri. Di annullarla come se non ci fosse mai stata. Takuto annaspava, mentre l’ossigeno diminuiva
velocemente. Si aggrappò al braccio dell’uomo in un ultimo, disperato e inutile
tentativo. Pensò tristemente a come Jun non
sarebbe più tornato a casa, inghiottito nel sistema dell’Impero,
condannato a lottare contro la sua volontà. A come il suo villaggio sarebbe
stato sfruttato fino a che non fosse rimasto più nessuno. A quanto lui stesso fosse debole, perché, diciamocelo, aveva fatto davvero una
brutta figura.
Stava giusto per dare ragione a quel viandante incappucciato della locanda,
quando sentì l’aria invadergli prepotentemente le narici e bruciargli in gola,
mentre le presa della Guardia si scioglieva.
Ci fu un tonfo.
Si voltò, notando l’uomo svenuto ai suoi piedi.
Poi ci fu un grido. E un altro tonfo. QuandoTakuto si voltò
nuovamente, la testa che gli girava, notò che anche l’altra Guardia era a
terra.
Non ebbe tempo di chiedersi cosa stesse succedendo,
perché qualcuno gli prese con violenza il polso, trascinandolo via. Lo portò
dietro il primo angolo –Non fare idiozie. E’ un
concetto difficile da concepire?- sibilò una figura incappucciata vicino
a lui.
Ci mise qualche secondo ad inquadrarla –Tu?- sibilò.
Ma la mano del ragazzo misterioso premette sulle sue labbra –Ne
arrivano altri.- lo vide affacciarsi –Arrivano tutti gli altri.-
e la sua affermazione venne seguita da un rumore metallico di passi –Rimani
qui.- gli intimò, quindi lo vide sparire oltre l’angolo.
Passarono un paio di secondi e lo vide sgusciare agilmente verso la fine della
pavimentazione attorno al deposito, seguito da una dozzina di Guardie.
Ovviamente, ShindouTakuto
non sarebbe rimasto a guardare un tizio sconosciuto (e
probabilmente montato) fare tutto da solo. E ovviamente, senza tenere conto delle indicazioni,
seguì l’incappucciato verso il terreno, il suo amato terreno.
Solo quando fu abbastanza vicino notò che il suo inaspettato compagno di
combattimento stava maneggiando due lame gemelle ricurve con la facilità con
cui si utilizzano le bacchette per mangiare, ed aveva già steso tre Guardie. Bhè, non era di certo più figo.
Si tolse le scarpe mentre finalmente lo raggiungeva,
poggiando le piante dei piedi sulla terra nuda, godendo del lieve dolore dei
sassi sotto la sua pelle.
-Oh, alla buon ora.- commentò tiziosenzanome,
calciando sul muso un soldato, spedendolo dritto a terra, per poi girare su sé
stesso e colpire al naso un’altra Guardia con il piatto della spada, evitando
che prendesse Takuto con un’onda d’urto.
Passando sopra l’incredibile agilità di quel tipo, Takuto
storse le labbra in una smorfia –Bhè?- chiese, piccato,
schivando una folata di vento decisamentenon
normale. Ma che voleva? Non gli aveva detto di
rimanere al suo posto?
-Se ti avessi detto di seguirmi l’avresti fatto?- si
limitò a chiedere quello, come leggendogli nel pensiero, torcendo il braccio di
una Guardia dietro la schiena, atterrandola. -Bhè.- Takuto inclinò il
capo di lato. In effetti non l’avrebbe fatto.
La cosa tremendamente irritante era che l’incappucciato disquisiva
amorevolmente nonostante dei diretti sottoposti
dell’Impero lo volessero fare a fette. Quello stesso
incappucciato che gli aveva sconsigliato di fare una cosa del genere. Ma guarda un po’ te.
-Ora renditi pure utile, magari.- gli
intimò. Simpaticissimo.
-Sei un dominatore della terra, no?- aggiunse, mandando al tappeto un altro
paio di Guardie come fossero insetti fastidiosi.
Era profondamente irritante la velocità con cui riusciva a –Cosa?- il flusso
dei suoi pensieri venne bruscamente interrotto –Tch, e che vorresti saperne tu?- replicò il ragazzo dai
capelli castani, nascondendo la sorpresa (come aveva fato ad accorgersene?),
mentre con un paio di movimenti veloci delle mani faceva si che un pezzo di
terreno letteralmente si staccasse, per poi spedirlo dritto sulla brutta faccia
di un’altra Guardia con un altro ondeggiare delle braccia. Gli scappò un
sorrisino di soddisfazione. Quanto aveva desiderato farlo.
Ormai schiena contro schiena, sentì la vibrazione di
una risatina salirgli su per la spina dorsale. Rabbrividì –Hai tolto le
scarpe.- sentì il rumore di lame che si scontravano mescolarsi alla voce dell'altro –Ma suppongo quel masso si sia staccato da terra da
solo.- prima che potesse replicare una qualsiasi cosa, percepì l’incappucciato
dividersi da lui, probabilmente per effettuare un salto.
Senza le sue spalle a sorreggere le sue, per un attimo un terrore acuto gli
attanagliò le viscere.
Ma non ebbe tempo di pensare, perché altre tre Guardie (ma quante diamine erano?!) gli stavano praticamente addosso.
-Un altro dominatore della terra. Ti sei nascosto bene, ma ora farai la fine
dei tuoi amici.- minacciò una.
Due secondi dopo era al suolo, svenuta.
Lanciando un sassolino in aria, Takutosbuffò –Dicevi?- poi scagliò quello stesso sassolino contro
il secondo soldato. Aiutato dal proprio dominio, che vi impresse
una velocità nettamente maggiore, riuscì a far cadere anche quello.
Era una sensazione meravigliosa. Muoversi, sentire i muscoli
tendersi, reagire ad ogni minimo segnale di pericolo.
Passò qualche secondo, e sentì di nuovo la schiena dell’altro sulla sua. Ansimavano entrambi per lo sforzo.
-Dobbiamo… Andare a prendere Jun.- ricordò Takuto dopo un paio di minuti di silenzio. Si guardava
attorno basito. Più di una ventina di Guardie era stesa a terra, priva di
sensi.
Non riusciva ancora a credere di averlo
fatto davvero.
Aveva utilizzato il proprio dominio (il suo amato dominio) di fronte a un manipolo di Guardie dopo aver passato anni a
nasconderlo. Ma non poteva sentirsi meglio di così.
Non pareva dovessero arrivarne altre, quindi pensò fosse per
questo che l’altro gli rispose con un –Va bene.- secco.
Voltandosi per fargli cenno di seguirlo, si accorse solo in quel momento che il
cappuccio era scivolato all’indietro e adesso lo straniero aveva un volto.
I capelli di un blu scuro erano tenuti su non si sa in
quale modo (aveva intravisto una sorta di coda, poi), e due ciuffi gli
incorniciavano il volto magro. Un paio di occhi di un
arancione particolarmente acceso, dalle pupille incredibilmente fine e
circondati da ciglia lunghe, spiccavano sulla carnagione decisamente chiara. Lo
vide sistemarsi le lame alla cintura.
Il castano voltò subito lo sguardo, sapendo
che fissare gli sconosciuti non è buona cosa, e prese
a camminare di buon passo verso il capannone.
Era aperto (probabilmente le Guardie non si aspettavano una resistenza del
genere), quindi fu facile entrare.
L’interno era ovviamente spazioso, pieno di casse di legno inutilizzate, molte rovinate, un tempo destinate a contenere il raccolto.
Il piccolo Jun era in fondo alla struttura, le
ginocchia al petto. Quando la porta si era aperta, si era fatto piccolo su sé stesso. Ma vedendo chi fosse, il
suo sguardo si era illuminato –Takuto!- urlò con la
vocina sottile, alzandosi e facendo per corrergli incontro.
Fu a quel punto che la Guardia uscì.
Evidentemente si era appostata dietro una cassa e aspettava solo il momento
giusto. Doveva aver visto i suoi compagni a terra. Takuto la vide davanti a sé, tremendamente vicina,
una spada in mano.
Pietrificato dalla sorpresa e dal panico, si accorse solo
quando cadde a terra che l’ex incappucciato l’aveva spinto via, aveva
fermato la lama del soldato con una mano, deviandola, e con una testata ben
piantata l’aveva mandato ko. -Takuto! Takuto!-
continuava ad urlare Jun, che riuscì a catapultarsi
tra le braccia del ragazzo, riuscendo finalmente a sciogliersi in lacrime,
stringendo i pugnetti sulla maglia del più grande.
L’altro, ancora sconcertato, lo strinse a sé –Va tutto
bene. E’ tutto ok.- disse piano, accarezzandogli i capelli –E’ tutto ok.-
La donna piangeva (Kyousuke
pensò che fosse una cosa del tutto naturale, visto che pareva non avere mai
smesso) di gioia, stringendo Jun al petto quasi fino
a soffocarlo.
-Non so come ringraziarti, Takuto.- si fece avanti
l’uomo, abbracciando il ragazzo.
-Non è stato solo merito mio.- masticò un po’ contrariato quello, ammiccando
allo sconosciuto che, il cappuccio di nuovo tirato sulla testa, se ne stava in
disparte, le braccia conserte.
-Grazie anche a te, allora.- sorrise l’uomo, chinando il capo. Kyousuke scrollò le spalle.
Osservò la famiglia tornare a casa, e si lasciò scappare un mezzo sorrisetto. Trasalì quando si sentì afferrare la mano, e si
ritrovò Takuto a qualche centimetro, che con occhio
clinico gli esaminava il palmo –Ti sei ferito.- constatò, ammiccando al taglio,
da cui scendeva ancora un po’ di sangue, che il ragazzo si era fatto quando
aveva afferrato la spada della Guardia per deviarla.
Si divincolò dalla presa –Non è niente.- tagliò corto
–E-ehi, ma che cosa stai facen…-
senza aver tempo di fare altro, il castano gli aveva nuovamente preso il palmo
tra le mani e, aprendoglielo per bene, aveva passato la lingua sulla ferita.
Una, due, tre volte. Kyousuke era sbiancato (per quanto la sua carnagione
glielo consentisse), inorridendo. Quel tipo lo stava leccando. Lo stava… Non
potè fare a meno di percepire una sensazione di incredibile
freschezza, lì dove Takuto aveva passato la lingua.
Ammutolito (e anche abbastanza piccato) alzò il palmo quando
il castano si decise a lasciarlo, seccato.
Sgranò gli occhi -… Si è cicatrizzata.- biascicò, il volto ormai scoperto,
visto che il cappuccio era scivolato giù quando aveva
cercato di divincolarsi.
-Ma allora sei sveglio.- sbottò Takuto che, sviando
lo sguardo dell’altro, tentava di pulirsi la lingua con la mano, abbastanza
schifato –Il tuo sangue ha un sapore orribile.- gli fece notare.
-Non ti ho chiesto di… di fare questa cosa.
Mi hai..Mi
hai leccat--!!
-Un “grazie, Takuto”
può anche bastare. Prego.- Roteò gli occhi l’altro, per poi avviarsi
verso la locanda.
Kyousuke
socchiuse gli occhi, risoluto –Devi spiegarmi che cosa mi hai fatto.-
-Prego? Discendente di cosa?- Kyousuke, di norma, era una persona del tutto seria. Con i piedi per terra ed
anche realista. Ma quello che Lionel
gli stava spiegando non aveva minimamente senso in nessuno dei due modi.
Il capo locandiere rise di gusto –Siamo discendenti di una stirpe nata dai lupi
che vivevano nelle montagne a nord del Continente.- ribadì,
annuendo. Akane, che si era ripresa ed era scesa al piano di
sotto della locanda, inclinò il capo di lato –Oramai, il sangue di lupo che
abbiamo in corpo è pochissimo, specialmente dopo che le prime specie ebbero
contatti con i cani selvatici delle montagne ad est.- continuò la spiegazione,
gli occhi socchiusi e le labbra stiracchiate in un sorriso placido e gentile –Inizialmente,
secoli fa, cani e lupi, nella notte di Luna Nuova, avevano le capacità di
trasformarsi in esseri umani.- allargò il sorriso in
direzione di Kyousuke, che faticava a stare dietro al
discorso. Takuto sbuffò contrariato.
-Noi siamo i diretti discendenti di queste specie, che
hanno avuto modo di accoppiarsi anche con esseri umani durante le notti di Luna
Piena.- riprese la parola Lionel –Non possiamo
trasformarci o fare cose di questo tipo, ma la nostra saliva ha un potere
curativo eccellente.- annuì.
-Ecco perché ci sono così tante Guardie, nel villaggio. Diciamo
che siamo la principale fonte medica del Continente.- arrossì Akane, distogliendo lo sguardo. Kyousukeannuì –Capisco.-
disse, un po’ più convinto, rimirandosi il palmo della mano –E’ stupefacente.-
commentò.
-Direi!- annuì il capo locandiere –E dire che era da decenni che non si stringeva un patto, qui
al villaggio!- esclamò, battendo una mano sul tavolo. Takuto arrossì appena e borbottò qualcosa di incomprensibile.
-Un patto?- Kyousuke socchiuse gli occhi, non
capendo. -Mh.- tornò ad annuire l’uomo –Hai salvato la vita a Takuto. Per uno di noi è il dono più grande che possa
essere fatto. E poi, ti ha guarito di sua spontanea
volontà.-
Il ragazzo dai capelli blu continuava a non comprendere –E quindi?-
Il giovane preso in causa picchiò il palmo sul tavolo -Ti devo la vita.- disse
solo, spostando lo sguardo color nocciola in quello arancione di Kyousuke –E’ mio preciso dovere ricambiare.- “e purtroppo
buttarti dalla finestra e poi cercare di salvarti non vale”, aggiunse tra sé e
sé –E guarendo la tua ferita non ho fatto altro che potenziare il patto. Ora…-
arricciò il naso -… Sono tuo.- battè la fronte sul legno del tavolo. Kyousuke per poco non si strozzò con la sua stessa
saliva –Ossia?-
-Semplice. Finchè non ricambierà il favore,
salvandoti la vita, Takuto avrà il preciso dovere di
restare al tuo fianco, per accompagnarti e proteggerti.- concluse Lionel.
-Come un cane.- sottolineòKyousuke,
che trovava dannatamente complicato metabolizzare.
-Come un fiero lupo.- ridacchiò il locandiere.
-E se mi rifiutassi?- Akane sorrise –Tu puoi. Lui no.-
Oh, bhè. Perfetto. Davvero.
*
Salve a tutti!
Finalmente aggiorno! (e si che questo capitolo è
pronto da quasi due mesi, ma-- *si nasconde*) perdonate il ritardo, davvero *inchino*, so di essere lenta, ma cercherò in tutti i modi
di finire le mie long, quindi per favore, non smettete di seguirmi *annuisce*, mi velocizzerò, promesso!
Innanzitutto, vorrei ringraziarvi davvero tanto: avete letto il prologo in
tantissimi; in moltissimi avete recensito, e ancora in tanti avete aggiunto la
fic alle seguite, alle preferite e alle ricordate *regala cioccolatini*,
spero che la fiducia riposta non venga delusa *si inchina a raffica*
Allora. Questo capitolo vede come protagonisti Kyousuke
e Takuto. Come accennavo nel
Prologo, l’idea per questa fic mi è venuta, principalmente, leggendo un
manga yaoi di nome “The wolves
mountain”, dove uno dei due protagonisti, un mezzo lupo, era in grado di curare
con la propria saliva le ferite altrui. Durante uno dei miei deliri KyouTaku, bhè, mi è preso lo
schiribizzo di volerlo far fare anche a Takuto, e diciamo che, da lì, ho costruito poi tutta la storia (o,
almeno, la storia di Kyousuke e Takuto,
visto che non sono i soli protagonisti).
Ho cominciato a delineare un minimo la situazione del “Continente”,
il luogo dove si svolgeranno gli eventi principali, e a dare un’idea del tipo
di governo che al momento vige in esso. Amo il fantasy, e spero vivamente di
aver reso bene la mia idea!
Allora, che ne dite, ci sta Takuto come Dominatore
della Terra? Saranno i capelli, ma ce lo vedo troppo ahah xD
Ci terrei a precisare che, per quanto nella storia siano in gioco i quattro
elementi come in Avatar, al di là di questo aspetto
non ci sarà nulla di attinente, questa fic non è né un crossover
né direttamente collegata al cartone animato in questione.
Detto questo, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e, se a qualcuno verrà voglia di recensire, mi farebbe piacere sapere se l’avete
trovato troppo lungo: in questo caso, provvederò ad accorciare i capitoli!
Nel prossimo, vi anticipo solo che ci sarà un certo tipo con i codini rosa, e
niente altro u.u spero che continuerete a seguirmi *A*!
Al prossimo capitolo!
Greta.
P.S.: presto arriverà anche qualche schizzo dei
personaggi, oh yeah! *fugge*
Il lavoro alla biblioteca era davvero noioso, a volte
IL QUINTO IMPERO
Masaki; Ranmaru
Gemini
era un grande centro, perno del Continente in quanto
ad articoli per alchimia e raffinerie di minerali. La popolazione era
costituita per la maggior parte da Dominatori dell’Aria, che perlopiù
lavoravano nelle raffinerie, ma molti erano anche i Dominatori dell’Acqua
provenienti dalla vicina città portuale di Scorpio,
che facevano tappa nella cittadina prima di ripartire alla volta della grande
strada che portava fino alla Capitale e che costeggiava il fianco di Gemini.
Un
fitto intrico di stradine e vicoli più o meno ampi
costituiva lo scheletro della città, una fitta rete in cui chiunque poteva
perdersi. Si diramavano dalla Grande Piazza, estendendosi come centinaia di
braccia allungate sino allo spasimo per afferrare qualcosa. Erano costeggiate
da edifici in marmo bianco che mano mano che si avvicinavano al centro della città diventavano
più scuri sulle tonalità del grigio, costruiti da architetti così capaci che
parevano, guardandoli, leggeri come una piuma, alti, dal tetto color terracotta
e pieni di grandi finestre dai vetri colorati, circondati ognuno da deliziosi
giardinetti di un verde acceso e brillante. Non c’era una stradina che non fosse costituita da ciottoli, un cornicione che non fosse
decorato a motivi svolazzanti. Gemini era una città ricca e fiorente, che stava
vivendo un’epoca di forti prosperità e sviluppo, che l’avevano
resa una delle Città-Perno del Continente. Lì non si sentiva mai parlare di
guerra, o di problemi, o di povertà: la maggior parte della popolazione viveva
nell’agiatezza, ed il ceto più basso era di certo molto più ricco di quello che
abitava i piccoli paeselli circostanti.
L’unica
stonatura in tutto quel benessere era di certo il clima sfavorevole per la
maggior parte dell’anno. Pioveva spesso, e tirava sempre un vento caldo che
arrivava dal mare. Per questo le giornate di sole, a Gemini, erano uno
spettacolo mozzafiato che nessuno teneva a perdersi.
A Masaki il maltempo piaceva, anche se quella brezza che
sapeva di afa proprio non la soffriva. Per questo
rimaneva spesso chiuso in biblioteca ad oziare e a stare fresco. E poi, al di fuori di Haruna e del
panettiere sulla strada per la Grande Piazza,
non conosceva molta gente.
La
biblioteca era un edificio grigiastro vicino al centro della città, incastrato
e compresso tra anonimi vicoletti e negozi di
souvenir, che durante le tempeste si confondeva con le nubi grigie cariche di
pioggia che sovrastavano Gemini e che raramente aveva qualche cliente.
Il
lavoro alla biblioteca era davvero noioso, a volte. Tutto quel silenzio a Masaki dava fastidio, e doverne essere il garante era
ancora più irritante.
Ma
quella piccola biblioteca al centro della città era tutto
ciò che aveva, e lavorarci era l’unico modo che aveva per ripagare Haruna della sua ospitalità, quindi sopportava il silenzio
e passava le sue giornate a dondolarsi su una sedia dietro ad un bancone,
aspettando dei clienti che di solito non arrivavano mai, visto che i libri
sulla magia interessavano ben poco, a gente che di magia non sentiva parlare da
decenni.
Spesso
Masaki si chiedeva come mai ancora non avessero
portato via adHaruna il
locale,visto che non facevano un soldo. Tutto ciò che sapeva era che la
biblioteca apparteneva alla famiglia della donna da generazioni, e che prima il
suo bisnonno, poi suo nonno, poi suo padre, poi suo fratello avevano
contribuito a riempirla con quanti più libri sulla magia fossero reperibili,
dopo il Grande Incendio che moltissimi anni prima aveva distrutto quasi tutto
il patrimonio magico del Continente.
Ma Masaki sapeva bene che i maghi non mettevano piede su
quelle terre da quasi due secoli, e un po’ comprendeva il perché gli abitanti
di Gemini non fossero attratti da quel posto, che comunque,
innegabilmente, lo affascinava parecchio. A volte si riscopriva curioso di
sapere di cosa parlassero quei libri. Ma non sapeva
leggere molto bene, quindi teneva il suo interesse per sé. A volte guardava le
immagini, ma ci capiva poco o niente. E poi quasi
tutti i libri illustrati erano sull’esercizio del Dominio, e tutti i libri
sull’esercizio del Dominio parlavano dell’aria, o al massimo dell’acqua,
elementi con cui lui non aveva nulla a che fare.
Un
tintinnio di campanelli fece voltare Masaki che,
guancia appoggiata al palmo della mano, si guardava distrattamente attorno,
distraendolo dai suoi pensieri. Subito il ragazzo si raddrizzò sulla sedia,
sperando in qualche nuovo cliente, ma le sue speranze si rivelarono vane.
Quando vide una testa rosa e un paio di occhi azzurri
attraversare la soglia della biblioteca, sbuffò pesantemente –Ah, sei tu.-
commentò svogliatamente, rilassando le spalle e storcendo le labbra in una
smorfia.
Un ragazzo sui diciotto, non troppo alto e con una cascata di capelli rosa
raccolti in una coda bassa da un fiocco, socchiuse gli occhi di un azzurro
acceso e stirò un sorriso tirato –Buongiorno anche a te.- salutò, con un cenno
del capo, avvicinandosi al bancone. Tra le braccia teneva cinque tomi di
modesto spessore. Li lasciò cadere sul ripiano in
legno, quindi si lisciò gli abiti di buona fattura che indossava.
Damerino di Gemini. Masaki
roteò gli occhi.
Quello si guardò attorno, non curandosi delle occhiate esasperate che Masaki gli lanciava,quindi chiese,
lisciandosi il mento –La rilegatura dei libri sulla Magia Antica è terminata? Li
trovo, in biblioteca?- il sorriso sul suo volto si stiracchiò ulteriormente, e
gli occhi presero a brillargli.
L’altro
sospirò sconsolato -Non tutti. Alcuni sono ancora dal
libraio. Purtroppo devi ripassare un
altro giorno.- borbottò, incrociando le braccia sul
bancone e affondandoci la faccia –Mi chiedo perché mai tu stia sempre qui
dentro. C’è il cielo lì fuori, il mercato, le ragazze. Devi proprio venire qui tutti i giorni?- domandò, la voce soffocata per via
della stoffa della casacca contro la quale era poggiata.
-Il
cielo è grigio, il mercato è luogo per governanti e le ragazze non si interessano di magia.- replicò quello calmo –Quelli già
rilegati posso averli?- domandò poi, tornando all’attacco.
Che
stress, quel tizio. Oramai era qualche mese che frequentava con costanza la
biblioteca. Pareva non avere null’altro da fare che sfogliare libri su libri di magia. Masaki odiava
stare lì a fissarlo mentre consultava tutto felice i
tomi di Haruna, assorto. All’inizio era stato
contento di vedere che qualcuno si degnava di entrare in quel posto a farsi una
cultura, ma poi aveva cominciato a trovare davvero irritante il ragazzo dai
capelli rosa. Gli faceva sempre domande su domande,
pensava di essere il più intelligente del paese ed era più alto di lui.
Si
era informato, Masaki: il suo nome era RanmaruKirino, figlio di un
nobile commerciante di diamanti, e di conseguenza uno degli scapoli più ricchi
e ambiti della città. Ma, a quanto raccontava Marceline, la moglie del fornaio, il ragazzo non era
assolutamente interessato all’attività di famiglia, né tanto meno a sistemarsi.
EMasaki lo sapeva bene,
visto che l’unica cosa che pareva importare a quel damerino era la magia. Haruna lo trovava un sacco simpatico. Lui non condivideva
il suo punto di vista.
Trattenendosi
dal risultare troppo maleducato, si alzò con una sorta di sbuffo dalla sedia e
si sgranchì la schiena, facendosi strada in mezzo agli
scaffali. Sapeva che l’altro lo stava seguendo, ma non spiccicò parola, e si
limitò a raggiungere sezione, scaffale e ripiano dove i libri richiesti si
trovavano. Conosceva la posizione di tutti a memoria, dopo dieci anni, ed
alzandosi in punta di piedi, estrasse i due tomi di Magia Antica che il
rilegatore aveva rimesso a nuovo.
Si
voltò –Quelli di Magia Antica sarebbe meglio se li
riportassi al più presto possibile.- raccomandò, porgendoli a Ranmaru, che annuì e li prese in mano contento come un
bimbo a cui si dà una caramella –Non che ci sia qualcun altro che li voglia
leggere, ma Haruna ci tiene particolarmente.- evitò
di dirgli che, di norma, i libri sulla Magia Antica sarebbero dovuti essere
consultati in biblioteca e che Haruna aveva concesso
a “quel gentile ragazzo che è Ranmaru” di portarli a
casa perché si fidava di lui.
-Comunque
preferirei cominciare a dar loro un’occhiata qui.-
precisò il ragazzo dai capelli rosa, annuendo. Masaki
alzò gli occhi al cielo –Se proprio ci tieni.- allargò le braccia e tornò verso
il bancone, preparandosi psicologicamente per le prossime ore in cui avrebbe
dovuto fissare quell’ossessionato di magia piegato in due sui libri.
Quando fuori si fece buio, Masaki vide Ranmaru chiudere uno dei due libri e stropicciarsi un
occhio. Distolse lo sguardo, perché aveva passato l’ultima ora a fissarlo e ad
ideare nuovi improperi nei suoi confronti, e fece finta di scribacchiare
qualcosa su un foglietto.
Sperò
che l’altro uscisse senza dire niente, ma fu costretto ad alzare lo sguardo quando alle orecchie gli giunse un –Haruna tra quanto arriva?-
Socchiuse
gli occhi –Doveva passare al mercato e fare un paio di giri. Ma credo che
ancora manchi tanto, pareva dovesse sbrigare faccende
importanti.- mentì. Non sopportava di stare rinchiuso per ore assieme a lui, e
visto che succedeva praticamente tutti i giorni,
voleva risparmiarselo almeno per una volta.
-Oh.-
Ranmaru parve dispiaciuto. Ma ritrovò subito il
sorriso, e sistemò i libri che aveva preso sul bancone –Posso
aspettarla, comunque, non è un problema.- il suo sorriso parve a Masaki quasi supplicante, ma non ci fece molto caso, troppo
disperato dalla notizia. Sospirò pesantemente –Pare che tu ti diverta a tediarmi.- lo riprese.
-Ma
che fastidio ti do.- replicò quello, voltandosi di
spalle e poggiando i gomiti al bancone, buttando indietro la testa –Non capisco
tutto questo astio nei miei confronti. Vengo qui solo
per leggere.- il tono era appena irritato.
Masaki non aveva una risposta –Bhè, non mi
vai molto a genio.-
-Ah,
si?-
-Si.
A pelle.-
Il
più grande scosse la testa e rimase in silenzio. Lo ruppe qualche minuto dopo
–Hanno condannato il Dominatore della Terra, comunque.-
bisbigliò quasi.
L’altro
represse un singulto e voltò sprezzante lo sguardo –E allora?- sibilò.
-Mi
sembrava di aver capito che ti interessasse. Ti ho sentito mentre ne parlavi con Haruna.-
alzò le spalle Ranmaru. Masaki
odiò l’indifferenza con cui gli stava parlando, e non riuscì a trattenersi
–Cos’è, si è guadagnato le celle di Gemini per via del
suo Dominio?- sputò, stringendo le labbra. Era risaputo che tra Dominatori
dell’Aria e Dominatori della Terra non era mai scorso
buon sangue. I due tipi di Dominio si escludevano a vicenda, erano agli
antipodi, aria in alto, terra in basso, aria leggera,
terra pesante. Non c’era tolleranza per i Dominatori della Terra, tra quelli
dell’Aria, e viceversa. L’odio si era radicato in generazioni e generazioni, e non erano rari episodi di discriminazione e
violenza.
Quel
caso in particolare riguardava un Dominatore della Terra, di passaggio a Gemini, accusato di furto. A Masaki
era subito interessato il discorso, anche perché, che un Dominatore della Terra
facesse tappa in un città dell’Aria era davvero raro,
e pericoloso, soprattutto. Nessuno aveva testimoniato a suo favore, e Masaki non era nemmeno sicuro che avesse avuto un processo
giusto, visto che ci avevano messo una giornata e
mezzo a condannarlo. Anzi, era sicuro che il suo Dominio avesse reso la
sentenza dei giudici molto più veloce. E odiava con
tutto il cuore queste manifestazioni di intolleranza.
Ranmaru si voltò, una smorfia sul volto –Era
colpevole. Non c’entra nulla il suo Dominio.- masticò,
scuro in volto.
L’altro
schioccò la lingua, acido –Certo, colpevole di dominare la Terra. Fosse capitato a
qualcuno come te, di certo se la sarebbe cavata con un sorriso e una pacca
sulle spalle.-
-Perché
pensi che tutti quanti qui a Gemini la pensino così?-
sbottò il più grande –C’erano le prove, ed è stato imprigionato giustamente.-
si difese come se fosse stato accusato lui stesso. Masaki
si alzò dal suo posto ed inclinò il capo –Perché tutti quanti qui odiano i Dominatori della Terra e si credono migliori di
loro, senza alcun motivo. O forse vuoi dirmi che tu ti
faresti amico uno di loro? Nh?-
Ranmaru sbiancò sensibilmente. Masaki gli
riservò una risatina di scherno –Appunto.- scosse la testa e si rimise a
sedere. Gli tremavano le mani.
-Perché li difendi così?- chiese poi il più ricco, aggrottando le
sopracciglia e balbettando qualcosa. I loro sguardi si incontrarono
per qualche secondo, ma Masaki non fece in tempo a
replicare che uno scampanellio annunciò l’arrivo di Haruna.
Il discorso si concluse ufficialmente quando un
–Buonasera! Ah, Ranmaru! Ci sei anche tu!- riempì il silenzio teso.
Masaki percepì solo l’accenno di una conversazione. Poi si alzò e si
diresse verso il piano di sopra, alla sua stanza, senza dire una parola. Sbattè la porta
per non sentire altro.
***
Chiuse
la porta di casa il più piano possibile. Si sfilò le
scarpe e procedette in punta di piedi fino alle scale che portavano al piano
superiore.
Ma
non fece in tempo.
-Ranmaru.- lo richiamò una voce. Il ragazzo sobbalzò e si voltò. Una
scarpa gli scivolò di mano e cadde a terra. Strinse le labbra –Ranmaru, hai saltato di nuovo la cena.-
La
signora Kirino era una donna alta e dalla bellezza
mozzafiato. Aveva i capelli dello stesso colore rosato del figlio, che teneva
rigorosamente legati in acconciature elaborate, e due occhi color dello
smeraldo fini ed eleganti. A guardarla si sarebbero notati solo questi
particolari, in un primo momento, ed il nasino a punta, le guance magre, le
labbra fine sarebbero saltate all’occhio solo dopo.
-Avevo un impegno.- masticò impassibile il ragazzo, riprendendo a salire
le scale senza degnarla un secondo di più del suo sguardo. Ma
la voce pungente della più grande lo chiamò ancora –Tuo padre è oltremodo
adirato. Cos’è, sei tornato di nuovo in quella biblioteca?- il tono sprezzante
con cui lo disse fece accapponare la pelle a Ranmaru, che strinse i pugni e li rilasciò. Si chinò a
raccogliere la scarpa caduta –Ho studiato.- avrebbe voluto
aggiungere un “mamma”, dopo, ma si costrinse a non farlo, e riprese a salire,
scomparendo alla vista della donna, che continuò a parlare come se nulla fosse
–Devi smetterla. A tuo padre non piacerebbe. Lui pretende da te il massimo
della serietà, e vuole che tu prenda il suo po—
Chiudendo
la porta della sua stanza, Ranmaru smise di
ascoltarla. Lanciò le scarpe sul pavimento e solo dopo essersi sistemato alla
scrivania decise di togliersi la tracolla dalle spalle ed estrarre i libri che
aveva preso in biblioteca.
Provò
un enorme senso di soddisfazione nello sfogliare le pagine dello spesso tomo di
Magia Antica. Prima di quel giorno non ne aveva mai
tenuto uno in mano, ed era euforico. Non capiva come gli
altri, sua madre, suo padre, non riuscissero ad apprezzare tutto quel
sapere. Sospirò. Odiava che la sua famiglia volesse
impedirgli di fare ciò che desiderava: suo padre, un ricco proprietario di
raffinerie di diamanti, voleva a tutti i costi che lui prendesse il suo posto,
ma Ranmaru non ne aveva voglia, e i genitori non solo
non riuscivano a capacitarsene, ma soprattutto premevano in tutti i modi per
convincerlo.
Ranmaru si era avvicinato alla magia quasi per caso. La famiglia Kirino era molto nota non solo per
la ricchezza dei possedimenti e degli stabilimenti di raffineria, ma anche per
l’enorme abilità del Dominio dell’Aria. Il padre di Ranmaru
era un tradizionalista, Maestro di Dominio del suo elemento, e quando non si
occupava dei suoi commerci svolgeva addirittura lavori per l’Impero, e spesso
era chiamato a giudicare i casi della città come Giudice Onorato della Corte di
Gemini assieme ad altri pochi eletti. Sua madre era Adepta
dell’Aria presso il tempio della Grande Piazza, e con la sua arte dava
una mano nella Cappella di Soccorso ai malati. E lui, Ranmaru,
unico figlio in cui erano state riposte le più grandi
speranze e aspettative della famiglia, a diciotto anni ancora non era in grado
di dominare l’Aria come si addiceva al suo rango e alle sue radici. Per questo
il ragazzo si era interessato alla magia: secondo i testi antichi, non c’era
bisogno di eccellere nel Dominio, perché la magiacoinvolgeva tutti e quattro gli
elementi della natura, entrandovi in simbiosi e chiedendo in prestito ad essa
le loro proprietà. Certo, necessitava di molto studio
ed impegno, ed era impossibile praticarla, visto che da secoli in giro non
c’erano più maghi o persone in grado di tramandarne l’arte, ma Ranmaru era rimasto talmente affascinato, vi aveva
intravisto così tante possibilità diverse che non rendevano le orme di suo
padre l’unica via da seguire, che aveva deciso di studiare tutto lo scibile e
di apprendere tutto ciò che poteva. Avesse potuto, si sarebbe interessato
maggiormente anche all’alchimia, ma purtroppo gli era impossibile
mettere in pratica quanto i manuali della biblioteca illustravano, non avendo
gli strumenti e non essendo questi reperibili da nessuna parte, a Gemini.
Gli
rimaneva solo che chiudersi in camera, chinarsi sui libri e leggere, e leggere, e leggere. Quando si parlava di magia, lui si
sentiva tranquillo con sé stesso, ed anche felice in
un certo senso; la piccola biblioteca di Haruna era
ormai diventata la sua seconda casa, e di certo preferiva passare il suo tempo
lì che rinchiuso nella sua bella villa grigia nel quartiere aristocratico della
città.
Pensare
alla biblioteca gli riportò in mente il discorso che quel pomeriggio aveva
avuto con Masaki, il ragazzo che si occupava del
negozio (o almeno credeva, visto che era sempre lì). Ranmaru
si morse il labbro ed allontanò il naso dal libro che stava consultando. Si
massaggiò l’attaccatura del naso, chiudendo gli occhi. Cominciavano già a
dargli fastidio.
Ranmaru non poteva farci niente: se ne vergognava molto, ma il modo in
cui l’avevano cresciuto gli aveva insegnato a guardare
con sospetto qualsiasi Dominatore della Terra, e per quanto lo trovasse
sbagliato non riusciva proprio a liberarsi da questo pregiudizio, anche se non
lo dava a vedere e lo nascondeva. Lo trovava ingiusto, e non riusciva a
sopportare tutte quelle violenze che venivano inferte.
Con Masaki aveva davvero fatto una pessima figura,
non era riuscito a dire niente di sensato, e di certo a quel ragazzo che pareva
odiarlo tanto era sembrato uno di quegli ignoranti figli di buona famiglia che
credevano ciecamente nella distinzione tra Domini. Ranmaru
era rimasto molto sorpreso dal fatto che Masaki non
condividesse certi pregiudizi. Piacevolmente sorpreso.
Sapeva
che Masaki aveva ragione sul caso del Dominatore
arrestato nel dire che la pena era stata più severa a
causa delle origini dell’uomo catturato, anche se Ranmaru
aveva piena fiducia nel sistema di Gemini, e non credeva che un Dominatore
dell’Aria avrebbe ricevuto un trattamento poi tanto diverso. O
forse continuava a ripetersi questo perché faticava ad accettare che vi fosse
un tale livello d’incomprensione tra gli uomini, che si compiessero violenze
del genere solo per la diversità di un Dominio. E, infine, perché voleva
credere con tutto sé stesso che suo padre, membro
onorario della Corte di Gemini che di Dominatori della Terra molti ne aveva
mandati in prigione, in esilio, o alle miniere, agisse per il bene della città
e non per un pregiudizio. Ci si attaccava con tutto sé
stesso, perché non poteva credere che il suo papà, quel papà che da bimbo non
gli aveva mai sorriso, quel papà di cui aveva cercato approvazione per anni e
che aveva visto sempre con occhi pieni di ammirazione non avesse un briciolo di
umanità.
In ogni caso, proprio non riusciva a non sentirsi in colpa, un
senso strisciante che gli torceva lo stomaco e che non comprendeva da dove
uscisse fuori.
Una colpa verso tutti quei Dominatori della Terra che la sua stessa famiglia
aveva condannato.
Decise
di ignorarlo e tornare a leggere.
La
notizia l’apprese la mattina dopo, durante la colazione. Suo padre era talmente
preso che nemmeno si ricordò di sgridarlo per il giorno prima,
e Ranmaru ringraziò la sorte, perché le strigliate di
suo padre erano davvero tremende.
-La Guardia ha catturato un
Dominatore della Terra.- rese noto dunque l’uomo, un
uomo austero, alto, dai biondissimi capelli tenuti indietro e piccoli occhi
azzurri. Portava un accenno di baffi (che da piccolo facevano tanto ridere Ranmaru) –Si nascondeva tra di
noi, il furbo.- disse, ammiccando e spalmando febbrilmente del burro sulla sua
fetta di pane tostato.
Ranmaru sobbalzò. Il discorso del giorno prima gli tornò prepotentemente
alla mente. Abbassò il capo, fissando la sua tazza di thè
senza dire una parola.
A
tavola c’era solo la famiglia Kirino, sistemata al
sontuoso tavolo della sala da pranzo che la madre di Ranmaru
aveva ammobiliato lei stessa, e a parte qualche servitore che entrava per
portare altro cibo, non c’era nessun altro. Le ampie finestre permettevano alla
luce del sole (quella mattina le nuvole che incombevano in continuazione su
Gemini si erano dissipate) di illuminare la stanza, e il rampollo di famiglia
vedeva il proprio padre in controluce.
-Oh,
santi dei, com’è possibile?- la voce della signora era
stridula per la sorpresa –Qui, in mezzo a noi?- cinguettò, sgranando gli occhi
verdi e portando una mano alle labbra. Poi sorseggiò il suo thè
senza distogliere gli occhi dal marito, che emise una sorta di risatina di
scherno –Si, esercitava il suo dominio poco fuori dalla
città, vicino al Giacimento abbandonato. Mala Guardia è riuscita ad
acchiapparlo. Poco più di un ragazzo. Così piccoli e già così dediti alla
rovina di noi dell’Aria.- il Giacimento abbandonato Ranmaru
lo conosceva bene: era stata una miniera fino a qualche decennio prima della
sua nascita, ma poi era stata chiusa perché completamente svuotata del suo
contenuto. Era poco fuori dalla città, e le rocce, a
ragione, là attorno erano davvero molte, quindi per la pratica del Dominio
della Terra era un posto perfetto. Anche perché di
solito non ci si avvicinava nessuno.
-Bhè,
la Guardia sa
come svolgere i suoi doveri.- replicò compiaciuta la moglie del signor Kirino, sorridendo appena e poggiando la tazza sul tavolo
–Spero che lo rinchiudano.- sibilò poi, sprezzante –Nascondersi in mezzo a noi
come niente fosse. Che
schifo.- aggiunse, socchiudendo gli occhi sino a ridurli a due fessure.
Ranmaru sgranò gli occhi –Verrà condannato?-
chiese, spostando lo sguardo su suo padre, che aveva quasi finito di mangiare
la sua fetta di pane.
-Certo.
Sono chiamato a giudicare come membro onorario, e di certo non lo grazierò.-
sputò quello, come se non ci fosse cosa più ovvia al mondo –Uno sporco
Dominatore della Terra che esercita il suo Dominio a Gemini
quando la legge della città lo vieta.- sorrise, feroce –Prima di tutto
lo metteremo alla gogna, così che tutta la città sappia che un lurido della
Terra si era nascosto tra di loro e possa vendicarsene. Poi lo imprigioneremo. Anzi, andrà a lavorare in miniera, ai livelli più bassi. C’è
carenza di personale per quella parte, ultimamente.-
parlò come nulla fosse, prendendo un’altra fetta di pane e tornando a spalmarci
del burro. Ranmaru sgranò gli occhi e boccheggiò per
qualche secondo, senza parole.
-Ma
non ha esercitato il Dominio a Gemini, il Giacimento dista almeno quattro
miglia dalla città!- ribattè poi, poggiando le mani
sul tavolo. Suo padre gli rivolse uno sguardo che gli fece accapponare la
pelle, ma decise di non distogliere il proprio.
-Era
qui vicino. Questo basta. Già è tanto che qui a Gemini sia permesso a quella
feccia di passare (e poi abbiamo visto cosa fanno una volta qui: ci derubano e
si comportano come meglio li aggrada), figurarsi esercitare.- fece una smorfia, poi posò la fetta di pane sul piatto.
Suo
figlio cercò di continuare –Padre, non stava facendo del male a nessuno, non merita di essere condannato alle miniere!- sbottò, alzandosi
in piedi.
Le
miniere erano asfittiche, erano strette, erano orribili. Ai livelli bassi delle
miniere si moriva facilmente, per questo nessuno degli abitanti di Gemini era
disposto a scendere più sotto di un certo livello.. E
dunque lì sotto venivano inviati i prigionieri della città. Praticamente
una condanna a morte.
-Ranmaru, siediti.- lo riprese la madre, che
sembrava davvero imbarazzata per il comportamento che suo figlio stava tenendo.
-Padre,
rispondimi!- guaì il ragazzo, sbattendo le mani sulla
tavola.
E
suo padre gli rispose. Alzò lo sguardo azzurro e lo incatenò al suo –Si stava
preparando per farne. Un Dominatore della Terra non sviluppa il suo Dominio se
non per fare poi del male.- soffiò.
-Padre,
quello che dici non ha il minimo senso! Che motivo avrebbe
per—
-Ranmaru, siediti
subito!- tuonò il biondo, battendo la mano così forte sul tavolo che i vetri
delle grandi finestre parvero tremare.
Il più piccolo tentò un’ultima volta –Padre--
Ma
l’uomo di fronte a lui, così distante, parve non udirlo –Si ricorderà per tutta
la vita che i Dominatori dell’Aria non voglio feccia
della Terra nei loro territori.- concluse, e nessuno aprì più bocca.
Ranmaru paragonò suo padre ad un cane, in quel momento. Non riuscì a
pensare ad altro se non a suo padre che come un cane marca il suo territorio. E gli fece ribrezzo. In un attimo le
parole di Masaki, il giorno prima, lo scossero. Fu come una doccia fredda.
Ranmaru non se lo seppe spiegare, il perché. Perché in
quel momento, quando scene del genere in casa sua si erano ripetute per anni,
anche se raramente. Ma capì che il bene di
Gemini non c’entrava nulla, con le parole di suo padre. Quella era una sorta di
perversa vendetta verso i Dominatori della Terra che tanto odiava.
Si
rimise a sedere, respirando pesantemente, la tempia che gli pulsava dalla
rabbia.
E
decise che non sarebbe rimasto con le mani in mano.
Le
cose stavano così: dopo la gogna, dove il Dominatore della Terra sarebbe stato
umiliato di fronte ad una città intera, il ragazzo avrebbe passato circa una
settimana in gattabuia prima di essere trasferito alla miniera più vicina.
Roso
dalla consapevolezza della crudeltà di suo padre, Ranmaru
in quei due giorni in cui c’era stato il sommario processo
non era nemmeno passato in biblioteca. Si chiese cosa ne pensasse quel Masaki. Di certo era arrabbiato. E
a ragione.
La
piazza era gremita di persone, e Ranmaru dovette
procedere a spintoni per arrivare alla prima fila. La Grande Piazza non era mai stata
così piena, e quando raggiunse il piccolo palco in
legno preparato apposta per il condannato potè dare uno sguardo a tutta la
gente che attendeva trepidante. Si vergognò profondamente di essere un
Dominatore dell’Aria.
Era
uscito contro il volere di sua madre, quella mattina. Davanti a lei aveva
aperto la porta di casa ed era uscito. Di certo suo padre quella sera non gli
avrebbe risparmiato una lavata di capo tremenda, ma non gli importava.
Voleva fare qualcosa. Qualsiasi cosa potesse aiutare
quel povero Dominatore che di lì a poco sarebbe stato condotto sul palco.
Voltandosi
scorse il fornaio che lavorava vicino alla biblioteca assieme a sua moglie che
parlavano animatamente tra di loro. Fece per
avvicinarsi, incuriosito, ma un suonare di trombe lo fece concentrare
nuovamente sulla struttura di legno, dove una Guardia era salita.
-Signori
e signore!- allargò le braccia la Guardia –Come sapete,
abbiamo catturato uno della Terra qui nella nostra Gemini!- urla e fischi
accompagnarono le sue parole –Oggi siamo qui per riscattare la nostra amata
città, sporcata dalla feccia della Terra che stava preparando un attacco ai
nostri danni!- esclamò, e un basso brusio si alzò dalla folla. Ranmaru storse le labbra in una smorfia: era una bugia,
tutta una bugia. Nessun Dominatore voleva
fare male a nessuno, erano solo stupide storie raccontate per fomentare
l’odio. Vide una bambina, poco distante da sé, piangere disperata. Strinse i
pugni.
-Bene,
oggi questo Dominatore della Terra è a vostra completa disposizione! Facciamogliela pagare per aver attentato alle nostre vite con il
suo subdolo Dominio!- urla di giubilio si aggiunsero
a risate di scherno. Poi la guardia fece un gesto con la mano –Portatelo sul
palco!- incitò, e le grida si intensificarono. Le
persone si prepararono a lanciare qualsiasi articolo di frutterai
che erano riuscite a reperire.
Ranmaru scosse la testa. Poi un urlo di disperazione, così diverso da
tutti gli altri, attirò la sua attenzione. Si volse appena in tempo per notare
una figura familiare slanciarsi in avanti, verso il palco, e venire trattenuta
dal fornaio e da sua moglie –No!- urlava –No, vi prego!- si dimenò. Ranmaru riconobbe Haruna con un
moto di sorpresa. Riuscì solo a sgranare gli occhi e a fare un passo in avanti,
verso di lei, perché poi la folla esplose, travolgendolo.
Prima
di cadere a terra, riuscì solo ad alzare lo sguardo sul palco un’ultima volta.
Represse un singulto: sul palco, legato ai polsi e strattonato in malo modo
verso la gogna, c’era Masaki.
***
Masaki era un Dominatore della Terra, e nessuno lì a Gemini lo sapeva,
nemmeno Haruna. Per anni aveva finto di non aver
alcun interesse a sviluppare il proprio Dominio, e quindi era
rimasto una grande incognita per molti.
I
Dominatori della Terra non erano ben visti dai Dominatori dell’Aria, e
viceversa. Far sapere a qualcuno, lì, che lo fosse, avrebbe decretato l’esclusione
da parte di tutti, e Masaki non voleva
perdere quel poco che aveva guadagnato. Quindi aveva
nascosto la sua vera natura. Almeno fino a quel dannatissimo giorno in cui,
come al solito, era andato al Giacimento per allenarsi
un po’. Di solito non c’era nessuno, quindi oramai era sicuro di non correre
alcun pericolo. E invece due stupide Guardie ubriache che si erano spinte un
po’ più in là per una scommessa lo avevano visto, lo
avevano catturato, ed ora era condannato per tutta la vita alle miniere.
Guaì,
rannicchiandosi all’angolo della cella dove lo avevano rinchiuso dopo la gogna,
tremante di frustrazione. Non era mai
stato umiliato così.
Strinse
le ginocchia al petto, mordendosi le labbra per non piangere.
Chissà
che cosa stava facendo Haruna, in quel momento.L’aveva sentita urlare, quel
pomeriggio, ma non aveva avuto il coraggio di guardarla in faccia, mentre
l’ennesimo pomodoro andato a male lo colpiva in piena faccia e le risate di
scherno dell’intera Gemini lo ferivano più di coltelli appuntiti. Lo odiava? O le faceva pena? Chi avrebbe badato alla biblioteca da quel
giorno in poi? E avrebbe mai imparato a leggere, lui?
Senza
accorgersene, grosse lacrime avevano preso a scendergli lungo le guance, e
aveva iniziato a singhiozzare rumorosamente.
Era
di nuovo solo.
-Ehi,
tu.- lo chiamò una voce, ed immediatamente Masaki si
ricordò di non essere solo, in quella cella. Alzò lo sguardo e si asciugò
rapidamente le lacrime, rimanendo in silenzio.
-Ehi,
bei capelli,sto parlando con te.- continuò la voce.
-Che
vuoi.- sbottò il ragazzo, voltandosi di scatto, così
da inquadrare il suo compagno.
Un
sorrisetto divertito lo accolse –E’ stata divertente, la gogna?- domandò quello
che a tutti gli effetti pareva un ragazzo sui ventuno anni e che non era altro
che quel Dominatore della Terra accusato e condannato per furto di cui solo due
giorni prima aveva discusso animatamente con quel Ranmaru.
Che ironia, la vita: ora si trovava nella sua stessa
situazione.
-Mi prendi in giro?- abbaiò il più piccolo, facendo per
avvicinarsi. Aveva voglia di picchiarlo.
Un’irritante
risatina lo costrinse ad abbassare la mano, incredulo-Cosa diamine ti ridi?!- ringhiò.
-Ti mandano alle miniere?- domandò l’altro ragazzo, questa volta
serio. Nella penombra della cella, vide un ciuffo di capelli color prugna
muoversi.
Masakiabbassò il capo, sprezzante –Si.- masticò,
ributtandosi a sedere. No, non aveva la forza per litigare. Gli doleva tutto e
non era nelle condizioni psicologiche per iniziare una conversazione violenta.
-Allora
non piangere. Se sei fortunato morirai presto, là
sotto, e non soffrirai più di tanto.- il suo interlocutore si fece avanti, alla
luce. Due occhi bicromi, viola attorno alla pupilla e
gialli sull’iride, scintillarono per un attimo, mentre un uomo già fatto si
mostrava agli occhi di Masaki. Non sapeva dire se fosse alto o basso, visto che era seduto, ma di certo aveva
un’aria più matura della sua. Un ciuffo di capelli gli copriva l’occhio destro,
e non indossava che degli stracci.
Notò
che alle mani del suo compagno di cella mancavano due dita ciascuna, ed i
moncherini era fasciati male da bende sporche di
sangue. Rabbrividì, e quello parve accorgersi dei suoi pensieri –Oh, queste?-
ammiccò -Me le hanno tagliate, una per ogni oggetto che pare io abbia rubato. Grazie al cielo erano solo quattro, fossero
stati di più magari mi avrebbero fatto fuori anche
quelle dei piedi.- rise, e Masaki pensò che fosse
pazzo. Cosa ci trovava da ridere?
-Hai un nome, bei capelli?- continuò imperterrito l’altro. Masaki rispose a mezza bocca, ma non pose la stessa
domanda, che ricevette comunque risposta.
-Io
sono Atsushi, bei capelli.- il ragazzo si spostò di
fianco a lui facendosi forza sulle mani, quindi si avvicinò al suo orecchiò
–Vuoi fuggire, vero, bei capelli?- sussurrò,
guardandosi attorno. Masaki sobbalzò –Che cosa
diamine dici?- parlò a bassa voce senza sapere il
perché -Siamo sorvegliati e le mura sono di ferro, il nostro Dominio non può
niente, da qui non si esce. Non sparare stupidaggini.- di certo doveva essere fuori di testa.
-Porca
merda.- una sussurro li fece sobbalzare entrambi. Si
voltarono verso la grata che permetteva all’aria e alla luce di entrare nella
cella –Porca merda, Atsushi, sei
un coglione. Ma perché non ti hanno
ucciso.- le parole furono seguite da un rumore d’acqua e da uno
metallico. Atsushi rise tra sé e sé e Masaki lo vide sporgersi per controllare cosa
stesse facendo la guardia: dormiva. Un classico.
-Che
diamine succede?- lo richiamò Masaki,
alzandosi in piedi ed indietreggiando.
-Ti libero,
bei capelli.- gli rese noto il più grande, che alzò lo
sguardo sulla grata –Dai, Norihito, sei un po’
lento.- per tutta risposta ci fu un secco rumore di qualcosa che si spezza, e
la grata venne tolta –Brutto stronzo, lo sai quanto
ci ho messo a venire fino a qui con quello che mi hai chiesto? Invece di
rompere il cazzo, vedi di muoverti a fare quello che
devi fare, idiota.-
-Il
masso è qui fuori?- domandò il ragazzo dai capelli
color prugna, sgranchendosi le spalle.
Un
“si” scocciato arrivò da fuori. Masaki non ci stava
capendo niente.
-Sai,
bei capelli, è utile portarsi dietro un amico, quando viaggi. Specialmente se è così gentile da portare la Terra dove di terra non ce
n’è.- ghignò –Spostati da lì, o ti fai male.- si raccomandò –E quando ho
finito, corri. Perché credo che le Guardie si sveglieranno.-
Masaki continuava a non capire, ma quando Atsushi
si mise in posizione (una posizione che Masaki conosceva bene, una posizione da Dominio della
Terra), comprese che, si, era meglio togliersi di mezzo se non voleva finire
schiacciato.
Con
un paio di movimenti lenti, che sembravano quasi
pesanti, Atsushi cambiò posizione, e non ci volle
molto che qualcosa si scontrò contro la parete esterna della cell all’altezza della finestrella che Norihito
aveva aperto una, due, tre volte, allargandola.
La
cella di ferro si piegò , prendendo la forma del masso
che il Dominatore della Terra stava scaraventando contro di essa grazie al suo
controllo dell’elemento. Masaki non fece in tempo a
rimanerne impressionato che la parete colpita cominciò a cedere, e la finestra
allargarsi sempre di più, proprio mentre le voci delle Guardie richiamate dal
rumore cominciavano a riempire il corridoio subito fuori
dalle sbarre.
-Cazzo, Atsushi, sbrigati!- berciò la voce
del tale che si chiamava Norihito era concitata.
-Ssh,
ho fatto, ho fatto.- replicò l’altro, tranquillissimo,
come se stesse passeggiando. La finestra si allargò abbastanza da permettere ad
Atsushi e Masaki di passare
proprio quando una Guardia urlò alle altre quanto stava accadendo.
-Muoviti!-
Atsushi, con un balzo, si arrampicò
fino all’apertura e ci passò attraverso. Masaki si guardò attornò, spaesato, poi lo seguì
senza pensarci due volte. Haruna le tornò alla mente,
e così anche il fornaio e sua moglie, la fioraia vicino alla biblioteca,
persino quel fastidioso di un Ranmaru. Avrebbe
lasciato la sua vita fino a quel momento lì a Gemini e avrebbe dovuto
ricominciare da capo. Scacciò quel pensiero e afferrò la mano che Atsushi gli porgeva, arrampicato fuori
dalla cella, dove già si poteva sentire sulla pelle l’aria fresca della
sera. Si calarono giù entrambi, e la terza figura di Norihito si affiancò loro –Chi cazzo
è questo, ora?- sbottò, mentre cominciavano a correre.
-Bei
capelli.- rispose Atsushi. Masaki
lo odiò per quello stupido soprannome, ma non disse nulla e continuò a correre
con tutta la forza che aveva in corpo.
Potevano
sentire le Guardie inseguirli e urlare loro di fermarsi. Volò anche una saetta
d’acqua di un qualche Dominatore, che Norihito
rispedì senza problema alcuno al mittente. Masaki si
prese una piccola rivincita, esercitando il suo dominio sui ciottoli della
strada che stavano percorrendo, facendolo inarcare come la schiena di una
bestia inferocita e facendo rotolare a terra gran parte
delle persone che li inseguivano.
Sentì Atsushi ridere di gusto, e di
conseguenza uno stupido sorriso di soddisfazione gli comparve in volto.
Evitarono
tutte le Guardie.
Non smisero mai di correre, finchè ebbero fiato.
All’alba,
erano ormai lontani da Gemini, dai Dominatori dell’Aria, e dalla vita che Masaki aveva conosciuto fino a quel momento.
*
Ora posso anche morire in pace.
No, nevvero. Devo finirla, questa long. E quando
l’avrò finita,potrò morire in pace (nel 3417,
suppongo-).
Ordunque.
Io mi scuso sempre per il mio ritardo, ma credetemi se vi dico
che scrivere questo capitolo è stato un parto e che sono talmente fomentata che
ho già più di metà capitolo tre già scritto (essendo personaggi diversi da
capitolo in capitolo, quando sono a scuola e ne ho la possibilità scrivo i
capitoli avanti) quindi, in teoria, il prossimo arriverà prima. Ma non lo prometto, purtroppo avrete capito che sono molto
ma molto lenta nell’aggiornare, mea culpa. Spero comunque
che abbiate ancora l’enorme pazienza di seguirmi, mi farebbe molto piacere *inchin*
Comunque.
Se siete arrivati fino a qui, fatevi amare. Lo so, i
capitoli sono lunghissimi, mala storia è complicata ed è lunga (almeno nella
mia testa). Se vi risulta troppo pesante, provvederò
ad accorciarli o dividerli in due parti!
Allora, in questo capitolo i protagonisti sono Masaki e Ranmaru. L’uno ha un
passato un po’ travagliato, che si scoprir più avanti, mentre l’altro deve un
po’ capire cosa deve fare della sua vita, visto la famiglia che si ritrova e il
suo modo di pensare decisamente diverso da quella.
Compaiono anche Atsushi
e Norihito. Uhuhuh, che
dire. Non vi aspettate MinaKura (o almeno, non
troppa), perché Atsushi sarà un personaggio molto problematico che metterà nei casini un sacco di gente (?).
ENorihito sarà il peggio sboccato (?), gente! Ne avete già ricevuto un assaggio, ma posso assicurare che
il suo repertorio di insulti è molto ma molto vasto xD
Bhè,
che dire, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Anticipo che il prossimo vedrà come protagonisti
un ragazzo che ama sbattere contro pali della porta e un fake
samurai a cui piace la pasta (?)
Hikaru
soffriva il mal di mare. Non che fosse mai salito su di una
nave, prima di allora, e che quindi potesse saperlo. Lo aveva scoperto
con le relative brutte conseguenze, ed ora era piegato in due sul bel parapetto
della Demea, la fronte appiccicosa di
sudore freddo e la voglia di buttarsi a mare che aumentava ogni secondo di più.
Hikaru odiava il mare.
-Ehi...
Se ci pensi troppo poi è peggio.- commentò debolmente
una voce dietro di lui. Hikaru si voltò lentamente, reprimendo l'ennesimo
conato, e puntò lo sguardo sul ragazzo con la coda dal colorito un po'
verdognolo, suo compagno di sventure -... Come faccio a non pensarci?-
piagnucolò. Non aveva la forza nemmeno per arrossire per il fatto di stare
parlando con uno sconosciuto. Fece per tornare con la faccia al mare, ma
l'altro riprese a parlare, sospirando piano, come se stesse facendo uno sforzo
enorme -Dove stai andando, a bordo della Demea?-
domandò, puntando un paio di occhi nerissimi in quelli
di Hikaru -Non ci sono molte navi, per il Continente. Per essere riuscito a
salire su questa, devi aver ricevuto aiuto. Di certo vai a fare una cosa
importante, eh?- rise da solo delle sue parole,
buttando indietro la testa, e la coda di cavallo corvina che portava gli
svolazzò sulle spalle.
Hikaru,
prima di rispondere, appena stupito dalla semplicità con cui lo sconosciuto gli
stava chiedendo i fatti suoi, raddrizzò la schiena e lo squadrò per qualche
secondo: nonostante la sfumatura verde, la carnagione del ragazzo di fronte a
lui (che non doveva avere più di ventun'anni) era scura, mulatta. Due grandiose
sopracciglia nere gli incorniciavano gli occhi grandi, e un naso abbastanza
imponente gli dava l'aria di uno che di esperienze ne
avesse fatte molte (come Hikaru potesse dedurre questo da un naso, non è
possibile dirlo). Anche se era rannicchiato su sè
stesso, con le ginocchia al petto, erano palesi il fisico ben allenato e le
spalle larghe. Aveva un'espressione allegra, nonostante il mal di mare, ed un
bel sorriso gentile stampato in faccia che gli dava un po' l'aria di un
sempliciotto.
Ad
Hikaru piacque immediatamente.
Sorrise,
mesto -Non so quanto sia importante. Vado a studiare,
lì.- spiegò, ed una smorfia di dolore comparve sul suo volto
quando lo stomaco gli si capovolse per l'ennesima volta. Si appoggiò con la schiena al parapetto della Demea -Sono un apprendista.- concluse, con un debole
sorriso. Era entusiasta del suo viaggio oltremare, solo che in quel momento gli
risultava parecchio difficile esultare.
L'altro
annuì, come a far intendere che avesse capito -Ci sono maghi, nel Continente?-
domandò, aggrottando le sopracciglia folte, per poi arricciare il naso quando la nave prese un'onda più alta delle altre,
salendo più del necessario. Emise un basso lamento, portandosi una mano sullo
stomaco.
Hikaru
scosse la testa -No.- rispose -Vado ad imparare le
arti alchemiche. Ci è vietato utilizzare la magia nel
Continente.- il Continente era l'unico luogo in cui la conoscenza dell'alchimia
fosse tanto sviluppata. Non esistendo più la magia da decenni, la popolazione
aveva potuto approfondire solo quella, e lo aveva fatto con grandiosi
risultati, anche perchè grazie ad essa il controllo di
Dominio che possedevano gli abitanti poteva essere accresciuto ulteriormente. Inoltre, proprio perché la magia era ormai scomparsa, agli
apprendisti e ai maghi era assolutamente vietato mostrare le loro doti sul
terreno del Continente.
-E
tu?- Domandò Hikaru, alzando la testa per cercare di inalare quanta più aria
possibile. Sentì le mani formicolargli dall’imbarazzo (non era abituato a tutta
quella confidenza, se non con i suoi genitori ed il Maestro suo
zio).
L’altro
si battè una mano al petto e sorrise –Vado nel Continente per temprare il mio
corpo ed il mio spirito- raddrizzò la schiena –così
potrò entrare a far parte in tutto e per tutto dell’ordine dei Monaci
Combattenti di Zhu.- dichiarò orgoglioso, ed Hikaru sgranò gli occhi –Un Monaco
Combattente? Davvero?- non che nella Terre fosse
strano trovare un Monaco Combattente, però faceva sempre un certo effetto
incontrarne uno. Cominciavano la loro formazione sin da piccoli, e la loro era una ferrea educazione. I Monaci Combattenti non avevano
altra famiglia se non la comunità, non conoscevano la propria
madre e si occupavano di aiutare chiunque ne avesse bisogno (oltre ad
essere davvero strepitosi nel combattimento, ovviamente). Ma Hikaru non
conosceva altro riguardo a quell’ordine, ed era molto curioso: nel suo piccolo
Villaggio ce ne erano molto pochi ed abitavano
distanti, si avvicinavano solo per il mercato settimanale.
Il
ragazzo rise di gusto –Si, devo prepararmi per
diventarlo a tutti gli effetti.- spiegò, poi si portò il polso alle labbra,
chiudendo gli occhi per qualche secondo. L’onda che la Demeaprese fece contrarre lo stomaco anche ad Hikaru, che però si sforzò di mantenere in piedi il
discorso –E di norma tutti i Monaci vanno al Continente?- balbettò. Un uomo
dell’equipaggio gli passò di corsa vicino, e non riuscì a voltare lo sguardo
verso di lui, aveva paura di rimettere quel poco che aveva mangiato.
-No.-
scosse la testa –E’ un viaggio lungo e faticoso, e noi
non vogliamo avere nulla a che fare con il Continente. Ma
a me andava, quindi sono partito!- sorrise a trentadue denti –E poi gira voce
che il successore del Grande Monaco si aggiri lì…- abbassò il tono della voce,
pensieroso. Poi, rise ancora, e per l’ennesima volta la Demeaparve impennarsi su un’onda più alta del normale.
Hikaru
aggrottò le sopracciglia. Non era sicuro che i Monaci Combattenti, specialmente
se apprendisti, potessero prendersi certe libertà. Rabbrividì per il freddo –I-il Grande Monaco?- fece in tempo
a chiedere prima di essere costretto a voltarsi verso il parapetto della nave,
colto da un attacco di nausea più forte degli altri.
-Ehi,
amico, tutto ok?- si informò, sviando il discorso, il
suo compagno di sventure, che ben presto entrò nel campo visivo del più
piccolo. Il ragazzo con la coda si abbandonò a sua volta sul parapetto,
prendendo grosse boccate d’aria –Comincia a tirare vento, eh?- cercò di
sdrammatizzare, tenendosi lo stomaco.
L’altro
cercò di sorridere, ma gli uscì più che altro una smorfia.
Fece
quantomeno per rispondere, ma la sua voce venne
coperta dal grido di uno dei marinai, che con tono vibrante ordinò a tutti
coloro che non facevano parte dell’equipaggio di tornare ai propri alloggi e
lasciare sgombro il ponte, che stava arrivando tempesta.
Il
ragazzo con la coda sospirò, mentre Hikaru sbiancava sensibilmente: sotto,
nella sua stanza, il movimento del mare sarebbe stato ancora più chiaro, ancora
più fastidioso, e sarebbe stato davvero male.
Ma non potè fare altro che
obbedire, e cominciò a muoversi verso le scalette di legno che lo avrebbero
condotto alla sua cabina. Il più grande lo seguì, traballante sul ponte
scivoloso d’acqua-Ryoma
Nishiki.- si presentò nel mentre che avanzavano, ed Hikaru sobbalzò, preso alla
sprovvista. Alzò lo sguardo e quello scuro e ridente dell’altro incontrò il suo.
Gli strinse titubante la mano che gli porgeva, e balbettò un –H-Hikaru.-
leggermente imbarazzato. Poi tossì, perché Ryoma gli diede una forte pacca
sulla schiena –Scommetto che faremo amicizia durante questo viaggio!- esclamò
raggiante –Dove hai detto che vai?- domandò subito
dopo, trascinandolo praticamente verso la cabina.
-A-ah… C-Cancer. Poi ho un passaggio per Gemini…- rispose Hikaru,
incerto sulle gambe, sollevato e contento di aver trovato qualcuno con cui
parlare un po’ nel mentre del viaggio.
La
tempesta esplose un paio d’ore dopo, accompagnata da tuoni che facevano tremare
la struttura in legno della Demea, dandogli ancora più nausea.
L’imbarcazione
si impennava, saliva e scendeva di colpo in balia
delle onde, e Hikaru si sentiva completamente esausto, ancora in preda ai
giramenti di testa.
Ryoma
se ne era andato circa un’ora prima, salutandolo
calorosamente con un “ci vediamo a cena!”, ma HIkaru non era più tanto sicuro
che avrebbe avuto fame.
La
tempesta era stata quantomeno prevista, e si che era
stato sicuro di poterla superare indenne. Non aveva fatto i conti con la sua
costituzione normalmente deboluccia.
Prese
un’enorme boccata d’aria e chiuse gli occhi, cercando di ignorare
l’ondeggiamento dell’imbarcazione. Forse stendersi sull’amaca adibita a letto
che gli avevano assegnato in quella stanzetta minuscola sottocoperta
non era stata un’idea esattamente geniale.
La Demea non era una nave adibita al trasporto di persone, di
norma, o almeno così gli aveva detto suo zio. Purtroppo le partenze per il
Continente erano poche, rare, visto che nessuno voleva
averci a che fare qualcosa. Un paese come il Continente, devastato dalla misera
di alcuni territori, in netto contrasto con la
ricchezza e lo sfarzo della Capitale e delle Città-Perno, non rientrava
esattamente nella mentalità degli abitanti delle Altre Isole. A dirla tutta,
Hikaru non riusciva nemmeno ad immaginare come potesse una sola persona (lo
chiamavano Imperatore, sul Continente, aveva saputo) comandare sul vasto
territorio del Continente.
Alle
Altre Isole non c’era mai stato, da quando si aveva
memoria, qualcuno che avesse cercato il dominio sugli altri. Hikaru non sapeva
concepire nulla di diverso delle piccole comunità di
persone che formavano le città-stato che conosceva sin dall’infanzia.
Erano
regolate da leggi che tutti consideravano giuste, e tutti gli
abitanti potevano partecipare alle decisioni importanti. O meglio, gli
abitanti che avevano compiuto i ventuno anni di età, e
lui che ne aveva ancora sedici di certo non rientrava ancora nella categoria.
Ma
in realtà, non si era mai interessato di politica. Preferiva la magia di gran lunga. La magia, sul Continente, non esisteva più.
Anche per questo dalle Altre Isole si spostavano poco, al di
là del commercio, per farvi tappa. Gli abitanti del Continente
rimpiangevano la perdita della magia, e guardavano ai loro vicini con malcelata
invidia. In realtà, molti nemmeno ricordavano che fosse
esistita. Ma il territorio del paese era stato
profondamente ferito, calpestato duramente, sfruttato fino all’estremo,
nell’antichità, e la Natura
aveva deciso che gli esseri del Continente non meritavano la capacità di
poterla controllare interamente, dunque aveva precluso all’uomo gran parte
dell’enorme potenziale che possedeva, lasciandolo con la semplice facoltà del
Dominio.
O
almeno, questa era la leggenda che era stata raccontata ad
Hikaru.
La
magia gli permetteva di fare cose meravigliose. Chiedeva aiuto alla Natura
stessa, ed era in grado di servirsi non solo di un elemento, ma di tutti e
quattro. I maghi più potenti potevano servirsi di qualsiasi elemento naturale
in qualsiasi condizione. Un po’ come… come si
chiamavano? Maestri di Dominio, se Hikaru ricordava
bene, nel Continente.
Ma
Hikaru non era assolutamente un mago potente. Era ancora
un’apprendista, e a dirla tutta, combinava un sacco di pasticci. Per
questo suo zio lo aveva inviato al Continente. Lì, dove la magia era
tremendamente debole, avrebbe dovuto impratichirsi,
sfruttare al meglio l’energia che poteva ricavare. Con rispetto, parsimonia,
saggezza.
Il
flusso dei suoi pensieri fu bruscamente interrotto da uno scossone più forte
degli altri, che gli fece perdere l’equilibrio. Rovinò
a terra, e si rialzò a fatica, costretto a reggersi al legno della parete per
evitare di cadere nuovamente. Ci fu un altro movimento brusco. Udì delle urla
provenire dal corridoio fuori la sua stanza.
Si
mosse a fatica verso l’esterno, cercando di frenare la nausea, senza alcun
successo.
L’equipaggio
della Demea correva come impazzito.
Su è giù per il corridoio, scendendo dal ponte per afferrare cordame e
strumenti.
Il
capitano (Hikaru credeva fosse la sua voce, ma la pioggia battente copriva i
suoni) gridava ordini, ed avanzando, il ragazzino notò che dalle scale che
portavano all’esterno scendeva una piccola cascata d’acqua piovana, che gli
lambiva i piedi.
Soffocò
un gemito quando un marinaio, nel mezzo della sua corsa,
urtò contro la sua spalla, e fu costretto a poggiarsi alla parete, prendendo
grandi boccate d’aria. La tempesta aveva preso una brutta
piega, constatò.
L’equipaggio
era agitato, e vide diverse persone uscire dalle proprie cabine e salire in
superficie. Si guardò attorno, alla ricerca di Ryoma, turbato. Poteva percepire
nella pelle la potenza dell’acqua che si stava abbattendo sul ponte sopra di
lui, e la cosa lo terrorizzava. Un presentimento terribile lo inchiodò per
qualche momento alla parete. Deglutì, capendo di non poter rimanere di più là
sotto, e combattendo il fastidio allo stomaco riprese
ad avanzare.
L’acqua
gli lambiva ora le caviglie, e la sensazione dei calzoni appiccicati alla pelle
gli provocò un brivido. A fatica, si mosse verso le scale che conducevano al
ponte, facendo attenzione a non scivolare. Altra gente
schizzò di fianco a lui, molto più velocemente di quanto Hikaru riuscisse a muoversi.
Arrivare
fino alla fine delle scale lo destabilizzò più del
dovuto, e rischiò di rovinare in accordo con i pericolosi ondeggiamenti della Demea, ormai in totale balia delle onde.
L’aria gelida della sera gli sferzò il viso assieme alla pioggia, che cadeva
pesante, coprendo qualsiasi altro suono. Presto si ritrovò zuppo dalla testa ai
piedi, incapace di respirare decentemente, tanta era l’acqua che gli arrivava
addosso.
Ancora,
la nave sobbalzò, più violentemente ancora, ed Hikaru si ritrovò senza neanche
rendersene conto sbattuto contro il parapetto dell’imbarcazione. Picchiò la
schiena, ed emise un lamento di dolore. Si voltò a fatica, ritrovando a pochi
centimetri dall’acqua scura dell’oceano. Gridò e cadde all’indietro, scivolando
sul legno bagnato del ponte. L’onda lo prese in pieno,
e rischiò di trascinarlo giù in acqua con lei. Lo salvò la presa ferrea di
Ryoma.
Sembrava
comparso dal nulla. La coda corvina era sfatta, ed i capelli lunghissimi gli
ricadevano disordinatamente sul viso, appiccicandosi fastidiosamente alla
pelle. Lo tirò su senza fatica –Stai bene?- gridò, per
farsi sentire oltre lo scrosciare della pioggia. Hikaru, gli occhi sbarrati dal
terrore, più bianco di prima, annuì febbrilmente. Gli tremavano le mani.
–Stiamo affondando!- continuò ad urlare Ryoma, senza sciogliere la presa sul
suo polso –La nave imbarca acqua!- lo avvertì, e la paura si impossessò
di Hikaru, strisciando fino allo stomaco, occludendoglielo in una morsa.
La
nave fu sbalzata nuovamente dalla corrente, e rovinarono
entrambi a terra. Intorno a loro, un caos di marinai che
gridavano e pochi passeggeri che fissavano terrorizzati il loro lavoro.
Non sarebbe servito a nulla tirare corde, ammainare le vele, spiegarle o
qualsiasi altra cosa. La nave sarebbe affondata senza ombra
di dubbio.
Hikaru
non pensava sarebbe morto così presto. In fondo, aveva
solo sedici anni, e così tante cose da fare. Avrebbe davvero voluto vederlo, il
Continente. Certo, si ritrovò a pensare, mentre Ryoma lo tirava nuovamente in
piedi per sorreggerlo, se solo fosse stato un mago un poco più potente, avrebbe
potuto dare una mano. Ma non aveva un controllo della
magia così forte. Tutta quell’acqua lo spaventava da morire,
lo terrorizzava. Era troppa, tutta insieme.
Troppa per un apprendista del suo livello.
-Dobbiamo
cercare delle scialuppe!- sentì di nuovo la voce di
Ryoma, e si aggrappò alla sua tunica, incapace di camminare sulle sue gambe.
Attraversarono il ponte a fatica, controvento, ingoiando l’acqua salata che
sbatteva contro i fianchi della nave e che faceva loro bruciare gli occhi.
Le
trovarono dopo poco, si. Totalmente distrutte, inutilizzabili. Hikaru sobbalzò
nel vederle. Non sembravano certo essere state distrutte dalla forza
dell’acqua. Ma in quel momento era troppo poco lucido
per porsi delle domande, quindi si limitò a stringersi ulteriormente a Ryoma.
Non lo conosceva, ma era l’unico appiglio che aveva. Contrariamente a lui, non sembrava affatto spaventato, solo ansioso di trovare una
via d’uscita da quella situazione. Oltre la Demea,
era solo buio. Non si scorgeva niente altro, ed Hikaru
non aveva idea di dove fosse la terra, di come arrivarci.
Senza
nemmeno rendersene conto, aveva anche cominciato a piangere. Anche
nei suoi probabili ultimi minuti di vita, stava piangendo. Non voleva morire su
una nave in mezzo all’oceano, dannazione.
Intorno
a loro, erano unicamente rumori indistinti. Non riusciva a capire cosa stesse
effettivamente succedendo, troppo concentrato ad essere spaventato, e quindi
non sentì arrivare subito il grido di Ryoma.
Fu
veloce. Ma gli sembrò durare un’eternità.
L’onda
lo colpì all’improvviso alla schiena, e per la seconda volta
andò a sbattere contro il parapetto. Gli si mozzò il fiato, ed un dolore
lancinante al petto lo rese del tutto inerme per una
manciata di secondi. Ingoiò altra acqua salata, e non riuscì a prendere aria
che una nuova onda lo colpì violentemente. Fu sbalzato oltre quel parapetto. Anche quello sembrò durare un’eternità. Era come osservarsi
da fuori, non partecipare in prima persona. L’acqua continuava a scrosciare, il
mare a ruggire, quando lui si ritrovò sospeso sul buio dell’oceano. Annaspò, il
respiro pesante. Ancora una volta Ryoma lo aveva afferrato, con entrambe le
mani. Gli teneva il polso, mentre lui ciondolava pericolosamente nel vuoto. Non
aveva nemmeno la forza di gridare. Colpì il fianco della nave, ed il lato
destro del suo corpo esplode di dolore. Sentiva la forza abbandonarlo ogni secondo di più –Resisti!
Resisti!- gli gridava contro Ryoma, che si sporse e
cominciò a tirarlo nuovamente a bordo.
Ma,
evidentemente, il loro destino non era quello di rimanere sulla Demea.
Una
nuova onda, più alta delle precedenti, si abbatté sul monaco. Hikaru lo vide
scivolare lungo il parapetto, picchiare la testa. E
poi, sbalzato oltre la nave. La presa delle sue mani si ruppe, ed Hikaru si
sentì trascinare giù dalla forza di gravità.
Un
sacco di pensieri gli si accalcarono in testa durante la caduta. E quindi alla fine moriva. Gli dispiaceva per Ryoma,
condannato allo stesso destino per colpa sua. Non avrebbe visto il Continente.
Non avrebbe imparato ad usare la magia. Non avrebbe mai più rivisto la sua
famiglia. Avrebbero avuto notizie di lui? Le scialuppe erano state manomesse da
qualcuno. Probabilmente anche la nave.
L’impatto
con l’acqua fu doloroso, tremendo, gli mozzò il
respiro in gola. Si ritrovò nel buio dell’oceano, sommerso per una decina di orribili secondi. Riemerse, cercando affannato aria, i
polmoni graffiati dal sale. Le vesti erano pesanti, lo
trascinavano giù. Ebbe qualche momento di smarrimento, lo sguardo
puntato sulla Demea inerme, che si
allontanava sospinta dalla corrente. Gli veniva da piangere. Un’onda lo tirò di
nuovo sott’acqua. Riemerse. Venne trascinato ancora
giù. Emerse un’altra volta. Cercò di sfilarsi la tunica in un attimo di
lucidità, per togliersi di dosso un peso, lasciandola alla furia dell’acqua.
Sapeva
nuotare, ma contro la forza dell’oceano avrebbe potuto ben poco, lo sapeva. Era
tentato di lasciarsi andare. Cosa avrebbe potuto fare,
lui?
Poi,
vide Ryoma. Lo scorse poco lontano da lui, in balia
delle onde. Lo chiamò una, due volte, ma non udì
risposta. Trovò la forza ed il coraggio di nuotare controcorrente, verso di
lui. L’acqua gli si abbatteva addosso, tentava di trascinarlo a fondo, ma si
oppose. Riuscì a raggiungerlo, a fatica, e ad afferrarlo per la vita. Pesava
molto più di lui, e tenersi a galla mentre lo sorreggeva era faticoso; non
avrebbe potuto nuotare in quelle condizioni. Tentò di trovare
una soluzione, ma proprio in quel momento, l’ennesima onda li travolse.
Sputò acqua in acqua mentre si trovava nuovamente
sommerso. Ryoma gli sfuggì di mano, e cominciò ad andare a fondo. Nel panico
più totale, si spinse verso di lui. Stava per svenire, lo sentiva, non avrebbe retto a lungo.
Negli
ultimi momenti di lucidità, decise di fare l’unica cosa che potesse
avere un minimo di successo: usare la magia.
La magia permette di
utilizzare la Natura,
in ogni suo aspetto, in ogni sua forma, in ogni
momento.
Ancora
immerso, senza fiato, troppo lontano dalla superficie per farcela, chiuse gli
occhi e si concentrò sull’unico elemento che poteva salvarli: aria.
La
bolla si plasmò tra le sue mani, tentennando. Cercare di non pensare alla sua
probabile morte imminente non era facile, ma non poteva distogliere
l’attenzione. Era una magia elementare, quindi ci vollero
pochi secondi. Non era una bolla grande, ma bastava. Vi immerse
il viso, inspirando aria, i polmoni che bruciavano.
Quindi
riprese a nuotare verso Ryoma, i muscoli indolenziti, le gambe che non avevano alcuna intenzione di collaborare. Lo prese dopo mezzo minuto
di puro terrore, tenendolo fermo con le gambe, che debolmente arpionò attorno
al suo busto. Si concentrò per creare una bolla più grande, mentre la propria
andava già esaurendosi. Le forze lo avevano abbandonato ormai del tutto, quando
riuscì a sistemarla su Ryoma.
Rimase
cosciente fino a che non lo vide tossire e sputare acqua, aspirando a boccate
il nuovo ossigeno a sua disposizione.
Poi,
la vista gli si annebbiò.
E
fu buio.
*
-Morto.
Dico morto.- la voce era profonda, quasi baritonale. La terra attorno a lui
parve muoversi, come in preda a piccole scosse di terremoto.
-No,
morto no. Respira.- un’altra voce si aggiunse alla prima, più dolce, ma sempre
molto bassa –Dovremmo aiutarlo.-
-Ma
morto.- replicò la prima voce.
-Ti dico respira.- ribattè la seconda voce.
Hikaru
non ci stava capendo niente. In realtà, capiva solo che la sua testa stava per
esplodere, e che non sentiva la parte destra (o era la sinistra?) del proprio
corpo. Non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Quando
ci provò, si accorse che la luce era davvero tropo forte per poterci riuscire.
Poi, i ricordi del naufragio gli tornarono in mente, vividi
come se li stesse rivivendo in quel preciso istante. Si sentì tremare, ma
probabilmente era stata solo una sua impressione,
visto che non riusciva a muoversi. A quanto pareva, era ancora vivo. Lo era
davvero. Fosse riuscito ad inalare aria come si deve, avrebbe
riso come un disperato. Le voci attorno a lui continuavano a bisticciare
sulla sua condizione (e avrebbe voluto dir loro “sono vivo! Sono vivo davvero,
almeno credo!”), in modo decisamente accorato, per
giunta.
Provò
a spostare una mano, quella destra. Le constatazioni furono due: primo, non ci
riusciva; secondo, gli faceva male da impazzire. Mugolò, e le voci si spensero.
-Vedi?
Detto che vivo.- dichiarò soddisfatta la seconda voce che
aveva parlato. L’altra non rispose, evidentemente
aveva accettato la sua sconfitta.
Hikaru
si sentì sollevare di peso, totalmente inerme. Riuscì a socchiudere gli occhi,
e stava per aprirli totalmente. Ma all’improvviso
percepì un dolore lancinante alla testa, preceduto da un forte “STONK!”.
Svenne
di nuovo.
Si
risvegliò in un tendone. O almeno, gli parve un
tendone all’inizio, il soffitto alto tenuto su da un’enorme trave di legno
lavorato. Sbatté le palpebre un paio di volte e tentò di mettere a fuoco altro.
La testa gli doleva più di prima, pulsazioni di dolore
lo costringevano a rimanere immobile. Voltò cautamente il capo, constatando con
sollievo di riuscirci. Il tendone era arredato a mo’ di casa. Un letto di
paglia era sistemato dritto davanti a lui. Si accorse di trovarsi lui stesso
disteso su un mucchietto di paglia. Vi strinse le dita della mano sinistra (la
destra era momentaneamente fuori uso), e sospirò di sollievo: era vivo sul
serio.
La
paglia di fianco a lui, constatò, era un po’ troppa per una persona sola, ma
non si fece domande.
Un
piccolo fuoco (se ne accorse dopo) scoppiettava da
qualche parte nella stanza, ma non riusciva a scorgerlo dalla sua posizione. Si
voltò dall’altra parte, a fatica. Trattenne un singulto solo perché altrimenti
gli avrebbe fatto troppo male. Di fianco a lui, Ryoma sorrideva a trentadue
denti, seduto a gambe incrociate. Si era quasi scordato di lui, e si sentì così felice nel constatare che stesse bene. Avrebbe
voluto piangere.
Il
petto abbronzato era scoperto, fasciato nel punto in cui aveva colpito con
forza il parapetto della Demea
–Ben svegliato.- alzò una mano, ed una risatina strascicata gli sfuggì
dalle labbra.
Hikaru
sentiva la bocca impastata –Dove… dove sono?-
sussurrò, senza voce. Si accorse solo allora che gli bruciava ancora la gola,
come se qualcuno vi stesse strofinando dell’ortica.
L’altro
si sporse in avanti, sembrava stranamente eccitato di
tutta quella situazione. Hikaru non lo era affatto.
–Nel villaggio dei Mangiatori di Sale.- rese noto.
L’apprendista mago tentò di ricordare qualche tribù che aveva studiato con quel
nome, ma non gli venne in mente niente. Doveva aver fatto una faccia abbastanza
confusa, visto che Ryoma continuò con i chiarimenti –Siamo
a qualche miglio dalla costa del Continente. Abbiamo fatto un sacco di strada
da dove abbiamo lasciato la nave!- incrociò le braccia al petto, come
rimuginando –I Mangiatori di Sale hanno detto che
andranno a controllare se c’è qualche superstite. Lo spero.-
sospirò.
Hikaru
socchiuse gli occhi. Non aveva la forza di chiedere chi fossero
questi Mangiatori di Sale, ma continuò a fare comunque domande –Come siamo
arrivati qui?- tentò di alzarsi, ma un grido di dolore gli sfuggì dalle labbra.
L’altro lo sostenne, intimandogli di rimanere giù, e solo in
quel momento notò le bende sulla parte destra del corpo. Gli venne da
piangere. Di nuovo.
-Mi
hai salvato la vita, amico. Wow, se non avessi fatto quella cosa (qualsiasi
cosa fosse) sarei annegato.- gli sorrise con
riconoscenza, e lui si sentì arrossire come un bamboccio –La corrente ci aveva
già portati parecchio lontani. Ti ho preso e ho nuotato. E
nuotato. E nuotato. Ho nuotato un sacco, in effetti!-
e scoppiò a ridere, portandosi una mano alla nuca,
buttando indietro il capo.
Hikaru
distolse lo sguardo. Già ammirava Ryoma. Era riuscito a salvarlo trascinandolo
per mare nonostante fosse ferito e stanco morto, quando lui era riuscito a
malapena ad afferrarlo sott’acqua. Dannazione.
-Quest’isola
è grandiosa, devi vederla assolutamente. Appena ti rimetti, ovviamente. I Mangiatori di Sale solo
pacifici, ci hanno offerto un passaggio per—
-Svegliato?-
la voce baritonale che Hikaru aveva sentito solo poco tempo
prima interruppe il discorso del suo compagno. L’aspirante mago non
vedeva la persona (o la cosa) dalla quale proveniva, ma sentì dei passi pesanti
avvicinarsi a lui. Deglutì, spaventato nonostante Ryoma l’avesse rassicurato.
Poco
dopo, una persona enorme entrò nel
suo campo visivo, in controluce. Quando si spostò,
riuscì a scorgerne qualche particolare: aveva ricci capelli di un viola chiaro,
quasi indaco, arruffati ed intrecciati di conchiglie ed alghe secche. Sembrava
malfermo sulle gambe tozze e, per gli dei!, sarà stato
alto almeno tre metri!
Hikaru
spalancò la bocca in un ovale perfetto, impressionato. Il nuovo arrivato aveva
occhi piccoli, porcini, ma non riuscì a scorgerne il colore. Lo vide piegarsi
su di lui e scrutarlo con curiosità, muovendo la testa da una parte e
dall’altra come un gufo –La testa.- sbottò, con la sua voce grossa.
-…
L-La eh?-
-…
Dolore?- domandò ancora, allungando una mano verso il suo capo. Hikaru fece per
ritrarsi, ma il tocco del gigante era lieve, quasi una carezza –Mi dispiace. C’era un albero.- sembrò veramente dispiaciuto, e
all’aspirante mago si strinse il cuore. Comunque, ora
sapeva perché gli doleva la testa a quel modo. Il gigante lo aveva fatto
picchiare contro un albero. Fantastico.
-Hikaru.-
s’intromise di nuovo Ryoma, in tono amichevole –Ti presento
Daichi! Daichi, lui è Hikaru!- allargò le braccia,
contento. Il gigante sorrise, agitando la mano per salutarlo. Si accovacciò vicino a Ryoma –Piacere.- ammiccò. Hikaru ricambiò
–P-Piacere…- inclinò il capo, ed un brivido di dolore lo
percorse da capo a piedi.
-Tu
ferito.- aggiunse ovvio Daichi, passandosi la mano sinistra sul braccio destro,
ad indicare i punti precisi –Preparato una cura. Veloce.- assicurò, rovistando
dentro un astuccio che teneva legato alla vita. Il suo abbigliamento era
formato da una semplice tunica di pelle legata in vita da una cintura di corda
–Fatta con l’aiuto del mare.- assicurò, come se questo potesse spiegare tutto.
Hikaru
era restio ad accettare una medicina da un totale sconosciuto,
ma Ryoma sembrava tranquillo in presenza di Daichi, e poi quel gigante
lo aveva salvato. Lo vide tirare fuori una piccola scodella di legno, e vi
versarvi del liquido azzurrino da una borraccia. Aveva l’odore dell’acqua di
mare.
Ryoma
lo aiutò a mettersi semiseduto, con non poca fatica, e Daichi gli fece
trangugiare la medicina. Era salata, tremendamente. Ma
non gli diede fastidio. Scese giù fresca, e si sentì subito meglio –Magia
d’acqua.- assicurò il gigante, che estrasse dall’astuccio qualche pianta.
Sembravano alghe. Le mise dentro la ciotola di legno che Hikaru aveva usato per
bere e prese a lavorare con un pestello. Ne venne fuori una poltiglia
verdeazzurra non molto carina da vedere.
Con
l’aiuto del Monaco Combattente, il gigante sfilò le bende ad
Hikaru, che gemeva di dolore, ed applicò il cataplasma sulle ferite e sui
lividi. Era incredibile, in pochi secondi si sentiva già in grado di mettersi
seduto, nonostante muoversi gli fosse ancora difficoltoso –Come…?- tentò di
domandare, ed il gigante sorrise, ancora concentrato sugli impacchi –Magia
dell’acqua.- ripeté. Ancora, il suo tocco era gentile e delicato, così piacevole
che ad Hikaru venne sonno –Siete- siete Dominatori?-
domandò, in un filo di voce.
Quello
alzò lo sguardo. Sembrava offeso –Noi non siamo
Continente. Noi usiamo la magia dell’acqua.- ribadì,
senza spazientirsi.
L’apprendista
mago sgranò gli occhi, sorpreso. Oh. Allora, lì erano veramente dei maghi.
Certo, sembravano specializzati in magia acquatica e basta, ma… era fantastico!
Hikaru scoprì una voglia pazzesca di visitare l’isola e parlare con la sua
gente, che per un secondo gli fece dimenticare quanto fosse effettivamente
terrorizzato di trovarsi su un’isola sperduta, in balia di un villaggio di
giganti, lontano dalla sua meta, in compagnia di un Monaco Combattente che
trovava il tutto molto educativo. Si, si sentiva già meno spaventato.
-Avrai un po’ sonno.- lo rassicurò Daichi, sorridendo mesto,
una volta finito di applicare le medicazioni.
Hikaru
non fece in tempo a comprendere quanto gli avesse detto,
che stava già dormendo di nuovo.
Quando si risvegliò, si sentiva del tutto in forze. Non si trovava più
nel tendone dov’era la volta prima, ma in una rozza costruzione di legno, di
dimensioni pazzesche. Era squadrata, ed il soffitto era sempre molto alto. Le
travi erano sistemate in modo ordinato, nonostante non fossero lavorate. L’aria
filtrava attraverso le molte finestre che si aprivano tutte intorno, ma la
porta sembrava chiusa.
-Svegliato.-
Hikaru trasalì. Di fianco a lui, Daichi –Dormito per giorni.
Guarito.- assicurò, con un enorme sorriso.
Hikaru
aggrottò le sopracciglia. Provò a muovere la mano destra, e si accorse con
sorpresa di non avere problemi. Raddrizzò la schiena. Fece forza sui palmi. Barcollò
un poco, non più abituato a camminare, e Daichi si offrì di fargli da sostegno mentre si rialzava su gambe tremanti. Ringraziò,
arrossendo, tenendosi alla sua veste. Gli arrivava appena alla cintura di corda
-… Quanti giorni ho-?-
-Sette
giorni, otto notti.- spiegò il gigante, dandogli lieve spinte
per dargli una mano a riprendere i movimenti. Ci mise poco, nonostante si
sentisse ancora un poco debole. Sette giorni. Il suo arrivo al Continente era
previsto in cinque giorni dalla partenza della Demea. Oramai il suo passaggio da Cancer fino a Gemini era saltato.
Non riuscì a dispiacersene. L’idea di rimanere in quel villaggio ancora un po’,
circondato da maghi dell’acqua, lo allettava parecchio. Voleva uscire, visitare
l’isola. Si chiese dove fosse Ryoma.
-Tuo
amico a caccia.- quasi gli stesse leggendo nel pensiero, Daichi ammiccò
all’esterno –Vuoi uscire?- gli propose. Lui annuì appena –Ma
non riesco ancora a- AH!- si sentì sollevare, all’improvviso. Daichi lo aveva
afferrato per la vita e lo aveva tirato in aria. Lo poggiò sulla sua spalla,
senza lasciarlo, ma Hikaru era talmente terrorizzato che gli si appiccicò ai
capelli, tirandoli –Ahi, ahi, ahi,
male!- si lamentò quello, ed il più piccolo si impose
di calmarsi, sciogliendo lentamente la presa –S-scusa—balbettò, tremendamente a
disagio.
Quello
non pareva essersela presa, né pareva essersi reso conto che la sua spalla fosse un po’ strettina per una persona, ma Hikaru rimase in
silenzio, non voleva di certo contraddire un gigante.
-Abbassa
la testa.- gli intimò quello, e lui obbedì, mentre la
porta si apriva ed altro sole inondava la stanza, ferendogli gli occhi.
La
prima cosa che vide fu il mare, a perdita d’occhio su quel lato dell’isola. Poi,
some per fargli avere una visione d’insieme, Daichi girò su sé
stesso, ed Hikaru scorse, dietro il capanno, piccole colline brulle, baciate
dal sole. Un ammasso informe di alberi e piante che
non aveva mai visto si apriva alla sua destra, e dava sulla spiaggia di sabbia
bianchissima ai suoi piedi. Sembrava sale, per quanto era chiara.
Girando
ancora, ad ovest, i suoi occhi incontrarono le cime di quelli che aveva creduto
essere tendoni. In realtà erano vere e proprie abitazioni. E,
quando Daichi cominciò a camminare in quella direzione, si accorse che si
trovavano sull’acqua. Erano palafitte, incastonate nella sabbia del fondale di
un’insenatura piuttosto rientrata rispetto al punto in cui si trovava lui. E le pareti erano di legno, non di tessuto, incavate verso
l’interno proprio come una tenda. Erano collegate tra di
loro tramite ponti di legno rialzati. Sembravano stare su da soli, senza nulla
che li reggesse. Solo dopo Hikaru notò i sostegni che si inabissavano.
Ma
la cosa più spettacolare non era di certo quella.
Daichi
avanzò, oltre il villaggio, ed Hikaru si perse ad osservare tutte le persone
che lo popolavano, alte dai due metri e mezzo ai quattro, intente nei lavori di
tutti i giorni. Non distolse lo sguardo da loro finchè non
oltrepassarono l’intera cittadina sull’acqua, passando vicino alla
spiaggia. Il fondale non era troppo alto per Daichi, nel punto in cui stavano
attraversando. Lasciatisi alle spalle le case-capanne, camminarono per un altro
quarto d’ora, girando attorno all’isola.
Ad
un certo punto, dietro una serie di scogli non tropo alti, sui quali era stata
costruita un’impalcatura in legno per consentire il
passaggio, si aprì una distesa immensa di bianco abbacinante, separata dalla
spiaggia da un muro di pietre. Dagli scogli, bisognava inerpicarsi verso il
basso per raggiungerla. Hikaru si coprì gli occhi, battendo le palpebre
velocemente per mettere a fuoco: una dozzina di giganti danzava al limitare di
quel mare bianco, incantando l’acqua dell’oceano che lambiva i loro piedi.
L’acqua si alzava e tendeva ai loro comandi. La trasportavano dentro grandi
secchi di legno, quindi continuavano la loro magia, separando l’acqua da…
-Sale.-
sorrise contento Daichi, salutando con la mano i suoi compagni, che
ricambiarono, senza però smettere di danzare.
Hikaru
dedusse che la distesa bianca che aveva visto fosse,
appunto, una sorta di deposito di sale. Sale, e sale e
sale. Ci saranno stati metri e metri cubi di sale. Notò un paio di giganti che caricavano alcuni
secchi e si dirigevano al villaggio –Cosa ci fate con tutto quel sale?- domandò, esterrefatto.
La
risposta, a ben pensarci, era ovvia –Lo mangiamo.-
replicò Daichi.
Solo
allora il nome “Mangiatori di Sale” acquistò un senso. Non era
un soprannome, era proprio un dato di fatto. Quei giganti si nutrivano
di sale. Era pazzesco. Hikaru non aveva mai sentito nulla del genere, nemmeno
da suo zio, che pareva sapere sempre tutto. Quella gente avrebbe
potuto sopravvivere in mare senza alcun tipo di problema!
Stava
per partire con una sessione di domande a raffica, sempre meno intimorito e
tremendamente interessato a sapere di più, quando qualcuno lo distrasse –Perché
lo hai portato qui?- proruppe un gigante, facendolo trasalire. Hikaru lo
inquadrò solo in quel momento: era più alto di Daichi, anche se più snello. Gli
occhi ambrati lo scrutavano con diffidenza.
Era
vestito in modo più consono del suo compagno. Sopra i pantaloni di pelle
portava una casacca bianca. Odorava di salsedine.
I
capelli erano rossi, e ordinati., Due basette gli
incorniciavano il viso smunto, e sulla fronte prorompevano simili a corna. Erano intrecciati di telline ed alghe secche come quelli di Daichi,
ma nel complesso, quel gigante risultava molto più (minaccioso) elegante.
-Tadashi.-
brontolò il gigante che lo portava in spalla, senza guardare il compagno, ed
Hikaru desiderò di sparire sotto quella massa di sale. Di nuovo, si sentì
terrorizzato –Amico. No fa niente di— continuò Daichi.
-Non
è uno dei nostri.- sbottò tale Tadashi, duro -Salvato.
Curato. Ma non in giro per l’isola.- il gigante
socchiuse gli occhi, e l’aspirante mago rimase a corto di parole.
Tadashi
rimase in silenzio qualche secondo, a scrutare Daichi. Sembrarono
parlarsi tramite gli sguardi, e alla fine il gigante dai capelli rossi sospirò,
esasperato, sviando lo sguardo –Va bene.- brontolò, chiudendo gli occhi. Poi li
rivolse nuovamente ad Hikaru –Attento a quello che
fai, umano.- gli intimò, per poi farsi serio–Attenzione anche tu, Daichi.
Attenzione. Non fidarti.- si raccomandò, quindi prese aria e fece per farlo passare, lanciando altre occhiate ostili al povero
Hikaru, a cui tremavano le ginocchia.
-Daichi.-
pigolò quello, deglutendo, gli occhi fissi in quelli
di Tadashi.
-Mh.-
-V-va bene così, davvero. Sono un po’ stanco, possiamo tornare
indietro?- domandò, e l’altro nemmeno rispose, facendo
dietrofront, dopo aver rivolto un’espressione profondamente offesa al compagno,
che sembrò tutto ad un tratto a disagio, ma non li seguì.
Tornarono
al capannone quadrato in riva alla spiaggia, in silenzio. Hikaru non aveva più
voglia di fare domande. Perché quel gigante si era
comportato in modo così ostile? Cosa aveva da temere da un essere umano altro
nemmeno la metà di lui, magro, emaciato, debole dopo
una settimana di convalescenza?
Chi erano i Mangiatori di Sale? Perché lui non ne aveva mai sentito parlare?
Davanti
al capannone, Ryoma li aspettava, con in mano un cesto
pieno di… piante?
-Ehilà,
Hikaru! Ti sei svegliato! Mi stavo preoccupando, quando non ti ho visto!- dal
modo in cui lo aveva detto, non sembrava poi così preoccupato. Tendeva ad essere molto espansivo, notò Hikaru.
-Allora,
ho preso da mangiare!- alzò i pollici, mostrando il cestino –Finalmente
possiamo condividere un pasto come si deve.- annuì. Sembrava molto contento.
Hikaru non sapeva come comportarsi, in realtà. Non era abituato a tutta quella
confidenza, e si sentì arrossire. Si accorse di avere una fame tremenda.
-Il
tuo amico. Mangia sempre vicino a te. Anche se dormi.-
gli spiegò Daichi. Avvampò –E tutti i giorni va a
caccia.- spiegò. Sembrava davvero orgoglioso di Ryoma.
-Caccia?
Ma quelle sono erbe.- biascicò Hikaru.
-Bhe,
si, noi monaci siamo vegetariani. Ma fidati, trovare questi è stato come andare
a caccia!- assicurò, scuotendo la testa.
Hikaru
si ritrovò a sorridere, senza neanche rendersene conto.
C’era ancora tempo per visitare l’isola, abituarsi ad i suoi abitanti
e fare domande, pensò.
Daichi
lo mise a terra, e lui barcollò verso Ryoma, che lo sorresse –Allora, le
preferisci bollite o grigliate?- domandò, come fosse
una questione della massima importanza.
Ma per il momento, poteva anche rilassarsi e mangiare un po’.
*
No,
ok.
E’
passato un po’ tanto tempo dall’ultima volta che ho aggiornato.
Potrei
dire che ho avuto gli esami, e che buh, e che blah, ma
la spiegazione più semplice è che- non avevo ispirazione per mettermi davanti al
pc e scrivere questo capitol-
E’
un capitolo di passaggio, abbastanza lento, lo ammetto (e sempre molto lungo,
vi prego davvero di farmi sapere se è troppo spaccapall- ahem, noioso così, che
provvedo a fare capitoli più brevi), ma Hikaru avrà un
ruolo particolarmente importante nella storia. Perché non
se lo fila mai nessuno e merita le luci della ribalta, ogni tanto (MA COSA). E c’è anche Nishiki. Non so perché abbia scelto lui da
mettere assieme ad Hikaru in questo capitolo, ma mi…
andava, ecco. Nishiki mi piace molto, e al fianco di Hikaru secondo me può dare il meglio di sé <3 non avrà capitoli dedicati
a lui personalmente, ma sarà molto presente.
Per quanto riguarda i Mangiatori di Sale… Allora. Daichi è, ovviamente,
Amagi; Tadashi invece è Mahoro. Lo specifico perché nemmeno
io sapevo i loro nomi prima di scrivere questo capitol- AHEM. Si vede
che li scippo un po’-? No, vero-? COFF. In ogni caso. Bhè, allora, facciamo un
po’ di geografia. Allegherei un’immagine, poi vedo se
ci riesco, perché non sono capace co sto cos- IN OGNI CASO. Il Continente è una
bella PALLA di terra in mezzo al mare. Una PALLA molto grande. E’ ovviamente
piena di città, e le dodici principali hanno i nomi dei segni del nostro
zodiaco (ovviamente i personaggi non comprendono la figata di questa cosa, ma
piaceva a me, quind-). Le Altre Isole, sono un arcipelago di, appunto, isole, non troppo distanti dal Continente. Sono dodici, ed in ognuna, la città principale ha il nome di
un segno dello zodiaco cinese. Quella da cui viene Nishiki, per esempio, è la
città di Cinghiale. Ma io ho messo il nome in cinese perché
è molto figo.
La
nostra prima lezione di geografia è conclusa. Man mano che andrò avanti,
chiarirò molte altre cose, ecco, uhm (?).
Bhè,
spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e che nonostante i miei reiterati
ritardi, continuiate a seguirmi <3
Pace
amore e sacher torte *regala fette di torta* <3