Il Quinto Impero

di vul95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Kyousuke; Takuto ***
Capitolo 3: *** 2. Masaki; Ranmaru ***
Capitolo 4: *** 3. Hikaru ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***


Prologo
IL QUINTO IMPERO

PROLOGO



Kazuya non capiva niente.
Guardava gente muoversi, spintonarsi. Mantelli che vorticavano sulle spalle di persone a lui conosciute e non che correvano per i corridoi urlando ordini, chiamando nomi, mentre lui rimaneva impalato di fronte la porta delle sue stanze.
Il cozzare del metallo gli rimbombava nelle orecchie, rintronandolo.
E ancora gemiti, risate sguaiate, ansiti, grida.
Sentiva voci contorcersi, mescolarsi, avvilupparsi nel suo cevello, ma non riusciva a tornare presente a sè stesso, come se quello che accadeva non fosse reale.
La spallata di qualche uomo in corsa lo riscosse per un momento. Inquadrò Ichirouta a qualche metro da lui, che incrociava la spada con una Guardia. La coda con cui di solito legava i suoi capelli turchesi era sciolta, e ciocche scomposte gli ricadevano sugli occhi color nocciola, impedendogli la visuale.
Lo vide muovere velocemente le mani, mandare al tappeto il suo avversario, procedere con il successivo che si stava già avventando su di lui.
"Cosa succede?" continuava a chiedersi.
Era uscito dalle sue stanze, attirato dai fin troppo familiari rumori di battaglia, ed aveva trovato una mischia di uomini che si battevano in nome di non aveva nemmeno fatto in tempo a chiedersi chi o cosa.
"Cosa succede?" non fece in tempo a cercare una risposta, che si ritrovò a schivare un fendente che, se l'avesse colpito, l'avrebbe probabilmente squarciato dall'inguine alla spalla.
Tirò fuori la spada che teneva al fianco e parò il colpo successivo, accorgendosi che anche il suo avversario era una Guardia, il mantello rosso che ondeggiava ai movimenti. Disarmò l'avversario ed indietreggiò, un'espressione angosciata sul colorito terreo.
Lui era un Cavaliere del Re, non aveva motivo di uccidere una Guardia della Corona. Erano entrambi sotto gli ordini dello stesso sovrano, al servizio dello stesso re. L'avevano giurato al cospetto del sole nascente, l'avevano giurato sulla propria vita, sulla propria spada.
Perchè lo stavano attaccando?
"Tradimento." scosse la testa.
Lo sguardo vagò ancora per il corridoio, e con orrore si accorse che il tappeto di velluto rosso sul pavimento era dipinto di macchie più scure. Guardie si aggrappavano ferite alla parete, altre giacevano a terra, altre si davano battaglia tra loro.
Ichirouta continuava a menare fendenti e ad esercitare il proprio dominio di Maestro. Lo vide generare onde d'urto, piccoli tornadi, sferzate d'aria che allontanavano chiunque cercasse di raggiungerlo.
Shinichi era poco avanti al Cavaliere dai capelli turchesi, e come lui combatteva con le sue lame, incrociandole con quelle dei nemici.
I suoni giungevano ovattati alle orecchie di Kazuya.
Vedeva i due Cavalieri suoi compagni urlargli qualcosa, ma non riusciva a comprendere cosa gli stessero dicendo.
Si ritrovò a schivare una compatta palla di fuoco, e finì con le spalle al muro battendo la testa, mentre una Guardia dominatore del fuoco utilizzava le fiamme delle lanterne del corridoio per sferrare i propri attacchi.
Oramai conscio del pericolo, Kazuya bloccò il braccio dell'avversario, la testa che gli girava appena, non temendo le fiamme, che anzi rivoltò contro di lui. Parte furono assorbite dalla sua spada, parte le dissolse con un semplice movimento delle dita, mentre la Guardia si accorgeva con orrore di avere davanti il Maestro del Fuoco a capo dei Cavalieri del Re e tentava di fuggire.
Prima di riuscirci cadde a terra svenuto grazie a un pugno ben assestato sul naso da parte del Cavaliere, che sentiva l'adrenalina circolargli in corpo, i muscoli tesi nei movimenti.
"Tradimento." gli gridava il suo cervello mentre correva verso i suoi compagni, che ansimando continuavano a combattere.
-Il re è caduto!- gli urlò Ichirouta, e finalmente potè udirlo chiaramente.
"Tradimento!" la parola gli rimbalzava in testa, mentre gocce di sudore freddo gli scivolavano giù per il collo, dentro l'armatura argentata "Tradimento! Tradimento! Tradimento!"
Ignorò le altre urla che lo chiamavano mentre superava i Cavalieri e svoltava al primo corridoio, le gambe che gli dolevano per la corsa esageratamente veloce.
Si fermò quando arrivò ad un bivio, e un pensiero gli balenò in testa.
Lei. Lei dov'era? Stava bene?
La tentazione di cambiare direzione gli bruciò nello stomaco, la preoccupazione gli attanagliò le viscere.
Fu un attimo. Poi scosse la testa e continuò per la sua strada, i denti digrignati.
Salì scale, schivò lame, oltrepassò camere.
La Sala del Trono.
Lì doveva arrivare.
Doveva proteggere il suo re. A costo della sua stessa vita. Lo aveva giurato.
L'ultima rampa di scale si estese di fronte i suoi occhi proprio mentre sentiva le caviglie cedergli. Saltò i gradini a due, a tre alla volta, mentre vampate di fuoco scaturivano dai palmi delle sue mani ogni qualvolta qualcuno tentava di fermarlo, in una danza bruciante e mortale.
Fu la vista di Asuka a farlo indugiare.
Il Cavaliere era abbandonato sugli scalini, il capo basso, la mano a tenersi la pelle sotto la stoffa e la cotta di maglia di ferro lacerate, che gocciolavano sangue. Il suo mantello blu era bruciato e strappato in più punti.
Chiamò il suo nome con disperazione, rinfoderando la spada, e si accovacciò di fianco a lui, scuotendolo per le spalle.
Gli sollevò la mano dalla ferita e represse un gemito nel constatare quanto fosse profonda e slabbrata, irregolare.
Il Cavaliere di fronte a lui alzò lo sguardo sbiadito, liquido su di lui -Comandante.- mugolò, la voce comunque ferma -Non sono riuscito... Non ho...- un accesso di tosse lo piegò in due, mentre altro sangue sgorgava dalla ferita al suo fianco.
Kazuya lo pregò di non parlare altrimenti e strinse la mano tra le sue.
-Il re...- sussurrò come se non lo avesse sentito il Cavaliere. Il suo secondo. Il suo migliore amico -E così ho fallito anche questa volta.- una risata rantolante faticò ad uscire dalle sue labbra.
I suoi capelli grigiastri erano appiccicosi di sangue, il suo volto appariva più magro del solito.
Kazuya voleva dirgli che non aveva fallito, che tutto quello che stava succedendo non aveva senso. Ma non riuscì a dire nulla, mentre sentiva le mani tremargli in preda a spasmi che non riusciva a controllare.
Il colorito di Asuka era sempre più pallido. Respirava a fatica -Non rimanere qui.- tossì ancora, e strinse impercettibilmente la mano tremante dell'altro -Non ha senso... Il re...- ripetè, ed ammiccò debolmente alle scale, alla porta oltre le scale, alla Sala del Trono -Io... sto bene.- un piccolo sorriso si allargò sulle sue labbra.
Con gli occhi che gli pizzicavano terribilmente e un groppo in gola che lo dilaniava, Kazuya posò un lieve bacio sulla fronte dell'amico e si alzò, i pugni stretti, il mento alto.
Lo guardò per istanti che parvero interminabili, dicendogli con gli occhi tutto quello che non riusciva ad esprimere a parole, perchè sapeva che se solo avesse aperto bocca sarebbe scoppiato a piangere e sarebbe rimasto a morire lì con lui.
-Proteggila.- riuscì a dire Asuka prima di abbandonare il capo alla parete -Promettimelo.-
Il Comandante dei Cavalieri del Re non ebbe bisogno di chiedere chi dovesse proteggere. Lo capì all'istante. E promise.
"Addio, amico mio." lo salutò, mentre quello gli ammiccava e tornava a distendere un sorriso sul volto. Poi, tornò ad avanzare, lasciandolo dietro di lui.
La Guardia lo prese alle spalle. Doveva essere un dominatore dell'aria, perchè non l'aveva sentito arrivare.
Se ne accorse a sue spese, mentre ormai la pesante porta d'acciaio della Sala del Trono si mostrava di fronte ai suoi occhi: una lama gli incise la coscia destra in profondità.
Cadde in avanti, pervaso da un dolore lancinante che gli pulsava dalla gamba e gli risaliva a martellargli in testa.
Si costrinse a rotolare su di un fianco e ad estrarre nuovamente la spada, mentre schivava il fendente che incastrò la lama avversaria a terra, affondata nello spesso tappeto di velluto rosso.
Approfittò di quel momento per atterrare l'avversario con una stoccata al petto e successivamente un colpo di piatto all'elmo. Impresse tanta forza da far cadere la Guardia all'indietro, a rotolare giù per le scale.
Stringendo i denti ed alzandosi a fatica, si trascinò per le ultime scale tenendosi alla parete, la gamba che gli mandava stilettate di dolore ad ogni movimento e gli faceva vedere nero.
Doveva arrivare fino in fondo. Capire di più. Proteggere il re ed il regno. Vendicare Asuka. La testa gli doleva, ma strinse i denti.
"Tradimento!"
Arrivò alla porta, priva di controllo, che ansimava.
Ed entrò.

Sentiva il mantello blu appartenente al suo ordine di Cavaliere ondeggiare appena dietro alle sue spalle.
I corridoi erano nuovamente silenziosi, i tappeti di velluto erano stati rimossi, ed ora a terra non c'era che il nudo pavimento.
Zoppicava visibilmente, ma si costrinse a non chiedere aiuto a nessuno, nè a reggersi alla parete, e proseguì, a testa alta, l'elmo sotto un braccio, la spada nell'altra mano.
Salire nuovamente la rampa di scale che portava alla Sala del Trono fu una sofferenza, continuava a sentire la ferita pulsare sotto le bende, circondata dalla morsa dell'armatura d'argento.
Oltrepassò la spessa porta ed avanzò per l'enorme sala, vuota anch'essa dei tappeti e degli arazzi che sempre aveva visto alle pareti, dirigendosi verso il fondo.
Il trono era in penombra, e ai suoi lati vi erano una Guardia e un uomo dai capelli rossicci legati in una coda bassa. In mezzo a loro, seduto sull'altro scranno, gambe accavallate e sorriso talmente bianco da vedersi attraverso le tenebre, il re.
L'Imperatore.
Kazuya si inchinò, la testa bassa, ed il movimento gli procurò un'ondata di dolore lancinante -Mio Sovrano.- la sua voce riecheggiò nel­la grande stanza -Tu sei il mio re; il mio Imperatore. Lo giurai davanti al sole e ribadisco la mia promessa: il mio elmo è nelle tue mani- poggiò l'oggetto di fronte a lui -e la mia spada al tuo servizio.- prese la lama tra le mani e, lentamente, la sistemò di fronte l'elmo.
Il sangue aveva lasciato tracce visibili sull'acciaio.
Alzò lo sguardo ed incrociò solo l'ombra che oscurava il volto del nuovo sovrano. Ancora una volta, notò solo il suo sorriso scintillante.
Lo vide sistemarsi meglio sullo scranno, poi schioccare le dita -E' bene, Cavaliere.- disse. La sua voce era bassa, ma tra quelle mura pareva roboante -Tuo compito è proteggere il re, e in caso esso muoia, il re dopo di lui, fino alla tua morte.- il suo tono pareva quasi irrisorio -Mi compiaccio che tu sia rimasto per dare onore alla tua promessa.- il sorriso si allargò -E voglio sperare che tu me l'abbia dimostrato anche con i fatti, Cavaliere.- Kazuya fu sicuro che lo sguardo dell'uomo si fosse posato sulla sua lama insanguinata -E' il sangue dell'Erede?- chiese l'Imperatore, una vena di impaziente trepidazione nella voce.
"Tradimento!"
Kazuya chinò nuovamente il capo, talmente tanto da toccare terra.
Ora aveva un nuovo Sovrano. Non importava chi fosse, come agisse, perchè lui l'avrebbe protetto a costo della vita. E qualsiasi cosa gli avesse chiesto di fare, lui avrebbe eseguito, perchè così doveva essere.
Lo aveva giurato.
"Tradimento."
Il suo sguardo si piantò sul pavimento di pietra grigio scuro.
-Come lei ha chiesto, Mio Sovrano, si.- la sua voce era piatta ma ferma.
Rimase con il capo chino -L'ho ucciso con le mie mani, Grande Imperatore.-
"Tradimento..."
Ma oramai non era che un flebile sussurro nella sua testa.

Era solo l'inizio del Quinto Impero.

*

Ok. Ho preso come oro colato il consiglio di Zael ed ho deciso di postare questa fanfiction, per vostra enorme gioia *A*!! *cade*
Il titolo è ovviamente ripreso dal Fifth Sector, visto che la trama si concentrerà sui personaggi del GO, a parte questo Prologo, dove il protagonista è il nostro caro Ichinose. I capitoli non saranno tutti seriosi come questo, però avranno una lunghezza abbastanza notevole (sette, otto pagine di word in Verdana 10, per capirci), e spero davvero che non annoino nessuno. In caso, li accorcerò u.u E mi dispiace per Domon çAç! E' uno dei miei personaggi preferiti, ma-- dovevo! Mi serviva, e-- scusatemi çAç *si inchina*!!
All'interno della fanfiction (ambientata da ora in poi quindici anni dopo il prologo) i personaggi (che saranno chiamati sempre per nome e non per cognome) saranno in grado di dominare i quattro elementi (fuoco, acqua, terra, aria), e questo è l'unico spunto preso dalla serie Avatar, che è una serie meravigliosa, fantastica, che tutti voi dovreste vedere e alla cui io non sto assolutamente facendo pubblicità *svagheggia*.
Il motivo per cui mi è nata l'idea di far muovere i personaggi del GO (che adoro <3) all'interno di un mondo fantasy di quelli tradizionali, dove non mancheranno la magia e le creature sovrannaturali, non posso spiegarlo in questa sede, perchè sarebbe uno spoiler al primo capitolo, quindi rimando le spiegazioni alla prossima volta xD
Posso solo anticipare che ogni capitolo avrà protagonisti diversi, a turno, e che ognuno avrà una situazione diversa da raccontare e, chissà, forse alla fine si incontreranno tutti. Ho bei progettini al riguardo dehe :D
Avverto per la presenza di crack pairing, che non vi anticipo perchè sono curiosa di vedere come ne prenderete alcuni xD
Con gli avvertimenti ho finito. Ho come obiettivo il terminare questa fic, perchè grossomodo ho la storia già tutta in testa. Spero davvero che avrete voglia di seguirmi *inchin* (_ _)
Infine, vorrei ringraziare tantissimo Enrica, che ha ascoltato i miei vaneggiamenti e i miei fangirlamenti campati in aria mentre ideavo la trama e qualche particolare. Grazie davvero <3 E intanto gongolo perchè lo sto facendo online (?) buahahahahahah!!
Detto ciò, visto che come al solito le note stanno diventando più lunghe del capitolo, mi ritiro xD
Alla prossima, grazie mille per aver letto <3 *porge biscotti*

Greta.

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Capitolo 2
*** 1. Kyousuke; Takuto ***


Kyosuke; Takuto

IL QUINTO IMPERO


Kyousuke; Takuto


Un pezzo di pane e qualche mela.
Espirò pesantemente. Non poteva aspettarsi molto di più, da un villaggio di contadini, con i tempi che giravano. Decise che si sarebbe accontentato, e a passo svelto, silenzioso come suo solito, si diresse verso l’unica locanda che aveva intravisto mentre si dirigeva dalle parti del mercato, che tra l’altro aveva trovato semivuoto.
Niente di che. Una baracca, più che altro. L’insegna di legno dondolava al vento, gonfia d’umidità e rovinata dal tempo.
Si tirò il cappuccio più giù ed entrò, giusto in tempo per vedere un manipolo di Guardie della Corona uscire tra risate e schiamazzi, lasciando la locanda nel caos più totale.
I suoi occhi vagarono sullo spettacolo pietoso: tavoli rovesciati, avventori stesi a terra e garzoni attaccati alla parete, tremanti nelle loro scialbe divise sporche di olio e vino.
Si fece avanti in silenzio, aiutando quello che apparentemente sembrava il padrone della locanda (spalle larghe, capelli ondulati di uno strano colore marrone chiaro e grandi occhi color nocciola) ad alzare un paio di tavoli e qualche sedia. In cambio ricevette un paio d’occhiate riconoscenti, mentre l’uomo (avrà avuto poco più di quarant’anni), commentava con un basso –Basta che non mi facciano chiudere.- seguito da una mezza risatina per stemperare la tensione.
Non replicò. Per quanto lo riguardava, più le Guardie della Corona gli stavano lontano e meglio era, per la sua sicurezza e soprattutto per la loro.
-Non c’è molta gente.- si limitò a constatare, guardandosi attorno: quei pochi clienti che erano presenti al suo arrivo erano fuggiti a gambe levate appena avevano potuto, e probabilmente anche senza pagare.
L’altro parve rabbuiarsi –Hanno portato via tutti i dominatori della terra del villaggio.- disse –E’ rimasto chi ancora non è in grado di esercitare il potere. O chi non lo ha mai esercitato.- si portò una mano al petto –A parte qualche viandante, siamo rimasti in pochi, qui.- lo sguardo dell’uomo passò sui suoi aiutanti, che stavano terminando di mettere in ordine –Facciamo quel che possiamo.- concluse, pulendosi le mani sul grembiule –Allora, era qui per mangiare o prendere una stanza, signor…?-

-Kyousuke.- rispose secco il ragazzo, osservando lo sguardo buono del capo locandiere da sotto il cappuccio –Per prendere una camera. Devo fermarmi per una notte.- spiegò laconico, porgendogli un piccolo sacchetto –Mi mostra la stanza?- chiese quindi.
L’uomo soppesò il contenuto del sacchetto, sgranando gli occhi –C-Certo, da questa parte.- fece strada. Proprio mentre stava per mettere piede sul primo gradino della scala che conduceva al piano di sopra, però, si fermò –Signor Lionel!- lo richiamò una voce. Quello si voltò, aggrottando le sopracciglia, mentre un ragazzo di non più di diciassette anni, dai capelli ondulati di un castano sbiadito e gli occhi color nocciola (Kyousuke si stupì di quanto le poche persone di quel villaggio si somigliassero tra loro), lo raggiungeva. Si piegò sulle ginocchia, ansimando. Poi alzò lo sguardo –Cosa è successo? Ho visto le Guardie qui fuori!- esclamò, accorato, sul volto disegnata un’espressione parecchio preoccupata.
Il capo locandiere (ufficialmente Signor Lionel), scrollò le spalle –E’ tutto a posto, Takuto.- gli rivolse un sorriso gentile, passando una mano tra i suoi capelli, scompigliandoglieli –La solita giornata rumorosa.- si sciolse in una risata che rimbombò nelle orecchie di Kyousuke.
Il ragazzo socchiuse gli occhi, stringendo i pugni –Hanno di nuovo messo sottosopra il locale?- chiese, guardandosi attorno, e prima che l’altro potesse rispondere grugnì un –Devono smetterla. Non possono trattarci così, non ne hanno il diritto.- alzò lo sguardo sul più grande –Perché non dice niente?-
-Takuto…- sospirò il Signor Lionel, facendo per replicare, ma la mezza risatina di Kyousuke lo interruppe, facendoli voltare entrambi.
-Scusi?- tale Takuto inarcò un sopracciglio, le labbra strette, cercando di trafiggere il ragazzo incappucciato con lo sguardo.
Quello, per tutta risposta, scosse la testa, lasciando che l’ultimo sbuffo divertito fuoriuscisse dalle sue labbra –E secondo te le Guardie della Corona si farebbero intimorire da un locandiere e un ragazzino? Che tra l’altro non dominano nemmeno la terra?- incrociò le braccia al petto.
Takuto fece per dire altro, ma infine si risolse ad avvampare di rabbia –E cosa suggeriresti di fare, tu, che nemmeno hai idea di cosa stiamo passando, noi, qui?- sibilò, mentre il Signor Lionel tentava di calmarlo in qualche modo.
-Sii realista. Sfidando le Guardie rischieresti solo di mettere ulteriormente in pericolo gli abitanti di questo villaggio.- replicò Kyousuke, questa volta serio, mentre scrutava Takuto da sotto la stoffa leggera del cappuccio. Talmente serio che l’altro ragazzo non potè fare altro che stringere ulteriormente i pugni e rimanere in silenzio.
Abbassò il capo di modo che la frangia gli coprisse gli occhi –E quindi dovremmo rimanere loro schiavi per sempre, chiusi qui dentro?- tremava –E’ insopportabile!- abbaiò, alzando gli occhi all’improvviso. Quindi indietreggiò ed uscì dalla locanda di corsa.
-Perdonalo.- sussurrò il capo locandiere, dopo aver tirato un lungo sospiro, tornando a salire le scale, dando le spalle a Kyousuke –Sua madre e suo padre sono stati portati via dalle Guardie. Non lo biasimo per la sua voglia di ribellarsi.- sorrise mesto.
Il più piccolo non disse altro. Trovava stupida l’idea di ribellarsi alle truppe dell’Impero. Erano formate interamente da dominatori esperti. Specialmente Maestri di Dominio. Il che significava non avere alcuna possibilità di riuscita contro uno di loro. Figurarsi contro un manipolo. Specialmente quando non avevi nulla con cui difenderti. “Evidentemente quel ragazzo è convinto di non avere nulla da perdere” pensò con un sorriso amaro Kyousuke.
Lui qualcosa da perdere l’aveva
avuta. E aveva paura che non fosse più recuperabile.

 

L’Impero aveva oramai esteso i suoi artigli sulla maggior parte del territorio del Continente. Non c’erano cittadine o villaggi salvi dalle sue grinfie, tutti in qualche modo gli erano sottoposti o avevano nei suoi riguardi un debito incolmabile.
Le città più estese e ricche non avevano alcun tipo di problema, anzi, dalla guerra traevano qualche vantaggio. Il problema era per i piccoli paesi, dal quale l’Impero pretendeva forza lavoro e raccolto, e spesso anche dominatori per rimpolpare l’esercito delle Guardie della Corona. Molti venivano anche spediti nelle miniere, se erano fortunati e non erano costretti a combattere contro i propri villaggi e le proprie famiglie.
Ciò a cui aspirava l’Impero, però, era avere il completo monopolio dei Maestri di Dominio. Uomini in grado di esercitare il loro potere sugli elementi senza bisogno di fonti esterne, in grado di generarli dal nulla. Le loro abilità erano quanto di più simile alla magia rimanesse nel Continente. Molti di loro si erano uniti spontaneamente alle forze imperiali, e per questo la loro categoria era ormai vista in malo modo dovunque. Ma nessuno sapeva che cosa avessero intenzione di fare esattamente, una volta raccolto il maggior numero di Maestri.
Nemmeno Kyousuke ne aveva idea.
I Maestri di Dominio, rispetto alla popolazione del Continente, erano in minoranza. Esisteva chi nasceva già con l’abilità di autogenerare il proprio elemento, e chi invece aveva bisogno di anni e anni di studio intenso e pratica con il dominio. Ogni essere umano veniva al mondo con le capacità di usufruire del dominio. Acqua, fuoco, vento o aria lo decidevano la propria discendenza e le attitudini naturali. In ogni caso, riuscire ad averne il pieno controllo era un’impresa del tutto ardua, visto e considerato che non tutti gli esseri umani sono in grado di portarsi ad un livello di simbiosi con la natura circostante.
Molte persone preferivano lasciare il proprio potere allo stato di base e non usufruirne, anche se spesso si rivelava decisamente utile, che fosse per lavoro o anche per svolgere azioni quotidiane.
In ogni caso, essendo i villaggi più piccoli spesso pieni di buoni dominatori, fortificati dai lavori fisici nei campi o nelle miniere, l’Impero non poteva permettersi di lasciarli incustoditi, così inviava ogni sei mesi un cambio di Guardie della Corona che li controllassero e che riscuotessero il dovuto di uomini e raccolti.
L’unica cosa che Kyousuke non riusciva a spiegarsi, era come mai in quel preciso villaggio ce ne fossero così tanti.
Ogni via era presidiata da almeno una Guardia, il volto celato dagli elmi fini e leggeri, il busto stretto nell’armatura argentata riportante il simbolo dell’Impero (due ali da tre piume appuntite di colore bianco), il mantello rosso che a prima vista pareva pesante come un tappeto. I Maestri di Dominio, se mai indossavano un’armatura, portavano il mantello blu, per distinguerli dal resto dell’esercito e ricordare agli altri comuni dominatori quanto fossero inferiori rispetto a loro nonostante si trovassero sotto la guida dello stesso comandante.
Un sorrisetto sarcastico comparve sulle labbra di Kyousuke, mentre percorreva le strade vuote del villaggio senza una meta precisa.
Era ormai il tramonto, e a quell’ora la cittadina gli sembrava ancora più triste di quanto non fosse di giorno.
Ad un certo punto la sua attenzione venne attirata da un vociare poco distante. Tenendosi all’ombra dei palazzi per non farsi notare, si avvicinò, incuriosito.
Attraversò un paio di stradine laterali, fino a che, facendo capolino da un angolo, la schiena poggiata al muro dell’edificio dietro di lui, inquadrò una piccola piazza. Due Guardie dal mantello rosso, un uomo, una donna e un bambino, tutti e tre con i capelli di quell’insolito castano sbiadito si trovavano, al centro, vicino a quella che una volta doveva essere la gogna del villaggio, ormai ben rovinata.
Scorse da sotto il cappuccio varie teste affacciarsi dalle finestre delle case tutt’attorno alla piazza, occhi sbirciare furtivamente dagli angoli, persone che camminavano velocemente per allontanarsi.
Ma il silenzio era assoluto.
-Questo bambino è un dominatore.- sentì dire ad una delle due Guardie, che con uno strattone attirò il bambino, che non aveva più di otto anni, a sé, strappandolo alle braccia della donna.
Quella si buttò in ginocchio –Vi prego, è solo un bambino… Non può nuocere a nessuno…- si tese verso il piccolo, che allungò le manine verso di lei.
L’altra Guardia la ricacciò riluttante indietro con il piede, allontanando ulteriormente il piccolo –Aspetta qualche anno e vedrai come potrà nuocere a voi.- ghignò, prendendogli le guance tra le dita e voltandolo da una parte e dall’altra come fosse merce di scambio. Il bambino ingoiò le lacrime, stringendo le labbra –Potrebbe crescere bene. Un ottimo acquisto per noi Guardie. Non credi?- si rivolse al compagno, che nel frattempo aveva steso con una ginocchiata l’uomo, probabilmente il padre del ragazzino. Quello scrollò le spalle e si aprì in un sorriso eccessivamente mellifluo. Si voltò di nuovo verso la coppia a terra –Pensateci. Il ragazzo verrebbe di certo nutrito meglio che dentro questo schifo di villaggio, al Comando. E diventerebbe l’orgoglio della mamma e del papà per essere entrato tra le fila delle Guardie.- spiegò come se ai due genitori fosse data la possibilità di scegliere per il futuro di loro figlio.
Kyousuke si irrigidì dietro l’angolo, serrando e rilasciando i pugni, mentre il pianto della donna gli entrava con prepotenza nelle orecchie.
Si costrinse a non guardare oltre, e quando tornò ad affacciarsi, le Guardie, le teste dietro le finestre, gli occhi che sbirciavano e i passi veloci di persone nascoste non c’erano più. Rimanevano l’uomo, riverso su stesso, le mani a tenersi lo stomaco, e la donna, che con i palmi premuti sugli occhi continuava a piangere sommessamente.
Si tirò il cappuccio più giù che poteva e fece per tornare alla locanda, quando una voce conosciuta tornò a farlo voltare. Takuto, il ragazzo di quella mattina, era corso verso la coppia chiamando i due per nome, e adesso ascoltava basito, tra un singhiozzo e l’altro della donna, quello che era successo.

Lo vide scuotere la donna –Lo hanno preso? Dove lo hanno portato? Irenee, dove lo hanno portato?- chiese concitato.
Kyousuke non potè fare a meno di notare il tremito delle sue mani mentre sorreggeva la madre del bambino che era stato portato via.
Poi voltò lo sguardo e tornò indietro.

 

Lionel era dietro al bancone, quando finalmente Kyousuke rientrò alla locanda. Stava pulendo il ripiano in legno con un panno umido, lo sguardo basso e il volto scuro.
Presupponendo il motivo, il ragazzo fece per dirigersi direttamente alla stanza che gli aveva assegnato il capo locandiere (che tra l’altro era l’unica ad essere occupata). Ma evidentemente quella non poteva essere una giornata tranquilla.
Come se la gente che corresse e gridasse fosse del tutto normale, lì al villaggio (e come se non ne avesse sentite o viste abbastanza), una ragazza entrò strillando nel modo più acuto e sottile che Kyousuke avesse mai sentito –Vuole andare a prenderlo!- si aggrappò al bancone, la voce un basso lamento, rischiando di rovinare a terra –Vuole andare a prendere Jun!- aveva preso a scuotere la testa –Non sono riuscita a fermarlo, è già andato, vuole riprenderlo. Non ce la può fare, Lionel, Takuto non ce la può fare…- rantolava tra un ansito e l’altro, mentre il suo colorito diventava man mano più bianco.
Kyousuke sgranò gli occhi quando sentì il nome di Takuto. Allora alla fine aveva davvero deciso di mettersi contro le Guardie. Si ritrovò a scuotere impercettibilmente il capo.
Il locandiere scavalcò il bancone per sorreggere la giovane, e lei si aggrappò al suo grembiule –Porteranno via anche lui…- si morse il labbro, mentre Lionel tentava invano di calmarla –Lionel, vallo a prendere…- singhiozzò, affondando il volto tra le braccia del più grande.
-Akane! Dov’è? Dov’è che tengono Jun?-  le chiese, le sopracciglia aggrottate in un’espressione ansiosa e preoccupata al tempo stesso.
La ragazza non sembrò afferrare per bene, tant’è che gli occhi le si erano già velati –A-Al vecchio capannone…- riuscì a soffiare prima di cadere svenuta.
Lionel espirò dal naso e prese in braccio Akane. Si guardò intorno e, inquadrato Kyousuke, si diresse verso di lui a passo svelto –Ho bisogno di un favore.- disse solo, porgendogli la ragazza.
Solo in quel momento Kyousuke, che non aveva potuto fare a meno di ascoltare, notò la carnagione bianca, i capelli del solito colore chiaro raccolti in due piccole trecce; gli occhi però erano di un colore simile al lilla. Alzò lo sguardo sul locandiere e tese le braccia per prenderla.
-Akane è di salute cagionevole. Ti prego solo di portarla al piano di sopra e di metterla a letto. Non c’è tempo.- disse solo, facendo per correre fuori dalla locanda.
Kyousuke respirava piano, mentre guardava le spalle del più grande alzarsi ed abbassarsi al ritmo della sua corsa.
Gli ricordarono un altro paio di spalle.

Lionel.- disse solo, richiamando la sua attenzione. Si riavvicinò all’uomo, fermo sulla soglia della porta, e gli rimise Akane tra le mani –Vado io.- concluse.
-Cos…-
-Non c’è tempo.- ribadì il ragazzo –Dov’è questo capannone?- e ad un tintinnio metallico proveniente da sotto il mantello del più giovane, il locandiere decise che sarebbe stato meglio dirgli cosa fare.

Il vecchio capannone, così chiamato dagli abitanti del villaggio, non era altro che un deposito per il raccolto oramai inutilizzato, visto che la maggiorparte dei prodotti presenti lì venivano presi dall’Impero.
Veniva ricordato come il luogo in cui erano stati radunati i dominatori la prima volta che le Guardie della Corona erano venuti a prenderli per portarli all’esercito, e così, ogni qualvolta un nuovo dominatore mostrava le sue capacità, veniva rinchiuso lì fino a che il corriere diretto al Comando non passava per ritirarlo.
Come fosse un pacco.
Il deposito era lungo almeno una ventina di metri e largo una quindicina, ed era stato rivestito in ferro di modo che i dominatori della terra non potessero combinarci niente. Anche parecchi metri di terra attorno all’edificio erano stati pavimentati, così da evitare sommosse.
Takuto aveva percorso l’intero perimetro in cerca di un’entrata secondaria, e tutto ciò che aveva trovato erano state le piccole finestre, situate a circa tre metri e mezzo da terra, che un tempo avevano permesso al raccolto di non andare a male dopo un pomeriggio.
Imprecò a denti stretti, mentre sbirciava l’ingresso, dove le due Guardie che avevano portato via il piccolo Jun giocavano a dadi come se nulla fosse.
Sentì la rabbia ribollirgli nelle vene.
Valutò la situazione. Due Guardie contro un ragazzo.
Chissà che tipo di dominatori erano.
Fossero stati dominatori del fuoco, il loro potere sarebbe stato del tutto inutile, ragionò, visto che di fuoco lì intorno non ce ne era. E nemmeno acqua. Improbabile che fossero dominatori della terra. Di certo dovevano riuscire a controllare l’aria. E, diamine, di aria lì intorno ce ne era quanta volevano.
Fece per tornare indietro e cercare una finestra più bassa, o una scala per arrivare a quelle più alte (o anche un dannato albero), ma andò a sbattere contro qualcuno.
-Ah.- la voce gracchiante della Guardia lo colse alla sprovvista –Guarda un po’. Ancora tu.- sorrise, sgranchendosi le spalle.
Gli occhi sgranati per la sorpresa, il più piccolo indietreggiò, ma –Ops. Preso.- ghignò la seconda Guardia, afferrandolo sotto le braccia.
Bene.
No, davvero.
Bene.
Che diamine se l’era fatto a fare il perimetro se poi quelli lo beccavano con tanta facilità?
Prese a dimenarsi, tentando di divincolarsi.
Ovviamente inutile.
Con un gesto veloce della mano, la Guardia che ancora lo teneva ben stretto esercitò il suo dominio. Non che ce ne fosse mai stato bisogno, lì al villaggio, dove tutti obbedivano ciecamente all’Impero, pensò Takuto con un sorriso amaro, mentre sentiva l’aria mancargli.
Dannata Guardia. Dannato dominio. Dannato impero.
Una delle peculiarità del dominio dell’aria era che, chi fosse capace di manovrarla, fosse anche in grado di privarne gli altri. Di annullarla come se non ci fosse mai stata.
Takuto annaspava, mentre l’ossigeno diminuiva velocemente. Si aggrappò al braccio dell’uomo in un ultimo, disperato e inutile tentativo.
Pensò tristemente a come Jun non sarebbe più tornato a casa, inghiottito nel sistema dell’Impero, condannato a lottare contro la sua volontà. A come il suo villaggio sarebbe stato sfruttato fino a che non fosse rimasto più nessuno. A quanto lui stesso fosse debole, perché, diciamocelo, aveva fatto davvero una brutta figura.
Stava giusto per dare ragione a quel viandante incappucciato della locanda, quando sentì l’aria invadergli prepotentemente le narici e bruciargli in gola, mentre le presa della Guardia si scioglieva.
Ci fu un tonfo.
Si voltò, notando l’uomo svenuto ai suoi piedi.
Poi ci fu un grido. E un altro tonfo.
Quando Takuto si voltò nuovamente, la testa che gli girava, notò che anche l’altra Guardia era a terra.
Non ebbe tempo di chiedersi cosa stesse succedendo, perché qualcuno gli prese con violenza il polso, trascinandolo via. Lo portò dietro il primo angolo –Non fare idiozie. E’ un concetto difficile da concepire?- sibilò una figura incappucciata vicino a lui.
Ci mise qualche secondo ad inquadrarla –Tu?- sibilò. Ma la mano del ragazzo misterioso premette sulle sue labbra –Ne arrivano altri.- lo vide affacciarsi –Arrivano tutti gli altri.- e la sua affermazione venne seguita da un rumore metallico di passi –Rimani qui.- gli intimò, quindi lo vide sparire oltre l’angolo.
Passarono un paio di secondi e lo vide sgusciare agilmente verso la fine della pavimentazione attorno al deposito, seguito da una dozzina di Guardie.
Ovviamente, Shindou Takuto non sarebbe rimasto a guardare un tizio sconosciuto (e probabilmente montato) fare tutto da solo.
E ovviamente, senza tenere conto delle indicazioni, seguì l’incappucciato verso il terreno, il suo amato terreno.
Solo quando fu abbastanza vicino notò che il suo inaspettato compagno di combattimento stava maneggiando due lame gemelle ricurve con la facilità con cui si utilizzano le bacchette per mangiare, ed aveva già steso tre Guardie.
Bhè, non era di certo più figo.
Si tolse le scarpe mentre finalmente lo raggiungeva, poggiando le piante dei piedi sulla terra nuda, godendo del lieve dolore dei sassi sotto la sua pelle.
-Oh, alla buon ora.- commentò tiziosenzanome, calciando sul muso un soldato, spedendolo dritto a terra, per poi girare su sé stesso e colpire al naso un’altra Guardia con il piatto della spada, evitando che prendesse Takuto con un’onda d’urto.
Passando sopra l’incredibile agilità di quel tipo, Takuto storse le labbra in una smorfia –Bhè?- chiese, piccato, schivando una folata di vento decisamente non normale. Ma che voleva? Non gli aveva detto di rimanere al suo posto?
-Se ti avessi detto di seguirmi l’avresti fatto?- si limitò a chiedere quello, come leggendogli nel pensiero, torcendo il braccio di una Guardia dietro la schiena, atterrandola.
-Bhè.- Takuto inclinò il capo di lato. In effetti non l’avrebbe fatto.
La cosa tremendamente irritante era che l’incappucciato disquisiva amorevolmente nonostante dei diretti sottoposti dell’Impero lo volessero fare a fette. Quello stesso incappucciato che gli aveva sconsigliato di fare una cosa del genere.
Ma guarda un po’ te.

-Ora renditi pure utile, magari.- gli intimò.
Simpaticissimo.
-Sei un dominatore della terra, no?- aggiunse, mandando al tappeto un altro paio di Guardie come fossero insetti fastidiosi.
Era profondamente irritante la velocità con cui riusciva a –Cosa?- il flusso dei suoi pensieri venne bruscamente interrotto –Tch, e che vorresti saperne tu?- replicò il ragazzo dai capelli castani, nascondendo la sorpresa (come aveva fato ad accorgersene?), mentre con un paio di movimenti veloci delle mani faceva si che un pezzo di terreno letteralmente si staccasse, per poi spedirlo dritto sulla brutta faccia di un’altra Guardia con un altro ondeggiare delle braccia. Gli scappò un sorrisino di soddisfazione.
Quanto aveva desiderato farlo.
Ormai schiena contro schiena, sentì la vibrazione di una risatina salirgli su per la spina dorsale. Rabbrividì –Hai tolto le scarpe.- sentì il rumore di lame che si scontravano mescolarsi alla voce dell'altro –Ma suppongo quel masso si sia staccato da terra da solo.- prima che potesse replicare una qualsiasi cosa, percepì l’incappucciato dividersi da lui, probabilmente per effettuare un salto.
Senza le sue spalle a sorreggere le sue, per un attimo un terrore acuto gli attanagliò le viscere.
Ma non ebbe tempo di pensare, perché altre tre Guardie (ma quante diamine erano?!) gli stavano praticamente addosso.
-Un altro dominatore della terra. Ti sei nascosto bene, ma ora farai la fine dei tuoi amici.- minacciò una.
Due secondi dopo era al suolo, svenuta.
Lanciando un sassolino in aria, Takuto sbuffò –Dicevi?- poi scagliò quello stesso sassolino contro il secondo soldato. Aiutato dal proprio dominio, che vi impresse una velocità nettamente maggiore, riuscì a far cadere anche quello.
Era una sensazione meravigliosa. Muoversi, sentire i muscoli tendersi, reagire ad ogni minimo segnale di pericolo.
Passò qualche secondo, e sentì di nuovo la schiena dell’altro sulla sua.
Ansimavano entrambi per lo sforzo.
-Dobbiamo
… Andare a prendere Jun.- ricordò Takuto dopo un paio di minuti di silenzio. Si guardava attorno basito. Più di una ventina di Guardie era stesa a terra, priva di sensi.

Non riusciva ancora a credere di averlo fatto davvero.
Aveva utilizzato il proprio dominio (il suo amato dominio) di fronte a un manipolo di Guardie dopo aver passato anni a nasconderlo. Ma non poteva sentirsi meglio di così.
Non pareva dovessero arrivarne altre, quindi pensò fosse per questo che l’altro gli rispose con un –Va bene.- secco.
Voltandosi per fargli cenno di seguirlo, si accorse solo in quel momento che il cappuccio era scivolato all’indietro e adesso lo straniero aveva un volto.
I capelli di un blu scuro erano tenuti su non si sa in quale modo (aveva intravisto una sorta di coda, poi), e due ciuffi gli incorniciavano il volto magro. Un paio di occhi di un arancione particolarmente acceso, dalle pupille incredibilmente fine e circondati da ciglia lunghe, spiccavano sulla carnagione decisamente chiara. Lo vide sistemarsi le lame alla cintura.

Il castano voltò subito lo sguardo, sapendo che fissare gli sconosciuti non è buona cosa, e prese a camminare di buon passo verso il capannone.
Era aperto (probabilmente le Guardie non si aspettavano una resistenza del genere), quindi fu facile entrare.
L’interno era ovviamente spazioso, pieno di casse di legno inutilizzate, molte rovinate, un tempo destinate a contenere il raccolto.
Il piccolo Jun era in fondo alla struttura, le ginocchia al petto. Quando la porta si era aperta, si era fatto piccolo su stesso. Ma vedendo chi fosse, il suo sguardo si era illuminato –Takuto!- urlò con la vocina sottile, alzandosi e facendo per corrergli incontro.
Fu a quel punto che la Guardia uscì.
Evidentemente si era appostata dietro una cassa e aspettava solo il momento giusto. Doveva aver visto i suoi compagni a terra.
Takuto la vide davanti a sé, tremendamente vicina, una spada in mano.
Pietrificato dalla sorpresa e dal panico, si accorse solo quando cadde a terra che l’ex incappucciato l’aveva spinto via, aveva fermato la lama del soldato con una mano, deviandola, e con una testata ben piantata l’aveva mandato ko.
-Takuto! Takuto!- continuava ad urlare Jun, che riuscì a catapultarsi tra le braccia del ragazzo, riuscendo finalmente a sciogliersi in lacrime, stringendo i pugnetti sulla maglia del più grande. L’altro, ancora sconcertato, lo strinse a sé –Va tutto bene. E’ tutto ok.- disse piano, accarezzandogli i capelli –E’ tutto ok.-

La donna piangeva (Kyousuke pensò che fosse una cosa del tutto naturale, visto che pareva non avere mai smesso) di gioia, stringendo Jun al petto quasi fino a soffocarlo.
-Non so come ringraziarti, Takuto.- si fece avanti l’uomo, abbracciando il ragazzo.
-Non è stato solo merito mio.- masticò un po’ contrariato quello, ammiccando allo sconosciuto che, il cappuccio di nuovo tirato sulla testa, se ne stava in disparte, le braccia conserte.
-Grazie anche a te, allora.- sorrise l’uomo, chinando il capo.
Kyousuke scrollò le spalle.
Osservò la famiglia tornare a casa, e si lasciò scappare un mezzo sorrisetto.
Trasalì quando si sentì afferrare la mano, e si ritrovò Takuto a qualche centimetro, che con occhio clinico gli esaminava il palmo –Ti sei ferito.- constatò, ammiccando al taglio, da cui scendeva ancora un po’ di sangue, che il ragazzo si era fatto quando aveva afferrato la spada della Guardia per deviarla.
Si divincolò dalla presa –Non è niente.- tagliò corto –E-ehi, ma che cosa stai facen…- senza aver tempo di fare altro, il castano gli aveva nuovamente preso il palmo tra le mani e, aprendoglielo per bene, aveva passato la lingua sulla ferita. Una, due, tre volte.
Kyousuke era sbiancato (per quanto la sua carnagione glielo consentisse), inorridendo. Quel tipo lo stava leccando. Lo stava… Non potè fare a meno di percepire una sensazione di incredibile freschezza, lì dove Takuto aveva passato la lingua.
Ammutolito (e anche abbastanza piccato) alzò il palmo quando il castano si decise a lasciarlo, seccato.
Sgranò gli occhi -… Si è cicatrizzata.- biascicò, il volto ormai scoperto, visto che il cappuccio era scivolato giù quando aveva cercato di divincolarsi.
-Ma allora sei sveglio.- sbottò Takuto che, sviando lo sguardo dell’altro, tentava di pulirsi la lingua con la mano, abbastanza schifato –Il tuo sangue ha un sapore orribile.- gli fece notare.

-Non ti ho chiesto di… di fare questa cosa. Mi hai..Mi hai leccat--!!

-Un “grazie, Takuto” può anche bastare. Prego.- Roteò gli occhi l’altro, per poi avviarsi verso la locanda.

Kyousuke socchiuse gli occhi, risoluto –Devi spiegarmi che cosa mi hai fatto.-

-Prego? Discendente di cosa?- Kyousuke, di norma, era una persona del tutto seria. Con i piedi per terra ed anche realista. Ma quello che Lionel gli stava spiegando non aveva minimamente senso in nessuno dei due modi.
Il capo locandiere rise di gusto –Siamo discendenti di una stirpe nata dai lupi che vivevano nelle montagne a nord del Continente.- ribadì, annuendo.
Akane, che si era ripresa ed era scesa al piano di sotto della locanda, inclinò il capo di lato –Oramai, il sangue di lupo che abbiamo in corpo è pochissimo, specialmente dopo che le prime specie ebbero contatti con i cani selvatici delle montagne ad est.- continuò la spiegazione, gli occhi socchiusi e le labbra stiracchiate in un sorriso placido e gentile –Inizialmente, secoli fa, cani e lupi, nella notte di Luna Nuova, avevano le capacità di trasformarsi in esseri umani.- allargò il sorriso in direzione di Kyousuke, che faticava a stare dietro al discorso.
Takuto sbuffò contrariato.
-Noi siamo i diretti discendenti di queste specie, che hanno avuto modo di accoppiarsi anche con esseri umani durante le notti di Luna Piena.- riprese la parola Lionel –Non possiamo trasformarci o fare cose di questo tipo, ma la nostra saliva ha un potere curativo eccellente.- annuì.
-Ecco perché ci sono così tante Guardie, nel villaggio. Diciamo che siamo la principale fonte medica del Continente.- arrossì Akane, distogliendo lo sguardo.
Kyousuke annuì –Capisco.- disse, un po’ più convinto, rimirandosi il palmo della mano –E’ stupefacente.- commentò.

-Direi!- annuì il capo locandiere –E dire che era da decenni che non si stringeva un patto, qui al villaggio!- esclamò, battendo una mano sul tavolo.
Takuto arrossì appena e borbottò qualcosa di incomprensibile.
-Un patto?- Kyousuke socchiuse gli occhi, non capendo.
-Mh.- tornò ad annuire l’uomo –Hai salvato la vita a Takuto. Per uno di noi è il dono più grande che possa essere fatto. E poi, ti ha guarito di sua spontanea volontà.-
Il ragazzo dai capelli blu continuava a non comprendere –E quindi?-
Il giovane preso in causa picchiò il palmo sul tavolo -Ti devo la vita.- disse solo, spostando lo sguardo color nocciola in quello arancione di Kyousuke –E’ mio preciso dovere ricambiare.- “e purtroppo buttarti dalla finestra e poi cercare di salvarti non vale”, aggiunse tra sé e sé –E guarendo la tua ferita non ho fatto altro che potenziare il patto. Ora…- arricciò il naso -… Sono tuo.- battè la fronte sul legno del tavolo.
Kyousuke per poco non si strozzò con la sua stessa saliva –Ossia?-
-Semplice. Finchè non ricambierà il favore, salvandoti la vita, Takuto avrà il preciso dovere di restare al tuo fianco, per accompagnarti e proteggerti.- concluse Lionel.
-Come un cane.- sottolineò Kyousuke, che trovava dannatamente complicato metabolizzare.
-Come un fiero lupo.- ridacchiò il locandiere.
-E se mi rifiutassi?-
Akane sorrise –Tu puoi. Lui no.-
Oh, bhè. Perfetto.
Davvero.

*

Salve a tutti!
Finalmente aggiorno! (e si che questo capitolo è pronto da quasi due mesi, ma-- *si nasconde*) perdonate il ritardo, davvero *inchino*, so di essere lenta, ma cercherò in tutti i modi di finire le mie long, quindi per favore, non smettete di seguirmi *annuisce*, mi velocizzerò, promesso!
Innanzitutto, vorrei ringraziarvi davvero tanto: avete letto il prologo in tantissimi; in moltissimi avete recensito, e ancora in tanti avete aggiunto la fic alle seguite, alle preferite e alle ricordate *regala cioccolatini*, spero che la fiducia riposta non venga delusa *si inchina a raffica*
Allora. Questo capitolo vede come protagonisti Kyousuke e Takuto. Come accennavo nel Prologo, l’idea per questa fic mi è venuta, principalmente, leggendo un manga yaoi di nome “The wolves mountain”, dove uno dei due protagonisti, un mezzo lupo, era in grado di curare con la propria saliva le ferite altrui. Durante uno dei miei deliri KyouTaku, bhè, mi è preso lo schiribizzo di volerlo far fare anche a Takuto, e diciamo che, da lì, ho costruito poi tutta la storia (o, almeno, la storia di Kyousuke e Takuto, visto che non sono i soli protagonisti).
Ho cominciato a delineare un minimo la situazione del “Continente”, il luogo dove si svolgeranno gli eventi principali, e a dare un’idea del tipo di governo che al momento vige in esso. Amo il fantasy, e spero vivamente di aver reso bene la mia idea!
Allora, che ne dite, ci sta Takuto come Dominatore della Terra? Saranno i capelli, ma ce lo vedo troppo ahah xD
Ci terrei a precisare che, per quanto nella storia siano in gioco i quattro elementi come in Avatar, al di là di questo aspetto non ci sarà nulla di attinente, questa fic non è né un crossover né direttamente collegata al cartone animato in questione.
Detto questo, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto, e, se a qualcuno verrà voglia di recensire, mi farebbe piacere sapere se l’avete trovato troppo lungo: in questo caso, provvederò ad accorciare i capitoli!
Nel prossimo, vi anticipo solo che ci sarà un certo tipo con i codini rosa, e niente altro u.u spero che continuerete a seguirmi *A*!
Al prossimo capitolo!

Greta.

P.S.: presto arriverà anche qualche schizzo dei personaggi, oh yeah! *fugge*

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Capitolo 3
*** 2. Masaki; Ranmaru ***


Il lavoro alla biblioteca era davvero noioso, a volte

IL QUINTO IMPERO

 

Masaki; Ranmaru

 

Gemini era un grande centro, perno del Continente in quanto ad articoli per alchimia e raffinerie di minerali. La popolazione era costituita per la maggior parte da Dominatori dell’Aria, che perlopiù lavoravano nelle raffinerie, ma molti erano anche i Dominatori dell’Acqua provenienti dalla vicina città portuale di Scorpio, che facevano tappa nella cittadina prima di ripartire alla volta della grande strada che portava fino alla Capitale e che costeggiava il fianco di Gemini.

Un fitto intrico di stradine e vicoli più o meno ampi costituiva lo scheletro della città, una fitta rete in cui chiunque poteva perdersi. Si diramavano dalla Grande Piazza, estendendosi come centinaia di braccia allungate sino allo spasimo per afferrare qualcosa. Erano costeggiate da edifici in marmo bianco che mano mano che si avvicinavano al centro della città diventavano più scuri sulle tonalità del grigio, costruiti da architetti così capaci che parevano, guardandoli, leggeri come una piuma, alti, dal tetto color terracotta e pieni di grandi finestre dai vetri colorati, circondati ognuno da deliziosi giardinetti di un verde acceso e brillante. Non c’era una stradina che non fosse costituita da ciottoli, un cornicione che non fosse decorato a motivi svolazzanti. Gemini era una città ricca e fiorente, che stava vivendo un’epoca di forti prosperità e sviluppo, che l’avevano resa una delle Città-Perno del Continente. Lì non si sentiva mai parlare di guerra, o di problemi, o di povertà: la maggior parte della popolazione viveva nell’agiatezza, ed il ceto più basso era di certo molto più ricco di quello che abitava i piccoli paeselli circostanti.

L’unica stonatura in tutto quel benessere era di certo il clima sfavorevole per la maggior parte dell’anno. Pioveva spesso, e tirava sempre un vento caldo che arrivava dal mare. Per questo le giornate di sole, a Gemini, erano uno spettacolo mozzafiato che nessuno teneva a perdersi.

A Masaki il maltempo piaceva, anche se quella brezza che sapeva di afa proprio non la soffriva. Per questo rimaneva spesso chiuso in biblioteca ad oziare e a stare fresco. E poi, al di fuori di Haruna e del panettiere sulla strada per la Grande Piazza, non conosceva molta gente.

La biblioteca era un edificio grigiastro vicino al centro della città, incastrato e compresso tra anonimi vicoletti e negozi di souvenir, che durante le tempeste si confondeva con le nubi grigie cariche di pioggia che sovrastavano Gemini e che raramente aveva qualche cliente.

Il lavoro alla biblioteca era davvero noioso, a volte. Tutto quel silenzio a Masaki dava fastidio, e doverne essere il garante era ancora più irritante.

Ma quella piccola biblioteca al centro della città era tutto ciò che aveva, e lavorarci era l’unico modo che aveva per ripagare Haruna della sua ospitalità, quindi sopportava il silenzio e passava le sue giornate a dondolarsi su una sedia dietro ad un bancone, aspettando dei clienti che di solito non arrivavano mai, visto che i libri sulla magia interessavano ben poco, a gente che di magia non sentiva parlare da decenni.

Spesso Masaki si chiedeva come mai ancora non avessero portato via ad Haruna il locale,visto che non facevano un soldo. Tutto ciò che sapeva era che la biblioteca apparteneva alla famiglia della donna da generazioni, e che prima il suo bisnonno, poi suo nonno, poi suo padre, poi suo fratello avevano contribuito a riempirla con quanti più libri sulla magia fossero reperibili, dopo il Grande Incendio che moltissimi anni prima aveva distrutto quasi tutto il patrimonio magico del Continente.

Ma Masaki sapeva bene che i maghi non mettevano piede su quelle terre da quasi due secoli, e un po’ comprendeva il perché gli abitanti di Gemini non fossero attratti da quel posto, che comunque, innegabilmente, lo affascinava parecchio. A volte si riscopriva curioso di sapere di cosa parlassero quei libri. Ma non sapeva leggere molto bene, quindi teneva il suo interesse per sé. A volte guardava le immagini, ma ci capiva poco o niente. E poi quasi tutti i libri illustrati erano sull’esercizio del Dominio, e tutti i libri sull’esercizio del Dominio parlavano dell’aria, o al massimo dell’acqua, elementi con cui lui non aveva nulla a che fare.

Un tintinnio di campanelli fece voltare Masaki che, guancia appoggiata al palmo della mano, si guardava distrattamente attorno, distraendolo dai suoi pensieri. Subito il ragazzo si raddrizzò sulla sedia, sperando in qualche nuovo cliente, ma le sue speranze si rivelarono vane.
Quando vide una testa rosa e un paio di occhi azzurri attraversare la soglia della biblioteca, sbuffò pesantemente –Ah, sei tu.- commentò svogliatamente, rilassando le spalle e storcendo le labbra in una smorfia.
Un ragazzo sui diciotto, non troppo alto e con una cascata di capelli rosa raccolti in una coda bassa da un fiocco, socchiuse gli occhi di un azzurro acceso e stirò un sorriso tirato –Buongiorno anche a te.- salutò, con un cenno del capo, avvicinandosi al bancone. Tra le braccia teneva cinque tomi di modesto spessore. Li lasciò cadere sul ripiano in legno, quindi si lisciò gli abiti di buona fattura che indossava.

Damerino di Gemini. Masaki roteò gli occhi.
Quello si guardò attorno, non curandosi delle occhiate esasperate che Masaki gli lanciava,quindi chiese, lisciandosi il mento –La rilegatura dei libri sulla Magia Antica è terminata? Li trovo, in biblioteca?- il sorriso sul suo volto si stiracchiò ulteriormente, e gli occhi presero a brillargli.

L’altro sospirò sconsolato -Non tutti. Alcuni sono ancora dal libraio. Purtroppo devi ripassare un altro giorno.- borbottò, incrociando le braccia sul bancone e affondandoci la faccia –Mi chiedo perché mai tu stia sempre qui dentro. C’è il cielo lì fuori, il mercato, le ragazze. Devi proprio venire qui tutti i giorni?- domandò, la voce soffocata per via della stoffa della casacca contro la quale era poggiata.

-Il cielo è grigio, il mercato è luogo per governanti e le ragazze non si interessano di magia.- replicò quello calmo –Quelli già rilegati posso averli?- domandò poi, tornando all’attacco.

Che stress, quel tizio. Oramai era qualche mese che frequentava con costanza la biblioteca. Pareva non avere null’altro da fare che sfogliare libri su libri di magia. Masaki odiava stare lì a fissarlo mentre consultava tutto felice i tomi di Haruna, assorto. All’inizio era stato contento di vedere che qualcuno si degnava di entrare in quel posto a farsi una cultura, ma poi aveva cominciato a trovare davvero irritante il ragazzo dai capelli rosa. Gli faceva sempre domande su domande, pensava di essere il più intelligente del paese ed era più alto di lui.

Si era informato, Masaki: il suo nome era Ranmaru Kirino, figlio di un nobile commerciante di diamanti, e di conseguenza uno degli scapoli più ricchi e ambiti della città. Ma, a quanto raccontava Marceline, la moglie del fornaio, il ragazzo non era assolutamente interessato all’attività di famiglia, né tanto meno a sistemarsi. E Masaki lo sapeva bene, visto che l’unica cosa che pareva importare a quel damerino era la magia. Haruna lo trovava un sacco simpatico. Lui non condivideva il suo punto di vista.

Trattenendosi dal risultare troppo maleducato, si alzò con una sorta di sbuffo dalla sedia e si sgranchì la schiena, facendosi strada in mezzo agli scaffali. Sapeva che l’altro lo stava seguendo, ma non spiccicò parola, e si limitò a raggiungere sezione, scaffale e ripiano dove i libri richiesti si trovavano. Conosceva la posizione di tutti a memoria, dopo dieci anni, ed alzandosi in punta di piedi, estrasse i due tomi di Magia Antica che il rilegatore aveva rimesso a nuovo.

Si voltò –Quelli di Magia Antica sarebbe meglio se li riportassi al più presto possibile.- raccomandò, porgendoli a Ranmaru, che annuì e li prese in mano contento come un bimbo a cui si dà una caramella –Non che ci sia qualcun altro che li voglia leggere, ma Haruna ci tiene particolarmente.- evitò di dirgli che, di norma, i libri sulla Magia Antica sarebbero dovuti essere consultati in biblioteca e che Haruna aveva concesso a “quel gentile ragazzo che è Ranmaru” di portarli a casa perché si fidava di lui.

-Comunque preferirei cominciare a dar loro un’occhiata qui.- precisò il ragazzo dai capelli rosa, annuendo. Masaki alzò gli occhi al cielo –Se proprio ci tieni.- allargò le braccia e tornò verso il bancone, preparandosi psicologicamente per le prossime ore in cui avrebbe dovuto fissare quell’ossessionato di magia piegato in due sui libri.

 

Quando fuori si fece buio, Masaki vide Ranmaru chiudere uno dei due libri e stropicciarsi un occhio. Distolse lo sguardo, perché aveva passato l’ultima ora a fissarlo e ad ideare nuovi improperi nei suoi confronti, e fece finta di scribacchiare qualcosa su un foglietto.

Sperò che l’altro uscisse senza dire niente, ma fu costretto ad alzare lo sguardo quando alle orecchie gli giunse un –Haruna tra quanto arriva?-

Socchiuse gli occhi –Doveva passare al mercato e fare un paio di giri. Ma credo che ancora manchi tanto, pareva dovesse sbrigare faccende importanti.- mentì. Non sopportava di stare rinchiuso per ore assieme a lui, e visto che succedeva praticamente tutti i giorni, voleva risparmiarselo almeno per una volta.

-Oh.- Ranmaru parve dispiaciuto. Ma ritrovò subito il sorriso, e sistemò i libri che aveva preso sul bancone –Posso aspettarla, comunque, non è un problema.- il suo sorriso parve a Masaki quasi supplicante, ma non ci fece molto caso, troppo disperato dalla notizia. Sospirò pesantemente –Pare che tu ti diverta a tediarmi.- lo riprese.

-Ma che fastidio ti do.- replicò quello, voltandosi di spalle e poggiando i gomiti al bancone, buttando indietro la testa –Non capisco tutto questo astio nei miei confronti. Vengo qui solo per leggere.- il tono era appena irritato.

Masaki non aveva una risposta –Bhè, non mi vai molto a genio.-

-Ah, si?-

-Si. A pelle.-

Il più grande scosse la testa e rimase in silenzio. Lo ruppe qualche minuto dopo –Hanno condannato il Dominatore della Terra, comunque.- bisbigliò quasi.

L’altro represse un singulto e voltò sprezzante lo sguardo –E allora?- sibilò.

-Mi sembrava di aver capito che ti interessasse. Ti ho sentito mentre ne parlavi con Haruna.- alzò le spalle Ranmaru. Masaki odiò l’indifferenza con cui gli stava parlando, e non riuscì a trattenersi –Cos’è, si è guadagnato le celle di Gemini per via del suo Dominio?- sputò, stringendo le labbra. Era risaputo che tra Dominatori dell’Aria e Dominatori della Terra non era mai scorso buon sangue. I due tipi di Dominio si escludevano a vicenda, erano agli antipodi, aria in alto, terra in basso, aria leggera, terra pesante. Non c’era tolleranza per i Dominatori della Terra, tra quelli dell’Aria, e viceversa. L’odio si era radicato in generazioni e generazioni, e non erano rari episodi di discriminazione e violenza.

Quel caso in particolare riguardava un Dominatore della Terra, di passaggio a Gemini, accusato di furto. A Masaki era subito interessato il discorso, anche perché, che un Dominatore della Terra facesse tappa in un città dell’Aria era davvero raro, e pericoloso, soprattutto. Nessuno aveva testimoniato a suo favore, e Masaki non era nemmeno sicuro che avesse avuto un processo giusto, visto che ci avevano messo una giornata e mezzo a condannarlo. Anzi, era sicuro che il suo Dominio avesse reso la sentenza dei giudici molto più veloce. E odiava con tutto il cuore queste manifestazioni di intolleranza.

Ranmaru si voltò, una smorfia sul volto –Era colpevole. Non c’entra nulla il suo Dominio.- masticò, scuro in volto.

L’altro schioccò la lingua, acido –Certo, colpevole di dominare la Terra. Fosse capitato a qualcuno come te, di certo se la sarebbe cavata con un sorriso e una pacca sulle spalle.-

-Perché pensi che tutti quanti qui a Gemini la pensino così?- sbottò il più grande –C’erano le prove, ed è stato imprigionato giustamente.- si difese come se fosse stato accusato lui stesso. Masaki si alzò dal suo posto ed inclinò il capo –Perché tutti quanti qui odiano i Dominatori della Terra e si credono migliori di loro, senza alcun motivo. O forse vuoi dirmi che tu ti faresti amico uno di loro? Nh?-

Ranmaru sbiancò sensibilmente. Masaki gli riservò una risatina di scherno –Appunto.- scosse la testa e si rimise a sedere. Gli tremavano le mani.

-Perché li difendi così?- chiese poi il più ricco, aggrottando le sopracciglia e balbettando qualcosa. I loro sguardi si incontrarono per qualche secondo, ma Masaki non fece in tempo a replicare che uno scampanellio annunciò l’arrivo di Haruna. Il discorso si concluse ufficialmente quando un –Buonasera! Ah, Ranmaru! Ci sei anche tu!- riempì il silenzio teso.

Masaki percepì solo l’accenno di una conversazione. Poi si alzò e si diresse verso il piano di sopra, alla sua stanza, senza dire una parola. Sbattè la porta per non sentire altro.

 

***

 

Chiuse la porta di casa il più piano possibile. Si sfilò le scarpe e procedette in punta di piedi fino alle scale che portavano al piano superiore.

Ma non fece in tempo.

-Ranmaru.- lo richiamò una voce. Il ragazzo sobbalzò e si voltò. Una scarpa gli scivolò di mano e cadde a terra. Strinse le labbra –Ranmaru, hai saltato di nuovo la cena.-

La signora Kirino era una donna alta e dalla bellezza mozzafiato. Aveva i capelli dello stesso colore rosato del figlio, che teneva rigorosamente legati in acconciature elaborate, e due occhi color dello smeraldo fini ed eleganti. A guardarla si sarebbero notati solo questi particolari, in un primo momento, ed il nasino a punta, le guance magre, le labbra fine sarebbero saltate all’occhio solo dopo.

-Avevo un impegno.- masticò impassibile il ragazzo, riprendendo a salire le scale senza degnarla un secondo di più del suo sguardo. Ma la voce pungente della più grande lo chiamò ancora –Tuo padre è oltremodo adirato. Cos’è, sei tornato di nuovo in quella biblioteca?- il tono sprezzante con cui lo disse fece accapponare la pelle a Ranmaru, che strinse i pugni e li rilasciò. Si chinò a raccogliere la scarpa caduta –Ho studiato.- avrebbe voluto aggiungere un “mamma”, dopo, ma si costrinse a non farlo, e riprese a salire, scomparendo alla vista della donna, che continuò a parlare come se nulla fosse –Devi smetterla. A tuo padre non piacerebbe. Lui pretende da te il massimo della serietà, e vuole che tu prenda il suo po

Chiudendo la porta della sua stanza, Ranmaru smise di ascoltarla. Lanciò le scarpe sul pavimento e solo dopo essersi sistemato alla scrivania decise di togliersi la tracolla dalle spalle ed estrarre i libri che aveva preso in biblioteca.

Provò un enorme senso di soddisfazione nello sfogliare le pagine dello spesso tomo di Magia Antica. Prima di quel giorno non ne aveva mai tenuto uno in mano, ed era euforico. Non capiva come gli altri, sua madre, suo padre, non riuscissero ad apprezzare tutto quel sapere. Sospirò. Odiava che la sua famiglia volesse impedirgli di fare ciò che desiderava: suo padre, un ricco proprietario di raffinerie di diamanti, voleva a tutti i costi che lui prendesse il suo posto, ma Ranmaru non ne aveva voglia, e i genitori non solo non riuscivano a capacitarsene, ma soprattutto premevano in tutti i modi per convincerlo.

Ranmaru si era avvicinato alla magia quasi per caso. La famiglia Kirino era molto nota non solo per la ricchezza dei possedimenti e degli stabilimenti di raffineria, ma anche per l’enorme abilità del Dominio dell’Aria. Il padre di Ranmaru era un tradizionalista, Maestro di Dominio del suo elemento, e quando non si occupava dei suoi commerci svolgeva addirittura lavori per l’Impero, e spesso era chiamato a giudicare i casi della città come Giudice Onorato della Corte di Gemini assieme ad altri pochi eletti. Sua madre era Adepta dell’Aria presso il tempio della Grande Piazza, e con la sua arte dava una mano nella Cappella di Soccorso ai malati. E lui, Ranmaru, unico figlio in cui erano state riposte le più grandi speranze e aspettative della famiglia, a diciotto anni ancora non era in grado di dominare l’Aria come si addiceva al suo rango e alle sue radici. Per questo il ragazzo si era interessato alla magia: secondo i testi antichi, non c’era bisogno di eccellere nel Dominio, perché la magia  coinvolgeva tutti e quattro gli elementi della natura, entrandovi in simbiosi e chiedendo in prestito ad essa le loro proprietà. Certo, necessitava di molto studio ed impegno, ed era impossibile praticarla, visto che da secoli in giro non c’erano più maghi o persone in grado di tramandarne l’arte, ma Ranmaru era rimasto talmente affascinato, vi aveva intravisto così tante possibilità diverse che non rendevano le orme di suo padre l’unica via da seguire, che aveva deciso di studiare tutto lo scibile e di apprendere tutto ciò che poteva. Avesse potuto, si sarebbe interessato maggiormente anche all’alchimia, ma purtroppo gli era impossibile mettere in pratica quanto i manuali della biblioteca illustravano, non avendo gli strumenti e non essendo questi reperibili da nessuna parte, a Gemini.

Gli rimaneva solo che chiudersi in camera, chinarsi sui libri e leggere, e leggere, e leggere. Quando si parlava di magia, lui si sentiva tranquillo con stesso, ed anche felice in un certo senso; la piccola biblioteca di Haruna era ormai diventata la sua seconda casa, e di certo preferiva passare il suo tempo lì che rinchiuso nella sua bella villa grigia nel quartiere aristocratico della città.

Pensare alla biblioteca gli riportò in mente il discorso che quel pomeriggio aveva avuto con Masaki, il ragazzo che si occupava del negozio (o almeno credeva, visto che era sempre lì). Ranmaru si morse il labbro ed allontanò il naso dal libro che stava consultando. Si massaggiò l’attaccatura del naso, chiudendo gli occhi. Cominciavano già a dargli fastidio.

Ranmaru non poteva farci niente: se ne vergognava molto, ma il modo in cui l’avevano cresciuto gli aveva insegnato a guardare con sospetto qualsiasi Dominatore della Terra, e per quanto lo trovasse sbagliato non riusciva proprio a liberarsi da questo pregiudizio, anche se non lo dava a vedere e lo nascondeva. Lo trovava ingiusto, e non riusciva a sopportare tutte quelle violenze che venivano inferte. Con Masaki aveva davvero fatto una pessima figura, non era riuscito a dire niente di sensato, e di certo a quel ragazzo che pareva odiarlo tanto era sembrato uno di quegli ignoranti figli di buona famiglia che credevano ciecamente nella distinzione tra Domini. Ranmaru era rimasto molto sorpreso dal fatto che Masaki non condividesse certi pregiudizi. Piacevolmente sorpreso.

Sapeva che Masaki aveva ragione sul caso del Dominatore arrestato nel dire che la pena era stata più severa a causa delle origini dell’uomo catturato, anche se Ranmaru aveva piena fiducia nel sistema di Gemini, e non credeva che un Dominatore dell’Aria avrebbe ricevuto un trattamento poi tanto diverso. O forse continuava a ripetersi questo perché faticava ad accettare che vi fosse un tale livello d’incomprensione tra gli uomini, che si compiessero violenze del genere solo per la diversità di un Dominio. E, infine, perché voleva credere con tutto stesso che suo padre, membro onorario della Corte di Gemini che di Dominatori della Terra molti ne aveva mandati in prigione, in esilio, o alle miniere, agisse per il bene della città e non per un pregiudizio. Ci si attaccava con tutto stesso, perché non poteva credere che il suo papà, quel papà che da bimbo non gli aveva mai sorriso, quel papà di cui aveva cercato approvazione per anni e che aveva visto sempre con occhi pieni di ammirazione non avesse un briciolo di umanità.

In ogni caso, proprio non riusciva a non sentirsi in colpa, un senso strisciante che gli torceva lo stomaco e che non comprendeva da dove uscisse fuori. Una colpa verso tutti quei Dominatori della Terra che la sua stessa famiglia aveva condannato.

Decise di ignorarlo e tornare a leggere.

 

La notizia l’apprese la mattina dopo, durante la colazione. Suo padre era talmente preso che nemmeno si ricordò di sgridarlo per il giorno prima, e Ranmaru ringraziò la sorte, perché le strigliate di suo padre erano davvero tremende.

-La Guardia ha catturato un Dominatore della Terra.- rese noto dunque l’uomo, un uomo austero, alto, dai biondissimi capelli tenuti indietro e piccoli occhi azzurri. Portava un accenno di baffi (che da piccolo facevano tanto ridere Ranmaru) –Si nascondeva tra di noi, il furbo.- disse, ammiccando e spalmando febbrilmente del burro sulla sua fetta di pane tostato.

Ranmaru sobbalzò. Il discorso del giorno prima gli tornò prepotentemente alla mente. Abbassò il capo, fissando la sua tazza di thè senza dire una parola.

A tavola c’era solo la famiglia Kirino, sistemata al sontuoso tavolo della sala da pranzo che la madre di Ranmaru aveva ammobiliato lei stessa, e a parte qualche servitore che entrava per portare altro cibo, non c’era nessun altro. Le ampie finestre permettevano alla luce del sole (quella mattina le nuvole che incombevano in continuazione su Gemini si erano dissipate) di illuminare la stanza, e il rampollo di famiglia vedeva il proprio padre in controluce.

-Oh, santi dei, com’è possibile?- la voce della signora era stridula per la sorpresa –Qui, in mezzo a noi?- cinguettò, sgranando gli occhi verdi e portando una mano alle labbra. Poi sorseggiò il suo thè senza distogliere gli occhi dal marito, che emise una sorta di risatina di scherno –Si, esercitava il suo dominio poco fuori dalla città, vicino al Giacimento abbandonato. Ma la Guardia è riuscita ad acchiapparlo. Poco più di un ragazzo. Così piccoli e già così dediti alla rovina di noi dell’Aria.- il Giacimento abbandonato Ranmaru lo conosceva bene: era stata una miniera fino a qualche decennio prima della sua nascita, ma poi era stata chiusa perché completamente svuotata del suo contenuto. Era poco fuori dalla città, e le rocce, a ragione, là attorno erano davvero molte, quindi per la pratica del Dominio della Terra era un posto perfetto. Anche perché di solito non ci si avvicinava nessuno.

-Bhè, la Guardia sa come svolgere i suoi doveri.- replicò compiaciuta la moglie del signor Kirino, sorridendo appena e poggiando la tazza sul tavolo –Spero che lo rinchiudano.- sibilò poi, sprezzante –Nascondersi in mezzo a noi come niente fosse. Che schifo.- aggiunse, socchiudendo gli occhi sino a ridurli a due fessure.

Ranmaru sgranò gli occhi –Verrà condannato?- chiese, spostando lo sguardo su suo padre, che aveva quasi finito di mangiare la sua fetta di pane.

-Certo. Sono chiamato a giudicare come membro onorario, e di certo non lo grazierò.- sputò quello, come se non ci fosse cosa più ovvia al mondo –Uno sporco Dominatore della Terra che esercita il suo Dominio a Gemini quando la legge della città lo vieta.- sorrise, feroce –Prima di tutto lo metteremo alla gogna, così che tutta la città sappia che un lurido della Terra si era nascosto tra di loro e possa vendicarsene. Poi lo imprigioneremo. Anzi, andrà a lavorare in miniera, ai livelli più bassi. C’è carenza di personale per quella parte, ultimamente.- parlò come nulla fosse, prendendo un’altra fetta di pane e tornando a spalmarci del burro. Ranmaru sgranò gli occhi e boccheggiò per qualche secondo, senza parole.

-Ma non ha esercitato il Dominio a Gemini, il Giacimento dista almeno quattro miglia dalla città!- ribattè poi, poggiando le mani sul tavolo. Suo padre gli rivolse uno sguardo che gli fece accapponare la pelle, ma decise di non distogliere il proprio.

-Era qui vicino. Questo basta. Già è tanto che qui a Gemini sia permesso a quella feccia di passare (e poi abbiamo visto cosa fanno una volta qui: ci derubano e si comportano come meglio li aggrada), figurarsi esercitare.- fece una smorfia, poi posò la fetta di pane sul piatto.

Suo figlio cercò di continuare –Padre, non stava facendo del male a nessuno, non merita di essere condannato alle miniere!- sbottò, alzandosi in piedi.

Le miniere erano asfittiche, erano strette, erano orribili. Ai livelli bassi delle miniere si moriva facilmente, per questo nessuno degli abitanti di Gemini era disposto a scendere più sotto di un certo livello.. E dunque lì sotto venivano inviati i prigionieri della città. Praticamente una condanna a morte.

-Ranmaru, siediti.- lo riprese la madre, che sembrava davvero imbarazzata per il comportamento che suo figlio stava tenendo.

-Padre, rispondimi!- guaì il ragazzo, sbattendo le mani sulla tavola.

E suo padre gli rispose. Alzò lo sguardo azzurro e lo incatenò al suo –Si stava preparando per farne. Un Dominatore della Terra non sviluppa il suo Dominio se non per fare poi del male.- soffiò.

-Padre, quello che dici non ha il minimo senso! Che motivo avrebbe per—

-Ranmaru, siediti subito!- tuonò il biondo, battendo la mano così forte sul tavolo che i vetri delle grandi finestre parvero tremare.

Il più piccolo tentò un’ultima volta –Padre--

Ma l’uomo di fronte a lui, così distante, parve non udirlo –Si ricorderà per tutta la vita che i Dominatori dell’Aria non voglio feccia della Terra nei loro territori.- concluse, e nessuno aprì più bocca.

Ranmaru paragonò suo padre ad un cane, in quel momento. Non riuscì a pensare ad altro se non a suo padre che come un cane marca il suo territorio. E gli fece ribrezzo. In un attimo le parole di Masaki, il giorno prima, lo scossero. Fu come una doccia fredda.

Ranmaru non se lo seppe spiegare, il perché. Perché in quel momento, quando scene del genere in casa sua si erano ripetute per anni, anche se raramente. Ma capì che il bene di Gemini non c’entrava nulla, con le parole di suo padre. Quella era una sorta di perversa vendetta verso i Dominatori della Terra che tanto odiava.

Si rimise a sedere, respirando pesantemente, la tempia che gli pulsava dalla rabbia.

E decise che non sarebbe rimasto con le mani in mano.

 

Le cose stavano così: dopo la gogna, dove il Dominatore della Terra sarebbe stato umiliato di fronte ad una città intera, il ragazzo avrebbe passato circa una settimana in gattabuia prima di essere trasferito alla miniera più vicina.

Roso dalla consapevolezza della crudeltà di suo padre, Ranmaru in quei due giorni in cui c’era stato il sommario processo non era nemmeno passato in biblioteca. Si chiese cosa ne pensasse quel Masaki. Di certo era arrabbiato. E a ragione.

La piazza era gremita di persone, e Ranmaru dovette procedere a spintoni per arrivare alla prima fila. La Grande Piazza non era mai stata così piena, e quando raggiunse il piccolo palco in legno preparato apposta per il condannato potè dare uno sguardo a tutta la gente che attendeva trepidante. Si vergognò profondamente di essere un Dominatore dell’Aria.

Era uscito contro il volere di sua madre, quella mattina. Davanti a lei aveva aperto la porta di casa ed era uscito. Di certo suo padre quella sera non gli avrebbe risparmiato una lavata di capo tremenda, ma non gli importava. Voleva fare qualcosa. Qualsiasi cosa potesse aiutare quel povero Dominatore che di lì a poco sarebbe stato condotto sul palco.

Voltandosi scorse il fornaio che lavorava vicino alla biblioteca assieme a sua moglie che parlavano animatamente tra di loro. Fece per avvicinarsi, incuriosito, ma un suonare di trombe lo fece concentrare nuovamente sulla struttura di legno, dove una Guardia era salita.

-Signori e signore!- allargò le braccia la Guardia –Come sapete, abbiamo catturato uno della Terra qui nella nostra Gemini!- urla e fischi accompagnarono le sue parole –Oggi siamo qui per riscattare la nostra amata città, sporcata dalla feccia della Terra che stava preparando un attacco ai nostri danni!- esclamò, e un basso brusio si alzò dalla folla. Ranmaru storse le labbra in una smorfia: era una bugia, tutta una bugia. Nessun Dominatore voleva fare male a nessuno, erano solo stupide storie raccontate per fomentare l’odio. Vide una bambina, poco distante da sé, piangere disperata. Strinse i pugni.

-Bene, oggi questo Dominatore della Terra è a vostra completa disposizione! Facciamogliela pagare per aver attentato alle nostre vite con il suo subdolo Dominio!- urla di giubilio si aggiunsero a risate di scherno. Poi la guardia fece un gesto con la mano –Portatelo sul palco!- incitò, e le grida si intensificarono. Le persone si prepararono a lanciare qualsiasi articolo di frutterai che erano riuscite a reperire.

Ranmaru scosse la testa. Poi un urlo di disperazione, così diverso da tutti gli altri, attirò la sua attenzione. Si volse appena in tempo per notare una figura familiare slanciarsi in avanti, verso il palco, e venire trattenuta dal fornaio e da sua moglie –No!- urlava –No, vi prego!- si dimenò. Ranmaru riconobbe Haruna con un moto di sorpresa. Riuscì solo a sgranare gli occhi e a fare un passo in avanti, verso di lei, perché poi la folla esplose, travolgendolo.

Prima di cadere a terra, riuscì solo ad alzare lo sguardo sul palco un’ultima volta. Represse un singulto: sul palco, legato ai polsi e strattonato in malo modo verso la gogna, c’era Masaki.

 

***

 

Masaki era un Dominatore della Terra, e nessuno lì a Gemini lo sapeva, nemmeno Haruna. Per anni aveva finto di non aver alcun interesse a sviluppare il proprio Dominio, e quindi era rimasto una grande incognita per molti.

I Dominatori della Terra non erano ben visti dai Dominatori dell’Aria, e viceversa. Far sapere a qualcuno, lì, che lo fosse, avrebbe decretato l’esclusione da parte di tutti, e Masaki non voleva perdere quel poco che aveva guadagnato. Quindi aveva nascosto la sua vera natura. Almeno fino a quel dannatissimo giorno in cui, come al solito, era andato al Giacimento per allenarsi un po’. Di solito non c’era nessuno, quindi oramai era sicuro di non correre alcun pericolo. E invece due stupide Guardie ubriache che si erano spinte un po’ più in là per una scommessa lo avevano visto, lo avevano catturato, ed ora era condannato per tutta la vita alle miniere.

Guaì, rannicchiandosi all’angolo della cella dove lo avevano rinchiuso dopo la gogna, tremante di frustrazione. Non era mai stato umiliato così.

Strinse le ginocchia al petto, mordendosi le labbra per non piangere.

Chissà che cosa stava facendo Haruna, in quel momento.L’aveva sentita urlare, quel pomeriggio, ma non aveva avuto il coraggio di guardarla in faccia, mentre l’ennesimo pomodoro andato a male lo colpiva in piena faccia e le risate di scherno dell’intera Gemini lo ferivano più di coltelli appuntiti. Lo odiava? O le faceva pena? Chi avrebbe badato alla biblioteca da quel giorno in poi? E avrebbe mai imparato a leggere, lui?

Senza accorgersene, grosse lacrime avevano preso a scendergli lungo le guance, e aveva iniziato a singhiozzare rumorosamente.

Era di nuovo solo.

-Ehi, tu.- lo chiamò una voce, ed immediatamente Masaki si ricordò di non essere solo, in quella cella. Alzò lo sguardo e si asciugò rapidamente le lacrime, rimanendo in silenzio.

-Ehi, bei capelli,sto parlando con te.- continuò la voce.

-Che vuoi.- sbottò il ragazzo, voltandosi di scatto, così da inquadrare il suo compagno.

Un sorrisetto divertito lo accolse –E’ stata divertente, la gogna?- domandò quello che a tutti gli effetti pareva un ragazzo sui ventuno anni e che non era altro che quel Dominatore della Terra accusato e condannato per furto di cui solo due giorni prima aveva discusso animatamente con quel Ranmaru. Che ironia, la vita: ora si trovava nella sua stessa situazione.

-Mi prendi in giro?- abbaiò il più piccolo, facendo per avvicinarsi. Aveva voglia di picchiarlo.

Un’irritante risatina lo costrinse ad abbassare la mano, incredulo-Cosa diamine ti ridi?!- ringhiò.

-Ti mandano alle miniere?- domandò l’altro ragazzo, questa volta serio. Nella penombra della cella, vide un ciuffo di capelli color prugna muoversi.

Masaki abbassò il capo, sprezzante –Si.- masticò, ributtandosi a sedere. No, non aveva la forza per litigare. Gli doleva tutto e non era nelle condizioni psicologiche per iniziare una conversazione violenta.

-Allora non piangere. Se sei fortunato morirai presto, là sotto, e non soffrirai più di tanto.- il suo interlocutore si fece avanti, alla luce. Due occhi bicromi, viola attorno alla pupilla e gialli sull’iride, scintillarono per un attimo, mentre un uomo già fatto si mostrava agli occhi di Masaki. Non sapeva dire se fosse alto o basso, visto che era seduto, ma di certo aveva un’aria più matura della sua. Un ciuffo di capelli gli copriva l’occhio destro, e non indossava che degli stracci.

Notò che alle mani del suo compagno di cella mancavano due dita ciascuna, ed i moncherini era fasciati male da bende sporche di sangue. Rabbrividì, e quello parve accorgersi dei suoi pensieri –Oh, queste?- ammiccò -Me le hanno tagliate, una per ogni oggetto che pare io abbia rubato. Grazie al cielo erano solo quattro, fossero stati di più magari mi avrebbero fatto fuori anche quelle dei piedi.- rise, e Masaki pensò che fosse pazzo. Cosa ci trovava da ridere?

-Hai un nome, bei capelli?- continuò imperterrito l’altro. Masaki rispose a mezza bocca, ma non pose la stessa domanda, che ricevette comunque risposta.

-Io sono Atsushi, bei capelli.- il ragazzo si spostò di fianco a lui facendosi forza sulle mani, quindi si avvicinò al suo orecchiò –Vuoi fuggire, vero, bei capelli?- sussurrò, guardandosi attorno. Masaki sobbalzò –Che cosa diamine dici?- parlò a bassa voce senza sapere il perché -Siamo sorvegliati e le mura sono di ferro, il nostro Dominio non può niente, da qui non si esce. Non sparare stupidaggini.- di certo doveva essere fuori di testa.

-Porca merda.- una sussurro li fece sobbalzare entrambi. Si voltarono verso la grata che permetteva all’aria e alla luce di entrare nella cella –Porca merda, Atsushi, sei un coglione. Ma perché non ti hanno ucciso.- le parole furono seguite da un rumore d’acqua e da uno metallico. Atsushi rise tra sé e sé e Masaki lo vide sporgersi per controllare cosa stesse facendo la guardia: dormiva. Un classico.

-Che diamine succede?- lo richiamò Masaki, alzandosi in piedi ed indietreggiando.

-Ti libero, bei capelli.- gli rese noto il più grande, che alzò lo sguardo sulla grata –Dai, Norihito, sei un po’ lento.- per tutta risposta ci fu un secco rumore di qualcosa che si spezza, e la grata venne tolta –Brutto stronzo, lo sai quanto ci ho messo a venire fino a qui con quello che mi hai chiesto? Invece di rompere il cazzo, vedi di muoverti a fare quello che devi fare, idiota.-

-Il masso è qui fuori?- domandò il ragazzo dai capelli color prugna, sgranchendosi le spalle.

Un “si” scocciato arrivò da fuori. Masaki non ci stava capendo niente.

-Sai, bei capelli, è utile portarsi dietro un amico, quando viaggi. Specialmente se è così gentile da portare la Terra dove di terra non ce n’è.- ghignò –Spostati da lì, o ti fai male.- si raccomandò –E quando ho finito, corri. Perché credo che le Guardie si sveglieranno.-

Masaki continuava a non capire, ma quando Atsushi si mise in posizione (una posizione che Masaki conosceva bene, una posizione da Dominio della Terra), comprese che, si, era meglio togliersi di mezzo se non voleva finire schiacciato.

Con un paio di movimenti lenti, che sembravano quasi pesanti, Atsushi cambiò posizione, e non ci volle molto che qualcosa si scontrò contro la parete esterna della cell all’altezza della finestrella che Norihito aveva aperto una, due, tre volte, allargandola.

La cella di ferro si piegò , prendendo la forma del masso che il Dominatore della Terra stava scaraventando contro di essa grazie al suo controllo dell’elemento. Masaki non fece in tempo a rimanerne impressionato che la parete colpita cominciò a cedere, e la finestra allargarsi sempre di più, proprio mentre le voci delle Guardie richiamate dal rumore cominciavano a riempire il corridoio subito fuori dalle sbarre.

-Cazzo, Atsushi, sbrigati!- berciò la voce del tale che si chiamava Norihito era concitata.

-Ssh, ho fatto, ho fatto.- replicò l’altro, tranquillissimo, come se stesse passeggiando. La finestra si allargò abbastanza da permettere ad Atsushi e Masaki di passare proprio quando una Guardia urlò alle altre quanto stava accadendo.

-Muoviti!- Atsushi, con un balzo, si arrampicò fino all’apertura e ci passò attraverso. Masaki si guardò attornò, spaesato, poi lo seguì senza pensarci due volte. Haruna le tornò alla mente, e così anche il fornaio e sua moglie, la fioraia vicino alla biblioteca, persino quel fastidioso di un Ranmaru. Avrebbe lasciato la sua vita fino a quel momento lì a Gemini e avrebbe dovuto ricominciare da capo. Scacciò quel pensiero e afferrò la mano che Atsushi gli porgeva, arrampicato fuori dalla cella, dove già si poteva sentire sulla pelle l’aria fresca della sera. Si calarono giù entrambi, e la terza figura di Norihito si affiancò loro –Chi cazzo è questo, ora?- sbottò, mentre cominciavano a correre.

-Bei capelli.- rispose Atsushi. Masaki lo odiò per quello stupido soprannome, ma non disse nulla e continuò a correre con tutta la forza che aveva in corpo.

Potevano sentire le Guardie inseguirli e urlare loro di fermarsi. Volò anche una saetta d’acqua di un qualche Dominatore, che Norihito rispedì senza problema alcuno al mittente. Masaki si prese una piccola rivincita, esercitando il suo dominio sui ciottoli della strada che stavano percorrendo, facendolo inarcare come la schiena di una bestia inferocita e facendo rotolare a terra gran parte delle persone che li inseguivano.

Sentì Atsushi ridere di gusto, e di conseguenza uno stupido sorriso di soddisfazione gli comparve in volto.

Evitarono tutte le Guardie.

Non smisero mai di correre, finchè ebbero fiato.

All’alba, erano ormai lontani da Gemini, dai Dominatori dell’Aria, e dalla vita che Masaki aveva conosciuto fino a quel momento.

 

*

 

Ora posso anche morire in pace.

No, nevvero. Devo finirla, questa long. E quando l’avrò finita,potrò morire in pace (nel 3417, suppongo-).

Ordunque. Io mi scuso sempre per il mio ritardo, ma credetemi se vi dico che scrivere questo capitolo è stato un parto e che sono talmente fomentata che ho già più di metà capitolo tre già scritto (essendo personaggi diversi da capitolo in capitolo, quando sono a scuola e ne ho la possibilità scrivo i capitoli avanti) quindi, in teoria, il prossimo arriverà prima. Ma non lo prometto, purtroppo avrete capito che sono molto ma molto lenta nell’aggiornare, mea culpa. Spero comunque che abbiate ancora l’enorme pazienza di seguirmi, mi farebbe molto piacere *inchin*

Comunque. Se siete arrivati fino a qui, fatevi amare. Lo so, i capitoli sono lunghissimi, mala storia è complicata ed è lunga (almeno nella mia testa). Se vi risulta troppo pesante, provvederò ad accorciarli o dividerli in due parti!

Allora, in questo capitolo i protagonisti sono Masaki e Ranmaru. L’uno ha un passato un po’ travagliato, che si scoprir più avanti, mentre l’altro deve un po’ capire cosa deve fare della sua vita, visto la famiglia che si ritrova e il suo modo di pensare decisamente diverso da quella.

Compaiono anche Atsushi e Norihito. Uhuhuh, che dire. Non vi aspettate MinaKura (o almeno, non troppa), perché Atsushi sarà un personaggio molto problematico che metterà nei casini un sacco di gente (?).

E Norihito sarà il peggio sboccato (?), gente! Ne avete già ricevuto un assaggio, ma posso assicurare che il suo repertorio di insulti è molto ma molto vasto xD

Bhè, che dire, spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Anticipo che il prossimo vedrà come protagonisti un ragazzo che ama sbattere contro pali della porta e un fake samurai a cui piace la pasta (?)

Alla prossima <3

 

Greta.

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Capitolo 4
*** 3. Hikaru ***


Hikaru soffriva il mal di mare

IL QUINTO IMPERO

 

Hikaru

 

Hikaru soffriva il mal di mare. Non che fosse mai salito su di una nave, prima di allora, e che quindi potesse saperlo. Lo aveva scoperto con le relative brutte conseguenze, ed ora era piegato in due sul bel parapetto della Demea, la fronte appiccicosa di sudore freddo e la voglia di buttarsi a mare che aumentava ogni secondo di più.

Hikaru odiava il mare.

-Ehi... Se ci pensi troppo poi è peggio.- commentò debolmente una voce dietro di lui. Hikaru si voltò lentamente, reprimendo l'ennesimo conato, e puntò lo sguardo sul ragazzo con la coda dal colorito un po' verdognolo, suo compagno di sventure -... Come faccio a non pensarci?- piagnucolò. Non aveva la forza nemmeno per arrossire per il fatto di stare parlando con uno sconosciuto. Fece per tornare con la faccia al mare, ma l'altro riprese a parlare, sospirando piano, come se stesse facendo uno sforzo enorme -Dove stai andando, a bordo della Demea?- domandò, puntando un paio di occhi nerissimi in quelli di Hikaru -Non ci sono molte navi, per il Continente. Per essere riuscito a salire su questa, devi aver ricevuto aiuto. Di certo vai a fare una cosa importante, eh?- rise da solo delle sue parole, buttando indietro la testa, e la coda di cavallo corvina che portava gli svolazzò sulle spalle.

Hikaru, prima di rispondere, appena stupito dalla semplicità con cui lo sconosciuto gli stava chiedendo i fatti suoi, raddrizzò la schiena e lo squadrò per qualche secondo: nonostante la sfumatura verde, la carnagione del ragazzo di fronte a lui (che non doveva avere più di ventun'anni) era scura, mulatta. Due grandiose sopracciglia nere gli incorniciavano gli occhi grandi, e un naso abbastanza imponente gli dava l'aria di uno che di esperienze ne avesse fatte molte (come Hikaru potesse dedurre questo da un naso, non è possibile dirlo). Anche se era rannicchiato su stesso, con le ginocchia al petto, erano palesi il fisico ben allenato e le spalle larghe. Aveva un'espressione allegra, nonostante il mal di mare, ed un bel sorriso gentile stampato in faccia che gli dava un po' l'aria di un sempliciotto.

Ad Hikaru piacque immediatamente.

Sorrise, mesto -Non so quanto sia importante. Vado a studiare, lì.- spiegò, ed una smorfia di dolore comparve sul suo volto quando lo stomaco gli si capovolse per l'ennesima volta. Si appoggiò con la schiena al parapetto della Demea -Sono un apprendista.- concluse, con un debole sorriso. Era entusiasta del suo viaggio oltremare, solo che in quel momento gli risultava parecchio difficile esultare.

L'altro annuì, come a far intendere che avesse capito -Ci sono maghi, nel Continente?- domandò, aggrottando le sopracciglia folte, per poi arricciare il naso quando la nave prese un'onda più alta delle altre, salendo più del necessario. Emise un basso lamento, portandosi una mano sullo stomaco.

Hikaru scosse la testa -No.- rispose -Vado ad imparare le arti alchemiche. Ci è vietato utilizzare la magia nel Continente.- il Continente era l'unico luogo in cui la conoscenza dell'alchimia fosse tanto sviluppata. Non esistendo più la magia da decenni, la popolazione aveva potuto approfondire solo quella, e lo aveva fatto con grandiosi risultati, anche perchè grazie ad essa il controllo di Dominio che possedevano gli abitanti poteva essere accresciuto ulteriormente. Inoltre, proprio perché la magia era ormai scomparsa, agli apprendisti e ai maghi era assolutamente vietato mostrare le loro doti sul terreno del Continente.

-E tu?- Domandò Hikaru, alzando la testa per cercare di inalare quanta più aria possibile. Sentì le mani formicolargli dall’imbarazzo (non era abituato a tutta quella confidenza, se non con i suoi genitori ed il Maestro suo zio).

L’altro si battè una mano al petto e sorrise –Vado nel Continente per temprare il mio corpo ed il mio spirito- raddrizzò la schiena –così potrò entrare a far parte in tutto e per tutto dell’ordine dei Monaci Combattenti di Zhu.- dichiarò orgoglioso, ed Hikaru sgranò gli occhi –Un Monaco Combattente? Davvero?- non che nella Terre fosse strano trovare un Monaco Combattente, però faceva sempre un certo effetto incontrarne uno. Cominciavano la loro formazione sin da piccoli, e la loro era una ferrea educazione. I Monaci Combattenti non avevano altra famiglia se non la comunità, non conoscevano la propria madre e si occupavano di aiutare chiunque ne avesse bisogno (oltre ad essere davvero strepitosi nel combattimento, ovviamente). Ma Hikaru non conosceva altro riguardo a quell’ordine, ed era molto curioso: nel suo piccolo Villaggio ce ne erano molto pochi ed abitavano distanti, si avvicinavano solo per il mercato settimanale.

Il ragazzo rise di gusto –Si, devo prepararmi per diventarlo a tutti gli effetti.- spiegò, poi si portò il polso alle labbra, chiudendo gli occhi per qualche secondo. L’onda che la Demea prese fece contrarre lo stomaco anche ad Hikaru, che però si sforzò di mantenere in piedi il discorso –E di norma tutti i Monaci vanno al Continente?- balbettò. Un uomo dell’equipaggio gli passò di corsa vicino, e non riuscì a voltare lo sguardo verso di lui, aveva paura di rimettere quel poco che aveva mangiato.

-No.- scosse la testa –E’ un viaggio lungo e faticoso, e noi non vogliamo avere nulla a che fare con il Continente. Ma a me andava, quindi sono partito!- sorrise a trentadue denti –E poi gira voce che il successore del Grande Monaco si aggiri lì…- abbassò il tono della voce, pensieroso. Poi, rise ancora, e per l’ennesima volta la Demea parve impennarsi su un’onda più alta del normale.

Hikaru aggrottò le sopracciglia. Non era sicuro che i Monaci Combattenti, specialmente se apprendisti, potessero prendersi certe libertà. Rabbrividì per il freddo –I-il Grande Monaco?- fece in tempo a chiedere prima di essere costretto a voltarsi verso il parapetto della nave, colto da un attacco di nausea più forte degli altri.

-Ehi, amico, tutto ok?- si informò, sviando il discorso, il suo compagno di sventure, che ben presto entrò nel campo visivo del più piccolo. Il ragazzo con la coda si abbandonò a sua volta sul parapetto, prendendo grosse boccate d’aria –Comincia a tirare vento, eh?- cercò di sdrammatizzare, tenendosi lo stomaco.

L’altro cercò di sorridere, ma gli uscì più che altro una smorfia.

Fece quantomeno per rispondere, ma la sua voce venne coperta dal grido di uno dei marinai, che con tono vibrante ordinò a tutti coloro che non facevano parte dell’equipaggio di tornare ai propri alloggi e lasciare sgombro il ponte, che stava arrivando tempesta.

Il ragazzo con la coda sospirò, mentre Hikaru sbiancava sensibilmente: sotto, nella sua stanza, il movimento del mare sarebbe stato ancora più chiaro, ancora più fastidioso, e sarebbe stato davvero male.

Ma non potè fare altro che obbedire, e cominciò a muoversi verso le scalette di legno che lo avrebbero condotto alla sua cabina. Il più grande lo seguì, traballante sul ponte scivoloso d’acqua  -Ryoma Nishiki.- si presentò nel mentre che avanzavano, ed Hikaru sobbalzò, preso alla sprovvista. Alzò lo sguardo e quello scuro e ridente dell’altro incontrò il suo. Gli strinse titubante la mano che gli porgeva, e balbettò un –H-Hikaru.- leggermente imbarazzato. Poi tossì, perché Ryoma gli diede una forte pacca sulla schiena –Scommetto che faremo amicizia durante questo viaggio!- esclamò raggiante –Dove hai detto che vai?- domandò subito dopo, trascinandolo praticamente verso la cabina.

-A-ah… C-Cancer. Poi ho un passaggio per Gemini…- rispose Hikaru, incerto sulle gambe, sollevato e contento di aver trovato qualcuno con cui parlare un po’ nel mentre del viaggio.

 

La tempesta esplose un paio d’ore dopo, accompagnata da tuoni che facevano tremare la struttura in legno della Demea, dandogli ancora più nausea.

L’imbarcazione si impennava, saliva e scendeva di colpo in balia delle onde, e Hikaru si sentiva completamente esausto, ancora in preda ai giramenti di testa.

Ryoma se ne era andato circa un’ora prima, salutandolo calorosamente con un “ci vediamo a cena!”, ma HIkaru non era più tanto sicuro che avrebbe avuto fame.

La tempesta era stata quantomeno prevista, e si che era stato sicuro di poterla superare indenne. Non aveva fatto i conti con la sua costituzione normalmente deboluccia.

Prese un’enorme boccata d’aria e chiuse gli occhi, cercando di ignorare l’ondeggiamento dell’imbarcazione. Forse stendersi sull’amaca adibita a letto che gli avevano assegnato in quella stanzetta minuscola sottocoperta non era stata un’idea esattamente geniale.

La Demea non era una nave adibita al trasporto di persone, di norma, o almeno così gli aveva detto suo zio. Purtroppo le partenze per il Continente erano poche, rare, visto che nessuno voleva averci a che fare qualcosa. Un paese come il Continente, devastato dalla misera di alcuni territori, in netto contrasto con la ricchezza e lo sfarzo della Capitale e delle Città-Perno, non rientrava esattamente nella mentalità degli abitanti delle Altre Isole. A dirla tutta, Hikaru non riusciva nemmeno ad immaginare come potesse una sola persona (lo chiamavano Imperatore, sul Continente, aveva saputo) comandare sul vasto territorio del Continente.

Alle Altre Isole non c’era mai stato, da quando si aveva memoria, qualcuno che avesse cercato il dominio sugli altri. Hikaru non sapeva concepire nulla di diverso delle piccole comunità di persone che formavano le città-stato che conosceva sin dall’infanzia.

Erano regolate da leggi che tutti consideravano giuste, e tutti gli abitanti potevano partecipare alle decisioni importanti. O meglio, gli abitanti che avevano compiuto i ventuno anni di età, e lui che ne aveva ancora sedici di certo non rientrava ancora nella categoria.

Ma in realtà, non si era mai interessato di politica. Preferiva la magia di gran lunga. La magia, sul Continente, non esisteva più. Anche per questo dalle Altre Isole si spostavano poco, al di là del commercio, per farvi tappa. Gli abitanti del Continente rimpiangevano la perdita della magia, e guardavano ai loro vicini con malcelata invidia. In realtà, molti nemmeno ricordavano che fosse esistita. Ma il territorio del paese era stato profondamente ferito, calpestato duramente, sfruttato fino all’estremo, nell’antichità, e la Natura aveva deciso che gli esseri del Continente non meritavano la capacità di poterla controllare interamente, dunque aveva precluso all’uomo gran parte dell’enorme potenziale che possedeva, lasciandolo con la semplice facoltà del Dominio.

O almeno, questa era la leggenda che era stata raccontata ad Hikaru.

La magia gli permetteva di fare cose meravigliose. Chiedeva aiuto alla Natura stessa, ed era in grado di servirsi non solo di un elemento, ma di tutti e quattro. I maghi più potenti potevano servirsi di qualsiasi elemento naturale in qualsiasi condizione. Un po’ come… come si chiamavano? Maestri di Dominio, se Hikaru ricordava bene, nel Continente.

Ma Hikaru non era assolutamente un mago potente. Era ancora un’apprendista, e a dirla tutta, combinava un sacco di pasticci. Per questo suo zio lo aveva inviato al Continente. Lì, dove la magia era tremendamente debole, avrebbe dovuto impratichirsi, sfruttare al meglio l’energia che poteva ricavare. Con rispetto, parsimonia, saggezza.

Il flusso dei suoi pensieri fu bruscamente interrotto da uno scossone più forte degli altri, che gli fece perdere l’equilibrio. Rovinò a terra, e si rialzò a fatica, costretto a reggersi al legno della parete per evitare di cadere nuovamente. Ci fu un altro movimento brusco. Udì delle urla provenire dal corridoio fuori la sua stanza.

Si mosse a fatica verso l’esterno, cercando di frenare la nausea, senza alcun successo.

L’equipaggio della Demea correva come impazzito. Su è giù per il corridoio, scendendo dal ponte per afferrare cordame e strumenti.

Il capitano (Hikaru credeva fosse la sua voce, ma la pioggia battente copriva i suoni) gridava ordini, ed avanzando, il ragazzino notò che dalle scale che portavano all’esterno scendeva una piccola cascata d’acqua piovana, che gli lambiva i piedi.

Soffocò un gemito quando un marinaio, nel mezzo della sua corsa, urtò contro la sua spalla, e fu costretto a poggiarsi alla parete, prendendo grandi boccate d’aria. La tempesta aveva preso una brutta piega, constatò.

L’equipaggio era agitato, e vide diverse persone uscire dalle proprie cabine e salire in superficie. Si guardò attorno, alla ricerca di Ryoma, turbato. Poteva percepire nella pelle la potenza dell’acqua che si stava abbattendo sul ponte sopra di lui, e la cosa lo terrorizzava. Un presentimento terribile lo inchiodò per qualche momento alla parete. Deglutì, capendo di non poter rimanere di più là sotto, e combattendo il fastidio allo stomaco riprese ad avanzare.

L’acqua gli lambiva ora le caviglie, e la sensazione dei calzoni appiccicati alla pelle gli provocò un brivido. A fatica, si mosse verso le scale che conducevano al ponte, facendo attenzione a non scivolare. Altra gente schizzò di fianco a lui, molto più velocemente di quanto Hikaru riuscisse a muoversi.

Arrivare fino alla fine delle scale lo destabilizzò più del dovuto, e rischiò di rovinare in accordo con i pericolosi ondeggiamenti della Demea, ormai in totale balia delle onde. L’aria gelida della sera gli sferzò il viso assieme alla pioggia, che cadeva pesante, coprendo qualsiasi altro suono. Presto si ritrovò zuppo dalla testa ai piedi, incapace di respirare decentemente, tanta era l’acqua che gli arrivava addosso.

Ancora, la nave sobbalzò, più violentemente ancora, ed Hikaru si ritrovò senza neanche rendersene conto sbattuto contro il parapetto dell’imbarcazione. Picchiò la schiena, ed emise un lamento di dolore. Si voltò a fatica, ritrovando a pochi centimetri dall’acqua scura dell’oceano. Gridò e cadde all’indietro, scivolando sul legno bagnato del ponte. L’onda lo prese in pieno, e rischiò di trascinarlo giù in acqua con lei. Lo salvò la presa ferrea di Ryoma.

Sembrava comparso dal nulla. La coda corvina era sfatta, ed i capelli lunghissimi gli ricadevano disordinatamente sul viso, appiccicandosi fastidiosamente alla pelle. Lo tirò su senza fatica –Stai bene?- gridò, per farsi sentire oltre lo scrosciare della pioggia. Hikaru, gli occhi sbarrati dal terrore, più bianco di prima, annuì febbrilmente. Gli tremavano le mani. –Stiamo affondando!- continuò ad urlare Ryoma, senza sciogliere la presa sul suo polso –La nave imbarca acqua!- lo avvertì, e la paura si impossessò di Hikaru, strisciando fino allo stomaco, occludendoglielo in una morsa.

La nave fu sbalzata nuovamente dalla corrente, e rovinarono entrambi a terra. Intorno a loro, un caos di marinai che gridavano e pochi passeggeri che fissavano terrorizzati il loro lavoro. Non sarebbe servito a nulla tirare corde, ammainare le vele, spiegarle o qualsiasi altra cosa. La nave sarebbe affondata senza ombra di dubbio.

Hikaru non pensava sarebbe morto così presto. In fondo, aveva solo sedici anni, e così tante cose da fare. Avrebbe davvero voluto vederlo, il Continente. Certo, si ritrovò a pensare, mentre Ryoma lo tirava nuovamente in piedi per sorreggerlo, se solo fosse stato un mago un poco più potente, avrebbe potuto dare una mano. Ma non aveva un controllo della magia così forte. Tutta quell’acqua lo spaventava da morire, lo terrorizzava. Era troppa, tutta insieme. Troppa per un apprendista del suo livello.

-Dobbiamo cercare delle scialuppe!- sentì di nuovo la voce di Ryoma, e si aggrappò alla sua tunica, incapace di camminare sulle sue gambe. Attraversarono il ponte a fatica, controvento, ingoiando l’acqua salata che sbatteva contro i fianchi della nave e che faceva loro bruciare gli occhi.

Le trovarono dopo poco, si. Totalmente distrutte, inutilizzabili. Hikaru sobbalzò nel vederle. Non sembravano certo essere state distrutte dalla forza dell’acqua. Ma in quel momento era troppo poco lucido per porsi delle domande, quindi si limitò a stringersi ulteriormente a Ryoma. Non lo conosceva, ma era l’unico appiglio che aveva. Contrariamente a lui, non sembrava affatto spaventato, solo ansioso di trovare una via d’uscita da quella situazione. Oltre la Demea, era solo buio. Non si scorgeva niente altro, ed Hikaru non aveva idea di dove fosse la terra, di come arrivarci.

Senza nemmeno rendersene conto, aveva anche cominciato a piangere. Anche nei suoi probabili ultimi minuti di vita, stava piangendo. Non voleva morire su una nave in mezzo all’oceano, dannazione.

Intorno a loro, erano unicamente rumori indistinti. Non riusciva a capire cosa stesse effettivamente succedendo, troppo concentrato ad essere spaventato, e quindi non sentì arrivare subito il grido di Ryoma.

Fu veloce. Ma gli sembrò durare un’eternità.

L’onda lo colpì all’improvviso alla schiena, e per la seconda volta andò a sbattere contro il parapetto. Gli si mozzò il fiato, ed un dolore lancinante al petto lo rese del tutto inerme per una manciata di secondi. Ingoiò altra acqua salata, e non riuscì a prendere aria che una nuova onda lo colpì violentemente. Fu sbalzato oltre quel parapetto. Anche quello sembrò durare un’eternità. Era come osservarsi da fuori, non partecipare in prima persona. L’acqua continuava a scrosciare, il mare a ruggire, quando lui si ritrovò sospeso sul buio dell’oceano. Annaspò, il respiro pesante. Ancora una volta Ryoma lo aveva afferrato, con entrambe le mani. Gli teneva il polso, mentre lui ciondolava pericolosamente nel vuoto. Non aveva nemmeno la forza di gridare. Colpì il fianco della nave, ed il lato destro del suo corpo esplode di dolore. Sentiva la forza abbandonarlo ogni secondo di più –Resisti! Resisti!- gli gridava contro Ryoma, che si sporse e cominciò a tirarlo nuovamente a bordo.

Ma, evidentemente, il loro destino non era quello di rimanere sulla Demea.

Una nuova onda, più alta delle precedenti, si abbatté sul monaco. Hikaru lo vide scivolare lungo il parapetto, picchiare la testa. E poi, sbalzato oltre la nave. La presa delle sue mani si ruppe, ed Hikaru si sentì trascinare giù dalla forza di gravità.

Un sacco di pensieri gli si accalcarono in testa durante la caduta. E quindi alla fine moriva. Gli dispiaceva per Ryoma, condannato allo stesso destino per colpa sua. Non avrebbe visto il Continente. Non avrebbe imparato ad usare la magia. Non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia. Avrebbero avuto notizie di lui? Le scialuppe erano state manomesse da qualcuno. Probabilmente anche la nave.

L’impatto con l’acqua fu doloroso, tremendo, gli mozzò il respiro in gola. Si ritrovò nel buio dell’oceano, sommerso per una decina di orribili secondi. Riemerse, cercando affannato aria, i polmoni graffiati dal sale. Le vesti erano pesanti, lo trascinavano giù. Ebbe qualche momento di smarrimento, lo sguardo puntato sulla Demea inerme, che si allontanava sospinta dalla corrente. Gli veniva da piangere. Un’onda lo tirò di nuovo sott’acqua. Riemerse. Venne trascinato ancora giù. Emerse un’altra volta. Cercò di sfilarsi la tunica in un attimo di lucidità, per togliersi di dosso un peso, lasciandola alla furia dell’acqua.

Sapeva nuotare, ma contro la forza dell’oceano avrebbe potuto ben poco, lo sapeva. Era tentato di lasciarsi andare. Cosa avrebbe potuto fare, lui?

Poi, vide Ryoma. Lo scorse poco lontano da lui, in balia delle onde. Lo chiamò una, due volte, ma non udì risposta. Trovò la forza ed il coraggio di nuotare controcorrente, verso di lui. L’acqua gli si abbatteva addosso, tentava di trascinarlo a fondo, ma si oppose. Riuscì a raggiungerlo, a fatica, e ad afferrarlo per la vita. Pesava molto più di lui, e tenersi a galla mentre lo sorreggeva era faticoso; non avrebbe potuto nuotare in quelle condizioni. Tentò di trovare una soluzione, ma proprio in quel momento, l’ennesima onda li travolse. Sputò acqua in acqua mentre si trovava nuovamente sommerso. Ryoma gli sfuggì di mano, e cominciò ad andare a fondo. Nel panico più totale, si spinse verso di lui. Stava per svenire, lo sentiva, non avrebbe retto a lungo.

Negli ultimi momenti di lucidità, decise di fare l’unica cosa che potesse avere un minimo di successo: usare la magia.

La magia permette di utilizzare la Natura, in ogni suo aspetto, in ogni sua forma, in ogni momento.

Ancora immerso, senza fiato, troppo lontano dalla superficie per farcela, chiuse gli occhi e si concentrò sull’unico elemento che poteva salvarli: aria.

La bolla si plasmò tra le sue mani, tentennando. Cercare di non pensare alla sua probabile morte imminente non era facile, ma non poteva distogliere l’attenzione. Era una magia elementare, quindi ci vollero pochi secondi. Non era una bolla grande, ma bastava. Vi immerse il viso, inspirando aria, i polmoni che bruciavano.

Quindi riprese a nuotare verso Ryoma, i muscoli indolenziti, le gambe che non avevano alcuna intenzione di collaborare. Lo prese dopo mezzo minuto di puro terrore, tenendolo fermo con le gambe, che debolmente arpionò attorno al suo busto. Si concentrò per creare una bolla più grande, mentre la propria andava già esaurendosi. Le forze lo avevano abbandonato ormai del tutto, quando riuscì a sistemarla su Ryoma.

Rimase cosciente fino a che non lo vide tossire e sputare acqua, aspirando a boccate il nuovo ossigeno a sua disposizione.

Poi, la vista gli si annebbiò.

E fu buio.

 

*

 

-Morto. Dico morto.- la voce era profonda, quasi baritonale. La terra attorno a lui parve muoversi, come in preda a piccole scosse di terremoto.

-No, morto no. Respira.- un’altra voce si aggiunse alla prima, più dolce, ma sempre molto bassa –Dovremmo aiutarlo.-

-Ma morto.- replicò la prima voce.

-Ti dico respira.- ribattè la seconda voce.

Hikaru non ci stava capendo niente. In realtà, capiva solo che la sua testa stava per esplodere, e che non sentiva la parte destra (o era la sinistra?) del proprio corpo. Non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Quando ci provò, si accorse che la luce era davvero tropo forte per poterci riuscire. Poi, i ricordi del naufragio gli tornarono in mente, vividi come se li stesse rivivendo in quel preciso istante. Si sentì tremare, ma probabilmente era stata solo una sua impressione, visto che non riusciva a muoversi. A quanto pareva, era ancora vivo. Lo era davvero. Fosse riuscito ad inalare aria come si deve, avrebbe riso come un disperato. Le voci attorno a lui continuavano a bisticciare sulla sua condizione (e avrebbe voluto dir loro “sono vivo! Sono vivo davvero, almeno credo!”), in modo decisamente accorato, per giunta.

Provò a spostare una mano, quella destra. Le constatazioni furono due: primo, non ci riusciva; secondo, gli faceva male da impazzire. Mugolò, e le voci si spensero.

-Vedi? Detto che vivo.- dichiarò soddisfatta la seconda voce che aveva parlato. L’altra non rispose, evidentemente aveva accettato la sua sconfitta.

Hikaru si sentì sollevare di peso, totalmente inerme. Riuscì a socchiudere gli occhi, e stava per aprirli totalmente. Ma all’improvviso percepì un dolore lancinante alla testa, preceduto da un forte “STONK!”.

Svenne di nuovo.

 

Si risvegliò in un tendone. O almeno, gli parve un tendone all’inizio, il soffitto alto tenuto su da un’enorme trave di legno lavorato. Sbatté le palpebre un paio di volte e tentò di mettere a fuoco altro. La testa gli doleva più di prima, pulsazioni di dolore lo costringevano a rimanere immobile. Voltò cautamente il capo, constatando con sollievo di riuscirci. Il tendone era arredato a mo’ di casa. Un letto di paglia era sistemato dritto davanti a lui. Si accorse di trovarsi lui stesso disteso su un mucchietto di paglia. Vi strinse le dita della mano sinistra (la destra era momentaneamente fuori uso), e sospirò di sollievo: era vivo sul serio.

La paglia di fianco a lui, constatò, era un po’ troppa per una persona sola, ma non si fece domande.

Un piccolo fuoco (se ne accorse dopo) scoppiettava da qualche parte nella stanza, ma non riusciva a scorgerlo dalla sua posizione. Si voltò dall’altra parte, a fatica. Trattenne un singulto solo perché altrimenti gli avrebbe fatto troppo male. Di fianco a lui, Ryoma sorrideva a trentadue denti, seduto a gambe incrociate. Si era quasi scordato di lui, e si sentì così felice nel constatare che stesse bene. Avrebbe voluto piangere.

Il petto abbronzato era scoperto, fasciato nel punto in cui aveva colpito con forza il parapetto della Demea –Ben svegliato.- alzò una mano, ed una risatina strascicata gli sfuggì dalle labbra.

Hikaru sentiva la bocca impastata –Dove… dove sono?- sussurrò, senza voce. Si accorse solo allora che gli bruciava ancora la gola, come se qualcuno vi stesse strofinando dell’ortica.

L’altro si sporse in avanti, sembrava stranamente eccitato di tutta quella situazione. Hikaru non lo era affatto. –Nel villaggio dei Mangiatori di Sale.- rese noto. L’apprendista mago tentò di ricordare qualche tribù che aveva studiato con quel nome, ma non gli venne in mente niente. Doveva aver fatto una faccia abbastanza confusa, visto che Ryoma continuò con i chiarimenti –Siamo a qualche miglio dalla costa del Continente. Abbiamo fatto un sacco di strada da dove abbiamo lasciato la nave!- incrociò le braccia al petto, come rimuginando –I Mangiatori di Sale hanno detto che andranno a controllare se c’è qualche superstite. Lo spero.- sospirò.

Hikaru socchiuse gli occhi. Non aveva la forza di chiedere chi fossero questi Mangiatori di Sale, ma continuò a fare comunque domande –Come siamo arrivati qui?- tentò di alzarsi, ma un grido di dolore gli sfuggì dalle labbra. L’altro lo sostenne, intimandogli di rimanere giù, e solo in quel momento notò le bende sulla parte destra del corpo. Gli venne da piangere. Di nuovo.

-Mi hai salvato la vita, amico. Wow, se non avessi fatto quella cosa (qualsiasi cosa fosse) sarei annegato.- gli sorrise con riconoscenza, e lui si sentì arrossire come un bamboccio –La corrente ci aveva già portati parecchio lontani. Ti ho preso e ho nuotato. E nuotato. E nuotato. Ho nuotato un sacco, in effetti!- e scoppiò a ridere, portandosi una mano alla nuca, buttando indietro il capo.

Hikaru distolse lo sguardo. Già ammirava Ryoma. Era riuscito a salvarlo trascinandolo per mare nonostante fosse ferito e stanco morto, quando lui era riuscito a malapena ad afferrarlo sott’acqua. Dannazione.

-Quest’isola è grandiosa, devi vederla assolutamente. Appena ti rimetti, ovviamente. I Mangiatori di Sale solo pacifici, ci hanno offerto un passaggio per—

-Svegliato?- la voce baritonale che Hikaru aveva sentito solo poco tempo prima interruppe il discorso del suo compagno. L’aspirante mago non vedeva la persona (o la cosa) dalla quale proveniva, ma sentì dei passi pesanti avvicinarsi a lui. Deglutì, spaventato nonostante Ryoma l’avesse rassicurato.

Poco dopo, una persona enorme entrò nel suo campo visivo, in controluce. Quando si spostò, riuscì a scorgerne qualche particolare: aveva ricci capelli di un viola chiaro, quasi indaco, arruffati ed intrecciati di conchiglie ed alghe secche. Sembrava malfermo sulle gambe tozze e, per gli dei!, sarà stato alto almeno tre metri!

Hikaru spalancò la bocca in un ovale perfetto, impressionato. Il nuovo arrivato aveva occhi piccoli, porcini, ma non riuscì a scorgerne il colore. Lo vide piegarsi su di lui e scrutarlo con curiosità, muovendo la testa da una parte e dall’altra come un gufo –La testa.- sbottò, con la sua voce grossa.

-… L-La eh?-

-… Dolore?- domandò ancora, allungando una mano verso il suo capo. Hikaru fece per ritrarsi, ma il tocco del gigante era lieve, quasi una carezza –Mi dispiace. C’era un albero.- sembrò veramente dispiaciuto, e all’aspirante mago si strinse il cuore. Comunque, ora sapeva perché gli doleva la testa a quel modo. Il gigante lo aveva fatto picchiare contro un albero. Fantastico.

-Hikaru.- s’intromise di nuovo Ryoma, in tono amichevole –Ti presento Daichi! Daichi, lui è Hikaru!- allargò le braccia, contento. Il gigante sorrise, agitando la mano per salutarlo. Si accovacciò vicino a Ryoma –Piacere.- ammiccò. Hikaru ricambiò –P-Piacere…- inclinò il capo, ed un brivido di dolore lo percorse da capo a piedi.

-Tu ferito.- aggiunse ovvio Daichi, passandosi la mano sinistra sul braccio destro, ad indicare i punti precisi –Preparato una cura. Veloce.- assicurò, rovistando dentro un astuccio che teneva legato alla vita. Il suo abbigliamento era formato da una semplice tunica di pelle legata in vita da una cintura di corda –Fatta con l’aiuto del mare.- assicurò, come se questo potesse spiegare tutto.

Hikaru era restio ad accettare una medicina da un totale sconosciuto, ma Ryoma sembrava tranquillo in presenza di Daichi, e poi quel gigante lo aveva salvato. Lo vide tirare fuori una piccola scodella di legno, e vi versarvi del liquido azzurrino da una borraccia. Aveva l’odore dell’acqua di mare.

Ryoma lo aiutò a mettersi semiseduto, con non poca fatica, e Daichi gli fece trangugiare la medicina. Era salata, tremendamente. Ma non gli diede fastidio. Scese giù fresca, e si sentì subito meglio –Magia d’acqua.- assicurò il gigante, che estrasse dall’astuccio qualche pianta. Sembravano alghe. Le mise dentro la ciotola di legno che Hikaru aveva usato per bere e prese a lavorare con un pestello. Ne venne fuori una poltiglia verdeazzurra non molto carina da vedere.

Con l’aiuto del Monaco Combattente, il gigante sfilò le bende ad Hikaru, che gemeva di dolore, ed applicò il cataplasma sulle ferite e sui lividi. Era incredibile, in pochi secondi si sentiva già in grado di mettersi seduto, nonostante muoversi gli fosse ancora difficoltoso –Come…?- tentò di domandare, ed il gigante sorrise, ancora concentrato sugli impacchi –Magia dell’acqua.- ripeté. Ancora, il suo tocco era gentile e delicato, così piacevole che ad Hikaru venne sonno –Siete- siete Dominatori?- domandò, in un filo di voce.

Quello alzò lo sguardo. Sembrava offeso –Noi non siamo Continente. Noi usiamo la magia dell’acqua.- ribadì, senza spazientirsi.

L’apprendista mago sgranò gli occhi, sorpreso. Oh. Allora, lì erano veramente dei maghi. Certo, sembravano specializzati in magia acquatica e basta, ma… era fantastico! Hikaru scoprì una voglia pazzesca di visitare l’isola e parlare con la sua gente, che per un secondo gli fece dimenticare quanto fosse effettivamente terrorizzato di trovarsi su un’isola sperduta, in balia di un villaggio di giganti, lontano dalla sua meta, in compagnia di un Monaco Combattente che trovava il tutto molto educativo. Si, si sentiva già meno spaventato.

-Avrai un po’ sonno.- lo rassicurò Daichi, sorridendo mesto, una volta finito di applicare le medicazioni.

Hikaru non fece in tempo a comprendere quanto gli avesse detto, che stava già dormendo di nuovo.

 

Quando si risvegliò, si sentiva del tutto in forze. Non si trovava più nel tendone dov’era la volta prima, ma in una rozza costruzione di legno, di dimensioni pazzesche. Era squadrata, ed il soffitto era sempre molto alto. Le travi erano sistemate in modo ordinato, nonostante non fossero lavorate. L’aria filtrava attraverso le molte finestre che si aprivano tutte intorno, ma la porta sembrava chiusa.

-Svegliato.- Hikaru trasalì. Di fianco a lui, Daichi –Dormito per giorni. Guarito.- assicurò, con un enorme sorriso.

Hikaru aggrottò le sopracciglia. Provò a muovere la mano destra, e si accorse con sorpresa di non avere problemi. Raddrizzò la schiena. Fece forza sui palmi. Barcollò un poco, non più abituato a camminare, e Daichi si offrì di fargli da sostegno mentre si rialzava su gambe tremanti. Ringraziò, arrossendo, tenendosi alla sua veste. Gli arrivava appena alla cintura di corda -… Quanti giorni ho-?-

-Sette giorni, otto notti.- spiegò il gigante, dandogli lieve spinte per dargli una mano a riprendere i movimenti. Ci mise poco, nonostante si sentisse ancora un poco debole. Sette giorni. Il suo arrivo al Continente era previsto in cinque giorni dalla partenza della Demea. Oramai il suo passaggio da Cancer fino a Gemini era saltato. Non riuscì a dispiacersene. L’idea di rimanere in quel villaggio ancora un po’, circondato da maghi dell’acqua, lo allettava parecchio. Voleva uscire, visitare l’isola. Si chiese dove fosse Ryoma.

-Tuo amico a caccia.- quasi gli stesse leggendo nel pensiero, Daichi ammiccò all’esterno –Vuoi uscire?- gli propose. Lui annuì appena –Ma non riesco ancora a- AH!- si sentì sollevare, all’improvviso. Daichi lo aveva afferrato per la vita e lo aveva tirato in aria. Lo poggiò sulla sua spalla, senza lasciarlo, ma Hikaru era talmente terrorizzato che gli si appiccicò ai capelli, tirandoli –Ahi, ahi, ahi, male!- si lamentò quello, ed il più piccolo si impose di calmarsi, sciogliendo lentamente la presa –S-scusa—balbettò, tremendamente a disagio.

Quello non pareva essersela presa, né pareva essersi reso conto che la sua spalla fosse un po’ strettina per una persona, ma Hikaru rimase in silenzio, non voleva di certo contraddire un gigante.

-Abbassa la testa.- gli intimò quello, e lui obbedì, mentre la porta si apriva ed altro sole inondava la stanza, ferendogli gli occhi.

La prima cosa che vide fu il mare, a perdita d’occhio su quel lato dell’isola. Poi, some per fargli avere una visione d’insieme, Daichi girò su stesso, ed Hikaru scorse, dietro il capanno, piccole colline brulle, baciate dal sole. Un ammasso informe di alberi e piante che non aveva mai visto si apriva alla sua destra, e dava sulla spiaggia di sabbia bianchissima ai suoi piedi. Sembrava sale, per quanto era chiara.

Girando ancora, ad ovest, i suoi occhi incontrarono le cime di quelli che aveva creduto essere tendoni. In realtà erano vere e proprie abitazioni. E, quando Daichi cominciò a camminare in quella direzione, si accorse che si trovavano sull’acqua. Erano palafitte, incastonate nella sabbia del fondale di un’insenatura piuttosto rientrata rispetto al punto in cui si trovava lui. E le pareti erano di legno, non di tessuto, incavate verso l’interno proprio come una tenda. Erano collegate tra di loro tramite ponti di legno rialzati. Sembravano stare su da soli, senza nulla che li reggesse. Solo dopo Hikaru notò i sostegni che si inabissavano.

Ma la cosa più spettacolare non era di certo quella.

Daichi avanzò, oltre il villaggio, ed Hikaru si perse ad osservare tutte le persone che lo popolavano, alte dai due metri e mezzo ai quattro, intente nei lavori di tutti i giorni. Non distolse lo sguardo da loro finchè non oltrepassarono l’intera cittadina sull’acqua, passando vicino alla spiaggia. Il fondale non era troppo alto per Daichi, nel punto in cui stavano attraversando. Lasciatisi alle spalle le case-capanne, camminarono per un altro quarto d’ora, girando attorno all’isola.

Ad un certo punto, dietro una serie di scogli non tropo alti, sui quali era stata costruita un’impalcatura in legno per consentire il passaggio, si aprì una distesa immensa di bianco abbacinante, separata dalla spiaggia da un muro di pietre. Dagli scogli, bisognava inerpicarsi verso il basso per raggiungerla. Hikaru si coprì gli occhi, battendo le palpebre velocemente per mettere a fuoco: una dozzina di giganti danzava al limitare di quel mare bianco, incantando l’acqua dell’oceano che lambiva i loro piedi. L’acqua si alzava e tendeva ai loro comandi. La trasportavano dentro grandi secchi di legno, quindi continuavano la loro magia, separando l’acqua da…

-Sale.- sorrise contento Daichi, salutando con la mano i suoi compagni, che ricambiarono, senza però smettere di danzare.

Hikaru dedusse che la distesa bianca che aveva visto fosse, appunto, una sorta di deposito di sale. Sale, e sale e sale. Ci saranno stati metri e metri cubi di sale. Notò un paio di giganti che caricavano alcuni secchi e si dirigevano al villaggio –Cosa ci fate con tutto quel sale?- domandò, esterrefatto.

La risposta, a ben pensarci, era ovvia –Lo mangiamo.- replicò Daichi.

Solo allora il nome “Mangiatori di Sale” acquistò un senso. Non era un soprannome, era proprio un dato di fatto. Quei giganti si nutrivano di sale. Era pazzesco. Hikaru non aveva mai sentito nulla del genere, nemmeno da suo zio, che pareva sapere sempre tutto. Quella gente avrebbe potuto sopravvivere in mare senza alcun tipo di problema!

Stava per partire con una sessione di domande a raffica, sempre meno intimorito e tremendamente interessato a sapere di più, quando qualcuno lo distrasse –Perché lo hai portato qui?- proruppe un gigante, facendolo trasalire. Hikaru lo inquadrò solo in quel momento: era più alto di Daichi, anche se più snello. Gli occhi ambrati lo scrutavano con diffidenza.

Era vestito in modo più consono del suo compagno. Sopra i pantaloni di pelle portava una casacca bianca. Odorava di salsedine.

I capelli erano rossi, e ordinati., Due basette gli incorniciavano il viso smunto, e sulla fronte prorompevano simili a corna. Erano intrecciati di telline ed alghe secche come quelli di Daichi, ma nel complesso, quel gigante risultava molto più (minaccioso) elegante.

-Tadashi.- brontolò il gigante che lo portava in spalla, senza guardare il compagno, ed Hikaru desiderò di sparire sotto quella massa di sale. Di nuovo, si sentì terrorizzato –Amico. No fa niente di— continuò Daichi.

-Non è uno dei nostri.- sbottò tale Tadashi, duro -Salvato. Curato. Ma non in giro per l’isola.- il gigante socchiuse gli occhi, e l’aspirante mago rimase a corto di parole.

Tadashi rimase in silenzio qualche secondo, a scrutare Daichi. Sembrarono parlarsi tramite gli sguardi, e alla fine il gigante dai capelli rossi sospirò, esasperato, sviando lo sguardo –Va bene.- brontolò, chiudendo gli occhi. Poi li rivolse nuovamente ad Hikaru –Attento a quello che fai, umano.- gli intimò, per poi farsi serio–Attenzione anche tu, Daichi. Attenzione. Non fidarti.- si raccomandò, quindi prese aria e fece per farlo passare, lanciando altre occhiate ostili al povero Hikaru, a cui tremavano le ginocchia.

-Daichi.- pigolò quello, deglutendo, gli occhi fissi in quelli di Tadashi.

-Mh.-

-V-va bene così, davvero. Sono un po’ stanco, possiamo tornare indietro?- domandò, e l’altro nemmeno rispose, facendo dietrofront, dopo aver rivolto un’espressione profondamente offesa al compagno, che sembrò tutto ad un tratto a disagio, ma non li seguì.

Tornarono al capannone quadrato in riva alla spiaggia, in silenzio. Hikaru non aveva più voglia di fare domande. Perché quel gigante si era comportato in modo così ostile? Cosa aveva da temere da un essere umano altro nemmeno la metà di lui, magro, emaciato, debole dopo una settimana di convalescenza?

Chi erano i Mangiatori di Sale? Perché lui non ne aveva mai sentito parlare?

Davanti al capannone, Ryoma li aspettava, con in mano un cesto pieno di… piante?

-Ehilà, Hikaru! Ti sei svegliato! Mi stavo preoccupando, quando non ti ho visto!- dal modo in cui lo aveva detto, non sembrava poi così preoccupato. Tendeva ad essere molto espansivo, notò Hikaru.

-Allora, ho preso da mangiare!- alzò i pollici, mostrando il cestino –Finalmente possiamo condividere un pasto come si deve.- annuì. Sembrava molto contento. Hikaru non sapeva come comportarsi, in realtà. Non era abituato a tutta quella confidenza, e si sentì arrossire. Si accorse di avere una fame tremenda.

-Il tuo amico. Mangia sempre vicino a te. Anche se dormi.- gli spiegò Daichi. Avvampò –E tutti i giorni va a caccia.- spiegò. Sembrava davvero orgoglioso di Ryoma.

-Caccia? Ma quelle sono erbe.- biascicò Hikaru.

-Bhe, si, noi monaci siamo vegetariani. Ma fidati, trovare questi è stato come andare a caccia!- assicurò, scuotendo la testa.

Hikaru si ritrovò a sorridere, senza neanche rendersene conto.

C’era ancora tempo per visitare l’isola, abituarsi ad i suoi abitanti e fare domande, pensò.

Daichi lo mise a terra, e lui barcollò verso Ryoma, che lo sorresse –Allora, le preferisci bollite o grigliate?- domandò, come fosse una questione della massima importanza.

Ma per il momento, poteva anche rilassarsi e mangiare un po’.

 

*

 

No, ok.

E’ passato un po’ tanto tempo dall’ultima volta che ho aggiornato.

Potrei dire che ho avuto gli esami, e che buh, e che blah, ma la spiegazione più semplice è che- non avevo ispirazione per mettermi davanti al pc e scrivere questo capitol-

E’ un capitolo di passaggio, abbastanza lento, lo ammetto (e sempre molto lungo, vi prego davvero di farmi sapere se è troppo spaccapall- ahem, noioso così, che provvedo a fare capitoli più brevi), ma Hikaru avrà un ruolo particolarmente importante nella storia. Perché non se lo fila mai nessuno e merita le luci della ribalta, ogni tanto (MA COSA). E c’è anche Nishiki. Non so perché abbia scelto lui da mettere assieme ad Hikaru in questo capitolo, ma mi… andava, ecco. Nishiki mi piace molto, e al fianco di Hikaru secondo me può dare il meglio di sé <3 non avrà capitoli dedicati a lui personalmente, ma sarà molto presente.

Per quanto riguarda i Mangiatori di Sale… Allora. Daichi è, ovviamente, Amagi; Tadashi invece è Mahoro. Lo specifico perché nemmeno io sapevo i loro nomi prima di scrivere questo capitol- AHEM. Si vede che li scippo un po’-? No, vero-? COFF. In ogni caso. Bhè, allora, facciamo un po’ di geografia. Allegherei un’immagine, poi vedo se ci riesco, perché non sono capace co sto cos- IN OGNI CASO. Il Continente è una bella PALLA di terra in mezzo al mare. Una PALLA molto grande. E’ ovviamente piena di città, e le dodici principali hanno i nomi dei segni del nostro zodiaco (ovviamente i personaggi non comprendono la figata di questa cosa, ma piaceva a me, quind-). Le Altre Isole, sono un arcipelago di, appunto, isole, non troppo distanti dal Continente. Sono dodici, ed in ognuna, la città principale ha il nome di un segno dello zodiaco cinese. Quella da cui viene Nishiki, per esempio, è la città di Cinghiale. Ma io ho messo il nome in cinese perché è molto figo.

 

 

La nostra prima lezione di geografia è conclusa. Man mano che andrò avanti, chiarirò molte altre cose, ecco, uhm (?).

Bhè, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e che nonostante i miei reiterati ritardi, continuiate a seguirmi <3

Pace amore e sacher torte *regala fette di torta* <3

 

Al prossimo capitolo gente <3

 

Greta.

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