The Ruler and the Killer

di Alopix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


 

THE RULER AND THE KILLER

 

 
 
 
“Please, pay attention, baby.
You know why you belong to me.
Come on! We should get it going.
Survival of the fittest, baby.
You lose and you’re lesser to me.”
{Kid Cudi-The ruler and the killer}*

 

Capitolo 1

Sbatto violentemente il piede per terra, cercando di mantenere la calma, ma mi ritrovo a sopprimere un grido di frustrazione.
 Ho lavorato così tanto, combattuto contro tutto e tutti…
Già dall’età di dodici anni, alta solo un metro e cinquanta, ero fra le più minute ragazze in cerca di un allenatore ufficiale che mi preparasse agli Hunger Games. Le altre non solo erano avvantaggiate fisicamente, ma la maggior parte di loro proveniva anche da famiglie benestanti che possono permettersi di pagare untrainer, una possibilità che io non ho mai avuto.
La mia è una famiglia povera. E’ già tanto se riusciamo ad avere due pasti al giorno, qualsiasi spesa extra è totalmente fuori discussione.
Sebbene, per me, per noi, il mio allenamento per i Giochi sia tutt’altro che secondario.
E’ il mio scopo.
Sin da piccola sono stata destinata a questo: allenarmi, partecipare e vincere i Giochi per portare gloria e denaro alla mia famiglia.
 I coltelli sono stati per me quello che le bambole erano per le altre bambine.
E lo rimangono tuttora.
E’ grazie a loro se il mio istruttore, Hugo, mi ha notata, esattamente un anno fa, quando mi offrì di allenarmi privatamente. Non ho pagato una sola lezione da quando ha iniziato a istruirmi. Me le sono tutte guadagnate con impegno, sudore, dedizione. Con il mio talento.
Non è abituale una cosa del genere, qui nel Distretto 2. Il nostro è uno dei distretti più benestanti, la maggior parte della nostra gente è così ricca da potersi permettere qualsiasi capriccio.
Hugo ha accettato di allenarmi perché pensa che io sia una promessa. Che io possa rendergli onore.
E, infatti, ora, ad appena quindici anni, sono micidiale.Anche se rimango sempre più esile della maggior parte delle ragazze, sono forte come loro e rapida il doppio. 
Ma adesso si sta sgretolando tutto, tutto il mio duro lavoro e tutte le mie conquiste, grazie all’alto ragazzo biondo vicino a me, che passeggia su e giù per la palestra maneggiando i miei coltelli.
Questo è il principale problema nel guadagnarsi lezioni private, pagando solo quello che ti è necessario per imparare: gli istruttori devono pur procurarsi denaro in qualche maniera.
Così ti ritrovi a dividere quelle che erano “lezioni private” con qualche ragazzino viziato, con genitori pronti a pagare per qualsiasi cosa lui voglia.
Non è per niente giusto. Lo detesto.
 Ho molto più talento di molti di loro. Ho lavorato tanto per essere qui, mentre questo ragazzo – penso che suo padre l’abbia chiamato Cato - sta chiaramente pagando.
Ma ha altrettanto chiaramente mancanza di abilità, visto come tira male tutti i coltelli!
“Posso aiutarti?”, ringhio al ragazzo, che sta ghignando arrogantemente – e anche abbastanza stupidamente- al manichino, in cui si è finalmente infilzato un pugnale.
 Il suo sorriso svanisce mentre si gira per rispondermi.
“Si”, dice minaccioso e divertito allo stesso tempo. “Non infastidirmi”, soffia.
Scoppio a ridere, sarcastica. La rabbia ha strani modi di manifestarsi, a volte.                             
Non infastidirti?”, ripeto.
“Questa è la mia sessione privata!”, sbotto. “Chi ti credi di essere?!”
Mi guarda con i suoi freddi occhi blu, impassibile.
“Non ha importanza chi credo di esser io, non è così?”, replica, minaccioso . “A te importa solo chi tu creda io sia”, mi ringhia dietro.
Lo guardo ghignando. Se sta cercando di sembrare intelligente, non funziona.
Lui, intanto, impugna un coltello e inizia a giocherellarci.
“Ma adesso, Clover”, inizia lui, minaccioso, assottigliando gli occhi, “se t’interessa tanto saperlo, sono la differenza fra la tua vita e la tua morte”.
Come mi ha chiamato?! Sto per aprire la bocca per protestare, quando mi ritrovo a terra.
Lui si è scaraventato addosso a me.
Lotto per liberarmi, ma non vedo come potrei: pesa troppo più di me.
“Quindi, Clover”, soffia lui. “vita o morte?”, chiede, percorrendo con il coltello le linee del mio volto, prendendosi gioco di me.
“E’ Clove”, sibilo, provocatoriamente, non facendomi intimidire.
“Oh, davvero?”, mi prende in giro. “Che dolce”. Sembra stia facendo le fusa.
 Sento del sangue che inizia a colarmi dalla fronte, dal punto in cui mi ha appena tagliato, ma mi rifiuto di dargli la soddisfazione di vedermi soffrire.
E poi è solo un taglietto. Ho visto di peggio. Molto peggio.
Proprio in questo momento i due adulti sembrano accorgersi di cosa sta succedendo. Hugo inizia a urlarci contro, mentre corre verso di noi.
Cato lo ignora e continua a guardarmi fisso, sempre puntandomi contro il coltello.
“Quindi, ti comporterai bene, Clove?”, chiede, ponendo speciale enfasi sul mio nome.
Io non distolgo lo sguardo, per dimostrargli che non sono spaventata.
Dipenderà da te”, sibilò, sporgendo il mento in avanti.
“Brava ragazza”, sussurra compiaciuto, prima di lasciarmi andare.
Hugo inizia a urlarci contro di combattimenti, coltelli e non-so-bene-cos’altro.
Non lo sto sentendo.
Sto ancora pensando a Cato. E’ il primo che mi abbia mai battuta o in qualche modo spaventata, se così si può dire.
E questo può solo essere un ostacolo. Un ostacolo chenon deve esistere.
Assottiglio gli occhi e cerco di concentrarmi su quello che Hugo sta blaterando.

Per tutto il giorno rimango una furia.
Sia durante l’allenamento che quando arrivo a casa, il mio umore è lo stesso, invariato.
 Lo sbattere della porta che riecheggia ancora per le stanze ne è la prova.
Mia madre appare dalla nostra piccola cucina, asciugandosi le mani nel grembiule che le protegge i vestiti. Spalanca gli occhi vedendo la rabbia che mi attraversa il viso, accompagnata da un fresco taglio sulla fronte.
“Clove, tesoro, cosa c’è che non va?”, domanda, in apprensione.  
Ugh, non sopporto quando mi chiama “tesoro”.  E’ così infantile!
Non sono mai riuscita a farle capire che non deve trattarmi da bambina, come qualcuno che deve essere protetto. So badare a me stessa.
Ma, soprattutto, adesso, quell’odioso nomignolo è la goccia che fa traboccare il vaso.
“Siamo poveri, ecco cosa c’è che non va!”, le urlo contro, la voce carica di risentimento accompagnata da un’occhiata feroce. Abbandono lo zaino per terra e mi dirigo verso la mia camera.
Lei rimane un attimo interdetta ma si riprende subito. Non è la prima volta che assiste a una mia sfuriata.
Strano a dirsi, ma allenarsi per uccidere può portare un po’ di stress.
“Ne vuoi parlare, tesoro?”, chiede, un po’ turbata.  
Imparerà mai?, mi lamento, esasperata, mentalmente.
“Di sicuro non con te!”, le rispondo urlando.
 Raggiungo la mia stanza e sbatto la porta, lasciandola fuori, ferita, confusa e sola.
Non che m’importi. Sarebbe ora che le imparasse a cavarsela da sola.
Inizio a sfogarmi sul poco che possiedo: fogli di carta si spargono sul pavimento, libri sbattono contro la parete, una lampada finisce in mille pezzi, mobili si capovolgono, mentre la mia rabbia e la mia frustrazione riempiono l’aria.
Perché questo?
Perché ora?
Che cosa ho fatto per meritarlo? Si è forse stancato di me? , penso, in preda alla rabbia.
Pensa che io non ne valga più la pena? Che debba avere un altro studente perché non prometto abbastanza?  Altri oggetti si capovolgono al mio passaggio.
E se è così, perché semplicemente non smette di darmi lezioni? Di sicuro sarebbe meglio di questo
Tutto sarebbe meglio di questo. La mia indole orgogliosa non mi permette di accettare un affronto del genere.
 E poi, se il ricco padre di Cato paga perché sia istruito, perché dovrebbe dividere la sua sessione con me, la poveraClove?
Collasso sul mio letto, sfinita dalla giornata di allenamento e dalla mia recente collera.
Guardo in alto, fissando il soffitto. Cerco di concentrarmi sugli aloni lasciati dall’acqua per calmarmi prima della cena.
Non voglio urlare di nuovo contro mia madre. Può non essere la persona a cui tengo di più in assoluto, ma le importa di me, mi vuole bene e fa di tutto per guadagnarsi la mia approvazione.
Anche se è probabile che non l’otterrà mai.
E’ mia madre e quindi le voglio bene, ma come posso rispettarla se è così delicata e fragile?
 E’ patetica.
Non ho alcuna idea del perché papà l’abbia sposata. Lui è così forte e indipendente.
Non ha bisogno di nessuno, ha scelto di averci intorno e di volerci bene.
 Mamma, invece, non durerebbe due giorni senza di noi. Lei dipende dalle persone.
Sento qualcuno bussare alla mia porta, ma lo ignoro. Non so che ore siano, ma mi sembra sia troppo presto perché papà ritorni dal lavoro e non ho alcuna voglia di parlare con la mamma ora.  Lei bussa ancora, ma continuo a ignorarla.
“Clove” la profonda voce di mio padre mi raggiunge da dietro la porta. Oh, quindi è a casa!
Evidentemente è passato molto più tempo di quello che pensavo. Guardo fuori dalla finestra per accertarmene. E’ il tramonto.
E’ passata più di un’ora.
Accidenti. Ho perso completamente la cognizione del tempo.
“Possiamo parlare?”, ritenta mio padre.
 Questo è quello che amo di lui: non ho alcuna serratura alla mia porta, ma lui aspetta lo stesso sempre il mio permesso per entrare – forse perché sa che lo lascerò passare comunque.  Ma fa comunque in modo che sembri che io abbia la possibilità di scegliere, anche se in realtà non è così. Mi dà l’illusione di avere sotto controllo la situazione, il che è un bene in giorni come oggi, quando la realtà di quanto poco controllo io abbia sulla mia vita è così abbagliante.
“Entra”.
La porta si apre e mio padre torreggia sulla stanza ancora in uniforme da lavoro, sporco e stanco, ma comunque dignitoso e fiero.
 Non potevo prendere da lui? E’ così alto e imponente!
Lui si siede sul mio letto e mi osserva, senza lasciar trapelare emozioni.
“Perché hai urlato contro tua madre?”, mi domanda.
Alzo gli occhi al cielo, esasperata, e ritorno a fissare il soffitto.
“Era … fastidiosa”, rispondo, senza guardarlo.
Questo non gli va giù, ne sono sicura, anche se non vedo la sua reazione.
“Fastidiosa?”, ripete, suonando in qualche modo contrariato.
“Clove, guardami. Adesso.”, ordina, autorevole.
 Ubbidisco, è chiaramente arrabbiato e non ho intenzione di infastidirlo oltre. Sa essere molto convincente, con le sue punizioni.
Fisso i suoi caldi occhi marroni, uguali ai miei.
 “Che cosa ha fatto per ottenere un simile trattamento?”, prosegue lui.
Realizzo ora che non ho alcuna spiegazione razionale, ma rispondo comunque.
 “Mi ha chiamata tesoro”, rispondo. Riconosco una vena velenosa nella mia voce.
 Lui mi guarda incredulo, aspettando ulteriori spiegazioni.
Quando diventa chiaro che non aggiungerò nient’altro, guarda il soffitto e sospira.
“Clove, non so quante volte te lo debba dir-”
“Lei non capisce!”, sbotto, lasciando trapelare tutta la mia rabbia.
 “Niente di tutto quello in cui credo! Non nell’allenamento, negli Hunger Games, nella gloria … niente!”, continuo. “Non avrebbe comunque capito la mia frustrazione! E poi ha iniziato a parlarmi cose se avessi tre anni…. Che cosa avrei dovuto fare?!”. Mi alzo in preda alla collera e lo guardo dritto negli occhi, aspettando una risposta. Lui sospira, stanco per la giornata di lavoro e per lo sforzo che gli richiede vivere con due persone come me e mamma, che non riescono a passare più di cinque minuti insieme. , penso, perlomeno ionon riesco a sopportare un tempo maggiore in sua compagnia.
“Se non puoi dire niente di carino …”, inizia papà.
Alzo le spalle, sbuffando. “… è meglio non dire niente, sì”, completo la sua frase. Me l’ha ripetuta così tante volte….
Alzo gli occhi al cielo. “Cercherò di ricordarmelo la prossima volta che cercherà di darmi lezioni di cucito.”
Lui ridacchia, divertito.
 “Per favore, fallo.”, mi dice, sempre sorridendo.
 Annuisco, cercando di mantenere l’espressione più seria e sincera del mio repertorio.
In tutti questi anni sono diventata un’attrice provetta.
“La cena è pronta. Mangi?”, chiede.
 Non ho fame, ma questo sarebbe il momento migliore per raccontargli gli ultimi avvenimenti, quindi annuisco e lo seguo fuori dalla mia stanza.
Siamo a metà cena quando il mio malumore diventa il principale argomento della conversazione. Virtualmente ignorando mia madre, racconto a mio padre ogni singolo momento della giornata, da quando Cato è entrato nella palestra –con quell’odioso fare bandalzoso…-, a quando ho urlato contro mamma. Lui ascolta attentamente e distoglie lo sguardo da me solo quando deve tagliare il pollo nel suo piatto.
Che ironia. Proprio oggi che ho avuto ulteriore prova della nostra povertà, mangiamo della carne decente.
Quando finisco di parlare, lui mi guarda pensieroso.
“Come hai detto che si chiama suo padre?”, chiede, accigliato.
Lo guardo confusa. “Non l’ho detto.”
“Ma sei sicura che il ragazzo si chiami Cato?”, insiste.
“Si …”, rispondo con calma, estremamente confusa. Papà mi guarda assorto, chiaramente con la testa altrove.
“E’ strano”, inizia. “Ho recentemente sentito il mio capo lagnarsi dell’istruttore di suo figlio. Diceva che non gli stava dando tutto il tempo che meritava, nonostante quanto il ragazzo promettesse. Stava chiedendo agli altri riguardo agli allenatori dei loro figli. Penso che il suo si chiamasse Cato. E’ curioso che una persona così ricca si sia ridotta ad accettare lezioni semi-private.”
“E se non stesse pagando?”, ipotizzo, avendo un’improvvisa ispirazione. Ho sentito che è già accaduto in passato. Genitori ricchi che costringono i loro figli a ottenere lezioni private piuttosto che pagare per averle, sia per avarizia sia per mettere alla prova i propri figli.
 In realtà non sarebbe una cattiva idea, se non fosse che, se lo facessero tutti, non ci sarebbero più istruttori perché si sarebbero già trovati un’altra maniera per guadagnare denaro.
Papà annuisce lentamente, con la bocca piena di cibo.
“E’ possibile”, concorda, dopo aver ingoiato. Sembrava volesse aggiungere qualcos’altro, ma mamma ha scelto questo momento per dire la sua. Non aveva aperto bocca da quando ho iniziato a narrare gli eventi della giornata.
“Che importanza ha? Siete solo due! Non può toglierti così tanto tempo …”, dice, in tono tranquillo. Ignoranza. Pura ignoranza. Ecco cosa.
 La guardo, incredula. Non ho idea di come risponderle senza guadagnarmi un sonoro colpo sulla faccia. Visto che vengo ancora picchiata. Papà crede fermamente nelle punizioni fisiche.
“E’ più complicato di così, Caryn”, dice mio padre, pazientemente. Non capisco perché si preoccupi di spiegarglielo. Tanto non lo capirà mai!
“Bé, non comprendo perché debba esserlo. L’intera cosa è ridicola!”, continua lei. “E’ una cosa malsana! Allenare bambini per uccidersi a vicenda in un programma televisivo! Nel nome dell’onore”.
Mi guarda, implorante. “Non sei costretta a farlo, Clove! E’ così frustrante. Non perderemmo niente, e nemmeno tu! E neanche l’onore del distretto ne soffrirebbe, se è questo quello che t’importa. Ci sono un sacco di bambini per competere nei Giochi.”
Ecco. Sta facendo veramente la stupida ora.
“Io non sono una bambina, mamma!”, le urlo, sbattendo una mano sul piano di legno. Allontano violentemente la sedia dal tavolo. “Non hai idea di quello di cui parli”. Faccio per andarmene.
“Clove! Torna immediatamente qui!”, senta la voce di lei urlarmi contro.
 Mi volto per affrontarla e la guardo con tutto il risentimento che posso, sorpresa di sentirla alzare la voce. Deve essere furiosa, ed è raro che succeda.
“Se non smetterai di allenarti”, continua, “ti costringerò a farlo”.
Quest’audace affermazione stupisce sia me che papà.
Spalanco la bocca e la guardo stupidamente. Non mi ero mai sognata che lei potesse dire qualcosa del genere, che potesse obiettare riguardo qualcosa di così ovvio nella mia vita.
Papà, invece, a quanto pare, ha mantenuto il controllo sulle sue facoltà mentali.
“Caryn, siediti”, le ordina fermamente, ma comunque preservando un po’ di dolcezza nella propria voce.
 Lei lo guarda, stupita.
“Non lo farò, Aidan”, ribatte, mandandomi sempre più in stato di shock.
Lei non lo contraddice mai.
“L’allenamento ha danneggiato nostra figlia abbastanza. Non continuerà. Non lo permetterò”. In effetti, lei non è mai stata entusiasta all’idea del mio addestramento. Anche se non ne capisco a pieno il motivo.
Lo faccio anche per lei.
Preferirebbe forse che io competa nei Giochi senza preparazione?
“Non hai scelta!”, ribatte mio padre, alzando la voce. “Clove si allenerà e, quando sarà grande abbastanza, sarà un tributo. Che ti piaccia o no!”
 Mamma non replica niente, ed è chiaro che la convinzione di papà e l’idea di contraddirlo ancora, probabilmente, hanno fatto vacillare la sua determinazione.
Lo dicevo che è una debole, penso, con un sorriso.
 “E’ una tradizione di famiglia!”, continua mio padre. “Mio zio ha vinto la terza stagione degli Hunger Games! Mio padre l’ottava! E mio fratello la trentesima. Ora è il turno di Clo-”
“Sì, tuo fratello. Tuo fratello!”, interrompe mamma, facendo spegnere il sorriso sulle mie labbra.
A quanto pare oggi si sente rivoluzionaria.
 “Lascia che entrino i suoi figli negli Hunger Games! Non ha niente a che fare con Clove!”, continua, arrabbiata.
“Sai che non ha bambini”, ribatte lui stancamente.
“E perché dovremmo offrire Clove per continuare la sua tradizione?!”, urla lei. “Lui non ci ha mai aiutato!”.
In realtà, ha ragione. Non solo il mio ricco nonno ha disconosciuto mio padre per non aver preso parte ai Giochi, ma il suo unico fratello, un vincitore, si è rifiutato di supportarci economicamente dopo che lui e mio padre hanno litigato, poco prima che io nascessi, nonostante sapesse che siamo molto più disagiati.
“Non è la sua tradizione, Caryn! E’ la tradizione di famiglia e-”
“Ti hanno disconosciuto, Aidan! Non devi loro niente!”, cerca di convincerlo lei, sulla soglia del pianto.
“Non stiamo parlando di dovere qualcosa a qualcuno! Stiamo parlando di onore!”, le urla dietro. “ Se Clove non compete nei Giochi perderemo tutto il rispetto che la nostra famiglia si è guadagnata sin dalla ribellione!”
“Questo è un tuo problema. Non mio.” Questo lo fa totalmente andare fuori dai gangheri. Perde la sua solita calma e il suo viso si riempie di rabbia. Prima che nessuno di noi possa prevederlo, papà tira a sua moglie un sonoro ceffone. Lei urla, sia di dolore sia di stupore, mentre si allontana istintivamente da lui e porta una mano al segno rosso sul suo viso. Lacrime iniziano a percorrerle le guance e lei corre verso la loro camera, dopo avergli lanciato un’occhiata addolorata e delusa.
Io guardo tutta la scena senza riuscire a muovermi, in preda allo stupore. Papà non picchia mai la mamma. Né la minaccia. E’ molto meno violento di me, che è parte del motivo per cui è stato suo fratello a entrare negli Hunger Games e non lui.
Caryn…”, sussurra, angosciato.
Sembra uscire improvvisamente dalla nebbia di furia che lo circonda e il suo viso muta in una maschera di tristezza, da maschera di rabbia che era.
Mi guarda, dopo aver indugiato con gli occhi sulla porta chiusa della loro stanza, chiedendo perdono con lo sguardo, ma io sono troppo confusa per dire o fare qualsiasi cosa.
Posso anche non apprezzare mia madre, ma apprezzo l’amore che mio padre prova nei suoi confronti, pur non capendolo.
Non avendo alcuna idea su cosa fare o su che ho appena assistito, mi ritiro semplicemente nella mia camera, senza profferir parola verso mio padre.
 Lasciandolo da solo.
Con le lacrime che gli colmano gli occhi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

N.d.A.

 
* “Per favore, fai attenzione, baby.
Tu sai perché mi appartieni.
Forza, dovremmo farcela.
Sopravvivono i più adatti,
se perdi non hai importanza per me”
Traduzione NON letterale.  Volevo rendere il senso della frase.
 
 
(20/1/13)EDIT:
 Ecco qui, la revisione del primo capitolo. Progettavo di farla secoli fa, ma non ne ho mai avuto il tempo.
Correggerò il prima possibile anche gli altri capitoli.
Spero che vi piaccia.
Fatemi sapere…
A.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


 

THE RULER AND THE KILLER

"Should I kill you with my sword?
Or should I kill you with this words?" *[N.d.A





Capitolo Due


Il rumore dello sbattere della porta d’ingresso mi sveglia.
Non ho passato una bella notte. Vedere mio padre schiaffeggiare mamma mi ha turbato più di quello che vorrei.
Mi preparo alla svelta e mi dirigo in cucina.
…Che non è vuota.
C’è mamma, da sola, seduta su una sedia, i gomiti appoggiati sul tavolo e la testa fra le mani. A quanto pare non hanno ancora fatto pace.
Vedere mamma in questo stato, ferita e debole come non mai, mi fa star male, mi fa sentire in colpa. Mai mi sarei sognata di poter provare compassione per mia madre.
 Non posso permettere a emozioni come queste di fare strada dentro di me: diventerebbero debolezze.
Debolezze che nell’arena mi porterebbero a morte certa.                                                                                      
 Debolezze che non posso e non permetterò che nascano.
Non posso peredere la mia risoluzione.
Quindi, sostituisco mentalmente l’immagine delle lacrime di mia madre con quella della rabbia di mio padre.
E’ questo quello su cui ho bisogno di focalizzarmi.
Ecco l’unico sentimento che posso provare: rabbia.
Tutti gli altri sono dei pericoli. Me li potrò permettere solo quando sarò un vincitore, se vorrò.
Questa è la donna che vuole che io non sia addestrata!,ricordo a me stessa
 Che non partecipi ai Giochi!                                                   
Fortunatamente, funziona.
Inizio a sentire da capo il risentimento verso mia madre.
Mi sento istantaneamente meglio. Meno vulnerabile, più potente. Non permetterò a niente e a nessuno, nessuno, di contrapporsi fra me e gli Hunger Games. Non a mia madre, a Hugo e nemmeno a Cato.             
Io parteciperò, io vincerò.
Più fiduciosa e baldanzosa di prima esco di casa senza dare segno di averla notata e mi dirigo verso scuola.
I miei studi vanno avanti monotonamente, soprattutto perché sono fermamente convinta che niente di quello che imparerò qui mi servirà mai. Se non è qualcosa che mi potrebbe essere utile nell’arena non vale la pena che sia imparata. Una volta che avrò vinto gli Hunger Games la mia cultura generale sarà l’ultima cosa che interesserà a tutti. Faccio a mala pena caso a quello che i professori dicono, quel tanto che basta a permettermi di superare l’anno.
Non m’interessano i voti.
Non sono questi i risultati che valgono. Non veramente.
Appena suona la campanella, mi dirigo a passo serrato verso la palestra dove mi alleno tutti i giorni, dall’altra parte della città. E’ una bella camminata, quasi un miglio di strada, ma riesco a raggiungere il centro in un quarto d’ora. Come sempre.
… ma Cato mi ha battuta di nuovo.
E’già fuori dall’edificio, sta discutendo con Hugo.
Come diavolo ci è riuscito?
Ho lasciato la scuola appena ho potuto e so che non mi ha superata, o l’avrei notato.
Poi la vedo. Una lucida macchina nera che si allontana, sollevando polvere.
E allora capisco.
Ha avuto un passaggio da suo padre. In macchina.
Mi verrebbe quasi da ridere, se non fossi così arrabbiata.
Non è assolutamente possibile che non stia pagando per essere qui. Suo padre non può credere veramente nel duro lavoro se lo accompagna in palestra in auto ogni giorno. 
Il mio viso si riempie di collera, lo capisco dall’espressione compiaciuta che si stampa sul viso di Cato quando mi nota.
Detesto quel ghigno, penso.
Inizio ad avvicinarmi ai due, sempre guardando velenosamente il mio contendente.
Non è solo un cretino ricco, è un cretino ricco, arrogante e convinto di sé.
Mentre entriamo nell’edificio con Hugo mi ritrovo a pianificare mille modi diversi per sabotarlo e riottenere, così, lezioni private.
 Ognuno più doloroso e insanguinato dell’altro.                                                 
  ,mi domando.                                                                
 Forse sì.
Infondo, ho passato tutta la vita ad allenarmi per uccidere.
“Lance”. La voce di Hugo interrompe i miei pensieri. “Abbiamo lavorato con i coltelli tutto il pomeriggio di ieri. Oggi praticheremo l’arte delle lance, che sarà un bene per te, Clove, visto che non ti ho mai visto prenderne una in mano”.
Eccellente!,penso sarcastica.
Ci mancava anche questa.
Più grosso sei, più ti facile maneggiare una lancia. E la massa corporea non è esattamente quello di cui ho più in abbondanza. Al contrario di Cato.
Sconfortata presto attenzione alla spiegazione di Hugo. Afferra una lancia soppesandola e facendo lentamente ciascuna delle sue mosse in maniera tale da non farci perdere neanche un passaggio- malgrado non ci sia granché da capire.
Prendi un’arma, mantieni l’equilibrio, prendi la mira e la tiri verso il bersaglio.
Il concetto è semplice. Solo che Hugo tende spesso e volentieri a trattare chiunque come un’idiota.
Me più di tutti. Anche se non ho alcuna idea del perché. Infondo mi ha scelta lui…
La pratica, invece, risulta alquanto complicata.
Per me, almeno.
Cato se la sta cavando egregiamente.
 penso stizzita.
 Riesce ha colpire il centro del bersaglio anche da venti-venticinque metri di distanza. 
Io sono fortunata se lo colpisco da dieci.
Le sue risate e le sue battute a mio discapito non aiutano di certo la mia iniziazione a questa nuova arma.
Questo esercizio va avanti per un’ora -un’estenuante, lunghissima ora-, alla fine della quale il mio braccio destro trema nel brandire la lancia da tirare verso il bersaglio.
Me la sto cavando abbastanza solo perché ho una buona mira. Altrimenti…
Mi concentro sull’arma che ho in mano, tentando di escludere dalla mia mente la fatica che questo sforzo mi costa.
Cato, poco lontano da me, alla mia destra, ghigna arrogantemente alla vista dei miei patetici sforzi.
Come ha fatto finora. Dall’inizio dell’allenamento.
 Ma adesso è troppo. Ho sopportato la sua arroganza e le sue prese in giro per abbastanza tempo.
In un unico fluido gesto mi giro verso di lui lanciandogli contro l’arma, aiutata dall’improvvisa scarica di adrenalina che mi ha rinvigorito i muscoli.
Manco il bersaglio, la sua testa, solo di qualche centimetro e la lancia si va a conficcare nella parete dietro di lui. Lui rimane fermo, immobilizzato dallo stupore per il mio gesto repentino.  Mi guarda stupito ma io sono già scattata per compiere la mia prossima mossa.
Mi allontano alla ricerca dei coltelli e gli ho appena raggiunti quando sento dei passi dietro di me e so che Cato si è ripreso, e che esige una vendetta.
Bene.
E’ quello su cui contavo. Mi giro e non gli do il tempo di raggiungermi.
Gli tiro contro un coltello alla mano sinistra, come avvertimento. Lui urla, di dolore e di collera.
Mi guarda, il viso contorto dalla rabbia, che però lascia spazio a un piacere sadico, quando vede che gli sto correndo contro, brandendo un altro coltello. Lui fa per agguantare una delle spade smussate- ma sempre pericolose- lì vicino.
Ma sono sopra di lui prima ancora che riesca prenderla.
Con la coda dell’occhio vedo Hugo appoggiato alla parete, intento a osservarci. Forse il suo comportamento di ieri era dovuto solo alla presenza del padre di Cato.
Bé, ora non c’è nessun paparino in giro per proteggerlo., penso ghignando.
Estraggo il mio coltello dalla sua mano e sorrido nel vedere la sua espressione contrita.
Gli faccio un taglio identico al mio sulla fronte, ma lui, almeno per questo, non mostra alcun segno di dolore.
Ha ripreso a ghignare.
Ma a questo gioco si può giocare anche in due, penso sarcastica, in preda al bisogno di vendicarmi.
Per l’umiliazione a cui mi ha sottoposto nell’ultima ora.
Per la sua arroganza.
Per il fatto di essere qui, a compromettere il mio allenamento.
Continuo a incidere la sua pelle, sul petto, sulle braccia, lentamente, contemplando dove fare il prossimo taglio.
Lui continua a sorridere, imperterrito.
Ed è così che realizzo che non mi piace poi così tanto questo gioco.
E’ noioso.
Non dà frutti…
Quindi impugno il coltello e glielo pianto nel fianco. Cato ruggisce di dolore ed io mi riempio di piacere al suono della sua agonia.
 Estraggo l’arma e lo guardo compiaciuta, ma quest’ attimo di orgoglio mi costa caro. Prima ancora che me ne rendi conto, le nostre posizioni sono invertite. Il viso di lui non è più composto e freddo come lo era stato ieri.
E’ pieno di furia. Sembra stia pianificando il modo migliore per rompermi il cranio.
Improvvisamente, sono spaventata. Potrebbe uccidermi in un soffio.
Se non faccio qualcosa alla svelta, finirò per morire.
 Non entrerò mai nell’arena.
Non sarò mai un vincitore.
Questo pensiero mi riempie di una nuova scarica di adrenalina e di energia e concentro tutta la mia forza in un violento sforzo per togliermi Cato di dosso. In qualche modo, gli faccio perdere l’equilibrio e lui ruzzola sul pavimento vicino a me.
…che si sta velocemente macchiando di sangue.
Sto per colpirlo da capo, quando qualcosa mi volare il coltello di mano e vengo scaraventata parecchi metri lontana dalla mia vittima. Hugo-l’artefice-, ora, sta rivolgendo la sua attenzione al biondo, che si è alzato per attaccarmi.
Lottano.
Hugo per fermarlo, Cato per liberarsi e venire a finirmi.
Raggiungo un altro coltello, approfittando del momento, e inizio a farmi strada verso i due combattenti. Proprio quando gli raggiungo, il nostro trainer, in qualche modo, riesce a far calmare Cato e si gira, quindi, verso di me con uno sguardo infastidito.
Bé, in realtà “infastidito” è un eufemismo.
 Mi prende in spalla, ignorando le mie proteste, e mi trascina su una panca lontana il più possibile dal mio rivale.
Ma appena Hugo mi lascia, scatto, pronta a ripartire all’attacco.
Lui riesce a riacchiapparmi.
“Clove, siediti, maledizione!”, mi urla contro. Mi mette le mani sulle spalle, cercando di farmi calmare.
“E cosa credevi di fare, comunque?”, mi chiede, una volta riuscito nel suo intento.
Lo ignoro e fulmino Cato con lo sguardo, pianificando il modo migliore per far sì che non esca vivo di qui. Lui, dall’altro lato della stanza, mi fissa con lo stesso ,identico, sguardo furente.          
Hugo alza gli occhi al cielo e lascia la presa.
“Bene!”, grida. Inizia a muoversi per la stanza, raccogliendo ogni arma.
“Fate quello che volete!”, continua. “Cavatevi gli occhi con le unghie! Strappatevi i cuori con le mani! Basta che mi chiamiate quando rimarrà solo uno di voi ancora in grado di respirare!”, ci guarda in cagnesco, a turno, al disopra della montagna d’armi che li si è formata fra le braccia.
Lo guardiamo andarsene, entrambi stupiti dalla sua sfuriata.
Appena la porta si richiude, sbattendo rumorosamente, dietro il nostro trainer, però, torniamo a fulminarci.
Non so proprio cosa fare.
Vorrei veramente ucciderlo, ma non mi convince l’idea di doverlo fare con le unghie.
Certo, aspettando un po’ dovrebbe morire per emorragia
E forse non sarebbe neanche una grande idea.
Mettersi contro un pezzo grosso del Distretto come suo padre non porterebbe a niente di buono.
Senza contare che è anche il capo di mio padre…
Abbandono l’idea praticamente nello stesso momento in cui lo fa lui.
Infatti, smette di guardarmi e inizia ad esaminarsi le ferite.
Si toglie la maglia di dosso- riaprendo così il poco della ferita che aveva cominciato a rimarginarsi-, la strappa per formare delle bende e usa queste per tamponare il flusso di sangue.
Non funziona, è un taglio troppo profondo.
Ghigno soddisfatta.
Così impara con chi ha a che fare…
Ma il mio sorriso svanisce istantaneamente quando vedo che si sta togliendo anche i pantaloni e che gli usa per portare a termine il lavoro della maglietta. 
Sono contrariata dal fatto che ha trovato un modo per smettere di sanguinare, ma mi sento anche a disagio a stare da sola con un ragazzo grosso il mio doppio che indossa solo un paio di mutande.
Avrei preferito avere una spada puntata alla gola a questo.
Almeno avrei saputo come affrontarla.
In più, i miei occhi sembrano non volere staccarsi dalla sua figura, nonostante mi stia sforzando di non fissarlo.
Ha un fisico perfetto.
 E’stressante come situazione.
Sarei capace di attaccarlo solo per poterne uscire con un minimo di dignità.
Dopo qualche momento, i suoi occhi incontrano i miei.
“Ti piace quello che vedi, eh?”, mi prende in giro, ghignando soddisfatto.
Ma non può nascondere la fatica nella sua voce. Ha perso troppo sangue.
Io alzo gli occhi al cielo e mi volto, l’unico modo che ho per non fissarlo.
“Che domande faccio, certo che si”. Riesco a sentire il ghigno nella sua voce. “Hai rinunciato al pensiero di pugnalarmi a morte?”, continua.
“Non mi pare di avere coltelli.”,gli ringhio contro .
“Ma se ne hai uno e me lo vuoi prestare fa pure, non mi offendo”. Gli lancio un’occhiataccia.
Piccolo idiota…
Tutto questo rischia di farmi diventare pazza, anche se faccio di tutto per mascherare le mie emozioni.
Come al solito.
Perché Hugo non torna indietro?
Cato sta combinando un casino. Il pavimento è praticamente ricoperto di sangue.
Cammino verso la porta e la scopro chiusa a chiave.
 Fantastico.
“Hugo!”, urlo prendendo a pugni la porta. Dovrà pur darmi attenzione.
E’ il nostro allenatore, per la miseria! E’ una sua responsabilità!
“C’è una pozza di sangue che ha bisogno della tua attenzione!”, continuo.
“C’è un cadavere dentro?”, risponde la sua voce dall’altra parte.
O forse no…
“Sì”, mento.
“Bugiarda”.Sento i suoi passi allontanarsi. Maledizione!
“Hugo! Non puoi semplicemente lasciarci qui!”, urlo.
“L’ho appena fatto”, mi risponde la sua voce, sempre più distante.
Riesco quasi a vederlo, il ghigno sul suo volto.
 Ricomincio a martellare la porta di pugni e a gridare il suo nome.
Non può lasciarci qui, non può proprio.
“Già finito?”, la sua voce mi raggiunge di nuovo. Più vicina.
Tiro un sospiro di sollievo.
“Sì”, replico.
“Stai mentendo di nuovo, Clove”.  Sono a faccia a faccia con lui ora. I suoi grandi occhi grigi mi fissano intensamente per un momento, rivelando un Hugo più calmo di quanto mi aspettassi.
Lui si dirige alla svelta dal ferito.
Allora era preoccupato!
Ci stava mettendo alla prova!,realizzo in un lampo.
Fisso la scena.
Mi stupisce che Cato sia ancora in piedi. Ha perso veramente molto sangue.
Fin troppo.
Ghigno:  almeno una piccola vittoria l’ho ottenuta.
 “Vai a casa”, ordina Hugo, non degnandomi di uno sguardo.
“Va bene”, rispondo atona, pur non lasciandomi sfuggire il sorriso dal viso.
 Mi volto verso la porta e faccio per uscire ma, prima di farlo, mi giro un’ultima volta, avvertendo uno sguardo sulla schiena.
Cato mi sta guardando furente. E può significare un’unica cosa.
Non finisce qui.
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.
*“Dovrei ucciderti con la mia spada?
O dovrei farlo con le queste parole?”

 
Si, ovviamente in italiano non rende ._.
 
EDIT (29/3/13): Ho corretto anche questo capitolo! Finalmente.
Sono un danno, lo so, sì.
Fatemi sapere cosa ne pensate :3
A.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


THE RULER AND THE KILLER 

 

 

 






“Run fast as you can
No one has to understand”
{The Civil Wars- Kingdom come}

 

 

Capitolo 3

Quando apro la porta di casa, mia madre sobbalza. Ovviamente non mi aspettava prima di due ore.
I suoi occhi si spalancano quando mi vede.
“Clove!”, la sua voce è piena di apprensione. “Sei ferita?”. Mi guarda preoccupata, avvicinandosi a me.
Questo mi prende totalmente alla sprovvista.   Non penso di star sanguinando e, anche se fosse, non sarebbe una cosa inusuale. Càpita di ferirsi quando ti alleni per uccidere. Per quello che so, avrò solo qualche livido .
Scuoto la testa e faccio per andare verso la mia camera, supponendo che sia stato il mio ritorno anticipato ad averla spinta a porre la domanda.
Lei mi rincorre e mi ferma. “Stai poco bene?”, persiste lei.
“No, mamma. Sto bene”, le dico in tono brusco , cercando di sorpassarla, ma lei mi afferra il braccio.

 

“Sembri malata...”, insiste, mettendomi una mano sulla fronte. “...e sei calda!”.

“Certo che sono calda!”, ribatto, allontanando la sua mano. “Cosa pensi che abbia fatto fin’ora? Faccende domestiche?”. Lei stringe le labbra ma non dice niente. Si capisce che è stanca di discutere per tutto.
Raggiungo la mia camera.
Appeso a una parete, c’è un vecchio specchio, che ha resistito in qualche maniera a tutti gli anni in cui ho sfogato la mia frustrazione mettendo la mia stanza sottosopra.
Osservo il mio riflesso. Un’esausta ragazza scompigliata, pallida da far paura ricambia il mio sguardo. Molte ciocche di capelli sono sfuggite disordinatamente all’elastico  che le legava e le danno l’aria di essersi appena svegliata da un sonno durato secoli. Non c’è da chiedersi il perché mamma mi abbia domandato come mi sentissi. Ho un aspetto terribile.
Probabilmente dovrei sentirmi in colpa per averle urlato contro, ma non lo faccio.
Guardo con distrattamente il mio riflesso mentre ripercorro gli eventi della giornata.
Il pensiero di quanto sono andata vicino alla morte mi colpisce in un’unica improvvisa ondata. Riesco a mala pena a raggiungere il bagno, quando il mio pranzo inizia a tornarmi su. Quando i conati finiscono, le mie mani stanno tremando violentemente. Mi bagno la faccia più e più volte prima di ritornare in camera. Osservo di nuovo lo specchio: sono ancora più pallida di prima, se è possibile.
Mi lascio cadere nel letto e mi avvolgo nel lenzuolo. Devo calmarmi.
Paura. Ecco cosa mi ha lasciato il mio primo incontro con la morte. Se qualcuno fosse in grado di percepirla diventerei una preda, invece che predatore. Non posso assolutamente permettere che accada. Non posso permettermi di cadere a pezzi così, neanche per poco.
 E’ solo un’altra debolezza. Una anche bella grande.
Per liberarmi da questo stato di malessere, cerco rievocare quello che mi ha aiutato, paradossalmente, ad andare avanti oggi: la mia rabbia verso Cato, la frustrazione con me stessa.
Quest’ultima ritorna facilmente, visto che sono già frustrata e stanca del mio corpo, che sta tremando violentemente.
Ma non riesco a risentire la rabbia verso Cato. Ogni volta che provo a ricordarmi di come rideva di me, mi prendeva in giro, finisco per ricordarmelo steso a terra in una pozza di sangue, che combatte con se stesso per non svenire. Quando capisco che questo non mi porta da nessuna parte, cerco di focalizzarmi sul pensiero di lui che tira le lance-  per ricordarmi dell’ostacolo che lui rappresenta, essendo un potenziale tributo. Ma ,invece, lo rivedo mentre mi combatte. In realtà anche questo dovrebbe portarmi a sentire la rabbia, l’ira che ho provato verso di lui, ma tutto quello che riesco a pensare è che, forse, lavorare con qualcuno così potrebbe farmi migliorare.
E cosa porterebbe di buono combattere con Cato, comunque? Dividerò le lezioni con lui in ogni caso, non ho alcuna voce in capitolo. Perciò, che senso ha finire ogni giorno l’addestramento in anticipo solo perché non riusciamo a resistere all’idea di pugnalarci?
Ugh! Salto giù dal letto, alla ricerca di qualcosa da tirare, ma è stato tutto demolito nella collera di ieri.
Finisco per prendere a pugni la parete, il che ovviamente fa più danni a me che a l’intonaco. Ma almeno aiuta.
Continuo a colpirla nello stesso punto, ancora e ancora, cercando in qualche modo di intaccarla, e provando a rimuovere ogni pensiero positivo riguardo Cato dalla mia testa. Pensare bene di lui mi renderà solo più esposta a inganni o a fallimenti.
Iodevo odiarlo.
Dopo un po’ le mie nocche iniziano a sanguinare e capisco che non sto arrivando da nessuna parte. La parete è ancora lì, intatta, e i miei pensieri stanno sempre girando in tondo, in un cerchio infinito.
Collasso sul letto ed entro in un sonno agitato, fino al ritorno di mio padre.
Ma allora, non riesco ad alzarmi. Non importa quanto ci provi, i miei muscoli non obbediscono.
Sono troppo esausta.
“Clove”, mi chiama mio padre, bussando alla porta. “Vieni”.
“Non- non ci riesco”, balbetto.
La porta si apre e mio padre entra, rivelando una faccia preoccupata.
“Stai male?”, domanda ansioso.
All’inizio scuoto la testa, poi ci ripenso e annuisco. Mi guarda interrogativo.
“Non sono malata, se è quello che intendi”, spiego.
“Sei ferita, allora?”, investiga.
“No. Ho solo qualche graffio e qualche livido.”
Lui mi guarda e sospira, non convinto. “Ne possiamo parlare dopo cena, quindi? Tua madre ci sta aspettando”.
Mi alzo di malavoglia e lo seguo.
E’ una cena molto silenziosa, la nostra.
Mamma serve il cibo, e vuole chiaramente dire qualcosa, ma non ha altrettanto chiaramente il fegato di iniziare la conversazione.
Papà mangia e mi guarda pensieroso di continuo, cercando di capire che cosa mi turbi.
Io, da parte mia, non dico niente e mi concentro sul cibo, cercando di non far caso alla sua consistenza molliccia.
Appena finiamo di mangiare, mamma lava i piatti, li ripone con cura nella credenza e si ritira in camera, senza fiatare. Quindi rimaniamo io e papà da soli.
Aspetto che dica qualcosa, ma lui si limita a guardarmi.
“Sono tornata a casa prima oggi”, incomincio io, quindi, non sapendo veramente da dove cominciare.
“Sì, tua madre me l’ha menzionato”. E’ questo tutto quello che ottengo. Nessuna punzecchiatura. Nessun discorso sulla mancanza di rispetto. Niente.
“Cato si è ferito durante l’allenamento, così abbiamo dovuto finire prima”, aggiungo, cercando di ottenere una reazione di qualche tipo.
“Ferito? Bé, sono cose che possono capitare”, mi risponde invece lui, in tono piatto, mentre scruta attentamente il mio volto.
“Si,  era orribile. Il pavimento era coperto di sangue”, continuo.
“Sangue? Come mai Hugo ha permesso che accadesse?”, chiede, stupito.
“Ci stava testando”, rispondo sinceramente.
“Per…?”, m’incoraggia.
“Per vedere se ci saremmo uccisi a vicenda”.
Le sue sopracciglia si alzano. “E l’avresti fatto?”.
“Sì”, rispondo, cercando di mantenere un’espressione indifferente.  “Sono quasi morta, ma poi l’ho quasi ucciso”.
Quasi?”, mi chiede interrogativo.
“Hugo ha scelto quel momento per intervenire”, spiego.
“E questo ti turba perché…?”, mi stimola.
Respiro profondamente. E’ una bella domanda. E non ho alcuna idea di quale sia la risposta.
Inizio dalle basi. “ Devo allenarmi con lui, e non posso fare niente a riguardo. E se continuassimo a farlo puntando sempre alla gola dell’altro non arriveremmo da nessuna parte. Ma se lo accettassi…”
“… sarebbe una debolezza”, finisce lui per me.  Annuisco.
“… Ma lo sarebbe solo se tu lo permettessi”.
Lo guardo confusa. “Eh?”.
Sospira. “Solo perché non lo accoltelli ogni giorno non significa che tu debba essergli amica. C’è differenza fra tollerare e accettare”, spiega brevemente.
“E se invece potessi farci qualcosa?”, domando, avendo un’ispirazione improvvisa. Lui mi guarda scettico.
“Hugo”, spiego, con un sorriso.
Hugo? Cosa c’entra Hugo?”, chiede lui, confuso.
“E’ così debole! E’ un gigante gentile, se non si conta il fatto che non è poi così alto e…” . Non so come continuare. Papà ci ha messo tanto per trovarmi un allenatore e non voglio offenderlo. Ma devo dirlo.
“Non penso che con due di noi sarà capace ci mantenere il controllo e di spingerci a migliorare tanto quanto ne abbiamo bisogno”.
Il volto di papà non lascia trapelare emozioni. “Clove, lascia che ti faccia una domanda. Hugo ti ha mai urlato contro?”
“Sì”, rispondo.
“Si vede, quindi che non ha alcun problema con la disciplina. Ti sei mai sentita male durante gli allenamenti?”, continua.
“Sì”.
“Ti sei mai ferita?”.
“Sì”. Non mi piace dove sta andando a parare …
“Allora non ha neanche problemi a farti lavorare. Ti ha mai picchiata?”
“No, ma-”, lui alza una mano, intimandomi a tacere.
“Allora sei veramente una ragazza fortunata. Hai idea di quanto sia difficile trovare un istruttore ben informato e volenteroso che non picchi ogni giorno i suoi allievi?”
“Io-”
“Ne hai idea?”, m’interrompe.
“Sì”, borbotto, con gli occhi bassi.
“Allora dovresti sapere anche quanto sei fortunata”.
“E’ per questo che hai scelto lui?”, esplodo improvvisamente. “Non pensavi che ce l’avrei potuta fare? Che dovessi scegliere qualcuno gentile così che non interrompessi l’addestramento a metà del primo anno? E’ per questo?”, urlo.
“Clove!”
“E’ per questo?”, continuo, ignorandolo. “Perché sono perfettamente capace di prendermi cura di me stessa! Non ho bisogno di nessuno! Non di Hugo, non di mamma, e neanche di te!”, sento una calda lacrima di frustrazione scendermi lungo la guancia e la spazzo via violentemente. “Tu non hai fatto niente per me! Siamo poveri per colpa tua! Perché non hai preso parte ai Giochi! Io devo mettere a posto quello che tu hai fatto, o non fatto, e tu non puoi neanche trovarmi un trainer decente! Neanche quello puoi fare!”, urlo, sfogando tutta la mia rabbia repressa sull’unica persona a cui so di tenere.
“Clove.”, il viso di mio padre è contorto dalla rabbia, ma la sua voce lascia trasparire il dolore. Io non dico niente e lui coglie l’occasione per parlare. “O ti allenerai con Hugo, o non ti allenerai per niente”.
Mi ha messo nell’angolo, e lui lo sa.  Fisso i suoi caldi occhi marrone, ora pieni di collera, identici ai miei.
Tirando fuori tutti i sentimenti negativi degli ultimi due giorni, lo attacco con l’unica arma che mi rimane. Le parole.
“Ti odio” articolo, ponendo enfasi in ogni sillaba. Corro verso la mia camera e, una volta chiusa la porta alle mie spalle, scoppio in lacrime.
Mi accorgo di essermi addormentata solo la mattina dopo, al mio risveglio. Sento ancora i segni delle lacrime sulla mia faccia per cui mi dirigo velocemente in bagno ,per lavargli via. Mentre mi asciugo il viso, mi prometto che non piangerò mai più. Mai.  Nessun dolore, fisico o psicologico, sarà mai in grado di farmi piangere.
Io sono più forte.
 E non lascerò che nessuno mi ferisca. Perché non m’importerà più di niente.
A qualsiasi costo, i miei occhi non rilasceranno altre lacrime. Mai più.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


 

THE RULER AND THE KILLER


"Now I can fend for myself"
[Ignorance-Paramore]


Capitolo 4 

La chiassosa risata di Cato risuona per la stanza .
Io non lascio intravedere la mia rabbia, come facevo prima. 
Piuttosto, uso tutta l’aggressività che la sua ilarità fa nascere a mio vantaggio, cercando di sfruttarla per il mio scopo: colpire il manichino con la mia lancia.  E funziona. Solo non molto bene. Infatti, quando Cato colpisce lo stesso manichino con la sua lancia, la mia oscilla violentemente e quasi non si stacca.
Questo ,ovviamente, non fa che aumentare il suo divertimento.
Sbuffo esasperata e prendo uno dei miei coltelli – che tengo sempre vicini a me, durante gli allenamenti, per tranquillizzarmi. Ne lancio velocemente uno alla testa del manichino, colpendolo a fondo.
“Tu sei il prossimo”, dico secca a Cato, non degnandolo di uno sguardo.  Lui ghigna, sapendo che, almeno per ora, sto bluffando. Non ha fatto niente di ché per mandarmi già fuori dai gangheri.
Non che lui sia l’unico a provocare ostilità. Abbiamo lavorato con i coltelli ,ieri, e io ovviamente ho tratto un grande piacere nell’indicare tutti i suoi errori, visto che se la cava con i coltelli tanto quanto io con le lance.
Oggi, invece, tocca a lui schernirmi.
Appena finiamo di usare le lance, Fabrizio ci annuncia che “è arrivato il momento della scherma”.
Ero brava con la scherma … fino a quando non ho dovuto confrontarmi con Cato. Accanto a lui sembro solo una bambina di sette anni che gioca con un bastoncino nel suo cortile. E, inoltre, Hugo non si scontra più con me, abbandonandomi sempre ad una sicura sconfitta per mano di Cato.
Non capisco perché lo lasci duellare con me. Lui ha bisogno di un avversario più ferrato se vuole migliorare.
Il duello inizia.
Quasi subito Cato prende il controllo della situazione, costringendomi in una sorta di ballo in giro per la stanza. Usando la mia velocità, sono in grado di tenere lontano la sua lama – ed è un bene, dato che non abbiamo protezioni di alcun tipo- e paro ogni suo colpo, ma sono totalmente incapace di tentare un offesa di qualche tipo. Mi difendo e basta. Hugo ovviamente se ne accorge.
“Clove, non arretrare, mantieni il tuo terreno”, mi dice.
Sì, come no.
Per poco riesco a evitare un colpo più violento degli altri.
Sta provando veramente ad uccidermi veramente? Mi chiedo.
Scruto la sua espressione. C’è un luccicare malvagio nei sui occhi e so che  è determinato a non farmi uscire da questa sessione sana come lo ero prima di incominciare.
“Non arretrare!”, urla Hugo, arrabbiato perché non ho seguito la sua istruzione.
Guardo di nuovo Cato, giusto per essere sicura di non aver immaginato niente.
No, è tutto lì, sulla sua faccia. Sta per mutilarmi, lo sta progettando.
Io trasformo quella che dovrebbe essere paura in rabbia e uso l’ondata di adrenalina per avanzare verso di lui. Questa piccola manovra offensiva lo sorprende, e io sfrutto l’occasione per provare un attacco, probabilmente il primo e l’ultimo che avrò durante questo duello.
Lui non se l’aspetta , non è preparato, e io metto a segno il primo colpo di questo incontro.
Questa è una novità. Scopro che mi si sta allargando un sorriso sul mio volto mentre Hugo urla “Toccato!”.
Solo il cielo sa perché si comporti come se fosse un incontro formale. Mica ci fermeremo ogni volta che qualcuno sanguina, nell’Arena.
Cato sembra molto abbattuto del fatto che sono riuscita a fare il primo punto, così continuo a ghignare, mentre Hugo ci separa, giusto il tempo per dare l’occasione a lui di disinfettarsi la ferita.
“Non essere così compiaciuta, Clover. Sarà la prima e l’ultima volta che succede”, mi ringhia contro lui.
La prendo come una sfida e a mala pena aspetto che Hugo si sposti prima di incominciare il mio attacco.
Sono brutale e utilizzo ogni mossa mi sia mai stata insegnata. Cato è di nuovo sorpreso dalla mia aggressività, e arretra parecchio prima di riprendersi. Dopodiché diventa un vero e proprio scontro di abilità. La sua capacità di spadaccino è di gran lunga superiore alla mia, e lui ed è più forte, ma io sono più veloce ed agile.
Quando lui inizia ad usare mosse che non ho mai visto, io incomincio ad usare una tecnica assolutamente non ortodossa per bloccare i suoi colpi e ad usare i suoi stessi attacchi contro di lui.
“Clove!”. Hugo mi urla contro, elencandomi tutto quello che sto sbagliando. Io semplicemente lo ignoro.
Per la prima volta in quasi un anno di scherma, sento di avere almeno una chance di battere Cato.
“Clove!”, urla ancora lui. “Che diamine stai facendo?”.
Cato, d’altra parte, sembra pronto ad uccidere. Ha preso molto sul serio il fatto di essere “toccato” per primo. Ma non posso fermarmi, non ora che ho così tanto potere su di lui. Un sorriso sadico mi nasce sulle labbra, e mi accorgo di stargli ringhiando contro. Questo lo fa solo arrabbiare di più, ma lo fa anche diventare più … sciatto.
Così, sono in grado di oltrepassare le sue difese una seconda volta.
Cato ruggisce di frustrazione e io arretro parecchio, lasciandoli spazio. Anche se mi sto divertendo oltre ogni dire, non voglio dargli tante scuse per attaccarmi sul serio, e ne ha già abbastanza. Vogliovincere questo duello. Ma continuo comunque a sorridere.
Lui mi lancia uno sguardo pieno d’odio.Se gli sguardi potessero uccidere …
Ma, per fortuna, non possono. Al contrario delle spade. E quando il duello ricomincia, Cato sembra totalmente consapevole di questo. Non importa quanto mi impegni, non riesco a parare le sue mosse abbastanza velocemente. Nel giro di due minuti siamo pari. Il primo che fa il terzo punto – o che uccide l’altro, dovrei dire, forse- vince.
Hugo ci interrompe per farci bere, dato che siamo sudati da fare schifo.
Di solito, non mi sforzo mai così tanto nella durante un incontro, visto che i duelli finiscono sempre in un paio di minuti – di sicuro non per merito mio. Questo, invece, va avanti da quasi venti minuti.
Prosciugo velocemente la mia acqua, cosa che rimpiangerò amaramente quando il duello sarà finito. D’altra parte, Cato svuota la sua bottiglia e la getta via, pronto a ricominciare.
Tuttavia, Hugo ha altri piani.
Inizia ad urlarmi contro. Evidenzia ogni singolo errore che ho commesso. Ovviamente, le mie manovre non-ortodosse non potevano passare inosservate, ma i miei sbagli sembrano estendersi molto oltre . Lui va avanti con una lista infinita di cose che ho fatto male o in maniera imperfetta. A quanto pare, il mio lavoro di piedi non bastava durante l’inizio del nostro incontro. Ho ceduto troppo terreno. Nel secondo tempo, invece, oltre alla manovra non-ortodossa, la mia postura era scorretta, secondo Hugo.  Nel terzo e quarto tempo mi sono arresa troppo presto.
Non importa che Cato mi stesse attaccando come un psicopatico.
E’ tutta colpa mia.
 Mi arrendo troppo facilmente.
Stupida me.
Inizio a diventare veramente abbattuta, man mano che va avanti, quando noto Cato, poco distante da noi.  Non sembra arrabbiato e pronto ad uccidere come fino a cinque minuti fa. Mi sta guardando, mentre Hugo fa saltare i miei ultimi risultati in un milione di pezzi. Non sono sicura mi piaccia l’espressione sul suo viso. Assomiglia alla pietà, e ionon sopporto quando la gente mi compatisce. E’ una delle tante cose che odio di mia madre.
Questo mi porta al limite.
“Ho capito, Hugo”, esclamo, interrompendo il mio trainer. “Faccio schifo! Qualsiasi cosa faccia sarà niente in confronto a Cato! Ho capito. Adesso possiamo smetterla?”. Potrebbe uscirmi il fumo dalle orecchie per quanto sono incollerita ora. Vorrei solo uscire da questo edificio.
“Quello che vuoi, Principessa”, replica lui sprezzante, mentre si inchina. Sento il mio viso contorcersi, pieno di ira. Ci vuole tutto il mio auto-controllo per fermarmi dall’attaccare il mio allenatore.
Invece, mi giro verso Cato e inizio l’ultimo tempo del nostro incontro, senza aspettare che Hugo lo “ufficializzi”.  Cato prende di nuovo il controllo, ma non aggressivamente come prima. E’ come il primo tempo, solo che la nostra danza è più lenta. Probabilmente è perché siamo entrambi stanchi.
Poi noto qualcosa di assolutamente particolare. Anche se sono io quella che cede terreno, Cato si sta solo difendendo. In qualche modo, però, mi sta facendo arretrare, dandomi l’illusione di star vincendo. Ma lui non sta vincendo. E questo diventa sempre più ovvio man mano che l’incontro continua. Questa consapevolezza mi incoraggia e tento una stoccata contro la sua testa. Lui la evita facilmente, ma mi sorprende comunque quando tenta una mossa che lascia i suoi fianchi totalmente senza difesa, a supplicare la mia lama di colpirli. E colpirlo è quello che faccio. Nella foga del momento, lo faccio un po’ troppo forte e Cato perde l’equilibrio, cadendo a terra.
Hugo non dice niente, e si limita ad applaudire piano, schernendomi.
Non posso farci niente, giusto? Anche se l’idea di attaccarlo è sempre allettante …
Cato si rialza con un balzo e tende la sua mano libera verso di me. Io gli porgo la mia spada e lui ripone al loro posto le nostre armi. Incominciamo a preparare i nostri zaini sotto lo sguardo scettico di Hugo. Ora sta guardando Cato. Mentre mi metto lo zaino in spalla lo imito e osservo l’enorme ragazzo affianco a me.
Ha un’espressione assente mentre si prepara per andarsene. E’ assolutamente strano  per lui. Di solito a questo punto ha un’espressione altezzosa. Certo, oggi l’ho battuto, quindi  non avrebbe molto di cui vantarsi, ma l’espressione vacua è comunque strana. Io sarò più impulsiva, ma lui è una testa calda. Dovrebbe essere imbufalito adesso, non calmo e tranquillo ad avviarsi verso la porta come se non fosse successo niente.
Intanto, lui mi supera, ma si gira per farmi l’occhiolino.
Una confusa e, in qualche modo, disgustata espressione mi si dipinge sul viso e lui ghigna, divertito dalla mia confusione.
Solo quando la porta si chiude dietro di lui con un tonfo tutto acquista un senso.
Lo sguardo che mi stava lanciando durante la strigliata di Hugo … il modo in cui mi ha fatto pensare che lui stesse vincendo ma dandomi poi l’opportunità di colpirlo su un piatto di argento … Ha fatto tutto per pietà. Mi ha compatito e mi ha lasciato vincere. Per una qualsiasi ragione, si è sentito male per me.
Divento rossa di rabbia e salto praticamente giù dalla gradinata e corro verso la porta.
“Cato!”, gli urlo dietro, ma lui mi ignora. Continuo a chiamarlo mentre accelero per raggiungerlo.
Non gliela lascerò passare liscia. Catopagherà per questo. E se ne è accorto anche Hugo …
Ma è troppo tardi. Lui è già dentro la macchina del padre. Per un momento considero l’idea di inseguirli, ma mi farebbe solo sembrare un’idiota, e non sono così arrabbiata da perdere totalmente il controllo.
Posso ancora pensare logicamente. Potrò vendicarmi domani, durante l’allenamento, anche se non so ancora come. Non ha alcun senso correre dietro ad una macchina come una psicopatica.
Però rimango a fissarla finché posso.
Poi sospiro, esasperata.
Pietà? Sul serio? E’ questa l’unica emozione che riesco a generare nella gente oltre alla rabbia? Sarà veramente sconveniente, soprattutto durante i Giochi.
Non è un bene se la gente ti compatisce. Ti fa sembrare debole.
Per i Tributi degli altri distretti questa tecnica può funzionare, ma se sei un forte Tributo Favorito la pietà  l’ultimo sentimento che vuoi generare negli spettatori.
Ed è anche l’ultima emozione che hai bisogno di provare.
E Cato è un perfetto esempio di Favorito. E’ aggressivo e forte, ma anche intuitivo e astuto. Ma allora perché lasciarmi vincere? Perché mi ha fatto vincere, su questo non c’è alcun dubbio. Se ho notato io che stavo prendendo il controllo l’ha notato anche lui. Sicuramente. Quindi può solo avermi fatto vincere di proposito.
Ma  perché?






N.d.A.
Mi devo scusare per l'ENORME ritardo (anche se non sarà mai niente in confronto al ritardo della mia altra FF >.<) e anche per la pochezza di avvenimenti di questi ultimi due capitoli. Mi servivano più che altro a... formare i caratteri dei personaggi. Ma non sarà sempre così, eh! Lo giuro.

Poi, ho bisogno di un consiglio. Avrete notato (perché gli avete notati, vero?) ,che a inizio di ogni capitolo c'è uno o più versi di una canzone.
Secondo voi, devo aggiungere la traduzione a pié di pagina?
Fatemi sapere.
P.S. Le recensioni sono sempre gradite :)
Alla prossima!

Annalisa.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


THE RULER AND THE KILLER

"How can we win
when fools can be kings?”
[Muse- Kights of Cydonia]* (N.d.A)

 

Capitolo 5

Cato's POV

Giunto allo stabile dedicato agli allenamenti, sono accolto da una furia: un’alta ragazza bionda che sta uscendo tempestivamente dall’edificio . Poco dietro di lei c’è il suo trainer che le sta urlando di fermarsi. Inutile dire che lei non lo ascolta.
“Ragazze”, dico all’istruttore quando mi raggiunge. “Devi amarle”.
Lui alza gli occhi al cielo e sospira esasperato. “Se solo fosse brava la metà di quello che crede …”, dice. Poi ricomincia a rincorrerla e a gridarle dietro.
Ridacchio. Ecco il motivo per cui le ragazze vincono raramente i Giochi. Sono troppo emotive. Anche Clove che è la ragazza che mostra meno emozioni che io conosca  è una testa-calda impulsiva.
… E proprio Clove mi viene a sbattere contro quando entro nella nostra palestra.
Io sto quasi per scusarmi quando lei mi regala uno sguardo di puro disgusto, come se fosse colpa mia che ci siamo scontrati.
“Buongiorno anche a te”, le ringhio contro, dimenticando ogni proposito di civiltà che mi ero prefissato.
Lei non mi risponde, ma si limita a voltarsi e ad urlare “E’ arrivato!”.
“Finalmente!”, risponde Hugo, ancora però non visibile.
“Pensavo di avervi detto di venire presto, oggi”, aggiunge, apparendo sul balcone che domina la palestra.
 “Mi perdoni, vostra maestà.”,rispondo, sarcastico .“Credo di aver dimenticato la vostra richiesta da qualche parte fra inglese e trigonometria”.  Mi inchino, teatrale.
Quando mi rialzo, Hugo si limita ad ignorarmi. Clove mi sta guardando torva.
Il ghigno mi scompare immediatamente dal volto.
 Bene! Che bella giornata mi si prospetta oggi!
“Iniziamo a lavorare”, ordina Hugo.
 
Clove non mi sta parlando. Anche se sbaglio del tutto a lanciare i coltelli, lei non dice una singola parola per  prendersi gioco di me. Non ride neanche. E neanche i miei schernimenti sembrano avere alcun effetto su di lei. Niente di quello che dico o faccio la infastidisce o le provocano una qualsiasi reazione e questo sta iniziando a farmi abbattere veramente. Mi fa sentire invisibile, e non è una sensazione a cui sono abituato. In qualche modo, mi ritrovo sempre al centro dell’attenzione, che io voglia o no.
Solo quando abbiamo quasi concluso l’allenamento capisco cosa la abbia infastidita tanto.
Hugo ci ha appena raggiunto con due spade in mano quando tutto acquista un senso.
L’ho lasciata vincere ieri. Non mi perdonerà mai per questo e quindi non mi sta parlando oggi. Sorrido.
Già, lei non vuole favori.
Vuole fare l’offesa con me? Bene! Non tenterò mai più di essere gentile.
Ma poi, perché diamine l’ho fatto? Perché lasciarla vincere? Non ci guadagna neanche  in tecnica …
“Oggi vi allenerete con me”, Hugo interrompe i miei pensieri.Mentre uno si batte,l’altro lo riprende, cosicché io possa osservare ogni sua mossa anche da un’altra prospettiva”, dice, dando a me una spada e indicando a Clove la telecamera poggiata su una panca, pronta per essere usata.
Oh, certo. Diamo a lei il lavoro facile. Di sicuro sono io quello che deve migliorare nella scherma, qui.
“Quando sei pronta, Clove”, le dice Hugo, non volendo perdere neanche uno dei miei movimenti.
Lei annuisce, sembrando annoiata.
Incominciamo subito il duello. Questo non è un incontro studende-contro-studente, niente formalità, ci fermeremo solo quando ci sarà un vincitore certo. In realtà non capisco neanche perché lasci combattere me e Clove in maniera formale. Forse teme che lei possa accoltellarmi nel processo…
Lui sarà più vecchio di me, ma è di gran lunga più abile, per cui, in qualche modo, è uno scontro bilanciato. Ma alla fine riesco a batterlo.
“Bé”,inizia, a corto di fiato. “Sei un po’… rozzo alcune volte, ma altre la tua tecnica è perfetta. Il video mi sarà molto utile per vedere dov’è che sbagli.”
Certo che lo aiuterà, visto che è tutto quello che gli interessa. I nostri sbagli. Mai che si scomodi a fare un complimento.
“Vai a bere, se vuoi”, mi dice. Ma non voglio. Ci permettere solo una bottiglia d’acqua al giorno e non sono così assetato da rischiare di finirla. Chissà che altro ha in mente per la giornata.
Invece, raggiungo la panca dove è seduta Clove.
Prima che possa anche solo aprire bocca, però, Hugo la chiama per battersi con lui.
“Se non ti dispiace, Cato, ho bisogno che tu faccia attenzione a riprenderla completamente.  Devo vedere il suo gioco di piedi”, mi dice.
“E se mi dispiacesse?”,lo sfido, infastidito dalla gentilezza della sua richiesta. Dovrebbe essere una figura autorevole, o no?
“Fallo comunque”, replica. Bé, suppongo sia un miglioramento.
Lui e Clove iniziano a duellare e io gli osservo dallo schermo della telecamera, facendo attenzione che lei sia sempre riprese come si deve. Contemplo per un po’l’idea di rovinare il nastro di proposito, giusto per mandare a monte i piani di Hugo e infastidirlo, ma decido che sia meglio che me ne stia buono a fare il mio dovere. Anche se la prospettiva sarebbe allettante …
Non l’ho mai visto arrabbiarsi veramente e sono veramente curioso di vederlo. Il giorno in cui io e Clove ci siamo quasi uccisi a vicenda è stato quello in cui lui è andato più vicino all’ira, ma anche allora era comunque più calmo di come lo sarei stato io. O di come lo sarebbe stata Clove. Ah! Clove al posto suo avrebbe ucciso i suoi allievi piuttosto . Ghigno inconsapevolmente. 
Quasi mi chiedo se Hugo possa veramente infuriarsi o se è troppo docile per reagire violentemente a una qualsiasi cosa. La cosa non mi sorprenderebbe. Ha una personalità molto debole per uno che un tempo era un Favorito.
Noto che Clove sta di nuovo cedendo terreno e muovo la telecamera per seguire i suoi movimenti, ma lei continua a muoversi! Non potrebbe solo stare ferma e non arretrare?
Si volta, dandomi la schiena, in maniera tale da non far capire veramente come stia lavorando.  Hugo non se ne farà niente di questo filmato. Magari se mi spostassi più verso destra …
Ma poi noto Clove, e inizio a guardarla per davvero. Ho una visuale incredibilmente buona da dove sono ora. Anche se non la posso vedere in faccia, è chiaro quanto impegno ci stia mettendo nel combattimento, nel cercare di convincere Hugo , nel cercare di impressionarlo.
I suoi movimenti sono incredibilmente fluidi.  Sembra quasi una ballerina, con la sua corporatura esile e i suoi muscoli tonici.
E ha anche un bel sedere.
Loro si muovono ancora ed ora il suo viso è rivolto verso di me. E’ tutta rossa, madida di sudore, con un’espressione concentrata. Alcuni ciuffi le sono sfuggiti dall’elastico .
Ed è come se la vedessi per davvero solo ora. Sono in qualche modo colpito dall’espressione sul suo volto. Non èaccigliata, no, è più … particolare. I suoi occhi sono come pugnali, puntati contro il suo avversario, di cui non perdono nemmeno un movimento, e le sue sopracciglia sono corrugate verso il basso. Il rosso sul suo viso contrasta radicalmente con il suo solito colorito pallido, e i capelli che le incorniciano il viso le danno un aspetto disordinato, ma sempre fiero.
Le sue labbra sono leggermente aperte,il che è strano per lei, a pensarci. La maggior parte delle volte in cui è concentrata tende ad unirle in una linea sottilissima. Adesso no. Ha veramente delle belle labbra.
Scuoto la testa, frustrato. Che diavolo vado a pensare? Se voglio manipolare Clove non posso iniziare a pensare a lei in questo modo. Se non altro, è attraente.
Devo di nuovo aggiustare la telecamera, si stanno muovendo di nuovo. Non potrebbero semplicemente mantenere le loro posizioni? Questo ovviamente mi porta a guardarla di nuovo. Chi voglio prendere in giro?Attraente? Sexy sarebbe una parola più appropriata . Ma tutto qui. Non può esserci nient’altro, o manderei a monte il mio piano. Il piano a cui lei sta inconsapevolmente contribuendo.
Senza alcun preavviso, Clove urla di frustrazione. Mi concentro di nuovo sul duello e realizzo che Hugo l’ha appena battuta. Il viso di lei è contorto dalla rabbia, mentre Hugo sta ghignando, divertito dalla sua collera verso se stessa.
“Bé, se ti infastidisce tanto che ti abbia battuta, dovresti sol-”
“Ancora”, lo interrompe lei.
Hugo acconsente con uno sguardo annoiato e Clove lo attacca subito, non aspettando un inizio formale del duello. Anche se lei è più veloce di lui , e, ovviamente, molto più giovane, lui non ha alcun problema nell’affrontare un altro duello. E poi, lei è così esile.
Battersi con lei è come battersi con un cucciolo di tigre.
Tuttavia, Clove sta vincendo questo tempo. Ho anche visto Hugo arretrare un paio di volte da quando hanno incominciato, il che è un grande miglioramento per lei.
Forse dovrei farla vincere più spesso, c’è molto più divertimento!
Ma Hugo è comunque il migliore combattente e sta rincominciando a prendere il controllo della situazione. Le mosse di Clove sono troppo ripetitive, prevedibili. Lei incomincia a retrocedere di nuovo.
Sospiro. Va a finire sempre così, avrò visto questa scena centinaia di volte, nell’ultimo anno. Clove che arretra, Hugo che le urla di mantenere il suo terreno. Questo fa aumentare la rabbia di lei, la fa innervosire e la fa retrocedere ulteriormente. Allora il nostro istruttore le ripete di non farlo. E un cerchio infinito che continua fino a che Hugo non vince. Probabilmente, è così che Clove ha perso prima, ma ero troppo occupato ad analizzarla per accorgermene.
… Ma si sono fermati. E’ come se il tempo si sia congelato. Il silenzio è quasi tangibile. Hugo sta pressando la sua spada contro quella di Clove, come per forzarla verso il pavimento, ma, per qualche motivo, si è fermato. E lei lo sta guardando con il suo ghigno più impertinente stampato in faccia.
“Hai perso, vecchio”, soffia.
E poi lo vedo. Il pugnale. Clove lo sta premendo contro lo stomaco di Hugo, come per sventrarlo. Inizio a ridere, non posso farci niente. E’ troppo divertente. Per tutto questo tempo, abbiamo pensato che lei volesse batterlo in scherma, ma lei voleva solo dimostrargli di essere più furba di lui. E l’ha fatto. E’ una delle cose più divertenti che abbia mai visto. E’ astuta, la ragazza.
La mia risata fa allargare il ghigno sul viso di Clove, mentre lei si allontana dal nostro trainer con un’espressione di vittoria stampata in viso.
Hugo, invece, non sembra condividere il mio divertimento. “Perché avevi il pugnale. Se non l’avessi avuto avresti …”
“Perso”, dice lei, finendo la sua frase. “E quindi?”
“Metti che non hai un coltello nell’arena”, la sfida lui.
“Ma ho una spada?”, replica lei, scettica. “Perché dovrei avere una spada e non un coltello?”
“Diciamo che te li hanno rubati…”
Clove ride. “Sì, dal mio cadavere!”
“Bé, è così che finirai, come un cadavere, se punti tutto sui coltelli”, insiste lui, alzando la voce.
“Non è garantito che tu possa scegliere la tua arma nell’arena e se punti tutto su di una sola non dureresti cinque giorni”.
Lei apre la bocca per protestare.
“No!”, la interrompe lui prima ancora che possa iniziare a parlare. “L’arroganza non ti porterà da nessuna parte. Io non sono qui per trasformarti nella migliore lanciatrice di coltelli mai esistita. Sono qui per insegnarti come sopravvivere ai Giochi, e questo comprende che tu ti impegni e migliori anche con le altre armi”.
Ha ragione, nonostante tutto.
Clove sembra più arrabbiata di quando abbiamo tentato di ucciderci a vicenda il secondo giorno.
Migliorare? E come, vostra grazia?”, dice lei. “Come? Tu ti ostini a farmi duellare con Cato cosicché nessuno di noi due possa anche solo lontanamente sperare di migliorare. E non spieghi mai nessuna nuova tecnica, non spieghi mai niente di niente!  Di archi non se ne vede neanche l’ombra in questo edificio!  E sono troppo esile per maneggiare come si deve una lancia.”, dice tutto non alzando la voce, ma ha un terrificante tono sadico.
“Come? Come posso migliorare, così?”. Ha una luce assassina negli occhi.
“Oh, ma sicuro, dimenticavo che è colpa mia. Che sciocca. Perché Clove non ne fa mai una giusta. Perché è una ragazza figlia di un impiegato. Non importa quanto veloce, furba o letale lei sia. Semplicemente non è abbastanza”. E’ così vicina a Hugo che deve alzare la testa per guardarlo in faccia. Lui la sta guardando con uno sguardo freddo e inespressivo. C’è un lungo silenzio assordante, mentre lei aspetta che lui risponda.
Ma Hugo non risponde. Invece, si limita a girarsi e a dirigersi verso la bacheca con le armi.
Sospiro di sollievo, mentre mi alzo dalla panca. Non credo che avrei potuto sostenere un altro litigio fra di loro.
Non sto prestando attenzione a Clove, quindi non mi accorgo quando estrae il coltello da ovunque l’avesse nascosto. Sto guardando Hugo, chiedendomi che cosa abbia in serbo per noi, quando l’arma vola verso di lui. La lama si conficca nel mobile a pochi centimetri dalle sue dita.
Lui si immobilizza per un momento, ma poi semplicemente allunga la mano per togliere il coltello dal legno. Sono sorpreso dalla quantità di sforzo che sembra costargli. Riesce a estrarlo con una mano ma è ovvio che l’arma si è conficcata in profondità.
Si gira lentamente, guardando Clove con una fredda occhiata inespressiva.
Diamine, ma non si arrabbia mai? Lei gli ha appena lanciato un coltello contro!
Ma no, lui rimane calmo mentre cammina verso di lei, lo stiletto ancora fra le sue mani.
Quando la raggiunge parla così piano che tutto quello che riesco a capire è la parola “finito” e non sono neanche sicuro di averla sentita davvero.  Clove, con le labbra premute fra loro a formare una linea sottile, annuisce una volta. Poi l’allenamento prosegue normalmente.
Ma lei continua a non rivolgermi  la parola.
Si scopre che Hugo non aveva pianificato niente di speciale per oggi. Ci limitiamo a fare un percorso ad ostacoli un po’ di volte e poi siamo liberi di andarcene.
Hugo esce immediatamente -chiaramente nauseato dall’idea  di rimanere nella stessa stanza in cui si trova Clove- lasciandoci da soli a preparare i nostri zaini.
Mentre getto il poco che ho portato nel mio zaino, cerco il modo migliore per tirare in ballo l’argomento del duello di ieri. Guardo Clove, scoprendo che è pronta ad andarsene, e realizzo che non mi è rimasto tempo.
Improvvisando, mi interpongo fra lei e la porta, appoggiandomi casualmente alla parete.
“Dovresti mostrarti più allegra, sai?”, osservo.
Clove non dice niente. Si limita a lanciarmi uno sguardo che press’a poco  significa “Spostati immediatamente se non vuoi morire giovane”.
“Visto che ieri hai vinto, più sorrisi e meno sguardi assassini sarebbero più appropriati”, ritento, anche se questa affermazione non ha senso per il semplice fatto che non l’ho mai vista sorridere. C’è da dire che la vedo solo durante l’allenamento, ma comunque Clove non ha l’aria di una persona che dispensa sorrisi facilmente.
“Io non ho vinto”, mi ringhia contro.
Sorrido. “Se non ricordo male mi hai battuto. Tre a due.”, dico ghignando.
“Uhm, se non ricordo male mi hai lasciato vincere”, replica lei, scimmiottandomi, mettendosi lo zaino in spalla.
“Una ragione in più per essere allegra e riconoscente”, cerco di convincerla. “Ti ho preparata per mostrarti in tutta la tua bravura a Hugo oggi”.Ghigno.
“Pensi davvero di essere un dio, non è così?”, rimbecca lei. “Ti pavoneggi in giro come se possedessi l’intero distretti! Per caso fai anche inchinare i tuoi amici quando vi incontrate?”
“Almeno io gli amici ce li ho. Non mangio da solo ogni giorno a mensa, non vado sparato a casa appena finito l’allenamento”. So che è un colpo basso, ma mi sta facendo veramente innervosire. “Io posso fare in modo di piacere alla gente. Che possibilità credi di avere se non piaci alla gente nell’Arena? Se non piaci al pubblico, sei morto”.
“Pensi che non lo sappia?”, soffia lei.
“Bé, allora potresti provare a sembrare più amichevole”.
Amichevole? Con chi? Con te?”, ringhia. “Sei solo un peso, Cato! Da quando sei comparso tu Hugo mi ha sempre ignorato per dare attenzione a te. Non ho alcuna ragione per mostrarmi piùamichevole”
“Un peso? Sto cercando di aiutarti!”. Il mio piano non sta funzionando così bene come avevo pensato. Di certo non mi aspettavo che accogliesse facilmente l’idea che io l’aiuti, ma credevo che avrebbe mantenuto il suo silenzio imbronciato per lasciarmi spiegare. Ma ovviamente no. Lei vuole combattere. E quello che ho appena detto sembra farla imbestialire molto di più di qualsiasi altra cosa io abbia mai fatto.
Lei percorre velocemente i pochi metri che ci separano e mi guarda con occhi che mandano scintille.
“Non .voglio .il tuo. Aiuto”. Sento il freddo di una lama sul mio stomaco.
Ma da dove diavolo li tira fuori quei cosi?
“Non dovresti rimetterlo al suo posto quello, Clover?”, dico, provando una tattica completamente diversa.
Lei ghigna lievemente. “Di certo non vado lasciando le mie cose in giro per il Distretto Due”. Quindi i coltelli sono suoi. Gli ha sempre con lei. Bé, questo è confortante. Invece di sembrare sorpreso, ghigno, cercando di comportarmi come se questo fosse esattamente quello che mi aspettavo. Intanto raggiungo con la mano i coltello a scatto che ho sempre con me, in tasca.
“Comunque non è un modo carino per trattare la gente”, dico. Poi, per sua sorpresa, la avvolgo con il mio braccio destro, in maniera tale che la mia lama sia puntata contro la sua schiena, sfidandola a fare una mossa aggressiva. Lei, per tutta risposta, si limita a premere di più il pugnale contro il mio stomaco e usa la sua mano sinistra per allontanarmi. Le sue dita sono estremamente calde contro il mio petto.
“Devi calmarti, Clover”,sussurro. “Io non voglio farti del male, ma se non ti dai una calmata non mi lasci altra scelta”.
Lei non dice niente. Rimane ferma nella sua posizione, continuando a guardarmi dal basso. Sta aspettando che io faccia una mossa sbagliata per pugnalarmi. Sarà più difficile del previsto.
Decido un mossa disperata e l’abbraccio.
“Ti diverti?”, dico, suadente. Per mia sorpresa, lei non arrossisce.
“Non più di te”.
Sopprimo una risata. E’ così ignara. Continuo con la mia scenetta.
“Ti dirò, Clover, questo per molte sarebbe un complimento”, mormoro, avvicinandomi ancora di più.
Lei mi spinge via con forza, lo sguardo pieno di disgusto.
Rido, mentre lei mette a posto il suo coltello e si fa strada verso la porta.
Lei si ferma e mi guarda.
“Ride bene chi ride ultimo”, dice con un inchino. Si volta e se ne va, un sorriso stampato in faccia.
Io continuo a ridere. E’ così una facile preda! Fino al momento in cui entreremo negli Hunger Games sarà fedele e leale come un animale da compagnia. Non costituirà alcuna minaccia, sarà un’alleata fantastica e mi potrò liberare facilmente di lei quando arriverà il momento.
Afferro il mio zaino e mi incammino verso la porta. Mi sembra più pesante di quello che sarebbe dovuto essere. Non l’ho preso da quando siamo arrivati e ho buttato alla rinfusa i miei averi poco fa, posso aver messo qualcosa in più per sbaglio.
Lo apro e ,fra le mie cose, vedo una sfera di metallo. Allungo la mano per prenderla ma, appena le mie dita l’avvolgono, emette improvvisamente  una dozzina di punte perforanti .
“Maledizione!”, urlo, facendo cadere sia la sfera che lo zaino.
La mia mano è tutta insanguinata. Molte delle punte si sono limitate a tagliarmi la pelle delle dita, ma altrettante si sono conficcate in profondità nel palmo della mia mano, che sta ora sanguinando copiosamente.
Maledizione”, impreco di nuovo. Sarebbe quasi divertente lo sforzo che ci ha messo per vendicarsi di ieri, se non fosse che è anche troppo doloroso per riderci su. In più, questa è la mia mano destra. Non sarò capace di brandire una lancia o una spada domani, non senza aspettarmi fitte lancinanti e dolorose.
Non parlare con me, urlare contro Hugo … era tutta una messa in scena. Se si fosse comportata normalmente sarei stato più vigile, e lei lo sapeva.
Forse, non sono l’unico fingere, qui.


N.d.A.
*"Come possiamo vincere quando i folli possono essere re?" . Ho scelto questa citazione perché si può riferire sia alla situazione di Clove (che non può vincere , cioè "migliorare") fino a che Hugo sarà "re" (o, nel suo caso, istruttore), sia a quella di tutti gli abitanti di Panem che non hanno alcuna possibilità di futuro perché sono tiranneggiati da un Presidente e da un Sistema folle (perché ingiusto e fondato sul egoismo). 
O almeno così la vedo io.
 Torando al capitolo, spero che vi piacerà almeno la metà di quanto è piaciuto a me scriverlo. Mi diverto troppo a scrivere da punto di vista di Cato, penso che lo farò più spesso. E' troppo spassoso! :D
Farò in modo di tradurre le altre citazioni a inizio capitolo il prima possibile (e coreggerò anche i primi due capitoli, che sono abominevoli)
Un abbraccio,
Annalisa.

P.s. in realtà questo capitolo l'avevo già pubblicato ieri, ma EFP mi ha sabotato ._.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


THE RULER AND THE KILLER


"Prey to your God, open your heart,
Whatever you do don't be afraid of the Dark
Cover your eyes, the devil's inside
It's the night of the Hunter,
One day I will give revenge,
One night to remember,
One day it'll all just end"
[Night of the hunter- Thirty Seconds to mars] *[N.d.A.]


 


Capitolo 6

Cato’s POV

E’ passato quasi un mese da quando ho trovato la sorpresa di Clove dentro il mio zaino e, in qualche modo, le cose stanno migliorando fra noi, ora.
Il giorno dopo ho provato a giocare la carta della simpatia. Inutile dire che lei era assolutamente senza rimorsi. Anzi.
Alla fine della giornata ho cambiato metodo di attacco e, dopo l’allenamento, l’ho confrontata riguardo l’arma. Lei è rimasta impassibile e mi ha semplicemente ignorato, fino a che non ho ottenuto la sua attenzione sbattendola contro la parete.
Abbiamo passato l’ora e mezza successiva combattendo.
Il giorno seguente Clove non mi parlava, ma il suo era più un silenzio imbarazzato rispetto al precedente, ribollente di rabbia. Ho considerato l’ida di scusarmi con lei per fare in modo di ottenere la sua fiducia, ma ho rinunciato perché sospettavo che questo mi avrebbe dipinto come debole ai suoi occhi.
E probabilmente non avrebbe funzionato lo stesso.
Quindi ho mantenuto un comportamento distaccato fino a circa due settimane fa, quando Clove mi ha rivolto la parola per la prima volta dal nostro combattimento.
Hugo ci aveva preparato una struttura per farci arrampicare e lei mi ha chiesto – sputando fuori le parole come se fossero state velenose- di aiutarla a prendere una delle corde, che erano troppo in alto per la sua esile statura.
Mi avrebbe fatto quasi tenerezza, se non fosse stata Clove. E se non avessi saputo che era il suo modo di dirmi che, almeno per il momento, aveva smesso di combattermi.
Questo però ovviamente non significa che adesso andiamo tutti d’amore e d’accordo.  
Sia lei che Hugo continuano a farmi frustrare incredibilmente, Clove ci urla ancora contro e Hugo continua ad arrabbiarsi con noi per “la nostra mancanza di concentrazione”.
Ma, per lo meno, lei non ha provato ad accoltellarmi, recentemente.
Oggi è andato tutto piuttosto bene, in realtà. Abbiamo fatto pratica con i coltelli e passato il resto del tempo facendo prove di abilità.
Chiaramente, Clove era di buonissimo umore, anche se sempre nei suoi limiti. Non ha nemmeno ancora litigato con Hugo.
Ma ovviamente lui ha il bisogno di far terminare la sessione di allenamenti con una nota negativa.
Il sole sta calando, fuori dalla finestra mentre io cerco di asciugarmi almeno il sudore che mi bagna il collo. A poca distanza da me, Clove sta facendo lo stesso. Io prosciugo le ultime gocce d’acqua che mi rimangono quando Hugo inizia a parlare.
“Clove, hai un ego smisurato”, inizia, con tono tranquillo. “La tua arroganza diventerà la tua rovina, durante i Giochi. E sarebbe brutto, sul serio”. Intercetto lo sguardo di Clove, che mi lancia un’occhiata furente alla vista del mio ghigno. In realtà, so che quello che Hugo sta dicendo è totalmente ingiusto, dato che io sono molto più arrogante di lei, non importa quanto lei possa sembrare orgogliosa.
L’attenzione di Hugo ora si rivolge a me. “E, Cato, cosa diavolo c’è che non va in te? Abbiamo lavorato con i coltelli per queste due ultime settimane, e tu non sei ancora in grado di centrare il bersaglio da sette metri. Continua a lavorare così, e il Distretto Tredici sarà in grado di batterti”. Ora è il turno di Clove di guardarmi ghignando e il mio di lanciarle occhiatacce.
“E, ragazzi, domani non ci sarò. Lavorerete per conto vostro”. Esce, non dando ulteriori spiegazioni.
Cosa? Per conto nostro?
Ma abbiamo anche solo il permesso di entrare in palestra senza un istruttore?
Sto quasi per rincorrere Hugo fuori dalla porta per capirci qualcosa di più, quando mi viene l’idea.
Saremo da soli. Avrò più possibilità di lavorarmi come si deve Clove.
 E quello che ho in mente è assolutamente geniale.
E’ un’attività da Favorito, che persino io ho fatto poche volte -dato che mio padre non approva-, da fare di sera e solitamente in gruppo. Ed è per questo che sono sicuro che Clove non vi ha mai partecipato. Mi è quasi impossibile immaginarmela in un gruppo.
E’ assolutamente perfetto.
Guardo Clove di sottecchi. Sta preparando le sue cose per andarsene, così agisco subito.
“Quindi domani siamo da soli”, osservo casualmente.
“Però, sei un fulmine!”, mi rimbecca lei, mettendosi lo zaino in spalla e non degnandomi nemmeno di uno sguardo. Mi stupisce il tono della sua voce. Sono sicuro che lei sia esasperata e arrabbiata con Hugo almeno quanto lo sono io; dovrebbe sputarmi contro le sue parole come se fossero veleno, non guardarmi con quello sguardo distante, quasi annoiato.
Ma probabilmente è solo stanca per l’allenamento.
“Perché non proviamo a sfruttare quest’occasione al meglio?”, dico distrattamente.
Mi lancia uno sguardo indagatore.
“Ho scelta?”, risponde sarcastica lei.
Alzo le spalle. Da qualche parte, dentro di me, sto sorridendo. E’ così ingenua, sta cadendo lentamente nell’intricata trappola che sto preparando per lei.
“Certo che sì”, replico.
Clove fa un cenno col capo e si dirige verso la porta, segno che io interpreto come un “si”.
“Incontriamoci qui alle diciotto”, ordino. Lei smette di camminare.
“Perché così tardi?”, chiede un tono insolente che si fa strada nella sua voce.
“Più divertimento”, rispondo semplicemente, e addento la mela che ho portato con me.
Si volta per guardarmi, così nota il frutto che ho in mano. Chissà quand’è stata l’ultima volta che ha mangiato della frutta fresca. La sua famiglia è così povera. Mordo di nuovo la mela, staccandone un grosso pezzo, facendone gocciolare il succo.
Giusto per farla innervosire.
Sembra così fiera quando mi fulmina con lo sguardo. Lo trovo abbastanza attraente, a dire la verità.
E’ un peccato che debba lasciarla morire, o addirittura ucciderla io stesso nel giro di un anno.
Il suo sguardo in cagnesco arriva come previsto ed io ghigno soddisfatto.
“Ci sarò”, sbotta, prima di uscire.
Mentre afferro il mio zaino, mi viene in mente che probabilmente Clove non abbia capito veramente cosa intendessi per “divertimento”. Sono praticamente certo che non abbia mai partecipato ad una Caccia Notturna, ma deve per forza almeno averne sentito parlare.
Che razza di Favorito è uno che non sa cosa sia?
Rido sommessamente all’idea di vedere Clove compiere il suo primo omicidio.
 
 
 
Alzo la testa, in ascolto. Sono sicuro di aver sentito dei passi, fuori dal centro di addestramento. Guardo il mio orologio. Segna le 17:59. E’ in perfetto orario.
Riprendo a fare pratica con le lance appena prima che la porta si apra. Prendo lo slancio e tiro l’arma con tutta la mia forza. Il mio tiro è pulito ed efficace e la lancia va dritta al centro del bersaglio.
“ Spero che questa non sia il tuo programma per lavorare insieme”. Sono sorpreso dalla prossimità della voce di Clove, non l’ho sentita avvicinarsi.
“E se lo fosse?”, la sfido, torreggiando su di lei.
“Allora lavoreremo separatamente”, ribatte secca, incrociando le braccia.
“Sai che potrei esserti d’aiuto”, replico io. Lei risponde alzando gli occhi al cielo. “Ne avresti bisogno”, aggiungo.
Ricevo un’occhiata velenosa in risposta.  Ghigno automaticamente.
“Ma, a dire il vero, non era esattamente quello che avevo in mente”, ammetto. Lei smette di guardarmi in cagnesco, ma non si rilassa. Non dice niente, aspettando che io continui.
“Penso che potremmo incominciare con le spade”.
Tecnicamente, combattere senza supervisione potrebbe farci perdere il nostro trainer, ma, se nessuno si fa male, che pericolo c’è? E, d’altra parte, questo è solo un modo per far passare il tempo.
Il vero divertimento arriverà solo quando il Sole sarà ben nascosto oltre l’orizzonte.
“Spade?”, chiede scetticamente. E’ vero, le nostre esperienze con la scherma non sono state delle migliori, ma forse senza nessun Hugo in giro a far innervosire Clove le cose andranno meglio.
Annuisco.  Lei mi scruta attentamente, cercando di decidere se le sto nascondendo un qualche secondo fine, ma evidentemente decide che si può fidare di me per il momento, perché si dirige verso la bacheca delle armi alla ricerca di due spade.
Ci affrontiamo per due ore e va incredibilmente bene. Lei prova a farmi male seriamente solo una volta –da ritenersi un record- ed io, da parte mia, le insegno delle mosse che Hugo crede al di fuori della sua portata. Non potrebbe avere più torto di così. Impara così velocemente che quasi non faccio in tempo a mostrarle una tecnica che l’ha già acquisita. Combattiamo aggressivamente, fermandoci solo quel tanto che mi serve per permettermi di spiegarle qualunque cosa faccia che non le sia familiare.
Ci adattiamo continuamente ai movimenti e alle strategie dell’altro, così lo scontro rimane vivo e divertente per tutto il tempo in cui facciamo pratica.
Quando finiamo, fuori è il crepuscolo. Perfetto.
Guardo Clove, tutta disordinata ma soddisfatta, e cerco di immaginarmi la sua reazione ai miei programmi per la serata.
Lei nota il mio sguardo. “Che c’è?”, sbotta.
“Pronta?”, chiedo.
“Per cosa?”
“Per la prossima fase dell’allenamento”, rispondo, ghignando malizioso. Lei inarca le sopracciglia, non capendo.
Il mio ghigno si allarga. “Uccidere”, spiego.
Il suo viso s’illumina mentre capisce il senso della mia frase. “Facciamo una Caccia Notturna?”. E’ eccitata come un bambino che entra per la prima volta in un negozio di caramelle.
Annuisco, celando a malapena la mia soddisfazione.
Lei sembra infastidita dal fatto di aver mostrato così apertamente le sue emozioni, così il suo viso torna nella sua solita espressione fredda e calcolatrice.
“Tu vuoi portare me a un Caccia Notturna?”.
“Quello era il piano”, rispondo semplicemente. Lei ci riflette su un attimo, ma poi alza le spalle in segno di assenso.
“Benissimo”, dico con un sorriso.
Ci prepariamo per uscire.
Clove può anche non essere mai stata a una Caccia Notturna, ma ne conosce i meccanismi. Arma la propria cintura di una serie impressionante di coltelli e aggiunge una spada per buona misura. Noto che sostituisce i suoi stivali con un paio più leggero che tira fuori dalla sua borsa. Forse non era così ignara come pensavo.
Quando è pronta, mi guarda, con attesa.
Ora dobbiamo solo scegliere dove andare. Per una Caccia Notturna è meglio trovare un posto buio dove possono essere trovate persone solitarie.
“Che ne dici delle cave?”, propongo. In realtà sarebbe meglio andare vicino ai vecchi magazzini, dove ci sono le prede più facili, ma le cave sono più misteriose e aggiungono eccitazione. Clove probabilmente tutto questo lo sa, ma non mi contraddice.
Tecnicamente quello che facciamo è illegale dato che si tratta di omicidio. E, ufficialmente, questo porta alla pena capitale. In pratica, invece, se la vittima è qualcuno d’insignificante, senza famiglia e senza amici, i Pacificatori chiudono un occhio sulle malefatte dei Favoriti. Ma essere furtivi è comunque necessario.  Se ci colgono in flagrante non avranno nessuna scelta se non  punirci.
Quindi, quando lasciamo la struttura, ci inoltriamo nell’ombra senza un rumore.
 
 

Clove’s POV

 
Sto all’erta, ispezionando l’area con gli occhi. Tutti i miei sensi sono in allerta, ma l’unico suono che sento è il lieve respiro di Cato, che mi sta praticamente addosso per quanto è vicino.
Sto incominciando a scocciarmi, quando scorgo qualcosa. Movimento.  Che ovviamente non è sfuggito agli occhi attenti di Cato.
Mi mette una mano sulla spalla e mi sussurra “Non ti muovere”nell’orecchio.
Questo piccolo contatto m’infastidisce, ma scelgo di ignorarlo. Quello che mi da veramente fastidio invece è il fatto che, anche se toccherebbe a me fare vittime, Cato si sta dirigendo verso l’unico segno di vita che abbiamo incontrato fin’ora. Ovviamente lui vuole la prima vittima della serata. Tipico.
Lo guardo mentre si muove, incredibilmente furtivo, per uno della sua stazza.  La guardia non lo vedrà mai arrivare. Di sicuro non ci sarà nessun divertimento nell’uccidere un uomo disarmato che ti da anche le spalle. E se Cato è veramente così bravo, perché dovrebbe avere una serata così deludente?
In un momento d’impulsività, lancio un sasso nella direzione in cui penso si trovi. Funziona.
“Chi è là?”, grida una voce maschile.  Si gira e vede Cato, con la spada in mano, a soli cinque metri da lui. Anche con questa luce fioca, riesco a vedere la paura nascere sul viso dell’uomo prima che si volti e incominci a correre.
Ma anche Cato ha sentito il rumore provocato dal sasso ed era preparato ad una fuga, quindi lo raggiunge nel giro di qualche secondo. Lo immobilizza a terra puntagli la spada contro la gola.
Sono così contenta di aver lanciato quella pietra. Adesso è tutto molto più divertente.
L’uomo inizia a implorare Cato. Ma altrettanto ovviamente le sue suppliche non hanno alcun effetto. Cato ride e l’urlo dell’uomo squarcia il silenzio notturno. Ecco l’ultimo suono che emetterà.
Un brivido mi corre lungo la schiena mentre guardo la scena di Cato che gli taglia la gola, incapace di distogliere lo sguardo.
Lui viene verso di me, abbandonando il cadavere.
“Perché diavolo l’hai fatto?”, mi soffia contro quando mi raggiunge.
Ghigno.  “Più divertimento”.
Infondo lui è quello che si va lamentando in giro del fatto che l’arena sarà quasi noiosa perché non ci sarà della concorrenza al suo stesso livello.
Lui ride, una vena folle nella sua voce.
“Vuoi divertimento, Clover? Bene, te lo darò io”. Sto per protestare sull’uso di questo soprannome, ma lui mi ferma mettendomi un dito sulle labbra. Questo nuovo contatto mi manda in bestia.
 Lo mordo. Forte. Lui ritira velocemente la mano, scuotendola.
“Maledizione, Clove! Ti vuoi calmare?”, protesta, suonando ridicolamente infastidito. Non dico niente, ma lo fulmino con lo sguardo. Se terrà le mani al loro posto, non ci sarà nessun problema.
Lui continua a guardarmi, aspettando qualche segno di cedimento. Che però non mostro. Lui sbuffa esasperato e mi fa segno di seguirlo. Bene. Perché iola mia vittima.
Mi conduce a una parte più vecchia e abbandonata delle cave. Mi sto chiedendo cosa ci facciamo qui quando vedo una colonna di fumo. E allora capisco.
“Oh, no”, dico involontariamente.
“Cosa c’è, Clover?”, mi chiede Cato ghignando.
“Niente”, replico, non volendo apparire debole. Ma persino io so che tutto questo sta diventando folle.
C’è solo una persona nel Distretto Due che si può considerare più pericoloso dei Favoriti. E’ un vecchio ubriacone. Bé, è sulla cinquantina quanto minimo. Una volta si allenava per essere un Favorito, ma non ha mai preso parte ai Giochi. Ma non ha neanche mai perso la sua sete di sangue. Ufficialmente, non ha mai fatto male a una mosca. Non è stato mai colto sul fatto. Ma in realtà è un serial killer.
Di solito si possono riconoscere le sue vittime rispetto a quelle dei Favoriti perché sono più intenzionali. I Favoriti uccidono solo in luoghi abbandonati, dove si trovano persone solitarie senza nessuno cui tenere. Le vittime dell’ubriacone –penso si chiami Orsin- sono premeditate.  Non è stato condannato perché per farlo i Pacificatori avrebbero dovuto investigare riguardo ai vari omicidi, compresi quelli dei Favoriti, cosa che non vogliono fare.
Qualche anno fa, a causa dell’esposizione cui sottopone i Favoriti, un paio di loro ha provato a stanarlo.
Sono stati ritrovati morti il giorno dopo.
E’ questo l’uomo che secondo Cato dovrei uccidere.
Sopprimo un brivido, tenendo a mente la promessa che mi sono fatta riguardo alla vulnerabilità e l’apparire debole. Ma lui percepisce lo stesso la mia ansia.
“Spaventata?”, mi stuzzica sorridendo.
Scuoto la testa, ma la paura ha la meglio. “Solo un po’”, borbotto. Ma me ne pento subito.
Stupida! Perché diavolo ho detto qualcosa del genere? Penserà che io sia semplicemente patetica.
Maledizione.  Mi compatirà per sempre e non mi prenderà mai sul serio.
Arrivata a questo punto, non so se mi prenderò mai sul serio neanche io.
“Non dovresti. Ma se vuoi possiamo proseguire verso i magazzini”. Non so dire se sta parlando sul serio o no. Sembra sincero e, quando lo guardo, non c’è nessun segno di derisione nei suoi occhi. Ma c’è qualcosa che assomiglia alla pietà. Forse sta cercando di sembrare gentile.
Al diavolo.
Devo farlo. Anche se adesso lui pensa di no.
So che devo uccidere quell’uomo. E’ l’unico modo che ho di provargli – di provarmi-  che ne sono capace, che posso farlo. Non so perché ne sono così convinta, lo sono e basta.
Scuoto il capo in risposta.
 “Sentiti libero di raggiungermi quando vuoi”, dico, cercando di far sembrare quest’affermazione solo una frase di cortesia. In realtà sto sperando veramente che venga con me.
Ma inizio a muovermi in direzione del fuoco, senza aspettare una risposta.
Ho mosso solo qualche passo quando sento Cato muoversi per seguirmi.






N.d.A.
*"
Prega il tuo dio, apri il tuo cuore 
Qualunque cosa tu faccia , 
non aver paura dell' oscurità 
copri i tuoi occhi, il diavolo che hai dentro 
una notte da cacciatore 
un giorno avrò la mia vendetta 
una notte per ricordare 

un giorno tutto finirà "
Penso che il perché io abbia scelto questa strofa si spieghi da solo.
Dopodiché: scusaaaaaaate! Sono  in ritardo di secoli. Giuro che però non è colpa mia!
Aggiornerò il prima possibile.  Spero che questo capitolo vi piacerà anche se ho lasciato la storia a metà. Mi piace farvi soffrire, sì. (COME NO).
Fatemi sapere cosa ne pensate! :)
Un bacione,
Annalisa.

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo ***


THE RULER AND THE KILLER

"you're gonna go far, fly high, you're never gonna die,
you're gonna make it if you try"
[Pink Floyd- Have a Cigar]* (N.d.A)



Capitolo 7

Clove’s POV

Ci sono quelli che, in questa situazione, vedrebbero il fuoco come un ostacolo, dato che produce luce.
Ma io penso che sia un grande vantaggio. Scoppiettando e sfrigolando, copre ogni minimo rumore che sfugge ai nostri lesti e silenziosi passi. Mentre ci avviciniamo, le nostre ombre si mescolano con la danza di luce e ombra creata dalle fiamme.
Finalmente, il nostro obiettivo è in piena vista. Osservando la situazione, ora, non ho alcuna idea del perché fossi tanto preoccupata.  Con il sostegno di Cato, sarà facilissimo. Penso.
Sto allungando una mano verso un coltello, quando sento Orsin muoversi. La mia testa scatta verso l’alto, per controllarlo, ma sta solo aggiungendo della legna al fuoco.
Mi rilasso, posiziono il coltello e sto quasi per lanciarlo quando inizia a parlare.
“Voi, bambini, dovreste andarvene, finché potete”.
 Inspiro bruscamente.
Non è possibile che ci abbia sentiti arrivare, il crepitio del legno bruciato era troppo rumoroso ed insistente. Lui se ne sta lì seduto, a osservare le fiamme.
Guardo Cato, mimando la parola “Bluff?”. Lui annuisce in conferma. Non può sapere che ci sia più di uno di noi, sta solo supponendo che nessuno sarebbe così stupido da venire qua da solo. Devo solo calmarmi.
Sto continuando a fare stupidi rumori vani. Se continuo così, non uscirò mai da questa situazioneviva.
Cato inizia a muoversi per girargli attorno. O almeno penso che quello si a il suo scopo. Dove diavolo ha imparato a comunicare?
E’ così strano, a volte.
Ma annuisco lo stesso, facendo finta di aver capito le sue intenzioni.
Lui ammicca è scompare fra le ombre. Ugh. Non potrebbe semplicemente comportarsi in maniera normale? Siamo in pericolo di morte!
Rivolgo la mia attenzione all’uomo accanto al fuoco. Non si è mosso per niente.
E ora che faccio?
Sentirlo parlare mi ha fatto capire esattamente di cosa avevo paura e quanto incredibilmente stupido sia tutto questo.
Ma non ha importanza.
Dimostrerò quello che valgo.
Lui è la mia vittima, quindi devo fare io la prima mossa, non Cato. Potrei tirargli contro un coltello, ma se avesse addosso un qualche tipo di armatura? Gli avrei solo regalato un’arma.
Scuoto la testa, frustrata per essere così insicura. Questo non assolutamente il momento adatto.
Respiro profondamente, non posso permettermi di dubitare di me stessa proprio ora.
Assicuro la presa sul coltello, mi concentro e tiro. Il lancio è perfetto, ma lui si muove esattamente nello stesso momento, quindi manco il mio obiettivo, il collo, ma riesco comunque al colpirlo al petto.
Lui grugnisce rumorosamente, dal dolore, penso.
Ghigno e allungo la mano per impugnare un secondo coltello, quello che dovrebbe finirlo.
Ma Orsin inizia a ridere.
Sta ridendo? Lo guardo e vedo che sta sfilando il coltello. Non c’è alcuna traccia di sangue, sopra.
… Avevo ragione per quanto riguarda l’armatura.
Si alza in piedi.
“E’ questo il meglio che sapete fare?”, chiede, e inizia a camminare dritto verso di me.
La paura inizia a farsi strada velocemente dentro di me. Non riesco a credere di essere stata così stupida. Ma devo agire.
Rimpiazzo velocemente il pugnale con una lama più lunga, buona per la scherma, non fidandomi delle mie abilità con la spada.
Sono un tutt’uno con l’adrenalina, ora.
Orsin mi raggiunge e cerca di colpirmi con il coltello che gli lanciato contro. La lama risalta lucente nel buio della notte. Io mi scanso, saltando lateralmente, e mi  interpongo fra lui e il fuoco.
Prova una nuova mossa, con un ghigno sadico stampato in volto e lo scontro ha inizio.
Ci muoviamo attorno al fuoco, rispondendo a ogni colpo, mentre le lame riflettono la luce del fuoco creando un inquietante gioco di luci.
Presto diventa chiaro che è un esperto spadaccino. Scontrarsi con me non sembra costargli alcuna fatica.
L’unica ragione per cui sono ancora viva è perché lui sta giocando. Si sta divertendo.
Ma non è l’unico.
Tutto questo mi piace. L’eccitazione. Il potere. La paura.
Continuo a mettere in atto ogni singola mossa che Cato mi ha spiegato durante il pomeriggio.
Chissà se si sta godendo lo spettacolo, mi chiedo.
Prima ancora che me ne possa rendere conto, il suo coltello mi colpisce la coscia destra ed io urlo di dolore. La mia mano libera vola istintivamente verso la ferita.
Quando la ritiro è coperta di sangue.
Lui si ferma per schernirmi. Resisto all’impulso di chiamare Cato e lo attacco.
Ma, stavolta, so che perderò.
L’adrenalina mi scorre per le vene, ma sto perdendo troppo sangue. E il dolore …
Urlo di nuovo quando mi colpisce la spalla sinistra. Dov’è Cato?
No, mi dico. Non ho bisogno di lui.
Orsin èilmio obiettivo. Devo farlo da sola.
Continuo a combattere, volendo continuare. Volendo vincere. Ma la quantità di sangue che ho perso sta iniziando a farsi sentire. Mi gira la testa.
E Orsin è un miglior combattente.
Ma continuo a combattere, colpo dopo colpo.
A un certo punto, riesce a farmi volare il coltello di mano. Lui ghigna, pregustando il momento in cui vedrà la vita lasciare i miei occhi. Ed io so che riuscirà a vederlo.
Mi reggo a mala pena in piedi e lui si sta armando di spada. L’aveva appesa alla cintura, me ne sono accorta solo ora. Combattermi con il mio coltello era solo un altro modo per umiliarmi.
Sono costretta a imitarlo, ma ormai non credo neanche io di poterlo fare.
 Vedo un movimento alla mia destra e improvvisamente Cato è illuminato dalla luce del fuoco, la spada sguainata, pronto ad agire.
Orsin è colto si sorpresa, lo so. Ha spalancato gli occhi ma il ghigno non gli abbandona il volto.
Cato lo colpisce, ferendolo alla spalla e poi alla coscia e il nostro avversario emette un terribile verso di dolore.
Ora siamo pari, penso.
“Puoi farcela!”, mi urla contro Cato, ritirandosi. La sua voce mi giunge ovattata alle orecchie mentre il mondo attorno a me ruota velocemente. Scuoto la testa, nel tentativo di schiarirmi la mente.
Devi batterlo. E’ solo un altro ostacolo fra te e i Giochi.
 Mi muovo.
Posso farcela.
Attacco in quello che ormai mi sembra più un sogno che la realtà. La confusione rende i miei movimenti molto più goffi del solito ma sono più determinata di prima a farla franca. E anche lui, comunque, adesso ha dei problemi di agilità.
Il vecchio ha meno resistenza di me alle ferite. E di certo anni di ubriacature non lo aiutano.
Ghigno quando me ne rendo conto.
Posso farcela.
Tento una serie di mosse, più per capire il suo stile che per ferirlo.  Rimane sostanzialmente fermo al suo posto limitandosi a muovere solo la spada e solo qualche indispensabile passo per stabilire il suo equilibrio.
Fa fare a me tutto il lavoro, facendomi spostare attorno a lui. Vuole farmi stancare.
Vedremo.
Fermo i piedi nell’esatto punto in cui si trovano. Farò il suo stesso gioco. Vedo con la coda dell’occhio Cato sorridere, capendo le miei intenzioni.
Orsin si trova costretto a muoversi e ora capisco perché cercava ostinatamente di non farlo. Zoppica. Ha problemi a muovere la gamba sinistra, che Cato gli ha colpito.
Mi basterebbe mettergli fuori uso l’altra gamba per avere una vittoria assicurata.                     
Posso farcela, mi ripeto, e ce la farò. Non importa quanto mi stia girando la testa. Ce la farò.
Manovro la spada più velocemente, cercando di colpirlo in ripetutamente in più punti possibili, per confonderlo. Lui para ogni mio affondo, ma si vede che sta avendo difficoltà.
Continuo.  E continuerò fino a che non avrò raggiunto il mio scopo.
Lo vedo vacillare pericolosamente quando appoggia il proprio peso sulla gamba infortunata e colgo l’occasione al volo. Colpisco pesantemente il suo ginocchio destro e affondo subito dopo la spada nella coscia della stessa gamba, non aspettando di sentire il suo grido di dolore. Che comunque non tarda ad arrivare.
Lo spingo a terra facendogli perdere l’equilibrio. Da qualche parte, poco lontano da me, sento Cato esultare, incitandomi a finirlo.
Orsin continua a resistere anche da terra. La sua spada perseguita a rispondere ad ogni attacco della mia lama. Sta cercando di temporeggiare. E non a torto. Anche i miei movimenti, ora, sono molto più lenti di prima, e ho la vista offuscata. Ma persisto ad attaccarlo.
Cerca di colpirmi allo stomaco, ma io scanso la sua lama. Prima di iniziare a cadere.
Era una finta. Ha usato quella mossa per distrarmi e mettere in atto il suo vero obiettivo :farmi un sgambetto.
In qualche modo, però, durante la caduta, la mia spada riesce a trovare la sua strada verso il suo cuore e vengo ricoperta da un caldo liquido rosso.
Collasso a terra vicino al corpo, ormai senza vita del mio avversario.
Sto lentamente scivolando nel sonno, quando sento dei passi avvicinarsi. E sono di nuovo spaventata. No, non spaventata, terrorizzata.
Ho bisogno di correre.
 Urlare.
Combattere.
Fare qualcosa.
Qualsiasi cosa.
Ma poi riconosco un familiare paio di stivali e mi calmo di nuovo. E’ Cato. Non Orsin. Sono al sicuro.
Ma è tutto così confuso.
Dove mi trovo? Perché sono qui? E perché la mia gamba è bagnata? Dovrei essere a letto, domani avrò allenamento. Ed è così scomodo qui…
Qualcuno sta parlando. Lo ignoro, cercando di capire cosa stia succedendo, nonostante la vista offuscata e le palpebre che lottano ostinatamente per rimanere chiuse.
Ma poi sento il mio nome. “Clove?” e, in qualche maniera, riesco ad aprire gli occhi.
Per poco non urlo alla vista dell’uomo morto che mi ritrovo di fronte. Ma per poco, perché non ne ho la forza.
Lentamente mi allontano e delle tremende fitte mi attraversano una spalla.
“Clove”, sento di nuovo. Attraverso una fitta foschia, riesco a vedere un fiero angelo biondo che mi sovrasta.
Forse sono morta e questo è il motivo per cui riesco a vedere i morti.
Questo è normale quando si muore?
“Stai bene?”. Stupido angelo. Sembro star bene?
Ma annuisco lo stesso.
Non posso dimostrare dolore.
 Il dolore è una debolezza.
Lui ride e si accovaccia vicino a me. A guardarlo meglio assomiglia molto a- oh. Non è un angelo. Tutt’altro.
E, improvvisamente, tutto ritorna con violenza nella mia mente intorpidita.
“Cato!”, dico affannosamente, spalancando gli occhi.
“Ce l’ho…”, non riesco a finire la domanda. La mia testa è ancora troppo confusa perché possa trasformare i miei pensieri in parole.
Lui annuisce. “Certo che sì, piccola tigre”, ridacchia. Ho improvvisamente l’urgenza di rispondergli male, ma mi limito a guardarlo in cagnesco. Ma questo lo fa solo ridere di più.
Poi sento più forte il dolore alla gamba e il mio sguardo è accompagnato da una smorfia quando mi rendo conto che mi sta bendando la ferita.
Un piccolo gemito di dolore evade dalle mie labbra mentre lui stringe il bendaggio. Lui mi guarda, e i suoi soliti occhi freddi si addolciscono. “Ti riporto a casa”, dice con un lieve tono gentile.
Per una volta, essere compatita non m’infastidisce. Mi sento malissimo e non ho neanche la forza per fingere diversamente.
Mi sto comportando da debole, lo so, ma al diavolo. Non sono nell’arena. E se Cato volesse farmi del male, fingere di essere forte non mi aiuterebbe in alcun modo comunque.
Il suolo scompare all’improvviso da sotto di me ed io gemo, il dolore alla gamba intensificato da un movimento così repentino. Tenendomi con cautela, Cato inizia a farsi strada verso il cuore del Distretto Due.
Capisco adesso che stasera Cato ha avuto il controllo più totale del mio destino. Avrebbe potuto lasciarmi morire, se avesse voluto. Sarebbe potuto non intervenire.
Allora perché l’ha fatto?  Io sono solo un ostacolo per lui. Senza di me avrebbe delle lezioni private. Private nel vero senso del termine.
E perché mi sta portando in braccio? Sono stata stupida abbastanza da lasciarmi ferire e dovrei pagarne le conseguenze. Non ci sarà nessuno a prendersi cura di me quando sarò ferita o starò per morire, nell’arena.
Pensare mi sta facendo girare la testa. Mi sta venendo la nausea.
“Cato, io non-”, balbetto.
“Cosa?”, chiede, suonando preoccupato ma comunque continuando a sembrare infastidito.
Solo lui.
  “Non mi sento bene”.
Mi guarda come se fossi pazza. “Certo che no.”, replica con condiscendenza. “Hai idea di quanto sangue tu abbia perso?”
“No”, ricomincio. “Ho la na-”, ma non riesco a finire la frase, le parole sostituite da conati. Che gli finiscono addosso. Bé, in realtà mi sono girata per non colpirlo, ma la mia cena riesce comunque a trovare un modo per raggiungere la sua gamba.
Lui semplicemente sospira, posandomi a terra contro la roccia più vicina e mi allunga una bottiglia d’acqua.
“Bevi. Lentamente”, mi ordina. Obbedisco e dopo poco minuti ogni sensazione di nausea e di vertigine sparisce, sostituita da una schiacciante spossatezza.
“Va bene”, dico, non avendo la forza di formare una frase completa.
Anche ora che è sporco della mia cena mi prende in braccio e mi porta attraverso le cave. Il perché non lo so. E non m’importa saperlo. La temperatura si è abbassata e lui è molto più caldo della fredda aria notturna. Mi aggrappo al suo collo per farmi più vicina al suo calore.
Ed è in questo momento che realizzo che non sta indossando una maglietta. Deve avermi bendato con quella.
Ugh.
Non sono stata così vulnerabile in tutta la mia vita. Ma, esattamente in questo momento, fra le braccia del ragazzo che mi ha appena aiutata ad uccidere un assassino di massa, mi sento al sicuro.
Mi addormento prima di raggiungere la fine delle cave.
Sono violentemente svegliata dall’urlo di una donna. “Clove!”, grida, dopo essersi ripresa da un iniziale stato di shock.
Apro gli occhi e vedo che siamo arrivati a casa mia. Come faceva Cato a sapere dove abito? Lo guardo, confusa, ma i suoi occhi sono fissi su mia madre. Seguo il suo sguardo e vedo che lei ci sta avvicinando velocemente.
“Che cosa è successo?”, chiede, la sua voce e i suoi occhi carichi di preoccupazione.
“Un incidente di allenamento”, risponde Cato mellifluamente, ponendo solo la giusta quantità di ansietà nella sua voce. Ma mia madre non se la beve. Lo osserva attentamente, anche se lui non può vedere il suo sguardo indagatore, dato che è intento nell’affidarmi alle braccia di mio padre senza importunarmi la gamba.
“E’ quasi mezzanotte”, replica lei. Cato non dice niente, facendo finta di essere preoccupato per me. Probabilmente pensano che io sia troppo stordita e che non abbia idea di quello che sta succedendo, quindi non mi tocca dire niente.
“Avrebbe dovuto essere a casa per le nove”, continua mamma, imperterrita.
“Abbiamo iniziato tardi”, dice lui vago. Che ha intenzione di fare? Mia madre non è stupida. Raccontarle una mezza-verità la porterà dritta alla verità completa.
Mi ucciderà se saprà cosa stavo facendo. Avevo elaborato diverse scuse da quando ho capito cosa volesse dire Cato con “più divertimento” questo pomeriggio, ma, visto che sono rimasta ferita, nessuna funzionerebbe, ora.
Se lui non s’inventa qualcosa alla svelta sono spacciata.
“Tardi? E’ quasi mezzanotte!”, urla, istericamente.
No, davvero, mamma? Mi pare che tu l’abbia già detto.
“Il centro di addestramento non è neanche aperto a quest’ora!”, continua. Strano. Non pensavo che lo sapesse.
Cato alza le spalle, “Ho delle conoscenze”. Almeno sta facendo sembrare che fossimo al Centro. Mamma lo guarda torva e ho l’impressione che non avrebbe mai smesso di farlo se papà, stranamente silenzioso,  non si fosse mosso, provocandomi un’intensa fitta di dolore. Gemo e l’espressione di mamma cambia immediatamente quando mi guarda.
Il suo sguardo si addolcisce e si rivolge di nuovo verso Cato.
“Grazie per averla riportata a casa al sicuro”, dice, sinceramente.
Lui le risponde con un mezzo sorriso che lei prende come un’accoglienza alle sue parole piena di rimorso. Com’è ingenua, la mia mamma. Io invece lo vedo per quello che è. Un debole tentativo di nascondere il suo divertimento che trova nell’ironia della sua frase.  Visto che, tecnicamente, è colpa sua se sono in queste condizioni.
Mamma ritorna a rivolgere la sua attenzione a me e io vedo Cato girarsi per andarsene. Voglio gridargli di fermarsi, per ringraziarlo. Ma sarebbe stupido, adesso e la mia gola è completamente secca, comunque.
La sua schiena che si allontana nel buio del Distretto Due è l’ultima cosa che vedo prima di ripiombare nell’oscurità.









N.d.A.
*"Andrai lontano,
volerai in alto,
non morirai mai.
Ce la farai se ci provi"


Scusate il ritardo!!! La scuola è una brutta bestia...
Spero che il capitolo vi piaccia e che mi farete sapere cosa ne pensate. Non mi convince molto. Ma vabbé, non ho intenzione di riscriverlo. Mancano ancora troppi capitoli e troppe cose da raccontare per potermi permetterei un lusso del genere.
Al più presto...
Slytherin :3

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo ***


THE RULER AND THE KILLER



"But I know I must play my part
And tears I must conceal”
[Birdy- Just a game]
 

 
Capitolo 8

E’ il secondo giorno da quando ho Cacciato con Cato e mamma sembra essersi completamente convinta della versione dei fatti che lui le ha dato: ci siamo allenati fino a tardi nel Centro di Addestramento ed io mi sono ferita durante un combattimento.
Ma questo è più dovuto al fatto che lei non vuole accettare la verità su cosa sono diventata.
Un’assassina.
 Ho ucciso meno di quarantotto ore fa. Non lo ammetterà mai a se stessa. La sua è beata ignoranza.
Io lo trovo abbastanza patetico, in realtà, ma se questo l’aiuta a dormire meglio la notte, ben venga. Ho bisogno che lei sia dalla mia parte, in questo momento.  Le mie ferite non guariranno da sole e medicare è una delle poche cose che mia madre sa fare, oltre preoccuparsi.
Siamo seduti attorno al tavolo per la cena, quando mio padre annuncia che ieri è stato ritrovato il cadavere di una guardia.
“Ieri?”, chiede mamma, sorpresa. “E come mai hai aspettato fino ad oggi per dircelo?”. Noto che mi sta lanciando occhiate con la coda dell’occhio, come per analizzare la mia espressione senza instaurare un contatto visivo vero e proprio.
“Vengono uccise guardie molto spesso, Caryn. Non è così fuori dall’ordinario. Quello che hanno trovato oggi era…”, si ferma, cercando le parole giuste per continuare il discorso. “Diverso”.
Il mio cuore sta battendo incredibilmente veloce. Come reagirebbero se si scoprisse di che cosa io e Cato siamo responsabili? Non ho alcun dubbio che papà già sospetti che siamo coinvolti nell’assassinio della guardia. Ma è ovvio che non si arrabbi, dopotutto.
 “Diverso?”, indaga mia madre, non volendo far morire il discorso.  Non capisco perché stia insistendo tanto. Deve aver capito cosa sta per seguire e sa anche che non le piacerà. Quindi, perché farsi del male?
“Hanno trovato Orsin-”
“L’ubriacone?”, lo interrompe mia madre. Probabilmente è l’unica che possa riferirsi a lui come “l’ubriacone” invece che con “il serial killer”. E’ così ingenua.
Papà annuisce. “Hanno trovato il suo cadavere oggi, nella vecchia parte delle cave”.
“Hanno fatto in fretta” mormoro sottovoce. Ma loro hanno smesso di parlare, cosa che io non avevo previsto.  Alzo lo sguardo dal mio piatto per vedere se hanno notato il mio commento.
Sì, l’hanno fatto.
Papà mi sta lanciando uno sguardo di totale disapprovazione.
Perché? Tanto lo sapeva già. Ed è stato lui a volere che io diventassi quello che sono ora. E’ stata una sua scelta, prima che mia.
Ma poi guardo il viso di mia madre e capisco. Lui sa in che modo questo la colpirà.
Mamma è completamente sotto shock. Mentre la guardo, non interrompendo il suo sguardo fisso, la sua espressione cambia in una di totale terrore.
“Clove” boccheggia. Io non dico niente. E cosa dovrei dire, comunque?
“Che cosa hai detto?”, m’incita mio padre.
“Mi hai sentito”, rispondo, mostrando un coraggio che, in questo momento, non mi appartiene.
 “Mi avete sentito entrambi”.
Mamma fa un verso che è a metà fra il soffocamento e un ansito.
 “Clove! Come facevi a saperlo?”
Quindi si è davvero illusa fino a questo punto? Ora è pateticamente ovvio.
Io c’ero. Io ho visto tutto. Ho ucciso io Orsin.
“Ero lì”, dico, un tono di sfida nella voce. Mamma non dice niente per un po’, rimane solo ferma a guardarmi.
“Cato l’ha ucciso?”, chiede con calma, ma riconosco una vena di isteria che si sta facendo strada nella sua voce, man mano che la sua coscienza è costretta ad avvicinarsi alla realtà dei fatti.
“No, mamma. Cato ha ucciso la guardia che hanno trovato ieri”, le dico. Non riesco a credere che sia veramente così…non so neanche come potrei definirla. Stupida? Ingenua?
Io ho ucciso Orsin”, continuo, fredda.
“Tu cosa?”. L’espressione sul suo viso è una strana combinazione di emozioni.
Incredulità.
 Delusione.
 Rabbia.
Tristezza.
Rassegnazione.
Dolore.
Così strana, da farmi preoccupare.
“Se non l’avessi fatto sarei morta. E’ lui quello che mi ha ferita”, dico, cercando di calmarla.
 Non voglio farla innervosire.
Domani tornerò a scuola e ho bisogno di dormire.
Ma, ovviamente, non ci riesco.
“Se non fossi stata la fuori a fargli un agguato non avresti avuto alcun bisogno di difenderti!”, urla.
Ma perché se la prende tanto? Ha sempre saputo che era quello lo scopo per cui mi sto allenando. Uccidere. Sarebbe dovuto accadere, prima o poi.
“Ma arrivata a quel punto che avrei dovuto fare? Girarmi e correre via?”, ribatto, infervorata.
“Si!”. Ha gli occhi fuori dalle orbite.
E’ sconvolta. Papà, invece, sembra totalmente calmo e osserva la scena in silenzio.
“No!”, insisto. “Non dopo che Cato ha tirato in ballo una sfida come quella! Non dopo che l’ho accettata! Non mi avrebbe mai più preso sul-”
“Una  sfida?”, strilla.
“Si, mamma! Una sfida”, dico, ostentando calma. “E’ quello che facciamo”, continuo. “Ci sfidiamo a vicenda. Competiamo per vedere chi di noi è il migliore. Per vedere chi di noi uscirebbe dall’arena vivo”. Assottiglio gli occhi, soffiandole in faccia ogni frase.
“Vogliamo la gloria e combattiamo per averla”.
Il suo viso è contorto dalla rabbia ma la sua voce viene fuori in un sussurro.
“Gloria? E’ questo tutto quello che ti importa?”.
Questa donna non ha veramente capito niente.
Niente di me.
 Niente della mia vita.
Niente di tutto quello che faccio. Né del perché lo faccio.
Come se avessi scelto io tutto questo!
Come se mi fosse piaciuto imparare a impugnare un coltello prima ancora che fossi in grado di capire veramente a cosa servisse.
Non è stato bello. Né glorificante. O divertente.
Ma fa parte di quello che sono, ora. E’ inscindibile e inevitabile.
Né vorrei cambiarlo.
Ma è veramente deprimente sapere che anche mia madre non l’abbia capito. Sono veramente così brava a fingere?
Non che ci sia molto di che stupirsi, in verità. Non ho fatto altro che mentire per tutta la vita. Ho anni di pratica dalla mia parte.
Ma il suo commento mi fa comunque arrabbiare, per quanto sappia che, in fondo, è normale che non mi conosca, o non mi capisca. L’ho sempre allontanata io. E’ colpa mia.
Ma io non posso tenere a nessuno, mi ricordo. Tutte debolezze.
Così, quando rispondo, la mia espressione è fredda, il mio sguardo impassibile.
“E’ tutto quello cui mi è permesso tenere”.
Mamma mi guarda un attimo, ferma, forse colpita da quello che ho detto. Ma non desiste.
“Due uomini sono morti per causa tua, Clove!”, sbotta. “Uno di loro aveva una famiglia! Una famiglia che adesso starà piangendo per lui! Della gente, là fuori, si sta disperando perché tu sentivi il bisogno di dimostrare il tuo valore ad un ragazzo che non esiterebbe ad ucciderti, se pensasse che questo gli porterebbe la gloria che tu pensi di agognare tanto!”
“Che penso di agognare?”, urlo. “Hai anche solo la minima idea di quanto mi costi tutto questo? Di quanto impegno ci metta?”.
“Certo che lo so!”, grida, istericamente. “E lo odio, Clove! Ti sta distruggendo! Ti ha distrutto! Non t’importa di nessuno se non di te stessa. Uccidi gente per sport. Non mi parli neanche, se non per combattermi”. Si ferma, raccogliendo i propri pensieri, o forse, le proprie forze per continuare.
 “Tu non sei più mia figlia”, dice infine. La sua voce è fredda, distante. Ma non è mai stata in grado di nascondere bene le proprie emozioni, non quanto me, almeno, e una lacrima solitaria sfugge comunque al suo controllo.
Io la guardo, impassibile. In un certo senso, io non sono mai stata sua figlia.
Lei si alza e fa per andarsene. Solo che non si dirige verso la loro camera.
Va verso la porta d’ingresso.
“Caryn!”, la chiama mio padre, balzando giù dalla sedia.  “Dove stai andando?”, le urla dietro ma lei non risponde. Né si ferma.
La porta sbatte dietro di lei.
Papà la rincorre. Li sento urlare, fuori di casa. Lui cerca di convincerla ad entrare, ma lei non lo farà. Non gli ubbidirà, non ora. Non più.
Mi alzo e mi allontano dal tavolo.
Voglio darle almeno la soddisfazione di aver avuto ragione, sul mio egoismo. Dovrei prendere il mio piatto e lavarlo, ma non lo farò.A me importa solo di me stessa, la scimmiotto nella mia testa. E poi, mio padre è perfettamente in grado i mettere a posto le cose da solo.
A ognuno il suo compito.
A me tocca già immolare la mia esistenza ai Giochi. E mi sembra più che abbastanza.
Non ha senso rimanere qui ad aspettarli. Se la sbrigheranno da soli, e so che non ci vorrà poco. Non sono i miei genitori a litigare, adesso: sono i principi di lei contro quelli di lui. Modi di pensare totalmente diversi.
Sono ancora totalmente esausta per la Caccia e dolorante per le ferite. Non so come potrò sostenere un’intera giornata a scuola, domani.
Mi addormento appena poggio la testa sul cuscino.
 
La grigia luce del mattino attraversa la mia finestra quando mi sveglio. Mi siedo e guardo distrattamente la mia stanza passandomi le dita attraverso i capelli aggrovigliati. Sposto le coperte e cammino verso il comò osservandomi nel vecchio specchio appeso alla parete. Prendo una spazzola e cerco di sciogliere i nodi lasciati dalla nottata.
Sono sorpresa nel sentire dei movimenti giungere dall’altra stanza.  Mamma deve essere ritornata durante la notte. Com’era ovvio che fosse, in realtà. Ci tiene troppo a noi.
Appoggio la spazzola e mi dirigo verso il tavolo della cucina, pronta a mangiare. Ma non è il viso gentile di mia madre ad accogliermi. E’ quello di mio padre.
Mi fermo appena lo vedo. Di solito se ne va prima dell’alba.
“Cosa-”, incomincio, con l’intenzione di chiedergli come mai sia ancora a casa, ma lui parla prima ancora che le parole possano uscire dalla mia bocca.
“Tua madre non è tornata”, sospira, versando delle uova e della pancetta in un piatto.
Osservo i suoi caldi occhi marroni mentre mi porge la mia colazione. Sembra preoccupato.
“Tornerà”, cerco di rassicurarlo, ma so da subito che non servirà a niente.
“Non ne sono così sicuro”, dice in un tono stranamente calmo mentre prende una sedia e si siede di fronte a me. Io non dico niente. Non sono sicura di voler continuare questa conversazione. E lui sta diventando troppo emotivo. Quindi, mi limito a mangiare.
“Pensava che fossi diverso”, prosegue, ignorando il mio silenzio, lo sguardo perso nel vuoto.
Io continuo a far finta di non sentirlo. Ma a lui non importa.
“E’ per quello che mi ha sposato, lo sai”. Io non ho alcuna idea riguardo a cosa si stia riferendo, ma annuisco lo stesso. Non voglio che senta il bisogno di aggiungere una spiegazione più dettagliata.
Mi guarda con fervore e, in qualche modo, capisco che non sta vedendo me. Sta vedendo mia madre. Le assomiglio praticamente in tutto, fisicamente. Tutto, eccezion fatta per gli occhi. Ho gli stessi determinati e forti occhi marroni di mio padre.
“Suo padre voleva che lei sposasse mio fratello, un vincitore. O,quanto minimo, un allenatore, un Favorito”, rimugina, appoggiandosi allo schienale della sedia.
Perché mi sta dicendo tutto questo? Perché ora?, penso.
“Ma lei gli odiava. Tutti loro. Non le sono mai piaciuti gli spargimenti di sangue”, aggiunge, guardandomi in modo significativo. Oh, bene, quindi è tutta colpa mia. Non ha importanza il fatto che lui mi abbia sempre incoraggiato ad allenarmifin da quando sono stata in grado di camminare.
“Pensava che sarebbe stata al sicuro con me”, continua, imperterrito. “Pensava che sarebbe potuta sfuggire alla freddezza della sua famiglia. Pensava che avrebbe potuto lasciarsi tutto alle spalle”.
La sua voce sta iniziando a spezzarsi e vedo una lacrima sfuggire ai suoi occhi e farsi strada sulla sua guancia. Mi muovo sulla sedia, a disagio, ma lui non ci fa caso.
I suoi occhi sono persi nel vuoto- in un ricordo, o il pensiero di un ricordo.
Non posso sopportare questa situazione più a lungo.
Lui dovrebbe essere quello forte e, se non riesce a controllarsi, sono costretta ad andarmene.
Mi alzo velocemente dal tavolo, facendolo trasalire.
Costretto a repentinamente dal suo sogno ad occhi aperti, mi guarda con una strana tristezza dipinta in volto, mentre io posiziono il piatto nel lavandino.
Evito di incontrare il suo sguardo quando ritorno nella mia camera per prendere il mio zaino.
Ma non riesco comunque ad evitarlo nell’uscire dalla mia stanza. E’ in piedi nel corridoio, proprio davanti alla mia porta, bloccandomi il passaggio.
“Papà”, dico con calma. “Devo andare”.
Lui continua a non muoversi. Si limita a guardarmi con quegli occhi tristi.
 “Oggi ho scuola”, insisto. Non voglio che le sue emozioni si riversino anche su di me e mi coinvolgano.
 Lui m’imprigiona in un forte abbraccio. Non lo respingo, ma non lo ricambio neanche. Mi rifiuto di rimanere strangolata dalla stessa tristezza che lo lascia così senza parole adesso.
Quando finalmente mi lascia, lo supero velocemente ed esco, grata della fresca aria di settembre che mi accarezza il viso.
Tutti i pensieri sulla fuga di mia madre sono dimenticati mentre mi faccio strada verso la scuola, situata nella zona ovest del Distretto 2.
 
Sono seduta in classe, nel bel mezzo di una paternale durante trigonometria quando arrivano.
Sono in due, entrambi con indosso le uniformi bianche tipiche dei Pacificatori.
“Clove Kentwell?”, chiama il più alto dei due. Le teste di tutti si voltano verso di me ed io sono improvvisamente paralizzata dalla paura.
Mi hanno scoperta? Mia madre ha denunciato il mio crimine? Sono qui per arrestarmi?, penso nervosamente.
I miei muscoli s’induriscono e mi preparo a scappare dalla prima finestra alla mia sinistra.
Ma la parte razionale del mio cervello è, fortunatamente, ancora attiva  mi rendo conto che non hanno ancora fatto alcuna mossa verso di me, anche se ormai è palese che sono la persona che stanno cercando. Quindi, decido che, per il momento, sono al sicuro. Se poi verrà, invece, confermato il peggiore dei miei sospetti, e quindi sono veramente qui per l’omicidio di Orsin, troverò il modo per scappare.
 In qualche maniera.
Mi alzo lentamente e, con movimenti calcolati, afferro la mia borsa e mi dirigo verso i due Pacificatori.
“Posso aiutarvi?”, chiedo.
“Seguici, per favore”, è l’unica risposta che ottengo.
Potrei semplicemente limitarmi a seguirli ma non sono soddisfatta della loro replica.
“Perché? E’ successo qualcosa?”, insisto, nella maniera più calma possibile, impuntandomi nel punto esatto in cui mi trovo, un po’ della mia spavalderia che torna a galla.
Il Pacificatore più alto, l’unico che ha parlato, finora, mi fulmina con lo sguardo. Ma l’espressione dell’altro si addolcisce.
“C’è stato un incidente. Tua…em…”. Un incidente? Miacosa? Perché non termina la frase?, penso, nervosa.
Non mi piace la sua espressione. Riesco a riconoscere la pietà da chilometri di distanza, ed è decisamente l’unica emozione che riesco a vedere sul volto dell’uomo.
Il primo Pacificatore, invece, sembra solo infastidito e risponde bruscamente.
“Tua madre, Caryn, è stata trovata morta un’ora fa”.
 
Tutto sembra andare al rallentatore, ora. Riesco ancora a sentire l’urlo di sorpresa della mia insegnante rimbombarmi nelle orecchie, anche se abbiamo lasciato la scuola più i un quarto d’ora fa.
Seguo i Pacificatori in silenzio, verso il luogo in cui dicono si trovi mia madre. Morta.
Non si muoverà mai più.
Non parlerà mai più.
Forse è per questo che tutto sembra essere così lento, adesso, come se tutto questo fosse solo un sogno. Forse, è perché mi sto muovendo alla sua stessa velocità.
Non dovrei sentirmi male, adesso? Non dovrei avere il cuore pesante o un groppo in gola?
Non dovrei combattere con le lacrime? Il mondo non dovrebbe sembrarmi sbagliato e troppo felice in un giorno così triste?
Mi sembra tutto così normale. Mi sento normale.
Nessuna lacrima sta lottando per sfuggire ai miei occhi, o per dimostrare dolore. Non ho nessun nodo allo stomaco. Nessun peso sul petto.
C’è solo vuoto.
Non penso di aver mai voluto bene a mia madre, ma faceva parte della mia vita. E mi mancherà, come mi è sempre mancata ogni cosa che mi è stata sottratta all’improvviso.
E’ sempre stata mamma prepararmi colazione e cena.
E’ sempre stata mamma a preoccuparsi che i miei vestiti e le mie lenzuola fossero sempre freschi e puliti, anche se viviamo in una relativa povertà.
E’ sempre stata mamma a curarmi ogni ferita, anche se farlo significava sentire e sopportare i miei insulti ogni secondo durante l’intero processo.
E’ ora non c’è più. Così.
Siamo arrivati. So che l’abbiamo raggiunta perché vedo una piccola folla radunata attorno ad un singolo punto- il corpo di mia madre.
Non riesco ancora a vederla ma so che deve essere là, al centro di quel caos.
I Pacificatori che mi hanno scortato da scuola fanno pressione sulla fossa, per farla arretrare, per dare modo a un pubblico ufficiale di esaminare il suo cadavere.
Non riesco a crederci. Tutto questo non può essere vero.
L’ispettore, comunque, non ha molto tempo per lavorare in pace, perché mio padre arriva dopo poco.
Un forte urlo di pura disperazione manda in frantumi il silenzio della mattinata, quando lui la vede giacere a terra, senza vita. Inizia a correre verso di lei, come se semplicemente non riuscisse a credere a quello che gli hanno detto i Pacificatori. Ma, a dire il vero, anch’io faccio fatica a crederci.
Mio padre si getta vicino al corpo di mamma e lo abbraccia. Non ho mai visto un’espressione così carica di dolore, sofferenza e rimorso. Le lacrime gli scorrono velocemente sul viso mentre lui la stringe forte, per l’ultima volta.
La tiene fra le sue braccia come se volesse proteggerla da qualcosa, come se servisse a farla tornare indietro, a farla respirare di nuovo. La culla, sussurrandole cose all’orecchio, come se lei fosse ancora in grado di sentire i suoi “per favore”, le sue promesse, le sue scuse.
Io osservo tutto attonita, rimanendo lontana. Non m’intrometterò negli ultimi momenti di mio padre con la donna che ama.
Che amava.
L’ispettore, intanto, che ha un lavoro da svolgere, parla con i Pacificatori, ignorando l’uomo piangente ai suoi piedi. Scambiano qualche parola, poi i Pacificatori annuiscono e iniziano ad andarsene.
L’agente si volta e si schiarisce la gola, nel tentativo di attirare l’attenzione di mio padre. Dopo qualche momento, lui finalmente lo guarda.
“Non è stata uccisa”, dice, rigidamente. “Questo dovrebbe farle piacere”. Ma allora…?
E poi capisco. C’è una piccola pietra dentellata a pochi centimetri di distanza dal punto in cui mio padre tiene stretto il corpo di mamma. E’ coperta di sangue. Così come lo spazio circostante.
Scommetto che ci sia una larga ferita, sul suo polso.
“E’ stato un suicidio”, afferma l’ispettore, la sua voce priva di qualsiasi emozione. Il suo viso non mostra alcuna compassione. Ed io mi sento improvvisamente furiosa.
Come può essere così freddo? Così crudele? Mio padre è angosciato e pieno di dolore come mai l’ho visto e questo folle uomo si aspetta che la notizia che mia madre sia morta di sua spontanea volontà lo calmi?
Il sangue mi si scalda nelle vene e il mio viso si contorce dalla rabbia.
Impugno un coltello e inizio a correre verso l’agente. Lui urla di paura ed io vedo con la coda dell’occhio i Pacificatori girarsi verso di noi. Iniziano a correre verso di me. Ma è troppo tardi. C’è solo qualche metro a separarmi dal disgustoso uomo davanti a me.  Alzo la mia lama, preparandomi a pugnalarlo, mentre furia cruda e adrenalina mi attraversano completamente.
E’ in questo momento che cado. La mia gamba destra, ancora debole per la ferita, cede. Il taglio si riapre e il sangue mi macchia i pantaloni. Cerco di alzarmi, ma sono troppo stordita dalla confusione di emozioni e dal dolore per pensare, quindi cado di nuovo.
Quando riesco e rimettermi in piedi, l’ispettore è ormai troppo distante da me, al contrario dei Pacificatori, che mi sovrastano. Uno di loro mi afferra un braccio e vedo comparire un oggetto di metallo nella mano dell’altro. Un oggetto molto simile ad un manganello.
Mio padre riesce a riprendersi quanto basta per correre in mio aiuto.
“Lasciatemi andare!”, urlo. Non ho fatto niente di male. Non ancora, almeno.
Voglio solo andare a casa. Allontanarmi da qui. Voglio solo dimenticarmi il viso senza espressioni e senza vita di mia madre. Voglio recuperare la forza che ora mia ha abbandonato completamente. Voglio cancellare le lacrime che mi stanno offuscando la vista.
“Lasciatela!”, urla mio padre. I Pacificatori, ovviamente, non lo ascoltano, e il secondo dei due continua ad avanzare verso di me che, armato. Mio padre lo colpisce pesantemente sulla mascella e il Pacificatore che mi tiene ferma mi lascia per aiutare il suo collega, chiaramente pensando che mio padre sia il più grosso problema fra di noi, ora.
Mi giro verso l’unica persona rimasta: mia madre. E’ stesa in una pozza di sangue.
Prima ancora di sapere cosa sto facendo, mi ritrovo in ginocchio vicino a lei.
Spesso si dice che le persone sembrano in pace, quando non sono più in vita, ma nemmeno la morte sembra aver cancellato il dolore dai suoi occhi, o l’espressione preoccupata sul suo viso.
Non c’è nessuna pace, sul suo volto. E lo odio. Lei la merita, la pace.
Mentre sposto una ciocca ribelle dal suo viso, mi rendo conto che, dopotutto, le volevo bene. Le volevo bene sul serio. Nonostante tutti i suoi difetti e quanto la trovassi debole, le ho voluto bene.
Era mia madre e m’importava di lei, anche se non me ne sono mai resa conto. Le sue debolezze la rendevano gentile e dolce e so che mi mancheranno le sue carezze affettuose, che professavo di odiare tanto.
Sento qualcosa dentro di me spezzarsi e capisco che sto per incominciare a piangere.
No! Non posso piangere! Non piangerò.
Ho lottato troppo per cedere proprio adesso. Scatto in piedi velocemente, il che si rivela un errore. Sono in preda alle vertigini, e per poco non cado di nuovo.
Appena mi ristabilisco sui miei piedi corro via da quest’orribile scena.
Mio padre sta ancora combattendo con i due Pacificatori, così corro nella direzione opposta.
Non ho alcuna idea su dove io stia andando.
Devo solo andarmene da qui.
Non posso lasciare cadere nessuna lacrima.
Ma non riesco comunque ad allontanarmi di molto che qualcuno mi ferma. Tiro con uno strattone il mio braccio, nel tentativo di liberarmi.
Se è un Pacificatore, probabilmente lo ucciderò. Non voglio avere niente a che fare con le loro tediose procedure, non ora. E non voglio neanche vedere mio padre.
Nel profondo, so che è tutta colpa mia e non posso affrontarlo adesso.
Continuo lottare per liberarmi ma, chiunque sia, non mi lascia andare. Mi giro e gli tiro una ginocchiata.
Vedo uno sprazzo di capelli biondi mentre lui cade sulle sue ginocchia, ma continua a non mollare la presa.
Perché non mi lascia andare? Ho bisogno di andarmene. Ho bisogno di scappare.
Alzo di nuovo il coltello, ma lui risponde immediatamente. Mi ritrovo a terra vicino a lui.
Poi, improvvisamente, è di nuovo in piedi e mi tira su con lui. Io urla dalla sorpresa. Cerco di accoltellarlo, ma prima di mettere a segno il mio colpo, il coltello mi vola di mano e lui mi sta costringendomi contro il suo petto. Continuo a dibattermi, picchiandolo per quanto mi è possibile in questa posizione.
Ma i miei colpi non hanno alcun effetto. Mi sta stringendo con le sue forti braccia e non vedo come potrei liberarmi.
Urlo di frustrazione e alzo il viso per fronteggiare il mio opponente. Due occhi azzurro-grigi ricambiano il mio sguardo. Le sue sopracciglia sono corrugate per la concentrazione e i suoi capelli cadono disordinatamente sul suo volto.
“Cato”, dico, gli occhi spalancati dalla sorpresa. Da dove viene? Che cosa ci fa qui?
Il suo sguardo si addolcisce quando capisce che mi sono calmata.
“Ehilà, Clover”, mormora. Non riesco a dire niente. Ora che la rabbia è scomparsa non riesco a sentire altro che il vuoto lasciato dalla perdita di mia madre. L’unica donna che era rimasta nella mia vita.
So che se parlassi, perderei tutto il controllo sulla mia voce.
Quindi mi limito a fissare i suoi nebbiosi occhi blu.
“Non sei in grande forma”, dice in un tono basso, mettendomi un ciuffo ribello dietro l’orecchio.  So che sta cercando di alleggerirmi l’umore, mi sta sorridendo con il suo solito ghigno. Ma i suoi occhi lo tradiscono. Sono gentili, pieni di preoccupazione.
Capisco improvvisamente che anche solo guardarlo mi farà cedere, così faccio l’unica cosa che riesco a pensare. Affondo il viso nel suo petto, per nascondermi. Lui alleggerisce la presa e mi abbraccia, cullandomi.
Questo gesto mi conforta, mi fa sentire al sicuro, ma fa anche sì che le mie emozioni prendano il controllo. Devo combattere come non mai per costringere le lacrime a rimanere al loro posto.
Cato inizia ad accarezzarmi la schiena, con fare rassicurante, ed è allora che mi rendo conto che sono scossa da piccoli e silenziosi singhiozzi. Sto anche continuando a perdere sangue, il che mi rende più difficile mantenere un ordine nella mia testa.
Ci vuole tutto il mio autocontrollo per impedirmi di sospirare di sollievo quando Cato mi prende in braccio. Non so dove mi stia portando e sono sorpresa di capire che non ha importanza. Fino a che mi sento al sicuro, non m’interessa. Lui non lascerà che i Pacificatori mi portino via. Non lascerà che nessuno mi faccia del male. E non mi lascerà tornare da mio padre e dal dolore che mi aspetta a casa. Non subito, almeno. Per ora, mi terrà al sicuro da me e dalle mie emozioni.
Da quando ho cominciato a fidarmi così tanto di lui?
L’uragano di sentimenti, la perdita di sangue e il caldo della giornata formano una terribile combinazione che,a un certo punto, mi portano all’incoscienza.
 E, per la seconda volta in una settimana, mi addormento fra le braccia di Cato, troppo esausta per darvi peso.
Per la seconda volta in una settimana, mi addormento guardandolo fisso negli occhi, troppo confusa per capire perché si scomodi tanto.
E, per la seconda volta in tutta la mia vita, so di essere completamente al sicuro fino a che rimarrò esattamente dove mi trovo.
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.
“Ma so che devo recitare la mia parte
E che devo mascherare le mie lacrime”
 
Vi prego, vi scongiuro perdonatemi! Mi sento così terribilmente in colpa. Sono in ritardo di secoli. La scuola sa essere molto letale.
Dunque, tornando alla storia, non so, questo capitolo proprio… bah. Mi  più facile raccontare combattimenti che i pensieri di quella scalmanata lì. Comunque, a parte gli scherzi, mi sento veramente molto in colpa per quello che ho fatto a quella poverina di Caryn. Sul serio. Ho appena assassinato un personaggio. E l’ho fatta anche soffrire! Sono una persona cattiva, oh si.
Volevo approfondire un po’ la mentalità di Clove e ho sfruttato l’occasione per descrivere anche- superficialmente- la politica adoperata nei Distretti (l’uso della violenza senza remore, i manganelli…).
Non credo di esserci riuscita, però.
Voi, mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!
E, a proposito,grazie mille a tutti quelli che hanno recensito! Siete dei tesori.
Veramente, se non fosse per il vostro sostegno, non credo che continuerei. Vi sono veramente grata.

Spero che vi sia piaciuto :)
Con affetto,
Slytherin_

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Capitolo 9
*** Capitolo Nono ***


THE RULER AND THE KILLER


 
“Our machines feed the furnace 
If they take us they will burn us.
Will you still know who you are 
When you come to who you are? 
When the flames have their season 
Will you hold to your reason ?
Loaded down with your talons,
Can you still keep your balance ?
Can you live on a knife-edge?”
[Knife edge- Emerson, Lake and Palmer]*

 

Capitolo 9 

 

Cato P.O.V.

Clove si è addormentata quasi subito quando incomincio a camminare.
Mi sono sentito così sollevato quando ha smesso di ostacolarmi. Aveva un ché di isterico in sé, nel suo comportamento, che in qualche modo mi ha spaventato. Mi ha fatto paura.
Lei non perde mai il controllo. Mai. Qualunque cosa succeda.
Non l’ha perso quando ci siamo quasi uccisi a vicenda, né lo perde ogni volta che Hugo la critica ingiustamente o quando le ho fatto vincere quell’incontro di scherma …
Almeno, non in quel modo.
Non l’avevo mai vista così tanto in preda a un’emozione che non fosse rabbia.
La rabbia. La collera. L’ira. Il furore. L’indifferenza.
Sono tutti sentimenti che le appartengono, che ci si aspetta di vederle addosso. Che lei porta con disinvoltura, se non con orgoglio. Perché è questo ciò che Clove vuole che la gente ricordi quando pensa a lei.  E’ quella l’immagine che lei vuole di se stessa: di una persona sicura, senza debolezze, rigorosa, forte, autosufficiente.  E devo dire che ci è riuscita egregiamente. Non esiste ragazza all’accademia che non la invidi, o non la tema. Sono poche quelle che hanno il fegato di lanciarle occhiate di risentimento, quando la incrociano nei corridoi, alle quali lei, ovviamente, risponde con pura indifferenza, o con un sorriso sarcastico, quando è particolarmente felice. I ragazzi non ci fanno molto caso per il semplice motivo che non sono posti a diretto confronto con lei … al contrario di me, che passo almeno tre ore al giorno ad allenarmi con lei.
Ma oggi… era così tanto fuori di sé, fuori dal suo personaggio.
Quello che l’ha invasa, che la pervadeva e l’animava poteva essere chiamato solo dolore.
Non credevo neanche che fosse in grado di provare qualcosa del genere, figurarsi nei confronti della morte di sua madre. Madre che sembrava odiare e disprezzare con tutta se stessa. Mi confonde abbastanza il modo in cui ha reagito. Forse è per via di suo padre.
Chissà quant’altro nasconde dentro di sé?
Sento un moto di stizza attraversarmi dalla testa ai piedi. Non è questo quello di cui mi dovrei preoccupare. Anzi, non dovrei affatto preoccuparmi di Clove o di quello che le passa per la testa. Lei è un ostacolo. No. Lei è il nemico. Del nostro anno siamo noi i più bravi, quindi noi saremo scelti come volontari. E solo uno può vincere i Giochi.
E quello sarò io.
Non posso permettermi di cadere nella mia stessa trappola.
Devo concentrarmi.
Ora l’importante è garantirmi la sua fiducia.
Mi giro per osservarle il viso. I suoi lineamenti non sono sereni neanche ora che è immersa nel sonno.
Probabilmente, si sveglierà da un momento all’altro.
Con un’ondata d’ansia, mi rendo conto che, una volta sveglia, vorrà delle spiegazioni. Vorrà sapere perché sono qui con lei invece che a scuola, dove dovrei essere.
Ed io non so come rispondere. Sento l’agitazione invadermi.
Sono stato così distratto dalle mie congetture da non pensare neanche alla mia meta. In qualche modo, comunque, mi sono fatto lentamente strada verso il piccolo fiume che attraversa il lato ovest del Distretto 2. Evidentemente, i miei piedi devono avere un cervello tutto loro, perché questo è veramente un posto perfetto.  E’ tranquillo, qui: non viene mai quasi nessuno.
 Non di giorno, almeno. Questa è una delle mete preferite dei Favoriti per le Cacce Notturne.
Ma ora è completamente sicuro: non sembra esserci nessuno, oltre noi due.
Di fianco a fiume, nel versante in cui ci troviamo io e Clove, c’è solo una grande quercia solitaria, circondata da erba e arbusti. A circa una cinquantina di metri dall’altra sponda, invece, nasce un boschetto che si estende per qualche chilometro in quella direzione.
Mi avvicino alla quercia e, il più delicatamente possibile, poso Clove alla sua ombra. La vedo agitarsi, le sopracciglia corrugate, la bocca semi-chiusa e capisco che è sveglia. Si sta semplicemente rifiutando di affrontare di già il mondo esterno.
Si rannicchia su un fianco, dandomi le spalle.
Io mi volto verso l’acqua, a osservare il suo inesorabile corso. Spazza via qualsiasi cosa lo intralci, senza mostrare alcuna pietà.
Probabilmente, è così che mi vedono gli altri, nel Distretto Due.
Forte. Determinato. Letale. Impietoso.
Ognuno dei ragazzi cerca di essere dalla mia parte in una lite –o in un combattimento- sapendo che  fronteggiarmi significa sconfitta certa. Le ragazze mi adulano, ma sono sempre timorose e timide se rivolgo loro una qualsiasi attenzione. Tutte.
Con un’evidente eccezione.
Ovviamente, non ha veramente importanza cosa pensi di me la gente nel Distretto. Sono le persone di Capitol City quelle che devo impressionare. Quello che ho bisogno di impressionare. Il Distretto Due è solo una pratica, come la prova generale prima dello spettacolo vero e proprio.
 E, in realtà, è tutto solo uno spettacolo. Non che i tributi che muoiono ogni anno la pensino esattamente così, penso con sarcasmo.
Comunque, questaprova generale è andata molto bene, finora. Il mio ingresso nell’arena è in pratica garantito. Considerando anche il fatto che la mia (quasi) sicura compagna di Distretto sta lentamente abbassando la guardia –tanto da farsi trasportare addormentata in giro per il Distretto- e inconsciamente diventando sempre più fiduciosa nei miei confronti, la mia vittoria è quasi certa. A meno che gli Strateghi non prendano in simpatia qualcun altro. Ma non vedo perché dovrebbero farlo; sono tutto quello è un perfetto Favorito dovrebbe essere. E la gente ama i Favoriti.
L’unico che potrebbe ostacolarmi sono io stesso.
 Dovrò fare molta attenzione a non perdere tutta la mia risoluzione, nell’Arena.
Sono determinato a dimostrare a mio padre che si sbaglia sul mio conto. Che non sono un buono a nulla. Che valgo la pena di essere considerato e non solo. Che valgo la pena di essere temuto.
Ritorno a concentrarmi sul fiume e, mio malgrado, non riesco a fare a meno di pensare che a me, invece,il suo corso e la sua potenza fa venire in mente qualcun altro.
Qualcuno che adesso è disteso a pochi metri da me.
Qualcuno che non ha mai mostrato segni di debolezza, prima d’oggi.
Sento un movimento e mi giro verso di Clove, la sua ovvia fonte. Si è raddrizzata e si sta guardando lentamente attorno, le palpebre ancora semichiuse e stanche, un’espressione vuota dipinta in volto. Quando i suoi occhi incontrano i miei, regge il mio sguardo, senza dire niente. Forse si sta chiedendo perché l’ho portata qui. O forse non mi sta vedendo veramente. Magari sta ancora cercando di decidere se questo sia un sogno o meno.
Qualunque sia la risposta, a un certo punto si stanca di interrogarsi. Sposta il suo sguardo, avvicina le ginocchia al petto e guarda con aria assente l’acqua.
Io vorrei seguire il suo esempio e tornare a osservare anch’io il fiume, che sento scrosciare vigorosamente alla mia sinistra, ma non posso distogliere lo sguardo dalla sua immobile figura.
L’unico pensiero che riesco a formulare è che, per quanto appaia evidentemente ferita e sconvolta, non ha versato nemmeno una lacrima. Non una.
E non posso fare altro che sentirmi ammirato, di provare rispetto nei suoi confronti. Il suo è un grande atto di forza, di coraggio.
Rimaniamo così fermi, in silenzio, fino a ché non è lei stessa a romperlo.
“Che ore sono?”, chiede, con voce debole, schiarendosi la gola e senza neanche degnarsi di guardarmi in faccia.
Io scuoto la testa, per schiarirmi i pensieri, e guardo in alto, verso il sole, giacché non ho con me un orologio. “Poco dopo le tredici, penso”, rispondo.
Lei annuisce, ma non aggiunge niente in risposta. Continua semplicemente a fissare l’acqua. Il suo viso è ritornato alla solita, fredda espressione calcolatrice che non sembra mai abbandonarla.
Di nuovo, rimango stupito dalla sua forza di volontà, visto che è solo quello che può continuare a spingerla e sorreggerla, a questo punto. L’ho sottovalutata veramente tanto, all’inizio.
Sorrido al ricordo del nostro primo incontro ufficiale. Ma non permetto alle mie labbra di rimanere piegate in su per molto. Lei non è l’unica che deve rimanere nella parte.
Siamo due bravissimi attori, penso.
La lascio stare tranquilla per un po’, ma poi inizio a spazientirmi. Non sono mai stato il tipo che riesce a stare senza far niente. Così mi alzo e inizio a lanciare sassi nell’acqua. E’ in qualche modo affascinante vedere come la corrente riesce a far spostare e a travolgere anche le pietre.
Ma, nonostante questo, dopo qualche minuto, mi annoio anche di questo nuovo passatempo e sono sempre più frustrato dall’accanito silenzio di Clove.
Voglio dire, è veramente così tanto sconvolta da non avere neanche la forza di chiedermi perché io sia qui con lei? Insomma, ora dovrei essere a scuola e lei deve saperlo. Il minimo che potrebbe fare sarebbe lanciarmi un’occhiata inquisitoria per chiedermi spiegazioni per la mia improvvisa comparsa sulla scena della morte di sua madre.
E, in realtà, è proprio quello che sta facendo. Quando mi giro a guardarla, i suoi occhi non sono più fissi sul fiume, ma su di me.
Se non altro è un miglioramento.
Così, mi avvicino alla grande quercia e mi siedo così vicino a Clove che i nostri gomiti si toccano. Lei non reagisce minimamente alla vicinanza e mantiene la sua dritta e rigida posizione, mentre io mi sistemo per stare più comodo.
Sbuffo e inizio a parlare.
“I Pacificatori sono venuti prima nella nostra classe. A quanto pare hanno ricevuto informazioni sbagliate”. Clove rimane impassibile e ritorna a guardare il fiume.
Io continuo.
“Quando hanno chiesto di te ho avuto paura che loro avessero scoperto, in qualche modo, di Orsin, quindi non ho detto niente. Ma tutti quanti sapevano che mi alleno con te e quindi hanno incominciato a fissarmi. Seguiti, ovviamente, dai Pacificatori”. Faccio una pausa per scrutare la sua espressione, ma è rimasta impassibile. Così, proseguo. “Ho detto loro la tua classe. Quando ti ho vista, dalla finestra, andartene con loro ho deciso di seguirti, per assicurarmi che non ti stessero arrestando”.
“E ti hanno semplicemente lasciato uscire dalla classe?”, chiede lei scettica. Non posso impedirmi di sospirare di sollievo nel sentirla parlare.
“Ho detto loro che dovevo andare in bagno”, rispondo, sorridendo.
Per la prima volta in vita mia, sento Clove ridere di divertimento. Non è una grande risata, solo poco più di un respiro, ma lo era. Smetto di fissare il fiume per tornare guardarla e sono sorpreso di vedere qualcosa che assomiglia a un sorriso, sul suo volto. Non sembra felice, ma non appare neanche fredda e calcolatrice come al suo solito.
“Sei così stupido”, rimarca, casualmente.
Io ghigno d’accordo, ma anche per soddisfazione. Soddisfazione perché, mi rendo conto, non riesce a distogliere lo sguardo da me. L’ho incatenata con lo sguardo.  Così non dico niente, e mi concentro solo nel non interrompere questo momento di potere, i suoi caldi occhi cioccolato fissi nei miei.
E anche perché, devo ammetterlo quest’attimo di pace fra noi mi fa stare bene.
Rimaniamo fermi così per un po’, fino a che non mi viene in mente.
 Questa potrebbe essere l’occasione giusta per vincerla totalmente. Potrei farlo con una singola, piccola mossa. Lei sarebbe completamente legata a me ed io avrei non solo un alleato letale e spietato di sicuro nell’Arena. Sarebbe un alleato fedele e affezionato a me. Ora lei è vulnerabile come mai prima d’ora.
Sua madre è appena morta e suo padre è distrutto. L’unica persona che le rimane sono io.
Gentilmente, le sposto una ciocca di capelli sfuggitale alla coda dietro l’orecchio. Con mia grande sorpresa, questo sembra non turbarla più di tanto. Le sue sopracciglia s’inarcano, ma ritornano subito al loro posto appena poso la mano per terra.
Lei continua a guardarmi, più all’erta di prima, ed è così che capisco che è o adesso o mai più.
Così, senza ulteriori esitazioni, accorcio la distanza fra di noi.
 

Clove P.O.V.

 
Mi ritrovo incantata nel suo sguardo. Non riesco a smettere di guardare i suoi tempestosi occhi grigio-blu. E’ come se fossero ipnotizzanti. Dovrei essere incredibilmente frustata e arrabbiata con me per questo, ma, a quanto pare, non riesco a pensare lucidamente al momento.
Ogni cosa, ora, è solo una macchia indistinta di emozioni. Emozioni con le quali non sono solita confrontarmi ma che oggi richiedono la mia attenzione.  Non sono abituata a lasciare che sentimenti diversi da rabbia o rancore comandino le mie azioni, quindi non ho alcuna idea di quello che mi stia passando per la testa.
Sono contenta che Cato sia qui. La sua presenza mi trattiene dal fare cose stupide. Tipo piangere.
Non importa che sia successo quello che è successo o che sia stata tutta colpa mia.
Non ho intenzione di piangere. Me lo sono ripromessa tempo fà e lo farò.
Ma, d’altronde, mamma non si è suicidata proprio perché sono un’insensibile egoista? Sarebbe ingiusto contraddirla a questo punto, penso, con rammarico.
Perché, infondo, io sono veramente addolorata, mio malgrado, che sia morta pensando di me in quei termini. Sebbene non ne capisca il motivo. Alla fine, non è esattamente questa l’idea di me che sto lottando per ottenere? Perché allora è questo il pensiero che mi tormenta, ora? Anche più del senso di colpa? Più dell’apprensione per mio padre?
Non siamo mai state in buoni rapporti, io e la mamma. Non dai miei quattro anni in poi, almeno. Da allora sono iniziate le liti, sebbene all’epoca fossero meno intense. Aveva ancora un certo potere su di me, allora.
Non sono in grado di darmi una risposta –anche se molto probabilmente la conosco e, solo, non voglio affrontarla- quindi smetto di arrovellarmi e riconcentro tutta la mia attenzione su di Cato.
Devo distrarmi, finché posso.
Lui, improvvisamente, mi sposta una ciocca ribelle di capelli dalla faccia e me la ripone gentilmente dietro l’orecchio. Il suo viso è troppo vicino perché io mi possa rilassare. E, anche se sono troppo esausta per essere combattiva al momento, questo gesto è così strano da farmi mettere in guardia.
Ma sono stanca. Non ho dormito quasi per niente questa notte, senza menzionare la mia gamba, che sta ancora sanguinando.
Continuo a guardarlo. La sua espressione si fa strana. Intensa.
Lo vedo iniziare a muoversi verso di me e sono bloccata dallo stupore.
Pensa veramente…
Ma poi le sue labbra si premono contro le mie. Il loro calore mi fa ribollire il sangue.
Solo, non di passione- di rabbia. Libero le mie mani dal loro precedente compito di tenermi le ginocchia vicino al petto per spingerlo via, ma appena si rende conto del mio movimento, mi avvolge con un braccio, forzandomi nel suo bacio.
Io continuo a combatterlo, affondando le mani nel suo petto per spingerlo via con tutta la forza possibile. Ma non funziona. Lui ride sommessamente e mi stringe anche con l’altro braccio.
Come può essere così stupido? Pensa veramente che mi arrenderò?
Questo pensiero mi manda in bestia. Prendendo il controllo della situazione, mordo il labbro di Cato, con forza.  Sento immediatamente il sapore del sangue invadermi la bocca.
“Maledizione, Clove!”, ringhia lui, allontanandosi.
Questo è tutto il tempo di cui ho bisogno. Velocemente, lo spingo via. Lui cade a terra ed io sono sopra di lui subito dopo, nonostante la ferita alla gamba o la stanchezza, un coltello premuto contro la sua gola. L’indignazione sta funzionando anche meglio dell’adrenalina, ora.
 Lui sembra totalmente stupito. Di sicuro non si aspettava una mossa del genere, o che avessi la forza di farla. Mi guarda, pieno di stupore, un rivoletto di sangue gli scende dal labbro.
Come hai osato…”, inizio a urlargli contro.
“Clove…”, incomincia lui con fare rassicurante ma io lo fermo, facendo più pressione con il manico del coltello sulla sua gola. Mi rifiuto di essere calmata.
“NO!”, urlo. “Vai ad approfittarti di quelle deficienti che si siedono al tuo tavolo ogni giorno! Io non sono un tuo giocattolo.”
“Ma io non voglio loro”, mi urla lui di rimando.
“Bé, loro vogliono te, per cui c’è più possibilità che tu abbia loro invece di me”. Sono intenzionata a farmi valere. Ora non si tratta di chi è più forte di chi, o di una stupida sfida. Lui non si deve azzardare neanche a pensare che io sia così stupida da lasciare che si approfitti di me. O che io ne sia contenta. Non deve permettersi di calpestare il mio orgoglio.
“Non m’importa di loro, Clove”, continua lui.
Importare, Cato?”, ribatto. “Da quando di importa di qualcuno?  T’importa solo di te stesso. Te. E questo è tutto. Così come per il resto di noi. Devi sopravvivere e, per farlo, usi la gente. Sono anch’io un Favorito, Cato. Non provare neanche a pensare che io sia così stupida da crederci”. Le mie guancie sono bollenti dalla rabbia.
“Non provare più a mentirmi. Mai”. Mi alzo, dandogli le spalle. Sento una dolorosa fitta alla gamba, nel farlo, ma non ho alcuna intenzione di farglielo capire.
Faccio per andarmene, ma lui mi afferra a mi costringe a girarmi verso di lui.
E’ furioso. Ha gli occhi fuori dalle orbite, il viso arrossato e i capelli scompigliati, così come il rivoletto di sangue, non fanno altro che aggiungere al suo aspetto un ché di bestiale.
Mi sta stringendo i polsi in una morsa d’acciaio.
“Dovresti calmarti, Clover”, mi ringhia contro in poco più che un sussurro. Io mi ribello alla sua stretta, per quanto mi è possibile. Non ho paura di lui. Voglio solo tornare a casa. Sono disgustata dalla sua presenza. Ma ancor più dal fatto che,alla fine, mi stavo veramente fidando di lui. O non sarei stata così indignata.
Strattono le braccia per liberarmi –sono troppo vicina a lui per potergli dare un calcio- quando lui, improvvisamente, lascia la presa, facendomi cadere a terra.
La ferita sta pulsando dolorosamente, perde molto sangue.
“Penso che dovresti tornare a casa”, continua a ringhiare lui. Riesco quasi a percepirlo il veleno che impregna ciascuna delle sue parole.
Non è contento che io gli abbia scombussolato i piani, non è così?, penso, sadicamente.
“Il paparino si starà preoccupando per la sua figlioletta”, dice, un espressione di scherno e di puro sdegno dipinta in volto.
Io mi alzo, infuriata, e trovo la forza di spintonarlo, prima di incominciare ad allontanarmi, il più velocemente possibile. Il ché significa non molto, visto che ho perso veramente molto sangue.
“Goditi la camminata!”, sento che mi urla dietro Cato, l’ira tangibile nella sua voce.
 Io, senza voltarmi, gli rivolgo un gestaccio con la mano destra e continuo a camminare.
Ma presto scopro che ha ragione. Camminare è una pura agonia.
Sono così tanto furiosa con me stessa per aver abbassato la guardia, questo pomeriggio.
Non importa che mia madre sia morta, rimarco nel pensiero, non posso essere così vulnerabile. Mai.
Ero totalmente alla mercé di Cato, oggi. Se avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente uccidermi. A suo piacimento.
Chissà perché non l’ha fatto…
Sto zoppicando per le strade di periferia del Distretto Due. E’ una zona malfamata. Potrei incontrare chiunque. Ma non ho intenzione di fermarmi, non ora.
La quercia vicino al fiume dove ci trovavamo oggi è distante più di cinque miglia dalla mia casa. Ora mi manca a mala pena mezzo miglio per arrivare a destinazione, nonostante la fatica e il fatto che stia quasi per svenire per la quantità di sangue che ho perso.
Ma non posso permettermi di svenire, non qui. Non è detto che mi sveglierei, altrimenti.
Continuo a spingermi in avanti, anche se non sono sicura di potercela fare. Ogni parte di me mi sta implorando di gettare la spugna e di collassare al suolo e lasciare che qualcuno mi trovi, buon intenzionato o meno che sia. Mio padre sarà preoccupato e non mancherà comunque molto prima che incominci a cercarmi, sempre che non abbia già incominciato.
Ma so che sarebbe stupido. E’ quasi il tramonto, ho impiegato tantissimo tempo ad arrivare fin qui, e presto questa zona sarà piena di gruppi di Favoriti in cerca di prede. Anche se, in realtà, in questo preciso momento, l’idea di abbandonarmi al suolo e lasciare che sia qualcun altro a decidere del mio destino, anche se questo potrebbe prevedere la mia morte, mi alletta parecchio. E non solo per la spossatezza.
Non sono pronta ad affrontare il dolore di mio padre, ancor più perché, esattamente come lo so io, di essere la causa indiretta della morte di mamma, lo sa anche lui. E questo non me lo perdonerà mai.
E’ solo il pensiero di tutte le ragazze invidiose- sia per le mie superiori abilità ma anche perché mi alleno con Cato- che farebbero i salti di gioia nell’avermi come preda e che si vanterebbero in giro di avermi uccisa a spingermi a continuare. Il mio orgoglio ha anche la meglio sulla stanchezza, a quanto pare.
Non morirò di certo in una maniera così poco… onorevole.
Cato. Anche solo il suo nome mi fa avvampare di rabbia.
Perché diavolo ha messo in scena quella trovata, oggi? Si aspettava veramente che io credessi che lui tenga a me? E anche se gli avessi creduto… e lui fosse stato sincero… cosa credeva di fare? Non può semplicemente baciare me.
Me.
 Che probabilmente sarò nell’Arena con lui.
I legami emotivi costituiscono solo un peso, qualcosa che non vuoi portarti appresso nei Giochi.
Uno solo può vincere.
Ho quasi raggiunto la mia casa quando papà appare alla fine della strada di fronte a me. Le sue guance non sono più rigate dalle lacrime, il che è un bene: non so se avrei potuto sopportarlo. Non ora.
Mentre si avvicina, deve notare la mia gamba, o l’espressione sul mio viso, o il mio schifoso aspetto in generale, perché, di colpo, inizia a correre verso di me.
“Clove!”, urla la voce carica di preoccupazione.
Vorrei rispondergli, ma non sono sicura di averne la forza, così mi limito a camminare verso di lui.
Quando mi raggiunge, mi lascio finalmente andare e collasso fra le sue braccia. Lui mi stringe forte, cullandomi.
Sento che sta respirando in modo irregolare e capisco, attraverso la nebbia che mi sta avvolgendo i pensieri, capisco che è in preda ai singhiozzi. Ricambio il suo abbraccio, per quanto mi è possibile.
Lui ha bisogno di me esattamente quanto io ho bisogno di lui, in questo momento.
Così, mi lascio andare.
 Dopo un po’, sembra ricordarsi della mia condizione, così allontana il viso quel tanto che gli basta per guardarmi in faccia.
“Andiamo a casa”, mi sussurra dolcemente, fra le lacrime.
Mi prende di peso in braccio e inizia a trasportarmi verso la salvezza. Esattamente come aveva fatto Cato. Solo che papà non mi tradirà. Non mi lascerà da sola.
Giusto?
 
 
 
 
 
 
 
N.d.A.

*“Le nostre macchine nutrono la fornace,
Se ci prenderanno, bruceranno anche noi.
Saprai ancora chi sei
Quando capirai chi sei?
Quando le fiamme raggiungono la loro stagione
Ti aggrapperai alla tua ragione?
Con il peso sui tuoi talloni,
Riesci comunque a mantenere il tuo equilibrio?
Riesci a vivere sul filo del coltello?”
 
Sono curiosa di vedere che interpretazione date alla canzone, se ne avete voglia. J
Em  em.
Sì, sono ancora viva.
Lo so. Ci ho impiegato secoli, ma ho delle spiegazioni valide.
Primo: devo ammetterlo, all’inizio ho aspettato volutamente per lavorare a questo capitolo, nella speranza di ottenere qualche recensione in più. Ma niente. Perché, dovete capire, che io, sì, scrivo perché mi piace, ma soprattutto per condividere le storie malate che il mio cervello partorisce. Se non mi fate sapere niente, perdo la voglia di fare. Non è simpatico parlare da soli.
Secondo: quando ho deciso di lasciare stare e che non era il caso di ritardare di troppo ho avuto un meraviglioso e simpaticissimo “blocco dello scrittore”. Sebbene non pensassi potesse affliggere me, poiché, tecnicamente, non lo sono. E invece può. E l’ha fatto. Semplicemente, questo capitolo, per quanto possa non sembrarlo, è cruciale per il resto della storia. Con questo capitolo dovevo decidere piega far prendere agli eventi. Immaginate voi le crisi di panico che mi hanno preso. Se avessi sbagliato, avrei avuto Clove alle calcagna.
Terzo: quando finalmente mi sono decisa, mi ha abbandonato la connessione a internet e su di quello io non ci potevo fare niente.
Per cui.
Spero vivamente non ritardare tanto in seguito.
E spero anche che vi facciate sentire, perché se no… insomma, l’ho già detto prima. Ho bisogno di sostegno e di critiche per andare avanti.
Con affetto,
A.

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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo ***


THE RULER AND THE KILLER

 
 
“What shall we use to fill the empty spaces 
Where waves of hunger roar? 
Shall we set out across the sea of faces 
In search of more and more applause? 
Shall we buy a new guitar? 
Shall we drive a more powerful car? 
Shall we work straight through the night? 
Shall we get into fights? 
Leave the lights on? 
Drop bombs? 
Do tours of the east? 
contract diseases? 
Bury bones? 
Break up homes? 
Send flowers by phone? 
Take to drink? 
Go to shrinks? 
Give up meat? 
Rarely sleep? 
Keep people as pets? 
Train dogs? 
Race rats? 
Fill the attic with cash? 
Bury treasure? 
Store up leisure? 
But never relax at all 
With our backs to the wall.”
[Pink Floyd- What shall we do now?]* (N.d.A)
 

 

 

Capitolo 10

“Va’ al diavolo, Cato!”.

Le parole di Clove continuano a risuonarmi nella testa, mentre la guardo allontanarsi a rotta di collo per i corridoi della scuola.
 Sarà almeno la ventesima volta che gliele sento pronunciare.
Dal giorno in cui sua madre è morta, circa due settimane fa, ho provato in tutti i modi a riavvicinarmi a lei.
Bè, non da subito, in realtà.
All’inizio l’ira era troppo prevalente per poter pensare lucidamente. All’inizio non sapevo neanche il motivo per cui mi fossi infuriato così tanto. Perché, il fatto che mi stesse scombussolando i piani, o che non mi aspettassi assolutamente che si ribellasse non bastava a spiegare la mia reazione. Per quanto io sia una testa calda ultra-suscettibile non sarebbero stata una motivazione sufficiente.
E’ il fatto che mi stesse rifiutando che mi ha fatto scattare. L’ho capito solo dopo.
Ero talmente sicuro di me, da non pensare assolutamente di poter fallire. Non mi era passato neanche per la testa.
Mi sono sentito stupido. Avventato. Arrogante. Fallito.
Per questo mi sono arrabbiato -per quanto “arrabbiato” sia un eufemismo.
Non era con Clove che ce l’avevo.
Era con me.
Il piccolofallito.
Se lo sapesse mio padre… Non ci voglio nemmeno pensare. Già non ha la minima fiducia in me, figurarsi.
Poverino, penso.Che colpo gli verrebbe se sapesse che il suo inettoed inutilefiglio non sa neanche portare a termine il suo stesso piano e conquistarsi la fiducia della sua futura Partner nei Giochi.
Sferro un pugno al muro, in preda alla frustrazione, facendo sobbalzare un paio di ragazze vicino a me.
Devo avere un’espressione spaventosamente furiosa in volto, ma, contrariamente a come farei di solito, ora non sorrido alla vista dei loro visi preoccupati. Tutto quello che guadagnano è un sguardo velenoso. Infatti, scappano via.
Fortunatamente per loro.
Non sono dell’umore adatto per rapportarmi a chiunque.
Ultimamente, anche i professori mi evitano.
Da quando mi sono reso conto della mia incredibile stupidaggine, circa tre giorni dopo la morte della madre di Clove, sono stato completamente intrattabile. Con chiunque.
Non che abbia mai avuto un carattere da angioletto, eh.
Solo, lo sono stato più scorbutico del solito.
E il fatto che Clove non accenni minimamente al volermi perdonare non aiuta molto.
Ormai, sono quasi due settimane che mi sono deciso a passare sopra al mio orgoglio - a calpestarlo, letteralmente- e a chiederle scusa.  
Giuro, non penso di aver mai chiesto scusa a qualcuno, prima.
Ma, a un certo punto, nel mezzo della notte, mentre mi arrovellavo mentalmente scrutando ogni possibile via di fuga da questa situazione, mi sono reso conto che così, ancorato nel mio orgoglio, non sarei andato da nessuna parte. Sapevo di aver rovinatotutto.
 Tutte le mie conquiste.
Tutto quello che avevo costruito in quasi un anno di lavoro.
Tutto distrutto, inesorabilmente.
Solo perché sono un’idiota, avventato, troppo sicuro di sé, mi dico acidamente, rimproverandomi, mentre ripenso a quella tremenda notte di decisioni ed elucubrazioni mentali. Un'altra parete si becca un mio pugno.
L’avevo persa. Così. Stupidamente.
Non si fidava più di me. Ed io avevo sprecato tutto quello che avevo fatto.
Dire che mi sentissi un’idiota sarebbe un eufemismo.
Un’idiota sconfortato e arrabbiato con sé stesso come non mai, ecco. Questa definizione è più calzante.
Così, dopo molte lotte con me stesso e il mio ego, durate ben tre giorni, durante i quali avrò cambiato idea sul come agire almeno dieci volte ciascuno, mi sono fatto coraggio e sono andato contro qualsiasi principio mi abbia mai spinto ad agire finora. Ho deciso di scusarmi con lei.
Avrei dato la colpa al caldo.
O alla stanchezza.
O al fatto che volevo consolarla.
…mi sarei inventato qualcosa, ecco.
E’ certamente il piano più folle che io abbia mai messo a punto, certo, ma si tratta pur sempre di un piano da disperato.
In realtà, le occasioni che ho di parlare con Clove, ultimamente, sono molto limitate.
Lei è ancora in convalescenza per via della sua gamba, quindi, ovviamente non viene ad allenarsi.
Infatti, Hugo si sta dando alla pazza gioia con me, assegnandomi gli allenamenti più duri e stancanti che gli vengono in mente. Ho messo su un bel po’ di muscoli nell’ultimo periodo. Ad essere sincero, devo ammettere che come allenatore non è poi così male. E’ solo molto ingiusto spesso e volentieri e prova un piacere perverso nel vederci soffrire e faticare, ma, fino a che continuo a migliorare ed imparare, va bene.
Poi, se non ci facesse faticare, probabilmente me ne lamenterei.
e perché continuo a parlare al plurale?, penso frustrato, quando me ne rendo conto. Do un nuovo cazzotto ad un'altra parete. Se continuo così la mia mano non si ritroverà in una buona situazione.
E chi lo se lo sorbirà, allora, Hugo?
Prima arrivo alla mensa, meglio sarà.
Così avrò un po’ di tempo libero per cercare di escogitare un piano migliore per riavvicinare Clove.
…e non ci saranno troppi muri a portata di mano.
Affretto il passo, cercando di concentrarmi solo sui miei piedi.
Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque passi, inizio a contare.
Un modo come un altro per tranquillizzarmi.
Sei. Sette. Otto.
Per non pensare.
Nove. Dieci. Undici.
Per distrarmi.
Non avevo mai notato che le mattonelle del pavimento fossero grigie.
Dodici. tredici. Quattordici. Quindici.
Devo resistere solo un altro poco.
E’ lì, la mia meta.
Sedici. Diciassette. Diciotto.
Diciannove.
Venti.
Appena varco la soglia della mensa scolastica tiro un sospiro di sollievo.
Non ho risolto niente, certo, ma almeno sono riuscito a giungere a destinazione senza distruggermi la mano.
Non del tutto, almeno.
…Devo pur riuscire in qualcosa, no?                   
Scuoto la testa, nervosamente.
Non è questo il modo in cui devo pensare.
Io vinco.
Io ce la faccio.
Io sopravvivo.
Do un’occhiata in giro, scrutando i visi delle persone che affollano la sala, nella speranza di scorgere Clove da qualche parte, malgrado io conosca già la risposta.
L’ho vista allontanarsi nella direzione opposta a quella in cui mi trovo io ora.
Non abbiamo mai gli stessi orari, io e lei.
Sbuffo sonoramente.
In qualche modo dovrò pur uscire da questa situazione.
Afferro le prime cose commestibili che mi trovo davanti, senza fare veramente caso a quello con cui mi sto riempiendo il vassoio, e mi allontano alla ricerca di un tavolo, facendo sobbalzare ed arretrare un altro paio di ragazzi.
Evidentemente non mi sono calmato neanche un po’.
Non che ci sia molto di cui stupirsi.
E’ Clove quella brava nell’autocontrollo.
…E se continuerò a citarla ogni punto e momento, la calma e l’autocontrollo saranno solo un sogno lontano, penso, con rabbia.
Il mio vassoio non si rompe per poco.
Pochissimo.
Non posso andare avanti così. Non posso proprio.
Tutti i tavoli sono occupati, noto. Per un momento prendo in considerazione l’idea di andare direttamente ad allenarmi, ma l’abbandono quasi subito. Anche perché senza allenarsi senza aver mangiato non è mai una grande idea.
Non che ultimamente le mie idee siano sempre geniali.
In un angolo scorgo un paio di quelli che potrebbero considerarsi miei amici. A dire il vero, non c’è nessuno di cui io mi fidi o a cui io sia veramente affezionato. Questo non mi è permesso. Ma un piccolo gruppetto di persone con cui passare il tempo ce l’ho. Per la maggior parte sono figli di altri pezzi grossi del Distretto, amici di mio padre e, comunque, tutti Favoriti. Di cui io sono l’indiscusso capo.
Per questo non potrebbe mai esserci un vero rapporto d’amicizia fra noi. Siamo tutti in competizione per entrare nell’Arena.
C’è solo un tributo maschio l’anno.
Qui nel Distretto Due abbiamo una tradizione: che i tributi volontari per ognuno dei Giochi vengano selezionati prima, fra i Favoriti diciottenni, in maniera tale da potersi assicurare una vittoria quasi sicura. Infatti, il nostro Distretto è quello con più Vincitori in assoluto. Anche più rispetto all’Uno e al Quattro, che pure sono Distretti Favoriti.
Quindi c’è sempre una certa rivalità, fra noi dello stesso anno.
Anche se gli altri non si sognerebbero mai di mettersi contro di me.
Troppo pericoloso.
Mi avvio verso di loro, sforzandomi di sorridere. O, perlomeno, di non avere più un’espressione troppo truce.
“Ehilà, Cato!”, mi saluta sorridendo Travis.
 Alto, moro, con gli occhi verdi, è forse l’unico ragazzo con cui vado veramente d’accordo. Rispetto agli altri, almeno –come Connor, al suo fianco, che a mala pena riesce a trattenere uno sbuffo quando mi vede.
Travis è un Favorito, certo, -non so se lo avrei mai degnato di uno sguardo, se così non fosse - ma non è mai stato troppo interessato ad entrare a far parte dei Giochi. Si allena solo per essere sicuro di essere pronto, nel caso il suo nome venga estratto. Perché, sì, la tradizione dice che devono partecipare ai Giochi dei volontari prescelti –con più possibilità di successo- ma ciò non vieta a questi di cambiare idea all’ultimo momento e di lasciare che chi è stato sorteggiato prenda il loro posto.
Succede molto, molto raramente, certo: i Favoriti scelti hanno lottato durissimamente per esserlo. E’ anche questione d’orgoglio. Soprattutto questione di orgoglio, in effetti –che sia proprio, dei propri familiari o del proprio Distretto, d’orgoglio si tratta.
Ma è capitato in passato. Gente che non voleva veramente partecipare, ma era stata pressata.
O che ha avuto un ultimo ripensamento.
 Che ha avuto paura.
Generalmente, quelli sono gli anni in cui il nostro Distretto perde.
Poi ci sono quelli in cui Capitol City –e quindi, gli Strateghi- prende particolarmente in simpatia il tributo di un altro Distretto. Uno particolare. Uno che si è fatto notare.
 E lì noi non ci possiamo fare niente.
Quando ci sono gli Strateghi di mezzo, solo il Presidente, forse, ha voce in capitolo.
Forse.
Ma gli anni peggiori sono quelli in cui perdiamo. In cui perdiamo e basta. Perché i nostri tributi sono troppo deboli. Perché impazziscono durante i Giochi. Perché sono troppo arroganti. O perché si fanno manovrare, così, senza nemmeno accorgersene.
Come Micheal…
Anche la parvenza di sorriso che avevo formato mi abbandona.
Comunque, mi sforzo e, non degnando Connor neanche di un’occhiata, rispondo al saluto di Travis. Non siamo rivali, io e lui. E’ l’unico che possa affermare qualcosa del genere. Non essendo lui in gara per entrare nei Giochi, non abbiamo motivo di confrontarci seriamente. O di studiarci metodicamente. Di essere sospettosi e guardinghi. Così come faccio con gli altri.
Ma ha comunque il mio rispetto.
Lui non è debole, o un codardo.
E’ forte. E’ pronto a partecipare ai Giochi e anche a vincerli, volendo.
Solo che non vuole farlo. Non ne ha bisogno.
Ma ha il coraggio e la forza di ammetterlo e di farsi valere.
E io lo ammiro per questo.
Infatti, riesce a strapparmi un mezzo sorriso, mentre mi siedo.
“Però, che bella espressione gaia espensierata che hai oggi!”, dice, sarcastico, ma non abbandonando il sorriso.
Io gli lancio un’occhiataccia. Non veramente truce, ma pur sempre un’occhiataccia.
“Come non detto”, scherza, alzando le mani in segno di resa. Io lo guardo, divertito, e inizio a mangiare.
Non sono proprio dell’umore giusto, oggi.
Così come ieri.
E il giorno prima.
Sono un idiota.
Ho perso tutta la fiducia che avevo conquistato.
Come ho fatto ad essere così stupido?, mi chiedo per quella che sarà la centesima volta nel giro di due settimane.
Da quando mi sono risoluto a chiedere scusa a Clove, nonostante le dolorose proteste del mio ego, ho tentato di mettere in atto la mia decisione in ogni occasione che mi si è parata davanti.
Quando la incrocio nei corridoi.
Tra una lezione e l’altra.
Provando a fermarla fuori da scuola, prima dell’allenamento.
In effetti, potrei sembrare molto patetico, per uno che non a conoscenza dei fatti.
Cioè chiunque non sia Clove.
Ma questa non è la mia priorità. Non ora.
In realtà c’è una parte di me che si sta opponendo con tutte le sue forze, cercando di farmi desistere. Di convincermi che non è poi così importante.
In fondo, Clove non mi è necessaria per vincere gli Hunger Games. E’ solo per comodità che volevo la sua fiducia e, se fossi riuscito ad ottenerlo, il suo affetto.
Perché entrare nei Giochi con qualcuno che, non solo, combatterà al tuo fianco, ma che non vuole nemmeno vederti morire può costituire un grande vantaggio.
Hai un alleato in più dalla tua parte e un nemico in meno da combattere. Il che può significare la differenza fra la vita e la morte.
E’ tutta questione di dettagli. Di particolari. La minima cosa può fare la differenza.
Ed io ho perso quello che poteva fare un’enorme differenza.
La fiducia della persona più letale e determinata che io abbia mai conosciuto.
“Ehi, amico, quel pollo non ti ha fatto niente di male, non dovresti maltrattarlo così”, la voce di Travis mi richiama alla realtà. In effetti, sovrappensiero, ho iniziato a tagliare il mio pasto un po’ troppo violentemente. Faccio finta di non notare la nota di preoccupazione trasparsa dalla sua voce. Scrollo le spalle con fare noncurante.
Non posso andare avanti così.
Loro non sanno niente, ovvio.
Né potrebbero aiutarmi, comunque.
Né avrei voluto che-
Caaato?”, mi chiama la voce più acuta e stridula che io abbia mai sentito.
Prima ancora di avere il tempo di voltarmi e capire a chi appartenga, vengo travolto da una massa di tanti ricci neri.
E così, rammaricato, capisco chi sia.
Victoria.
Tutte, dicotutte, le ragazze del mio Distretto sono timide e timorose nei miei confronti. Arrossiscono le guardo, anche se per caso. Balbettano se mi rivolgo a loro.
Sono rare quelle che sostengono il mio sguardo, o più semplicemente la mia presenza.
Solo due fanno eccezione.
Una è Clove.
 Sfrontata. Esuberante. Coraggiosa. Altera. Determinata. Tagliente. Fredda. Spietata. Forte.
Di certo non potrebbe mai farsi intimorire da me. Figurarsi.
Clove non si fa intimorire da nessuno.
Lei mi sfida.
Lei m’insulta.
Lei mi mette alla prova.
L’altra,invece, - purtroppo per me- è Victoria.
E’ la figlia del Sindaco del Distretto Due, per cui, sono stato praticamente costretto a frequentarla, fin da piccolo.  Noi figli di “pezzi grossi” –come li definiscono in gergo- ci conosciamo tutti, nel bene o nel male.
E conoscere Victoria è decisamente un male.
Appiccicosa. Viziata. Incapace. Fastidiosa.
Pur essendo una Favorita, è la ragazza più civettuola ed invadente che io abbia mai conosciuto.
Ed è l’unica, l’unica ad essere così sfacciata con me.
Mi getta le braccia intorno al collo, sistemandosi comodamente sulle mie gambe mentre, con un sorriso a trentadue denti, inizia a stritolarmi. Letteralmente.
E io, molto gentilmente ed elegantemente, me la tolgo di dosso, buttandola sulla panchina.
Giuro, Victoria non la sopporto proprio.
E’ così frivola. Così svergognata.
L’unica cosa che le importa sono i ragazzi.
Ragazzi, ragazzi e ragazzi.
Ma c’è da dire che anche lei interessa molto a loro. Infatti, l’unica qualità che posso pienamente riconoscerle è la bellezza. E’ alta, sinuosa, con magnetici occhi verdi. Sono innumerevoli i ragazzi che le sbavano dietro.
Non ha esattamente una buona reputazione, ecco.
Lei si lamenta –squittisce, per l’esattezza- quando la faccio sedere sulla panca, ma torna subito a sorridere.
Ringrazia il Cielo che non ti ho scaraventato a terra…
Sul serio, non l’ho mai sopportata. Con l’umore che mi ritrovo, sarebbe meglio per lei lasciarmi stare.
Magari tenendosi a qualche chilometro di distanza.
Travis sta guardando la scena con un sorriso bonario dipinto in volto, leggendo la stizza sul mio. Connor invece mi guarda invidioso.
Evidentemente, lui gradirebbemolto le attenzioni di Victoria.
Questo pensiero mi fa spuntare un sorriso sarcastico e riporto la mia attenzione al cibo.
O almeno, ci provo.
“Su, Cato! Non si saluta?”, continua lei imperterrita, ignorando volutamente il mio comportamento ostile.
Almeno, spero che sia volutamente. Perché, voglio dire, si deve pur essere accorta del mio comportamento, no? Non è così tanto stupida.
“Ciao, Victoria”, faccio io sarcastico, senza il minimo entusiasmo e neanche degnandomi di alzare gli occhi dal mio pollo. Sento Travis ridacchiare.
“Oooh! Non so che ti prende, ultimamente!”, inizia Victoria con tono petulante. “Non ti si vede neanche più in giro!”, aggiunge, con un inequivocabile sguardo malizioso.
Io non sono mai stato un tipo donnaiolo. Mai.
Non ho neanche mai avuto una relazione seria, seria veramente.
Ah no, non farò lo stesso sbaglio di Michael.
Non posso avere neanche un punto debole.
E i legami sono punti deboli.
E anche avere undeboleper le donne lo è.
L’ho imparato a caro prezzo.
Perciò quello a cui Victoria si riferisce è completamente privo di fondatezza.
E’ lei quella che si è fatta mezzo Distretto, non io.
Probabilmente, è per questo che non la sopporto. Perché non ha alcun senso della dignità, o dell’onore.
Si allena per i Giochi, ma è totalmente incapace. Eppure, suo padre vorrebbe che ne prendesse parte.
Certo, potrebbe usare la bellezza come arma a suo favore, ma non potrebbe mai basare una sua ipotetica vittoria solo su questo.
La bellezza aiuta, non fa tutto il lavoro. Finnick Odair, del Distretto Quattro, ha vinto perché era bravo, perché era forte. La bellezza gli ha solo ottenuto sponsor. Se non fosse stato capace non sarebbe arrivato da nessuna parte.
Inviperito, la guardo in cagnesco.
Lei mette su il broncio. Connor, intanto, cerca di attaccare bottone, per alleggerire l’atmosfera –o più semplicemente, per attirare la sua attenzione-.
Ricomincio a contare.
Uno. Due. Tre. Quattro…
Riuscirò a trovare una soluzione prima o poi, no?
Forza, cervello, lavora, lavora…
Continuo a tagliare il pollo e mangiare, come un automa.
Dieci. Undici. Dodici. Tredici…
O forse dovrei solo aspettare che ricominci ad allenarsi?
Sarebbe più facile, allora.
Sento lo sguardo di Travis seguire i miei movimenti.
Venti. Ventuno. Ventidue. Ventitrè…
Perché? Perché sono così stupido?
L’ho persa, persa…
Ignoro lo sguardo truce di Connor.
…Ventisette. Ventotto. Ventino-
Insomma, Cato! Cosa c’è che non va?”, sbotta Victoria. Mai la sua voce mi è sembrata fastidiosa come ora. E questo è tutto dire.
“Victoria, per caso hai bisogno di sottotitoli per capire il mio atteggiamento?”, sbotto io, imbufalito. “Perché”, continuo, “per tua informazione, significa non rompetemi le palle se non volete che a rompersi sia la vostra faccia, ok?”, le ringhio contro.
Non ho proprio lavoglia di reggerla, adesso.
“E tu mi stai decisamente rompendo le palle”, finisco, minaccioso.
Bene. Io l’ho avvertita.
Lei, tuttavia, non sembra per niente turbata. Anzi, sorride.
Questa ragazza ha dei seri problemi mentali…
“Aaah!”, esclama, contenta. “Ho capito!”. Ridacchia.
Ma no? Te l’ho solourlato contro…
Giuro, è un miracolo che stia ancora respirando.
Ma lei non aveva finito di parlare. “E’ per Clove”, afferma, soddisfatta.
Io per poco non mi soffoco con il cibo. Come diamine…?
“…Ti sei innamorato!”, esclama, estasiata.
 La guardo, lentamente. Non so se arrabbiarmi, offendermi, o semplicemente scoppiarle a ridere in faccia.
Lo crede sul serio? E’ veramente così tanto stupida?
A giudicare dalla sua espressione gongolante, sì, lo crede sul serio.
Così, io scoppio a ridere. Istericamente. Tutta la rabbia, la tensione, la frustrazione di questi ultimi giorni- di queste ultime due settimane- si mischiano insieme in un'unica, grande, eccessiva risata.
Lei, evidentemente non si aspettava questa reazione.
“Ma su! E’ ovvio!”, continua, imperterrita.
Io ormai ho le lacrime agli occhi. Sembro un folle.
Forse lo sono.
Sicuramente lo sono.
“La cerchi nei corridoi… La guardi quando pensi nessuno guardi te… Ti irrigidisci se qualcuno la insulta…”, argomenta lei, soddisfatta. Connor e Travis sono pietrificati.
Hanno avvertito la bufera in arrivo.
“Davvero, non te ne sei accorto?”, continua lei, gongolante. Non si è accorta del cambio di atmosfera.
O forse ha solo pensato di avermi convinto.
Io ho smesso di ridere.
E presto smetterà anche lei…
Sta sorridendo beatamente, compiaciuta delle proprie abilità di detective.
Intanto, io sto decidendo se farla fuori con il coltello o più semplicemente con le mani.
“Victoria”, inizio, praticamente ringhiando, “io ti tratto male perché sei un’insopportabile civetta, non perché sono innamorato di qualcun altro!”. Non sto urlando solo perché c’è gente. Altrimenti…
“Ooh, che tenero, non lo sai proprio…”, ha un sorriso benevolo dipinto in volto che mi sta praticamente istigando a picchiarla.
Le afferro i polsi, violentemente, fissandola dritta negli occhi. Lei, evidentemente, capisce chenon c’è niente di cui scherzare e la sua espressione si pietrifica. Invece, i nostri due commensali non li sento neanche più respirare.
No”, continuo. “Non è come la conti tu”, le soffio in viso. “Puoi inventarti qualsiasi storia per giustificare perché io ti tratti da schifo, ma la verità è che faccio così perché sei una fastidiosa sgualdrina. Io e Clove siamo partner di allenamento, fine della storia. E’ chiaro?”. I miei occhi sono due fessure, ormai.
Mi domando come mai non si sia incenerita sotto il mio sguardo.
Travis, evidentemente, nota che i polsi di Victoria stanno diventando violacei, quindi, cerca di fermarmi.
“Amico, non ne vale la pena.”
Io non lo guardo neanche.
Eccome, se ne vale la pena.
Mi sento offeso. Insultato.
Implicitamente, è come se mi avesse dato del debole. Come se mi avesse detto che sono stupido abbastanza da affezionarmi ad una persona e non imparare la lezione da quello che è successo.
E questo va solo ad aggiungersi alla rabbia che ormai è permanente in me.
Non si deve neanche azzardare…
Sento suonare la campanella e capisco che è ora di andare.
Lancio un’occhiata feroce alla ragazza di fronte a me, prima di lasciarla.
“Salvata dalla campanella”, le soffio contro.
Lei si massaggia i polsi, tirando un sospiro di sollievo e mi guarda mentre me ne vado.
Più infuriato di prima.
Ah no, gliela farò vedere io…
Mi crede veramente così debole? Così stupido? Così tanto da affezionarmi a chi dovrò affrontare nei Giochi? E’ così che mi vede la gente?
Come un debole?
come Michael?
No. Non lo permetterò.
Io non sono debole.
Io uscirò da questa situazione.
Io vincerò gli Hunger Games.
Io posso farcela.
Io sono forte. E glielo dimostrerò.
A Victoria. A Hugo. A mio padre. Al mio Distretto.
Io sono forte abbastanza. Io ne valgo la pena. Io vinco.
Ora devo solo concentrarmi.
Ho ancora molti mesi per lavorarci, penso, non tutto è perduto.
Ce la farò. Lo giuro.
La prima mossa, ora, sarà ri-lavorarmi Clove.
Se no…se no, non ci arriverà mai ai Giochi.
Glielo impedirò io.
Un sorriso mi si dipinge in volto mentre esco a rotta di collo dalla mensa, diretto all’Accademia.
Oh sì, vinco io.
Io sono più forte.
Iosono Cato.
 
 
 
 
 
 
 
 

N.d.A.

* “Cosa dovremmo fare adesso per riempire gli spazi vuoti
In cui rimbomba la fame?
Dovremmo partire attraverso il mare di visi
Alla ricerca di più applausi?
Dobbiamo comprare una nuova chitarra?
Dobbiamo guidare una macchina più potente?
Lavorare duro tutta la notte?
Dobbiamo fare a botte?
Lasciare accese le luci?
Gettare bombe?
Fare tournée nell’Est?
Contrarre malattie?
Sotterrare ossa?
Sfasciare case?
Inviare fiori per telefono?
Ubriacarci?
Andare in analisi?
Rinunciare alla carne?
Mai dormire?
Tenere la gente come gli animali?  
Ammaestrare cani?
Far correre i topi?
Riempire l’attico di contanti?
Sotterrare tesori?
Accumulare piaceri?
Tutto ciò senza mai riposarci
Con le nostre spalle al muro.”
Vediamo cosa ne pensate voi ;)
 
Em em.
Ehiiiilà, gente.
Sì, non mi sono dimenticata di voi. Giuro.
Solo, il blocco dello scrittore si è particolarmente affezionato a me, ecco.
E poi, era un capitolo diffiiiiicile! Non ci sono azioni. E’ tutta psicologia >.<
Viaggio approfondito nella psicologia di Cato. Gran bella roba. Sul serio, in confronto io sono una persona felice senza neanche un problema al mondo.
Vi prego, perdonaaatemi ç_ç
ANYWAY.
Che ne dite? Che ne dite? Che ne dite? Non sono per niente sicura del risultato. E’, credo, primo capitolo di questo genere, no?
Quelli movimentati sono molto più facili ç^ç
E poi bho. Ho una cotta per Travis *^*
E dire che è comparso così dal nulla. Non l’avevo previsto. E’ sbucato dalle mie dita, senza avvisare o dire niente.
….e di questo misterioso Michael? Che mi dite? Chi è secondo voi? :)
Sono curiosa.
 
 
COMUNQUE, io vi devo la mia interpretazione della canzone dell’altro capitolo.

Devo ammettere che le interpretazioni che mi avete dato voi non le avevo minimamente pensate. 
Ma sono meravigliose. 
Sul serio, mi sento molto stupida. Io avevo pensato semplicemente a Cato e Clove, al loro modo di essere Favoriti, di fare finta, di distruggersi da soli (“Le nostre macchine nutrono la fornace, Se ci prenderanno, bruceranno anche noi”). Al loro fingersi qualcun altro, al loro credere di sapere chi sono essendo solo delle maschere (“Saprai ancora chi sei, quando capirai chi sei?”). Al loro essere sempre in bilico fra quello che vorrebbero fare, quello che farebbero e quello che devono fare (“Ti aggrapperai alla tua ragione?Con il peso sui tuoi talloni, Riesci comunque a mantenere il tuo equilibrio? Riesci a vivere sul filo del coltello?”).
 
Vi prego, fatemi sapere cosa ne pensate. Sono molto in ansia per questo capitolo.
Aiuto.
….non ci provo neanche a farvi promesse sui prossimi capitoli, anche se il lavoro adesso dovrebbe essere più facile. Ho tutta la storia più o meno in mente.
Ho anche il finale alternativo, fate un po’ voi.
Dipenderà tutto dai miei impegni che, badate bene, sono tutti scolastici, quindi non ci posso fare più di tanto. E come prova di questo vi basti che sto scrivendo queste parole alle 0.11 di notte.
Oh no. Ora sono 0.12.
COMUNQUE.
Me ne vado.
Con affetto…
Vostra, A.
 
P.S. Qualcun di voi sa dirmi come si tagga su EFP? Me piccola stupida no sapere >.<

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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo ***


  THE  RULER  AND  THE  KILLER





“Now come one come all to this tragic affair
Wipe off that makeup, what's in is despair
So throw on the black dress, mix in with the lot
You might wake up and notice you're someone you're not
If you look in the mirror and don't like what you see
You can find out firsthand what it's like to be me
So gather 'round piggies and kiss this goodbye
I'd encourage your smiles I'll expect you won't cry”

[The end- My chemical romance]*(N.d.A)


 

Capitolo 11

Clove  P.O.V.

Sto fissando il corpo di mamma.

E’ lì, a terra.
Non riesco a vederle il viso: è voltata di schiena, la postura scomposta.
Ma ricordo lo stesso la sua espressione -e chi potrebbe dimenticarla?- Sconvolta. Inquieta. Distrutta.
E, in ogni caso, la pozza di sangue che la circonda e le inzuppa i vestiti è in bella vista.
E’ tutto come quel giorno. Ora, però, non ci sono pacificatori.
C’è solo mio padre.
E’ in piedi, vicino a lei, tremante.
Lo guardo, piena di senso di colpa. E’ tutto rosso.
Ma non sta piangendo.
No. Quella è…
Il tempo sembra fermarsi del tutto, mentre lo osservo. Tutto sembra ovattato.
Intontita, vedo solo lui. E la sua rabbia. La sua ira.
E’ questa l’unica cosa che si riesce a leggergli in volto: una grande, sterminata ira.
E, improvvisamente, ho paura.
Inizio a respirare più velocemente, in preda all’iperventilazione.
Sono in pericolo. Lo sento.
Tu!”, sussurra mio padre, fissando il suolo. Cerco di muovermi, ma invano.
Non ci riesco. Non posso spostare neanche un singolo muscolo.
Non posso muovermi.
Non posso parlare.
Non posso scusarmi
Non posso fare niente.
Neanche piangere.
Me ne sono accorta solo ora.                 
“Sei stata tu!”, continua lui.
Riesco solo a spalancare di più gli occhi.
L’ha capito…Ha capito che è colpa mia…. E mi odia…, penso in preda al panico.
Mi odia…
 “Sei stata tu!”, ripete più forte.
Alza lo sguardo, incrociando il mio. E ho la conferma dei miei sospetti.
Sono in pericolo.
Si alza lentamente da terra. Riesco a sentire anche da qui i suoi respiri pesanti.
Mi odia più di quanto io odi me.
 Delle lacrime riescono a farsi strada attraverso i miei occhi mentre lo guardo avvicinarsi.
Vuole uccidermi.
 “Sei…”. Fa un passo. L’espressione sul suo viso è incredibilmente furibonda. Non l’ho mai visto così.
Quanto vorrei poter arretrare…
“…stata…”. Ne fa un altro, parlando con voce sempre più forte.
Sono in trappola, mi dispero.
“…TU!”, miurla in faccia. Mi afferra le spalle, sbattendomi violentemente, ignorando i miei squittii e gli occhi lucidi.
“E’ tutta. Colpa. TUA!”, urla, ringhiando e mi scaraventa a terra, il vicino a mamma.
Sto tremando. Ora posso muovermi –capisco- ma so anche che non lo farò. Perché, forse, questo è proprio quello che voglio.
Ha ragione. Ha ragione.
Ha ragione!
Chiudo gli occhi aspettando il suo colpo.
Ma sento solo qualcuno ridere sommessamente.
“Ha ragione, Clover. E’ colpa tua”. Un’altra voce, totalmente diversa, mi giunge all’orecchio.
Cato.
Riesco quasi a sentire il ghigno soddisfatto nella sua voce.            
Mi ha alla sua mercé.
Mi soffia un’altra risata nell’orecchio.
“Se non fossi stata così…stupida e debole non sarebbe successo”. Ridacchia.
Non è vero, penso.
Non è vero.
 Io non sono debole.
“Ah no?”, chiede. Ma come…?
Allora apri gli occhi”, sento la sua voce sempre più divertita. Quasi ilare.
Inferocita, apro gli occhi. E vorrei non averlo mai fatto.
Attonita, capisco tutto.
Quella lì non è mamma.
Gli occhi in cui mi sto riflettendo sono marroni. E questo era l’unico particolare fisico che mia abbia mai distinto da mia madre: gli occhi. Io ho ereditato le iridi cioccolato di mio padre. Mamma aveva gli occhi smeraldo.
Quella …sono io.
“Vedi, Clover?”, continua gongolante Cato, parlandomi nell’orecchio. Non posso vederlo in faccia, ma so comunque che sta ghignando come non mai.
“Sei stata una stupida e ti sei fidata.” Fa una pausa, trepidante.
“…E non ci si fida di un tributo avversario”.Improvvisamente, sento uno squillo di trombe.
E allora tutto assume un senso.
Certo che non è mia madre, quella. Certo che sono io.
Questa è l’Arena.
Questi sono i Giochi.
E io ho perso.
Per colpa mia
E Cato ha vinto.
Per colpa mia….
E ho mia madre è morta.
Per colpa mia….
E mio padre è distrutto.
Per colpa mia
Mi sveglio singhiozzando.
Per quanto possa essere attenta e vigile durante il giorno, durante la notte la mia volontà di non piangere non ha speranze di averla vinta sul mio inconscio.
E’ sempre così, ormai.
E mi odio per questo.
…Anche per questo.
Tremo violentemente, abbracciandomi le ginocchia.
Quest’incubo è stato uno dei più terribili finora.
Il che è tutto dire. Sono quasi quattro settimane di incubi. Inizio ad avere paura di addormentarmi.
Disperata ed esasperata allo stesso tempo, cerco di tranquillizzare il respiro.
Uno, due, conto lentamente.
Dentro e fuori. Ma i singhiozzi non sembrano intenzionati a fermarsi.
Non c’è niente da fare. Né per il respiro, né per le lacrime.
Soprattutto per le lacrime.
Sbuffo sonoramente. Non posso andare avanti così. Non posso proprio.
E’ passato quasi un mese ed io sono ancora in questo stato. Non dovrei esserci neanche mai entrata, figurarsi. E la cosa peggiora di giorno in giorno…
Respiro pesantemente, in preda ai singhiozzi e alla rabbia.
Tutto questo è sbagliato. Non dovrebbe essere così. Non l’avevo previsto. Non può essere.
Basta.
Basta.
Basta! Non posso farcela, così!
Scatto in piedi, incapace di stare ferma.
Devo fare qualcosa. O inizierò a pensare.
…e allora sarà tutto molto peggio.
Come ho fatto già fatto in tutti questi giorni- atroci e lunghissimi giorni- mi scaravento per la stanza, alla ricerca di qualcosa da fare. Di qualcosa da distruggere. Perché non posso stare ferma.
Devo fare qualcosa. Ormai è una routine: pensiero sbagliato, rabbia, distruzione…incubo, rabbia, distruzione…lacrime, rabbia, distruzione.
Come un automa. No, penso.Magari fossi un automa.
In preda alla frustrazione, mi rendo conto che non mi è rimasto niente. In effetti, la mia stanza è un casino.
E non mi sto riferendo alla polvere che si sta accumulando sopra ogni cosa- nessuno fa più le pulizie.
Penso che il letto sia l’unica cosa quasi illesa in tutta la mia camera.
A terra ci sono fogli di carta, pezzi di vetro, i cocci restanti della mia lampada da comodino e chissà che altro. Anche la mia scrivania è riversa. L’armadio non ha più un’anta. E, ovviamente, il muro è pieno di tagli, essendo bersaglio dei miei coltelli.
E’ straordinario, a pensarci, quanto io possa essere distruttiva anche in queste condizioni. Ma solo se ci si pensa con una vena molto, molto ottimistica.
Non avendo nient’altro, inizio a prendere a pugni il muro.
Violentemente. Ripetutamente. Sempre nello stesso posto.
E’ colpa mia.
E’ colpa mia.
E’ colpa mia.
Le lacrime continuano a scendermi per le guance e i singhiozzi a scuotermi, mentre sottolineo ogni pensiero con una raffica di pugni.
Sono una debole.
Sono una debole.
Sono una debole.
Non riesco a crederci. Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto quella che sono riuscita a fare, sono ridotta in questo stato. Sto piangendo.
Per mia madre, per giunta.
… che è morta.
Anche se la cosa non ha ancora senso, nella mia testa.
Semplicemente, non può essere vera.
Perché è assurdo.
Mi aspetto di vederla tornare a casa da un momento all’altro, sorridendo, chiedendo scusa per il ritardo dopo essere andata a fare la spesa. Avrebbe ignorato il mio sguardo impassibile e mi avrebbe chiesto della scuola, o, se proprio in vena di conversare, dell’Accademia.
Si sarebbe messa a cucinare…o a rassettare la cucina…
E invece no.
Perché è morta.
…e l’hai uccisa tu.
I miei pugni si fanno ancora più violenti. Le nocche iniziano a sanguinare.
Lei non tornerà, mi ripeto.
Non tornerà.
Non tornerà.
Non tornerà.
Eppure, continuo a vederla girare per casa.
Anche inconsciamente penso che lei sia da qualche parte a svolgere qualche faccenda.
Se sento il lavandino sgocciolare penso ci sia lei a lavare i piatti. Ci vuole sempre qualche secondo per realizzare che, no, non è lei, non può essere lei.
I morti non fanno le faccende domestiche.
Ormai anche il muro si sta macchiando di rosso. Ma non m’importa.
Meglio il dolore fisico.
Così almeno provo a distrarmi.
 Riprendo fiato e inizio una nuova raffica di pugni.
 
Appoggio la fronte su un ginocchio, facendo stendere l’altra gamba.
Penso che siano circa le sei di pomeriggio. Non ricordo neanche di essermi addormentata.
Ma, in realtà, non c’è molto di cui stupirsi. Non ho niente da fare a casa e, visto che sono ancora in convalescenza per via della mia gamba –maledetta ferita, maledetto Orsin e maledetto Cato!-, non posso ancora riprendere l’allenamento.
Sono sempre costretta qui, nella mia camera.
Bè, in realtà non c’è nessun veto che m’impedisce di andare nelle altre stanze, ma…
Decisamente, è meglio di no. Perché mamma non è l’unico fantasma che gira per casa.
C’è anche papà, che ormai è solo lo spettro di se stesso.
Non parla.
Non mangia.
Non ride.
Non mi guarda. Evidentemente la mia somiglianza con mamma è veramente troppa da sopportare.
Senza contare il fatto che sa che è colpa mia. Che l’ho uccisa io.
Poi, non ha ancora ripreso a lavorare e gli effetti negativi si sentono. Già prima mi lamentavo per la povertà, m ora non c’è paragone. E’ incredibile quanta differenza faccia l’assenza di mamma. Non l’avrei mai sospettato.
Anche se c’è da mettere in conto il fatto che mio padre non stia badando molto a spese, penso con rammarico.
E questa è forse la cosa peggiore.
Non che mio padre sia distrutto, o che mi odi- il che fa già molto più male di quanto io voglia ammettere. Ma che si sia completamente arreso.Questa è la cosa peggiore.
Mio padre non vuole andare avanti.
Si è abbandonato.
Vuole dimenticare.
…e quale modo migliore se non l’alcohol?
Quello che gira per casa è solo un altro fantasma, completamente impazzito.
Con il quale mi tocca convivere.
L’incubo di prima è solo uno specchio. Ma è la verità.
Ho ucciso la mia stessa madre.
E mio padre mi odia…
E sono una debole…
E perderò tutto.
Così come ho perso mamma. Così come ho perso papà.
Così come ho perso Cato.
Da quel giorno, oltre a tutta la mia confusione, non ho fatto altro che pensare che, forse, sarei dovuta stare al suo gioco. Perché so che fosse una finzione, ma, almeno, avrebbe pensato di avermi in pugno e di potersi fidare di me. E si sarebbe fidato di conseguenza.
Ma, in realtà, continuo a rimanere un ostacolo per me stessa anche in questo. Lui ha provato così tante volte a riappacificarsi, ormai.
Ma io non cedo.
Il mio orgoglio non cede.
Perché non riesco a liberarmi della sensazione che lui si stesse approfittando di me. In tutti i sensi.
E questo per me, a quanto pare, è intollerabile. Per quanto la mia ragione mi dica di farla finita e di metterci una pietra sopra, di andare avanti, di provare a riconquistare la sua fiducia da capo, io non ci riesco.
Ma so che lo devo fare.
Ormai, questa è l’ultima cosa che mi resta.
Arrivare agli Hunger Games. Partecipare. Vincerli.
E se avrò Cato vicino, tanto meglio.
Ma mi devo dare una mossa. Devo affrontare tutti i miei fantasmi. La mia debolezza. Cato.
O più semplicemente mio padre, che mi aspetta nella stanza accanto.
Ma questo è forse quello che mi spaventa di più.
Ti spaventa, eh, Clove?
Povero, piccolo amore che non sa neanche affrontare il suo stesso padre.
Che soffre per causa sua.
Stuzzicata dai miei stessi pensieri, mi faccio coraggio e mi alzo dal letto.
Oh no, penso. Adesso basta.
Hai finito di fare la debole, Clove.
Questo è solo un altro ostacolo fra te e i Giochi. E tu vuoi partecipare ai Giochi, no?
Chiudo gli occhi, respirando pesantemente, una mano appoggiata alla maniglia.
E’ colpa tua. Adesso prendine le conseguenze.
Di colpo, senza più aspettare apro la porta, stanca di me stessa e dei miei monologhi.
Da ora ricomincio.
Da ora Clove ritornaa essere Clove.
 
 
 
 
 
N.d.A.
 
*”Venga ora uno, venite tutti a questa tragica faccenda
Pulitevi da quel trucco, qui dentro c'è disperazione
Infilatevi dunque l'abito nero, mescolatevi alla moltitudine
Potreste svegliarvi e accorgervi di essere qualcuno che non siete

Se guardate nello specchio e non gradite quel che vedete
Potrete scoprire di persona com'è essere me
Radunatevi dunque attorno, porcellini, e date l'addio a tutto questo
Io vi incoraggerò a sorridere, mi aspetterò che non piangiate”
 
 (Come al solito, vediamo cosa ne pensate voi ;)
 
Allora. Non so nemmeno da dove cominciare. Né se scusarmi.
Vi potrei dire che è stato un periodo incasinato, e sarebbe vero.
Vi potrei dire che sono impazzita fra concerti ed esami-vero anche questo.
Ma la vera verità (perdonatemi il gioco di parole) è un’altra.
Avete letto di Clove, no?
Bé, non mi è stato affatto descrivere tutte le sue sensazioni.
La mancanza, il senso di colpa…
Perché il motivo per cui ho completamente staccato la spina è che, intanto, mio padre si è ricoverato, gli è stato diagnosticato un cancro ed è morto.
Io…non ce l’ho fatta, non subito, a scrivere proprio questo capitolo. Capite?
E’ solo per questo che vi chiedo di scusarmi, o sarei imperdonabile.
Non solo per voi, perché vi ho fatto aspettare e dimenticare una storia che non voglio sia dimenticata. Ma perché a questa storia e a questi personaggi ci tengo, come se fossero miei. Perché, sì, li ha inventati la Collins, ma questi, questi Cato e Clove gli ho caratterizzati io. E non voglio finiscano nel dimenticatoio.
Perché anche loro hanno diritto alla loro storia.
Poi sarò anche una debole, ma per fortuna non sono una favorita io.
 
Chiusa questa pietosa parentesi (che non avrei mai voluto aprire, in realtà), torniamo alla storia.
So che avevo promesso più azione, ma ho preferito spezzare il capitolo a metà, o sarebbe diventato troppo incasinato.
Nel prossimo…vedrete ;)
Poooooi.
Vi devo la mia interpretazione dell’ultima canzone.
Io, molto banalmente, l’ho scelta pensando che questi due poveri sfigati Favoriti potrebbero fare qualunque cosa (Dovremmo partire attraverso il mare di visi, Alla ricerca di più applausi?Dobbiamo comprare una nuova chitarra?Dobbiamo guidare una macchina più potente?Lavorare duro tutta la notte?Dobbiamo fare a botte?Lasciare accese le luci?Gettare bombe?Fare tournée nell’Est?Contrarre malattie?Sotterrare ossa?Sfasciare case?Inviare fiori per telefono?Ubriacarci?Andare in analisi?Rinunciare alla carne?Mai dormire?Tenere la gente come gli animali?  Ammaestrare cani?Far correre i topi? Riempire l’attico di contanti?Sotterrare tesori?Accumulare piaceri?)ma senza potersi mai rilassare. Perché in realtà non sono liberi di fare niente. Non di loro volontà.
Perché devono mantenersi nella parte. (“Cosa dovremmo fare adesso per riempire gli spazi vuoti In cui rimbomba la fame?[...] Tutto ciò senza mai riposarci Con le nostre spalle al muro.”)
E niente.
Spero che mi perdoniate.
E che questo capitolo vi sia piaciuto, nonostante tutto.
Fatemi sapere cosa ne pensate!
…o se devo semplicemente ritirarmi xD
 Vi voglio bene.
E grazie  a tutti quelli che si sono presi la briga di recensire :)
O più semplicemente di leggere!
 
Con affetto,
A.
 

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