Streetlight People di LiberTea (/viewuser.php?uid=136936)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Don't Stop Me Now- Queen ***
Capitolo 2: *** Should I Stay or Should I Go? - The Clash ***
Capitolo 3: *** Heartbreaker - Led Zeppelin ***
Capitolo 4: *** Don't Go Away- Oasis ***
Capitolo 5: *** Trafalgar Square ***
Capitolo 6: *** The London Eye ***
Capitolo 7: *** St. James's Park ***
Capitolo 8: *** The Tower Bridge ***
Capitolo 9: *** Don't Stop Believing #1 ***
Capitolo 10: *** Don't Stop Believing #2 ***
Capitolo 1 *** Don't Stop Me Now- Queen ***
Streetlight People
1.Don't Stop Me Now- Queen
Non mi sono mai piaciuti i locali mondani. Troppa gente, troppo rumore.
Preferisco di gran lunga i bar tranquilli e poco frequentati, dove
potersi fare una birra in santa pace.
Quella sera però le mie preferenze furono bellamente
ignorate, come sempre, da mio fratello e dai suoi due compari di vita,
che mi trascinarono in uno dei locali più affollati e
caotici di tutta Londra, a detta loro la 'capitale della vita notturna'.
Cosa ci facevo io, un povero tedesco affezionato al suo appartamento di
Berlino, in Inghilterra? Gilbert. E basterebbe questo nome come
risposta, se conosceste il suo proprietario. Ma immagino che non sia
così, nonostante lui si creda una celebrità,
perciò immagino di dovere delle spiegazioni: si tratta di
mio fratello maggiore, con il quale divido casa, che in un nefasto
giorno di maggio spalancò la porta della mia camera e mi
gridò: "Lud, si va a Londra!"
Ora, quando capii che non aveva preso un'insolazione e non aveva bevuto
un'Heineken di troppo, andai in paranoia. La cosa non fece che
peggiorare quando mi disse che era un progetto Erasmus, che ci saremmo
rimasti sei mesi, che avremmo diviso l'appartamento con Francis e
Antonio, i due 'compari' sopracitati, e che non potevo dire di no
perchè era già tutto programmato e aveva pagato
anche la mia parte.
Dopo aver concluso che no, il suicidio non era una soluzione valida e
tantomeno il fratricidio, dovetti accettare.
Ed infine eccomi lì, quella sera, seduto su un divanetto di
pelle di fianco al mio caro fratellone, in compagnia dei suoi amici che
sopportavo a malapena, soprattutto dopo averci convissuto per due
settimane.
Avevano entrambi ventitre anni, come Gilbert; si erano conosciuti due
anni prima, quando eravamo andati in vacanza in Grecia, e da allora
avevano continuato a tenersi in contatto. Insomma, si erano proprio
trovati: tre idioti con la propensione a cacciare se stessi e il loro
prossimo nei guai. Purtroppo il 'prossimo' in questione ero spesso io.
Francis Bonnefoy era francese; il suo passatempo preferito, oltre a
rompere le scatole al sottoscritto, era rimorchiare. Quando ci eravamo
incontrati all'aereoporto, aveva già ottenuto un
appuntamento con una ragazza di Monaco e il numero di telefono di un
ragazzo canadese. Le sue preferenze sessuali rimangono tutt'ora un
mistero per me, e non ci tengo ad approfondire l'argomento.
Antonio Carriedo (ha anche un secondo nome che non ricordo, anche
perchè è impronunciabile) invece, era di Madrid.
La sua caratteristica principale un'allegria costante: l'ultimo bus per
tornare a casa ci chiudeva le porte in faccia? Lui ci scherzava su. Ci
perdevamo per Londra? Scoppiava a ridere perchè si rendeva
conto di aver tenuto la cartina al contrario. Era una cosa irritante,
soprattutto per me, e la voglia di urlargli un bel "Cosa diamine hai da
ridere?!" era forte ogni volta. Però, rispetto agli altri
due, era quello che sopportavo meglio. Forse perchè la sua
gioia di vivere mi contagiava un po', e la cosa non mi dispiaceva in
fin dei conti.
"Gente, questo posto è uno sballo! E tu che non ci volevi
nemmeno venire fratellino!" disse Gilbert dandomi una pacca sulla
spalla.
"Ti stai divertendo adesso, Ludwig?", mi chiese poi Antonio sedutomi di
fronte, sorridendo come sempre.
"Un sacco...", risposi tirando un sorriso e dando un altro sorso a
quella obrobriosa bevanda che il barman aveva definito beer. Il concetto
sarà pure internazionale, ma non c'era paragone tra la Bier tedesca e
quella roba sgasata e calda.
"Su con il morale, mon cher; se fossi un pochino più
rilassato scommetto che la tua bellezza teutonica farebbe di certo
colpo" disse Francis, scostandosi teatralmente una ciocca dei lunghi
capelli biondi dal viso e guardandomi con aria maliziosa. Un brivido mi
percorse la schiena: quanto era viscido quell'uomo?
Prima che potessi rispondere qualsiasi cosa, Antonio disse: "Ma che
dici? Lo sanno tutti che i tedeschi non si distinguono certo per
l'essere dei grandi amanti. La Spagna è il paese de la pasiòn"
"E la Francia quello de
l'amour, se è per questo", aggiunse Francis.
"Sarà, ma i vostri paesi non hanno dato i natali al
Magnifico Me. Quindi la Germania ha una marcia in più,
giusto Lud?"
Io non li stavo più ascoltando da un pezzo. I loro discorsi
mi sembravano sempre più inutili e superficiali di giorno in
giorno da quando ero arrivato a Londra. Perciò, sentendomi
chiamato in causa, sobbalzai appena e ammisi: "Credo di essermi
distratto un attimo...dicevate?"
Mio fratello sbuffò, Francis sorrise e Antonio, come sempre,
scoppiò a ridere dicendo: "Ragazzi, credo che lo stiamo
annoiando terribilmente"
Sorrisi appena. Era in quei momenti che Antonio mi stava piuttosto
simpatico.
"No, è lui a essere una noia totale! Mein Gott Bruder,
non ti ho portato qui perchè facessi l'asociale no?"
Feci un respiro profondo per non mettermi a urlare, puntualizzando che
non ero stato io a chiedergli di portarmi lì, poi risposi:
"Si Gil, hai ragione. Cercherò di rilassarmi un po'."
"Ottimo, vedi che ci capiamo?" Detto questo diede un sorso alla sua
pinta, per poi fare un'espressione disgustata: "Ma che schifo! Agli
inglesi posso perdonare che non sappiano cucinare, ma questo
è un insulto alla birra!"
***
Non so ancora come mi ritrovai al bancone del bar, da solo.
Mi ricordo soltanto che, uno dopo l'altro, gli altri avevano adocchiato
qualcuno ed erano spariti nella folla danzante.
Avevo ordinato un'altra birra, questa volta accertandomi che fosse
tedesca, e me ne stavo seduto cercando di gustarmela ignorando la
confusione. Mi voltai verso il palco che stava al centro della sala: un
ragazzo stava suonando dal vivo. In quel momento mi ricordai anche che
uno dei motivi per cui mi avevano trascinato proprio in quel posto era
perchè ci si esibivano musicisti live. Quando notai Francis,
seduto proprio lì sotto, con un'espressione maliziosa
rivolta proprio al povero chitarrista, capii che doveva aver scelto lui
come suo trofeo di quella sera, e che probabilmente lo aveva anche
annunciato a gran voce, conoscendolo. Mi ero perso un po' di passaggi
dei discorsi di quei tre, ma la cosa non mi disturbava.
Non ho mai capito tanto di musica, ma a giudicare dalla chitarra che il
ragazzo aveva tra le mani e il ritmo della canzone, conclusi che era
rock. Non era male, e anche abbatsanza orecchiabile rispetto alla
tremenda robaccia metal che usciva dalla stanza di Gilbert a diecimila
decibel e che mi aveva causato un sacco di emicrania.
<
Two hundred degrees
Thath's why they call me
Mister Fahrenheit
I'm travling at the
speed of light
I wanna make a
supersonic man out of you>>
"Ehi, bella questa canzone vero?"
Mi voltai di scatto, sentendo quella voce a pochi centimetri dalle mie
spalle.
Un ragazzino dai capelli rossicci e uno strano ricciolo al lato
sinistro della testa, mi stava guardando con aria allegra.
"Ehm, s-si non è male" mugugnai, colto alla sprovvista.
Il suo sorriso si fece ancor più luminoso, e disse: "Credo
siano i Queen. A proposito, mi chiamo Feliciano Vargas! Piacere!"
Non capii perchè si stesse presentando, ma per educazione
feci lo stesso: "Ludwig Beilschmidt, piacere mio"
"Uhm, sei tedesco?"
"Si, esatto."
"Io italiano, vivo a Venezia. Ci sei mai stato?"
"N-no, non ho mai visto l'Italia. Però dicono che sia molto
bella"
"Lo è! Però quando ci nasci è diverso,
credo. Tu invece di dove sei?"
"Berlino"
"Ci sono stato! Però non mi è piaciuta molto, ci
sono così pochi monumenti..."
Arricciai il naso. Non era propriamente gentile quello che aveva detto,
soprattutto dopo che io avevo elogiato la sua patria. Però,
pensandoci bene, non stava semplicemente dicendo la verità?
E questo non era da ammirare, in una persona?
"Già, però a me piace molto. Credo che sia per
quello che hai detto prima: quando ci nasci è diverso"
Lui sorrise, forse felice del fatto che avessi prestato tanta
attenzione alle sue parole, poi continuò: "Come mai sei a
Londra?"
Quella domanda mi riportò alla mente la mia assurda storia,
perciò mi limitai a dire: "Progetto Erasmus, sono qui con
mio fratello e... i suoi amici."
"Anche io sono venuto qui con mio fratello, in viaggio studio
però; ma non conosciamo nessuno, per questo siamo venuti in
questo locale stasera. Lui non era d'accordo, ma alla fine sono
riuscito a convincerlo!"
Un pessimo presentimento si fece strada in me: quelle parole le avrebbe
potute pronunciare mio fratello. Il sospetto di stare socializzando con
un Gilbert italiano mi fece rabbrividire, e automaticamente provai pena
per il fratello di quel ragazzo.
C'era però qualcosa di diverso in Feliciano, qualcosa che
non avevo mai visto in nessuno: un'enorme ingenuità e
spensieratezza che gli era dipinta sul volto, un po' come quella di
Antonio, ma più genuina e moderata. E la sua voce era dolce,
a tratti quasi timida, molto diversa quindi da quella squillante e
sicura dell'ispanico.
"Capisco...Ora sarebbe meglio se tornassi da lui, da quel che ho capito
adesso è da solo" dissi.
Ma l'italiano scosse la testa e facendomi l'occhiolino, come se stesse
per rivelarmi un segreto, fece: "L'ho lasciato con un ragazzo spagnolo
molto simpatico."
Altro brutto presentimento, che però decisi volutamente di
ignorare.
Feliciano continuò: "Sai, mio fratello è sempre
molto chiuso. Quel ragazzo sembrava essere davvero molto gentile,
quindi mi farebbe piacere se nascesse qualcosa tra loro, o almeno
diventassero amici."
Disse queste parole con una tenerezza immensa; improvvisamente mi
sentii le guance bollenti e il cuore saltare un battito.
Mi schiarii la gola, cercando di ignorare quella sensazione: "Sei
davvero molto premuroso con tuo fratello"
Lui sorrise di nuovo: "E' normale volere il meglio per le persone a cui
si tiene no? E poi lo vedo così di rado, voglio che questa
vacanza sia fantastica per entrambi"
Mi incuriosii il fatto che un ragazzo così giovane vedesse
poco il fratello. Di certo non andava ancora all'università,
quindi in teoria avrebbero dovuto vivere assieme, come me e Gilbert ad
esempio. Ma non era educato farsi i fatti altrui, perciò non
chiesi nulla.
L'italiano però sembrò leggermi nel pensiero:
"Sai, siamo orfani e siamo stati adottati da due famiglie differenti,
una di Venezia, dove vivo io, e una di Roma. C'è rimasto
solo nostro nonno, che però è sempre in viaggio
per affari e non potrebbe prendersi cura di noi. Ma è un
uomo molto ricco e buono, non ci ha mai fatto mancare nulla. Fa sempre
in modo che io e mio fratello ci incontriamo almeno per Natale e
durante le vacanze estive"
Mi faceva sentire un po' disagio il fatto che mi stesse raccontando la
storia della sua vita. E non una storia qualsiasi, una tragedia
familiare.
"Mi dispiace molto, non deve essere stato facile; eppure sembri aver
affrontato bene la cosa..." mi guardò confuso, sgranando i
grandi occhi nocciola "...voglio dire, sembri molto allegro. Ecco, io
non so se al tuo posto avrei reagito così"
Ma che stavo dicendo?! Mi stavo lasciando coinvolgere da quel ragazzino
un po' troppo socievole, e la cosa non mi piaceva. Ma come potevo
mantenere la mia solita freddezza, se lui mi guardava con quegli occhi
così sinceri, se mi sorrideva come in quel momento?
"Grazie!
Sei una persona molto gentile, sai?"
Arrossii. Nessuno mi aveva mai detto una cosa così, o almeno
non dopo aver scambiato solo due parole con me: la maggior parte della
gente a pelle mi definiva frigido, severo, asociale. Ma mai 'gentile' o
addirittura 'molto gentile'.
"B-bè, è quello che direbbero tutti..."
"No, non credo. Molti si
fingono dispiaciuti, tu invece lo sei davvero"
Inarcai un sopracciglio: "Come fai a dirlo?"
Lui scosse le spalle, ridendo: "Non lo so, ma mi sembra che sia
così! E' una sensazione strana, in effetti. Come se ci
conoscessimo da tempo"
Il cuore iniziò ad accellerare il suo battito. Che mi stava
succendo?
"Ah, uhm..."
Non sapevo cosa rispondere, non volevo continuare quella strana
conversazione ma non volevo nemmeno che Feliciano se ne andasse,
perchè per la prima volta in vita mia mi sentivo bene nel
parlare con una persona. Forse la stavo provando anche io quella
sensazione, solo non volevo ammetterlo a me stesso, perchè
avrebbe significato che dentro di me stava succendendo qualcosa che per
una volta non potevo controllare.
Senza rendermene conto, tornai a concentrarmi sul chitarrista, e sulle
parole del brano che stava eseguendo.
<
'Cause I'm having a good
time
I don't wanna stop at all
I'm a rocket ship on my
way to Mars
On a collision course
I am a satellite
I'm out of
control>>
Mi tornò in mente la promessa fatta a Gilbert.
Dovevo rilassarmi. Così mi sarei goduto anche io la serata.
"Posso chiamarti Lud?"
Mi voltai di nuovo verso Feliciano. Mi guardava, sorridendomi
dolcemente.
Sorrisi anche io stavolta, anche se sentivo che stavo arrossendo: "Se
ti fa piacere"
"Che bello! Tu puoi chiamarmi Feli!"
"Uhm, d'accordo..."
Ci fu un breve silenzio. Poi l'italiano si illuminò ed
esclamò: "Lud, mi sono ricordato che c'è una cosa
che mi ero ripromesso di fare! Vuoi venire con me?"
Mi irrigidii. Milioni di domande e dubbi si misero a vorticarmi nel
cervello. Andare dove? A fare cosa? Avrei dovuto lasciare il locale,
Gilbert e gli altri. E poi, non ci conoscevamo che da qualche minuto; e
poi...
Basta. Dovevo rilassarmi, no?
Non fermarmi adesso,
maledetta paranoia.
Presi un respiro profondo e, con una certa emozione nella voce per
quello che stavo per dire, risposi: "Non so cosa hai in mente ma...va
bene"
Angolino
dell'Autrice:
Okay, mi sono decisa a pubblicare questa storia. L'ho iniziata, quando,
un anno fa? Ma poi sono stata presa da quel maledetto blocco dello
scrittore ed è rimasta sospesa per mesi. Ma ora mi sono
decisa a finirla, perchè mi ci ero affezionata e mi
dispiaceva abbandonarla a sè stessa.
Niente. Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto! Magari lasciate
una recensioncina okay? :3
See ya soon, people!
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Capitolo 2 *** Should I Stay or Should I Go? - The Clash ***
Streetlight
People
2. Should I Stay or Should I Go?- The Clash
"Mon
Dieu,
non c'è nessuno di interessante"
La
voce di Francis sembrava decisamente annoiata, mentre si guardava
attorno rimescolando con la cannuccia il drink che aveva davanti,
facendo tintinnare il ghiaccio contro il bicchiere.
Sorrisi,
la sua espressione era davvero buffa in quel momento: "E dai, Fran, la
serata è appena iniziata! E poi parli proprio tu, che in un
modo o nell'altro riesci sempre a trovare qualcuno con cui appartarti!"
Lui
mi guardò falsamente offeso: "Così mi fai sentire
un uomo di facili costumi"
"Come
se non lo fossi!", disse Gilbert con il suo solito tatto, dandogli una
poderosa pacca sulla spalla.
"Gilbert,
non è che tu sia proprio un santo eh?" ribattè il
francese ricambiando il gesto.
In
quel momento notai Ludwig, che probabilmente si stava ancora annoiando
a morte a giudicare dal suo sguardo perso.
Era
come se quel ragazzo fosse allergico al divertimento, o qualcosa di
simile. Ma lo trovavo comunque molto spassoso: quando lo facevamo
arrabbiare le sue reazioni erano impagabili.
"E
tu Gil, c'è qualcuna di tuo gusto?" chiesi al tedesco, che
stava ancora lanciando frecciatine a Francis.
Lui
si guardò velocemente attorno per poi decretare: "Uhm, no.
Nessuna all'altezza del Magnifico Me."
Sorrisi.
Non sapevo da quanto Gilbert avesse adottato quel soprannome per
definirsi; quando lo avevo conosciuto, insieme a Francis, durante le
mie vacanze in Grecia, lo usava già. All'inizio lo avevo
trovato estremamente stupido, ma alla fine mi ci ero affezionato, come
anche a tutto il resto.
Io,
Fran e Gil eravamo diventati subito inseparabili. Ero sempre stato un
tipo socievole, ma con loro era stato diverso. Ci piaceva fare i
cretini insieme e rompere le scatole agli altri, anche se spesso ci
cacciavamo nei casini da soli. Ma andava bene così: Gilbert
e le sue manie di protagonismo, Francis con la sua fissa per il sesso e
io...bè, io credo di essere quello iperattivo del gruppo.
"Regarde!"
Mi
voltai verso Francis, che ci stava indicando il palco davanti a noi.
La
band che aveva suonato fino a quel momento stava sbaraccando i propri
strumenti per lasciare posto al cantante successivo.
"Cosa
c'è di così interessante, Fran? Mai visto un
cambio di scena?" chiese Gil, evidentemente deluso.
In
tutta risposta si prese uno scappellotto sul collo.
"Ahi!
Guarda che mi hai fatto male!"
"Non
è quella la cosa interessante, ovviamente."
Francis
aveva sempre amato farsi desiderare, quindi non ci disse cosa
effettivamente dovessimo guardare finchè non gli chiesi,
rassegnato: "Quindi?"
"Quindi
ho appena trovato qualcuno che è degno della mia
attenzione", rispose indicando con lo sguardo il ragazzo che, salito
sul palco, stava imbracciando la sua chitarra elettrica.
Non
era molto alto, aveva dei disordinati capelli biondo cenere e gli occhi
verdi. Lo trovai piuttosto banale, a una prima occhiata: un tipo a cui
non avrei mai badato se mi si fosse seduto vicino sul treno, ad esempio.
"Stai
scherzando vero?", chiese d'un tratto Gilbert, ridendo sguaiato.
"Parce-que?"
"Francis,
da quando hai un feticismo per i sopracciglioni?"
Tornai
a posare lo sguardo sul ragazzo: in effetti, nascoste in parte dalla
frangetta, sulla sua fronte spiccavano due enormi sopracciglia scure.
Non
potei trattenermi dallo scoppiare a ridere a mia volta: "Madre
de Dios,
sembrano due bruchi!"
Francis
assunse quella sua solita aria di superiorità, e disse: "Voi
due non capite niente di bellezza. Quelle sopracciglia gli danno un
tocco molto british, non trovate?"
Io
e Gil ci guardammo sorridendo. Francis aveva da sempre avuto dei gusti
molto particolari, e noi due non volevamo nemmeno sforzarci di capire
cosa gli passasse per la testa.
"Se
lo dici tu, Francis..." dicemmo io e il tedesco quasi all'unisono.
Il
francese gettò gli occhi al cielo, si alzò
teatralmente dal divanetto e ci disse: "Se volete scusarmi, ho un
inglesino sexy da sedurre"
Scoppiammo
a ridere, mentre si allontanava sinuosamente facendo voltare la testa a
tutti. Francis aveva davvero fascino, questo era innegabile: curava
ogni minimo dettaglio del suo aspetto, dai capelli biondi che
arrivavano poco sopra le spalle, alla barbetta sul mento, per la quale
io e Gil lo prendevamo sempre in giro. Sapeva di essere un bel ragazzo,
e per questo l'aria maliziosa che aveva costantemente negli occhi blu
scuro non era un caso.
"Bene
ragazzi, direi che adesso tocca a noi" disse Gilbert.
Io
e Ludwig ci guardammo confusi. "Che vuoi dire, Bruder?"
"Non
vorremo lasciare tutto il divertimento a quel fighetto francese, no?
Dobbiamo trovarci anche noi qualcuno con cui spassarcela!"
Lud
arrossì, e avrei giurato che si stesse pentendo di aver
fatto quella domanda al fratello.
Sorrisi,
poi dissi con sicurezza: "Sai cosa Gil? Hai ragione!"
***
Fu
proprio quando stavo abbandonando la speranza di trovare qualcuno di
interessante che lo vidi.
Stava
seduto a un tavolino dall'altra parte del locale, vicino a un ragazzo a
lui molto simile, che immaginai essere il fratello.
Aveva
i capelli castani e due occhi scuri che vagavano freddi per la sala.
Forse non era particolarmente carino, ma per me fu come una visione:
era il ragazzo più bello che avessi mai visto.
"...e
poi scommetto che tanto alla fine non ci sta quell'inglese! Francis
rimarrà a bocca asciutta, fidati di me!"
La
voce roca di Glibert mi riportò alla realtà.
Mi
voltai verso di lui e Ludwig, sorrisi, e alzandomi dissi: "Perdòn
amigos,
ma il cuore chiama"
I
due tedeschi si guardarono stupiti; mentre mi allontanavo, sentii Gil
mugugnare qualcosa come "è la serata 'ignoriamo il
Magnifico', per caso?"
Sentii
i loro sguardi su di me finchè non mi buttai tra la folla:
meglio così, non mi andava di avere gli occhi addosso mentre
socializzavo.
Quando
mi avvicinai al tavolo, ancor prima che potessi aprire bocca, lui si
voltò verso di me e mi guardò con sguardo
tagliente e aggressivo, scrutandomi da capo a piedi. Sentii il cuore
fare una capriola.
"Hola!
Posso sedermi?" gli chiesi allegro.
Ma
fu il fratello a rispondermi, facendomi un gran sorriso: "Certo,
accomodati!". Questi sembrava un ragazzo molto simpatico e solare,
avrei scommesso che saremmo andati d'accordo.
Mentre
prendevo posto, il mio querido non mi aveva staccato gli occhi di dosso
un attimo: anche se non era affatto uno sguardo d'ammirazione quello
che mi stava lanciando, mi andava benissimo lo stesso.
"Non
ho potuto fare a meno di notarvi, ragazzi! Siete proprio simili"
Si,
era un ottimo inizio per una conversazione.
Come
prima, fu il fratello a rispondermi: "Siamo gemelli! A proposito, non
ci siamo ancora presentati: siamo Feliciano" disse indicandosi "e
Lovino Vargas" concluse, indicando il ragazzo che ancora mi stava
guardando storto.
"Antonio
Fernandez Carriedo, piacere mio" mormorai con il tono più
sensuale che mi riusciva, puntando tutto il mio interesse su quello che
avevo scoperto chiamarsi Lovino. Quel nome mi stava già
dando alla testa.
"Wow,
che nome lungo! Sei spagnolo giusto?" mi chiese Feliciano.
"Si,
di Madrid. Voi invece italiani, no?"
Feliciano
stava per rispondere, ma fu interrotto dal fratello che, finalmente,
parlò: "Complimenti, che perspicacia"
Anche
se mi stava chiaramente sfottendo, la sua voce mi parve la
più sexy che avessi mai sentito. Era musica.
Feliciano
gli diede una gomitata, riprendendolo: "Lovi, non essere scortese!"
Questi
in tutta risposta sbuffò e alzò gli occhi al
cielo.
"Perchè?
Io lo trovo simpatico" dissi, sorridendogli. Lui alzò un
sopracciglio con fare scettico, e sbuffò ancora.
Feliciano
riprese: "Comunque sì, siamo italiani: io vivo a Venezia e
Lovi a Roma"
Mi
stupii: "Come mai in due città diverse?"
Mi
resi conto troppo tardi che quella domanda era decisamente fuoriluogo,
ma prima che potessi rimangiarmela, Lovino mi guardò con
odio e borbottò: "Non tutte le famiglie sono perfette, sai?"
"M-mi
dispiace, io..."
"Non
è colpa tua, è normale chiederselo" disse
dolcemente Feliciano "Abbiamo perso i genitori quando eravamo molto
piccoli, e siamo stati adottati da due famiglie, una di Venezia e una
di Roma appunto, e...ahi! Fratellone, perchè mi hai dato un
calcio?"
Guardai
Lovino, il quale sembrava piuttosto seccato: "Per impedirti di
raccontare i fatti nostri a un estraneo!"
"Ma
sembra così gentile!" protestò l'altro,
indicandomi.
"Se
a Lovi da fastidio, non è necessario che me lo racconti",
dissi sorridendogli.
"Sentito?
E comunque, il mio nome è Lovino: vedi di non abbreviarlo,
grazie", disse il sud-italiano.
"Excusa,
chico",
mormorai. Si, quel ragazzo mi piaceva davvero da morire.
Parlai
a lungo con loro, e nonostante la mia attenzione e il mio sguardo
fossero costantemente rivolti a Lovino, era sempre Feliciano a
rispondermi.
Guardandoli
più attentamente, notai che entrambi avevano uno strano
ricciolo ai lati della testa. Inoltre, i capelli di Feli erano di un
castano più chiaro, quasi rossi, rispetto a quelli del
fratello.
E
poi gli occhi di Lovino erano molto più scuri, e
personalmente li trovavo belli da mozzare il fiato: avevano riflessi
verdi e ambrati, e lo sguardo freddo che avevano costantemente li
rendeva magnetici.
Il
fratello si limitava a sbuffare, guardarmi storto e borbottare parole
in italiano che dopo un po' capii essere insulti. Ciononostante,
continuavo a trovarlo adorabile.
"Questo
cantante è molto bravo, vero?" mi chiese Feliciano,
guardando il palco.
Mi
voltai anche io, nonostante già sapessi di chi stesse
parlando. Cavolo, più le guardavo più quelle
sopracciglia mi sembravano anormali. Mi chiesi se Francis era ancora
lì a fargli gli occhi dolci.
Should I stay or should
I go?
If you say that you are
mine
I'll be here 'till the
end of time>
"Si,
in effetti questa canzone non è male", dissi.
In
quel momento Feliciano si alzò: "Ragazzi, io vado a prendere
da bere"
Lovino
fece per seguirlo: "Ti accompagno"
L'altro
scosse la testa, poi, guardando verso di me, disse: "No, Lovi tu rimani
qui con Tonio. Non annoiarlo ok?"
Mi
fece l'occhiolino, con fare complice, per poi allontanarsi.
Ci
aveva lasciati soli apposta. Si, Feliciano mi stava decisamente
simpatico.
Lovino
si voltò verso di me, guardandomi in cagnesco: "Cos'era
quello?"
Feci
finta di niente: "Cosa?"
"Lo
sai" fece sedendosi nuovamente "quell'occhiolino"
Scossi
le spalle: "Non saprei"
Inaspettatamente,
lui si arrabbiò: "Stammi a sentire, tu! Non ho ascoltato
tutta la conversazione che hai avuto con mio fratello perchè
mi sembrava innocua e decisamente inutile, ma a quanto pare non
è così!"
Ero
confuso. Che avevo fatto di male? Perchè si era arrabbiato
così?
"Non
so di cosa tu stia parlando..."
"Senti,
Feli potrà anche essere ingenuo, ma io non lo sono: credi
che non abbia capito perchè hai attaccato discorso con noi?"
"Ehm,
immagino di sì. Ma non capisco perchè tu stia
reagendo così"
Assottigliò
lo sguardo. "Stai lontano da mio fratello. Io sono il maggiore, quindi
è mio compito difenderlo da soggetti come te"
Lo
guardai per un istante. E, nonostante non volessi, mi scappò
una risata.
"Perchè
cazzo stai ridendo, bastardo?!"
"Madre
de Dios...pensi
davvero che sia tuo fratello a interessarmi?"
"Certo
che sì!"
"Lovi,
credo che sia tu l'ingenuo"
"Balle!"
"Invece
è così: tuo fratello ha capito le mie intenzioni.
Tu invece, credimi, sei lontano anni luce"
Sembrò
interdetto. Continuai: "Il ragazzo che mi ha colpito non appena l'ho
visto non è Feliciano, ma è seduto proprio qui,
di fianco a me"
Ci
pensò un attimo, soppesando ogni mia parola. Poi, come se
avesse capito improvvisamente tutto, sgranò gli occhi e
arrossì violentemente, sapalancando la bocca come per dire
qualcosa.
"Sei..un
bastardo..." disse, voltandosi a guardare il palco.
Non
capii quella reazione. Non mi aveva respinto, ma non mi si era nemmeno
gettato ai piedi. Non sembrava voler dire altro, così, non
sapendo cosa era meglio fare, lo imitai e tornai a rivolgere la mia
attenzione al chitarrista sopracciglione.
You're happy when I'm on
my knees
One day is fine, the
next is black
So if you want me off
your back
Well c'mon and let me
know
Should I stay or should
I go?>
Cavolo,
le parole di quella canzone.
Mi
voltai verso Lovino, certo che anche lui lo avesse notato.
Anche
lui mi guardò. Era ancora rosso in volto e aveva
un'espressione incerta: "Sai, di solito tutti preferiscono mio
fratello. E' lui quello dolce, quello gentile, quello bravo in tutto..."
Era
adorabile; avrei solo voluto abbracciarlo in quel momento.
"Uhm,
può essere. Ma a me sono sempre piaciute le sfide" dissi,
sorridendo.
Lui
si morse le labbra, abbassando lo sguardo.
Mi
avvicinai a lui, fino a far sfiorare le nostre labbra.
"Allora"
chiesi in un sussurro "dovrei
restare o andarmene adesso?"
Lo
sentii sospirare piano. Poi mugugnò: "Rimane il fatto che
non ti sopporto, e che non mi fido di te"
"Ti
farò cambiare idea, mi
querido",
sussurrai, per poi unire definitivamente le nostre labbra.
Dio,
fu il bacio più fantastico che avessi mai dato. E il modo in
cui lui lo ricambiò, prima dolce, poi sempre più
passionale. Già, dovevo dire a Francis che anche l'Italia
era un paese di grandi amanti.
Feci
leggermente pressione con la lingua contro le sue labbra; lui le
schiuse leggermente, lasciandomi entrare. Stavo per impazzire, era
tutto troppo perfetto, quando sentii una tremenda fitta.
Mi
allontanai di scatto gemendo, la lingua mi pulsava dal dolore.
"Mi
hai appena...morso?", gli chiesi incredulo.
Lui
mi guardava, sorridendomi con aria strafottente: "Così
impari a tenerla al suo posto. Non penserai che sia così
facile sedurre Lovino Vargas, eh?"
Sorrisi.
Oh, non lo pensavo affatto. Anzi, mi ero appena reso conto che la sfida
che avevo accettato era tanto difficile quanto allettante.
Mi
alzai, porgendogli una mano: "Vieni con me"
Alzò
un sopracciglio, confuso: "E dove?"
"Questa
è una sorpresa. Sappi che non voglio solo sedurti: voglio
proprio farti innamorare perdutamente di me, stanotte"
Di
nuovo quello sguardo strafottente: "Continua a sognare, Carriedo."
"Se
sei così sicuro del mio fallimento, non devi temere nulla
no? Andiamo, dimostrami che hai ragione"
Lui
sbuffò, mi guardò per un istante e infine si
alzò: "Va bene, portami dove ti pare. Ma sappi che non
otterrai nulla"
Poi,
guardando la mia mano ancora tesa verso di lui, aggiunse: "E
scordatelo, non ti prenderei per mano nemmeno per tutto l'oro del mondo"
Ne
ero sicuro: mi ero innamorato.
Angolino
dell'Autrice:
Eccomi con il secondo
capitolo (Spamanoooo. Adoro questa coppia!)
Vorrei ringraziare
Marlboro_Ohana per la recensione e anche tutti quelli che l'hanno messa
tra le seguite!
Spero che vi sia
piaciuto e che la storia vi stia coinvolgendo. Mi raccomando, recensite
e consigliate!
See ya soon, people!
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Capitolo 3 *** Heartbreaker - Led Zeppelin ***
Streetlight People
3. Heartbreaker- Led
Zeppelin
"Non è ingiusto che quei due stronzi abbiano trovato
qualcosa da fare e io no?", mi lamentai, gettando la testa all'indietro
sul divanetto.
"Se magari non considerassi ogni ragazza che vedi come 'indegna della
tua magnificenza', magari adesso anche tu saresti in...ehm...dolce
compagnia", mi rispose Ludwig.
"Fratellino, parli come un vecchio! Ecco, mi hanno lasciato qui con te
che mi fai la predica come un nonno!" Ludwig aveva da sempre questo
grande difetto. Era troppo serio e rigido, il tedesco per eccellenza,
anche nell'aspetto: alto, robusto, biondo, occhi azzurri. Non era male,
e sicuramente avrebbe avuto molto più successo se fosse
stato un poco più allegro. Eppure le donne, nonostante lui
avesse altri gusti,
sembravano preferirlo a me. Stolte.
Semplicemente non sapevano apprezzare la mia singolare bellezza. E'
vero, ero albino, ma era proprio questo a rendermi diverso, unico,
speciale. Insomma, quante volte nella vita avrebbero potuto trovare un
paio di occhi scarlatti come i mei? E i mei capelli erano talmente
chiari da essere quasi bianchi, e senza tinte! Una figata! Altro che
Antonio, ad esempio: occhi verdi, pelle abbronzata, capelli scuri,
tutte caratteristiche così banali, chiunque fosse nato sul
mediterraneo poteva averle! Non lo invidiavo affatto. O forse un po' si?
Ludwig si schiaffò una mano sul viso: "Se non ti guardi
nemmeno intorno e stai lì a lamentarti, come speri di
trovare qualcuno?"
Alzai un sopracciglio. Ehi, aveva senso.
Feci vagare lo sguardo sulla sala, soffermandomi su ogni donna che
ritenevo 'passabile'.
Vidi due ragazze che sembravano sorelle: una aveva lunghi capelli
argentei e sottili occhi viola. In testa portava un fiocco blu. L'altra
le somigliava molto, ma era un po' più alta, aveva i capelli
corti raccolti da un cerchietto e un davanzale da paura. Cavolo, doveva
portare una sesta o giù di lì. Erano molto belle,
ma nessuna delle due mi convinceva (anche perchè, tra di
loro, stava un altro tizio alto quanto un armadio che sorrideva in modo
inquietante: non avrei mai avuto il coraggio di avvicinarmi)
Guardai altrove: una biondina dagli gli occhi verdi, che indossava un
esagerato vestito rosa confetto. Era abbastanza vicina
perchè sentissi i suoi discorsi con un tizio accanto a lei
dai capelli castani, che mi parve sentir chiamare Toris. Quanti
'cioè' e 'tipo' infilava in ogni frase, quella? E poi la sua
voce sembrava così mascolina... Capii tutto quando sentii il
ragazzo chiamarla 'Feliks'. Mein
Gott.
"Lud, meglio rinucia-" mi bloccai.
No, non poteva essere vero.
"Gil, tutto a posto?"
Non sentii nemmeno la voce di mio fratello. Continuavo a fissare quella
ragazza, dai lunghi e mossi capelli castani e gli occhi verdi, che era
appena entrata nel locale. No, non poteva essere lei. Eppure quel
volto, quel sorriso...il fiore. Fu il fiore arancio che portava tra i
capelli che mi fece capire che sì, quella era proprio
Elizaveta Hedervary.
***
L'avevo conosciuta quando avevamo entrambi dieci anni. Si era
trasferita a Berlino per gli affari di suo padre, ma era origninaria
dell'Ungheria.
Era arrivata nella mia classe in quarta elementare, e subito era
diventata simpatica a tutti. O meglio, a tutti tranne che a me. Mi
divertivo un sacco a prenderla in giro per i suoi modi da maschiaccio e
per le sue difficoltà con il tedesco; d'altra parte lei non
si era mai lasciata mettere i piedi in testa facilmente, e spesso
finivamo con il fare a botte.
Con il passare del tempo però questo odio reciproco
diventò più forte di qualsiasi amicizia: eravamo
diventati migliori nemici, e stavamo sempre insieme, a volte giocando,
a volte picchiandoci a sangue.
Tutto cambiò quando mi resi conto che Lizzy non era
più la stessa. Si era fatta crescere i capelli fino alla
vita, indossava sempre più spesso gonne e magliette
attillate, sotto le quali cominciava a sporgere un gonfiore sempre
più evidente. Il maschiaccio di un tempo era sparito per
lasciare posto a una ragazza.
All'inzio odiavo quel cambiamento, rivolevo la vecchia Lizzy, quella
che non andava su tutte le furie se per caso le sfioravo il petto, che
non aveva sbalzi d'umore continui una volta al mese e che non faceva la
smorfiosa con i ragazzi più grandi.
Ma anche io stavo cambiando: quando mi si avvicinava mi batteva il
cuore, quando mi sorrideva sentivo una strana sensazione all'altezza
dello stomaco e quando mi parlava di quanto trovasse bello questo e
quell'altro ragazzo mi dava tremendamente fastidio.
Capii troppo tardi che sì, forse il Magnifico Me si era
innamorato.
Un giorno d'estate dei nostri quindici anni eravamo andati nel campo
dietro casa sua.
"Gil, sono belli questi
fiori, vero?"
"Che discorso da
femminuccia! Non sperare che ti risponda, sarebbe da gay!"
"Sei antipatico...Senti,
per farti perdonare regalami uno di questi fiori"
"Cosa? Il Magnifico Me
non ha nulla da farsi perdonare!!!"
"Gilbert Beilschidt, se
non lo fai ti picchierò con una delle padelle di mia madre!
E sai che sono in grado di farlo!"
"Ugh, maledizione...e va
bene, quale vuoi?"
"Decidi tu, quello che
credi mi stia meglio tra i capelli"
"Ribadisco, ne
uscirò gay come mio fratello..."
"Lascia stare Ludwig,
poverino! E sbrigati, sai che ho poca pazienza!"
"Ecco! Questo qui
arancione, contenta?"
"L'arancio mi piace!
Come sto?"
"Uhm, ecco...b-bene"
"Ehi, Gil...facciamo il
gioco delle ipotesi"
"Ma è noioso!
Uff, va bene, ma comincio io: vediamo...Cosa faresti se...uhm...s-se ti
dicessi di essermi innamorato di te?"
"Eh? Oddio, non so!
Probabilmente controllerei che tu non abbia la febbre! Ahah!"
"Va all'inferno..."
"Adesso è il
mio turno: cosa faresti se me ne andassi all'improvviso?"
"Ma che domande sono?!"
"Saresti triste? Mi
chiederesti di restare?"
"Cos-NO! Certo che no!
Il Magnifico Me è troppo superiore per preoccuparsi di cose
così inutili! Ti direi di fare quello che ti pare, ecco!"
"Capisco..."
"Ehi, che ti prende? Non
mi picchi?"
"No, oggi no. Ora
scusami ma devo andare, la mamma mi ha chiesto di aiutarla. Stammi bene
Gilbert, ok?"
Quelle furono le ultime parole che mi disse. Partì il giorno
dopo per l'Ungheria. Così, senza avvisarmi. Senza darmi la
possibilità di salutarla come si deve. Sparì
dalla mia vita così come era arrivata, all'improvviso.
Spezzando il mio magnifico cuore.
E ora era eccola lì, a Londra.
"Ciao, Lizzy"
Lei si girò e mi guardò perplessa.
"Ci conosciamo?"
Aggrottai le sopracciglia: "Hai la memoria corta, maledetta donna, per
dimenticarti del Magnifco Me tanto facilmente"
I suoi occhi verdi si assottigliarono, come a cercare un ricordo
lontano nella sua mente. Poi improvvisamente si spalancarono, come la
bocca.
"Gilbert? Gilbert Beilschmidt?"
"In carne, ossa e magnificenza"
"Non ci posso credere! Gil, sono passati così tanti anni!",
disse incredula.
"Sette, per la precisione", la mia voce uscì con una
nostalgia non desiderata.
"Sette anni! Come vola il tempo! Sei cambiato tantissimo, adesso sei
anche più alto di me!". Mi sorrise, sembrava felice di
rivedermi. Stupida, stupida ragazza. Come se avesse potuto permettersi
di parlarmi così, dopo quello che aveva fatto, quando invece
avrebbe dovuto buttarsi ai miei piedi e chiedermi perdono in lacrime.
In quel momento la ragazza cha avevo visto prima insieme a lei
riapparve dalla folla e, rossa in volto, si avvicinò a
Elizaveta: "Lizzy, non sai cosa è appena successo, vedi...".
Quando si accorse di me si ammutolì, mi fece un cenno con il
capo in segno di saluto e tornandosi a rivolgere a lei chiese: "Posso
parlarti un secondo in privato?"
Lizzy la guardò confusa, poi annuì. Prima di
allontanarsi con l'altra, sorridendo, mi disse: "Torno subito, non
osare muoverti di lì"
Il cuore mi fece un salto nel petto. Dannata donna.
All'improvviso sentii qualcuno afferrarmi il braccio, e sobbalzai.
Voltandomi, mi trovai di fronte al viso di un certo francese di mia
conoscenza.
"Francis! Che cavolo vuoi?"
"Gil, credo di essermi innamorato di lei"
"Innamorato? Tu? Ma non farmi ridere! E poi, 'lei' chi?"
"Come chi? L'hai appena vista, no? Quel dolce angelo dagli occhi blu e
la pelle color cioccolato: Yasmine"
Sospirò, con aria sognante. Non l'avevo mai visto
così. "Intendi dire la ragazzina con i fiocchi rossi nei
capelli che è venuta a parlare con Lizzy?"
"Ah, quei capelli! Gil, non sono meravigliosi? Così neri e
lisci come seta! E quei fiocchi sono semplicemente adorabili! Ehi, un
momento: che mi dici di questa Lizzy?", mi chiese con la sua solita
aria maliziosa.
Arrossii: "N-non è come credi tu, è una mia
amica, cioè, ci conosciamo già...lascia stare,
storia lunga! Piuttosto, e il tuo 'inglesino sexy'?"
Gettò gli occhi al cielo: "Chissene importa di lui, non
stava neanche ai miei sguardi! Ti sto dicendo che mi sono innamorato di
Yasmine! Le ho chiesto di venire a fare un giro con me, me la prestate
la macchina vero?"
Sembrava sincero. Che volesse davvero avere una storia seria? Gli diedi
una pacca sulla spalla: "Certo, non c'è problema.
Bè, auguri allora". Lui sorrise: "Anche a te, con Lizzy"
Prima che potessi ribattere, le ragazze tornarono.
Quella che avevo capito chiamarsi Yasmine si accostò a
Francis, un poco imbarazzata. Lizzy sembrava al settimo cielo:
"Bè divertitevi ragazzi!"
I due fecero un cenno con il capo e si allontanarono.
Lei sospirò: "Quella era Yasmine, la mia migliore amica
nonchè coinquilina. E' davvero molto dolce e timida, pensa
che mi ha preso in disparte solo per chiedermi se secondo me era il
caso di accettare l'invito di quel ragazzo! A proposito, sbaglio o lo
conoscevi?"
Mi stavo irritando. Non ci vedevamo da sette maledetti anni e lei
parlava di quei due? "No, mai visto in vita mia" tagliai corto.
Lei scrollò le spalle: "Dunque, cosa mi dici di te?"
Così andava meglio: "Adesso vivo in un'appartamento in
centro a Berlino, con mio fratello. Te lo ricordi vero, Ludwig?", lei
annuì, "Sto cercando lavoro, ma diamine, non è
affatto facile. Menomale che i miei vecchi hanno un sacco di grana da
prestarmi"
"Gil, sei sempre il solito. Che ci fai in Inghilterra se hai problemi
finanziari?"
"Uhm, progetto Erasmus..."
"Gilbert!"
"Te l'ho detto, i miei sono molto generosi"
Lei alzò gli occhi al cielo, sorridendo. "E tu, come mai a
Londra?", le chiesi.
"Inseguo un sogno: ti ricordi che volevo diventare fashion designer?"
Annuii, e lei continuò: "Ecco, sto seguendo un corso qui a
Londra. Non si può fare successo in Ungheria, devi andare
nelle capitali della moda se vuoi sfondare. E quindi eccomi qui: per
ora lavoro come cameriera per mantenermi, ma aspetta qualche anno e
sentirai il mio nome ovunque!"
Sembrava davvero sicura di sè. Sorrisi: "Tsè, se
lo dici tu..."
Aggrottò le sopracciglia: "Almeno io so cosa fare della mia
vita, Signor Mantenuto"
Scrollai le spalle: "E' una professione invidiabile, cosa credi?"
Mi guardò stupita. Poi scoppiò a ridere: "Gil,
non sei cambiato per niente"
Parlammo di quello che avevamo fatto in quei sette anni, senza toccare
mai il fatto che lei se ne fosse andata in quel modo. Era una
situazione strana, ma non spiacevole. Come un ritorno ai bei vecchi
tempi.
Era tutto perfetto in quel momento, il mio drink, l'atmosfera, persino
la canzone che stava suonando il chitarrista sopracciglione mi piaceva.
Her style is new but the face is
the same
As it was so long ago,
But from her eyes, a
different smile
Like that of one who
knows.
Well, its been ten years
and maybe more
Since I first set eyes
on you;
The best years of my
life gone by,
Here I am alone and blue.
"Yasmine ed io lavoriamo nello stesso cafè. E' lì
che l'ho conosciuta: è emigrata nel Regno Unito
perchè da dove viene lei, le Seychelles, non c'è
molto lavoro. Però le manca la sua patria, mi dice sempre
che per lei, che è nata in un paradiso tropicale, vivere
nella piovosa Londra è tremendo. Fatto sta che un giorno
parlando scopriamo che io avevo bisogno di un appartamento e lei
vorrebbe dividere il suo con qualcuno per ridurre le spese d'affitto. E
quindi-"
Si interruppe. Fissava un punto alle mie spalle con occhi sgranati.
Sembrava pietrificata.
"Che ti prende?", le chiesi cercando istintivamente cosa avesse potuto
catturare tanto la sua attenzione.
Sembrò tornare alla realtà: "N-no, niente...ti
dispiace se andiamo a prendere una boccata d'aria?"
Mentre parlava si era alzata e ora si stava avviando verso l'uscita con
fare furtivo, come per nascondersi da qualcuno, senza nemmeno aspettare
la mia risposta.
"Ehi, aspetta un attimo! Che sta succedendo?", le chiesi, afferrandole
un braccio.
Mi guardò supplichevole: "Gil, ti prego, c'è una
persona che non mi va di incontrare e...oh no! Mi ha vista!"
pigolò, voltando la testa dall'altra parte.
Mi accorsi che un ragazzo, dai capelli neri, gli occhi blu e un paio di
sottili occhiali da vista, si stava avvicinando a noi.
"Maldezione Gilbert, è colpa tua! Adesso stai al gioco ok?",
mi sussurrò per non farsi sentire. La mia espressione doveva
essere parecchio confusa in quel momento.
Prima che potessi chiedere spiegazioni, lei mi gettò le
baccia al collo, schioccandomi un bacio sulle labbra. Quando si
allontanò rimasi imbambolato a guardarla, mentre lei mi
prendeva per mano. Cosa stava succededno? Perchè lo aveva
fatto? E perchè il mio cuore stava battendo così
forte? Che Eliza mi interessasse ancora? In quel momento sentivo solo
una sensazione molto piacevole all'altezza del petto, del cuore.
"Elizaveta, quanto tempo!", esordì il quattrocchi che ora
stava di fronte a noi.
"Ehm, ciao Roderich" fece lei con un sorriso molto tirato.
Lo sguardo del ragazzo si posò su di me, scrutandomi da capo
a piedi con un'insopportabile aria di superiorità. "Chi
è il tuo amico?", chiese.
"Gilbert Beilschmidt, il Magnifico", mi presentai, gonfiando il petto
con fierezza.
Vidi Lizzy schiaffarsi una mano sul viso e Roderich alzare un
sopracciglio, scettico. Che avevano quei due?
"Piacere, io sono Roderich Edelstein"
"...il mio, ehm, ex fidanzato" aggiunse Eliza con una certa tristezza
nella voce. La cosa mi lasciò di stucco: da quando a Lizzy
piacevano i damerini come quello? Lei continuò: "Roderich,
Gil è il mio ragazzo"
Per poco non mi soffocai con la mia stessa saliva. Mi ero perso
qualcosa? Poi mi ricordai le parole di Eliza: 'stai al gioco'.
Ah, ora era tutto chiaro: mi stava usando per vendicarsi del suo ex.
Qualcosa dentro di me si ruppe, ciò che provai quando
scoprii che lei se n'era andata: mi si stava spezzando il cuore, di
nuovo.
Li vedevo parlare, pensavo che quel damerino odioso aveva avuto la
donna che avevo voluto e ancora volevo io. Non era giusto.
Abuse my love a
thousand times,
However hard I tried.
Heartbreaker, your times
are come
Can't take your evil way
Ecco, era come diceva il sopracciglione, e la canzone che stava
cantando in quel momento. Dovevo andarmene di lì, lasciarla
perdere: era una spezzacuori.
Provai a sciogliere le nostre mani, ancora l'una nell'altra; ma la sua
si strinse ancora di più sulla mia.
La guardai, senza capire. Lei mi sorrise, e disse: "Ora scusaci Rod, io
e Gil dobbiamo andare, vero?"
Non sentii la risposta dell'altro, nè me ne interessai,
mentre Elizaveta si faceva strada tra la folla, tenendomi ancora la
mano facendo in modo che la seguissi.
Angolino dell'Autrice:
Come alcuni di voi avevano già intuito...Prungary!
Ne approfitto per ringraziare Marlboro_Ohana, Giuls Koshka e Lyu Chan
per le loro fantastiche recensioni, le ho apprezzate molto! Inoltre, se
avete qualsiasi cosa da dirmi o chiedermi riguardo a questa storia non
esistate a mandarmi un messaggio personale, giuro che non mordo xD
Grazie per aver letto anche questo terzo capitolo e, come sempre,
recensite mi raccomando!
See ya soon people!
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Capitolo 4 *** Don't Go Away- Oasis ***
Streetlight People
4. Don't Go Away- Oasis
Eccomi su quel palco, anche quella sera.
Come ogni volta, i The
Nordics, una band metal di cinque ragazzi scandinavi, si
erano esibiti prima di me, avevano salutato il pubblico e mi avevano
lasciato il posto. Nonostante non riuscissi a sopportare Mathias, il
vocalist del gruppo, un imbecille danese con un'assurda cresta di
capelli biondi in testa, li trovavo piuttosto bravi.
Ma io ero meglio.
I miei pezzi erano rock allo stato puro, gruppi che erano diventati
divinità nella storia di quel genere musicale. Beatles,
Queen, The Clash, Oasis, Led Zeppelin, Deep Purple, Genesis:
più li ascoltavo, più cantavo i loro testi,
più eseguivo i loro accordi, più mi rendevo conto
di essere probabilmente nato nella generazione sbagliata. E, per un
altro verso, anche nella famiglia sbagliata.
Quella sera nel locale c'erano più persone del solito. Non
feci in tempo a compiacermi della cosa, che un tizio dai lunghi capelli
biondi e il pizzetto mi si piazzò sotto il palco,
lanciandomi delle occhiate molto eloquenti.
Il solito pervertito. Ce n'erano tanti in giro, la cosa non mi stupiva,
anche se effettivamente questo era molto fastidioso. Per fortuna dopo
circa un'ora, e prima che gli spaccassi la chitarra in testa in modo
molto artistico, si levò dai piedi, allontanandosi con una
ragazza dalla pelle scura.
Amavo guardare il pubblico mentre suonavo, intuire le emozioni che
provava tutta quella gente, capire se era la mia musica a provocarle.
Spesso le persone parlavano tra loro senza badare a me, anche se
involontariamente percepivano le mie canzoni: tenevano il ritmo con un
piede, o con le dita, canticchiavano silenziosamente il ritornello dei
pezzi più famosi, o semplicemente si perdevano a guardare il
palco.
Questi piccoli gesti mi facevano sentire importante, anche se certo non
era il genere successo che desideravo. Io volevo diventare qualcuno.
Quella sera però il mio sguardo si posò
sull'ultima persona al mondo che avrei voluto vedere.
Un ragazzo alto, i capelli color grano e due magnifici occhi azzurri
dietro un paio di occhiali da vista. Cavolo, quegli occhi. Erano
splendidi come sempre.
Quello era Alfred F. Jones, l'essere umano più stupido e
megalomane esistente sulla faccia della terra. Era americano, non c'era
da stupirsi.
Ci eravamo conosciuti in un locale, sei mesi prima: era scappato di
casa, aveva preso il primo volo che gli era capitato ed eccolo
lì. Da ribelle qual'ero, venendo da una famiglia che mi
voleva medico quando io desideravo solo fare musica, trovai la sua
storia estremamente eccitante: quel ragazzo aveva avuto il coraggio di
fare ciò che io immaginavo solamente nei miei sogni
più vividi.
Ma quando aveva iniziato a parlare di videogiochi e fumetti, di tutte
le ragioni per cui secondo lui Superman fosse più credibile
di Spiderman e di quanto fosse figo l'ultimo modello di Xbox uscito sul
mercato, capii che avevo a che fare con un cretino. Volevo solo che
quella serata finisse al più presto, ma ebbi la malsana idea
di bere un paio di drink, che diventarono tre, quattro...non so nemmeno
quanti fossero alla fine. Troppi, questo è sicuro, visto che
il mattino seguente mi ero risvegliato completamente nudo in casa di
quell'americano, nel suo letto e tra le sue braccia, con un forte
dolore alla testa nonchè al fondoschiena.
Non ci sarebbero stati problemi se la cosa si fosse chiusa
lì come ogni avventura di una notte che si rispetti, se lui
non mi avesse costretto a dargli il mio numero, se non mi avesse
richiamato, se io non avessi accettato il suo appuntamento, se lui non
fosse stato così dannatamente carino e se la giornata non si
fosse conclusa come la volta precedente.
All'inizio cercavo di non considerarla una vera storia, ma
più come un modo per ribellarmi ulteriormente ai miei
genitori che mi volevano sposato con una brava ragazza per avere tanti
bei nipotini. Con Alfred era solo sesso, divertimento e nient'altro.
Ma arrivò l'amore, e rovinò tutto. Non
all'inizio, no, allora ero la persona più felice del mondo. Eravamo le persone
più felici del mondo, perchè Alfred sentendosi
ricambiato era se possibile ancora più sorridente e euforico
del solito. Già, perchè per lui 'era sempre stata
una cosa seria'.
O almeno così diceva. E io ero troppo innamorato per non
crederlo.
Capii di aver commesso il più grande errore dei miei
ventitre anni di vita quando lui venne da me, e con il solito sorriso
sulle labbra mi disse che era meglio non vedersi più, per un
po'.
E a me era cascato il cuore.
Dopo avergli urlato dietro tutti gli insulti peggiori che conoscessi,
mi ci era voluto più di un mese, passato a piangere chiuso
in camera e a scolarmi tutte le bottiglie di rhum del minibar di mio
padre, per riprendermi.
E ora lui aveva anche il coraggio di farsi rivedere, con quel suo
stupido sorriso sulle labbra. Maledetto yankee. Sembrava non avermi
nemmeno visto, tra l'altro, intento com'era a parlare con un ragazzo
dai caratteri orientali e il caschetto. Chissà, magari era
pure il suo ragazzo. Sentii una fitta al cuore: i pezzi che avevo tanto
faticato a rimettere insieme minacciavano di tornare a spezzarsi
inesorabilmente.
Perchè si, in fondo lo amavo ancora.
Nonostante mi avesse fatto soffrire come un cane, nonostante potessi
certamente avere di meglio di uno stupido americano fissato con il cibo
del fast food e i videogiochi, nonostante avessi giurato che mai
più sarei cascato in una storia a senso unico, avrei
volentieri urlato in quel fottuto microfono che avevo davanti al viso
'Alfred torna da me, adesso, subito!'
Ma non lo avrei fatto, perchè in fondo il mio orgoglio
avrebbe prevalso. Era sempre stato così.
Tornai a concentrarmi sul mio spettacolo, non potevo lasciarmi
abbattere. Quello che stavo per eseguire era il mio ultimo pezzo quella
sera: Don't go away,
degli Oasis.
So don't go away, say what you
say
But say that you'll stay
Forever and a day in the
time of my life
'Cause I need more time,
yes I need more time
Just to make things right
Alfred aveva smesso di parlare con il ragazzo che era insieme a lui e
mi stava guardando con un'indecifrabile espressione sul volto. Quando i
nostri sguardi si incontrarono, mi sorrise. Quel sorriso storto che mi
rivolgeva spesso. E per cui io impazzivo letteralmente. Ci volle poco,
infatti, perchè sentissi le mie guance farsi bollenti,
facendomi guardare altrove, imbarazzato.
Lo odiavo, Dio solo sa quanto lo odiavo in quel momento. Bastava un suo
sorriso per farmi di nuovo andare il sangue alla testa? Non avevo
capito proprio niente?
Me and you, what's going on?
All we seem to know is
how to show
The feelings that are
wrong
Non avevo mai odiato tanto gli Oasis in vita mia. Damn, damn, damn.
"Goodnight, London",
dissi con un po' meno enfasi del solito, concludendo il pezzo. Ci
furono alcuni applausi, e il mio sguardo non potè evitare di
cercare Alfred. Invano, però: era scomparso. E con lui il
suo amico, se era un suo amico. Ma considerando che erano spariti
insieme ovviamente era qualcosa di più. Già,
d'altronde non aveva fatto lo stesso con me?
Cercando di ingnorare la fitta al cuore che quell'idea mi aveva
provocato, riposi con foga la mia chitarra nella custodia, me la
caricai in spalla e scesi finalmente da quel maledetto palco. Volevo
solo andarmene a casa e farmi una bella dormita, così mi
sarebbero passati anche quei pensieri stupidi, masochistici e
soportattutto inutili.
Mi feci spazio tra la folla, che era accalorata e opprimente, e quando
finalmente vidi l'uscita tirai un sospiro di sollievo.
Una volta fuori presi un respiro profondo, dovevo dare aria a quel mio
dannato cervello prima di impazzire.
La notte era fresca e umida, nonostante fosse quasi metà
luglio. Il clima inglese era così, e a me non dispiaceva
affatto: non c'era una cosa nel mio paese che non trovassi perfetta.
"Hi, Arthur"
La voce che udii alle mie spalle mi fece venire un brivido lungo la
schiena. Perchè non era una voce qualsiasi: era quella voce.
"Ciao, Jones", dissi con freddezza mentre mi voltavo.
Stava di nuovo facendo quel sorriso. La voglia di tirargli un pugno era
forte, ma qualcosa mi fermò. Forse il fatto che avessi
notato che il ragazzo orientale non era con lui, forse
perchè quando mi aveva scaricato e avevo provato a
picchiarlo mi ero quasi slogato una mano.
"Uh, mi chiami per cognome adesso?",chiese inarcando un sopracciglio.
Gli lanciai uno sguardo altero: "Quelli che non sono più che
conoscenti si chiamano per cognome, è un segno di
educazione. Ma non mi aspetto che tu lo sappia, le buone maniere non
sono mai state il tuo forte"
La sua espressione si fece divertita: "Quindi io sarei 'non
più che un conoscente' adesso, per te?"
Sentii la rabbia crescermi dentro il petto, e strinsi i pugni. "Oh,
certo che no. Tu per me sei il più grande degli imbecilli,
credevo di essere stato chiaro l'ultima volta"
Alzò gli occhi al cielo. "Avverto una certa
ostilità, Arthie"
"Non chiamarmi in quel modo!".
Avevo sbottato senza pensare: quel nomignolo mi riportava alla mente
troppi ricordi. 'Sei adorabile, Arthie', 'Rimarremo sempre insieme,
Arthie', 'Ti amo, Arthie'. Si, decisamente troppi ricordi.
"Dovresti tornare dal tuo...amico, scommetto che si sta annoiando da
solo", mugugnai senza guardarlo, sperando che si levasse
definitivamente dai piedi e non mi facesse fare altre figuracce per le
mie eccessive reazioni emotive.
"Chi, Kiku? Nha, lui mi ha solo accompagnato. Diciamo che è
qui per farmi da supporto morale."
"Supporto morale? E per cosa?", chiesi confuso alzando lo sguardo.
Lui mi osservava, la testa piegata di lato e il solito sorriso:
"Bè, perchè credi che io sia qui?"
Scrollai le spalle fingendo un disinteresse che non avevo: "Che ne so,
per rimorchiare qualche ragazzo troppo caritatevole per dirti di no?"
Fece una mezza risata: "Quella sera sei venuto con me per
carità quindi?"
Arrossii: "Ovviamente"
"Non perchè mi trovavi estremamente sexy?"
"A-Alfred piantala, ero ubriaco!"
"Eri ubriaco anche nei due mesi, tre settimane e cinque giorni
seguenti?"
"Ti ho detto di smetterla! Aspetta, ti ricordi ancora...? M-Ma tanto
che mi importa! Fammi un piacere, sparisci! Sei stato tanto bravo a
farlo in questi mesi!"
Detto questo voltai i tacchi e mi allontanai. Sentivo le lacrime che
minacciavano di iniziare a scendere, e non mi andava che lui mi vedesse
piangere. Non di nuovo.
"Aspetta! Non mi hai nemmeno lasciato il tempo di dire
perchè sono qui!", lo sentii gridare mentre me ne andavo.
"I don't give it a fuck!",
urlai con tutto il fiato che avevo in gola.
La testa mi scoppiava, il sangue mi rimbombava nelle orecchie, le gambe
si muovevano da sole, decise ad allontanarsi da lui il prima possibile.
Tutto il mio corpo si stava ribellando a quella situazione prima che
fosse il cervello ad ordinarglielo.
Ma qualcosa mi fece fermare, andando contro tutto quel caos che avevo
dentro.
"Don't go away, say what
you say, but say that you'll stay forever and a day in the time of my
life!!!"
No, non poteva essere.
Alfred stava cantando quella stessa canzone degli Oasis che stavo
suonando io quando lo avevo visto nel locale. Solo che in quel
contesto, e dette da lui, quelle parole assumevano un altro
significato. Rimasi immobile, gelato da quel suo gesto improvviso. Mi
stava dedicando una canzone. Alfred Jones, il ragazzo che amavo, mi
stava dedicando una stupenda canzone degli Oasis. Holy Christ, quanto
lo odiavo.
A passo spedito tornai verso di lui, cosa che lo fece sorridere
soddisfatto.
"Me and you, what's going-"
"Smettila idiota!"
"Perchè?"
"Primo: sembri un animale morente. Sul serio, non ho mai sentito
nessuno più stonato. Secondo: non ti permettere di storpiare
un testo degli Oasis con il tuo stramaledetto accento da yankee!"
"Però ha funzionato. Sei tornato."
"N-non l'ho fatto per te! Le mie orecchie chiedevano pietà,
e-"
"Vuoi sapere perchè sono venuto qui?", chiese lui nuovamente.
Sbuffai, guardandolo rassegnato. "Come ti pare"
Lui sorrise, contento come un bambino che ha appena ottenuto un
permesso dalla mamma. Un bambino troppo cresciuto, ecco cos'era.
"Alright!",
disse, "Allora vieni con me!"
"...C-cosa?! E dove?!"
"Oh, questa è una sorpresa!"
"...Bloody Hell..."
Angolino dell'Autrice:
Eccomi con il quarto capitolo! E' stata dura ma ho scritto anche questo.
Ho cambiato idea settordicimila volte prima di finirlo, e non ero mai
soddisfatta (non lo sono nemmeno adesso, in realtà...).
Ed è anche più corto degli altri. E la usuk
è anche la mia coppia preferita. Oh bè.
Come sempre grazie a tutti per aver letto e recensito. Continuate
così, mi raccomando :D
See ya soon people!
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Capitolo 5 *** Trafalgar Square ***
Streetlight
People
5. Trafalgar Square
"Mi dispiace! Non lo sapevo!"
"Non ha importanza..."
"No, dico sul serio! Scusami tanto!"
"Feliciano, calmati. E' tutto a posto."
In realtà non proprio tutto. Ad esempio, la sua testa di
certo non era a posto.
Questo era un dato di fatto. E la mia tesi si fondava su salde
considerazioni, la maggior parte delle quali legate al comportamento di
Feliciano: parlava, parlava sempre, ininterrottamente, divangando da un
argomento all'altro come se un normale essere umano come me potesse
seguire quei suoi voli pindarici. E così la nostra
conversazione era spaziata, senza che io me ne rendessi conto, dagli
Uffizi di Firenze al tiramisù, e poi ancora dai gatti alla
pace nel mondo. E il tutto nel giro di un'ora.
Poi il modo in cui gesticolava. Soprattutto quando cercava di
spiegarsi, muoveva le mani su e giù, a destra e a sinistra,
e più di una volta aveva rischiato di colpirmi dritto in
faccia.
Infine la sua sbadataggine, che si elevava ben sopra la media. Mentre
ci dirigevamo verso quel posto misterioso che sembrava emozionarlo
tanto, aveva rischiato di inciampare almeno una decina di volte, anche
nei suoi stessi piedi. Ringraziando il cielo ho dei buoni riflessi ed
ero riuscito ad afferrarlo ogni volta prima che si schiantasse a terra,
e lui ogni volta era scoppiato a ridere ringraziandomi. Non riuscivo a
capacitarmi di come quel ragazzo potesse essere sopravvissuto
addirittura per diciannove anni. Sembrava esattamente quel tipo di
individuo che da bambino infila la forchetta nella presa elettrica
perchè le due cose hanno la stessa forma.
Ma se mi sembrava imbranato fuori, non potevo nemmeno immaginare quanto
ingenuo fosse dentro.
Come poteva seriamente avermi portato a Trafalgar Square alle quattro
di notte per visitare la National Gallery? In quale universo parallelo
i musei sono aperti alle quattro di notte?! Nel personale universo di
Feliciano Vargas, evidentemente.
Quando eravamo arrivati di fronte a quell'imponente edificio
illuminato, lui aveva sorriso radioso e aveva percorso i pochi gradini
che lo dividevano dall'ingresso saltellando. Io non avevo capito.
Perchè davvero, per me non era umanamente concepibile che
stesse davvero pensando di entrare.
Ma poi lo aveva detto.
"Ludwig, che fai? Non vieni?"
E allora avevo iniziato a realizzare. Ancora confuso, lo avevo seguito
fino alla grande porta d'entrata al museo. "Che credi di fare, scusa?",
gli avevo chiesto temendo però la risposta.
Ma probabilmente non mi aveva sentito. Quando lo avevo raggiunto
infatti, il suo sorriso era sparito, cedendo il posto a un'espressione
delusa. Gli occhi color nocciola sgranati, la bocca imbronciata. Senza
sapere perchè, avevo sentito l'impulso di abbracciarlo, e
avevo fatto davvero fatica a impedirmi di farlo davvero. Il che era
decisamente strano per me, che solitamente aborrivo qualsiasi forma di
contatto fisico. Bè, almeno quelle non necessarie.
"Chiude alle nove.", aveva mormorato voltandosi lentamente verso di me.
Il suo tono era profondamente deluso.
Io avevo esistato a rispondere. Dovevo soppesare bene le parole.
Insomma, non potevo certo dirgli 'Certo che è chiuso,
stupido! Sono le quattro del mattino!'. Quella non era una risposta
carina, proprio per niente. Non trattavo così nemmeno
Gilbert. O bè, almeno quando non mi faceva arrabbiare
seriamente. In quel caso era solo legittima difesa.
"Uhm, bè...credo sia normale no?", dissi infine, soddifatto
della mia risposta.
Lui inclinò la testa di lato. "Dici?"
"Dico."
Sembrò riflettere. Poi sgranò gli occhi,
allarmato.
E fu a quel punto che iniziò a sciorinare milioni di scuse,
dicendo che gli dispiaceva tantissimo di avermi fatto perdere tempo.
"Chissà dove ho la testa!", pigolò.
Quella era una bella domanda, che probabilmente sarebbe rimasta per
sempre senza risposta.
"Devi essere arrabiatissimo..."
"No, davvero. Diciamo che sono abituato ad avere a che fare con persone
così..."
Mi bloccai, e lui mi fissò.
O Scheiße.
Perchè facevo così tanta fatica a parlare con
lui? Perchè avevo tanto timore di offenderlo?
E adesso lui mi guardava, aspettando che io terminassi la frase.
"...così...sbadate?", conclusi. Sì, sembrava una
domanda. Sembrava che gli stessi chidendo il permesso di chiamarlo in
quel modo. Non era da me.
Feliciano si passò una mano dietro la testa, sorridendo
appena.
"Già, anche mio fratello mi da spesso dello sbadato.",
mormorò con una risatina imbarazzata.
Non sembrava offeso, proprio per niente. Anzi, aveva ancora dipinta in
viso quell'aria dispiaciuta di poco prima. Credeva ancora che fossi
arrabbiato con lui.
A quel pensiero, realizzai che, in effetti, non lo ero affatto. Ma
perchè no?
In fondo quel ragazzino troppo entusiasta mi aveva trascinato
dall'altra parte del Tamigi, lontano dal mio gruppo, alle quattro di
notte, per visitare un museo chiaramente chiuso a quell'ora.
Eppure non ero minimamente seccato, e non riuscivo a darmene una
spiegazione logica. Forse perchè quella situazione era
troppo assurda? Antonio avrebbe detto che non sarebbe valsa la pena di
arrabbiarsi, perchè non avrebbe risolto nulla. Ci avrebbe
riso sopra probabilmente.
Scossi le spalle, pensando che forse la vicinanza di quello spagnolo
era stata addirittura istruttiva, quando l'attenzione di Feliciano fu
attratta da qualcos'altro.
"Lud, ho un'idea!"
Che brutta notizia,
pensai.
Lui si allontanò. Scese i gradini di pietra antistanti il
museo saltellando, ovviamente scivolò ma in qualche modo
riuscì a mantenersi in equilibrio, e io lo seguii
rassegnato. Mi venne in mente il famoso proverbio 'Quando sei in ballo
devi ballare': ora, non che avessi la minima intenzione di mettermi a
saltellare a mia volta, ma per lo meno assecondai il volere di quello
strambo italiano.
Raggiunse il centro esatto della piazza, dove l'obelisco di Nelson si
stagliava contro il cielo scuro, e si mise sulle punte tentando,
immagino, di salire sul piedistallo alto un paio di metri ai piedi
della colonna.
"Ci sono quasi!", esclamò aggrappandosi saldamente al bordo
e cercando di tirarsi su.
"Posso sapere che cosa stai facendo?", chiesi come se non fosse ovvio,
stampandomi la cinquina in faccia.
"Cerco di salire! Scommetto che la vista da lì è
più bella, non credi anche tu?"
Sospirai. Sapevo con certezza che la cosa non era illegale, ogni giorno
milioni di turisti facevano la stessa cosa.
Così mi limitai a rispondere: "Sì, forse hai
ragione."
Feliciano tentò altre due volte nella sua impresa, poi
sembrò rinunciare. Ma ovviamente non era così.
"Ludwig, puoi darmi una mano?", chiese sorridendomi.
Inarcai un sopracciglio. "E come potrei...?"
"Ti salgo in spalla!"
Oh no. Questo no.
"N-Non credo sia una buona idea, sai?"
"Non preoccuparti! Mi fido di te."
Quello non avrebbe dovuto dirlo. Proprio no. Non con quell'espressione
gentile e sincera, guardandomi con quegli occhi e facendomi quel
sorriso.
Mi morsi l'interno della guancia, cercando di tornare in me. Ma avevo
sentito benissimo il calore che inesorabilmente mi era salito al viso.
"Non dovresti. Ci siamo conosciuti solo un'ora fa: è
piuttosto imprudente.", mormorai abbassando lo sguardo. Improvvisamente
le mie scarpe erano diventate interessantissime.
Lo sentii ridere di nuovo, quella sua usuale risata leggera e
spensierata.
"Forse sì. Ma te l'ho già detto: mi sembra di
conoscerti da sempre. So che può sembrarti strano,
però è così."
No, non mi sembrava strano per niente. Nella loro assurdità,
quelle parole avevano perfettamente senso. Anche io provavo la stessa
cosa. Non mi era mai successo, nemmeno una volta, di sentirmi
così...in
sintonia con una persona.
Lo guardai. Mi stava ancora sorridendo.
"Allora, mi dai una mano?"
Sentii la mia bocca piegarsi in quello che forse era un sorriso.
"D'accordo, ma se ti fai male io non mi assumo nessuna
responsabilità."
Se avevo considerato solo per un istante la possibilità che
sollevarlo sulle mie spalle potesse essere meno imbarazzante del
previsto, mi sbagliavo di grosso.
Si era avvinghiato a me come un polpo, e nel frattempo si dimenava con
la stessa grazia. Cercare di ignorare il fatto che si stesse
strusciando contro la mia schiena era perfettamente inutile ormai. Scheiße.
"Fai attenzione, o cadiamo tutti e due!", esclamai. Come se fosse stato
quello il problema principale.
"Tranquillo, ci sono quasi!"
Con un ultima spinta sulle gambe, riuscì infine a
raggiungere la sommità del piedistallo con un versetto non
meglio identificato.
Si rimise in piedi e da lassù alzò le mani al
cielo in segno di vittoria.
"Evviva! Visto Lud? Ce l'ho fatta! Anzi, ce l'abbiamo fatta!"
Sorrisi, come troppo spesso mi stava capitando involontariamente di
fare quella sera.
"Già, è stato senza dubbio un ottimo lavoro di
squadra."
Lui annuì. Era raggiante, gli brillavano gli occhi mentre si
guardava attorno con l'aria di un bambino emozionato.
"La vista da qui è splendida, Lud! Si vede tutta la piazza.
E' immensa, sai? Avanti, vieni anche tu!"
Non mi opposi, quella volta. Qualcosa dentro di me mi diceva che era la
cosa giusta da fare.
Mi aggrappai al bordo e con una spinta lo raggiunsi.
Quando tornai a guardarlo lui mi stava fissando con occhi sgranati.
"Come hai fatto?", mi chiese sbattendo le palpebre, incredulo.
"A fare cosa?", feci io alzando un sopracciglio.
"Quello! Come...come sei riuscito a salire così facilmente?
Sei fantastico! Incredibile!", esclamò sorridendomi con
ammirazione.
Arrossii, probabilmente. Di certo non era avido di complimenti.
"E' una sciocchezza. Sono solo un po' più alto di te e,
bè, anche un po' più robusto, niente di
eccezionale comunque..."
Mi bloccai, quando il mio sguardo fu attratto dal panorama intorno a me.
Incredibile. Il museo illuminato di fronte a noi era davvero
suggestivo, imponente, grandioso.
E poi, girando su sè stessi, si poteva facilmente
abbracciare tutta la piazza con lo sguardo, sentendosi i padroni
indiscussi di quel luogo in quel momento deserto.
"E' magnifico.", mormorai, più a me stesso che a Feliciano.
Lui mi si avvicinò, in silenzio.
Restammo così per un poco, l'uno accanto all'altro, in piedi
al centro di una Trafalgar Square immersa nella notte, sotto un cielo
scuro che minacciava pioggia da un momento all'altro, con il solo suono
delle auto e dei taxi che sfrecciavano alle nostre spalle a infrangere
il silenzio, in lontananza.
Era un momento tanto assurdo e inimmaginabile che se me l'avessero
raccontantato qualche ora prima non ci avrei creduto. Quella non era
affatto una situazione per me; eppure non sentivo tanto a posto da
tanto, troppo tempo. Forse da una vita intera.
Una vita passata a essere serio, distaccato, razionale. E ora tutto
questo mi sembrava un soffio di liberazione. Di liberazione da me
stesso.
"Sai perchè ho deciso di studiare arte?"
La voce di Feliciano mi fece ridestare dai miei pensieri.
"Perchè ti fa vedere il mondo in un modo tutto diverso.",
disse con lo sguardo perso davanti a sè, "E' un po' come
sognare, ma tenendo gli occhi aperti. Se guardi un quadro, ad esempio,
la tua impressione sarà diversa da quella di chiunque altro,
perchè quello che sta nella testa di ciascuno è
unico, e inimitabile, e fantastico. Pensaci: non è una cosa
stranissima, Lud? Che ogni singola persona su questo pianeta abbia
qualcosa di esclusivo da condividere con gli altri, un modo tutto suo
di pensare. Ecco, credo che che l'arte porti fuori quel qualcosa di
unico di ogni artista."
Mi perdetti ad ascoltare quelle parole fino all'ultima sillaba. Ero
colpito.
Ero colpito da quel discorso, ma soprattutto ero colpito dal fatto che
esso non stonava affatto pronunciato da Feliciano.
Era semplicemente giusto. Da quelle frasi, così semplici
eppure così dannatamente profonde, emergeva tutta la
passione di quel ragazzino. La stessa passione che lo aveva spinto in
una piazza deserta alle quattro di notte, la passione che lo rendeva la
persona fantastica che era, perchè sì, solo
allora mi resi davvero conto che avevo accanto un individuo eccezionale.
La passione che a me mancava.
E forse, pensai, potevo imparare molte cose da lui. Proprio da
quell'ingenuo ragazzino con la testa tra le nuvole che avevo incontrato
per caso in un locale di Londra.
"Ehi Lud!", esclamò, "Saliamo in groppa a quel leone mentre
aspettiamo che apra la galleria? Ti prego, ti prego! Sarà
divertente!"
Lo guardai per un istante, mentre trotterellava allegro verso una delle
quattro statue lì intorno.
E realizzai che, forse, una persona come Feliciano era quello di cui
avevo sempre avuto bisogno.
Angolino dell'Autrice:
Lo so, sono imperdonabilmente in ritardo con questo capitolo. D':
A mia discolpa posso dire che tra me e la stesura si sono messi: la
scuola, che ultimamente sta tentando di uccidermi; l'ispirazione, che
puntualmente si scorda di farmi visita quando serve; l'influenza;
ultimi ma non meno importanti i preparativi per Lucca, che grazie al
cielo si sta avvicinando (p.s. chi ci sarà di voi belle
personcine? owo)
Ma resto imperdonabile comunque, perchè prometto di
aggiornare presto e poi non lo faccio. Che losca individua sono ;u;
Bè, spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto
nonostante il ritardo.
E oh, ho creato una paginetta su facebook se a qualcuno potesse
interessare (ahahah, non prendiamoci in giro u.u): http://www.facebook.com/pages/LiberTea-EFP/449250741780191?ref=hl
Ci scriverò i miei work in progress, ritardi
compresi, sì u.u Così potrete anche insultarmi
per bene se volete, e io vi capirò, perchè sono
una brutta persona ritardataria :')
Okay, ho finito. E spero davvero tanto di pubblicare il prossimo
capitolo secondo scaletta ;u;
See ya soon (e stavolta per davvero?), people!
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Capitolo 6 *** The London Eye ***
Streetlight People
06.The London Eye
"Io su quel coso non salgo."
Queste le uniche parole che aveva pronunciato prima di voltarsi e iniziare a tornare indietro.
Ci misi qualche istante a realizzare quello che stava succedendo. Lovino aveva davvero detto che non mi avrebbe seguito. Lovino se ne stava andando. Lovino era già lontano.
"E-Ehi! Aspetta un attimo, perchè no?!"
Esclamai ancora incredulo mentre gli correvo dietro, come terrorizzato che potesse sparire del tutto se lo avessi lasciato allontanare troppo da me.
Lui non si voltò nemmeno.
"Perchè no.", rispose perentorio mentre finalmente lo raggiungevo, affiancandolo.
"Da piccolo mi dicevano che 'perchè no' non è una risposta.", ribattei imbronciandomi.
Nonostante Gilbert e Francis, e sicuramente anche Ludwig, non fossero dello stesso avviso, io sapevo stare al mondo. Conoscevo le mie armi di persuasione, e sicuramente gli occhioni da cucciolo erano una di quelle.
Lui mi guardò storto. "D'accordo: perchè non voglio. Questa vale come risposta?"
Evidentemente su Lovino non funzionava. Me lo sarei dovuto aspettare dopotutto.
"Allora perchè non vuoi?", chiesi poi, dopo una pausa di riflessione.
L'italiano alzò gli occhi al cielo, sembrava esasperato. "Cristo santo! Non puoi semplicemente accettare il fatto che non riuscirai a portarmi su quell'affare?! Arrenditi! Un no è un no!"
Riprese a camminare, dandomi nuovamente le spalle.
Guardandolo, mi sembrava di vedere il mio piano perfetto sgretolarsi inesorabilmente. Non doveva andare così. Non era giusto. Saremmo dovuti salire sulla London Eye, la vista sarebbe stata splendida, lui avrebbe guardato quello spettacolo con occhi luccicanti di emozione e poi, preso dalla magia del momento, mi avrebbe gettato le braccia al collo e ci saremmo baciati finchè la ruota panoramica non ci avesse riportati a terra.
Cosa non aveva funzionato? Ah, giusto: il piano stava fallendo ancora prima di cominciare, visto che il mio obiettivo in quel preciso istante mi stava giusto piantando in asso.
Ma perchè? Era la cosa più romantica del mondo, vedere Londra di notte, dall'alto...
All'improvviso, preso forse dalla disperazione, capii.
"Lovi!", gridai facendolo voltare.
Sbuffò. "Che cazzo c'è ancora?"
"Ho capito il motivo! Scusa, sono stato così insensibile!"
Inarcò un sopracciglio. "Cosa?"
Abbassai la voce, nonostante non ci fosse nessuno nei dintorni volevo essere sicuro che quello che stavo per dire rimanesse segreto. Insomma, non potevo mettere in imbarazzo il mio querido!
"Soffri di vertigini, vero?", mormorai.
Mi fissò perplesso per qualche istante. Poi si schiaffò la cinquina in faccia, e mi si avvicinò scuotendo il capo.
"Razza di idiota! Io non soffro affatto di vertigini! Per chi mi hai preso, per una femminuccia?!"
Si era arrabbiato. Perchè ogni volta che aprivo bocca si arrabbiava?
"Non devi vergognarti. E' una cosa normale..."
"Non soffro di vertigini!"
Stava mentendo, era chiaro. Altrimenti perchè si sarebbe opposto così tanto per non salire?
"Puoi stringerti a me se hai paura.", dissi con il mio sorriso più sincero.
Il verso frustrato che emise a quel punto, a metà tra un ringhio e un'imprecazione, mi sembrò l'inizio di una crisi di nervi che però non avvenne. Infatti, invece di urlare chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, come cercando di ritrovare la calma.
Quando li riaprì non potei evitare di pensare che quel magnifico colore ambrato mi era mancato, anche se per così poco.
Mi fissò, serio. "Perchè ci tieni così tanto?"
"A salire sulla ruota?"
"A salire su quella cazzo di ruota, sì."
Scrollai le spalle, sorridendo. "Perchè ti ho fatto una promessa. Ti ho promesso che ti avrei fatto innamorare di me. E, bè, la London Eye è il posto più romantico che mi è venuto in mente."
Sembrò riflettere sulle mie parole.
Poi annuì: "Mh. Ha un suo senso, dopotutto. Cosa ci si può mai aspettare da te se non una banalità simile?"
Sentii chiaramente il mio sorriso cadere. "Davvero lo trovi banale? S-Sì, forse un po' lo è, lo ammetto...p-però avevo pensato che ti potesse piacere, perchè ho sentito che da lassù la vista è eccezionale e tu sei eccezionale, e quindi è l'unica cosa alla tua altezza a cui sono riuscito a pensare, e...!"
Non riuscii a concludere la frase, perchè le sue mani si piazzarono sulla mia bocca impedendomi di parlare.
"Stai zitto! Capito?! Smettila di sparare cazzate a raffica! Verrò lassù, va bene?! Ci verrò, ma tu devi promettermi che la finirai con queste stronzate melense! Siamo d'accordo?!"
Era arrossito? Oh sì, era decisamente arrossito.
Non sapevo bene perchè, ma sentii di aver fatto centro. Il primo punto verso la vittoria.
Annuii, e lui allontanò le mani dal mio volto lasciandomi libero di parlare. In un certo senso però avrei preferito rimanessero lì, sulle mie labbra. Quanto avrei voluto baciarle, quanto avrei voluto baciare ogni centimetro della sua pelle.
Distolsi la mia mente da quei pensieri, in quel momento dovevo concentrarmi.
"Allora andiamo!", eslcamai vittorioso.
Lui mi seguì, mesto. "D'accordo, ma vediamo di sbrigarci."
"Come vuoi tu, Lovi."
"Ti ho detto di non chiamarmi così."
***
Molte persone sarebbero rimaste abbagliate, o almeno colpite, dalla vista che si aveva da lassù. Un mare di luci scintillanti brillavano nella notte, elevandosi verso il cielo scuro. Il Parlamento, l'abbazia di Westminster e più lontano la catterdrale di St. James sembravano castelli incantati, illuminati in quel modo irreale. E sotto di noi scorreva il Tamigi, come se la ruota girando si sarebbe infine immersa in quelle acque.
Molte persone sarebbero state rapite da tutto questo.
Ma Lovino Vargas, evidentemente, non era una di queste persone.
Se ne stava appoggiato al vetro, con le mani in tasca e lo sguardo perso nel vuoto. Sembrava annoiato. Tremendamente annoiato.
"Lovi, guarda! Non è magnifico?", chiesi allora.
"Se lo dici tu."
Sospirai. Sembrava quasi che si stesse impegnando per farmi impazzire. Eravamo soli, davanti a uno spettacolo incredibile, a dieci metri da terra.
Se l'italiano aveva un lato romantico sarebbe dovuto scattare in quel momento. Ma più apsettavo più mi convincevo che quella corazza di fredda indifferenza che sembrava avvolgerlo costantemente lo doveva rendere immune anche a quella situazione.
"Non ti getterai tra le mie braccia, eh?"
La mia domanda lo colse di sorpresa, poichè mi guardò perplesso.
"Che domanda è? Certo che no. Ti sembro il tipo?"
Sorrisi, divertito. "In effetti no."
Lovino roteò gli occhi. "Per questo non capisco perchè diavolo tu abbia scelto di avere a che fare con me. Io non sono il genere di persona che si lascia abbindolare da questi trucchetti romantici."
Lo sapevo. Lo sapevo perfettamente, ed era proprio per quello che avevo deciso che lo avrei conquistato. Lui era diverso. Lui era irraggiungibile.
"Te l'ho detto, mi piacciono le sfide.", risposi sorridendogli.
"E' una cosa stupida", ribattè, "Perchè qualcuno dovrebbe intraprendere la strada più difficile?"
"Forse perchè è troppo attratto da quello che lo aspetta alla fine e non gli importa di quanti ostacoli incontrerà su quella strada, perchè vuole solo raggiungere la sua meta a tutti i costi."
Mi guardò negli occhi per un lungo istante, meditando su ciò che avevo appena detto.
I suoi occhi, quei meravigliosi occhi color ambra, mi scrutavano silenziosi, guardinghi, come se stessero valutando se era il caso di credere o no alle mie parole.
Era bellissimo, splendido, indescrivibile. Mi sentivo completamente perso, mentre osservavo la luce della città al di là del vetro illuminare flebilmente il suo viso e i suoi capelli castani. Era come se l'intera Londra stesse brillando solo per lui, per concedermi di guardarlo.
Poi Lovino fece schioccare la lingua contro il palato: "Che emerita cazzata."
Sbattei le palpebre, confuso da quella risposta e lui proseguì. "Queste sono frasi che si trovano nei cioccolatini, o nei romanzi rosa per ragazzine. La vita reale è una cosa diversa."
"E perchè?", chiesi allora, senza riuscire a capire dove volesse arrivare quello strano ragazzo.
Sbuffò. "Perchè nella vita reale le persone scelgono sempre la strada più facile. Quella semplice, sicura, che li renderà felici senza troppi sforzi. Quella che la maggior parte delle persone crede essere la migliore; le strade difficili non le considera mai nessuno."
In quel momento tutto mi fu chiaro. Sapevo di cosa stavamo realmente parlando.
"Non devi vivere all'ombra di tuo fratello, sai? Non per forza, almeno."
Lo sentii trattenere il respiro e irrigidirsi al mio fianco. Abbassò lo sguardo, e non disse nulla per un lunghissimo istante, tanto che credetti di averlo perso definitivamente.
Ma proprio quando stavo per parlare di nuovo, lui ribattè con tono grave: "Tu non puoi capire."
Calò un ennesimo silenzio, e io decisi di non interromperlo.
Mi sembrava di avere a che fare con un animale ferito: se avessi cercato di aiutarlo per forza, lui mi avrebbe solo ringhiato contro chiudendosi ancora di più in sè stesso. D'altra parte, era evidente che la possibilità di parlare con qualcuno di quel peso che si portava dentro da chissà quanto tempo lo allettava davvero.
Provai una gran pena per lui, anche se quello che aveva detto era vero: io non potevo capire. Ero figlio unico, non avevo mai vissuto la fantastica esperienza di essere il fratello meno amato, la pecora nera.
In un certo senso, anche se non lo dava a vedere, lo stesso Gilbert doveva sentirsi così. Bè, non che noi parlassimo dei nostri sentimenti come delle teenager ad un pigiama party, questo è chiaro. Però c'era qualcosa negli occhi del mio amico quando guardava Ludwig, qualcosa di cui certo non andava fiero.
La London Eye raggiunse la cima, fermandosi con un leggero assestamento. La città si stendeva ai nostri piedi, un brulichio di luci silenzioso e lontano.
"Essere il fratello maggiore fa schifo.", mormorò Lovino a un tratto.
Notando che non lo avrei interrotto, proseguì: "Voglio bene a Feli, è la persona più importante del mondo per me. Però...però, dannazione, quanto vorrei assomigliargli almeno un po'. Quanto vorrei che la gente mi guardasse come guarda lui, con quel calore e quell'affetto."
"Lo invidi?"
Lui alzò lo sguardo su di me, e la sua espressione mi colpì: non era la solita maschera di indifferenza, no. La fronte corrugata, lo sguardo insicuro: era lo stesso viso che avevo visto poco prima al locale, e qualcosa mi suggerì scorgerlo per due volte nell'arco di una sola sera era un enorme privilegio.
"I-Io", balbettò, "Non lo so, d'accordo?! Non lo so! Forse sì, ma non posso permettermelo! Sono suo fratello maggiore, non posso essere invidioso di lui! Non è certo colpa sua se è così perfetto, così talentuoso in tutto, così adorabile, e soprattutto così poco simile a me!"
La sua voce, che aveva preso ad alzarsi, si spezzò all'improvviso, e per un attimo credetti che stesse piangendo.
Presi un respiro profondo, poi, con cautela, gli appoggiai una mano sulla spalla.
"Ma tu sei perfetto. E adorabile."
Una risata amara. "Ti ho detto di smetterla con le stronzate."
Quella volta fui io a sbuffare, e gli strinsi saldamente le spalle costringendolo a guardarmi negli occhi.
"Stammi a sentire: tu mi piaci. Mi piaci davvero. Mi piaci per come sei, con le tue frecciatine sarcastiche e i tuoi modi scontrosi e il tuo broncio perenne; e so che ti ho conosciuto meno di un'ora fa e starai pensando che sono un idiota, anzi probabilmente lo pensi da quando mi hai visto, e forse hai anche ragione per quel che ne so. Il punto è che, scusami tanto, ma credo nell'amore a prima vista!"
"Non sei un idiota, sei un ritardato mentale!"
"Insultami quanto vuoi, ma non mi arrendo. Tu non piaci alla maggior parte della gente, e allora? La maggior parte della gente si sbaglia."
Mi resi conto di aver esagerato quando notai il suo sguardo.
Era tagliente, furioso. In quel momento credetti davvero che sarebbe stato capace di sfondare il vetro e buttarmi giù dalla ruota panoramica senza troppi convenevoli.
"Tu", iniziò con tono grave, "Tu sei il più patetico, stupido cazzone che io abbia mai incontrato in tutta la mia vita. Non ti sopporto, mi fai saltare i nervi. Perciò non ho la più pallida idea del perchè sto per fare quello che sto per fare."
Inarcai un sopracciglio, confuso un po' dal fatto che non mi avesse ancora lanciato di peso nel Tamigi e un po' perchè non mi capivo che cosa volesse dire.
"Perchè, che cosa stai per...?"
Non riuscii a concludere la frase.
Le sue labbra si erano unite alle mie, in un qualche modo. Era un bacio estremamente casto e insicuro. Riuscivo a sentire le sue emozioni tremendamente contrastanti attraverso quel tocco. Non sapeva bene quello che stesse facendo, o perchè lo stesse facendo: ma non era importante in quel momento. Mi stava dando la sua fiducia, ed era quello l'importante. Sorrisi contro la sua bocca, certo che lo avrebbe sentito.
Si allontanò da me con un sospiro, senza però distogliere lo sguardo dal mio volto.
"Giuro su Dio e tutti i santi del Paradiso che se osi fare lo stronzo con me ti ammazzo. In modo lento e doloroso."
Sembrava sincero, terribilmente sincero. "Non sarà necessario", dissi con un sorriso.
"Sarà meglio per te.", ribattè tornando ad assumere la sua solita espressione indifferente, guardando il panorama di fronte a noi.
Anche io feci lo stesso, mentre mi avvicinavo impercettibilmente a lui: "Hai visto che ho vinto alla fine?"
Un ringhio. "Solo perchè ti ho fatto vincere io, bastardo."
Angolino dell'Autrice:
Ehi, guardate un po' chi è tornata! Quell'individua che aveva detto che questo capitolo sarebbe arrivato puntuale! *risate di fondo stile sitcom americana*
Non potete immaginare quanto mi dispiaccia gente! Il blocco dell'autore si era affezionato a me e non voleva più andarsene! ;n; La cosa positiva è che i prossimi capitoli sono già scritti, devi solo rivederli. Quindi dovrei tornare ad aggiornare con regolarità.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto nonostante non valga l'attesa, lo so!
Alla prossima e come sempre, see ya soon people!
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Capitolo 7 *** St. James's Park ***
Streetlight People
07. St. James's Park
"Simpatico il tuo ragazzo"
"E' il mio ex ragazzo, Gilbert"
Certo. Perchè era quello il problema principale, no?
"Oh, scusami tanto. Dunque, perchè mi hai baciato di fronte al tuo ex ragazzo?"
Lei sbuffò pesantemente. "Possiamo parlare d'altro? Non vuoi sapere dove stiamo andando?"
Scrollai le spalle.
"Non mi interessa più di tanto. Però in effetti, visto che mi hai appena baciato senza alcun pudore, forse devo preoccuparmi che tu mi stia portando in un vicolo buio per stuprarmi o qualcosa del genere"
Lei mi diede un spintone, e io scivolai giù dal marciapiede, venendo quasi investito da un double-deker, il cui conducente comunque mi mandò a quel paese con il clacson.
"Ma sei scema?!", le sbraitai contro.
Lei scoppiò a ridere di gusto. "Sei una femminuccia. Non mi dirai che ti sei spaventato!"
Borbottai un qualche insulto, guardando altrove.
Quel dannato malumore, che mi era nato nel petto quando avevo capito le intenzioni di Elizaveta, non accennava a passare. Mi sentivo offeso, tradito, e la cosa peggiore è che proprio questo mi faceva innervosire ancora di più, perchè andiamo, io ero il magnifico Gilbert Beilschmidt! Non una ragazzina innamorata tradita dal suo fidanzatino!
"Dove diavolo stiamo andando?", mugugnai.
"Credevo non ti interessasse", rispose lei con aria di superiorità.
"E invece mi interessa, ok?", sbottai.
Lei sembrò preoccupata. "Gil, datti una calmata. Non sarai ancora arrabbiato perchè ti ho spinto, vero?"
Alzai gli occhi al cielo. "Certo che no, stupida!"
Ed era buffo in effetti. Mi aveva fatto più arrabbiare baciandomi per fare ingelosire il suo ex che nemmeno spingendomi sotto a un maledetto bus, quasi facendomi ammazzare. Quella dannata donna e i suoi malefici poteri.
Perso nei miei pensieri, non mi ero accorto che nel frattempo avevamo raggiunto Backingam Palace.
Dopo alcuni minuti ci inoltrammo in un parco. Il cartello al suo ingresso recitava 'St. James's Park'.
Era piuttosto grande, e dovevo ammettere che aveva un che di suggestivo: salici piangenti che si sporgevano sulle acque di un canale, ponti in legno e isolette solitarie.
"Ecco, quel ponticello laggiù", fece lei indicando un punto davanti a sè e iniziando a correre, lasciandomi perplesso.
"Che fretta hai?", le gridai.
Lizzie mi rispose senza voltarsi nè rallentare: "Muoviti pigrone!"
Alzai gli occhi al cielo e la raggiunsi. Era ancora la bambina iperattiva che doveva ad ogni costo raggiungere la cima più alta dell'albero per una legge autoimposta, e che io finivo sempre per seguire a costo di cadere a terra e slogarmi la caviglia.
Se ne stava appoggiata al ponte, guardandomi con un sorriso diverto.
Mi sistemai al suo fianco, e per un breve periodo rimanemmo in silenzio cercando di calmare i nostri respiri, che per la corsa si erano fatti pesanti.
"L'età comincia a farsi sentire"
"Parla per te, io sono ancora nel fiore degli anni!", esclamò lei sorridendo.
Scoppiammo entrambi a ridere.
Mi ero dimenticato quanto fosse bella la sua risata. Mi ero dimenticato quanto fosse bello fare i cretini insieme.
"Allora, perchè mi hai portato qui?", le chiesi sorridendo ancora.
Lei scrollò le spalle.
"Perchè è un bel posto. Guarda, si vede Backingam Palace laggiù."
Io non guardai nella direzione che mi stava indicando con il dito. Non riuscivo, e non volevo, staccare gli occhi da lei.
"Seriamente, Lizzy."
Lei ricambiò il mio sguardo e, per la prima volta, mi parve imbarazzata.
Abbassò gli occhi, e iniziò a giocherellare con le maniche della sua camicetta.
"Mi ricorda il mio giardino. Quello di Berlino, intendo. Anche qui in estate ci sono quei fiori arancioni che..."
Si interruppe, guardando altrove.
E non aveva bisogno di aggiungere altro, perchè avevo capito benissimo.
"Te li ricordi ancora?". Quelle parole mi uscirono così spontanee che non mi accorsi nemmeno di averle pronunciate.
Eliza alzò all'istante lo sguardo su di me, gli occhi verdi sgranati dalla sorpresa.
"Anche tu?", chiese.
Questa volta fui io a distogliere lo sguardo, per evitare che notasse il rossore che sicuramente avevo sulle guance. Dannazione alla mia pelle, troppo chiara.
"Sì, bè, mi hai rotto le scatole un pomeriggio intero perchè te ne regalassi uno."
Lei fece una risata sommessa. "Già, è vero. E mi stava benissimo."
Presi un respiro profondo. L'aria della sera era frizzante, nonostante fossimo in piena estate.
In quel momento capii che era la mia ultima occasione.
"E poi te ne sei andata."
Ecco, lo avevo detto.
Non potevo continuare a evitare l'argomento. Volevo delle spiegazioni, volevo sapere perchè diavolo se ne era andata così. Me lo doveva.
Si morse il labbro inferiore.
"Lo so. Ma era stata una cosa temporanea, avevo sempre saputo che saremmo tornati a Budapest prima o poi, e..."
"Non è quello il punto Eliza, dannazione!", sbottai.
I suoi occhi erano ora pieni di confusione e smarrimento di fronte a quella mia reazione. D'altronde non avevo potuto evitarlo. Mi sentivo preso in giro.
"Perchè non me lo hai detto? Perchè sei partita così, senza nemmeno salutarmi?"
E lei, inaspettatamente, si imbronciò.
"Perchè ero furibonda Gilbert! E delusa."
Rimasi a fissarla con quella che doveva essere la più grande faccia da idiota che esistesse, ma davvero non capivo.
Feci un sorriso amaro. "Ah sì ? Tu?"
Lei scattò verso di me, puntandomi un dito contro: "Sì, io! Perchè? Credi forse che non ne avessi il diritto? Tu mi avevi trattata malissimo!"
Aggrottai la fronte. "Ma di che diavolo...?"
Non feci in tempo a finire la frase che lei mi zittì: "Oh, certo, fingi di non ricordartelo! Quando ti ho chiesto come avresti reagito se fossi partita, tu mi hai risposto che non te ne sarebbe importato un accidente!"
Scossi la testa. No, non poteva avercela con me per una cosa così.
"Tu sei matta! Ti dicevo cose ben peggiori!"
"Ma quella mi ha fatto male!"
Detto questo, tornò ad appoggiarsi alla balaustra, forse cercando di calmarsi.
Feci lo stesso, e dopo qualche istante, mi sorse spontanea una domanda.
"Perchè?"
Sorrise, amaramente.
"Perchè avevo una cotta per te.", mormorò.
Se fosse stato fisicamente possibile, sono certo che gli occhi mi sarebbero usciti dalle orbite. Non potevo credere alle parole che avevo appena sentito.
"Scherzi vero?", chiesi con un filo di voce.
Corrugò la fronte: "No, idiota! Perchè dovrei?"
"M-ma non è possibile! Tu mi picchiavi! E mi prendevi in giro! E facevi gli occhi dolci agli altri ragazzi!"
"Ciò non toglie che sei stato il mio primo amore, stupido che non sei altro."
La sua voce era triste come mai l'avevo sentita.
"E dicendomi che non te ne importava nulla di me, mi hai spezzato il cuore."
Oh.
Ora capivo. Ora mi era tutto chiaro.
"Mi dispiace."
Lei mi guardò. Sembrava sorpresa dalle mie parole. Ma non lo era quanto lo ero io: non avevo mai chiesto scusa prima di allora.
"Mi dispiace, davvero. E' che non avevo il coraggio di dirti la verità, quindi ho inventato la prima stronzata che mi passava per la testa in quel momento."
Lei inarcò un sopracciglio: "Quale verità?"
La cosa si faceva complessa. Ma d'altronde, non avevo nulla da perdere. E poi stavamo parlando di una cosa successa quando eravamo dei ragazzini, dannazione. Che male c'era?
Sospirai. "Anche io avevo una cotta per te, sai?"
Mi guardò per un lungo istante, e io sostenni il suo sguardo stavolta.
Solo allora mi accorsi di quanto fosse effettivamente bella.
Gli occhi liquidi, verdi smeraldo. I lungi capelli color mogano che le contornavano perfettamente l'ovale del viso, ricadendole morbidamente sulla fronte.
Il naso, leggermente all'insù, punteggiato da qualche lentiggine.
E la bocca, quella bocca carnosa che ora mi stava sorridendo e che realizzai desiderare ardentemente di poter baciare ancora.
Non era solo carina, come la ricordavo. Non era nemmeno più la bambina di un tempo. Era una donna ora, una splendida donna.
Rise di gusto, ridestandomi dai miei pensieri.
"Che hai da ridere tanto?", chiesi scettico.
Scosse la testa. "Eravamo proprio due idioti testardi! Ci pensi? Eravamo innamorati l'uno dell'altra ma per orgoglio non ce lo siamo mai detti, e guarda come è finita!"
Sorrisi. "Eh già. Eccoci qui, a litigare per una maledetta incomprensione di millenni fa!"
"E se non ci fossimo mai rincontrati? Io ti avrei odiato per sempre!", fece lei.
Ridemmo entrambi, poi calò nuovamente il silenzio.
Era tutto molto strano. Però uno strano positivo, non imbarazzante.
Quella serata era stata folle. Era come se il passato mi avesse dato un pugno dritto in faccia per poi chiedermi scusa.
"Mi dispiace per prima, sai."
La guardai: sembrava di nuovo imbarazzata. E capii che era ancora più carina così, forse perchè abbandonava quella che sembrava la sua perenne aria di sicurezza assoluta. Però mi metteva a disagio: quella non era la mia Lizzy.
Per alleggerire l'atmosfera, sghignazzai: "Prima quando? Quando mi hai baciato per far ingelosire il tuo ex o quando mi hai quasi ammazzato spingendomi sotto un bus?"
Eliza sbuffò, ma vidi che nascondeva a stento un sorriso: "Te la sei proprio legata al dito per quel maledetto scherzo!"
Fece una pausa, poi proseguì: "Intendevo dire per il bacio. E' stato ingiusto usarti in quel modo. Non mi comporto così di solito, giuro, ma rivedere Roderich mi ha dato alla testa."
"Non è finita bene tra voi, eh?", chiesi con un sospiro.
"No, infatti. Diciamo che le nostre strade stavano prendendo direzioni differenti. Lui era la cosa più importante del mondo per me, ma io...io non lo ero per lui." I suoi occhi guardarono lontano, un punto imprecisato di fronte a sè, come riesplorando momenti passati difficili da ricordare.
Poi prese un profondo respiro, tornando alla realtà: "Ma sai cosa? Non mi va di parlare di lui adesso."
Si voltò verso di me, sorridendo.
"Per quanto rimarrai in città?", chiese.
"Fino all'anno prossimo."
Si illuminò: "Fantastico! Dobbiamo vederci, ogni tanto. A Natale di sicuro. E poi c'è il tuo compleanno a gennaio, se non ricordo male. E poi..."
"Lizzy posso farti una domanda?"
Lei mi guardò sorpresa, poi annuì con curiosità.
Mi sentii arrossire. Stavo forse per fare la cazzata più grande della mia vita, ma valeva la pena tentare. Dopotutto, io ero il Magnifico.
"Posso provarci con te nel frattempo?"
Lei sgranò gli occhi, incredula, e io mi preparai a un pugno nello stomaco.
Invece non accadde. Dopo pochi istanti infatti, scoppiò a ridere.
"Mi piacerebbe vederti!", esclamò tenendosi la pancia per le risate.
"Ehi! Sono un grande seduttore, io!"
Era incredibile.
Eliza era davvero lì con me. E mentre ridevo insieme a lei sentii che qualcosa dentro di me era tornato al suo posto dopo tanto tempo.
Mi sentivo finalmente felice.
Angolino dell'Autrice:
Salve a tutti! Questo capitolo è arrivato per tempo come promesso, visto? Che miracolo di Natale! :') Ho notato che lo scorso capitolo ha ricevuto meno visite e recensioni del solito e mi sento tremendamente in colpa, perchè penso che la causa sia stato il mio enorme ritardo (E INFATTI E' COSI' E' INUTILE TERGIVERSARE) ...spero di essermi fatta perdonare con questo aggiornamento puntuale ;u; (E INVECE NO, HANNO PERSO FIDUCIA IN TE E HANNO RAGIONE)
Comunque sia, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
See ya soon, people!
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Capitolo 8 *** The Tower Bridge ***
Streetlight
People
08.
The Tower Bridge
Le notti londinesi,
nella City, erano un qualcosa di magico.
Tutte quelle luci che
si riflettevano sulle tranquille acque del Tamigi, come sfidassero il
cielo buio e plumbeo, permettendo al mondo notturno londinese di
vivere, tra le strade e i ponti. Il London Bridge era piuttosto
tranquillo quella sera, solo qualche impiegato affrettato, che
probabilmente desiderava solo salire sul primo treno disponibile a
Victoria Station e rientrare finalmente a casa.
Ah già, e
poi c'eravamo noi.
Guardai Alfred che
passeggiava tranquillo al mio fianco, mani in tasca e solita andatura
dinoccolata. Era il ritratto della calma, come se tra noi non fosse
successo assolutamente nulla, come se fosse stato un appuntamento come
tanti.
E la cosa mi irritava
parecchio.
"Posso sapere dove
stiamo andando?", gli chiesi un'ennesima volta con fare stizzito.
"Ti ripeto che lo
scoprirai tra poco! Non dirmi che sei stanco, piccolo ribelle
nottambulo!", rispose lui con un sorrisetto.
Alzai gli occhi al
cielo: "Come se fosse quello il punto! E non chiamarmi in quel modo!"
Una volta scesi dal
ponte svoltò a destra, e io lo seguii senza ribattere. Tanto
valeva accontentarlo, a quel punto.
Percorremmo la riva
del Tamigi in silenzio, anche se lanciando di tanto in tanto occhiate
furtive ad Alfred lo vedevo sorridere sotto i baffi. Stava macchinando
qualcosa, ma la stanchezza impediva al mio cervello di formulare
qualunque ipotesi.
"Allora, qualche
idea?", fece lui improvvisamente, con una grande aspettativa dipinta
sul volto.
Sembrava un bambino
entusiasta della sorpresa da lui stesso organizzata.
"Siamo vicini alla
London Tower, no?" chiesi esasperato.
"Esatto, e...?"
"E...? Cosa?"
Sembrò
deluso, e bofonchiò qualcosa che non capii. Poi
scrollò le spalle e, ritrovando l'entusiasmo di prima,
accellerò il passo.
"Ci siamo quasi!"
"Yu-hu...", borbottai
senza enfasi, cercando di stargli dietro.
Cavolo, nonostante
tutti gli Happy Meal che si divorava quel ragazzo era veloce a correre.
Ma probabilmente era per il fatto che io sulle spalle mi stavo portando
una chitarra elettrica, che quell'idiota non si era nemmeno offerto di
portarmi. Non che fossi una gracile fanciulla, ma lui era molto
più ben piazzato di me, e poi era per colpa sua se stavo
sfacchinando in quel modo, e...
"Eccoci"
Aveva pronunciato
quella parola in tono solenne, il suo sguardo fisso nel mio.
Mi guardai intorno,
senza capire."Eccoci dove, precisamente?"
La sua espressione
sicura si fece triste. "Come? Non lo riconosci?", mi chiese con tono
deluso.
Stavo cominciando ad
arrabbiarmi. "Alfred Jones, dimmelo e basta! Insomma, è
evidente che siamo in riva al Tamigi, vicino alla London Tower, e
quello laggiù è il..."
In quel momento capii.
Fissando quelle due torri maestose che sorgevano dall'acqua, illuminate
di luce argentea, tutto mi fu chiaro. Come avevo fatto a non capirlo
subito? Mi voltai, pur conoscendo già quello su cui i miei
occhi si sarebbero posati: una panchina in ferro nero, come ce ne erano
tante a Londra. Ma quella era speciale. Oh, se lo era.
"...il Tower Bridge."
conclusi in un sussurro guardando un punto imprecisato del selciato
sotto i miei piedi.
"Visto da quel punto
particolare che mettono sempre sulle cartoline, come mi avevi detto
quella volta. Avevi ragione, di notte è anche più
bello."
Sentii un'improvvisa
fitta al cuore.
"Perchè mi
hai portato qui?", chiesi con un filo di voce, nonostante sapessi
già la risposta che avrei ricevuto.
Alfred rise, come se
stessi scherzando. "Questo è il nostro posto, no?"
Presi un sospiro, e
strinsi i pugni talmente forte che avvertii chiaramente le unghie
infilarsi nei palmi delle mani.
"Lo era prima che mi
piantassi", mormorai gelido "Ora non lo è più.
Non ti permetto di profanare i miei ricordi in questo modo. Me ne torno
a casa, sapevo che darti retta sarebba stata una pessima idea."
Feci per andarmene, ma
lui mi trattenne per il polso con un'espressione calma sul volto.
Cercai di liberarmi dalla sua presa, ma era tutto inutile: quell'idiota
era troppo robusto.
"Hai promesso di
starmi a sentire.", mi ricordò, lanciandomi un'occhiata
supplichevole.
Dannazione, a lui e
alle sue promesse infantili.
Strattonai nuovamente
il polso, e finalmente l'americano si decise a lasciare andare il mio
povero braccio.
"Ora siediti e
ascoltami, ok? Non ci metterò molto, davvero."
Detto ciò
prese posto sulla panchina e mi fece segno di fare lo stesso.
"Scordatelo", risposi,
guardandolo storto.
Alfred mi
fissò per un istante. Poi, sfoderando la sua migliore
espressione da cucciolo, disse: "Ti prego Arthur, dammi un'occasione."
Il cuore mi fece un
salto nel petto. Inutile, per quanto mi potessi sforzare non riuscivo a
dire di no a quei maledetti, dolcissimi occhioni blu.
Mi sedetti accanto a
lui, ma a debita distanza. "Ti do dieci minuti, non uno di
più."
Lui sorrise
soddisfatto: sapeva di aver vinto giocando sporco.
"Vediamo, da dove
posso cominciare? E' una lunga storia."
"Il tempo passa,
quindi vedi di darti una mossa."
"Okay, okay! Dunque,
hai presente sei mesi fa quando...?"
"...Mi hai piantato in
asso come un idiota? Si, ho un vago ricordo", sibilai tra i denti,
guardandolo storto.
Lui scrollò
semplicemente le spalle: "Uhm, esatto. Ora vedi di non interrompermi
più."
Stavo per ribattere,
ma lui proseguì: "Ecco, sei mesi fa ho ricevuto una mail
dall'America. Era di mio fratello."
Aggrottai la fronte.
Mi aveva parlato raramente di quel ragazzo, a malapena sapevo della sua
esistenza, e non conoscevo nemmeno il suo nome. I loro genitori erano
divorziati, e ora lui viveva in Canada con il padre, mentre Alfred
negli USA con la madre.
"Sai, Matthew
è sempre stato quello intelligente -e non fare battutine
sarcastiche-, si è iscritto a una prestigiosa
facoltà umanistica a Toronto. Ma sto divagando, immagino. Il
punto è che nella mail mi invitava a tornare in America per
andare a vivere con lui, nell'appartamento che aveva preso in affitto.
Di vedere i miei non mi andava affatto, non per niente me ne sono
andato di casa, ma Mattie mi mancava. E così il giorno dopo
ho preso un biglietto per Toronto e sono partito."
Non so descrivere la
mia sensazione in quel momento. Ero da un lato sollevato che non mi
avesse mollato perchè si era stancato di me, ma dall'altro
non potevo evitare di sentirmi offeso: insomma, dopotutto aveva
preferito suo fratello a me.
E infine, avevo un
grande interrogativo: "Ma...perchè non me lo hai detto
subito?"
Lui sbuffò:
"Se mi lasciassi finire il discorso, magari. Dicevo, sono andato da
Matthew: l'appartamento è stupendo, abbiamo passato un bel
periodo, a ricordare l'infazia, a litigare come al solito, a dire
quanto i nostri genitori fossero stati egoisti a divorziare senza
pensare a noi...insomma, roba da fratelli. E gli ho parlato anche della
mia vita qui a Londra, dei lavoretti che facevo per mantenermi, della
gente che avevo conosciuto...di te."
Mi guardò
negli occhi, con un sorriso dolce. Io arrossii e abbassai lo sguardo.
"E quindi?", chiesi
affettando disinteresse.
"Quindi gli ho chiesto
quello che avevo programmato di chiedergli sin dall'inizio: se c'era un
posticino anche per te, in quel suo enorme appartamento."
La mia espressione in
quel momento doveva essere estremamente sconcertata e buffa,
perchè quando Alfred tornò a posare lo sguardo su
di me scoppiò a ridere: "Cos'è quella faccia?
Sembri sotto shock!"
Presi fiato, e dopo
aver boccheggiato un paio di volte, esclamai: "Sono sotto shock! Tu mi
avevi lasciato, ero convinto che mi odiassi fino a pochi minuti fa, per
lo meno io sicuramente ti odiavo, e ora mi stai chiedendo di venire a
vivere con te in Canada!?"
Alfred sorrise
rilassato: "Bè, con me e mio fratello. Ma non devi
preoccuarti, è un ragazzo molto gentile, sono sicuro che
andrete d'accordo."
Mi schiaffai una mano
sul volto. A volte era talmente ottuso da farmi perdere anche quel
briciolo di autocontrollo che mi rimaneva.
"Non
è quello il punto, idiota! Sono stato da schifo per mesi,
perchè pensavo -che ne so!- che avessi un altro! Si
può sapere perchè diamine non mi hai detto quello
che avevi in mente?"
Inarcò un
sopracciglio, sinceramente confuso da quella mia reazione: "Era una
sorpresa no? E poi non potevo sapere se Mattie avrebbe accettato o
meno."
"S-si, ma...Poteva
succedere di tutto! Potevo innamorarmi di qualcun altro, per esempio!"
Dicendo queste parole,
mi venne in mente il ragazzo biondo che quella sera mi aveva lanciato
quelle occhiate mentre ero sul palco. Non era il momento più
adatto, proprio no.
Lui scosse la testa:
"Nha, ipotesi poco probabile."
Incrociai le braccia
al petto, sbuffando: "Già, come no! Sei così
egocentrico da pensare che la mia vita ruoti solo attorno a te!"
Sorrise di nuovo,
questa volta in modo più strafottente: "Perchè,
non è così?"
"Cos-Certo che no!"
"Ma non sei stato tu a
dire che ti sono mancato da morire in questi ultimi mesi?"
Arrossii, trovandomi
con le spalle al muro. Da quando prestava attenzione a quello che
dicevano gli altri, e soprattutto a quello che dicevo io? Di solito
dovevo ripetere le cose mille volte prima che il suo cervello le
recepisse. Questa volta, invece, aveva colto addirittura l'unica frase
compromettente che mi ero lasciato sfuggire!
Dannazione.
Calò il
silenzio, e mi ritrovai a fissare i giochi di luce sull'acqua del
Tamigi di fronte a noi. La situazione si era fatta troppo strana ed
imbarazzante, e credetti che non avrei mai più trovato il
coraggio di alzare lo sguardo su di lui. Perchè, ne ero
certo, mi stava osservando.
"E allora?"
La voce di Alfred
ruppe il silenzio, e io per poco non sobbalzai.
Senza guardare nella
sua direzione, chiesi semplicemente: "Allora cosa?"
"Vieni con me in
Canada?", ripetè con tono supplichevole.
Era davvero un
bambino. Non aveva capito minimamente quello che avevo passato, si
preoccupava solo di quello che interessava a lui, e, cosa che mi faceva
più arrabbiare, si comportava come se tra noi non fosse mai
cambiato nulla. Non mi aveva nemmeno chiesto scusa!
C'era però
una vocina nella mia testa che non accennava a tacere. Un fastidioso
pensiero felice, così diverso da tutti quelli che avevo
provato quella sera e negli ultimi mesi. Mi diceva che Alfred era
lì, che mi amava ancora e che mi stava chiedendo di stare
con lui per sempre. Ora però dovevo decidere se dare retta a
questa piccola vocetta o al mio immenso orgoglio ferito.
Mi decisi a guardare
di nuovo in faccia l'americano, nonostante sapessi che le mie guance
erano in fiamme.
Mi osservava con
aspettativa, i suoi vivaci occhi blu si muovevano curiosi sul mio volto
per cogliere qualsiasi particolare che facesse trapelare i miei
pensieri.
"Se lo facessi sarebbe
la volta che i miei mi diseredano sul serio.", dissi.
"Sappiamo tutti e due
che non ti è mai interessato.", rispose con un sorriso.
"Litigheremmo sempre."
"Lo faremmo comunque."
"Se ci dovessimo
lasciare..."
"Non
succederà."
Rimasi ad assaporare
quelle parole, quasi a volermele marchiare a fuoco nei timpani. Avevo
deciso. O meglio, la mia decisione era sempre stata chiara nel mio
cuore.
"Non ti ho ancora
perdonato", aggiunsi, lasciandomi scappare un sorrisetto.
"Troverò il
modo di rimediare", rispose lui posandomi un leggero bacio sulle labbra.
Angolino dell'Autrice:
Eccomi con l'ottavo e
penultimo capitolo.
S-Siamo quasi arrivati
alla fine! Adesso mi commuovo çç Mi ero
affezionata a questa storia, nonostante tutti i patemi che mi ha fatto
venire quando non riuscivo ad aggiornare çç
(tanto so già come andrà a finire,
diventerò nostalgica e mi darò alla stesura di
millemila mini-sequel/spinoff ._.)
Comunque sia, spero
che questo capitolo vi sia piaciuto. Ringrazio come sempre tutte le
brave personcine che leggono e recensiscono, e ne approfitto anche per
augurarvi buon Natale!
See ya soon, people!
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Capitolo 9 *** Don't Stop Believing #1 ***
Streetlight People
09. Don’t Stop
Believing #1
“Just
a small town
girl
Living in a lonely world
She took the midnight train going anywhere
Just a city boy
Born and raised in south Detroit
He took the midnight train going anywhere”
Gilbert osservò la sua immagine riflessa
nello
specchio dell’ascensore.
Dopo aver constatato che la luce verdognola dell’abitacolo
non donava affatto
alla sua carnagione chiara, si accorse di un piccolo dettaglio: stava
sorridendo. Era un sorriso molto soddisfatto. E felice.
“Ehi, Gil! Smettila di venerare il tuo
riflesso,
egocentrico che non sei altro!”
Il tedesco fece vagare il suo sguardo verso la
ragazza di fianco a lui, che lo stava guardando in tralice con i pugni
piantati
sui fianchi.
“Sono troppo bello, non ho saputo
resistere. Ma
se preferisci, ecco…potrei mettermi a fissare te.”
Era ancora molto strano flirtare con lei. E
soprattutto era strano vedere le guance di Elizaveta colorarsi di
un’adorabile
rossore per le parole pronunciate proprio da lui.
“Non dire sciocchezze! E sbrigati a
scendere, non
lo vedi che siamo arrivati?”, disse lei distogliendo lo
sguardo e affrettandosi
a uscire dalle porte che si erano appena aperte su un pianerottolo dai
colori
chiari.
Gilbert la seguì in silenzio.
Aveva deciso che un corteggiamento come si deve prevedeva un sacco di
tempo
trascorso insieme. Di
conseguenza, si
era proposto di accompagnare Eliza al lavoro. Lei non aveva rifiutato,
un po’
perché sapeva perfettamente quanto fosse cocciuto
l’amico, e un po’ perché le
faceva sinceramente piacere, dopotutto.
Prima, però, la ragazza doveva passare da casa per
rimettersi in sesto dopo la
nottata appena trascorsa senza chiudere occhio.
‘Non mi presenterò al caffè con questo
aspetto orribile’, aveva detto; il
tedesco l’aveva guardata e si era sinceramente domandato se
avesse dei problemi
di vista o qualcosa di simile.
“Mi chiedo se Yasmine abbia passato una
seratina
piacevole con quel ragazzo!”, esclamò Eliza con un
sorriso sornione sul viso
mentre cercava le chiavi di casa nella borsetta.
Gilbert
non potè evitare di sorridere. “Oh, fidati di me:
è stata una serata più che
piacevole.”
Entrambi risero, quella risata complice a cui non
si erano ancora completamente abituati. Poi, lei infilò la
chiave nella toppa
ed aprì finalmente la porta del suo appartamento.
Quando Elizaveta entrò ed accese la luce
illuminando la stanza, Gilbert faticò a credere ai suoi
occhi.
Si trovavano in un salottino, molto ordinato per
quanto piccolo. Vi era un televisore, un tavolino e davanti a questo un
divano
di pelle chiara.
Ma quello che fece sgranare gli occhi all’albino, fu proprio
la persona che
stava dormendo beatamente su quel divano.
“Mein Gott.”,
sussurrò con un’espressione di pura
incredulità sul viso.
Eliza guardò il ragazzo accanto a
sé, poi quello
che dormiva.
“Aspetta un secondo”, disse con
aria confusa, “Ma
quello non è proprio il ragazzo biondo che è
sparito con Yasmine?”
“Oh sì. E’ lui.
E’ decisamente lui, Lizzie. La
cosa assurda è che sia arrivato fino al suo appartamento e
stia dormendo sul
divano. Capisci?! Sul divano! Da solo!”
Gilbert a quel punto non potè evitare di
scoppiare a ridere, talmente forte che gli occhi gli diventarono
lucidi. La
situazione era troppo comica e incredibile per poter essere presa
seriamente:
Francis Bonnefoy, il maestro della botta e via, lasciato a dormire sul
divano!
“Gil, non capisco…che sta
succedendo?”, chiese
Eliza sempre più perplessa.
Nel frattempo il tedesco si era avvicinato al
dormiente, estraendo il cellulare dalla tasca.
“Questa la devo mostrare ad Antonio come
prova…
Sono sicuro che questo coglione smentirà fino alla morte
quando si sveglierà!”,
esclamò mentre scattava una fotografia.
La ragazza osservò la scena senza
capire. Se ne
era rimasta sulla porta, con le chiavi ancora in mano e la fronte
aggrottata.
A un tratto però, sembrò come uscire da quello
stato di confusione, e si
diresse furiosa verso l’amico.
“Gilbert Beilschmidt, spiegami
immediatamente
cosa diavolo stai facendo!”
Quell’urlo attirò
l’attenzione del tedesco, ma
non solo: infatti, servì anche a svegliare Francis, che si
ridestò di scatto
dicendo qualcosa come ‘Giuro che non è come
sembra’.
Quando il francese riconobbe il tedesco al suo
fianco, per poi notare la ragazza accanto a lui, la sua espressione
tornò
quella sorniona di sempre.
“Oh, bonjour
mon ami. Com’è andata la serata? Bene,
mi sembra.”, chiese, inarcando un
sopracciglio.
Gilbert sorrise a sua volta: “Sicuramente
meglio
che a te, Mister Dormo-Sul-Divano.”
Gli occhi blu di Francis si sgranarono a quelle
parole. Immediatamente scattò in piedi,
affettando tranquillità.
“Non è come sembra.”
“L’hai già detto, e
io non ti credo.”
“Scusa tanto se per una volta sto
cercando di prendere
le cose seriamente!”
“A questo punto, se fossimo in una sitcom
partirebbero le risate fuoricampo, Fran.”
Elizaveta, ignorata per l’ennesima volta,
esclamò: “Aspetta, ma non avevi detto che non vi
conoscevate?”
Gilbert si rese conto solo allora di dovere delle
spiegazioni alla ragazza, e le lanciò uno sguardo supplice
mentre formulava le
parole giuste.
In quel momento, ancora assonnata e con indosso
il pigiama, fece il suo ingresso nel piccolo salotto Yasmine,
probabilmente
svegliata dal gran trambusto.
Quando notò la presenza dell’albino,
arrossì e fece un passo indietro.
“Oh! Ciao. Ehm, tu devi essere Gilbert,
giusto?
L’amico di Francis.”
Gilbert le rivolse un cenno con il capo, mentre
Eliza lo folmuniava con lo sguardo.
“Magnifico!”,
esclamò, “Tutti lo sapevano tranne
me, quindi?”
I quattro si guardarono. A pensarci bene, a
nessuno di loro era perfettamente chiara la situazione.
“Credo che sia meglio farci una bella
chiacchierata, ragazzi.”, disse Yasmine timidamente.
“A
singer in a smockey
room
The smell of wine and cheap perfume
For a smile they can share the night
It goes on and on and on and on”
Arthur aprì piano gli occhi, quando un
raggio di
sole che filtrava dalla finestra socchiusa lo colpì dritto
in faccia. Con uno
sbuffo si alzò lentamente a sedere sul letto,
stropicciandosi gli occhi con il
dorso della mano. Uno dopo l’altro, i ricordi legati alla
sera prima
cominciarono a fluire nella sua mente: senza accorgersene sorrise,
mentre uno
strano calore gli saliva nel petto.
Sospirò, voltandosi verso l’altro lato del letto
aspettandosi di vedere Alfred
che se la dormiva della grossa, i capelli dorati sparsi sul cuscino e
il suo
perenne sorriso sulle labbra.
Ma con sua grande sorpresa, Alfred non c’era, e le coperte
giacevano
disordinate sul materasso.
L’inglese aggrottò la fronte, e mettendo da parte
quella piccola voglia che
aveva di accoccolarsi contro quello che era di nuovo il suo ragazzo, si
alzò
dal letto e iniziò a cercare i suoi vestiti, sparsi un
po’ per tutta la stanza.
L’appartamento di Alfred non era cambiato
più di
tanto da quando ci era stato l’ultima volta: soliti modellini
dei supereroi
nella teca accanto alla finestra, solite coperte a stelle e strisce.
L’unica
differenza era la polvere che si era accumulata sui mobili durante
l’assenza
del padrone di casa. In fin dei conti, però,
l’appartamento era decisamente più
ordinato quando l’americano non lo abitava. Per lo meno il
pavimento era
visibile, e non ricoperto di cartoni della pizza e confezioni di
patatine.
Arthur sorrise, pensando che avrebbe sicuramente
costretto
Alfred ad aiutarlo a spolverare più tardi e che lui si
sarebbe ribellato come
al solito, quando una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare.
“Buongiorno, baby.”
Alfred se ne stava sulla porta, e lo stava
guardando con un sorriso soddisfatto.
L’inglese sbuffò, infilandosi
la sua maglietta
dei Sex Pistols che per qualche strana legge della fisica era finita
sopra la
lampada del comodino.
“Non chiamarmi così. Quante
volte te lo devo
ripetere?”, ribattè l’inglese alzando
gli occhi al cielo.
L’americano si avvicinò a lui
per schioccargli un
leggero bacio sulle labbra, venendo subito ricambiato.
“Non sei cambiato di una virgola. Neghi
ancora
l’evidenza: insomma, non puoi semplicemente ammettere che
adori quando ti
chiamo in quel modo?”, mormorò Alfred.
“Smettila! Io non nego
l’evidenza.”
“Lo stai facendo ancora.”
“Chiudi quella bocca.”
Arthur zittì l’americano con
un altro bacio.
Quando si allontanarono l’uno dall’altro si
guardarono per un lungo istante, in
silenzio.
Silenzio che venne improvvisamente rotto da Alfred, che con un
raggiante
sorriso esclamò: “Allora, andiamo a fare
colazione? Ho preparato i pancake!”
L’inglese conosceva bene le
capacità culinarie
dell’altro, piuttosto scarse a dire il vero, ma non osava mai
ribattere in
quanto, se possibile, lui era ancora più imbranato ai
fornelli. Insomma, far
fondere la spatola sulla padella nel tentativo di cucinare un semplice
uovo non
era da tutti. Quindi si limitò a seguire
l’americano in cucina, senza però
risparmiarsi un’espressione perplessa.
“Sai, è stato Matthew a
insegnarmi. Ha detto che
lo faceva per il tuo bene, perché non voleva che la mia
colazione ti facesse
venire un’intossicazione alimentare. Che
sciocchezza!”
Arthur sorrise, mentre prendeva la tazza fumante
che l’altro gli stava offrendo, per poi prendere un sorso:
caffè. Amaro e
pessimo caffè nero. Tipico di Alfred.
“Tuo fratello mi sta già molto
simpatico, sai?”
Alfred alzò gli occhi al cielo, mentre
poggiava
un grande vassoio di pancake sul tavolo della cucina. Avevano davvero
un
bell’aspetto dopotutto, nonostante la quantità
fosse decisamente esagerata.
“Sì, molto divertente! Per lo
meno non avremo
questi problemi quando saremo da lui. Mattie è un cuoco
eccezionale.”, disse
l’americano mentre si sedeva accanto all’altro.
Senza esitazione afferrò una di quelle
frittelle
dorate per poi addentarla.
“E’ shquishita!”,
esclamò soddisfatto, con ancora
la bocca piena.
A quel punto, e solo a quel punto, anche Arthur
si attentò ad assaggiarne una. Il canadese doveva aver
compiuto proprio un
miracolo, perché era davvero buona.
“Mh, quasi mi dimenticavo!”,
fece poi Alfred di
punto in bianco, “Ho prenotato i biglietti per
l’aereo. Partiamo venerdì.”
La mente dell’inglese fece due rapidi
conti, e
per poco il boccone non gli andò di traverso.
Tossicchiando, esclamò:
“Venerdì?! Questo
venerdì?! E’ tra due giorni!”
Alfred si limitò a guardarlo perplesso.
“Sì, lo
so.”
Arthur provò a ribattere, ma poi si
ricordò con
chi aveva a che fare. A che serviva cercare di fargli capire che
bisognava
avvertire un po’ prima le persone sulla data del loro forse
definitivo
trasferimento in un altro continente? In fondo amava tutto di lui,
anche quelle
follie senza senso.
Così si limitò a sospirare, scuotendo il capo.
“Venerdì è
perfetto, Al.”
“Certo che lo è,
l’ho scelto io! Piuttosto, ti
piacciono i pancake?”
“Strangers
waiting
Up and down the boulevard
Their shadows searching in the night”
Angolino
dell'Autrice:
Okay, devo delle spiegazioni. Questo capitolo,
che in teoria doveva essere una breve conclusione, alla fine
è diventato un bel
po’ più lungo per via delle tante cose che avevo
da dire sul destino di questi
sciagurati u.u
Quindi ho deciso di dividerlo in due parti, anche perché
così raggiungerei i
dieci capitoli…è un numero più tondo,
non vi pare? uwu
In conclusione, ebbene no, non è finita: vi
torturerò ancora per una volta,
contenti? No, ma fa lo stesso. Comunque sia la seconda parte dovrebbe
arrivare
già in settimana.
Per il resto, grazie mille a chi ha letto, a chi ha recensito e a chi
recensirà.
E come al solito, see ya soon people!
|
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Capitolo 10 *** Don't Stop Believing #2 ***
Streetlight People
10. Don’t Stop
Believing #2
“Working
hard to get my fill
Everybody wants a thrill
Payn’ anything to roll the dice
Just one more time”
Feliciano sentì vibrare il
cellulare nella tasca dei
pantaloni, e dopo averlo afferrato osservò lo schermo ora
illuminato a indicare
una chiamata in arrivo. Il nome sul display era quello di suo fratello.
“Ehi, Lovi! Non indovinerai
mai dove sono!”
Non fece nemmeno in tempo a terminare
quelle parole che
l’altro stava già urlando nella cornetta.
“Esatto idiota, non ho la
più pallida idea di dove tu sia!
E’ proprio questo il problema! Ho provato a telefonarti a
casa ma tu non
c’eri!”
“Infatti non sono a
casa.”
“L’ho notato!
Adesso potresti cortesemente dirmi dove sei?!”
“Alla National
Gallery.”
“Cos- Alla National
Gallery?! Sono le dieci del mattino!”
“Lo so, è appena
aperta! Non c’è quasi nessuno, infatti.”
“Feli…”
“Dimmi
fratellone.”
“Cosa diavolo ci fai alla
National Gallery a quest’ora,
tutto solo?”
“Oh, ti sbagli Lovi. Non
sono da solo!”
Dall’altra parte del
telefono calò un silenzio improvviso,
seguito da un profondo sospiro.
“Con chi sei?”
“Con Ludwig!”
“…E chi cazzo
è Ludwig?!”
“Un ragazzo che ho
conosciuto ieri sera mentre tu ti
divertivi con Antonio.”
“Non puoi andartene per
musei con un tizio che conosci da
meno di ventiquattr’ore, Feliciano! E comunque non usare
parole che potrebbero
venire fraintese, non sono tutti ingenui come te al mondo!”
“In che senso?”
“Io e
quell’idiota di uno spagnolo non ci stavamo
‘divertendo’, stavamo solo…oh, al
diavolo! Non è quello il punto! Tornatene
subito a casa e pianta in asso quel poco di buono.”
“Lud non è un
poco di buono! E’ molto gentile, anche se
forse è un po’ timido. Ora che ci penso vi
assomigliate parecchio, sono sicuro
che andrete d’accordo.”
“Oh mio Dio, ti ha drogato
non è così? Non c’è altra
spiegazione, stai delirando!”
“Lovi, ti devo lasciare.
Devo entrare adesso, e non è
educato parlare al cellulare in un museo.”
“Chi se ne importa
dell’educazione in un momento come
questo!”
“Ciao, fratellone! A
dopo!”
L’ultima cosa che Feliciano
sentì prima di riattaccare fu
un’imprecazione ben poco carina. Ma in fondo ci era abituato,
suo fratello si
scaldava molto facilmente.
Entrò nella grande sala d’ingresso della galleria,
dove pochi minuti prima
aveva lasciato Ludwig.
Quando questi lo vide, gli andò immediatamente incontro.
“Tutto a posto?”,
chiese con sguardo apprensivo.
“Certo,
perché?”
Il tedesco si
tranquillizzò notando l’espressione rilassata
dell’altro.
“Chi era al
telefono?”, chiese allora, “Non che siano affari
miei ovviamente. Insomma, se era, che ne so!, la tua ragazza o qualcosa
del
genere non sei assolutamente tenuto a dirmelo.”
“Era mio fratello, sembrava
un pochino agitato. Chissà cosa
gli è successo! A volte proprio faccio fatica a capirlo.
Pensa un po’, credeva
addirittura che tu fossi un poco di buono.”, disse
allegramente l’italiano
trotterellando allegro verso una tela che aveva attirato la sua
attenzione.
Ludwig si irrigidì. Aveva
fatto male, decisamente male a
fidarsi della calma di Feliciano. Probabilmente in quel momento, da
qualche
parte in una centrale di polizia di Londra, suo fratello stava facendo
una
denuncia di rapimento.
“Aspetta, tu cosa gli hai
detto esattamente?”, chiese,
cercando di accertarsi di quanto rischiava la galera.
“La
verità.”, fece Feliciano mentre i suoi occhi
nocciola
vagavano sul dipinto con estrema passione, “Che ci siamo
conosciuti ieri sera e
che adesso sono qui con te. Non capisco perché abbia
supposto che mi avessi
addirittura drogato.”
Il tedesco impallidì
definitivamente. Ecco, ora la gattabuia
per sequestro di persona era assicurata. Non poteva nemmeno aspettarsi
che
Gilbert e i suoi amici dementi gli pagassero la cauzione: conoscendoli
era già
tanto sperare che gli portassero le arance.
“Mi chiedo come mai fosse
così agitato. Oh bè, d’altronde
è
sempre stato molto apprensivo nei miei confronti.”, aggiunse
Feliciano
spostandosi verso un altro quadro, seguito da quella che ormai era
l’ombra di
Ludwig.
Il tedesco lo guardò,
cercando di capire come diavolo facesse
quel ragazzino a non avere mai alcuna percezione di quello che gli
capitava
attorno. Doveva esserci davvero un intero universo dentro quella sua
testolina rossiccia.
Si morse l’interno della guancia quando si sorprese a sperare
che magari un
giorno lo avrebbe mostrato anche a lui.
L’italiano si voltò all’improvviso nella
sua direzione, distogliendo
l’attenzione dalla tela variopinta davanti ai suoi occhi per
puntarli in quelli
dell’altro, che si sentì arrossire inevitabilmente.
“A proposito,
Lud.”, iniziò con una voce stranamente dolce.
“Io
non ho una
ragazza. E nemmeno ‘qualcosa del genere’.”
Detto questo tornò a
guardarsi intorno con meraviglia alla
ricerca di qualcos’altro che valesse il suo interesse.
Ludwig ci mise qualche istante ad assimilare quelle parole. E non
bastò tutta
la visita alla National Gallery affinché si desse una
risposta definitiva sul
motivo per cui l’italiano avesse specificato quel particolare
della sua vita utilizzando
un tono del genere. Una cosa gli sembrava decisamente ovvia
però: quel
ragazzino, che era entrato così all’improvviso
nella sua vita, stava anche per
cambiarla radicalmente, che lui lo volesse o meno. E per quanto la cosa
lo
spaventasse, non potè evitare di sorridere a quel pensiero.
“Some will win
Some will lose
Some are born to sing the blues
No, the movie never ends
It goes on and on and on”
Antonio aveva osservato il ragazzo
seduto di fronte a lui
per tutto il tempo che questi aveva passato al telefono con il
fratello. Non
aveva capito molto della loro conversazione, in quanto Lovino aveva
parlato sempre
in italiano e infine, anche se lui non poteva esserne certo, era
addirittura
passato a uno stretto dialetto meridionale.
Inizialmente era evidentemente arrabbiato, la fronte aggrottata e gli
occhi
ambrati stretti in due fessure. Era carino anche così. Le
sue guance trovavano
un’occasione in più per tingersi di rosso, e
questo era semplicemente
adorabile, anche se magari gli altri clienti del caffè dove
si trovavano non
erano proprio d’accordo a giudicare dalle occhiate che
lanciavano loro,
probabilmente esasperati dal tono di voce dell’italiano.
Ma poi lo spagnolo era riuscito chiaramente a leggere su quel viso che
tanto
gli piaceva una preoccupazione latente, e non aveva potuto evitare di
avvicinarsi a lui per intrecciare la mano destra con la sua, nel
tentativo di
tranquillizzarlo. Forse sovrappensiero, lui l’aveva stretta
di rimando.
Fatto sta che quando Lovino chiuse
finalmente la chiamata,
era furioso.
“Che è
successo?”, chiese Antonio con un mezzo sorriso.
L’italiano
sbuffò sonoramente, e dopo qualche istante
rispose: “Mio
fratello è alla National
Gallery. Con un tizio.”
L’altro inarcò
un sopracciglio, perplesso. “…E allora?”
A quella semplice domanda, Lovino
reagì come un gatto a cui
è appena stata pestata la coda.
“Come sarebbe a dire?! Non
può andarsene in giro con un
ragazzo che ha incontrato solo ieri sera!”
Antonio non voleva ridere, davvero,
aveva ormai capito che
farlo sentire preso in giro era una pessima idea. Ma non
riuscì sinceramente a contenersi.
“Che hai da ridere,
bastardo?!”
“Ascolta, noi ci siamo
conosciuti ieri sera e guardaci: ci
stiamo tenendo per mano e, non per dire, ma poche ore fa ci stavamo
baciando su
una ruota panoramica. Tuo fratello sta solamente facendo un giro
turistico di
una galleria d’arte con quel ragazzo.”
Non appena l’altro
realizzò che sì, in effetti stava davvero
stringendo la mano dello spagnolo, la ritrasse immediatamente.
“E’
completamente
diverso.”, rispose seccato, “Mio fratello
è terribilmente ingenuo. Tu non lo
conosci, non sai quante stupidaggini ha fatto nella sua vita. E chi
è che l’ho
deve tirare fuori dai casini? Io ovviamente, sono suo fratello
maggiore! Con
che faccia potrei tornare da mio nonno se gli succedesse
qualcosa?”
Antonio sorrise nuovamente. Ecco,
anche quel lato di Lovino
era estremamente bello, quella premura con cui si prendeva cura di suo
fratello
facendola sembrare come una regola obbligatoria, quando in
realtà era evidente
che l’unica cosa che lo spingeva a tanto era il gran bene che
voleva al
gemello.
“Lovi, calmati. Feliciano
è un ragazzo di diciannove anni,
dopotutto: che gli può succedere di male? Hai paura che
resti incinto?”
Lovino alzò gli occhi al
cielo: “Non prendermi per il culo!
E’ una situazione che tu non puoi capire. E poi il nome di
quel tizio non mi
ispira affatto fiducia.”
“Perché?”
“Credo sia tedesco. Non mi
piacciono i tedeschi.”
“Non fare così!
Sai, uno dei miei migliori amici e suo
fratello sono
tedeschi.”
L’italiano lo
guardò in tralice: “E credi che questo deponga
a suo favore? No, perché è l’esatto
contrario invece.”
Antonio ci pensò per
qualche istante: “Mh, in effetti
Gilbert non è proprio quel genere di persona
a cui qualcuno affiderebbe il proprio fratellino. Però suo
fratello, Ludwig, è
davvero un bravo ragazzo.”
Gli occhi ambrati
dell’altro guizzarono su di lui,
improvvisamente sgranati.
“Aspetta…Ludwig,
hai detto?”
Antonio annuì perplesso.
“E questo Ludwig era con
voi, ieri sera? In quel locale?”
Un altro consenso da parte dello
spagnolo, il quale sembrava
sempre più confuso, soprattutto quando Lovino si
accasciò sul tavolo.
“Posso sapere anche io il
perché di tutta questa
disperazione?”, chiese allora con un sorriso comprensivo.
L’italiano rispose
mugugnando, il viso ancora affondato tra
le braccia: “Il tizio che è con Feliciano si
chiama Ludwig. E l’ha conosciuto
ieri in quel locale.”
E fu allora che anche Antonio
capì, sgranando gli occhi
verdi.
“Tu dici che è
una cosa possibile?”, chiese all’altro mentre
un sorriso meravigliato gli si dipingeva sul viso.
Lovino alzò finalmente il
viso verso di lui, guardandolo in
tralice: “Il fatto che mio fratello sia stato adescato da un
tuo conoscente?
Oh, nulla di più probabile.”
Lo spagnolo scosse la testa:
“No, voglio dire: credi davvero
che sia possibile che nella stessa sera io abbia conosciuto te e lui
tuo
fratello? Sembra una cosa così assurda!”
“Non venirmi a parlare di
quell’enorme stronzata del
destino, perché giuro che me ne vado.”, fece
l’italiano alzando gli occhi al
cielo.
Antonio sospirò:
“Dico solamente che sarebbe incredibile,
non trovi? Insomma, già io lo ritenevo un miracolo quando ti
ho visto ieri
sera…”
Lovino arrossì,
distogliendo lo sguardo da quello ormai
adorante dello spagnolo: “Non ti avevo detto di smetterla con
queste frasi
melense? E poi stanno arrivando i nostri caffè, quindi
taci!”
In effetti, pochi istanti dopo si
avvicinò al loro tavolo un
ragazzo orientale con in mano un vassoio.
“Due espresso,
giusto?”, chiese questi con voce pacata.
Ad un cenno del capo di Lovino, il
cameriere appoggiò le due
tazze sul tavolo con cautela. Notando però che lo spagnolo
lo stava fissando si
fermò con aria preoccupata.
“Qualcosa non va?”
Antonio sorrise amichevolmente.
“In realtà volevo chiederti
una cosa...”, s’interruppe un istante per osservare
la targhetta con il
nome che il ragazzo
portava sul petto, “Kiku Honda.”
Sia l’asiatico che
l’italiano lo guardarono perplessi.
“Mi dica pure,
signore.”, mormorò quindi Kiku con fare
educato.
A quel punto Antonio lo
guardò dritto negli occhi, per poi
domandargli in tono solenne: “Dimmi, Kiku. Tu credi nel
destino?”
Se il moro sembrava sorpreso da
quella domanda tanto
stramba, Lovino stava davvero per alzarsi ed andarsene tanto era
imbarazzato.
“Non posso credere che tu
abbia davvero disturbato questo
povero tizio per una stronzata del genere!”,
sbottò infatti, ancora incredulo
che l’altro avesse seriamente chiesto una cosa simile a un
completo
sconosciuto.
Stranamente però, il
‘povero tizio’ stava sorridendo
gentilmente. “Oh, non si arrabbi. Non mi ha disturbato
affatto, anzi, è una
domanda molto interessante. E poi sa, è buffo: ieri sera un
mio caro amico
americano mi ha domandato la stessa cosa.”
“E tu cosa gli hai
risposto?”, chiese di rimando Antonio,
mentre Lovino si schiaffava la mano sul volto vedendo come
l’asiatico stava
incoraggiando quella buffonata senza senso.
“Sinceramente? Che io credo
proprio di sì.”, rispose il moro
per poi prendere il vassoio e congedarsi.
“Hai visto? Dovresti
crederci anche tu, Lovi.”, disse lo
spagnolo per poi prendere un sorso di caffè.
L’italiano
sbuffò: “Scordatelo. E comunque, non osare farlo
mai più: che ti è saltato in testa?”
“Volevo
sorprenderti.”
“Più che altro
mi hai fatto venire voglia di tirarti un pugno
in faccia.”
Antonio lo fissò per un
lungo istante, per poi fargli
l’occhiolino.
“Ti
amo
anche io.”
“Don’t stop believing
Hold on to the feeling
Streetlight people…
Don’t stop!”
E’ finita. Oddio,
l’ho finita davvero. Non credevo si
provasse una soddisfazione tale a vedere una storia conclusa, e invece
sono qui
e non mi capacito di esserci davvero arrivata in fondo. Wow.
Prima di tutto, è doveroso condividere con voi questo
piccolo headcanon che non
sono riuscita a inserire nella fanfiction (altrimenti questo capitolo
sarebbe
diventato un’enciclopedia u.u): il caffè in cui si
trovano Antonio e Lovino
nella scena finale è anche quello dove lavorano Elizaveta e
Yasmine. Quindi,
Kiku è un loro collega oltre ad essere amico di Alfred (come
spero si sia
capito…?). Lo so, dovrei mettermi a scrivere storie meno
complesse :’)
Dopodichè, via con i ringraziamenti stile notte degli Oscar:
vorrei ringraziare
tutti quelli che hanno letto la fanfiction prima di tutto, e in
particolare
chiunque l’abbia messa tra le preferite, le ricordate, le
seguite…insomma,
chiunque abbia lasciato traccia del suo passaggio uwu E
infine, un grazie particolare a chi mi ha
lasciato un commentino, facendomi un sacco di complimenti
(immeritatissimi,
siamo sinceri u_u) e dando un senso a quello che scrivevo. Quindi ecco,
vi cito
pure belle personcine: Melabanana_
,
Giuls Koshka, yanyan,
Tsukiyama Kun
Beilschmidt, sara_sakurazuka,
MelaH_, shaya21, BananaH.
Insomma, grazie a tutti ♥
Non pensate di esservi
liberati
di me, perché tornerò a rompervi
l’anima molto presto. Quando meno ve lo
aspetterete, io colpirò con una nuova long che non
aggiornerà mai. State pronti
u.u
Perciò…
See ya
soon,
people!
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