Can you hear the World crying? -Il Gioco-

di Ortensia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Risveglio ***
Capitolo 2: *** II - Gentiluomo ***
Capitolo 3: *** III - Famiglia ***
Capitolo 4: *** IV - Ghiaccio ***
Capitolo 5: *** V - Spade ***
Capitolo 6: *** VI - Fuoco ***
Capitolo 7: *** VII - Pazzia ***
Capitolo 8: *** VIII - Ricordi ***
Capitolo 9: *** IX - Attrazione ***
Capitolo 10: *** X - Acciaio ***
Capitolo 11: *** XI - Freddezza ***
Capitolo 12: *** XII - Sorte ***
Capitolo 13: *** XIII - Vendetta ***
Capitolo 14: *** XIV - Ira ***
Capitolo 15: *** XV - Scontro ***
Capitolo 16: *** XVI - Specchio ***
Capitolo 17: *** XVII - Orgoglio ***
Capitolo 18: *** VXIII - Gelo ***
Capitolo 19: *** XIX - Preghiera ***
Capitolo 20: *** XX - Titani ***
Capitolo 21: *** XXI - Massacro ***



Capitolo 1
*** I - Risveglio ***


I – Risveglio



Erano passati diversi mesi dai sanguinosi episodi di Berkeley Square, e quella mattina sembrava proprio l’inizio soleggiato di una dolce giornata, come tutte le altre.
Ognuno si era svegliato per fare qualcosa di ben preciso, chi per andare a lavorare, chi per fare le pulizie, chi per sostenere un importante incontro politico, chi per raccogliere frutti, chi per badare ai propri animali. C’era chi, forse, era ancora segnato dagli eventi passati, ma ben contento -e convinto- di esserne ormai del tutto fuori, chi ne era totalmente ignaro.

Quella mattina c’era stato chi, mentre aspettava alla fermata dell’autobus o in stazione, da solo, era stato trascinato via a forza.
Chi, mentre faceva le pulizie, aveva sentito un forte dolore alla testa e poi aveva visto solo il nero, o chi, ad un importante incontro politico, uscito per una pausa, non era più tornato indietro.
Chi, mentre raccoglieva frutti, era caduto inspiegabilmente in una voragine di cui, fino al giorno prima, non vi era tracce, o chi, mentre stava badando agli animali, era stato morso da una vipera ed era svenuto sulla morbida erba della propria terra.

Quella mattina, qualcosa, stava agendo, e senza farsi scrupoli richiamava diverse nazioni a sé, per dare inizio al gioco.



Di fronte a quella parete cupa e vuota, in quello spazio chiuso ed angusto, il canadese deglutì, aggiustandosi le lenti spesse degli occhiali con un rapido gesto dell’indice, sospingendoli verso l’inizio della fronte pallida.
Chinò appena il viso, sentendo la pelliccia morbida del bavero stuzzicargli il mento: non voleva guardarsi intorno, voleva solo uscire da quel buio.
“Ho visto mio fratello uccidermi, e perciò, riprendermi, non è stato faticoso, ma soltanto molto doloroso.
Quando sono tornato a casa sapevo che tutto ciò che avevo intorno era suo, di un assassino, del fratello che mi ha ucciso.
Dopo qualche giorno ho deciso di avviare il trasferimento, perché pur volendogli bene mi sto portando sulle spalle un grande dolore, e avere intorno solo cose che me lo ricordano non mi fa bene per niente.
Anche questa mattina stavo lavorando sul mio trasferimento. Dovevano portare il camioncino per il letto, nh-
Pare che dovrò rimandare …”


Il meridionale sembrò da subito piuttosto angustiato, per quella strana situazione che gli si presentava di fronte.
Un’altra diavoleria, eh?
Sbuffò nervoso, aggiustandosi appena la divisa color cachi che ora ricadeva stropicciata sui fianchi magri, tornando ad osservare la parete assottigliando il proprio sguardo.
“Che cazzo c’è, adesso?
Possibile che io non possa mai essere lasciato in pace? Se è qualche idiozia organizzata da Antonio, giuro che lo ammazzo.
Spero piuttosto che non sia … un’altra di quelle spettrali trovate.
L’ultima volta è stato davvero difficile riprendermi, essendomi ritrovato da solo al mio risveglio.
Ho dovuto aspettare, per ricevere un aiuto da Antonio e Feliciano, ma ancora adesso non sono riuscito a riprendermi davvero del tutto e ho diversi problemi alle gambe.
Anche adesso mi fanno male.”


L’austriaco sospirò appena, quasi rassegnato, come se già il presentimento di qualcosa di pessimo lo avesse ormai convinto ad arrendersi di fronte a quella parete vuota.
Si sistemò le maniche di panno viola e i guanti di pelle nera con attenzione, dedicando una rapida occhiata alle Nazioni in prima riga: oh, chi non muore si rivede.
“Ovviamente Ungheria è subito corsa in mio aiuto, e inaspettatamente anche Svizzera e Liechtenstein hanno voluto dare il loro piccolo contributo in favore della mia Nazione.
Grazie a loro non è stato neppure troppo faticoso. Mi devo ritenere molto fortunato rispetto ad altri Stati, per fortuna.
Devo tutto ad Ungheria, Svizzera e Liechtenstein, che sono stati fondamentali anche successivamente, per aiutare Germania.
In questi mesi stavo preparando un importante concerto. Mi auguro che non debba rimandare.”


La bielorussa sentì il sangue ribollire nelle vene, quando intravide la figura del prussiano giusto qualche stato più in là.
Sbuffò appena, insinuando la mano esile fra i pizzi delicati della gonna per arrivare a percepire le lame sottili contro i polpastrelli screpolati delle dita: questa volta non lo avrebbe lasciato avvicinare tanto facilmente al suo adorato fratello. No.
“Mia sorella ha tentato subito di aiutarmi.
È un gesto che avrei apprezzato molto, se lei, facendo così, non si fosse guadagnata la stima del fratellone e se non fosse così povera. Ecco perché l’ho subito scacciata in malo modo e ho scelto di cavarmela da sola.
Ho avuto molte difficoltà, essendo il mio un paese piuttosto povero.
Forse … forse non sarei riuscita a riprendermi se la Lituania non avesse insistito così tanto per aiutarmi, ma … tsk! Quel che conta è che dopo ho potuto curare mio fratello!
Ovviamente non mi ha mai ringraziata a dovere. Ha occhi solo per Prussia.
Anche adesso.”


Il francese si schiarì la voce, tuffando una mano fra i riccioli biondi, per poi lasciarla passare lungo la nuca tiepida, senza scostare i propri occhi dal muro che gli si parava davanti.
Aveva una strana sensazione, gli bruciava la gola, e deglutire era davvero faticoso.
Dietro la schiera di cui faceva parte, gli era sembrato di intravedere qualcun altro, e sperò davvero di essersi sbagliato.
Se era un’altra avventura all’insegna del sangue, lei … lei non doveva essere lì.
“Riprendersi, quando il tuo corpo è stato mangiato, non è affatto facile ed è decisamente traumatico.
Mi trascino ancora dietro il dolore alle ossa, e la crisi economica attuale non è stata affatto d’ausilio al mio stato. Il Benelux mi ha aiutato, anzi, ci ha provato, ma finché non ha contribuito anche Germania a darmi una mano, non sono riuscito a riprendermi neppure un minimo.
Adesso, con tutti questi sostegni economici, mi ritrovo oberato di debiti, e come se non bastasse, Arthur, non mi guarda neanche in faccia …”


Le domande che il tedesco si era posto erano un’infinità.
Era una trovata dei Governi? Oppure un altro sciocco gioco di America?
Già, America.
Se ne sta in silenzio, in attesa che qualcuno sappia dire ciò che succederà, cercando solo di allentare il colletto della divisa stranamente troppo stretto intorno al collo.
“Roderich mi ha aiutato, e ovviamente, adesso, gli devo molto. In minor misura devo qualcosa anche ad Ungheria, Svizzera e Liechtenstein, ma Vash sembra molto insistente per ciò che riguarda le cifre che gli devo.
Il capo mi ha dato l’ordine indiscutibile di aiutare Francia, e subito dopo aver finito con lui ho dovuto prendere un volo per Londra e stabilirmi lì per un po’ di tempo, in attesa che mio fratello si riprendesse.
Per una volta che potevo pulire casa, visto che stamattina dormiva più del solito, ovviamente, dovevano portarci qui.”


Il sorriso stampato sul viso del russo, ora, non era per niente rassicurante.
Con un rapido gesto delle mani, si era aggiustato la sciarpa bianca intorno al collo, la stessa sciarpa con cui America aveva impiccato sua sorella.
America non doveva mettere quelle luride mani sulla sua famiglia, né sparare quel colpo a Gilbert.
Mai tanto come ora, era determinato a vendicarsi.
“Devo molto a Natalia, se sono riuscito a riprendermi.
La Russia è grande, ma non è ricca, e neppure il Governo sembrava avere molta voglia di aiutarmi.
Ovviamente si aspetta chissà quale esagerata ricompensa, ma l’unica che posso dargli è … è semplicemente difenderla.
America non la toccherà di nuovo.
E Gilbert … Gilbert non mi sta neanche guardando.
Non si è più fatto sentire, da quando sono morto, ed ora sembra terribilmente freddo, come se nulla fosse accaduto. Ho provato ad andare da lui, ma alcuni problemi interni mi hanno costretto dentro i confini del mio paese.
Spero solo che tutto si sistemi, ma non so se avrò davvero modo di parlargli …”


Antonio aveva appena finito di abbottonarsi la camicia bianca, coprendosi il petto abbronzato ma lasciando visibile la croce argentata e dalla forma allungata che si adagiava sullo sterno.
Si sistemò velocemente il colletto, senza far troppo caso al muro davanti a sé, ma piuttosto cercando Romano con lo sguardo.
“I Governi erano piuttosto contenti quando sono tornato sano e salvo da Berkeley Square.
Dicevano che sarebbe stato un guaio se fossi morto, perché probabilmente avremmo portato la crisi a peggiorare ulteriormente.
Ovviamente mi hanno aiutato a malapena per la questione di Lovino.
Avrei voluto fare molto di più, ma ho soltanto dovuto convivere con una Nazione egoista e assolutamente troppo spaventata dalla povera economia che ci attanaglia sempre di più.
Stavo così bene poco fa, sotto il sole caldo a raccogliere pomodori …”


Feliciano sentiva i brividi percorrergli la schiena, e fu difficile, per lui, aggiustare le maniche della divisa blu chiaro, con le mani e le dita che tremavano così tanto, agitate.
Perché una stanza buia? Perché quel muro vuoto davanti?
Cercò di trovare Germania e suo fratello, ma non servì a molto.
La paura non si cancellò, anzi, sembrò perfino aumentare, e così deglutì appena, stringendosi in sé con le lacrime agli occhi e una smorfia di angoscia sul volto.
“Il capo si arrabbierà anche questa volta. Quando sono tornato mi ha chiamato a Roma e ha sgridato sia che Lovino, ma non è certo colpa nostra. In più ho dovuto faticare molto per aiutare mio fratello.
Nemmeno adesso lo è! E io voglio tornare a casa!
N-non mi piace per niente-
Come se non bastasse, fino ad una settimana fa, sono stato obbligato a frequentare uno psicologo. Avevo appena finito le sedute e … n-non di nuovo …”


Arthur risistemò nella tasca della divisa il pacchetto di sigarette che era intento ad aprire poco prima di ritrovarsi lì: l’avventura di Berkeley Square gli aveva lasciato un bel vizio, ed un buon quantitativo di fumo nel sangue, molto probabilmente.
Anche lui, come altri, sentiva ribollire nella propria mente una sensazione a dir poco spaventevole, e quasi per cercare di distogliersi da essa, ora, aveva entrambe le mani adagiate sulla cintura in pelle nera, per aggiustarla goffamente intorno alla propria vita.
“So che è sbagliato.
So che non è affatto corretto, ma ho subito deciso di cavarmela da solo con quella mezza pazzia che iniziava a guidare i miei gesti, e dopo che Prussia è stato dimesso dall’ospedale mi sono presentato a casa di Alfred e Matthew senza avvisare.
So bene che i problemi di Alfred sono legati a qualcosa di psicologico, e non voglio che continui a rimanere nel buio, che dimentichi quanto amava la giustizia e che smetta di rispettarla.
Ecco perché lo sto aiutando.
Ci sto provando.”


L’americano si tolse velocemente i guanti di pelle nera, sistemandoli nella tasca della giacca marrone scuro: tutto ciò era estraneo anche a lui, questa volta non aveva organizzato niente del genere. Niente che ricordasse così, per lo meno.
“Dopo che Prussia mi ha ucciso, è stata la mia stessa giustizia a punirmi.
Il Governo ha ordinato i miei arresti domiciliari, e tutt’ora devo rispettarli, quindi, se entro stasera non mi ripresenterò in carcere, sarà davvero un bel guaio.
Mi hanno prescritto due tipi di pastiglie diversi, che devo prendere ben tre volte al giorno, per un totale di sei …
È da … da quando mi sono risvegliato che assumo tutte quelle pastiglie, anzi, nei primi tempi, la mattina e la sera, ne dovevo prendere un’altra ancora.
Mi dispiace che Matthew si stia trasferendo, ma ho preferito non parlargli, e devo davvero ringraziare Arthur …
Voglio rimediare a tutti i miei errori. Sono l’eroe, no?”


Il polpastrello dell’indice accarezzò con delicatezza la croce di ferro, quel nero impenetrabile al centro, per poi scivolare lungo la stoffa blu della divisa, percorrendo i bottoni elaborati e finendo alla cintura di pelle nera, poi, le mani, corsero sui fianchi, senza più muoversi.
Chi aveva osato interrompere così il sonno della Magnifica Prussia? Tsk!
“Quando siamo risaliti in macchina, Arthur, mi ha portato all’ospedale.
Mi hanno ricoverato e operato praticamente d’urgenza. Il giorno dopo, e i seguenti ancora, Arthur mi è venuto a trovare come promesso, nonostante con me ci fosse West.
Ero piuttosto tranquillo, ma mi chiedevo spesso perché Russia non si fosse più fatto vedere.
Ho deciso di non interessarmene più, immaginando se ne fosse approfittato e basta. Come sempre.
Quando sono tornato a casa sembrava dovessero processarmi, ma il capo di America ha convenuto con il nostro che io abbia ucciso per legittima difesa, perciò sono tornato a vivere da West e a fare ciò che facevo sempre.”


«Si può sapere perché sono l’unico che è morto fra i membri del trio?!»
Evidentemente indignato, Francis, spezzò il silenzio con una voce acuta e lagnosa che fece subito sorridere Antonio e Gilbert.
«Io non potevo certo morire! Sono pur sempre la Magnifica Prussia, kesese!» ma forse era meglio finirla subito lì, visto che proprio di fianco alla sua Magnifica persona era sistemato l’americano.
Il francese sbuffò appena, incrociando le braccia al petto, per poi tornare a guardare la parete: quando vide del sangue colare lungo questa, non poté che spalancare i propri occhi ed indicarlo agli altri.
«Guardate-!»
«Che cos’è?»
Anche oltre le loro spalle, il movimento ed il vocio delle schiere posteriori si era fatto più pressante ed agitato.

Il rosso del sangue stava creando una scritta con sinuosi movimenti sulla parete cupa ed umida della stanza, mettendo i brividi ai presenti.

«Sta scrivendo?»
«Sì …»
Confusi, si avvicinarono, finché la scritta fu leggibile anche nel buio.


“Solo uno, vincerà il gioco.”

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Capitolo 2
*** II - Gentiluomo ***


II – Gentiluomo


Stanza: Nr. 1, Stanza di Estia
(Vesta, dea della casa e degli affetti)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. 17 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore (da quando tutti i prescelti sono nella stanza, fino a quando non ne rimane uno solo): 12:00 – 12:20



D’un tratto, una crepa piuttosto imponente, si aprì nella parete, spezzando a metà la scritta che si era creata con il sangue.
Si guardarono tutti intorno, indecisi sul da farsi.
«Entriamo?» la voce spiritata della bielorussa sembrò gettarli ancor di più nel panico.
«Natalia, aspetta. Quella frase …»
«Non mi interessa chi ci manderanno contro, questa volta.» la donna interruppe l’inglese senza battere ciglio.
«Io entro.»
«Alfred-!» Arthur si sentì costretto a seguirlo, e di conseguenza anche Matthew, così, senza riuscire a fermare i passi dell’americano, probabilmente inconscio della vera gravità della situazione, furono i primi ad entrare.
Poi fu la volta di Natalia ed Ivan, che evidentemente intendeva marcare stretto l’americano.
«I-io non voglio entrare-» Feliciano era paralizzato. Si stava lagnando, come al solito, ma il fratello lo afferrò per un braccio, mostrandogli il resto della stanza «vedi altre alternative, idiota?»
Antonio si sistemò al fianco dei due italiani, rivolgendo un’occhiata ai suoi più cari amici, Roderich, Gilbert e Francis, poi al tedesco, che annuì appena «entriamo.»
Intanto, anche le schiere dietro le loro spalle avevano iniziato a muoversi e anche loro procedere verso la crepa.

Il problema non era ciò che gli avrebbero mandato contro, ma chi.



Il passo calcato dell’austriaco creò un’eco agghiacciante.
Solo, immerso nel buio.
Rimase in silenzio, limitandosi a sistemare gli occhiali con un rapido gesto dell’indice e poi massaggiandosi la radice del naso con le prime tre dita della mano.
Compì ancora qualche rumoroso passo, guardandosi intorno: esclusa la sua eco, non udiva alcun altro suono, escluso il nero del buio, non poteva intravedere alcun altro colore. Neppure il viola delle proprie maniche, a pochi palmi dagli occhi.
Quando schiuse le sottili labbra rosate per parlare, si ritrovò a sussultare, mentre un arma parve sbocciargli di fronte.
Rimase ad osservarla confuso per qualche attimo.
Doveva prenderla? Non aveva altra scelta?
Sì.
Timidamente, le mani dell’austriaco, imbracciarono quel fucile di grezzi materiali: non era piacevole come accarezzare il suo pianoforte, ma era ruvido, bruciava i palmi delle mani, e lasciava impregnato nei polpastrelli il grigiore della polvere.
Convenne fosse necessario averlo a disposizione, ed adagiandolo alla spalla più forte, la destra, procedette.
Camminò aderente ad una parete, in cerca di spifferi d’aria per avere la conferma che quella non fosse una sala chiusa. Effettivamente trovò una prova per escludere quell’ipotesi.

Quella stanza non era chiusa, ma peggio ancora. Bensì, sigillata.

Nel constatare che la sua persona si trovasse in trappola, Roderich, rabbrividì.
Sentiva già le gocce di sudore imperlargli le tempie fini e pallide, a causa dell’ansia e della paura.
L’aria era rarefatta, l’odore acre, impregnato nelle pareti, faceva bruciare terribilmente le narici, tanto che l’austriaco si sentì costretto ad adagiare il fucile a terra, portandosi una mano al naso, nauseato.
Non c’era luce, come se non si potesse aprire alcuno spiraglio, e l’aria che aveva ora nei polmoni avrebbe certamente attraversato il suo corpo più e più volte.

Un passo lontano lo scosse, e ciò lo spinse a chinarsi velocemente per afferrare il fucile e, di conseguenza, tornare a sopportare quel fetore.
Il fucile sembrò emergere dal buio come poteva fare un grosso tronco appena gettato in acqua e tornato rapidamente in superficie.
Non era solo.
Quella stanza sembrava grande, dopotutto. Non era da escludere che nel buio si stessero nascondendo altre Nazioni e che, come lui, fossero spaventate dalle loro stesse voci, dal loro stesso respiro.

«Herr Österreich! Sta bene!
Che sollievo!»
Roderich sussultò non appena sentì la voce dell’ungherese poco lontano da lui.
Percepì l’arteria della gola tremare e pulsare fastidiosamente, quando la vide davanti a s con un fucile molto simile al suo fra le braccia.
Aveva il viso fresco, così come l’aveva visto quando, per un attimo, sia era voltato verso la schiera alle loro spalle: la pelle lattea, le guance appena arrossate, gli occhi di un verde brillante, in contrasto con il rosa del fiore fra i capelli castani, ed il rosso del fiocco che faceva da decoro al colletto di pizzo bianco.
«Dove sono gli altri?»
Quando l’ungherese rispose col silenzio, l’austriaco, pensò subito volesse dire che, in quella sala buia e sigillata, vi fossero solo loro due.
«Herr Österreich, secondo lei dovremmo aspettare? O cercare un’uscita?
O forse c’è qualcosa che dobbiamo …»
“Dobbiamo uccidere, forse?”
Bofonchiò le ultime parole, osservando il fucile, per poi incatenare i propri occhi a quelli di Roderich: due ametiste macchiate di malva.
«Penso che la tua ultima tesi sia fattibile, Ungheria.» Roderich aveva inteso ciò che voleva dire, nonostante si fosse interrotta prima della parola fondamentale.
L’ungherese si sorprese delle sue parole, e lo incitò a continuare con la sola forza dello sguardo.
«Chi tu devi uccidere ti sta parlando ora, chi io devo uccidere mi sta davanti adesso.»
Gli occhi di smeraldo dell’ungherese si spalancarono «c-come?» ed arretrò a dir poco intimidita da quelle parole.
«Herr-» quando sentì il fucile scivolargli dalle mani si decise subito a lasciarlo andare, confusa.
Austria voleva rubarglielo e approfittare così di lei? Prendendosi gioco dei suoi sentimenti? Ungheria sentiva già la paura e la diffidenza, anche verso l’uomo che molto stimava e di cui era tanto innamorata, scorrerle nel sangue.
In verità, Roderich, stava solo analizzando il fucile, mettendolo a confronto con il suo.

Appena l’austriaco le porse il fucile che apparteneva a lui, tenendo il suo, sussultò.
«Non lotterei mai contro una donna svantaggiata.»
«Herr- cosa sta succedendo? Non dobbiamo combattere!»
«Qui si respira la stessa aria di Berkeley Square.» e senza più insistere le porse il fucile più grezzo e, all’apparenza, meno valido «all’inizio magari ti bruceranno le mani, ma è molto più leggero e preciso rispetto a questo.»
Roderci mostrò il fucile che fino a poco prima era lei ad imbracciare, ed ora era lui a stringere fra le mani.
Rispetto a quello che Roderich le aveva appena dato era poco più corpo e spesso, di legno chiaro, ma effettivamente molto più pesante, e quindi difficile da maneggiare.
«Lei è sicuro?»
«Fidati, se non sarà così ci fermeranno.» ma Roderich sapeva perfettamente che nessuno avrebbe mai osato impedire il massacro.
«Questo è un gioco macabro, Ungheria. Una lotta all’ultimo sangue, Nazione contro Nazione.
La cattiva sorte ci ha voluti protagonisti della prima battaglia.» parlò tristemente, ma l’ungherese lo interruppe improvvisamente, animata da una nuova speranza.
«Guardi!» Ungheria sperò che le macchie di sangue che ora stavano colando lungo la parete, a fatica visibili, avessero buone notizie per loro e fossero intenzionate a fermare Roderich, negando quindi quelle idee malsane, ma in verità le affermarono soltanto, e lei ebbe modo di constatarlo con orrore.

«Uccidi il perdente senza esitare. Amico o fratello.
Uccidi, o con lui muori di fame.»


Roderich lesse con un filo di voce, e l’ungherese al suo fianco negò decisa «no! Perché dovrei fare del male a lei?!»
«Perché … perché purtroppo non abbiamo altra scelta …»
L’austriaco le adagiò affettuosamente una mano sulla spalla, accennando un affabile sorriso, per poi voltarle le spalle ed incamminarsi verso un estremo della stanza.
L’ungherese rimase ad osservarlo, con gli occhi lucidi a causa delle lacrime, finché non vide la sua figura esile sparire nel buio.
Uccidere l’uomo amato, o da lui lasciarsi uccidere?
Davvero, non avrebbe mai capito qual’era la peggiore delle due opzioni.

Roderich sapeva che per spronare Elizabeta sarebbe stato suo dovere sparare il primo colpo, invitandola così a rispondere al fuoco.
Premette il grilletto, e lo sparo esplose in un eco assordante.
L’ungherese arretrò ad occhi sgranati: Roderich stava sparando nella sua direzione. Intendeva davvero farla fuori?
«Ti prego Ungheria, rispondi.» non le avrebbe permesso di perdere. Doveva solo provocarla abbastanza per farle premere il grilletto.
Roderci premette il grilletto ancora una volta, ma puntando il fucile verso l’alto, per eliminare ogni possibilità di colpirla per sbaglio.
Le mani dell’ungherese si strinsero intorno al fucile, e già sentiva i palmi bruciare fastidiosamente.
Roderich aveva sparato in alto: voleva soltanto spingerla a premere il grilletto.
Roderci capi che non avrebbe agito, se provocata da metodi così delicati.
Assottigliò il proprio sguardo, cercando nel buio, e quando intravide una sagoma sparò il suo terzo colpo.
Sentiva il cuore rimbombare pesantemente nel petto, e pregò di averle soltanto sfiorato uno degli altri, come si era proposto di fare.
Un singulto di dolore si liberò dalle labbra dell’ungherese, e subito, lo sguardo di questa, corse sul braccio, lì dove la stoffa si lacerava, il sangue rosso si liberava dalla ferita, impregnando il tessuto della divisa.
Il proiettile l’aveva solo sfiorata, ma bruciava terribilmente.
«ÖSterreich …» l’ungherese socchiuse gli occhi per il dolore, sentendoli bruciare, e con le lacrime che ostacolavano terribilmente la sua vista fu difficile cercare la figura dell’austriaco in quell’ambiente cupo.
Deglutì, puntando il fucile davanti a sé, nel buio.
Sentì le mani tremare sul legno duro e scheggiato dell’arma, che le stava ferendo tanto crudelmente la pelle, l’indice scivolare sul grilletto metallico.
Strinse i denti e ancora le mani sull’arma, finché non vide le nocche perdere quel rosa delicato che era solito della sua pelle.
«Scusi.»
Premette il grilletto, lasciandosi respingere indietro dal contraccolpo, ormai arresa dall’evidente sfida che l’austriaco le aveva lanciato.
Roderich sorrise quasi rasserenato dallo sparo e dal colpo che percosse la parete umida, a qualche metro da lui: si era decisa, finalmente.
Sparò ancora, e così anche l’ungherese.
Allo scoppiare del colpo, entrambi si spostarono velocemente, evitando il proiettile caldo proveniente dall’arma avversaria.
«Szar!» l’ungherese evitò di poco la pallottola, buttandosi a terra per spostarsi del tutto dalla sua traiettoria.
Sentì subito l’umido del pavimento impregnarsi nel vestito, le ginocchia bruciare, spellate, a causa della pietra seghettata da cui era composta la maggior parte del suolo.
«Perché?» con le lacrime agli occhi, l’ungherese, tornò faticosamente in equilibrio e sparò due colpi a pochissimi secondi di distanza.
Il primo colpo quasi sfiorò la gamba dell’austriaco, e vederlo percuotere la parete come aveva fatto il precedente lo fece tranquillizzare. Fu piuttosto il secondo a colpirlo, lì dove la lente e la stecca degli occhiali convergevano e si riunivano.
«Ah-!»
D’un tratto, Roderich, non vide più nulla.
Sentiva soltanto un dolore terribile alla tempia e sopra l’occhio sinistro, a causa dello schianto del proiettile sul metallo degli occhiali.
Si chinò velocemente a terra, tastando il suolo umido con le mani e quindi lasciando da parte il fucile.
Era già difficile vedere senza occhiali, figurarsi con quel buio pesto.
Più tastava intorno a sé, più sentiva diminuire le speranze di ritrovarli.
Cercava, e nel frattempo sentiva il fuoco nei polmoni, nelle narici, per il quantitativo ingente di aria che stava respirando a causa dell’ansia.

D’un tratto, una fredda canna di fucile puntata alla sua nuca, lo spinse a chinare il capo verso il basso e a rimanere chinato al suolo: ormai anche la sua arma, come i suoi occhiali, era persa nel buio.
«Io non voglio ucciderla …»
Orrendo non poterla vedere un’ultima volta.
«Non lei …» ma si risollevò appena, quando sentì la sua voce tremare: avrebbe pianto, forse non era poi così negativo non poterla guardare in faccia mentre lo uccideva.
«Tornerò a casa, Ungheria, e baderò anche alla tua.
Non preoccuparti per me.»
«Non le sparerò-!» l’ungherese urlò quasi istericamente contro l’altro, facendo pressione con la canna del fucile sulla nuca, e lasciando che le lacrime calde le rigassero il volto.
«Ci saranno stati molto più forti avanti. Sta attenta.»
«La smetta!»
Forse era la prima volta che Roderich la faceva arrabbiare così.
Non lo riconosceva. Sembrava quasi supplicare in ginocchio per essere ucciso.
«Voglio che tu vada avanti, hai capito?»
L’ungherese non rispose.
«Elizabeta, mi ami, vero? E allora perché non fai ciò che ti sto chiedendo?
Spara. Non sono interessato a vincere questo gioco.
Te lo chiedo per favore.»
Le mani della donna tremarono intorno al fucile, le lacrime tornarono a rigarle il volto, copiose, ed un singhiozzo la colse di sorpresa, facendole stringere i denti, piantare un canino nel labbro inferiore, come a volersi fermare a tutti i costi: non voleva che Roderich la sentisse piangere, ma era più forte di lei.
In qualche attimo, il singhiozzo, divenne mille singhiozzi.
Lui la stava ascoltando.
Quei singhiozzi addolorati sarebbero stati la prima cosa che avrebbe ricordato al suo risveglio.
Doveva fermare subito quella tortura a cui lo stava sottoponendo tanto egoisticamente.

Quasi come per contrastare il rumore assordante dei suoi singhiozzi, premette il grilletto.

Rimase a lungo in silenzio, ad osservare le strisce di sangue che sinuose si liberavano dal foro nella nuca dell’austriaco, ormai riverso ai suoi piedi.
Adesso non le importava più del vestito umido appiccicato alle gambe, o delle ginocchia spellate e sanguinanti.
Adagiò il fucile di fianco all’austriaco, e brancolò nel buio per qualche minuto, finché un lieve scintillio non attirò la sua attenzione.
Si chinò a raccogliere gli occhiali, per rimetterli sul volto dell’uomo che amava, ma quando li trovò rotti rimase chinata a terra, riprendendo a piangere.
Anche la forza per singhiozzare sembrava essersi spenta.
Sollevò faticosamente lo strato verde del vestito, trovando difficoltà a causa delle mani tremanti e del tessuto sfuggente e quasi impalpabile, sistemando gli occhiali in una tasca della sottoveste bianca; poi tornò da lui.
Questa volta non lo guardò, e si limitò ad afferrare velocemente il fucile grezzo che, però, era sparito.
Poco lontano da Roderich, rimaneva quello in legno chiaro, quello che lui le aveva preso, in cambio dell’altro, per permetterle di partire avvantaggiata.
Quando, rassegnata, afferrò il fucile di legno chiaro, sentì un rumore grave provenire dal lato opposto della sala.

Voltandosi riuscì ad intravedere nel buio una grossa crepa che si apriva nel muro.
Vi si avvicinò con cautela, e quando vi fu davanti, una piacevole brezza fresca, gli scostò i capelli appena sudati dalla fronte, facendole trovare la forza di asciugarsi le lacrime con il dorso della mano.
Doveva andare avanti, allora.
Doveva farlo per Roderich.
Prese un respiro profondo, e poi varcò la soglia di quella grossa crepa, scomparendo nel buio.

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Capitolo 3
*** III - Famiglia ***


III – Famiglia


Stanza: Nr. 6, Stanza di Era
(Giunone, dea della famiglia e del matrimonio)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. 32 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore: 12:00 - 12:25





Le volute argentee del fumo danzavano nel buio, come rimbalzando appena, da destra a sinistra, salendo verso l’alto, fino a dissolversi lì dove probabilmente nasceva il soffitto.
La stanza in cui ora si trovava era buia, e vuota, a giudicare dal pesante eco dei passi che il suo movimento cauto stava creando. Doveva essere anche freddo, perché non solo il fumo si materializzava nel buio in argento, ma anche il fiato che veniva incamerato dai polmoni e ributtato fuori dal corpo poco dopo, attraverso un leggero movimento delle labbra.
Le dita circondano saldamente la sottile canna dorata della pipa, e le labbra fini si schiusero lentamente, lasciando scivolare il fumo via dalla bocca.
Continuava a procedere nel buio, aderente alla parete, chiedendosi dove si trovasse l’uscita e se, soprattutto, ve ne fosse davvero una.
L’aria che respirava e che entrava dalle narici era perfino più speziata e bruciante del tabacco sistemato con cura nella cavità della sua preziosa pipa, e già ora, che doveva essere passata solo una manciata di minuti, risultava molto fastidiosa anche per una persona come lui.
L’olandese si tolse il guanto di pelle e sfiorò la parete con cautela, ritrovandosi sui polpastrelli delle dita uno stato viscoso e puzzolente: il buio non gli permetteva di osservarne l’effettivo colore, perciò, se non poteva contare sulla vista, decise di dare un po’ di fiducia al proprio olfatto, avvicinando il naso alla mano.
Non riuscì a capire di cosa si trattasse, ma in quel miscuglio acre catturò senza dubbio un forte odore di zolfo.
Si lasciò sfuggire un leggero colpo di tosse, infastidito da quell’odore pungente che di certo non si sarebbe mai aspettato: effettivamente iniziava a fare davvero caldo. Il freddo che aveva percepito in un primo momento sembrava essersi quasi cucito lungo le pareti, ma scomparso, nel resto della sala.
Faceva così caldo che al posto di rimettersi il guanto decise di togliere anche l’altro ed infilarli entrambi nella tasca dei pantaloni, indeciso se sbarazzarsi o meno anche del cappotto color cachi.
Se anche per un solo attimo aveva sperato che entrambe le sue sorelle fossero lì, nella sua stessa stanza, si sentì subito costretto a rimangiarsi quel piccolo appunto mentale, vedendo del leggerissimo fumo fuoriuscire dal suo pavimento, poco lontano dalle sue gambe: anche quello era caldo.
Forse avrebbe continuato a fare così caldo, così decise di togliersi il cappotto e riporlo al suolo, aderente ad una delle pareti viscose, per poi scostare dalle proprie labbra la propria pipa, indeciso se spegnerla e adagiarla sul tessuto morbido del soprabito o meno.

Un rumore poco lontano da lui attirò la sua attenzione.

La testa dell’olandese scattò velocemente verso sinistra, e le labbra tornarono ad accogliere lo stecco sottile della pipa, più che mai deciso ad approfittare della piacevolezza del tabacco per rimanere tranquillo, qualsiasi cosa si stesse muovendo nel buio.
Preso letteralmente alla sprovvista, aggrottò la fronte non appena una pistola lucida, dal design sinuoso e sottile, sembrò sbocciargli davanti.
Rimase in silenzio, brontolando giusto appena, quando la pistola gli cadde fra le mani: perché una sala buia dove i muri erano ricoperti da una sostanza puzzolente e sporca? Dove dal terreno usciva fumo bollente?
Dove quel qualcosa continuava a muoversi, poco lontano da lui, a quanto pareva.
Abel assottigliò il proprio sguardo, inspirando il fumo della pipa con la bocca e buttandolo fuori dalle narici, sopportando impassibilmente il bruciore al naso.
Non sapeva perché, ma aveva davvero una brutta sensazione, e più si avvicinava a dove proveniva il rumore, sempre più somigliante a dei passi come i suoi, più si convinceva della necessità di tenere assolutamente stretta quella pistola, senza lasciarla andare per alcun motivo.
Non appena gli sembrò di scorgere qualcosa nel buio, non esitò a puntare la pistola in avanti e premere il grilletto: era sicuro di non aver mirato ad un punto vitale, ammettiamolo, non avrebbe mai voluto uccidere nessuno. Ad esclusione di Spagna.
Si toglie la pipa della bocca, lasciando scivolare via un ingente quantitativo di fumo, in attesa che la figura dell’altro si faccia viva.

Sembrava non esserci nessuno. Neppure l’uscita, a dire il vero.
Se ne stava assorto ad osservare la superficie levigata ed argentea della lama metallica, rigirando il pesante manico fra le mani che, coperte da guanti di pelle, iniziavano a trasudare parecchio.
All’inizio, quando aveva percepito quell’aria fredda sul viso, non aveva avuto alcun problema con gli abiti pesanti che si usano nella sua terra, ma ora, il desiderio di sbarazzarsi del lungo cappotto nero, se non anche degli anfibi pesanti, era quasi incontrollabile.
Fu lo sparo improvviso che scoppiò nella sala, alle sue spalle, a cancellare del tutto quel suo pensiero nella mente.
Nella lama posta in cima alla lunga impugnatura, per formare un imponente ascia, riuscì a scorgere solo per un secondo il riflesso di un proiettile d’argento che guizzava nel buio, dritto verso di lui.
In un movimento veloce, si voltò, facendo ruotare l’ascia verso il basso, quasi tracciando una traiettoria poco più sotto del torace, e percepì con grande sollievo il rumore del proiettile che si schiantava sulla lama levigata, cadendo ai suoi piedi ancora fumante e caldo.
«Ehi! Ma vuoi uccidermi? Sta un po’ più attento!» si espresse in un tono fragoroso, abbandonando totalmente l’aria seria e concentrata assunta con il gesto che gli aveva appena assicurato una scomoda ferita in meno.
«Denemarken!» come non avrebbe potuto riconoscere quella voce, l’olandese?
Dopotutto Abel aveva a che fare con il danese da molto tempo, ma nonostante gli aspetti comuni, come l’amore per la birra, la somiglianza di alcune costruzioni cittadine -e i capelli-, non era mai riuscito a sopportarlo oltre un certo limite.
Il carattere era totalmente opposto.
Abel trovava il danese davvero superficiale, e sciocco, nonostante Mathias, dal punto di vista sociale, era sicuramente più furbo dell’olandese, evitando di annerirsi i polmoni con ogni sorta di tabacco, o di anestetizzare i propri sensi con vari tipi di droga, ma per molte altre cose, era vero, era una persona troppo allegra, frivola.
Mathias pensava semplicemente che l’olandese fosse davvero troppo serio. Se la famiglia nordica ne parlava, lui, si limitava a dire con un sorriso che era evidente che Olanda non fosse la Nazione più felice del mondo.
«Perché mi hai sparato? Vorrei uscire da questa stanza sano e salvo, se non ti dispiace.»
L’olandese lo ignorò totalmente, lasciando cadere la mano che stringeva la pistola su un fianco e tenendo l’altra poco lontana dalle labbra, visto che assicurava alla pipa la salvezza dalla forza di gravità «sì, a proposito, hai idea di come si possa uscire da questa stanza?»
«Ahah! Cerchiamo una porta!»
Frivolo. Gli angoli delle labbra dell’olandese si abbassarono in modo impressionante, e l’espressione che rivolse al danese fu inequivocabile: era proprio uno stupido.
«Danimarca, non vedi che qui c’è qualcosa che non va?
E quella?» indicò con un cenno rapido della mano -o della pipa- l’ascia con la quale il danese era riuscito a proteggersi, poi continuò «ti è sbucata davanti all’improvviso mentre eri qui?»
«Sì.»
«Come è successo con me e la pistola, allora.»
Abel cercò di analizzare freddamente la situazione, mentre il danese se ne rimaneva con i suoi occhi celesti ad osservarlo incuriosito e leggermente confuso.
«Cosa c’è di strano in questa stanza? Nel senso … secondo te non c’è una porta?»
«Porta o non porta, qui sotto sembrano esserci delle solfatare. E in più un minuto fa faceva freddo, ed ora fa terribilmente caldo, e qualcuno ci ha dato queste armi.»
Sì, faceva caldo. Danimarca dovette riconoscerlo, con quelle gocce si sudore imperlate sulla fronte e lungo le tempie, il cappotto umidiccio fastidiosamente aderente alla pelle.
Fece per toglierselo, quando una voce alle sue spalle sembrò chiamarlo.
«Norvegia …?»
L’olandese lo guardò confuso: cosa c’entrava adesso, Norvegia? Danimarca sembrava aver sentito qualcosa che a lui non era stato permesso udire, perché lo vide dargli velocemente le spalle e sparire nel buio.
Quando l’olandese sentì le voci delle sue sorelle si voltò con cautela, scorgendo i capelli biondi della belga poco lontano.

«Danimarca, devi ucciderlo. Devi ucciderlo, altrimenti non ritornerai mai più da noi.»
«Norvegia? Cosa stai dicendo?» confuso, il danese, aggrottò la fronte e tese le mani verso il corpo del norvegese, ma quando vide la figura del suo migliore amico dissolversi sotto le sue mani sgranò gli occhi, incredulo.

«Fratello.» la belga attirò l’attenzione dell’olandese, chinando rispettosamente il capo.
«Cosa fate qui voi due? Potrebbe essere pericoloso.»
«Devi ucciderlo.» fu la sorella più piccola a parlargli, questa volta.
«Uccidilo, o non ci rivedrai.»
«Non ci rivedrai mai più.»
Le due alternarono le loro parole, e poi si dissolsero nell’aria, assieme al fumo caldo che aveva appena spaccato il suolo, a pochi centimetri dai suoi piedi.

Famiglia.
Per entrambi era una condizione per la quale sembrava valere la pena uccidere.

Senza più scambiare una parola, l’olandese, aspettò solo che i loro occhi si in incrociassero, per sparargli un colpo diretto al cuore.
Non poteva permettersi di perdere le sorelle, di disonorare il Benelux.
Ancora una volta, il movimento del danese, fu sorprendente: quell’ascia era ingombrante, pesante, ma il potere del nordico nel manovrarla era stupefacente, vista l’esperienza fin dai tempi antichi nel maneggiare armi simili.
Riuscì a spostarsi di lato, velocemente, e ancora una volta deviare il proiettile con la punta dell’ascia, quasi soffocando una risata divertita: assurdo. Era allegro anche quando lottava.
«Scusa, ho un conto in sospeso con Svezia, in più ho promesso ad Islanda che sarei andato a trovarlo.»
E dando più carica alla voce, si lanciò all’attacco, sfoderando l’ascia «e devo rivedere il mio migliore amico!»
L’olandese sapeva benissimo quanto potesse essere fatale anche solo un colpo di quell’ascia. Forse più della sua pistola.
Non poteva contrastarla come Mathias faceva con i suoi proiettili. Poteva solo evitare tutti i fendenti che gli sarebbero stati rivolti.
Per fortuna il danese sembrò essere magnanimo almeno al primo attacco, visto che sferrò un solo colpo -anche se questo quasi gli sfiorò lo sterno-
Doveva stare attento alle gambe, anche se in un primo momento considerava improbabile che Mathias decidesse di mirare in basso, e quindi soprattutto alle braccia e alle mani, per non parlare del collo.
«Anche io ho una promessa da mantenere!»
Sparare, in quel momento, sembrava l’unica soluzione, e così l’olandese non esitò un momento.
Premette due volte consecutive il grilletto, e questa volta il danese riuscì ad evitare solo una pallottola, mentre l’altra sfiorava la schiena, facendolo gemere e stringere i denti, mentre contrattaccava con più fendenti.
D’un tratto, l’olandese, sentì la pesantezza della lama affondargli nel fianco, ed approfittando dell’occasione, il nordico, non poté che buttarlo a terra con un colpo secco dell’impugnatura allo stomaco.
«Ah-!» l’olandese si ritrovò a terra, con la schiena aderente al muro viscoso e puzzolente, senza più nulla per le mani, e alzando il proprio sguardo vide ancora una volta la lama argentea abbattersi su di lui.

Un gesto a dir poco estremo lo spinse a bloccare il danese afferrando anch’esso l’impugnatura, proprio dove questo aveva le mani, e quindi dovendo tenere la testa e parte della schiena inclinati di lato, perché ora la lama si era già conficcata nel muro, lì dove poco prima era il suo viso.
«Cosa stai facendo?!»
«Mi sembra ovvio. Quello che farebbe chiunque.»
“Respingo la morte.”
Non sarebbe potuto rimanere per sempre così. In più Danimarca stava applicando una forza sovrumana sulla propria arma.
Quando poi si accorse di una spaccatura sul suolo, cercò di spingere appena di più il danese verso la sua destra, conducendolo lì dove il fumo bollente iniziò a scaturire proprio sulle gambe del nordico.
«Nh-!»
Il danese strinse i denti, e allentò la presa, senza però arrendersi.
Dopo poco, però, dovette scostarsi velocemente, lasciando così via di fuga all’avversario.
Il suo respiro era ormai troppo affannoso, il sudore quasi gli impediva di vedere, grondando fastidiosamente sugli occhi.
Provò a togliersi il cappotto, ma non ci riuscì, perché l’olandese era riuscito a recuperare la pistola indirizzandogli un colpo molto vicino alla testa. In più non poteva arrischiarsi di perdere la propria ascia nel buio di quella stanza.
Anche Abel aveva difficoltà a sopportare quel clima caldo, ma di certo meno del danese, abituato a temperature un po’ più rigide delle sue.
“Devo … devo tornare da Norvegia.” il danese si decise ad attaccare ancora, e il braccio dell’olandese si salvò per un pelo, mentre la lama dell’ascia si conficcò in una delle crepe del muro.
Velocemente, Abel, puntò la pistola fra le scapole del danese, impegnato nervosamente a cercare di tirare fuori dalla crepa la sua preziosa ascia, e premette il grilletto.
Danimarca sgranò gli occhi, quando sentì il proiettile passare da parte a parte, entrando fra le scapole ed uscendo al centro del suo sterno, e senza riuscire a trattenersi sputò ingenti gocce di sangue sulla parete, riuscendo con un ultimo tremante sforzo a riprendere il controllo della propria ascia.
Il suo respiro era smorzato, totalmente, ma non era per il caldo insopportabile all’interno di quella sala.
Olanda si concesse il primo invisibile sorriso: senza dubbio, uno dei due polmoni del danese era perforato, probabilmente il destro, visto che aveva mirato esattamente al centro del suo petto, ma fra i due è il più grande.
Prima o poi avrebbe dovuto sparare a sinistra, ma anche se non fosse riuscito a perforare il polmone sarebbe stata la stessa cosa. A sinistra c’era qualcosa di ancor più importante.
Nonostante il respiro flebile ed il dolore, il sangue che colava lungo tutto il corpo, Danimarca aveva ancora energia sufficiente per rivolgere un altro fendente all’olandese.
Colpo che andò perfettamente a segno, poco più sotto la sua anca sinistra.
Probabilmente la lama era arrivata fino all’osso, e fu una fortuna che, evidentemente, non l’avesse frantumato, visto che Abel riusciva a reggersi ancora in piedi, seppur perdendo davvero molto sangue ed incedendo a fatica sulle proprie gambe.
Il danese alzò in alto l'ascia, ma con sorpresa dell’olandese, questa cadde velocemente a terra, provocando un tonfo sordo e fastidioso.
Il danese era con la schiena addossata al muro, pieno di sangue, con il respiro quasi inesistente, misto a singulti sommessi.
«N-Norvegia-»
«Mi dispiace.»
L’olandese sembrò non prestargli più attenzione e si allontanò un momento, tornando poco dopo con la pistola arrangiata nella tasca dei pantaloni e l’accendino intento ad alimentare nuovamente il contenuto della pipa, caduta a terra quasi subito dopo l’inizio dello scontro.
Tornò ad impugnare la pistola, e tenendo la pipa fra i denti schiuse solo un angolo della bocca per lasciar fuoriuscire il fumo.
Puntò ancora una volta la pistola verso il danese, mirando poco più a sinistra dal foro già fatto in precedenza e poco più in giù, per essere più sicuro di dare subito il colpo di grazia: considerando il modo di respirare di Mathias in quel momento, Abel, gli stava facendo un grande favore.

Premette per l’ennesima volta il grilletto, senza scostare i proprio occhi da quelli del danese, finché non li vide serrarsi, ed il respiro del nordico si affievolì sempre di più, come la fiamma di una candela che si spegne, una bolla di sapone che scoppia.

«E così muore, il Re del Nord.»
L’olandese afferrò il proprio cappotto, poco lontano dal corpo esanime dell’altro, per poi sistemarglielo addosso, nascondendo le ferite.
Non gli importava del cappotto, dopotutto: gli bastava avere con sé la sua amata pipa.
Perché si erano scontrati sfoderando tanta rabbia l’uno verso l’altro, poi?
Per gli stessi motivi.
Per aver visto i fantasmi delle loro famiglie, spinti dalla paura di non poter più tornare, forse.
Avrebbe rispettato la morte di Danimarca, per quanto potesse sembrare strano.

Morire, quindi perdere ogni occasione di raggiungere la propria famiglia, è triste, per la Nazione più felice del mondo.

Giusto: non si definiva sempre così, Danimarca?
L’olandese sospirò appena, poco prima di voltarsi, scorgendo altro fumo scivolare via da una crepa formatasi nella parete.
Ancora una volta, lasciò che il fumo scivolasse via dalle proprie narici, sopportando il pizzicore del tabacco e poi fermandosi vicino alla crepa che si era aperta nella parete: la si poteva attraversare, anche se quel fumo era bollente, e probabilmente gli avrebbe anche causato qualche leggera scottatura.
Si voltò ancora una volta dove era il corpo insanguinato del danese, ma non riuscì a vederlo, nel buio.
«Se ogni volta sarà così, spero davvero di non incontrarvi.
Alice, Sophija.»





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Il nome di Olanda (Abel Van Halen) è di mia invenzione.

_Neu Preussen_

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Capitolo 4
*** IV - Ghiaccio ***


IV – Ghiaccio


Stanza: Nr. 2, Stanza di Ade
(Plutone, dio della morte e delle viscere terrestri)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. 12 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore: 12:00 - 12:24





Tremava. Tremava terribilmente, e il freddo pungente all’interno di quella stanza non aiutava affatto. Voleva tornare a casa.
A casa ad oziare sia nei giorni di pioggia e nebbia, sia in quelli di sole rovente. Oppure essere in camera sua a dipingere, o nella sua cucina ad osservare la pasta bollire nella pentola.
Voleva soprattutto non essere solo, veramente.

Attanagliato dalla paura, iniziò a camminare, perso nel buio.
«Oh? Cos’è?!»
Quando intravide quella flebile luce, poco lontano, accelerò il passo speranzoso, ma quando si chinò a terra e si ritrovo fra le mani una pistola, la sua speranza scomparve del tutto, così come quel poco di coraggio appena riacquistato.
Riacquistato con fatica il proprio equilibrio si decise quasi subito a riprendere a camminare, per scaldare le gambe, intorpidite dal freddo.
Il maledetto freddo che con tanta insistenza iniziava a farsi sentire seriamente.

Batté improvvisamente i denti, portandosi le mani a sfregare velocemente le braccia, per combattere quel gelo pungente sulla pelle.
La divisa non sarebbe certo bastata ad aiutarlo nel conservare il prezioso calore corporeo che già lo stava abbandonando.
Quando smise di camminare si voltò nel buio, verso una delle quattro lunghe pareti, e si soffermò sugli spruzzi e sulle sottili strisce di ghiaccio che intaccavano con tanta ingordigia le pietre nere.
L’attrito che si formava, fra il pavimento e le suole rovinate delle sue scarpe, appariva fin troppo scivoloso: probabilmente c’era ghiaccio anche sul pavimento in pietra.
Feliciano batté ancora i denti, più volte, percosso da brividi insistenti, portando le dita ad accarezzare il ghiaccio, liberare la parete da una piccola parte di esso.

Un sibilo improvviso.
Uno scintillio nel buio.
In una traiettoria rapida e precisa, un piccolo pugnale argenteo quasi gli sfiorò la mano, mozzandogli le dita, e si conficcò in una delle piccole crepe che rivestivano le pareti.
Feliciano si voltò terrorizzato, ma vide solo il buio.
Le dita della mano destra dell’italiano si strinsero intorno alla pistola, mentre quelle della sinistra estrassero il pugnale dalla pietra.
Osservandolo attentamente capì che doveva trattarsi di una lama molto affilata, di un materiale pregiato, e poi tornò a guardare il buio, in cui qualcuno pareva nascondersi tanto vigliaccamente.
Dopo poco si convinse e lasciò andare indietro il braccio destro, per poi riportarlo velocemente in avanti e lasciar andare il pugnale, scagliandolo poco lontano: lo vide sparire nel buio, ma il tintinnio acuto della lama che colpiva il pavimento di pietra gli diede la conferma che il suo nemico non era neppure stato sfiorato.

«Дзякуй.»
La voce spiritata della donna gli mise i brividi.
Trovò lo scintillio argenteo del pugnale nel buio, e vide una mano esile e pallida afferrarlo, sollevandolo lentamente.
Non aveva capito cosa significasse quella parola, pronunciata con forte accento slavo. L’importante è che quella voce lo aveva quasi spinto al muro, seppur abbastanza lontana.
Questa volta non fu solo un pugnale a fendere l’aria e lacerare il buio, ma furono due, uno a destra ed uno a sinistra.
Feliciano scattò in avanti, sentendo il primo pugnale colpire nuovamente la parete, mentre il suono del secondo veniva coperto dallo sparo proveniente dalla sua pistola: il suo era stato un gesto puramente istintivo, di legittima difesa, perché non voleva combattere, ma solo tornare a casa, al sicuro.

Le suole levigate delle scarpe della bielorussa scivolarono sul ghiaccio, e la sua figura si scostò velocemente dalla traiettoria percorsa dal proiettile: solo il timpano sinistro fu appena tramortito da quel suono fastidioso, perché la pallottola gli transitò solo a qualche centimetro di distanza, facendole stringere i denti nervosamente.
Ora, il desiderio più insistente, era quello di recuperare i due pugnali sferrati contro l’italiano, per completare l’armamentario, insieme agli altri quattro, sistemati fra la coscia ed un laccio di pizzo nero legato intorno alla pelle chiara.
Tuttavia non era così grave che i pugnali si trovassero così vicino all’italiano, perché proprio poco prima gli aveva dato la prova di essere totalmente incapace a lanciarli: ecco perché lo aveva ringraziato con quel ghigno sul volto.
Con un gesto veloce, la bielorussa, direzionò un altro pugnale e gli fece percorrere la stessa traiettoria degli altri due, spingendo l’italiano ad allontanarsi e reagire d’istinto con un altro sparo che, questa volta, la donna evitò con molta più facilità.
Con uno scatto veloce, la slava, si lanciò verso il muro, atterrando poco lontana dall’italiano e chinandosi verso il suolo solo per un attimo, tempo di afferrare fra le dita tutti e tre i coltelli e tornare alla posizione originaria dandosi una spinta con l’aiuto del piede contro la fredda parete.
In quel breve intervallo di tempo, Feliciano, si era completamente paralizzato, con le ossa bloccate dal freddo pungente, il respiro troppo agitato.
«N-Natalia …»
Il silenzio che ottenne in risposta, lo fece arretrare nuovamente verso la parete.
«Devo andare da lui.»
L’italiano sentì la propria schiena scontrare contro la parete gelida, e deglutì appena, in ascolto di quella voce spiritata, vicina, nel buio.
«Mi stai impedendo …»
«Natalia! Possiamo parlarne!» Feliciano alzò le mani in alto, quasi d’istinto, lasciandosi quasi scivolare via dalle dita la preziosa pistola. Unica via d’uscita, stretto al muro da una feroce bestia innamorata.
«Di andare da mio fratello-!» la voce roca e quasi indemoniata della bielorussa risuonò nella sala, e due lame si abbatterono nuovamente contro la parete, senza però fare rumore, penetrando nella carne: questa volta Feliciano si ritrovò in gabbia, con entrambe le lame conficcate nelle braccia, poco lontano dalle ascelle.
Gemette per il dolore, e ancor di più quando si ritrovò a pochi centimetri dal proprio viso quello rabbioso ed innaturale di Natalia.
Con il respiro affannoso, l’italiano, rivolse un’occhiata alla pistola che teneva in alto, fra le dita: non doveva lasciarla, e non poteva sparare, perché ciò avrebbe contribuito soltanto a fargli perdere un prezioso proiettile.
Doveva reagire in un’altra maniera, prima che la donna agisse e decidesse di dargli il colpo di grazia, e allora pensò ai metodici drastici a cui a volte Germania ricorreva proprio nei suoi confronti.
Se era necessario non gli veniva neppure risparmiato un bel pugno nello stomaco.
Prese una boccata d’aria gelida, ed agì con l’unica parte libera del proprio corpo.
Il ginocchio dell’italiano percosse velocemente la pancia della bielorussa: un colpo azzardato, non troppo ben riuscito, ma comunque andato a segno.
La sentì gemere appena, mentre uno dei pugnali si ritirava velocemente dalla sua carne, dal suo braccio, lasciando scoperto un taglio bruciante da cui iniziò subito a sgorgare il sangue.
Nel braccio sinistro, il pugnale, era ancora attaccato alla carne, e mandava scosse di dolore insopportabili: decise però di sparare, prima di provvedere all’arma.
Premette il grilletto con le lacrime agli occhi e non fece caso alla possibilità di averla colpita o meno, estraendo il coltello dal braccio con un sonoro mugolio di dolore.

La bielorussa cadde a terra.
Incredula iniziò a sentire il dolore percorrerle il corpo, e la rabbia ribollire nel sangue, quando, mandando le dita in esplorazione, sentì la carne della gamba a brandelli, calda, per il proiettile bollente che vi era appena penetrato, e per il sangue che, colato sulla pelle, pareva appesantirla come fosse stato piombo liquido.
Le mani di Natalia arrancarono sul pavimento freddo, le dita seguirono le crepe taglienti formate dal ghiaccio, e i polpastrelli si ricoprirono di sangue, mentre sul suo viso si dipingeva una smorfia rabbiosa, somigliante a quella di un lupo famelico.
Feliciano, intanto, si era affrettato a nascondere nella propria tasca il pugnale della bielorussa, allontanandosi dal punto in cui era rimasto fino a quel momento.
«Dove sei?
Італія?» lo chiamò ridendo con voce spiritata, brandendo il pugnale e barcollando nel buio con la gamba ferita, lasciandosi sfuggire un inumano ghigno, quando sentì un singhiozzo a qualche metro da lei.
«Ti taglierò a pezzi.
Ti taglierò a pezzi, e dovrai guardarmi in faccia mentre lo farò.
Devo andare dal fratellone.»
Sicura di sé, la bielorussa, si lasciò scivolare quasi a peso morto nel buio, a causa della gamba ferita che ora non le permetteva più movimenti così agili come quello eseguito in precedenza per recuperare i pugnali, ma riuscì comunque ad andare a segno e lacerare ancora una volta la carne, questa volta nell’avambraccio, del suo avversario.
In un attimo, però, si ritrovarono come in una sospensione del tempo: Feliciano teneva la canna della pistola aderente ai capelli argentei della donna, lei la lama del pugnale a contatto con il collo pallido dell’italiano, in silenzio.
Il problema, però, era che Feliciano non aveva affatto la stessa espressione ostinata ed audace della bielorussa che, benché fosse ferita, era determinata più che mai a sgozzarlo da un momento all’altro.
Il suo era un viso spaventato, e sofferente.
Quegli occhi freddi, che ora lo guardavano in quel modo, lo spaventavano.
Feliciano sentiva il sangue fastidioso impregnare la divisa sotto le ascelle e lungo tutte le braccia, e ora anche dove il taglio all’avambraccio sinistro bruciava come il fuoco: si chiedeva come Natalia potesse essere ancora in piedi, con un foro nella gamba e i fiotti di sangue che da esso sgorgavano, ora anche sulle sue scarpe.
Era in piedi forse perché era determinata a raggiungere suo fratello.
Feliciano assottigliò appena lo sguardo, cercando di riprendere la calma, ma no, non ci sapeva fare. Per lui sarebbe stato certamente più facile fuggire a gambe levate, sventolare una bandiera bianca e supplicarla piangendo, inginocchiato penosamente ai suoi piedi, ma anche lui aveva un fratello, giusto?
Quello era il momento giusto: lei era indebolita dalla ferita, non avrebbe potuto agire così in fretta da evitare il proiettile che, a pochi centimetri dalla sua testa, riposava nella canna fredda della pistola.
Quando la bielorussa sentì scattare il grilletto, si lasciò scivolare all’indietro ed afferrò il polso destro dell’italiano, lì, dove le dita stringevano la pistola.
Feliciano sgranò gli occhi terrorizzato: non era abbastanza veloce.
Natalia era determinata oltre l’inimmaginabile, e probabilmente lo avrebbe davvero fatto a pezzi. Fatto a pezzi vivo.
Quanti proiettili erano andati persi, fino a quel momento? Davvero non lo sapeva. Non riuscire a ricordare con precisione quante volte aveva premuto il grilletto, spaventato com’era, nonostante fosse un particolare molto importante di cui tenere conto.
Le unghie della bielorussa si conficcarono nel suo polso, ed una forza disumana gli fece sbattere la schiena contro un muro di ghiaccio tagliente, mentre la lama del pugnale si conficcava nel suo fianco, in profondità, facendogli scivolare la pistola dalle dita per il dolore improvviso.

Il piede della bielorussa spinse via la pistola senza esitazione.
«Questo è mio.» con le dita strette intorno al pugnale insanguinato, la bielorussa, immerse la mano nella tasca della divisa dell’italiano, afferrando il pugnale che gli era rimasto conficcato nel braccio sinistro.
«Non li devi toccare.»
Feliciano respirò a fatica, con la schiena bruciante a causa delle schegge di ghiaccio che avevano lacerato la stoffa ed erano penetrate nella pelle, e quando le dita esili della bielorussa sollevarono il suo polso, contro il ghiaccio, non poté che scuotere la testa terrorizzato.
«Quindi sarà meglio fare così.» la punta del pugnale si conficcò nel polso dell’italiano, e poi sprofondò, facendolo urlare di dolore, coprendo il rumore delle ossa che si spezzavano, sotto il peso della lama argentea.
La bielorussa rise, alla vista della mano che cadeva all’indietro, ancora legata all’avambraccio da brandelli di carne ed un piccolo pezzo d’osso scheggiato, piena di sangue, quando tolse la lama dal polso dell’italiano.
Quando gli afferrò anche l’altro polso, il viso di Feliciano, era ormai coperto di lacrime, l’aria piena di singhiozzi, e non più così fredda, ma impregnata del calore e dell’odore metallico del sangue.
Con un rapido movimento delle dita, anche l’altro pugnale, fra il medio e l’anulare, che in precedenza era rimasto rivolto all’indietro, al contrario di quello fra indice e medio, conficcato nel polso dell’italiano, fu pronto per conficcarsi nella carne, spaccare le ossa.
Entrambi i pugnali penetrarono nell’altro polso, con un colpo netto, facendo urlare di dolore Feliciano, ancora.
Natalia rise di nuovo, e ruotò i pugnali, riducendo la carne a brandelli e le ossa a polvere insanguinata.
«B-basta!»
Quasi si metteva in ginocchio, il povero italiano che di lì a poco sarebbe morto dissanguato. La divertiva l’immagine di lui che si inginocchiava piangendo, ma era impossibilitato a congiungere le mani in alto per pregarla di risparmiarlo, visto che ora, queste, erano quasi del tutto staccate dal resto del corpo.
«Ti … ti prego, b-basta-»
La bielorussa si scostò da lui, e afferrò uno dei due pugnali con l’altra mano «e non dovevi neppure spararmi quel colpo alla gamba.»
Le lame dei due pugnali si conficcarono rapide nelle ginocchia dell’italiano, che ora cadde davvero ai suoi piedi, insanguinato ed impedito dal potersi sostenere con le proprie mani per avere un goccio di dignità.
La bielorussa adagiò la suola insanguinata della scarpa alla testa dell’italiano, e gli sospinse il viso contro il suolo freddo, contro il ghiaccio tagliente, probabilmente distruggendo quei lineamenti delicati e quella pelle pallida.
Con una calma anormale, raccolse fra le dita tutti e sei i pugnali, osservando divertita il corpo insanguinato che si contorceva nel buio, ai suoi piedi.
«Vuoi che ti saluti il tuo, di fratello?»
Feliciano fece appena in tempo per sollevare il viso insanguinato e pieno di lacrime verso di lei: Lovino non si sarebbe mai fatto abbindolare così. No.

«да пабачэння …»
Lo salutò, sorridendo.
Lo salutò, scagliandogli lungo la schiena i sei pugnali che poco prima stringeva con tanta fierezza fra le dita. E rise.
Rise divertita a pochi metri da lui, guardandolo morire agonizzante, con quei coltelli conficcati nella schiena. Quei pugnali che non poteva togliersi, perché era praticamente senza mani.
Rise tutto il tempo, mentre si bendava la gamba, stringendola in quella striscia di tessuto delicato proveniente dal suo vestito, subito impregnatasi di sangue a contatto con la ferita, e maledicendo Feliciano con il pensiero e sperando che la sua agonia potesse durare ancora qualche ora.
Dovette convenire, però, che alla fine fu meglio vederlo morire quasi subito, perché altrimenti si sarebbe dovuta trattenere più del previsto e magari avrebbe perso la possibilità di raggiungere Ivan.

Quando lo vide spirare l’ultimo respiro di vita, si chinò su di lui ed estrasse i pugnali, pulendoli meticolosamente con la stoffa del vestito strappato e sistemandoli con cura fra il laccio di pizzo e la coscia nivea.
Il suo viso era ormai inespressivo, quasi rilassato, e non si accese nessuna speranza quando vide aprirsi un sottile varco nella parete di ghiaccio, ma lo attraversò soltanto, zoppicando nel silenzio: aveva intuito il gioco. Doveva andare avanti e nient’altro. Doveva affrontare tutto ciò che le veniva proposto, o morire. Semplicemente.

«Sto arrivando, fratellone~♥»

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Capitolo 5
*** V - Spade ***


V – Spade


Stanza: Nr. 4, Stanza di Honus
(dio dell'onore, della lealtà e della moralità)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. 22 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore: 12:00 - 12:20





Nell’ennesima stanza buia, una Nazione, stava brancolando nel buio, persa e sola, confuse sul da farsi.
Non c’era quel caldo umido e fastidioso che fa appiccicare gli indumenti alla pelle, né quel freddo pungente che penetra nelle ossa e le intorpidisce, rallentando ogni movimento, ma quel che era certo era che l’aria viziata si cospargeva di un fetore nauseante. A tratti troppo dolce, come fossero stati fiori immersi nel miele, a tratti metallico e penetrante, come se le pareti fossero impregnate di sangue.
Possibile che gli spettri di Berkeley Square fossero tornati a torturarli? Davvero quella stanza buia costituiva un tassello per arrivare alla soluzione finale?
Non lo sapeva, e pregava, perché avrebbe voluto che vicino a lui vi fosse Arthur: lui certamente avrebbe saputo fornirgli qualche risposta.

Opposto a lui, nel buio, qualcuno sperava invece che al suo fianco vi fosse Alfred, valutando impossibile l’ipotesi che quello fosse tutto un suo piano per compiere chissà quale eccentrica carneficina.
E poi Alfred si stava curando, quindi di certo non sarebbe mai riuscito a custodire un desiderio simile e concepire un luogo così tetro, con i farmaci psichiatrici a fare da maestri alla sua ragione.
No, non poteva essere opera di suo fratello.
Gli bastava una volta. Ora rifiutava di crederci.

Il naso del canadese si mosse appena, con le narici infastidite dallo strano fetore che pareva alleggiargli intorno -a quanto pare non si era ancora reso conto di essere segregato fra quattro mura posticce- e un conato gli invase la gola, non solo a causa del pessimo odore, ma anche per quel buio impenetrabile che, ora, gli impediva di scoprire l’identità dell’autore di quei passi pesanti, ancora lontani da lui.
Provò a dire qualcosa, ma già al primo tentativo, la parola, gli era morta sulle labbra, e al secondo, a causa del tremore da cui queste erano scosse terribilmente, si arrese.
Decise poi di arretrare solo di qualche passo, sussultando spaventato quando sentì, sotto i suoi piedi, il dolore di una lama appuntita che cercava di lacerare la suola della scarpa e lo scricchiolio acuto causato dall’attrito fra il metallo dell’arma ed il pavimento in pietra.
Con ancora il battito a mille e le mani tremanti, si voltò e si chinò per afferrare la lunga ed appuntita spada ai suoi piedi, assorto nella contemplazione della lucentezza del metallo.
Quando passò velocemente la mano lungo la lama, e sentì il palmo di essa tagliarsi inaspettatamente sotto la pressione di questa, per la sua incredibile affilatezza, tornò alla realtà e, con uno scatto rapido della testa, concentrò di nuovo il proprio sguardo sul buio.

Il rumore metallico che improvvisamente era risuonato nella sala aveva attirato subito l’attenzione del francese, spingendolo a procedere in avanti, ma con cautela.
«Qu’est-ce que c’est?» tuttavia dovette arrestare la pigra marcia in cui si stava impegnando, perché una spada piuttosto acuminata e dalla lama quasi trasparente, per quanto fosse affusolata, gli stava fluttuando davanti.
Confuso impugnò il manico dorato dell’arma, e sentendola seguire senza problemi i suoi gesti, nonostante un momento prima sembrasse appartenere all’aria, o al buio, fendette l’oscurità, facendo sì che la lama vibrasse e sibilasse distintamente, lacerando il silenzio.
Un’arma di ottima qualità, non c’era dubbio: ma perché gli era appena stato consegnato fra le mani uno strumento di morte così prezioso?
Se ci fosse stato uno spirito, al suo richiamo, avrebbe reagito o si sarebbe nascosto, se invece vi fossero stati i suoi compagni di sfortuna, convenne che gli avrebbero sicuramente risposto, perciò decise di far sentire la propria voce.
«C’è qualcuno?»

L’attimo di silenzio che seguì lo spinse a procedere di qualche passo, e poi fermarsi ad occhi sgranati, con il petto percosso dall’improvviso battito del cuore, ad osservare la scritta insanguinata ai suoi piedi.
«F-Francia?»
Quando sentì la voce turbata del canadese, dalle sue labbra, affiorò soltanto la parola che i suoi occhi avevano appena letto: “uccidi”.
Il francese chiuse gli occhi e scrollò appena il capo, quasi come se pensasse che ciò che aveva davanti era solo un brutto incubo, che scuotere la testa lo avrebbe aiutato a risvegliarsi da quel mondo falso ed angusto che lo stava circondando, ma quando riaprì gli occhi, nonostante la scritta fosse sparita, quella parola rimase a martellargli crudelmente la testa.

Lo stava immaginando? No, la voce di Francis gli era giunta alle orecchie forte e chiaro. Non aveva alcun dubbio.
Matthew procedette con un poco più di sicurezza, pensando non fosse male l’idea di incontrare qualcuno come il francese, visto che degli altri sembrava non esservi traccia.
Tuttavia non aveva ancora ben chiare le regole del gioco che li stava mettendo proprio uno contro l’altro.
Non lo chiamò ancora, ma accelerò il passo.
D’un tratto, però, la spada gli cadde a terra e la schiena si incurvò, i denti si strinsero e le mani corsero alle orecchie, perché quella scossa alla testa faceva davvero male, e lo spinse a sussultare di dolore.
Fra quei fischi acuti che ora stavano percuotendo la sua mente, riuscì a catturare una voce spiritata che per un attimo gli tolse il respiro.
Stava sussurrando. Lo stava incitando a fare qualcosa.
Quando percepì l’ordine, la voce, cessò.
Gli aveva detto proprio quella, fra tutte le parole esistenti al mondo. Aveva utilizzato proprio quel verbo allucinante e fuori luogo.
Perché era fuori luogo, vero?
Deglutì, recuperando la spada con la mano tremante.
Quell’ “uccidi” nella sua testa non poteva aver nulla a che fare con lui e Francis. Non doveva.

Quando furono vicini abbastanza per scrutare l’uno il volto dell’altro, parvero entrambi ignorare ciò che ancora martellava nella loro testa.
Essere indifferenti a quella parola, a quell’ordine macabro.
«Tutto bene?» e Francis non lo chiese solamente per ignorare l’ansia che gli stava attanagliando il respiro, ma perché gli importava per davvero.
Il canadese annuì appena, quasi impercettibilmente, soffermando il proprio sguardo sulla spada del francese, e poi stringendo il manico della sua con le dita.
«Hai idea di cosa potrebbe rappresentare tutto questo?»
«No. E non vorrei che mio fratello …»
Il canadese arrestò le sue parole, scostando lo sguardo dall’arma del francese e posandolo tristemente sui suoi piedi: il fatto che fosse stato America ad ucciderlo, ad ucciderli quasi tutti, a dire il vero, pareva avergli inferto una pesante ferita che, a quanto pareva, non accennava neppure un minimo a rimarginarsi.
«Tuo fratello o meno, credo che dovremmo cercare Arthur, e affidarci di nuovo a lui.»
E dovevano trovarlo soprattutto prima che lo facesse America, perché Francis non sopportava davvero il legame che si era creato fra i due, nonostante Alfred fosse soltanto un assassino psicopatico.
Il problema era come uscire di lì entrambi, sani e salvi, se gli era appena stato ordinato di uccidere Matthew.
«Tieni davvero molto ad Arthur, anche se litigate sempre, v-vero?»
Francis fu sorpreso dalla domanda timida del canadese, ma di certo, l’affetto che nutriva per Arthur, non risultava invisibile agli occhi di nessuno, perciò accennò un affabile sorriso ed annuì appena.
«Tu invece vuoi molto bene a tuo fratello, n’est-ce pas?»
«N-no! America mi fa sempre arrabbiare, è rumoroso, e … e ogni volta mi scambiano per lui, e-» la voce concitata del canadese si arrestò improvvisamente, e poi, questo, continuò in un mugolio «sì … gli voglio bene …»
Francis rimase in silenzio, in ascolto.
«Avrei voluto essere io ad aiutarlo, ma … ma c’è Arthur, e mi fa sentire così di troppo …»
«Per questo hai deciso subito di trasferirti? Non perché avevi paura di lui?»
«Per questo. A me non piace stare nella mia nuova casa senza mio fratello.»
«Ti capisco …» il francese sospirò appena, stuzzicando la radice del naso con l’indice ed il pollice, socchiudendo gli occhi «Arthur praticamente si è trasferito in America, e io … è come se non avessi più nulla da fare.» Francis rise quasi nervosamente, sorridendo a fatica.
«Arthur ti ha portato via Alfred, ed Alfred mi ha portato via Arthur. Lo so cosa si prova, quando ti portano via persone del genere.»
Il francese rivolse al canadese una pacca sulla spalla ed un ultimo sguardo, poco prima di dargli le spalle, ma la voce tremante del canadese, che ora tratteneva a stento le lacrime, lo paralizzarono.
«U-uno di noi deve … deve morire, vero?»
Il francese rimase ad osservare in silenzio quello che aveva incontrato così tanto tempo fa, ricordando il bambino paffuto che era, con quei riccioli d’oro ed i grandi occhi d’ametista, quel bambino che si era affidato a lui senza paura, ed era cresciuto con lui.
Gli occhi gli si velarono di lacrime, mentre le dita si stringevano intorno all’impugnatura della spada.
«S-se mi uccidi … ti prometto che non avrò paura neppure di te, dopo …» il canadese singhiozzò, trattenendo a fatica le lacrime, e quando vide il francese negare a testa bassa lasciò cadere la spada, abbracciandolo all’improvviso, appena rosso in volto e con i segni del pianto ormai sul viso e nella voce.
«Perché?
Perché dovrei?»
Anche le dita del francese lasciarono scivolare la spada al suolo, mentre un braccio circondava le spalle del canadese ed il mento si adagiava fra i capelli di questo.
Lui e Matthew non erano mai state due Nazioni sanguinose. Probabilmente, ora, erano entrambi spaventati dal fatto che dovessero uccidere qualcuno di così vicino.
«Ce la caveremo entrambi-»
«No. O io, o te.
Qualcuno deve morire …» il canadese sollevò il viso pieno di lacrime verso il francese, e si scostò dall’abbraccio con un singhiozzo, tornando ad afferrare la spada.
«Vuoi davvero?»
«Non abbiamo altra scelta, c-credo …»
E aveva ragione, Matthew.
Francis si chinò sulla propria arma, e fece aderire la lama sottile a quella della spada del canadese, chinando per un momento il capo «buona fortuna.»
«A-anche a te-»
Entrambi con la vista ostacolata dalle lacrime, azzardarono un primo colpo, dove le lame metalliche si scontrarono rumorosamente, ed il suono riecheggiò nel buio tutto intorno a loro.
Il canadese si sospinse velocemente all’indietro, messo molto più in difficoltà dalle lacrime rispetto al francese, che avanzò con un fendente preciso e rapido che arrivò quasi a lacerare la stoffa che copriva lo sterno dell’altro.
«Se incontrerò Arthur, o Alfred-» Francis gli rivolse un altro colpo, che il canadese bloccò rapidamente, rivolgendo la punta della spada verso il basso «gli parlerò-»
«Di cosa?»
Il canadese rivolse un goffo colpo con la spada, troppo in alto, ed il francese si limitò soltanto ad evitarlo e non pararlo, rispondendogli arretrando appena «di te, di ciò che mi hai detto.»
Matthew rimase in silenzio, rivolgendogli un altro colpo che quasi il francese non riuscì a parare «allora farò lo stesso per te, se non dovessi farcela.»
«M-merci-» il francese strinse i denti, ancora impegnato a respingere la spessa lama con la propria, a pochi centimetri dal suo viso.
Quando la sentì scivolare via dalla sua lama, capì che il canadese avrebbe mirato più in basso, al torace, e fece appena in tempo per parare il secondo colpo, molto più deciso.
Canada era davvero determinato a raggiungere suo fratello, probabilmente.
Anche lui, però, aveva qualcuno da raggiungere assolutamente.
Pensò all’inglese, e riuscì a respingere con forza il colpo, fendendo l’aria attorno al canadese più volte, facendolo arretrare sempre di più, fino all’estremo della stanza, nonostante il canadese fosse riuscito a parare diversi colpi con maestria.

Il canadese strinse i denti, non appena la sua schiena aderì il muro, e vide il viso in lacrime del francese, che con un gesto rapido, ma fin troppo sforzato, gli infilzò il petto con la lama.
«Ah-!» sussultò di dolore, e tossì a fatica, lasciando che il sangue gli colasse dai lati della bocca, per poi fermarsi sul mento.
Abbassò appena il viso, notando che la lama era penetrata in un punto del petto piuttosto importante: probabilmente Francis stava cercando di dargli una morte rapida, con un’innocua quantità di dolore, per quanto forti fossero le scosse improvvise che ora gli stavano attanagliando il petto.
«Mi … mi dispiace-»
Francis strinse i denti, trattenendo altre lacrime, mentre il respiro del canadese si faceva sempre più flebile.
«Non … non dire niente ad Alfred, di me …»
Il canadese sorrise appena, lasciando scivolare la testa all’indietro e facendola aderire alla parete umida «l-lui ama Arthur, non deve … n-non deve pensare a me-»
Lasciò che la spada scivolasse a terra, mentre il francese gli sfilava la sua dal petto, con attenzione, ma con scarsi risultati, perché tossì ancora, sputando sangue.
«Ma tu … tu promettimi che proverai a concludere qualcosa, con A-Arthur-»
Francis gli adagiò una mano sul viso, lasciando che le lacrime gli rigassero ancora il volto «o-oui, je te promets …»
Era sincero, Francis, perché non poteva mentire a Matthew, mentre gli stava morendo fra le braccia.

Il canadese scivolò in avanti, ed il francese riuscì ad afferrarlo fra le braccia, sentendo il suo ultimo respiro perdersi nel buio.

«Je suis desolé, vraiment …»
Sussurrò in lacrime, chinandosi lentamente verso il suolo, con ancora il canadese fra le braccia, in modo da adagiare il suo corpo alla parete.
Doveva trovare davvero Arthur, ma probabilmente aveva ancora diversi ostacoli da sorpassare, e qualcun altro da sfidare. Qualcuno che, magari, poteva perfino toglierlo di mezzo.
Si sollevò a fatica sulle proprie gambe, e compì qualche passo, osservando quasi inorridito la lama sporca del sangue del canadese.
D’un tratto, un velo di luce, lo colpì in volto, spingendolo a voltare la testa verso destra: quel lieve calore e quel flebile bagliore provenivano da una stretta crepa che, pochi minuti dopo, riuscì a sorpassare.

La spada gli scivolò dalle mani, ed il viso si spense, quando trovò davanti a sé un’altra sala, molto meno buia rispetto all’altra, ma comunque poco illuminata.
Diede un’occhiata al punto da dove era arrivato, e deglutì, quando trovò la parete chiusa, incorrotta, nonostante ricordasse con chiarezza la posizione e lo spessore della crepa che gli aveva permesso di giungere fino a lì.
La stanza era anestetica, senza odori, o rumori.
Non c’era nessuno ad aspettarlo, lì dentro.

Si lasciò scivolare contro una parete, sedendosi a terra e concedendosi ancora un po’ di tempo per piangere la morte della sua malaccetta vittima.

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Capitolo 6
*** VI - Fuoco ***


VI – Fuoco


Stanza: Nr. 5, Stanza di Efesto
(Vulcano, dio dei fabbri e del fuoco)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. 29 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore: 12:00 - 12:22





Nonostante il messaggio minaccioso creatosi col sangue e apparso inspiegabilmente sulla parete, non avrebbe mai immaginato che la gravità di quel gioco fosse di tale entità.
La gravità gli pareva evidente non perché stava stringendo un’arma fra le mani o perché aveva di fronte a sé qualcuno da uccidere, ma piuttosto perché in quella sala incredibilmente buia sembrava non esservi alcun uscita.
Lasciò passare per l’ennesima volta i palmi delle dita lungo la parete umidiccia, e portò quelli dell’altra mano a scorrere orizzontalmente lungo la fronte ampia, madide di sudore: faceva caldo, lì dentro.
Un’afa fastidiosa, di quelle umidicce, che fanno appiccicare i vestiti alla pelle quasi a fare male.
Sbuffò appena, a causa della monotonia, virus di quella stanza buia e priva di uscite.
Non che le sue giornate fossero mai state ricche di sorprese e divertimento, non che amasse la compagnia della gente, ma così, forse, era troppo.
Iniziava a sentirsi isolato dal mondo, e preoccupato per tutti gli altri, azzardando potessero trovarsi in una situazione molto più grave della sua.
E dopotutto aveva ragione, Germania, a pensarla così, visto che il suo migliore amico era appena stato ucciso a qualche stanza da lui.
Si fermò, passandosi ancora una volta la mano lungo la fronte, questa volta solo per allentare la tensione, deglutendo a fatica, con la gola ormai prosciugata, a causa dell’aria umida e calda tutta intorno.
Per un momento fu indeciso se adagiarsi contro una delle pareti oppure no, ma vi rimase lontano, perché un rapido bagliore attirò la sua attenzione.

Quando prese fra le mani la pistola cupa e sinuosa, comparsa dal nulla proprio davanti a lui, capì che qualcosa non andava.
«Ohi, c’è qualcuno?»
Ed era molto più vicino di quanto non potesse immaginare.

«Gilbert-?!» quando sentì la voce del maggiore gli venne spontaneo chiamarlo, e l’altro gli apparse davanti, come se avesse deciso di tuffarsi a pesce nel buio, seguendo la sua voce «West!»

Ludwig non sapeva se considerare tutto ciò come qualcosa di negativo o positivo, ma Gilbert pareva piuttosto contento di averlo incontrato, con quel ghigno vivace stampato in volto.
«Non credo sia possibile che il Magnifico Me non sappia trovare una porta, eppure l’uscita sembra non essere qui, pft-»
«Temo non ci sia per davvero, Gilbert.» lo sguardo del tedesco si soffermò per un attimo sulle mani esili e disarmate del fratello, e parve rilassarsi: forse dovevano solo abbattere assieme una terza presenza lì dentro, visto che pareva essere l’unico ad aver ricevuto un’arma.
«Wie, bitte?» Gilbert parve confuso, alle sue parole.
«Kesese! Sempre così pessimista!»
«Gilbert-» lo interruppe, incatenando gli occhi di ghiaccio a quelli infuocati del fratello «non è finita. Berkeley Square era solo l’inizio.
C’è qualcosa qui. Insomma, questa pistola mi è apparsa davanti poco fa.» la mostrò all’albino, e quando vide la mano destra di questo ripiegare velocemente in una delle grandi tasche della divisa sentì il battito cardiaco morire per qualche attimo.
«Anche a te?»
Gilbert, come lui, aveva ricevuto una pistola, ed ora la impugnava tranquillo fra le dita, perdendo la sua sicurezza quando notò lo sguardo attonito del minore.
«West-? Tutto bene?»
Non dovette pensarci un secondo, il biondo, per lasciar sfuggire dalle proprie labbra un sonoro “no”.

Il tedesco si guardò attorno per qualche attimo, poi si rivolse al prussiano, che aveva tutta l’aria di aver smarrito perfino se stesso, in quel buio infernale.
«Gilbert, hai un accendino?»
«West, non sapevo fumassi-»
«No, è che non ho voglia di sondare ogni singolo centimetro di questa stanza col tatto-»
Il prussiano gli tese velocemente un piccolo accendino «hier.
Considerando che va già bene se mi accendo una sigaretta al mese, dovrebbe essere funzionante.»
Ed il tedesco testò la veridicità di quelle parole con il viso lievemente rilassato, quando la piccola fiammella blu fece luce intorno a loro «sehr gut …»
Cautamente si mossero entrambi verso una delle pareti, ma a circa un metro da essa, la fiamma, si spense.
«Gilbert-!»
«Ma l’ultima volta che l’ho usato l’ho anche ricaricato!
Riprova, West …» gracchiò l’albino, calmandosi solo quando una seconda fiamma si accese senza sforzo.
«Ecc-» il tedesco non fece in tempo a finire la propria esclamazione che questa si spense, come se un soffio di vento, l’ inesistente, per giunta, l’avesse colpita e fatta dissolvere nel buio.
«Non capisco.
È come se .. se-»
«Come se qualcuno non volesse che usiamo la luce?»
«Mh-» Germania tornò velocemente a qualche metro dalla parete, senza scostare mai il dito dal tasto dell’accendino, e la fiamma si riaccese.
«Forse non vuole semplicemente che sondiamo le pareti in questo modo.
Forse la risposta per uscire di qui non sta nelle pareti.» convenne, rivolgendo uno sguardo quasi malinconico al maggiore.
«Dammelo va, quasi quasi la Magnifica sigaretta del mese la fumo adesso, kesese!»
Eppure, anche Gilbert, sembrava aver intuito che la situazione non era una delle migliori, e risistemando nella tasca della divisa l’accendino, si fece subito più serio. «È come se volesse spingerci qui, al centro …» il tedesco si guardò intorno confuso: che cosa voleva da loro, il pazzo dietro tutto questo?
«Ja, ma io non vedo da un palmo del mio naso.»
«Ich auch, Bruder.»
Gilbert cercò di catturare l’espressione sul viso del fratello, e non fu contento di vederla così persa e confusa.
Lo vide soffermarsi sulla pistola, poi lo sentì sospirare quasi rassegnato.
«Gilbert, la pistola …» quando i suoi occhi incrociarono quelli del minore, ebbe uno spontaneo sussulto al cuore: no, di certo non poteva trattarsi della soluzione peggiore. Gli avrebbero fermati.
Gli avrebbero fermati non appena lui si sarebbe allontanato dal fratello: doveva convincersi di ciò.
«Warum?» Gilbert estrasse la pistola, lasciando scivolare il braccio lungo il fianco e concentrandosi ancora sull’espressione del fratello.
«Ci siamo solo io e te, in una stanza buia e senza porte. E due pistole.»
«E allora?
West, fra poco ci apriranno! Insomma, devono per forza sapere che hanno a che fare con la Magnifica Prussia!»
No, neppure a questa Magnifica Prussia la situazione iniziava a non piacere.
«Non ci aprirà nessuno.»
Gilbert avrebbe scherzato ancora volentieri con lui, prendendolo in giro per il suo solito pessimismo, ma qualcosa, nella voce del fratello, lo spinse a stringere la presa sull’arma.
«Che senso avrebbe?»
«Divertimento, intrattenimento?
Solo uno può vincere il gioco, no?
Che vinca il migliore, Bruder.»
Germania si allontanò e scomparve nel buio, sotto l’espressione accigliata del prussiano, che non riuscì a fermarlo: in verità, il tedesco, non doveva essersi allontanato di molto, ma il buio gli impediva di verificare l’effettiva distanza che ora li divideva.

E infatti, Germania, non si era voluto allontanare troppo da lui.
Dal fratello che si era occupato di lui fin dall’inizio, che gli aveva insegnato l’arte della guerra -se così può essere definita-, di un fratello che, in certi casi, era stato quasi come una Nazione genitrice che cerca di proteggere e si sacrifica per i propri figli.
Il tedesco si rigirò la pistola fra le mani e, mentalmente, rivolse una scusa al fratello, senza trattenere la fastidiosa lacrima che, fino a poco prima, era ferma all’angolo dell’occhio destro.

«West?» nessuno avrebbe mai detto di Gilbert, che adesso lo chiamava quasi con voce pietosa, che fosse il maggiore.
E in risposta vi fu uno sparo, il guizzare argenteo di una pallottola che squarciò il buio ed il silenzio, con il sibilo troppo vicino al suo timpano sinistro.
Gilbert si gettò velocemente a terra, e quando poggiò i palmi delle mani al suolo quasi si scottò, per quanto questo fosse caldo, come se del fuoco ribollisse qualche centimetro più sotto della pietra.
«Nh-!» mugolò appena, rialzandosi confuso: perché West aveva detto quelle parole e gli aveva sparato?
Quel gioco era talmente disumano da comprendere davvero una sfida mortale tra fratelli?
A quanto pareva sì, e lo testò sulla sua stessa pelle, quando il secondo proiettile riuscì a sfiorargli il fianco.
Incredulo che il fratello avesse deciso di sparare contro di lui rimase in silenzio, chinato a terra con la mano a tamponare più volte il fianco ferito e sanguinante.
«Eh- Scheiße-» sibilò appena, dolorante, e poi decise di puntare la propria pistola davanti a sé, proprio verso il punto dal quale erano arrivati i due proiettili: West era suo fratello, ma la Prussia non si arrendeva a nessuno, e pur di assaggiare il sapore della vittoria, la paura di reagire anche a lui era ormai scomparsa, proprio come l’umanità nell’ambito di quel gioco senza regole.

Sparò, e per un po’ regnò solo il silenzio.

Dopo diversi minuti, l’albino, decise di muoversi, e con cautela si spinse più avanti.
«… Bruder-?» sussurrò appena, poco prima che una pistola fredda gli venisse puntata alla gola ed il corpo non fosse sospinto contro una parete bollente.
«Ah-!»
Bruciava. Bruciava terribilmente.
«Scusami Gilbert, cercherò d-»
L’intenzione di Germania non era quella di far soffrire il fratello, né di Gilbert quella di sparare un colpo al torace del tedesco.
Ludwig sgranò gli occhi dolorante, e subito, un rivolo di sangue, gli attraversò il mento.
«W-West?!»
Gilbert cercò di sostenerlo, non appena lo vide perdere l’equilibrio, ma il corpo del tedesco si lasciò cadere a terra, con la schiena aderente al pavimento, anche quello rovente come il fuoco.
«West!»
Solo ora si rendeva conto che l’euforia della guerra e il sangue per la vittoria, non potevano ripagare la perdita di un fratello.
Gli occhi del prussiano si velarono di lacrime, come quelli del tedesco, già divenuti più vitrei.
«G-Gil, sparami-» voleva mettere fine a quella tortura a cui era sottoposta la sua schiena, con gli indumenti già lacerati dal calore e la pelle scottata, il torace pulsante e pieno di sangue.
«No! Posso … posso curarti!»
«Sparami …»
Prussia strinse la pistola, negando fermamente e trattenendo a fatica le lacrime.
«Non posso!»
«Gilbert!» il tedesco strinse i denti, ordinando al fratello di sparargli, ancora una volta.
«West! Non posso!»
«S-spara-!»
Lo sapeva benissimo Gilbert di quanto potesse fare male: gli era bastato un attimo contro la parete bollente per sentirsi morire di dolore, anche se non doveva aver riportato alcuna scottatura -a differenza delle mani, dove già qualche fastidiosa vescica iniziava a farsi sentire-
Strinse anche lui i denti, puntando la pistola sulla parte sinistra del petto del fratello, e poi chiuse gli occhi, questa volta percependo le lacrime calde rigargli le guance.

Il tedesco glielo ordinò ancora, e quando le mani e le dita tremarono, tenendo a fatica la pistola, riuscì a premere il grilletto.

Non aprì gli occhi. Gli bastò il silenzio.
Avrebbe trovato la forza di spostare il corpo del fratello, se avesse conosciuto in quella stanza un punto non rovente.
Pensò, forse esagerando, che il corpo del fratello, in qualche ora, sarebbe diventato solo un ammasso informe di carne carbonizzata, e si spinse avanti alla ceca, cercando di tenere a bada la nausea che gli stava attanagliando stomaco e gola, mentre con le mani cercava di asciugare gli occhi e le guance dalle lacrime, compagne di altre che erano ancora trattenute a stento dai suoi occhi.

Tacque per qualche attimo, poi ringhiò furioso «hai avuto quello che volevi, no?! Allora fatti vedere, bastardo!» e urlò al silenzio.

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Capitolo 7
*** VII - Pazzia ***


VII – Pazzia


Stanza: Nr. 3, Stanza di Astrea
(Dea della sorte e della fortuna.)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. -2 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore: 12:00 - 12:19



Chissà cosa avrebbe detto e come avrebbe reagito, se in quel momento avesse potuto anche solo lontanamente immaginare che sia Germania che Italia erano appena morti e che lui, probabilmente, stava procedendo verso lo stesso destino.
Era tutta via più impegnato a coprire ogni spazio di pelle scoperta e sfregare fra loro le mani, respirando a fatica, con i polmoni attanagliati dall’aria gelida che stava respirando, le ossa intorpidite dal freddo e l’equilibrio precario su quello che doveva essere un leggero strato di ghiaccio.
«C’è … c’è qualcuno?» balbettò infreddolito, procedendo a stento nel buio, e con cautela sul ghiaccio, senza comprendere la situazione.

Per Kiku Honda, rappresentante del Giappone, l’orrore era appena cominciato.

Non gli piaceva l’inverno, e ritrovarsi in una stanza con pareti e pavimento ricoperti di ghiaccio, mise a dura prova la resistenza dei suoi nervi.
Nonostante ciò, doveva ringraziare di essere abituato al freddo, e di avere una stazza ed una massa corporea sufficiente per rimanere lì anche per qualche ora: dovevano essere sicuramente a qualche grado sotto lo zero.
Il buio eccessivo, invece, lo stava mettendo in difficoltà, impedendogli di capire dove stesse mettendo i piedi.
Dubitò fin da subito che dietro tutto ciò vi fosse ancora una volta l’americano: troppo stupido per architettare una cosa così complessa.

Per Ivan Braginski, rappresentante della Russia, stava per iniziare il viaggio nei meandri della vera pazzia.


Forse doveva urlare più forte? Dopotutto si era praticamente limitato a parlare, e non aveva davvero idea di quanto grande fosse quel luogo: solo un udito sopraffino sarebbe riuscito a sentirlo, in lontananza.
Il giapponese cercò goffamente di muoversi più in fretta, a causa di quel freddo pungente a cui non era abituato, ma con il ghiaccio sotto i piedi rischiò solamente di scivolare e addirittura rompersi le ossa del collo.
Doveva solo sperare nell’esistenza di un punto senza ghiaccio, e per ora aveva deciso di aggirare la stanza senza mai scostarsi dalle pareti, seppur anche quelle fossero coperte di ghiaccio e brina lucente nella maggior parte della loro estensione.
Tirò su col naso, e sentì per la prima volta da quando si era ritrovato lì, bruciare terribilmente gli occhi, così come la pelle del viso, con le orecchie e il naso ormai addormentati.
Portò le dita a sfregare appena i lobi delle orecchie, in movimenti circolari, diverse volte, finché non riacquisto un po’ di sensibilità, e poi fece lo stesso con il naso, fermando i suoi passi quando un rumore metallico sotto i suoi piedi lo colse di sorpresa.
«Mh?»
Un’arma.
Perché?
Perché un’arma?
Il giapponese deglutì, squadrando dall’alto la lucente e sottile lama della katana, ancora lì, nel ghiaccio.
Quando si chinò per prenderla, constatò che il manico era completamente immerso nel ghiaccio, e quindi provò a sfregare quel punto con la suola delle scarpe, ottenendo però uno scarso risultato.
Se voleva quell’arma doveva prendere la lama fra le mani e tirare, sperando di riuscire a compiere il movimento giusto per estrarla del tutto dal ghiaccio. E doveva fare in fretta.

Tutto quel ghiaccio, solo quel ghiaccio, iniziava ad innervosirlo davvero.
Possibile che Zima fosse riuscito ad inseguirlo fino a lì? Oppure era solo un effetto di quella stanza? E gli altri? Stavano vivendo le sue stesse sensazioni oppure no?
Altri avevano già iniziato e portato a termine ciò che fra poco anche lui avrebbe dovuto affrontare.
Sospirò, vedendo il proprio fiato condensarsi in una macchia argentea nell’oscurità, e poi assottigliò il proprio sguardo, quando questo si dissolse, lasciandogli un campo visivo molto più valido.
Quando vide la pistola fluttuare nel buio, a pochi metri da lui, le labbra fini non poterono che incrinarsi in un lieve sorriso compiaciuto.
Quando afferrò la pistola con una mano, poté subito sentirsi più tranquillo.
Se vi era un’arma poteva solo significare che, chiunque o qualunque cosa fosse stata insieme a lui, in quella fredda stanza, doveva morire.

Un singulto affaticato, non troppo lontano da lui, lo colse di sorpresa.
Il russo rimase immobile, in silenzio, e sollevò appena la testa, quando un altro gemito gli giunse alle orecchie.
Mosse qualche passo, ed il suo sorriso si ampliò.
Sì ampliò, finché non si fermò alle spalle del giapponese, che si stava affannando per estrarre la katana da quel blocco di ghiaccio.
«Qui c’è qualche stupido che vuole morire, da~?» inclinò la testa con voce cantilenante, assottigliando lo sguardo in un sorriso dove diavoli ed angeli riuscivano a mescolare perfettamente la loro essenza di innocenti fanciulli e mostri d’oscurità.
Il giapponese si voltò rapidamente e sussultò, finendo contro la parete gelida e stringendo i pungi per il dolore che la lama della spada aveva causato sui palmi delle mani, con la carne ormai ridotta ad uno stagnare di sangue e pelle lacerata.
«R-Russia-» non riuscì a mascherare il terrore che stava ormai attanagliando la sua voce ed ogni millimetro del suo corpo paralizzato.
Il russo sorrise, e puntò la pistola verso il giapponese, che chiuse gli occhi e strinse i denti, poi, inaspettatamente, la diresse verso il blocco di ghiaccio, e sparò due colpi consecutivi.
Dopotutto gli bastava solo un colpo per farlo fuori, ma non voleva neppure ucciderlo così in fretta.
«Prendila. Voglio divertirmi.»
Al giapponese fu giusto lasciato il tempo di chinarsi ed afferrare la katana, perché quando si rimise in piedi, il russo stava già per colpirlo in pieno volto con la pistola.
Ora doveva solo giocare di velocità, anche se con il ghiaccio non era per niente facile. Trovare un posto senza quello strato di ghiaccio fastidioso, e sperare in bene, visto che, teoricamente, chi ha una pistola contro chi ha una katana, si trova molto più avvantaggiato, potendo colpire anche da lontano e non per forza da una distanza ravvicinata.
Lo slavo gli direzionò un altro colpo, ma questa volta, il giapponese, si scostò velocemente di lato, rischiando però di scivolare sul ghiaccio.
Da un certo punto di vista, siccome per ora Ivan pareva non voler utilizzare la pistola per sparargli, ma solo per colpirlo e divertirsi nel vedergli sbucare ematomi su tutta la faccia, poteva perfino ritenersi abbastanza fortunato.
Doveva sfruttare quell’aspetto.
Affondò l’affilata lama della katana in avanti, fendendo l’aria, ma il ghiaccio sotto i suoi piedi lo stava davvero mettendo in difficoltà, al contrario del russo, che ovviamente, per abitudine, se la stava cavando discretamente.
Non riuscì a colpirlo, ma solo per qualche centimetro.
Doveva ritentare.
Rimase paralizzato, con la lama tesa, però, osservando agghiacciato il russo che ora si era fermato, e lo fissava serio, senza alcuna emozione sul viso.
Aveva osato provare a colpirlo. A quanto pare Ivan non ricordava il significato di “legittima difesa”.
Sparò un colpo, e questa volta, il giapponese, decise di sfruttare il ghiaccio.
Si lasciò scivolare di lato, molto più lontano dal russo, e per riacquistare l’equilibrio perso tanto facilmente, piantò la punta della katana nel ghiaccio, risollevandola davanti al suo viso, pronto a riprovare con un nuovo fendente, impassibile e freddo quasi quanto lo slavo.
Kiku si soffermò solo per qualche attimo sul manico della katana, ricoperto di sangue e appena scivoloso, a causa dei tagli brucianti sui palmi delle mani, poi, quando la sagoma del russo ricomparve davanti a lui, non ci pensò due volte e si impegnò in un nuovo fendente, più potente e deciso del primo.
Andò a segno, solo in parte.
Ormai Kiku si era arreso all’idea di trovare uno spazio senza ghiaccio. Doveva usare la sua katana come appoggio, e nient’altro.
Il taglio che si aprì sullo sterno del russo non sembrò preoccupare lo slavo più di tanto, ed in effetti era davvero sottile come ferita, visto che il cappotto si era appena bagnato di sangue.
Piuttosto, gli occhi d’ametista dello slavo, si soffermarono sul lembo di stoffa bianco che si era adagiato silenziosamente sul ghiaccio.
«…»
Il silenzio fu più chiaro di mille parole: una delle estremità della sciarpa del russo era tagliuzzata, rovinata dalla lama della katana.
Il biondo gli rivolse un’occhiataccia piuttosto nervosa, ma rimase immobile.
Il giapponese arretrò appena, negando con la testa, e il peso della paura sulle sue braccia gli impedì di sollevare prontamente la katana.
«Kolkol~»
La pazzia, ormai, ribolliva nel sangue dello slavo.
Ivan sollevò la pistola e sparò un colpo dritto davanti a lui, colpendo in pieno petto il giapponese, che cadde a terra, sul ghiaccio, in un rantolio di dolore.
L’altro gli si avvicinò e calpestò la katana, strappandogliela dalla mano e spingendola via con il piede.
«Lo sai che cosa hai fatto, da?»
«N-no! Russia!»
Quando si vide la pistola puntata alla testa, Giappone lo pregò di non sparare e cercò di rialzarsi, ma il ghiaccio impregnato di sangue, sotto di lui, gli impedì tutto ciò.
«O-onegai! Onegai-!»

Ma pregarlo non servì a nulla, perché l’ultima cosa che vide, fu il sorriso compiaciuto del russo incombere su di lui, come la pazzia aveva intaccato quel suo cuore rovinato che pulsava oltre la ferita lungo lo sterno.

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Capitolo 8
*** VIII - Ricordi ***


VIII – Ricordi


Stanza: Nr. 12, Stanza di Tacita
(Dea dei segreti e del silenzio.)
Posizione: Primo girone interno
Dimensioni: ca. 150 m2
Temperatura: ca. 37 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 12:30 - 12:42



Ancora quell’odore di zolfo, forse più forte che nella stanza precedente, ancora quel caldo umido ed insopportabile che lo spinse a sospirare nervosamente ed abbandonare la sua pipa.
Stava aspettando da un po’, ormai, in quella stanza vuota e calda dove, al centro, un lieve raggio di luce colpiva il suolo, donando un leggero chiarore ai suoi occhi.
Proprio al centro della stanza aveva avuto occasione di controllare la ferita poco più sotto l’anca sinistra, infertagli da un danese energico, ma ferito a morte, ed in effetti aveva constatato che non era una ferita poi così rilevante.
Più preoccupante era quella al fianco destro, profonda, e per la quale aveva dovuto legare intorno al proprio torace un lembo della camicia, in modo da fermare la copiosa perdita di sangue che, ancora adesso, non sembra veramente intenzionata ad arrendersi.
Non poteva vedersi in faccia, ma la pelle tirava e bruciava in diversi punti, quindi immaginava che la sua sensazione di essere scottati da quel fumo bollente, prima di attraversare la grossa crepa che si era aperta nella parete della sua prima stanza, doveva essere giusta.
Rivolse un’occhiata alla pistola che aveva abbandonato a terra, poco lontano da lui: forse questa volta non avrebbe dovuto uccidere, forse, nella seconda stanza dedicata a lui, e probabilmente a qualcun altro, l’azione da compiere era un’altra.
Oh, quanto pregava perché fosse vero.

Sospirò appena, dirigendosi a passi lenti verso il centro della stanza, dove si apriva quel cerchio di flebile luce, e sollevò il viso, chiudendo gli occhi: qualunque sarà il prossimo, se la prova sarà ancora la stessa, dovrà uccidere di nuovo. Dimenticare ogni cosa, e uccidere.
«Abel!»
Quando sentì quella voce sgranò gli occhi, e prima ancora di poterla vedere, se la ritrovò al collo, sorridente.
«Fratellone! Sei qui!»
Abel ricambiò quella stretta d’istinto, ma rimase silenzioso, immobile.
La ragazza, che fino a quel momento era rimasta con il viso pallido affondato nella spalla del fratello e gli occhi chiusi, il sorriso stampato sulle labbra, smise di ridere e si scostò lievemente, atterrita a causa di quel silenzio.
Abel non era mai stato un tipo chiacchierone, ma questa volta era davvero peggio del solito. Non la stava neppure salutando.
«Abel … cosa c’è?»
«Alice …»
“Perché proprio tu, eh?”

Fra Abel, Sophija e Alice, quest’ultima, è la più piccola -anche di statura- del Benelux, ed è la rappresentante del Lussemburgo.
È molto affezionata al fratello, mentre l’ottimo rapporto con la sorella è andato perso dopo la dominazione spagnola.
Ha gli occhi castani, come i capelli lisci e lunghi fino a metà schiena. Solitamente usa armi di acciaio ed è stata cresciuta da Francia e Germania per parte della sua infanzia.

La lussemburghese aggrottò la fronte confusa, e si scostò del tutto dal fratello, guardandolo negli occhi per la prima volta.
Che sciocca. Era tanto entusiasta di averlo incontrato che neppure si era accorta delle scottature sul suo viso, e del lembo di camicia insanguinato legato intorno al suo torace.
«Ma … ma sei ferito-»
Quando la vide chinarsi appena, per avvicinare il viso alla sua ferita, le afferrò le spalle con le mani e la raddrizzò.
«Non è grave.» la rassicurò, seppur stizzito.
Alice gli rivolse un’occhiata spiacente, per poi abbassare appena il viso: non lo riconosceva, e come se l’era fatte quelle ferite? E le scottature sul suo viso? E sulla sua mano destra, alla quale aveva fatto caso soltanto poco prima, quando le aveva afferrato le spalle?
«Cosa ti è successo?» risollevò il viso verso il fratello, e continuò «devo supporre che tu sappia già cosa significa tutto ciò, vero?»
Abel rimase in silenzio, per poi inclinare appena il viso di lato, con una smorfia sulle labbra.
«Ja.»
«C-cosa?»
La risposta secca del fratello le aveva fatto sussultare il cuore.
«Che cosa, Abel?!» gli afferrò il colletto senza nascondere la paura che cresceva dentro di lei, facendole bruciare gli occhi, e quando incontrò lo sguardo del fratello, non sentì le sue parole.

«Io sposerò il fratellone! Io sposerò il fratellone~!»
Era la cantilena di una bambina che, dall’armadio della sorella maggiore, era riuscita a trovare un abito striminzito di pizzo bianco, e facendolo volteggiare con le sue giravolte e le sue risa allegre, sperava davvero che ciò che stava dicendo si sarebbe un giorno avverato.
Voleva sposare l’uomo che aveva cercato di proteggerla dalla dominazione della Spagna, l’uomo che le aveva promesso che un giorno l’avrebbe portata a vedere il mare, e davvero non le importava che fosse suo fratello.
Aveva indossato distrattamente quel vestito, e poi era sgattaiolata fuori dalla camera e dalla casa, nonostante Abel gli avesse raccomandato più volte di aspettarlo e non uscire assolutamente.
Forse ancora troppo ignara dei pericoli esterni, ingenua, si era spinta sotto una lieve pioggerella, verso l’orizzonte dove le nubi nere venivano squarciate da lampi luminosi, e aveva attraversato di corsa quel campo di tulipani che, mancava poco, fossero più alti di lei.
E le facevano male le gambe gracili, quando era arrivata da lui, che era piuttosto lontano, ma non le importava.
Pur di star vicino al fratello, ha sopportato di tutto.
Mentre lei cresceva, cresceva anche il problema di Abel con la droga, e nonostante non siano state rare le volte in cui si sia sentita sbraitare di tutto contro, non ha mai smesso di aiutarlo.
Lui le vuole bene, lo sa: una volta gliel’ha anche detto.
«Ti amo.» invece, era ciò che ripeteva a se stessa, cresciuta, davanti ad uno specchio, con la paura di perderlo per sempre, per chissà quale strana ragione.


«Dobbiamo combattere.»
Abel la stava scuotendo, e non ci sarebbe stato da sorprendersi se quella fosse stata la decima volta che ripeteva con la voce flebile quelle parole.
Alice scosse energicamente la testa, rimanendo con le mani aggrappate al colletto della sua camicia e lasciandosi scivolare le lacrime lungo le guance.
«Non … non voglio combattere contro di te-
Perché dovrei?»
La stessa identica domanda che si stava ponendo lui.
Perché uccidere? Per di più un membro della sua famiglia, per di più … Lussemburgo.
«Io non esco di qui senza di te!»
Come al solito, si stava impuntando su un sogno irrealizzabile.
Trattenendo a stento le lacrime, tornò a circondargli il collo con le braccia, ma questa volta Abel ricambiò con più sicurezza, finché non la sentì smettere di singhiozzare.
«Cosa … cosa sono?»
Quando Abel la lasciò e si voltò, si sentì agghiacciare dentro: una pistola identica alla sua, quella che aveva ricevuto nella prima stanza e che ora era abbandonata a terra, ed una baionetta, fluttuavano nel confine fra luce e buio, poco lontani da loro.
Alice deglutì appena, arrancando con le dita sul braccio del fratello: era così, allora? Dovevano davvero … combattere?
«A-Abel …» lo lasciò allontanare da lei e avvicinare alle armi, con gli occhi ormai lucidi di lacrime.
Lo vide afferrare la pistola a terra e stringerla fra le dita, e poi la baionetta, adagiandola ai suoi piedi.
«Senti Alice …»
Afferrò anche l’altra pistola, e la lanciò a lei «intanto questa suppongo sia tua.»
La lussemburghese l’afferrò al volo, battendo più volte le palpebre, in modo da cacciar via quella sensazione di bruciore negli occhi «cosa?»
«Neppure io voglio combattere contro di te.»
«E allora rimaniamo qui!»
«No. Moriremo di fame.
C’è un altro modo …»
Ogni Nazione era solo un piccolo ingranaggio di quel gioco perverso, e loro non si potevano permettere di fermarsi entrambi e, per di più, restare vivi. Avrebbero rischiato di bloccare lo scorrere del gioco.
La lussemburghese lo osservò curiosa, forse speranzosa di sentirgli pronunciare finalmente qualcosa di positivo.
«Non puoi morire solo tu, o solo io, né possiamo sopravvivere entrambi, quindi …»
Alice si sentì le braccia e la schiena avvolte da un brivido di freddo che, per carità, fu perfino piacevole lì, in quella stanza dove le pareti bruciavano come il fuoco, e il pavimento pareva solo un debole strato che a fatica riusciva a salvarli da un fiume di lava sotto i loro piedi.

Uccidersi entrambi era l’unico modo per non ritrovarsi a piangere sul cadavere del proprio fratello, l’unico modo per scappare dal gioco insieme.

«Al mio tre spariamo, d’accordo?»
La lussemburghese accettò le condizioni del fratello con il silenzio, ma prima di arretrare e puntare la pistola davanti a sé decise di avvicinarsi nuovamente a lui e, sollevandosi in punta di piedi, riuscì a fatica a raggiungere le labbra dell’olandese, con un piccolo bacio.
Entrambi arretrarono, spingendosi alle estremità del cerchio di luce, e puntarono la pistola in avanti, quasi simultaneamente, mirando all’altro.
Alice assottigliò il proprio sguardo, e concentrò il proprio pensiero sul grilletto dell’arma, comandando con autorevole pensiero alla sua mano di non tremare: se voleva morire insieme a lui, doveva essere precisa e puntuale.
Abel, intanto, doveva decidersi ad iniziare a contare, ma sembrò titubare.

«Alice, vedi tutti i fori nella terra? Metti una manciata di semi in tutti.» poteva stare tranquillo, visto che era piccola e con le mani minuscole che si ritrovava non avrebbe mai esagerato con la quantità di semi per foro.
Era l’unica a cui aveva permesso di toccare il suo giardino, e quella fu forse l’annata che ebbe i tulipani più belli.
Purtroppo, andando avanti, Alice non aveva più avuto occasione di aiutarlo, ma avrebbe davvero voluto potesse capitare ancora una volta.

«Te li regalo! Te li regalo tutti!»
Gliel’aveva detto lei, la mattina in cui si erano svegliati ed i tulipani erano tutti sbocciati, di rossi e gialli accesi, splendidi, sotto la luce tiepida del sole.
Anche lui. Anche lui glieli regalava tutti.


«Uno.»
Se la lussemburghese avesse avuto gli occhi azzurri, in quel momento, sarebbero stati di ghiaccio.
«Due.»
L’adrenalina scorreva nei loro corpi come l’elettricità lungo i fili d’alta tensione.
«Tre!»
La paura sbocciava come il fiore che di vita ha solo il momento in cui i suoi petali si schiudono, un soffio di vita.

“Vieni con me.”
“Non posso.”


Lo sparo risuonò nella sala, ma fu soltanto uno.
Non fu un errore di precisione, o di tempestività. Fu solo la volontà, forse l’egoismo, ed un eccessivo amore.

Quando la lussemburghese vide il corpo del fratello riverso a terra, non poté che sgranare gli occhi e chiamarlo con la voce già rotta dal pianto.
“N-no!”
Si buttò a terra, senza badare a quel suolo di pietra rovente che subito le bruciò le gambe e le ginocchia, scuotendo il fratello con le lacrime sul viso «a-avevamo un accordo! Abel!»
Singhiozzò con la mano adagiata sul petto insanguinato del fratello, scuotendo la testa energicamente e respirando a fatica.
«Perché?! Me l’avevi detto! Do-dovevamo …»
Ingenua. Ingenua che aveva finito per credere che lui avrebbe davvero ucciso la sua sorellina.
«Ti prego … ti prego, Abel-» continuò a chiamarlo, con il viso bagnato di lacrime aderente al suo petto, e le mani ad arrancare sul tessuto impregnato di sangue, mordendosi il labbro inferiore per il dolore alle ginocchia, ormai completamente scottate.
«A-Abel …»

Quasi finì per addormentarsi sul corpo senza vita del fratello, a causa del pianto così intenso che ancora esitava a finire.
Sentiva ogni ricordo scorrere sulla sua pelle, sulle braccia, come un pezzo di vetro tagliente che scorre sul polso e si tinge di rosso.
Sollevò lentamente il viso, portandosi le mani intorno alla testa, chiudendo gli occhi e stringendo i denti: le stava scoppiando la testa.
E pensare che, di fronte all’amato fratello, la sua vera natura non si era ancora mostrata.

Ora, il pavimento, sembrava meno rovente, a contatto con le sue gambe ormai bruciate, con la stoffa dei pantaloni lacerata, in diversi punti.
Con gli occhi socchiusi e gonfi, arrossati, si voltò a fatica e si sedette proprio di fianco al corpo del fratello, osservando la pistola con la quale lo aveva ucciso.

«Tutti e due.»
Riuscì a dire con voce flebile ed una smorfia sul viso, mentre ancora una lacrima scendeva; poi afferrò la pistola e se la portò alla testa.





✠————————————————————✠

Il personaggio di Lussemburgo (Alice Lydia Van Halen) è un OC di mia invenzione.
Qui l'immagine.


_Neu Preussen_

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Capitolo 9
*** IX - Attrazione ***


IX – Attrazione


Stanza: Nr. 7, Stanza di Discordia
(Dea della discordia e dell'odio)
Posizione: Primo girone interno
Dimensioni: ca. 150 m2
Temperatura: ca. 19 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 12:21 - 12:45



Entrata vide il cerchio di luce in mezzo alla stanza e sospirò sollevata, passando e premendo la mano sulla ferita del braccio sinistro: quando la scostò e la vide piena di sangue, decise di chinarsi ed adagiare il fucile a terra, strappando con la mano pulita una striscia di tessuto dalla sottoveste bianca.
Si sentiva impaurita da se stessa. Le tremavano le mani, anche mentre si fasciava il braccio, gemendo appena per la pelle bruciante.
«Dio …»
Abbassò il viso e vi congiunse le mani davanti, chiudendo gli occhi.
Aveva appena ucciso Austria. Il suo amato Austria.
Finì la sua preghiera con voce flebile, ma tenne gli occhi chiusi ed il viso chino, trattenendo a fatica le lacrime.
«Amen~» la voce divertita che risuonò su di lei le fece sgranare gli occhi ed alzare il volto di scatto.
Lui era lì, con quel sorriso impertinente ed arrogante sul viso, estremamente divertito dalla sua disperazione.
«Che è successo, Ungaria?» ed il suo sorriso si distese, quando calcò con la voce il nome di quella nazione nella sua lingua natale.
Squadrandola dall’altro le diede una piccola pedata sul braccio, ridendo.
«Ah-!»
«Oh, sei ferita?»
Certo, lo aveva fatto apposta di colpire proprio il punto dove la striscia di tessuto bianco si era appena insanguinata, intorno al braccio.
«Romania, sei uno stronzo …» l’ungherese strinse i denti, lanciandogli un’occhiata rabbiosa.
«Oh, che maleducata.»
Il sorriso di lui scomparve in un attimo, lasciando posto ad una smorfia rabbiosa, mentre il piede andava a calpestare il fucile dell’ungherese, lanciandolo lontano.
«Ora come facciamo?»
Il rumeno tese il braccio nella penombra, e spalancò la mano, e non appena una spada ben rifinita, con la lama affilata ed il manico d’oro gli si adagiò sulla mano, non poté che puntarla verso l’ungherese.
«Allora, chi hai dovuto ammazzare? Austria? Quello che ti usa come cagna personale?» il sorriso tornò a dipingersi sul volto del rumeno, mentre lo sguardo dell’ungherese non riuscì a sostenere quegli occhi di fuoco, perché i suoi tornarono improvvisamente a riempirsi di lacrime.
«Taci!»
Ed effettivamente, il biondo, rimase in silenzio ed abbassò l’arma, ma balzò appena indietro e le sferrò inaspettatamente un calcio sul viso, facendole subito sputare sangue.
«Alzati, puttana.»
L’ungherese tossì ancora, e strinse i denti, senza farselo ripetere una seconda volta: fece forza sulle braccia, ed in poco tempo di ritrovò in piedi.
«Sei scorretto …»
«Almeno mi diverto di più.»
Quando il rumeno si mise a ridere, l’ungherese, urlò di rabbia, sferrandogli un pugno sul viso, che di poco lo mancò.
«Ah che fai? Vuoi farmi fuori a mani nude? Sei patetica, Ungaria.»
«Magyarország.» l’ungherese si pronunciò con voce spiritata, e poi di nuovo urlando «Magyarország!» l’ungherese si lanciò contro di lui un’altra volta, ma questa volta il pugno andò a segno.
Il rumeno non fece caso al dolore al naso sanguinante, e fendette l’aria con la spada, mirando prima allo stomaco dell’ungherese, poi, vedendola evitare il colpo con sorprendente velocità, alle gambe, ma anche questa volta, la donna, saltò di lato, ed allungò il braccio, afferrando un fioretto argenteo sospeso in aria, a pochi metri da loro.
L’ungherese si lanciò in un fendente violento, che il rumeno riuscì a bloccare con catica.
«Ma guarda, uccidere quell’idiota ti ha fatto ricevere questa bell’arma come premio.»
Il rumeno sorrise divertito, mentre l’ungherese rimase seria e silenziosa, facendo forza sulla lama nemica, per poi scostarla all’improvviso e lanciarsi in un nuovo colpo.
Il rumeno arretrò, e si passò il dorso della mano sotto al naso, velocemente, sputando qualche goccia di sangue che, ormai, era arrivata a sporcargli le labbra.

Rimasero entrambi in silenzio, un poco più fuori del cerchio di luce, ad osservarsi come due cani randagi ed affamati che si contengono un osso senza carne.
«Ti ammazzerò, Vladimir.»
Ed ovviamente, il rumeno, colse la minaccia dell’ungherese come una fonte di puro divertimento «ah sì? Voglio vedere.»

L’ungherese tornò all’attacco, e questa volta, la lama, affondò nel fianco sinistro del rumeno, facendogli stringere i denti.
Vladimir non reagì con la spada, ma ancora una volta con le mani, e con un pugno al centro dello stomaco, la fece cadere a terra, in un singulto di dolore.
Il rumeno si premette la mano sul fianco insanguinato, poi assottigliò gli occhi e, senza esitare, le portò il piede a premere sullo stomaco, tenendola inchiodata a terra.
«L-lasciami!» con la voce affannata, a causa di quel dolore allo stomaco, l’ungherese sembrò quasi mugugnare, e poi fermò le lamentele ed osservò confusa il rumeno, quando lo vide gettare lontano la sua spada.
Il rumeno si chinò su di lei, facendo ancora più forza con il piede sullo stomaco, quasi che le tolse il respiro, e le strappò di mano il fioretto, gettando lontano anche quello.
«C-cosa stai-?»
Le scostò il piede da sopra lo stomaco, e poi la afferrò per il colletto, tirandola su con violenza, rimanendo con il viso a qualche centimetro dal suo.
«Sono contento di essere capitato contro di te.»
«Io per niente. Mi fai ... mi fai schifo.»
Nonostante l’odio che l’uno provava nei confronti dell’altra, e viceversa, c’era rispetto ed invidia reciproca. Vladimir aveva sempre considerato Elizabeta sua degna avversaria, e lei, nonostante mentisse sempre per orgoglio, aveva sempre avuto una sorta di ammirazione per il modo di combattere di lui, così freddo e senza scrupoli.
L’ungherese gemette di dolore, quando il rumeno la sbattè contro la parete appuntita, stringendola ancota per il colletto, con il corpo aderente al suo, portandole le labbra all’orecchio.
«Tu no, per niente ...»
Il sussurro nel suo orecchio la fece rabbrividire, e ancor di più quando si rese conto che quella frase si ricollegava proprio alle sue ultime parole.
«Nh-!» e l’ungherese gemette ancora, quando sentì i denti del rumeno affondare nel collo, in profondità, lacerando la pelle e la carne.
Il sangue di lei iniziò subito ad impregnargli le labbra, con quel gusto dolciastro e metallico, talmente irresistibile.
Per di più si parlava di sangue ungherese. Di sangue nemico.
Vladimir strinse fin quasi a staccare un lembo di carne, mentre le mani si insinuarono oltre la sottoveste dell’ungherese, ad arrancare sulle cosce di lei, con le unghie.
«N-no-!»
L’ungherese gli afferrò una spalla con una mano, spingendolo all’indietro, o per lo meno tentando, mentre con l’altra cercò di piantare le unghie nella nuca, più in profondità che poteva.
«Mi sto solo divertendo un po’.» il rumeno le leccò il sangue che ormai era arrivato fino alle spalle, seguendo la sua traccia e tornando ad infastidire la ferita, facendole quasi lacrimare gli occhi per il dolore, mentre le mani si erano spinte ancora più in là delle sole cosce.
L’ungherese decise di non demordere.
Mosse velocemente le gambe, e poi tutto il resto del corpo, e riuscì a divincolarsi dalla stretta del rumeno, ripartendo all’attacco con un calcio nello stomaco ed un altro pugno in piena faccia: colpi che lo fecero arretrare di parecchio.
L’ungherese cercò di non rivolgere troppa attenzione al bruciore del collo: un solo morso, per quanto violento, non poteva essere così grave come la lama di un fioretto che ti trapassa da parte a parte, solo che Vladimir, nonostante avesse parte del torace piena di sangue, ed il viso quasi completamente ricoperto, sembrava non volersi arrendere, e non aveva alcuna difficoltà a stare in piedi, al contrario di lei.
Quel pensiero non le fece nemmeno render conto che il rumeno era tornato all’attacco e che, con un calcio rivolto alle sue gambe, l’aveva appena ributtata a terra, di nuovo, facendole battere la testa.
«Bastarda!»
Quando lo rivide chinarsi su di lei, questa volta, sollevò una gamba e gli piantò la suola dell’anfibio nel fianco, lì dove la sua ferita stava probabilmente pulsando dolorosamente, e per una volta sorrise e fu felice di sentir gemere il suo dolore.
Il rumerno arretrò nuovamente, vero il muro apposto, attraversando lo spazio di luce e poi sparendo nuovamente nel buio, facendo aderire la schiena alla parete, con il respiro penosamente affaticato.

“Te la farò pagare ...” si disse fra sé, chiudendo gli occhi e concentrandosi sui suoni circostanti.
I passi veloci dell’ungherese gli furono subito chiari: quando aprì gli occhi la vide lanciarsi all’attacco sia col fioretto che con la spada, ma il rumeno si scostò velocemente, in modo da rimanere in mezzo a dove sarebbero andate a colpire le due armi.
L’ungherese tirò subito indietro fioretto e spada, ma le trovò incastrate, ed il viso sorridente del rumeo, a pochi centimetri dal suo, le fece sgranare gli occhi incredula.
Vladimir si scostò di lato e, con una schienata, riuscì a disarcionare il fioretto dal muro e dalle sue mani, lasciando un piccolo spazio libero per afferrarle la nuca con la mano e sbatterle il viso contro la parete appuntita.
Quando la scostò dalla parete, fu soddisfatto di notarla più lucida per il sangue, che purtroppo, nel buio, non riusciva a scorgere bene, ma nonostante la testa di lei già ciondolasse, la sentì gemere, e allora non poté che ripetere la violenza, in modo più forte.
«Va a fare la puttanella sotto terra, adesso.»
E quando la scostò, per essere sicuro di averla uccisa, le strinse appena la testa insanguinata con le mani, girandogliela con un movimento netto, lasciandola cadere ai suoi piedi e calciandola poi, per allontanarla da lui.
«Beh, grazie. Era da un po’ che non mi divertivo così.» il rumeno sorrise, ed ignorando tutte le sue ferite, si chinò a terra per afferrare la spada, ormai caduta con l’urto che il viso dell’ungherese aveva subito contro la parete.

La luce che lo colpì in volto lo portò ad osservare la crepa appena formatasi in una parete.
«Bene!» esclamò come divertito, poi si avviò verso la crepa e rise appena.
«Vediamo chi è il prossimo~»





✠————————————————————✠

Il nome di Romania (Vladimir Popescu) è di mia invenzione.

_Neu Preussen_

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Capitolo 10
*** X - Acciaio ***


X – Acciaio


Stanza: Nr. 13, Stanza delle Passidiche
(Triade divina della giusta punizione e della vendetta)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: ca. 100 m2
Temperatura: ca. 21 °C
Fonti di luce: Discreta luce proveniente da una grossa crepa
Ore: 12:50 - 13:09



Premette il grilletto, ma quando lo sentì soltanto scattare contro la propria testa, senza che il proiettile schizzasse fuori e la uccidesse, riaprì gli occhi e constatò di trovarsi ancora seduta di fianco al corpo senza vita di Abel.
La lussemburghese si sollevò in piedi senza fiatare, senza più lacrime sul viso e negli occhi, ma con le tracce del piano ben evidenti sul viso, e con un urlo liberatorio gettò la pistola contro la parete davanti a sé.
Non la lasciava morire.
Il bastardo che giostrava quel gioco perverso non le lasciava la possibilità di uccidersi, levandosi ogni rimorso dalla propria mente.
Nello stesso punto in cui aveva lanciato la pistola, si aprì un varco.
Si guardò intorno, come contrariata nel lasciare lì il corpo del fratello, ma capì che doveva procedere, e così, zoppicando a causa delle bruciature, riprese la pistola e varcò la spessa crepa calda ed afosa apertasi nel muro.
La vide richiudersi subito dietro di sé, ma fu sollevata nel trovare una stanza ancor più illuminata della precedente e soprattutto molto meno calda.
Procedette in silenzio, ma prima di esporsi totalmente alla luce, un’arma, gli comparve davanti al viso.
Anzi, più che un’arma, uno strumento da cucina.

Alice sorrise impercettibilmente, rassicurata di ritrovarsi fra le mani quei pomelli di morbido legno che collegavano una lunga lama d’acciaio: una mezzaluna perfetta, e tagliente.
Aveva sempre preferito strumenti simili, rispetto a fucili, pistole e spade: saranno stati pure bizzarri, ma efficaci e davvero taglienti, letali, se si era maestri nel loro utilizzo. Ed Alice lo era.
Adesso niente le faceva più paura: l’avversario peggiore che poteva capitarle era stato appena lasciato alle spalle, purtroppo, quindi, ora, non avendo più nulla da perdere, nessun affetto da conservare e proteggere, poteva uccidere senza paura chiunque decidesse di sbarrarle la strada.

«Luxemburgo!»
E a quanto pare, il suo ostacolo, era uno dei tanti che sperava di poter incontrare.

Gli occhi della lussemburghese si soffermarono sulla lama tagliente dell’alabarda, a pochi centimetri dal toccare il suolo, visto che l’altro la stava tenendo in modo pacifico e tranquillo, e le sue labbra rimasero contratte in una smorfia di ribrezzo e freddezza.
«Ahah, è successo qualcosa?»
Rideva?
Osava ancora ridere, quello che aveva diviso la loro famiglia? Quello che le aveva fatto odiare la sorella?
Comunque non avrebbe mai odiato Belgio quanto odiava lui.
Aveva sempre voluto seguire le orme del fratello, e quale cosa migliore se non odiare a morte Spagna, tanto per cominciare?

Quando la lussemburghese sollevò il viso e guardò negli occhi dello spagnolo, lo vide sorridere, ma non era uno di quei sorrisi allegri e solari che si vedevano sempre sul suo viso, piuttosto una smorfia perversa ed assetata di sangue. Proprio come quella che si dipinse sulle labbra fini della castana.

«Ma guarda! La sorellina fedele che fa fuori il fratello~» il tono divertito dello spagnolo la mise subito sulle difensive, e le fece sparire il sorriso dal volto con altrettanta velocità.
«Pft, chi ti ha detto questa assurdità?» dissimulare non era da lei, ma si sarebbe impegnata per tessere una tela perfetta ed insospettabile.
«Quando si rimane tanto tempo soli in una stanza, le voci degli spiriti sanno essere ottime cantastorie.
La vostra è stata la mia preferita.» quando vide il suo sorriso, la lussemburghese non poté che digrignare i denti rabbiosa.
«Soprattutto perché a morire è stato proprio quell’idiota.»
L’urlo della lussemburghese risuonò all’improvviso, mentre questa si lanciava all’attacco facendo sibilare la lama della mezzaluna davanti al viso dello spagnolo.
«E adesso a morire sarai tu-!» lo spagnolo bloccò il colpo tendendo l’alabarda davanti al proprio viso, e con una spinta forte buttò a terra la castana, subito pronto ad infierire su di lei con la letale lama della propria arma.
«Z-zitto-» la lussemburghese rotolò sul fianco, rialzandosi a denti stretti, per il dolore alle ginocchia, e con presa salda su uno solo dei due pomelli di legno.
«Digame!
Com’è stato ucciderlo? Perché io mi sarei divertito davvero tanto!»
«Ho detto: zitto!»
La lussemburghese strillò rabbiosa, impegnandosi in un fendente che quasi colpì lo spagnolo al fianco, facendolo subito arretrare con uno sbuffo nervoso.
«Mi fai schifo.»
Sibilò nervosa, provocando nello spagnolo solo una smorfia di divertimento sul viso.
«Lui è molto meglio di te.
Lo è sempre stato!» la lussemburghese gli rivolse un altro fendente, e questa volta lo spagnolo arretrò di parecchio, armeggiando l’alabarda con lo sguardo assottigliato ed un’espressione nervosa stampata in volto.
«Sì, tanto che si è fatto ammazzare da sua sorella.»
Lo spagnolo rise divertito, e la lussemburghese si impegnò in una serie di fendenti che però, nonostante fossero davvero attenti e pieni d’ira, l’iberico riuscì ad evitare con maestria, ritrovandosi a qualche metro da lei.
«Tutto qui?»
E quando si guardarono negli occhi, entrambi capirono che era arrivato il momento di tacere, e temere il proprio avversario.

Lo odiava.
Da quanto? Da sempre, per quanto riusciva a ricordare.
Quello che aveva davanti era colui che le aveva portato via la sorella e aveva infettato la famiglia Van Halen dei primi problemi.
Colui che aveva osato urtare e rovinare quella perfetta quiete famigliare con il proprio germe corrosivo.

Avrebbe preferito l’olandese come avversario.
Ha sempre considerato Alice come l’ultima dei Van Halen, ultima fra gli stati d’Europa.
Solo un piccolo paradiso fiscale avaro, dove tutti vivono quatti quatti nel loro agio, mentre al di là dei confini c’è chi fatica a sopravvivere, chi muore di fame.

La lama dell’alabarda si abbatté contro la lussemburghese, ed Antonio fu sorpreso di vederla spostarsi così velocemente per evitare il colpo.
La fortuna dei principianti?
Lo spagnolo assottigliò il proprio sguardo e, più deciso che mai, seguì i movimenti della lussemburghese finché non riuscì a colpirle il fianco.
Di ciò, però, rimase poco soddisfatto: mirava alle gambe, perché era evidente che nei movimenti della lussemburghese ci fosse qualcosa di insolito, ed era sicuro che il suo dolore avesse origine proprio dagli arti inferiori.
«Ah-!»
La lussemburghese cadde a terra con un gemito di dolore, per poi rimettersi velocemente sulle ginocchia a denti stretti, massaggiandosi il fianco destro, già completamente insanguinato.
Quando Alice riuscì a strisciare di lato, ritrovandosi così la lama insanguinata dell’alabarda a pochi centimetri dal viso, capì che doveva agire in fretta ed ignorare il dolore al fianco ed alle gambe.
Si rialzò ed arretrò velocemente, sistemandosi la mezzaluna alla cinta, per poi afferrare la pistola e puntarla davanti a sé.
Quando vide Antonio sollevare nuovamente l’alabarda, strinse i denti e cercò il punto preciso, sparando un colpo deciso.
Lo vide fermarsi in un singulto di dolore, con l’alabarda a terra e la mano sinistra perforata stretta da quella destra, entrambe ormai già sommerse dal liquido rosso, così come le loro narici, punzecchiate da quell’odore metallico e nauseabondo che ormai stava riempiendo l’aria.
«M-Madre de Dios-!»
La lussemburghese ghignò appena «male?»
Sparò ancora, ma questa volta solo per farlo arretrare, e quando vide che la sua tela sembrava starsi tessendo perfettamente, non poté evitare un altro sorriso.
«¡M-maldita sea!» lo spagnolo strinse i denti, sollevando il viso con un’espressione rabbiosa a fargli da maschera: doveva recuperare l’alabarda, e subito, ma la lussemburghese si era già occupata di risistemare la pistola nella cinta e destreggiarsi con la mezzaluna.
Con un altro urlo liberatorio, Alice, si lanciò all’attacco, ma lo spagnolo riuscì a scattare di lato ed evitarla, non avendo alcun problema alle gambe, al contrario di lei.
Senza esitare un attimo di più, Antonio, le rivolse una gomitata violenta fra le scapole, buttandola a terra e ritornando a recuperare l’alabarda, che ora doveva maneggiare con una sola mano.
«Perché non raggiungi tuo fratello? Eh?!»
La lama dell’alabarda si abbatté ancora una volta sulla lussemburghese, questa volta facendo tremare il suolo per la forza impiegata dallo spagnolo: la lussemburghese rimase a pancia sotto, immobile, ad osservare con gli occhi sgranati quella ciocca di capelli tagliata dalla lama argentea.
Le era andata bene.
Ovviamente, quando tentò di rialzarsi, l’iberico, le piantò la scarpa sulla schiena, ributtandola a terra, ma Alice decise di sfruttare quell’occasione.
Stava abbassando la guarda.
Così convinto di vincere non stava certo guardando le sue mani, e così lasciò sotto di lei la mezzaluna, afferrando nuovamente la pistola dalla cinta.
Chiuse gli occhi, ascoltando il sibilo della lama sopra la sua testa, e contò fino a tre, mentalmente, per poi voltarsi e sparare un altro colpo.
Questa volta, il proiettile, perforò la mano destra dello spagnolo, che si ritrovò costretto a lasciare l’alabarda a terra, ma che senza arrendersi rivolse un calcio rabbioso al fianco insanguinato della lussemburghese.

Alice tossì sangue, ancora a terra, con il viso a pochi centimetri dal suolo, per poi sollevarlo appena, sorridendo divertita, con quelle labbra sporche di rosso.
Nonostante i calci dello spagnolo, che rischiavano seriamente di lesionarle le costole ed il fegato, quanto forti erano, afferrò nuovamente la mezzaluna, e gli colpì la gamba, facendolo arretrare appena.
Prima che Antonio tornasse all’attacco, fu di nuovo in piedi.
Spagna doveva riconoscerlo: era forte. Forte e con qualche rotella fuori posto, visto il suo sorriso estremamente divertito e soddisfatto sul viso. Esattamente come lui, dopotutto.
Adesso l’aveva lei il coltello dalla parte del manico, finalmente.
Si impegnò in un fendente con la sua fedele mezzaluna, facendo nuovamente arretrare lo spagnolo, che però riuscì ad afferrarle il polso nonostante la mano perforata e completamente insanguinata.
Antonio negò appena con la testa, a denti stretti: no, non si sarebbe lasciato annientare proprio da quella. Da Lussemburgo. Dalla sorella dei Paesi Bassi.
Alice, però, voleva la vendetta, ed in questo caso era un piatto di sangue caldo e sgorgante.
Fece forza, e riuscì a liberarsi dalla presa dello spagnolo, probabilmente intenzionato a lussargli il braccio, e finalmente poté colpirlo una seconda volta con la mezzaluna, questa volta allo sterno.
«Ahn-!» lo spagnolo arretrò ancora, dolorante, evitando gli altri fendenti.
«Sono … sono sicuro che è morto proprio come uno scemo, vero?»
Nonostante l’affanno nella voce, Antonio, continuò a provocare la sua avversaria con il sorriso stampato in volto.
«Ti ammazzo! Ti ammazzo Spagna!»
La lussemburghese strillò rabbiosa, alla risata dello spagnolo, e cercò di colpirgli il viso con la lama della mezzaluna, fallendo.
«Se hai ammazzato tuo fratello non credere tu possa uccidere anche me.
I-insomma, lui si sarebbe fatto battere da chiunque-» doveva ammettere, però, che tutte quelle ferite infertegli iniziavano a farsi sentire.
«Non devi neanche nominarlo!»
Alice inferse un altro colpo, ma la lama si abbatté contro la parete.
«Che poi … “fratello”. Un drogato non può certo definirsi così, eh?
Di certo non ti ha cresciuto come un fr-»
«Sta zitto!»
L’urlo della lussemburghese risuonò nella sala, e la voce dello spagnolo si arrestò di colpo, quando la lama affilata della mezzaluna penetrò nella sua gola.
Rimase a faccia a faccia con la lussemburghese, il respiro smorzato e la bocca aperta, piena di sangue.
«Questo …»
La lussemburghese arricciò il naso e digrignò i denti, andando appena più in profondità.
«È per Abel!» e con una forza disumana lasciò penetrare tutta la lama lungo la gola dello spagnolo, finché le ossa non si frantumarono, e la testa di questo non le cadde ai piedi.

«Non … non metterti mai contro l’acciaio.»

Sorrise, e calciò via schifata quella testa insanguinata, leccandosi il labbro soddisfatta.

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Capitolo 11
*** XI - Freddezza ***


XI – Freddezza


Stanza: Nr. 8, Stanza di Persefone
(Figlia di Demetra, regina della morte)
Posizione: Primo girone interno
Dimensioni: 150 m2
Temperatura: ca. 10 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 12:40 – 12:41



Il respiro della bielorussa si condensò davanti al suo viso, dissolvendosi lentamente nell’aria viziata e fredda della stanza.
La lieve luce che questa volta le veniva concessa la spinse a voltarsi verso la larga e spessa parete di ghiaccio attraversata poco prima e appena chiusasi alle sue spalle.
La mano della bielorussa scorrette appena lungo lo strato di ghiaccio, lasciando dietro di sé una lieve scia di sangue: aveva entrambe le mani sporche, a causa della ferita infertagli dall’italiano nella sala precedente. Chissà se adesso avrebbe davvero incontrato il secondo dei fratelli Vargas come sperava, solo per vedere la faccia di Romano dopo avergli raccontato della fine cruda e sanguinaria di Feliciano, e riderne divertita.
Avrebbe sorriso anche al solo pensiero, se in quel momento la gamba le avesse risparmiato una fitta assurda lungo tutto il corpo.
Abbassò il proprio sguardo e sbuffò innervosita, quando vide il lembo di tessuto legato intorno al ginocchio completamente rosso: era così zuppo di sangue che iniziava perfino a pesare.
Si chinò faticosamente, e cercò di rafforzare il nodo della stoffa e quindi la pressione sulla ferita, mordendosi il labbro inferiore per il dolore lancinante che, ad ogni passo, la attraversava e la percuoteva come una scossa elettrica.
Se voleva vincere anche la prossima sfida doveva giocare d’astuzia e non esporsi troppo, non fare lo stesso errore che le aveva procurato quella brutta ferita e, perché no, decisiva disfunzione.
In un gesto ansioso, la bielorussa si portò le mani alla coscia, tastando il manico dei pugnali, uno per uno, tutti e sei, assicurandosi che fossero sistemati tutti allo stesso livello, dopo averli ripuliti dal sangue sul proprio vestito: poteva farcela, se con lei aveva i suoi pugnali.
Quando mosse un passo deciso, trattenendo un gemito di dolore, il suo piede urtò qualcosa ed allora dovette fermarsi nuovamente.
Quando la vide, abbassando gli occhi senza muoversi, le sue labbra si incrinarono in un sorriso crudele e sornione.
Si chinò ed afferrò la pistola, lasciandosi quasi sfuggire una risata: con quella aveva la vittoria in pugno.
“Vediamo chi c’è qui~” pensò con le labbra incrinate in un sorriso agghiacciante, prima di baciare la canna lucida della pistola.

«Sorellina!»
E quando quella voce lagnosa e a volte insopportabile le giunse alle orecchie il suo sorriso si ampliò ancor di più, mentre già pregustava una vittoria purtroppo molto facile, ma fin troppo divertente.
Stava vicino al fratellone, troppo, e questa era l’occasione giusta per toglierla di mezzo.
Meglio di Romano, eh Natalia?
«Katyusha …» la bielorussa sussurrò il nome della sorella, rimanendo immobile e lasciando che fosse lei a trascinarsi fino a lei con le lacrime agli occhi, la voce lagnosa e quel suono riluttante dei suoi rozzi seni.
«Natalia, ma sei ferita!»
Finalmente aveva la possibilità di togliere di mezzo sua sorella e avere Ivan tutto per sé.
Immersa in quei pensieri non si rese neppure conto che la sorella si era appena strappata un lembo della camicia bianca, sotto la larga salopette di jeans, per cambiarle il bendaggio.
Quando poi sentì toccarsi la ferita, scostò la propria gamba riluttante.
«Lascia stare.»
«Che cosa è successo?»
Notò poi che gli occhi di Katyusha, prima di raggiungere i suoi, si erano soffermati sulla pistola stretta nella sua mano, e ricambiò quello sguardo spaventato con un sorriso divertito.
«Quella sarebbe la tua arma?»
L’ucraina seguì confusa lo sguardo della sorella, ed aggrottò appena la fronte «a-» deglutì confusa, osservando il forcone a pochi metri da loro, circondato da chiazze di ghiaccio «arma …?»
«Ma che fine ha fatto la sorellona che imbracciando il fucile con cappotto e colbacco se ne andava a combattere i nemici sulle montagne innevate?» la bielorussa ampliò il proprio sorriso continuando ad osservare la sorella chinata ai suoi piedi.
«N-non capisco-»
«Se ti vedesse Ivan.
Sei spaventata, vero?»
Spaventata, sì, ma soprattutto confusa.
Che cosa aveva Natalia?
Insomma, sapeva del suo carattere instabile, ma non si era mai rivolta così a lei, non l’aveva mai guardata con quel sorriso inquietante, e quegli occhi iniettati di sangue.
Di solito si mostrava soltanto fredda nei suoi confronti, ma questa volta c’era qualcosa di diverso, ed era evidente.
«Che cosa stai dicendo?»
L’ucraina parlò con gli occhi in fiamme, osservando spaventata la sorella.
La minore rimase in silenzio e si chinò su di lei, e non appena la afferrò per il colletto della camicia, sollevandola da terra, l’ucraina lasciò scivolare dalle proprie dita quella striscia di stoffa bianca con cui avrebbe voluto davvero aiutare la sorella, almeno alleviando il suo dolore al ginocchio.
Si ritrovarono faccia a faccia, e Katyusha si zittì, deglutendo appena cercando di fuggire dagli occhi penetranti della sorellina.
Era arrivata l’ora di spiegarsi meglio.
«Ti impedisco di arrivare a nostro fratello!»
La voce spiritata della bielorussa, accompagnata da quel pugno violento dritto sul viso, fecero arretrare velocemente l’ucraina, già con il naso insanguinato.
«N-nh-»
Confusa, l’ucraina, si portò una mano al naso, e quando la vide sporcarsi di sangue rivolse un’occhiata attonita alla sorella.
Prima ancora che potesse dire qualcosa, la bielorussa, le sferrò un altro pugno che la fece arretrare ancora e scivolare sul ghiaccio, quindi cadere a terra.
«Sei sempre in mezzo.»
Ogni volta che provava a rimanere sola col fratellone, lei arrivava con le sue lagne, e Natalia non ha mai sopportato tutto ciò.
Prima quel codardo di Italia, ora sua sorella: dovrà pregare per avere un avversario più forte nella prossima stanza?
Senza alcuna espressione sul viso, puntò la pistola contro l’ucraina, che sgranò gli occhi incredula, senza aver capito ancora lo scopo crudele del gioco.
«N-Natalia … ti prego-»
Oggetto di assoluto divertimento per la sorella, Katyusha, si ritrovò in poco tempo con il viso imperlato di lacrime, la forza di agire completamente sotto terra: dopotutto erano sorelle, ed un forcone contro una pistola non poteva fare niente, a meno che non avesse preso lezioni strette da Lussemburgo, che poteva uccidere anche con una forchetta, bastava soltanto che fosse di acciaio, ma ovviamente non era così.
Possibile che Natalia fosse davvero convinta di quel che stava per fare? E la divertiva davvero così tanto?
L’ucraina singhiozzò, continuando a guardare la smorfia divertita della sorella, per poi sgranare gli occhi felice e lasciar andare un sospiro di sollievo, quando vide un’altra figura poco lontana dalle spalle di Natalia.
«Ivan …»

Il russo si stava avviando silenziosamente verso di loro, ed il sorriso spontaneo dell’ucraina scomparve non appena lo vide tendere un braccio ed afferrare con la mano un Kalashnikov e puntarlo dritto verso lei e sua sorella.
Natalia non ebbe neppure il tempo di voltarsi.

Dopo il suono assordante dei proiettili contro le carni, a terra, rimasero solo i vestiti insanguinati ed i corpi martoriati, insanguinati e fumanti.
Vero: una vittoria troppo facile, peccato se la fosse appena presa Ivan, che rimase ad osservare i vicini corpi senza vita delle sue sorelle con un sorriso sadico in volto.

Ad Ivan piaceva il tepore della famiglia, ma ancor di più il sangue caldo di quando uccideva per i propri interessi.

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Capitolo 12
*** XII - Sorte ***


XII – Sorte


Stanza: Nr. 9, Stanza di Eros
(Dio dell’amore)
Posizione: Primo girone interno
Dimensioni: 150 m2
Temperatura: ca. -5 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 12:00 – 12:25



Batté i denti, stringendosi in se stesso, per poi tirare su col naso per l’ennesima volta.
L’impressione che lì dentro, al di là di quella luce centrale, ci fosse qualcuno nascosto nel buio proprio come lui in quel preciso istante, diveniva di minuto in minuto sempre più soffocante, ed ecco che presa una profonda boccata d’aria, sentendosi soffocare, si voltò verso la parete, adagiando entrambi i palmi delle mani sulla fredda parete di pietra e ghiaccio.
Deglutì, tirando ancora su col naso: ancora qualche ora lì dentro e sarebbe morto disidratato, nonostante fosse abbastanza abituato a climi del genere e ne avesse vissuti di peggiori.
Senza scostare le mani dalla parete, si mosse proprio in prossimità di essa, ma senza trovare alcun uscita.
«Tipo, cioè, dove sono finito?!» sembrò sibilare indignato, aggrottando la fronte e stringendo i denti quasi volesse spostare uno dei grossi mattoni di pietra per crearsi una piccola uscita.
No: quei mattoni parevano intenzionati a rimanere lì, con il ghiaccio ad occupare le sottili crepe fra loro, facendo brillare la parete come fosse coperta di diamanti.
Il polacco sbuffò nervoso, e si voltò di scatto, poggiando la schiena alla parete finendo chinato a terra, con le mani rilassate lungo le cosce, fino a far combaciare ginocchi e polsi e lasciando le mani a penzoloni.
«E ora che cosa faccio …?»
Trovare un’uscita: facile a dirsi, ma decisamente troppo complicato a farsi.
Il polacco sospirò rassegnato, abbassando la testa.

«Polonia!»
Quando sentì quella voce poco distante da lui sollevò il viso e si lasciò sfuggire un sorrisino soddisfatto: la fortuna girava dalla sua parte.
«Lit!»
Gli venne spontaneo ricambiare il richiamo sorpreso del lituano, per poi alzarsi velocemente e buttargli le braccia al collo.
«Allora! Tipo, hai trovato l’uscita?!» ecco, si sentiva decisamente più tranquillo, ora che poteva lasciare tutto nelle mani dell’altro.
«Speravo l’avessi trovata tu …»
Il polacco negò appena, battendo i denti quasi all’unisono con il baltico.
«S-si può sapere come ci siamo finiti qui, Lit?»
Lituania sperava che anche questo potesse dirglielo il polacco, ma a quanto pareva, ne sapeva quanto lui.
Sospirò, sfregandosi le mani lungo le braccia per riprendere un po’ di sensibilità agli arti.
«Ricordo soltanto che quando io ero in piedi, tu ancora dormivi.»
Era quasi un anno, ormai, che condividevano lo stesso letto e la stessa casa, finalmente tornati insieme, con Toris ormai quasi del tutto libero dalla schiavitù di Russia, nonostante alcune volte ne risentisse ancora.
«Stavo preparando la colazione e …»
«E-?»
Il lituano negò appena con il capo, capendo che ogni tentativo di ricordare sarebbe stato vano «non lo so, è successo qualcosa, e poi ci siamo ritrovati in quella stanza con tutti gli altri …»
«Come non lo sai? Tipo, io stavo dormendo e … che è successo a casa nostra?!»
«Non me lo ricordo, non me lo ricordo davvero-»
Anche Toris tirò su col naso, scostando i propri occhi da quelli smeraldo del compagno per guardarsi alle spalle «non ci sono uscite, qui.»
«E allora dobbiamo morire di freddo?» Feliks non aveva certo intenzione di rimanere lì a congelare; non voleva morire di freddo, non senza combattere.
«Mhn-» anche Toris era di quell’idea, anche se si limitò a brontolare soltanto, già arreso a quelle quattro mura serrate e strette intorno a loro, con quell’unica, flebile luce al centro.
Le braccia del polacco all’improvviso strette intorno al suo torace non poterono che distrarlo da quell’ansia soffocante, facendolo allo stesso tempo arrossire appena e sentirsi decisamente più rilassato: ma Feliks voleva combattere oppure resistere al freddo sfruttando la temperatura dei loro corpi? A vederlo in quel momento, con il viso completamente immerso nella divisa verde del lituano, c’era da pensare che anche lui si fosse già arreso e avesse optato per la resistenza, ma invece, dopo poco, lo vide nuovamente allontanarsi da lui con il viso quasi imbronciato.
«Troviamo un modo per uscire di qui!»
Aveva ripreso completamente quell’ostinazione tipica di lui, ed il lituano non poté che annuire fermamente.
Quando Toris gli diede le spalle e fece per allontanarsi, dirigendosi verso l’estremità della stanza opposta a quella del polacco, lo sentì strepitare vivacemente «e mi raccomando, sbrigati a trovare l’uscita, cioè!»
«Ah-!» il collo del lituano sembrò non riuscire più a reggerli la testa, visto che questa si abbatté velocemente verso il basso, con quell’espressione frustrata stampata in volto: Polonia non perdeva occasione per affibbiare tutte le responsabilità a lui, dopotutto.

Le suole degli anfibi sprofondarono appena in una grossa chiazza di brina argentea a pochi metri dal cerchio di luce centrale, ed il lituano non poté che sgranare gli occhi, quando quella pistola parve piombare dal cielo e cadergli ai piedi.
Subito, si disegnò sul suo viso la maschera della paura: pregò perché non si trattasse proprio del pensiero che si era appena insinuato nella sua mente, terrorizzandolo.
Quando la raccolte, la voce lontana del polacco lo fece rabbrividire.
«Ehi Lit! Ho trovato una pistola!»
«Anche io …» borbottò con lo sguardo fisso sulla pistola, senza che il biondo potesse sentirlo, e rimase fermo nel suo silenzio, con il solo desiderio che il polacco non si avvicinasse, o chissà, che un terremoto improvviso riuscisse a far crollare almeno una delle quattro pareti, magari.
Perché?
Piuttosto avrebbe preferito barattare quella situazione orribile con altri anni di schiavitù a casa di Russia. Tutto, piuttosto che essere costretto a fare del male all’uomo che amava ed al quale, quella sera, avrebbe avuto l’intenzione di chiedere la mano.

«Lit?»
«Ne ho trovata una anche io.» fu spontanea quella risposta, ma non si voltò verso il polacco, chiaramente fermo a pochi metri da lui.
«Polonia-»
Ruppe il silenzio dopo qualche attimo, e senza attendere la risposta dell’amico continuò a capo chino, rigirandosi fra le mani la pistola.
«Queste di certo non rompono un muro.»
«Sì, cioè, ma a qualcosa dovranno pur servire …»
Il polacco si affianco al compagno, soffermandosi con lo sguardo su quelle mani pallide strette alla pistola argentea.
«Appunto.»
Il polacco aggrottò la fronte ed inclinò appena il viso, cercando gli occhi del lituano, non trovandoli, visto che con il capo chino, i capelli castani di lui, gli stavano ormai coprendo il volto.
Rimase in silenzio, portando una mano su quelle del lituano, chiuse intorno alla pistola.
«Lit-»
Il polacco brontolò appena, senza scostare gli occhi da lui.
«Senti Feliks, ce la faresti?»
«A fare cosa?» ed aggrottò la fronte confuso.
«A … combattere contro di me-»
Si risparmiò il “ad uccidermi” che gli stava martellando la testa da un po’, ormai, e deglutì appena, tornando a sollevare la testa per dedicargli un veloce sguardo, con gli occhi velati di lacrime.
«E … e perché dovremmo, cioè?» ma che stava dicendo, Toris? Voleva quasi chiedergli se non si fosse drogato, ma guardando i suoi occhi, capì che non era certo così: era serio. E dispiaciuto.
«Penso che sia così-
Hai sentito Natalia? Prima di entrare ha detto “questa volta” e ciò significa che qualche mese fa, quando lei ed Ivan sono spariti, probabilmente, sono coinvolti in qualcosa di strano, di … abominevole.»
«Lit, tu ti sei tipo fatto troppo impressionare dalla scritta!»
«Mh, la scritta.
Può vincere uno solo, e ci chiudono in una stanza senza uscita, con delle armi.»
Il lituano si zittì, e sospirò, rimanendo ad osservare il polacco, alquanto spiazzato da quel discorso.
«Mi dispiace, ma credo che la sorte abbia deciso di metterci l’uno contro l’altro …»
Toris sospirò appena, lasciando che il fiato si condensasse davanti al suo viso, mentre il polacco batté i denti, percorso da un brivido di orrore, e non di freddo, che ormai, di fronte a quella situazione disperata, sembrava ormai essere scomparso.
«Allora …» il polacco arretrò appena, socchiudendo gli occhi abbassando la pistola «buona fortuna.»
«Anche a te.» il lituano ricambiò con voce flebile, allontanandosi da lui.

Erano entrambi sinceri, l’uno nei confronti dell’altro, e sofferenti al sol pensiero di dover uccidere il proprio futuro sposo.

Il lituano prese una boccata d’acqua, assaporando il gelo nella propria bocca, e chiuse gli occhi puntando l’arma davanti a sé, cercando di catturare qualche movimento oltre il cerchio di luce, nella penombra: non aveva senso. Sarebbe stato meglio se uno di loro avesse scelto subito il sacrificio e si fosse fatto sparare dall’altro in testa, giusto per essere sicuri che il tutto fosse indolore.
Prima che potesse premere il grilletto, un proiettile, sibilò nell’aria e gli colpì il braccio destro, facendolo gemere di dolore.
Subito, il lituano, si assicurò con occhi e dita, che la ferita non fosse troppo grave, e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, quando capì che il proiettile l’aveva soltanto appena sfiorato.

Il polacco sentì chiaramente l’ansia ribollire nel sangue.
Con quel colpo avrebbe anche potuto ucciderlo. Lui.
Lui che uccideva il suo migliore amico.
Gli tremarono le braccia, e ancora una volta gli batterono i denti, mentre la pelle del viso rimaneva tesa a causa del freddo pungente, e riusciva ad aggrottare solo appena la fronte, cercando di resistere ad un insolito pianto.
Lui era la Fenice, la leggendaria Polonia, che risorgeva anche dopo smembramenti violenti e davvero poco ortodossi, ma non se ne parlava di questo: non poteva uccidere davvero Lit.
Aveva sparato forse solo per rassicurarlo, per dirgli, mentendo, che era pronto ad ucciderlo pur di … di cosa?
Perché una volta morto lui, o ucciso Lituania, cosa gli spettava?

Le braccia del polacco non smisero di tremare, e così anche le mani, che a fatica riuscivano ad impugnare la pistola, e l’ansia, il continuo chiedersi se era proprio così, se doveva uccidere il suo amico, gli costò caro.
Un proiettile passò da parte a parte, disegnandogli un buco nel petto, dal quale presto iniziò a sgorgare il sangue.
Quando il lituano lo sentì gemere dolorante, e poi tossire a fatica, non perse tempo e gettò la pistola, raggiungendolo e chinandosi su di lui.
«F-Feliks-!» la brina ed il ghiaccio intorno a lui erano ormai tinti di rosso, l’aria impregnata di un odore metallico e nauseabondo.
«Feliks …»
Quando gli sollevò la testa con le mani, il polacco, aprì gli occhi a fatica, lasciandosi sfuggire un sospiro rotto e dolorante.
«Facciamola … facciamola finita, Lit-»
Il polacco gli sorrise appena, con gli occhi velati di lacrime e le labbra sporche di sangue, porgendogli la sua pistola.
«M-ma Feliks, io-» il lituano si ritrovò praticamente costretto a prendere la pistola del polacco, lasciandosi sfuggire una lacrima.
Il polacco rimase in silenzio e gli accarezzò la guancia, portandogli via le lacrime, per poi lasciare che il suo piccolo sorriso si spegnesse.

Fra loro ci fu solo il suono di uno sparo.
Una pallottola che frantumò lo specchio di un’esistenza e spense quella flebile ma ancora bellissima fiamma di vita, sbriciolando ogni sogno segreto.

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Capitolo 13
*** XIII - Vendetta ***


XIII – Vendetta


Stanza: Nr. 11, Stanza di Afrodite
(Dea della bellezza)
Posizione: Primo girone interno
Dimensioni: 150 m2
Temperatura: ca. 33 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 12: 30 - 12:49



«Fatti-vedere!»
Il ringhio furioso dell’albino risuonò nel buio, con i denti stretti in una smorfia rabbiosa, le gengive arrossate e la pelle del volto contratta, le mani strette a pugno, la destra con le dita ormai completamente bianche e prive di circolazione strette intorno alla pistola.
Le vesciche nate sui palmi a causa delle bruciature fattosi poco prima iniziavano già a bruciare terribilmente, così come la schiena, ed il fianco ferito, ma poco importava.
Suo fratello era morto, ucciso da lui stesso, ed ora più che mai, Gilbert, desiderava la sua vendetta, desiderava poter vedere in faccia l’artefice di tutto ciò, nonostante immaginasse si potesse trattare solo e soltanto di un fantasma sadico. Non era certo Isabelle, non quel fantasma che Arthur aveva chiamato e che finalmente li aveva liberati dalla casa di Berkeley Square.
Non era mai stata Isabelle a spingere America alla pazzia, ma qualcun altro, e Gilbert era rimasto sempre fermamente convinto di ciò.
Isabelle era soltanto una povera vittima come loro, anche al di là della soglia della vita.

Gilbert prese una boccata d’aria e chiuse gli occhi, respirando profondamente.
Quando una goccia di sudore gli attraversò la tempia pallida, spalancò gli occhi, e le sue iridi di fuoco e sangue furono ferite da una lieve luce, proveniente da una crepa.
Dovunque portasse quell’uscita, Prussia, era più determinato che mai a fare la sua vendetta, e rendere suo il prossimo campo di battaglia.
Certo, però, che non poteva lontanamente immaginare quale sarebbe stato il suo avversario: ecco perché in quel momento era così determinato e si diresse a passi rapidi verso la crepa, attraversandola senza indugio, ignaro di quanto sadica ed agghiacciante potesse essere la sorte.

Compì i primi passi in quella stanza ad occhi chiusi, e tese la mano sinistra, afferrando al volo il fucile sospeso in aria che poteva chiaramente percepire a poca distanza da lui.
Le dita delle mani si strinsero intorno alle due armi, e poi aprì gli occhi, spalancandoli del tutto, quando vide quel sorriso divertito e quel volto livido a pochi metri da lui.
«Prussia!»
Quella voce squillante gli fece tremare appena le braccia, e ancora non riusciva a credere alla sua vista, tanto che i suoi occhi rimasero sgranati e brucianti.
Rimase ad osservare attonito il nuovo avversario, che al contrario di lui pareva soddisfatto e davvero divertito dalla situazione.
«Finalmente …» e quando lo sentì sussurrare, con quel sorriso agghiacciante stampato in volto, capì che non era la stessa persona che aveva visto prima di entrare nelle stanze. Bensì un pazzo, un debole persosi nell’oscurità, e dalla quale ormai non riusciva più a scappare.
«Potrò …»
Sospirò ancora, chinando il capo senza smettere di sorridere e puntandogli il fucile contro.
«Avere la mia vendetta!»
La flebile luce che filtrava da una delle crepe andò a colpirgli per un breve attimo le lenti degli occhiali, ed un raggio più forte arrivò agli occhi del prussiano, facendogli scuotere la testa infastidito ed arretrare di un passo, mentre il primo proiettile veniva liberato dal fucile stretto dalle mani frementi dell’americano ed evitato per miracolo dall’albino.

«Prussia! Ahahah!
Voglio vederti, mentre strisci ai miei piedi! Voglio bagnarmi del tuo sangue!»
L’americano rise con la sua voce squillante, ma non era una risata allegra ed energica come quelle che spesso si sentivano.
Era un distorto vociare della sua anima corrotta dalla pazzia.
Comprensibile che volesse la sua vendetta, dopo essere stato scoperto ed ucciso proprio dal prussiano, diversi mesi fa, nella casa di Berkeley Square.
«Allora, con chi ti sei scontrato prima di venire qui~?»
Gilbert rimase in silenzio, assottigliando lo sguardo nervoso e sollevando appena la pistola, ricordandosi di tutti i discorsi fatti a Berkeley Square sui legami di sangue.
Gilbert, che aveva sofferto tanto la morte del fratello minore e che aveva voluto punire America per aver ucciso Canada, e che ora si ritrovata macchiato proprio del sangue di Ludwig lì, al cospetto di uno psicopatico estremamente determinato a toglierlo di mezzo e dargli una lezione.
«Sta zitto!»
Gilbert sparò due colpì quasi consecutivi con la pistola, urlando di rabbia.
Se America era determinato, la Magnifica Prussia, lo sarebbe stata il doppio.
Alfred schivò il primo, ma il secondo gli sfiorò la schiena, aprendogli un taglio non troppo profondo ma comunque lungo, in orizzontale.
«Ah-
Avanti, perché così arrabbiato?»
Quando incatenò i propri occhi a quelli dell’americano, l’albino capì che Alfred, in qualche modo, sapeva già tutto, forse per intuito, forse perché qualche fantasma “gentile” lo aveva aggiornato e tenuto al corrente di tutto scrivendogli qualche bella frase insanguinata sulle pareti. Capì che voleva soltanto sentirglielo dire.
«Ahhh!» l’urlo roco del prussiano risuonò nella stanza, mentre il naso fine si storceva così come le labbra, in un ghigno rabbioso, ed altri proiettili venivano scagliati contro l’americano, fino a far scaricare la pistola.
Quando Gilbert guardò l’americano, lo vide con una spalla sanguinante, e non poté che lasciarsi sfuggire il primo ghigno di superbia che, si augurava, fosse solo il primo di una lunga serie.
«Maledetto-
Lo so.
Lo so che hai ucciso tuo fratello. Tu. Non eri tu che tenevi tanto all’essere fratelli?
Sì. Eri proprio tu.
Gilbert Beilschmidt, che ha ucciso il suo caro fratellino.»
Il ghigno sul viso di Gilbert era già sparito.
Gli occhi erano puntati sulla figura dell’americano, il capo appena chino, le labbra contratte in una smorfia fredda ed amareggiata, i muscoli del corpo tesi, ed i senti attenti.
Non poteva permettersi di perdere.
Quando Alfred sparò altri due colpi col fucile, il prussiano, si ritirò velocemente nel buio e lasciò il fucile a terra, tendendo una mano nell’oscurità per veder scendere fra le sue dita diversi proiettili, e si lasciò andare in una risata concitata, quando riuscì a ricaricare la pistola e riprendere il fucile, tornando all’attacco.
Questa volta, però, nessuno sparò, ed i due contendenti si corsero in contro sfogando la loro rabbia in urla roche e disperate.
I due fucili si scontrarono, ed il viso distorto dell’americano si ritrovò a pochi centimetri da quello dell’altro, finché, con una forza eccessiva, riuscì a disarcionare il fucile di Gilbert, buttandolo a terra e calciandolo lontano, portando avanti la colluttazione piantandogli la canna della propria arma nello stomaco, con un movimento secco.
«Nh-!»
Gilbert cadde a terra, e di nuovo gemette, contro il pavimento bollente.
Aveva perso il fucile, e anche la pistola gli era scivolata di mano, ed ora si ritrovava a pochi centimetri dalle sue dita.
«U-uf-»
Aveva le dita ormai quasi del tutto adagiate sulla canna della propria pistola, quando il piede dell’americano la calpestò e la calciò via.
«Senza armi?!
Ahahah! Striscia, Prussia!»
Gilbert strinse i denti rabbioso, cercando di rialzarsi, sorpreso nel vedere che l’americano aveva deciso di gettare lontano anche il proprio fucile.
Aveva deciso di lottare a mani nude? Bene, perché di certo Gilbert aveva una marcia in più, non avendo un proiettile conficcato nella spalla sinistra.

Quando il prussiano fu in piedi, il gancio destro dell’americano arrivò a qualche centimetro dal suo volto, bloccato da entrambe le mani di Gilbert.
«Hai ucciso tuo fratello, Prussia.»
Gilbert rimase ad osservare gli occhi azzurro cielo dell’americano: possibile che la cura che stava affrontando, nonostante fosse una cosa che ormai si protraeva da mesi, nonostante accanto a lui vi fosse Arthur, non funzionasse?
Forse no. Forse funzionava, ma era talmente arrabbiato con lui, che il desiderio di vendetta aveva ormai vinto su tutto, persuaso ogni palpito razionale nella mente dello statunitense.
Alfred rimase a pochi centimetri dal viso del prussiano, sorridendo divertito; talmente tanto accecato dalla sete di vendetta che quella spalla insanguinata non aveva mai fatto male da quando era stata colpita dal proiettile del prussiano.
«Tu … devi morire.»
L’albino fu travolto da una forza inaspettata, e di nuovo buttato a terra, ritrovandosi la scarpa dell’americano piantata nello stomaco prima di potersi rialzare.
«A-ahn!»
«Striscia.
Fa come hai fatto durante la Seconda Guerra Mondiale.
Fammi vedere ancora una volta quanto misera sia la tua esistenza, quanto tu sia poco “magnifico”!»
Le parole dell’americano servirono soltanto a caricarlo, a farlo reagire, e Gilbert riuscì a rialzarsi, colpendolo in viso con un pugno rabbioso.
«Nh-!»
L’americano arretrò e si portò una mano al naso sanguinante, pensando quasi fosse rotto, per quanto forte fosse stato il pugno assestatogli dall’albino.
«Mi fai schifo!
Io ho ucciso mio fratello perché non avevo altra scelta! Di certo non mi sono fatto corrompere dalla pazzia come te!»
«Finalmente parli …»
«Tu hai una misera esistenza, America.
Tu che uccidi tuo fratello senza motivo, e che ti sei divertito a separare West da me, insieme a tutti gli altri bastardi degli Alleati!»
«Shut up!»
E questa volta fu l’americano a scagliare un gancio destro contro il viso del prussiano, facendogli perdere ancora l’equilibrio.
Gilbert non cadde a terra, ma sentì fin da subito il sangue riempirgli la bocca, il dolore del labbro rotto e della pelle lacerata ed insanguinata.
Prima ancora che Gilbert potesse rimettersi in equilibrio, un pugno allo stomaco gli fece sputare sangue sulla giacca dell’americano, e poi cadde penosamente a terra, cercando di rialzarsi a fatica.
«Oh, questo tuo bel visino rovinato così, ahahah!»
Gilbert si ritrovò a strisciare sulla pancia, con espressione dolorante in volto, quando lo statunitense gli piantò una scarpa al centro della schiena, esercitando forte pressione, con il solo desiderio di sentire le vertebre frantumarsi sotto il suo sadico volere.
«A-ah-» Gilbert tossì ancora, e rimase ad osservare il sangue a pochi centimetri della sua bocca, per poi ritrovare un po’ di spinta sul pavimento, urlando a causa del suolo bruciante contro i palmi nudi e già danneggiati delle mani.
«Tu! Tu sta zitto!»
Riuscì ad intrappolare le gambe dell’americano con le sue, facendolo sbilanciare, ma servì soltanto a farlo cadere sopra di lui, ancora, con quei visi contratti dalla rabbia e dalla sete di sangue, l’uno contro all’altro.
«No …
Sarai tu quello che tacerà per sempre.» l’americano sorrise divertito, sollevando il pugno chiuso in aria, conducendolo poi al viso insanguinato del prussiano con un movimento netto, pieno di rabbia.

Quando Gilbert riaprì uno degli occhi, vide l’americano già lontano, e si sentiva la testa terribilmente pesante, dolorante, la bocca piena di sangue, che le labbra rotte lasciarono scivolare ancora, la guancia scottata dal suolo ardente.
Eccola qui, la Magnifica Prussia.
Gilbert Beilschmidt, che ha ucciso suo fratello ed ha provato a difendere il suo onore, fallendo miseramente.
Eccola, questa Prussia che si sente troppo debole, per tornare in piedi.

L’aveva già percepita sulla pelle, Gilbert, la carezza della morte, sentito il gusto dell’abisso nero nella sua bocca, con il cuore soffocato dai rovi dell’eterno.
«Ent-entschuldigung …»
Farfugliò.
La voce flebile, la bocca impastata di sangue e dolore, l’unico occhio debolmente aperto vitreo, e velato di lacrime.
«West …»

Eccola qui, la Magnifica Prussia, che decide di morire con la croce di ferro stretta in un pugno posto sul cuore.

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Capitolo 14
*** XIV - Ira ***


XIV - Ira


Stanza: Nr. 18, Stanza di Nike
(Dea che personifica la vittoria)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: 100 m2
Temperatura: ca. 45 °C
Fonti di luce: Discreta luce proveniente da una grossa crepa
Ore: 13: 10 - 13:21



Aveva avuto quel che meritava.
Se Lussemburgo non avesse intuito che al di là della crepa appena apertasi in una delle pareti avrebbe trovato un altro avversario, si sarebbe portata volentieri dietro la testa di Spagna: un bellissimo trofeo.
Ormai si sentiva parte di quel gioco macabro ed apparentemente senza senso, ed era come se, uccidendo Antonio, avesse riacquistato le energie sfruttando le sue.
Sbuffò giusto appena quando vide il fianco destro completamente insanguinato, e si lasciò sfuggire un gemito, quando vi adagiò sopra la mano.
Le gambe, ora, erano il minore dei problemi.
«Merda …»
Sibilò, strappando un lembo della canottiera, lasciando coperti solo i seni, visto il caldo insopportabile all’interno di quella stanza, e riuscì a ricavarne una striscia abbastanza lunga da stringerla in vita e coprire la ferita al fianco; ovviamente, però, quella stretta al torace le fu subito di intralcio, facendole trovare diverse difficoltà nella respirazione.
Rimase ad osservare la crepa davanti a sé, passandosi fra l’indice ed il medio la ciocca castana tagliata di netto dall’alabarda dello spagnolo, poi si chinò sugli anfibi e rinforzò le stringe, dirigendosi verso la prossima stanza.
«Mir wëlle bleiwe wat mir sinn-» chiuse gli occhi, sussurrando il motto lussemburghese con la voce appena indebolita dal dolore, poi entrò.

«Mi dispiace Sophija, ma non possiamo sopravvivere entrambi.»
«Non penserai che ti lascerò vincere solo perché sei mio amico, eh?»
Alice si fermò a pochi centimetri dalla crepa, che già dietro di lei iniziava a richiudersi, osservando le due figure che le stavano davanti, l’una con la pistola puntata contro l’altra.
Due persone per le quali provava solo odio ed antipatia.
Rimase in silenzio, e si sistemò la mezzaluna in vita, stringendo la pistola fra le dita: sua sorella Belgio, e il maleducato schiavetto dell’idiota spagnolo: perfetto, avrebbe staccato la testa anche a loro.
La belga fu la prima ad accorgersi della sua presenza, urlando il suo nome con uno spontaneo sorriso allegro in volto.
«Alice!
Sorellina!»
E a queste parole seguì uno sparo, il sibilo di un proiettile pericolosamente vicino a lei.

Alice si spostò di un passo, con un movimento calmo, osservando con sguardo apatico la pistola fumante stretta nella mano dell’italiano.
«Lussemburgo.»
«Süd-Italien …»
Riuscirono a guardare l’uno negli occhi dell’altra solo per qualche istante, perché la sorella maggiore spinse improvvisamente l’italiano, facendogli sbattere la schiena contro la parete rovente della stanza e puntandogli la pistola alla fronte.
«Non ti devi permettere.
Non devi permetterti, mai, di toccare mia sorella.»
La belga strinse i denti rabbiosa, facendo aderire la canna di pistola alla fronte dell’italiano, mentre la lussemburghese se ne rimase a diversi metri da loro, impassibile, nel suo silenzio, ad osservare la scena.
Aveva notato la pistola di Lovino puntata al petto della sorella. Eccome se l’aveva notata, ma quella era la stessa sorella che aveva abbandonato lei ed Abel per seguire un’altra strada, per diventare amica proprio di Spagna e di Sud Italia, e lei e l’olandese non erano mai riusciti ad accettare una cosa simile.
In onore di Abel, in rispetto del fratello tanto amato, avrebbe lasciato alla sorella un amaro prezzo da pagare.
Eppure era … sua sorella.
Alice fece per dire qualcosa, ma le sue labbra si serrarono, non appena ricordò i capelli biondi e mossi della sorella che le ricadevano sulle spalle, il fiocco rosso sulla schiena: le spalle e la schiena che aveva deciso di dare alla famiglia nonostante gli anni di affetto precedenti.

«Scusami Lovino, ma non credo che riuscirai ad uscire vivo di qui!
Ti ucciderò prima che tu possa torcerle un solo capello-!»
«E allora fallo.» l’italiano sibilò appena, contro gli strepiti della belga, alla quale la mano parve tremare.
«Forza, che ti prende?
Mi spiace …» ma quelle parole erano evidentemente false, perché l’italiano non esitò a sparare un colpo nel petto della belga.
«Ah-!» il corpo della bionda si riversò a terra, e agonizzante, con le mani a terra, incatenò gli occhi verdi a quelli castani della sorella minore.
«Al-Alice …»
«Che idiota Sophija, neanche ti sei accorta della pistola che ti stavo puntando al petto.» l’italiano sorrise, mentre la lussemburghese rimase ancora impassibile.
«Alice-»
«Ja, sei stata un’idiota.»
La lussemburghese si limitò a queste parole, mentre la belga tendeva in avanti la mano tremante, come se quei metri non fossero nulla e potesse raggiungerla in un attimo.
«E adesso ucciderò la tua sorellina.»
Quando la belga vide il sorriso sul volto dell’italiano, non poté che preparare una sfuriata contro di lui, con le poche energie rimaste, ma prima ancora che potesse aprire bocca, il richiamo della sorella, la fermò.
«Senti Sophija …»
Adesso, l’espressione sul volto della castana, non era più impassibile, ma triste ed amareggiata.
«Io ho …
Io ho ucciso nostro fratello.»
La bionda sgranò gli occhi, non credendo alle sue orecchie.
Alice? Alice aveva ucciso Abel? Il fratello che tanto amava? Il loro fratellone?
La belga rimase ad osservarla con gli occhi sgranati per qualche attimo, arrancando con le dita della mano sinistra sulla divisa ormai tinta di sangue, per poi aggrottare la fronte in un’espressione collerica.
«T-tu!
Idiota!» la belga le puntò la pistola contro e fece per premere il grilletto, talmente tanto velocemente che, se non fosse stato per Lovino, la pallottola gli si sarebbe andata a conficcare nella testa e l’avrebbe uccisa sul colpo.

«Taci.»
L’italiano brontolò nervosa, piantando una pallottola nella testa della belga e troncando la sua vita senza alcuno scrupolo, per poi tornare a rivolgere la propria attenzione alla lussemburghese.

Alice ghignò, sistemando la pistola alla cinta ed afferrando la mezzaluna, facendola splendere sotto il raggio di luce che illuminava quasi tutta la stanza.
«Finalmente soli.»
Lovino ricambiò quel ghigno spavaldo sul viso della lussemburghese, che però volle subito giocare la carta migliore a sua disposizione ed infastidirlo.
«Sei così convinta di vincere? Che cogliona.»
«Vuoi sapere qual è stato il mio avversario, prima di te?» la castano assottigliò il proprio sguardo, ampliando quel ghigno divertito.
«Sentiamo.» Lovino intuì che Abel doveva essere stato il primo, e poi, sicuramente, ce n’era stato un altro, e si poteva notare benissimo per come le vesti della lussemburghese erano ormai ridotte: dovette riconoscerle un po’ di rispetto, per quella volta.
«Spanien.»
Lovino rimase in silenzio, ma il sussultò che il cuore ebbe nel petto gli fece desiderare di non essere vivo, per il male che quel piccolo organo gli diede in quel momento.
«Non parlare quella lingua di merda.»
Sibilò nervoso, cercando di rimanere indifferente a quella notizia inaspettata.
Davvero Antonio si era fatto battere da una ragazzetta del genere? Che imbecille.
L’italiano, però, era sicuro che il gioco della lussemburghese fosse ormai giunto al capolinea, e che Antonio sarebbe stato vendicato.

Prima che l’italiano potesse spararle, la lussemburghese tese una mano nella luce, ed afferrò la terza arma che le spettava di diritto.
«Oh-oh~» quando le mani della lussemburghese circondarono l’impugnatura di un mazzafrusto, ovviamente chiodato, le sue labbra si incrinarono in un sorriso divertito.
«Ho questo, la mia cara mezzaluna ed una pistola. Non credo te la potrai cavare tanto facilmente.»
«Io la mezzaluna per fare il soffritto la riporterei in cucina, se fossi in te.»
Sì, effettivamente, la differenza di armi era notevole e non c’era dubbio che Lussemburgo fosse abile nell’utilizzarle, e lui lo sapeva bene, avendola già osservata più volte, ma era anche vero che era ferita, e affaticata, forse non dal combattimento col fratello, ma sicuramente sì, da quello con Spagna.
Alice non era la sola ad odiarlo. Lovino ricambiava a pieno i sentimenti della lussemburghese.
Una ragazzetta cresciuta da due persone schifose come Germania e Francia: era logico che la odiasse.

Senza pensarci troppo, l’italiano sparò il primo colpo contro la lussemburghese, che dovette fare i conti con la lentezza infertale non solo dalle ferite, ma anche dalla concretissima pesantezza del mazzafrusto.
«Merda-»
«Che c’è? Sei in difficoltà, per caso?»
Lovino poteva sfruttare ogni cosa a suo favore: di certo, con una sola pistola e senza ferite, sarebbe stato molto più rapido di lei, per quanto esperta e ben addestrata potesse essere.
Alice, dal canto suo, non aveva intenzione di farsi mettere al muro, e scagliò la mezzaluna contro l’italiano.
L’arma metallica si schiantò contro la parete, transitando a pochi millimetri dalla guancia del castano, che strinse i denti nervoso.
«Cazzo-»
«Che c’è? Sei in difficoltà tu, adesso?»
E senza esitare, lasciò che la palla chiodata del mazzafrusto fendesse l’aria, schiantandosi contro alla parete frantumando appena la pietra rovente.
L’italiano era riuscito a scansare il colpo per miracolo, e non appena fu più lontano dalla lussemburghese si tolse la camicia, legandosela in vita con le gocce di sudore imperlate sulla fronte e sulle tempie: quarantacinque gradi chiusi in una stanza, mentre si lotta, non erano facili da sopportare neppure per l’Italia del Sud, che a temperature così assurde ormai era abbastanza abituato.
La lussemburghese lasciò a terra il mazzafrusto, portandosi entrambe le mani alle cosce ed afferrando la stoffa dei pantaloni, strappandola con un movimento netto delle braccia per poi buttarla a terra.
Già il petto della lussemburghese si alzava e si abbassava velocemente, la pancia piatta, scoperta, imperlata di sudore, come le braccia e la nuca, i capelli castani umidi.
Incatenò il proprio sguardo a quello dell’italiano, e l’odio che entrambi provavano, l’uno verso l’altra, iniziò a ribollire nel sangue, a tamburellare nelle menti assetate di morte.
Con un urlo rabbioso si gettarono l’una contro l’altro, ed entrambi si ritrovarono a terra a seguito della colluttazione, e fu in quel momento, che ritrovandosela sopra, con le mani strette al collo, Lovino sentì il dolore alle gambe.
La morte che gli era spettata, a Berkeley Square, al contrario di tutti gli altri, aveva lasciato una traccia anche dopo il ritorno della sua persona, e le sue gambe erano ancora deboli, riuscivano ad affaticarsi con poco, e quel poco, a quanto pare, era già scaduto.
«Su, forza! Raggiungi quel bastardo di Spagna!»
Alice sorrise divertita, ma non riuscì a mantenere la stretta intorno al collo dell’italiano, perché questo non le risparmiò un pugno in pieno volto.
Era una donna, certo, ma per lei non esisteva pietà, così come non era esistita per Sophija, seppur potesse considerarla una cara amica ed una cotta passata.
«Mhn-» Alice si portò la mano al naso insanguinato, rimanendo a terra.
«Tu, piuttosto, perché non raggiungi tua sorella e tuo fratello? Bastarda …»
Lovino premette il grilletto.

“Precisione.
Precisione e sicurezza.”

Erano le parole che la castana si stava ripetendo, quando anch’essa estrasse la pistola e premette il grilletto, sorridendo soddisfatta quando i due proiettili si scontrarono nell’aria e caddero a terra fumanti.
L’italiano rimase attonito, tanto che la lussemburghese riuscì a rimettersi in piedi e sferrargli un calcio alle gambe, facendolo cadere a terra, ma decise di sfruttare quell’occasione per recuperare il mazzafrusto e la mezzaluna.
«Ahhh-!» Lovino si era appena rimesso in piedi, quando la lama della mezzaluna gli si conficcò nella schiena, accompagnata dall’urlo rabbioso della lussemburghese.
«Nh-!» di conseguenza, l’italiano, si voltò e sparò alla cieca, colpendole la spalla sinistra.

Quasi come un gatto a cui viene tirata l’acqua, la lussemburghese arretrò velocemente, con l’espressione dolorante, e decise di legare la mezzaluna alla cinta e far passare nella mano destra il mazzafrusto: doveva sfruttarla, finché almeno l’altra spalla rimaneva intatta.
Senza esitare troppo, scagliò diversi colpi contro l’italiano, che a causa della lentezza e del dolore nelle proprie gambe, oltre che nella schiena insanguinata, non riuscì ad evitare tutti.
La palla chiodata gli colpì il petto, ferendolo per sua fortuna non troppo gravemente, ma buttandolo nuovamente a terra.
«Ti … ti detesto-» la smorfia sul volto della lussemburghese era a dir poco rabbiosa: uscita da quella stanza come avrebbe fatto a curarsi la spalla?
Sì, perché ne era sicura, avrebbe vinto ancora, più determinata che mai a massacrare chiunque si mettesse sulla sua strada.
«A chi lo dici-» Lovino brontolò rabbioso, puntandole nuovamente la pistola contro, ma prima che potesse sparare, la palla chiodata del mazzafrusto gliela strappò di mano. Senza darsi per vinto, però, l’italiano si rimise in piedi e si spinse contro una parete, con il respiro affannoso, seguito dalla lussemburghese.
Quando questa gli scagliò diversi colpi contro, Lovino riuscì ad evitarli e a scansarsi del tutto da quello più forte: ormai aveva scavato una rientranza nella parete di roccia, ed in seguito all’ultimo urto con la palla chiodata, da questa iniziò a fluire un liquido rosso.
Non sangue, ma lava bollente, a pochi centimetri dai piedi della lussemburghese, che riuscì ad arretrare proprio all’ultimo momento.
Ora che si ritrovavano divisi da quel rivolo di lava, l’italiano poté recuperare la sua pistola, e nuovamente incontrare lo sguardo di lei.
«Che bastardo …»
Lovino non commentò.
Non era poi tanto largo quel rivolo di lava, ma caldo e fastidioso.
Bastava saltare e si sarebbe trovato di nuovo dall’altra parte, da lei.
Bastava soltanto la carica giusta.
«Ti staccherò la testa come ho fatto con quell’idiota.» e quelle parole furono un motivo più che valido per stringere i denti rabbiosamente e saltare il rivolo rovente, legando con un braccio la vita della lussemburghese e puntandole velocemente la pistola alla tempia.
«Mai abbassare la guardia. Non te l’hanno insegnato, questo, puttana?»
Lovino sospirò a pochi centimetri dalle sue labbra, e poi sorrise, premendo il grilletto.

Il corpo della lussemburghese cadde ai suoi piedi, e così scese un silenzio agghiacciante.
In quel momento, rimasto solo con se stesso, Lovino lasciò che la sua maschera di ghiaccio si frantumasse, mentre deglutiva a fatica, con gli occhi velati di lacrime.
«Così impari ad aver ucciso … proprio lui …»





✠————————————————————✠

Il nome di Belgio (Sophija Van Halen) è di mia invenzione.

_Neu Preussen_

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Capitolo 15
*** XV - Scontro ***


XV - Scontro


Stanza: Nr. 17, Stanza di Ares
(Dio della guerra)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: 100 m2
Temperatura: ca. 38 °C
Fonti di luce: Discreta luce proveniente da una grossa crepa
Ore: 13: 24 - 13:50



Lovino decise di concedersi ancora qualche istante, e nonostante desiderasse fuggire da quel caldo soffocante il più presto possibile, volle prima essere sicuro di aver raccolto ed incollato ogni singolo frammento della sua maschera di ghiaccio.
Senza lasciar scivolare alcuna lacrima, ma trattenendole a fatica, si soffermò sul corpo senza vita della lussemburghese, proprio ai suoi piedi.
«Che … teste di cazzo …» ed ora che sulle spalle era percepibile il peso insopportabile del vuoto, sperare che almeno Feliciano fosse ancora in vita sembrava davvero inutile: troppo bello per essere vero.
Sospirò, quasi sbuffando, massaggiandosi la sottile radice del naso con le dita, per poi portare la sua attenzione alla parete crepata, da cui era fuoriuscita la lava.
Senza preavviso, le rocce, si frantumarono ancora, ed altra lava ne fuoriuscì, quasi investendolo.
Evitò quel fiume rovente e si soffermò sui corpi delle due sorelle, che insieme, si ridussero velocemente in cenere nera.
Si passò il braccio lungo la fronte, asciugandola dal sudore, ed ignorando le bruciature e le ferite causategli dal mazzafrusto e dalla mezzaluna decise di avanzare e passare proprio attraverso il punto da dove era fuoriuscita la lava, perché le tracce lasciate da quel liquido incandescente sembravano ormai essersi già seccate e raffreddate quasi per magia, lì dove le rocce si aprivano e lasciavano spazio per andare oltre.

Varcata la soglia fu sollevato di sentire molta meno afa nella stanza, anche se il caldo persisteva, e si trovò subito di fronte al proprio avversario, soffermandosi sulla pistola argentea che stava tenendo stretta fra le dita della mano sinistra.
«Good morning, Italy.»
L’inglese rimase immobile, opposto all’italiano, con la schiena adagiata alla parete calda.
«Te la sei cavata bene. Giuro, ho pensato fino all’ultimo che Lussemburgo ti avrebbe battuto.»
Romano aggrottò la fronte confuso: come faceva a saperlo?
«Meglio, così non dovrò fare il gentiluomo.»
Arthur sorrise sarcastico, caricando la pistola.

«Come fai a sapere che ero contro Lussemburgo?»
«Oh, l’entità che ci ha portati qui mi ha permesso di vedere un po’ di cose.
Ad esempio …» Arthur gli diede le spalle, portando la mano destra spalancata a qualche centimetro dalla parete.
«Tuo fratello …»
«Feli-?» quando l’immagine del corpo insanguinato dell’italiano fu proiettata sulla parete, Lovino sgranò gli occhi, incontrando lo sguardo freddo dell’inglese.
Al contrario di quanto si potesse pensare, Arthur, non gli aveva mostrato l’immagine senza vita di suo fratello per cattiveria.
«Chi cazzo è stato?»
«Natalia.»
Ma a Lovino non interessava davvero quello.
Scosse la testa e strinse i denti, nervoso «tu sai troppe cose.
Ne hai sempre sapute troppe, maledetto bastardo. Antonio mi ha detto che sei stato tu a farli uscire dalla casa, sapevi i nomi dei fantasmi, e anche adesso …
Testa di cazzo! Tu hai a che fare con questa storia!»
L’inglese si lasciò sfuggire un sospiro impercettibile dalle labbra fini, irritato dagli strepiti dell’italiano: due minuti nella stessa stanza e già Lovino sospettava di lui, ma che ci poteva fare, Arthur, se era più informato di loro e riusciva a “socializzare” con le entità? Aveva avuto gli stessi problemi anche a Berkeley Square.
«Ti conviene confessare, bastardo-» ma non appena il britannico lo vide puntare la pistola contro di lui, non indugiò e premette il grilletto.
«Taci.
Ne so quanto te, idiota. L’unica differenza è che li ho visti tutti morire, uno ad uno, e non è stato bello.
Non è stato bello per niente.»
Eppure, le parole dell’inglese, non furono sufficienti a convincere un italiano davvero troppo sospettoso ed arrabbiato.
Lovino sparò, e l’inglese si spostò velocemente, con un sorriso sornione in volto: l’italiano era ferito, e quindi molto più lento, e poi sembrava stanco, pareva portarsi dietro gambe di piombo, non di ossa e carne.
In un primo momento, anche Lovino fu preso da questi pensieri, ma non aveva considerato un aspetto fondamentale del gioco: due vittime? Due armi in regalo.

Il castano riuscì ad evitare il secondo proiettile dell’inglese, questa volta a fatica, ma quando una mitraglietta nero pece cadde ai suoi piedi non poté evitare di sorridere vittorioso.
«Come la mettiamo adesso?»
Arthur sgranò gli occhi, e alla prima raffica di proiettili riuscì a buttarsi a terra ed appiattirsi al suolo, ignorando a fatica il dolore della pelle che iniziava a scottarsi, a contatto con il pavimento caldo.
«Mhpf-» l’inglese sbuffò quasi indignato, e sparò due volte in direzione dell’italiano, che sentì gemere al secondo proiettile.
«M-merda …» Lovino si portò una mano alla coscia sanguinante, e tornò a puntare la mitraglietta contro l’inglese, pronto a sparare un’altra raffica con cui, di certo, lo avrebbe ucciso, visto che questa volta il britannico si trovava a terra e non sarebbe mai riuscito a rialzarsi così tanto velocemente.
Prima che potesse premere il grilletto, però, qualcosa cadde a terra e rotolò con un suono fastidioso, giungendo ai suoi piedi.
Gli occhi dell’italiano, come una pietra d’ambra immersa nei fili d’erba appena bagnati dalla pioggia, si mossero appena e si soffermarono sulla seconda arma riservata a lui, e le labbra non poterono che incrinarsi in un sorriso.
Lovino lasciò la mitraglietta a terra e si sistemò la pistola sotto braccio, per poi afferrare la granata ai suoi piedi.
«Muori, bastardo.» Lovino strappò con rabbia la spoletta della granata, sibilando a denti stretti.
Riconobbe subito quell’odore: tritolo.
Tossico ed efficace, altamente esplosivo.
Scagliò la granata verso l’inglese, che ebbe appena il tempo di guardare ai suoi piedi e sgranare gli occhi prima dello scoppio.
«Ahah! Credo che la tua truffa possa finire qui, idiota di un inglese!»

Arthur schiuse a fatica i propri occhi, respirando a fatica, con il suono della granata ancora nelle orecchie, i timpani doloranti e l’udito completamente narcotizzato.
«S-shit-»
Sapeva che l’italiano gli stava parlando da lontano, probabilmente prendendosi gioco di lui, probabilmente convinto di averlo ucciso del tutto, ma non era così.
Arthur era stato un abile spia in tempi passati, ed era abituato a cose come queste.
Tuttavia, prima di tornare a rivolgersi all’italiano, pose l’attenzione alle sue gambe ed un brivido gli attraversò velocemente la schiena: perché? Perché non sentiva più il piede destro?
Voltò appena il viso sporco di polvere, guardando oltre la propria spalla, e gemette forse più inorridito che dolorante, non appena vide la sua gamba completamente insanguinata: si interrompeva alla caviglia, in brandelli di carne lacera dove già alcuni frammenti di pietra si erano conficcati.
La sua gamba ridotta così, senza più il piede, gli ricordò la vista delle gambe di Lovino a Berkeley Square, e non appena tornò a guardarlo, un senso di nausea gli attanagliò lo stomaco e la testa gli girò violentemente.
«Non … non mi hai ucciso, idiota.» arrancò sulle rocce bollenti con entrambe le mani, ma sorrise appena, quasi a volersi prendere gioco dell’italiano.
Come se non bastasse, a quelle parole, Lovino gli rivolse un proiettile quasi al centro della schiena, facendolo gemere di dolore.
Arthur tossì sangue, con gli occhi lucidi e le dita ormai arrossate conficcate nelle crepe bollenti del pavimento.
Lovino rimase in silenzio, convinto di poter cambiare arma senza alcun problema, e si affrettò a riprendere la mitraglietta.
Quando però riacquistò il proprio equilibrio, dopo aver recuperato la mitraglietta da terra ed adagiato la pistola, il suo petto fu perforato da ben cinque proiettili e la sua bocca si riempì in un attimo di sangue.
Rimase ad osservare incredulo negli occhi crudeli e freddi dell’inglese, prima di inginocchiarsi a terra senza respiro e con la divisa ormai completamente insanguinata: Arthur, nonostante tutto, era riuscito a ricaricare la pistola e mantenere il sangue freddo pur parendo spacciato.
Lovino fece per dire qualcosa, ma quando mosse le labbra, dalla sua bocca sgorgò soltanto sangue, finché il suo corpo non cadde pesantemente a terra, e nella stanza calò un silenzio agghiacciante.

Arthur interruppe il silenzio solo qualche attimo dopo, gemendo di dolore nel trascinarsi fino alla parete per strappare un lembo di stoffa dalla propria divisa, legandolo stretto a pochi centimetri da dove la carne si riduceva a brandelli, in un penoso tentativo di bloccare la perdita di sangue, ingente anche sul torace, trapassato dal proiettile dell’italiano.
«Fuck.
F-fuck you, Italy.»
Brontolò dolorante, quasi sputando quelle parole contro il corpo senza vita del castano, per poi rivolgere la propria attenzione alla parete opposta, illuminata dalla luce: vide una crepa allargarsi paurosamente, fino ad aprire un passaggio nel muro.
Arthur respirò a fatica e portò le mani alla parete, cercando di alzarsi in piedi, ma capendo subito che avrebbe sprecato importanti energie invano, decise di riposare ancora per qualche attimo e poi lasciar aderire il proprio corpo al suolo, spingendosi quasi strisciando fino alla crepa.

«A-ah-»

Il dolore lo attraversava e lo percuoteva come una scarica elettrica ad ogni centimetro di meno a separarlo dall’apertura nella parete, che però sembrava davvero ancora molto lontana.
Alle sue spalle rimaneva soltanto la striscia di sangue che, al suo penoso passaggio, colorava il pavimento rovente del suo dolore.

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Capitolo 16
*** XVI - Specchio ***


XVI - Specchio


Stanza: Nr. 14, Stanza di Artemide
(Dea della caccia)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: 100 m2
Temperatura: ca. 8 °C
Fonti di luce: Discreta luce proveniente da una grossa crepa
Ore: 12:46 - 13:03



Gli avrebbe davvero chiesto di sposarlo, proprio quella sera stessa: certamente Lituania non poteva immaginare che la sua vita, anzi, la loro, sarebbe stata improvvisamente travolta da una forza ancora sconosciuta, ed un destino crudele.
Un destino che come hobby pareva avere quello di mettere contro fratelli e amanti per trarne divertimento, fino a quel momento senza una ragione valida, inspiegabile, soprattutto per Toris, che non era neppure stato coinvolto nella macabra avventura di Berkeley Square come altri, qualche mese prima.
Sistemò la pistola fra la cintura e la vita, passandosi la mano sul braccio destro per tamponare appena la ferita lieve, ma bruciante: davvero aveva appena ucciso Polonia? Ancora non se ne capacitava. Riusciva a percepire soltanto il dolore all’idea di averlo fatto realmente.
Il suo migliore amico. Colui che voleva sposare.
Insieme ne avevano passate tante, e nessuno dei due aveva mai voltato le spalle all’altro, neppure quando Ivan lo portò via, ma ora … ora qualcosa li aveva spinti l’uno contro l’altro, costretto uno dei due a morire.
«C’è qualcuno?» le sue parole, però, furono flebili e tremanti.
Non per paura, ma perché si era già arreso all’evidenza.
L’unica cosa positiva è che non aveva più nulla da perdere, ma in risposta, arrivò soltanto un tonfo sordo, poco lontano da lui.
«Oh?»
Quando vide le borchie argentee della mazza chiodata brillare a qualche metro da lui, capì che gli spettava un’altra sfida, e sospirò rammaricato, avvicinandosi all’arma per afferrarla.
«Chi c’è?»
Ancora nulla.
Rimase immobile, stringendo l’impugnatura della mazza, e deglutì appena, prendendo in considerazione l’idea di fare un giro nella stanza.
Dopo qualche attimo, ripetendo la domanda e non ricevendo risposta, decise di analizzare la stanza cautamente, passo dopo passo.
Dopo aver percorso tutta la stanza, seguendo le superfici fredde e lisci delle quattro pareti, il lituano sospirò e si lasciò scivolare lungo una di queste sedendosi a terra con entrambe le armi poste davanti a sé, stringendosi in se stesso per contrastare il freddo pungente all’interno di quella malefica gabbia di pietra e ghiaccio: quanto ancora doveva aspettare? Gli sudavano le mani, lo stomaco si era chiuso del tutto, e faceva così male che la sensazione era quella di avere un buco di almeno quindici centimetri di diametro al centro del petto.

La lama della spada aderì al terreno, ricoperto da un leggerissimo strato di brina, e gli occhi di sangue si soffermarono sul punto più illuminato della stanza, in cerca dell’avversario.
Vladimir rimase ad osservare le maniche del cappotto, ormai completamente impregnate del sangue che si era ripulito dal viso.
I pugni aggressivi che la ungherese gli aveva rivolto dritti in volto avevano fatto il loro effetto, e il naso era ancora dolorante e pieno di sangue, così si ritrovava a respirare faticosamente con la bocca.
Rimase in silenzio, e spostò il proprio sguardo al torace, per controllare la situazione del fianco sinistro: decisamente più grave della situazione stampata sulla sua faccia livida.
«Merda …» sibilò appena, ma qualcosa gli suggerì che non c’era tempo per improvvisare una fasciatura: doveva sopportare il dolore, se non ignorarlo.

Quando vide il proprio avversario, seduto nell’angolo formato dalla parete frontale e da quella laterale alla sua sinistra, sollevò il viso e si avvicinò a passi lenti, incrinando le labbra in un ghigno divertito.
«Bună dimineaţa.»
Il lituano era talmente preso dai propri pensieri che non l’aveva neppure sentito avvicinarsi.
Alzò il viso in un sussulto, e subito, afferrò le proprie armi, rizzandosi in piedi «Romania!»
Il castano posò i propri occhi sulla lama lucida della spada, stretta nella mano del rumeno, poi sul viso, leggermente cupo, con ancora alcune tracce di sangue ai lati del naso appena gonfio, poi al capotto completamente ricoperto di rosso: come lui, era uscito vincente da una battaglia, ma aveva ancora una sola arma per le mani, perciò Toris convenne che preso l’avrebbe ricevuta, e deglutì impercettibilmente, incatenando i propri occhi a quelli dell’avversario.
«Una mazza chiodata?» il rumeno soffocò una risata, negando appena con il capo.
Il lituano rimase in silenzio: fosse stato al posto suo, se ne sarebbe preoccupato, visto che lui, oltre alla mazza chiodata, aveva una pistola: un’arma da fuoco era sicuramente molto più utile di un’arma come la spada.
Non appena il rumeno scorse il proprio avversario sollevare la pistola, arretrò velocemente, tendendo il braccio in alto e sorridendo divertito, quando i polpastrelli screpolati percepirono il freddo metallo aderente alla loro superficie: una Revolver sinuosa, di color argento.
«Guarda io che cos’ho~» quasi sembrò una cantilena, quella che fuoriuscì dalle labbra fini del rumeno, ed il lituano non poté che stringere i denti, arretrando, per quel poco che gli era possibile, visto che in un attimo si ritrovò con la schiena aderente alla parete gelida della stanza.
«Pare proprio che sarò io a passare-» ma prima che il dito del rumeno potesse raggiungere il grilletto della Revolver, il castano urlò la sua rabbia e la sua sofferenza, brandendo la mazza chiodata in direzione del viso già martoriato dell’altro.
Era vero che Toris non aveva più nulla da perdere, ormai, ma non avrebbe reso vano il sacrificio di Polonia. Mai.
Tornò all’attacco, velocemente, urlando ancora senza badare alle lacrime che si erano formate all’angolo degli occhi, traditrici fastidiose, ed il rumeno fu costretto ad arretrare notevolmente, senza però abbandonare quel ghigno vivace: non aveva paura, anzi.
Aveva sconfitto un’avversaria valida come l’ungherese, Toris di certo non lo spaventava.
«Sentiamo-» disse, per poi balzare all’indietro, al nuovo attacco del lituano «chi hai ucciso per arrivare qui?»
Aveva notato la macchia di sangue sul tessuto verde della manica del suo avversario, seppur fosse una ferita irrilevante, ma Toris non rispose, e gli puntò la pistola contro.
“Non ti riguarda. Non ti riguarda!” Il lituano continuava a ripetersi queste parole mentalmente, corrugando la fronte rabbioso e premendo il grilletto con rabbia, ma il rumeno fu rapido, e finalmente anche lui si lanciò all’attacco, fendendo l’aria con la spada.

Il rumore del metallo risuonò nella stanza, e mentre il rumeno si impegnava a fondo, in modo che la sottile lama della spada potesse reggere il confronto con la mazza chiodata dell’avversario il maggior tempo possibile, incatenò i suoi occhi a quelli del lituano.
«Sei spaventato.»
«No.»
«Spaventato e bugiardo.
Così non vincerai mai.» pronunciò sicuro di sé, Vladimir, mentre si scostava velocemente dalla traiettoria della mazza chiodata.
Certo, il suo sangue fermo era un punto in più a dispetto del lituano, ma se voleva essere sicuro della vittoria doveva togliergli dalle mani almeno la mazza.
Lituania sussultò e sgranò gli occhi, non appena vide il biondo gettare via la spada, lontano, ma decise di approfittarne e sparare.
Vladimir, dal canto suo, arretrò velocemente, quasi sistemandosi parallelamente al punto occupato dalla spada, evitando il secondo proiettile che il lituano decideva di dedicargli tanto gentilmente.
«Fai schifo Romania!»
«Così mi offendi.»
«A te diverte tutto questo, non è così?
Come puoi sorridere, di fronte a qualcosa di simile?!»
«Io …» il sorriso del rumeno si ampliò, mentre gli occhi di sangue si assottigliarono, soffermandosi sul braccio sinistro del lituano, sulla mano che reggeva la mazza.
«Io sorrido, perché sono sicuro di vincere!»
Più proiettili colpirono in pieno il braccio e la mano del lituano, e subito, la mazza chiodata, cadde a terra, ma il tonfo sordo da essa prodotto fu del tutto coperto dall’urlo di dolore del lituano.
«Ora scegli, o la pistola o la mazza.
Io ho già scelto.» il rumeno sventolò vittorioso la Revolver, ghignando divertito e compiaciuto, nel vedere il braccio e la mano del lituano completamente martoriati, con brandelli di carne insanguinata lacerata e la stoffa ormai quasi del tutto disintegrata dai proiettili.
«R-Romania-»
Quando lo vide quasi in ginocchio, con la mano intatta a premere tremante sui diversi fori presenti lungo tutto il braccio, le labbra del rumeno si incrinarono in una smorfia nervosa, e si avvicinò a passi cauti, squadrandolo dall’alto.
«Ho detto di prendere un’arma.» ma quando il viso del lituano si sollevò, e il rumeno vide la sua fronte corrugata, lo sguardo assottigliato, i denti stretti in un ringhio, e la mano destra ferma, quindi disubbidiente a quell’ordine, il nervoso lo colse improvvisamente, spingendolo a indirizzare un calcio deciso al viso del castano, che cadde del tutto a terra, in un gemito.
«Sei uno spreco di tempo.»
Le dita del rumeno si strinsero alla Revolver, mentre il lituano lo vedeva a malapena, attraverso gli occhi socchiusi e pieni di dolore, con quel corpo insanguinato ed infreddolito.
E pensare che fuori da un ambiente simile, il rumeno, sarebbe rimasto o sulle suo, o addirittura gentile. Magari con il vizio di alzare il gomito e scherzare maliziosamente con le donne, ma gentile.
Vladimir era un sadico. Un sadico che nascondeva perfettamente questo suo difetto alla vita di tutti i giorni, ma ora che gli veniva data la possibilità di fare del male, sfogava ogni sua più piccola e macabra fantasia.

Dopo qualche attimo, il lituano, si mosse, ed in un primo momento parve quasi come un onisco, che viene toccato e per proteggersi decide di rannicchiarsi in cerca di una protezione; poi, però, riuscì a spingersi in piedi, molto a fatica.
Almeno Romania pareva avergli concesso questo piccolo privilegio: quello di rimettersi in piedi senza che gli fossero rivolti altri colpi, di qualsiasi entità.
Lituania notò quanto la spada fosse vicina ai piedi del rumeno, anche se lui aveva voluto esplicitamente manifestare la sua scelta per la Revolver: voleva giocare sporco, ed era evidente.
E anche lui, allora, avrebbe giocato sporco.
Lo avrebbe colpito più e più volte di seguito, o alle spalle, se fosse stato necessario, avrebbe mandato fuori uso entrambi gli arti, se non meglio ancora tutti e quattro.
Il lituano premette ancora il grilletto, ed il proiettile, frutto di una mira perfetta, arrivò a transitare verso la testa del rumeno, che però riuscì ad abbassarsi velocemente.
Ad un tratto, però, la sua testa gli parve improvvisamente più leggera.
Il biondo aggrottò la fronte confuso, per poi rivolgere una rapida occhiata alle sue spalle: il cappello.
Il suo adorato capello, completamente rovinato dal foro perfetto creato dal proiettile che il lituano aveva deciso di rivolgergli ancora una volta, andando veramente molto vicino dal colpirlo.
Senza poter minimamente immaginare quanto potesse essere importante per il rumeno quel cappello, il lituano non diede molto peso alla cosa, e prima che potesse rivolgergli un altro proiettile, il rumeno, aveva già premuto il grilletto della Revolver, trapassandolo in pieno petto.
«Ah-!» il colpo ed il dolore improvvisi, gli fecero scivolare la pistola di mano, ed il rumeno si gettò subito sulla spada.
«Ricordati di me, perché questo non basterà.»
Lituania sgranò gli occhi, e la lama della spada ebbe solo un attimo di tempo per brillare alla luce della sala.
Vladimir spinse la lama nel petto del lituano, leggermente più a sinistra, facendola penetrare in profondità, finché il suo viso non fu vicinissimo a quella del lituano e non vide la punta insanguinata della spada fuoriuscire poco più sotto della scapola dell’avversario.
Altro sangue andò a macchiargli il cappotto, ma era soltanto quello del lituano, che lo aveva quasi vomitato dalla bocca, quello che aveva sul petto, e quello della mano sbrindellata che, miseramente, arrancava sul suo braccio del rumeno e cercava di fargli ritirare la spada.

«Ricorda che mi rivedrai presto. Molto presto.»
Il rumeno ghignò divertito, per poi ritirare velocemente la spada dal petto del lituano e vederlo cadere penosamente ai suoi piedi: un cencio di sangue, a macchiare la brina fredda presente sul pavimento della stanza.
E con quel sorriso, si voltò verso una parete quasi del tutto ricoperta di ghiaccio, specchiandosi e vedendo quell’immagine livida e crudele, maschera perfetta sul suo viso.

Dopo questa battaglia doveva davvero riconoscere una cosa positiva ad Ungheria: lei almeno era riuscita a farlo divertire, ma in quanto a Lituania … pft.

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Capitolo 17
*** XVII - Orgoglio ***


XVII - Orgoglio


Stanza: Nr. 10, Stanza di Terminus
(Dio dei confini, sia fisici che spirituali,
posto a guardia tra il mondo materiale e quello spirituale)
Posizione: Primo girone interno
Dimensioni: 150 m2
Temperatura: ca. 25 °C
Fonti di luce: Discreta luce proveniente da una grossa crepa
Ore: 12:52 - 13:15



Doveva essere passata già più di mezz’ora dal suo arrivo in quella stanza leggermente più illuminata della prima, e così maledettamente silenziosa.
Francis aveva la fronte aderente alle ginocchia, con gli occhi stanchi socchiusi, ancora segnati dal pianto per la perdita causata dalla sua stessa mano, dalla sua stessa spada.
Proprio la spada che ora era adagiata sul pavimento, con quella lama insanguinata, a qualche passo da lui.
Doveva assolutamente raggiungere Arthur.
Voleva vederlo, parlargli e capire i suoi sentimenti, godendo del privilegio dell’assenza di America.
Sì, il prezzo per incontrarlo e parlargli, consisteva nel pagamento di uno dei due con la vita, ma pur di vederlo, Francis, avrebbe sacrificato volentieri la propria anima.
Eppure era un fantoccio nelle mani del destino, e poteva solo rimanere seduto contro una delle pareti, ad aspettare e cercare in qualsiasi modo di togliersi dalla testa l’immagine sofferente di Canada.
Aspettare, e provare a dimenticare ciò che aveva appena fatto.
Non era facile sostenere una prova mentale simile, sapendo che Arthur poteva perfino trovarsi nella stanza a fianco alla sua, morente per mano dell’avversario che quell’entità sadica aveva deciso di mandargli contro.
L’inglese poteva già essere morto, o ora sarebbe potuto morire lui.

Francis sospirò, chiudendo gli occhi e lasciando scivolare la testa all’indietro, finendo per adagiarla contro la parete e portandosi una mano a massaggiare appena la fronte.
«Mon Dieu, je t’en prie …» sussurrò flebilmente, inspirando profondamente: la cosa positiva era che non aveva riportato alcuna ferita dallo scontro precedente, mentre il suo avversario, magari, poteva giungergli di fronte già malconcio.
Era quello che sperava e quello per cui pregava almeno un po’.

Quando sentì la pietra scricchiolare sotto un passo piuttosto pesante, Francis, parve riprendere a respirare, e scostò la mano dalla fronte, aprendo gli occhi.
Notò la divisa insanguinata, poi il ghigno estremamente divertito e compiaciuto sul volto del suo avversario, e non poté che sgranare gli occhi, alzandosi velocemente dalla sua postazione.

«A-Amerique-»
Quello che si ritrovava davanti, quello con gli abiti insanguinati ed un fucile stretto avidamente fra le braccia, era lo stesso Alfred che a Berkeley Square aveva mietuto vittime, se non peggio.
Francis pensò come si sarebbe potuto sentire Arthur, vedendo il suo lavoro andato in fumo: dopotutto in quei mesi l’inglese aveva aiutato parecchio l’americano, contribuendo ad un miglioramento netto di quella psiche instabile.
Ora bisognava ricominciare tutto da capo.

«Vedo che anche tu hai ucciso il tuo avversario! Ahahah!» Alfred gioì, pensando quanto Francis avrebbe gradito la notizia della morte di Prussia, uno dei suoi migliori amici.
Francis rimase in silenzio, pensando quanto potesse essere orrenda quella situazione: il suo avversario in amore, lì, di fronte a lui, e in più aveva appena ucciso suo fratello.
«Sai, ho fatto fuor-»
«Hai visto Arthur?»
Francis lo interruppe subito: non voleva sapere l’identità della vittima dell’americano, perché nel peggiore dei casi, un nome, lo avrebbe condotto solamente alla paura e all’ansia.
L’americano assottigliò lo sguardo, quasi incenerendo il francese.
«Perché ti interessa?»
«Rispondi alla mia domanda, America.»
«Non l’ho visto.
E ora tu rispondi alla mia, Francia.»
Nonostante lo sguardo dell’americano fosse più freddo che mai, e cattivo, puntato su di lui in quel modo, ora, pareva che lo statunitense stesse conducendo una normale conversazione, soltanto contornata con una normale gelosia per la persona amata.
«La risposta alla mia domanda la sai anche tu.»
Le labbra dell’americano si incrinarono in un lieve sorriso, prima che questo si voltasse e si dirigesse a passi veloci lontano dal francese, tendendo la mano verso l’alto.
«Tu non devi …» l’americano piegò la testa a sinistra, poi a destra, facendo scrocchiare sonoramente il collo, mentre afferrava saldamente fra le dita la grossa balestra nera «neppure nominarlo!»
Si voltò in fretta, urlando rabbiosamente e già caricando l’arma, pronto a sparare la sua prima freccia, ma il francese fu più veloce.
La freccia scoccata dall’arco dorato dell’europeo sibilò nell’aria, andando a colpire in pieno petto l’americano.
«Ah-!»
«Mi dispiace, ma ho intenzione di andare da lui.»
«Ahahah!» Alfred rise divertito, strappandosi la freccia dal petto e spezzandola con la mano, per poi buttarla a terra «non ci riuscirai.»
«Vedremo.»

Francis avrebbe tenuto Arthur vicino, anche in quel combattimento.
Alfred, nonostante fosse in notevole svantaggio a causa delle ferite, aveva l’intenzione di fare lo stesso, ed impedire soprattutto al francese di rimanere solo con Arthur.
Se c’era qualcosa, anzi, qualcuno, che riusciva a tenere salda almeno un minimo la mente di Alfred, era proprio la presenza di Arthur.
Inghilterra. La persona che America amava, rispettava, e a cui mai avrebbe torto un capello. Arthur, che nessuno doveva portargli via, o sarebbe impazzito sul serio, irreversibilmente.

«Francia, lui ha scelto me!»
«No.»
«Sei ostinato, eh? Ahah! Nemmeno te ne rendi conto!»
«Ha scelto te perché dopo la mia morte lo hai manipolato come solo gli esseri meschini come te sanno fare.»
L’americano parve sussultare, aggrottando appena la fronte e stringendo i denti: “Tu hai una misera esistenza, America.”
Le parole che il francese aveva appena pronunciato, gli riportarono alla mente quelle dette poco prima anche dal prussiano.
Che apparissero davvero così, lui e la sua vita, di fronte a tutti gli altri? Arthur non gli stava accanto solo per pietà, vero?
«Lui ha scelto me perché mi ama!» ma Alfred sapeva bene quanta insicurezza vi fosse in quelle parole pronunciate rabbiosamente.
Insicurezza che però non fece da ostacolo alla freccia che indirizzò al francese, colpendolo alla spalla sinistra.
«Nh-»
«Sarò io ad andare da lui, e tu non ti avvicinerai mai più ad Arthur!» un altro colpo, e questa volta la freccia si conficcò nel petto del francese, che si affrettò a toglierla con un gemito di dolore.
«Non potrai neppure parlarci.»
Aveva riacquistato quel sorriso sadico, e Francis se ne accorse subito.
L’europeo strinse i denti, e senza badare a quelle ferite fastidiose, gettò a terra l’arco e le frecce, afferrando la spada.
«Oh, si cambia arma~?» e il sorriso dell’americano si ampliò, quando lasciò cadere la balaustra a terra, con un tonfo sordo, e si chinò per imbracciare il fucile.
«Meglio.»
Francis si lasciò sfuggire il primo sorriso, impercettibile ed invisibile, alla vista dell’americano: non lo spaventava affatto.
Era sicuro, sull’impugnatura della spada, e aveva buone ragione per usarla come un professionista, per come davvero sapeva fare.
«Bonne chance, Amerique! ♥»
Il francese scagliò la spada in avanti, e si lanciò all’attacco, percependo la lama argentea ferire l’aria in un sibilo piacevole: il segnale che ora, la sua determinazione, aveva raggiunto il massimo.
Teneva Arthur vicino, il pensiero di lui stretto al cuore, e il desiderio di avvicinarsi sempre di più a quella persona, sgretolando i confini, saldo nella propria mente.
«Ahh!» urlò di rabbia, scagliando un fendente che andò a ferire il torace dell’americano.
«Shit-!» Alfred arretrò goffamente, ingobbito a causa del dolore al torace insanguinato: Francis era stato veloce, doveva riconoscerglielo.
«Non dirò … “anche a te”-»
Le labbra dell’americano si contrassero in una smorfia rabbiosa, e prima che il francese potesse affondare la lama nel suo petto, sparò.
Alla cieca, sì, ma la distanza ravvicinata dei due gli consentì di colpire Francis in pieno petto.
«A-ah!» il francese si portò subito la mano al torace insanguinato, sputando sangue con gli occhi brucianti.
Sentì il rumore del fucile che veniva gettato a terra, e sollevò il viso, ma il calcio potente dell’americano, rivolto all’incavo fra spalla e collo, lo scaraventò contro la parete.
Prima che potesse rialzarsi, si ritrovò le mani dello statunitense strette sul colletto della camicia, e quel viso deformato dalla pazzia a pochi centimetri dal suo.
«Cosa dicevi?
Che volevi andare da Arthur? Non sei messo un po’ male per andare da lui?» l’americano sorrise divertito, portando le mani alla gola del francese.
«Ti ho già ammazzato una volta. Posso farlo ancora.» il francese negò a fatica, con le dita che arrancavano sulle braccia dello statunitense ed un velo di lacrime a ricoprire gli occhi azzurro cielo.
Forse l’unica cosa veramente luminosa in quella stanza. Occhi innamorati, non corrotti dalla pazzia come quelli di Alfred.
«E ti dimostrerò che Arthur ha scelto me perché mi ama.» la stretta dell’americano si fece più salda, fino a far divenire la pelle del collo del francese biancastra ed increspata.
«N-nh-»
«Non ti sento Francia.»
Il francese fece per dire qualcosa, ma ciò che uscì fu solo un verso gutturale e tremante.
«Ahahah! No! Non ti sento proprio amico mio!»
La risata vittoriosa dell’americano, quelle mani strette intorno al suo collo, la possibilità di raggiungere Arthur sempre più lontano, non poterono che fargli chiudere gli occhi, permettendo alle lacrime di scivolare lungo le guance.
«Di’ le tue ultime parole, ahah!»

“Ti amo.
Ti amo, Arthur.”


E anche se Alfred rideva, perché dalla sua bocca non sentiva più uscire alcun suono, Francia, le sue parole le aveva dette per davvero.

Solo a lui.
Solo a quell’immagine che ora diveniva nera e silenziosa, come tutto il resto.

Solo al suo Arthur.
Per sempre.

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Capitolo 18
*** VXIII - Gelo ***


XVIII - Gelo


Stanza: Nr. 15, Stanza di Atena
(Dea della saggezza, della guerra difensiva)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: 100 m2
Temperatura: ca. -10 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 13:05 - 14:27



Il freddo era così pungente che poteva esserci soltanto ghiaccio, tutto intorno a lui: niente neve, e le pietre quasi tutte ricoperte da quello strato lucente e cristallino come uno specchio.
A lui non importava di quel gelo che gli aveva addormentato i muscoli facciali. Lo detestava, ma ci era abituato e lo sopportava senza problemi, e sapeva bene che poteva essere soltanto un punto a suo favore.
Il russo, calmo più che mai, nonostante avesse appena reso le sue sorelle cenere, si passò le dita tozze sullo sterno, lì dove la sciarpa era sgualcita ed il cappotto si lacerava: ormai il sangue si era seccato, e la ferita non faceva più male, e aveva una pistola ed il suo adorato Kalashnikov con lui.
«Meglio di così … si muore~» sorrise divertito, assottigliando il proprio sguardo, muovendo appena l’indice in aria, spostandolo dalla traiettoria della pistola a quella del Kalashnikov, come se stesse facendo una conta per affidarsi all’arma che il destino gli avrebbe fatto indicare per ultima, al termine della filastrocca che stava mentalmente canticchiando.
D’un tratto, però, un tonfo alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
«Oh!»
Aver ucciso sia Natalia che Katyusha era stata una saggia decisione.
Il sorriso del russo si ampliò e divenne una smorfia insana e tremante, mentre si chinava ed afferrava avaro fra le sue mani il machete, ma soprattutto la balestra.
Non un’inutile balestra che lanciava frecce, ma una di quelle che lanciano proiettili: rise appena, convincendosi subito che, per il prossimo, avrebbe usato quella.

Non appena sentì il freddo pizzicargli la faccia, entrato nella sua terza stanza, non poté che storcere il naso, comprendendo che forse, questa volta, sarebbe stato più difficile di quanto si aspettava.
Non si era ancora fasciato il fianco.
Non se lo sarebbe fasciato: non aveva tempo, voleva ucciderli tutti e arrivare alla fine di quello strano gioco; una ferita così lieve, anche se così maledettamente fastidiosa, poteva aspettare.
Non appena vide la sagoma del russo ad una decina di metri da lui, gettò la spada lontano, ascoltando il rumore metallico che risuonava contro il sottile strato di ghiaccio sul quale, doveva ammetterlo, stava faticando a rimanere in piedi.
Russia: un altro dei suoi odi storici, e profondi.
Il rumeno rimase in silenzio, incatenando il proprio sguardo allo slavo e caricando la pistola.
Nessuna presa in giro da parte di Vladimir, nessuna strana ed inquietante frase di Ivan: si rispettavano, e forse si temevano a vicenda.
Prima che potesse sollevare la pistola e puntarla verso il russo, qualcosa gli cadde di fianco: un fucile.
Romania sorrise appena, sistemando la pistola in tasca ed afferrando il fucile, cercando di mantenere la calma: iniziava già ad avere freddo, ed il fianco faceva terribilmente male, lì dove il cappotto intriso di sangue iniziava a pesare sulla ferita aperta e il tessuto sottile della camicia si era incollato alla pelle terribilmente dolorante.
Quando tornò ad osservare il russo, lo vide con la testa inclinata verso la spalla sinistra ed un sorriso fin troppo ampio e divertito, gli occhi ridotti a due fessure, immerso in quel silenzio così maledettamente irreale che iniziava a sopportare a fatica.
Aveva combattuto con qualcuno o no, Ivan? Non sembrava avesse ferite.
Sì, aveva combattuto, e come lui per il cappello squarciato dalla pallottola di Lituania, si era lasciato prendere dall’ira e dalla pazzia per la sciarpa, lacerata dalla katana del giapponese, e aveva ucciso.
Ne aveva ucciso uno in più di lui, in verità, anche se a tradimento.
«Vuoi combattere con quell’assurdità medievale?
Russia, sei sempre più idiota.»
Non poté risparmiarsi quel commento sarcastico e quel sorriso provocatorio, con cui finalmente ruppe il silenzio: aveva paura di perdere, e morire, ma non di Russia.
Aveva già avuto diverse volte a che fare con lui, in passato, e l’idea che si era fatto era quella di un bambino cresciuto, imprigionato nel corpo di un maligno.
Quando però Russia rispose con un lieve rantolio, contraendo il suo sorriso, il rumeno si sentì percorrere da un brivido.
Vladimir si rese conto che quello non era un inutile attrezzo medievale solo quando una delle pallottole transitò a pochi centimetri dalla sua spalla, ferendo l’aria gelida.
«Merda-»
«Che ne dici~?» ed ecco che, finalmente, quella voce cantilenante e soprattutto irritante giunse puntualmente a stuzzicargli le orecchie.
«E tu cosa ne pensi?!» sbuffò nervoso, premendo il grilletto del fucile, ma Ivan fu piuttosto veloce ad evitarlo. Intanto, il rumeno, guardò i suoi piedi e lo strato di ghiaccio su cui era immobile da troppo tempo, ormai: non sarebbe stato veloce come Russia ad evitare i colpi, soprattutto con il fucile fra le mani.
Avrebbe cercato di convincerlo a combattere a mani nude, per quanto fosse assurdo, ma prima decise di concedersi ancora qualche sparo.
«Nh-»
Quando alle orecchie del rumeno giunse quel gemito sommesso, non poté che sgranare gli occhi incredulo: centrato.
«Ublyudok …» il russo sibilò a denti stretti, premendo con la mano sulla coscia sinistra.
«Su su! Come sei poco sportivo! Non si insultano gli avversari così.»
E il rumeno non poté che lasciarsi sfuggire un ghigno, ma il russo anticipò la sua richiesta di combattimento a mani nude e sparò un altro proiettile nella sua direzione.
«Ah!» colto alla sprovvista, da quel proiettile in pieno petto, per di più lanciato a quella velocità, il rumeno gemette di dolore e si sbilanciò fino a cadere a terra, ma lì, mentre la mano destra correva alla nuova ferita, quella sinistra decise di riporre il fucile.
«Ora non scherzi più, da?»
Quell’idiota di Romania lo stava davvero invitando a lottare a mani nude? Nonostante quella ferita piuttosto consistente appena infertagli?
Bene, probabilmente non vedeva l’ora di morire, perire come le foglie che si seccano e cadono dagli alberi, in autunno.
Ivan sorrise, gettando la balestra ai suoi piedi.
«Salutami gli altri~» e la scavalcò, per poi avvicinarsi velocemente al rumeno, che a denti stretti per il dolore e lo sforzo di combattere il ghiaccio, rimanendo in equilibrio, ero già in piedi.
«Sarai tu a salutarli.» adesso non faceva più lo spavaldo, niente più ghigni terribilmente divertiti dal sangue e dal dolore altrui, o cose simili.
In quel momento, Vladimir, era terribilmente serio, e stava cercando di isolare la mente dal corpo, per eliminare quell’assurdo dolore fisico al petto.

Due anime corrotte.
Due anime assetate di sangue e che ridono del dolore degli altri.
Due anime nemiche, bramose l’una dello sgretolarsi dell’altra, perse nella loro solitudine, nel loro dolore.
Vittime dell’odio e di un mondo ferito.


Urlarono l’uno contro l’altro, all’unisono, ed anche il rumeno trovò la forza di lanciarsi contro il proprio nemico.
«Bastardo!
Bastardo! Te la faccio pagare! Per tutto!»
«Bello il comunismo, eh? Ricordi il patto di Varsavia? Io sì, ci eravamo così divertiti~»
«Ahh!»
Il pugno micidiale del rumeno andò a segno: un gancio destro dritto in faccia al russo, che barcollò gemendo appena.
«Sta zitto!»
«Ti divertirai ancora, ne~» sembrò quasi canticchiare, sorridendo ad occhi sgranati, nonostante il viso dolorante, sporco di sangue.
«No!» Vladimir urlò tutto il suo odio, con gli occhi quasi lucidi per lo sforzo, ma questa volta, il suo pugno, fu fermato inaspettatamente dal palmo aperto del russo.
Il rumeno sgranò i propri occhi, quando le dita tozze dello slavo andarono a circondare il suo pugno e lo strinsero: gemette appena, mentre l’altro sorrideva estremamente divertito dalla situazione.
Ivan non ci mise molto per farlo scivolare sul ghiaccio e voltare, ancora tenendogli il braccio teso all’indietro.
«A-ah!» il braccio del rumeno scricchiolò come un fuscello che veniva spezzato dal piede di un cacciatore inesperto, e le lacrime gli riempirono gli occhi, mentre era ancora voltato di schiena, con il russo che si ostinava a tirargli indietro il braccio, nonostante glielo avesse appena rotto.
«N-nh-»
«Che fai? Ti arrendi?» il sorriso di Russia si ampliò, mentre il rumeno iniziava a pesare, lasciandosi andare verso il basso, ma Ivan non lo lasciava; anzi, rapidamente, lo fece voltare di nuovo, e con una ginocchiata sul torace, proprio dove vi era la ferita causata poco prima dal proiettile lanciato dalla sua balaustra, lo fece urlare di dolore e cadere sul ghiaccio.
«Khorosho!» lo sentì pronunciare soddisfatto, mentre batteva le mani, una, due volte, con quel maledetto sorriso in volto.
“Bene”. “Bene”, come se lui fosse il suo cagnolino ubbidiente.
Romania strinse i denti, ancora deciso a sovrastare la forza del russo, ma prima che potesse rialzarsi, questo lo spinse nuovamente giù con un calcio, per poi schiacciargli il viso contro il ghiaccio.
Il rumeno rimase immobile, con il viso aderente al ghiaccio, gli occhi socchiusi, ma le orecchie attente: sentiva i passi cadenzati e calmi del russo, che si stava allontanando, e soprattutto lo stava facendo voltato di schiena.
«Idiot-» sibilò, e con un fulmineo movimento afferrò la Revolver dalla tasca e sparò un colpo deciso, diretto alla schiena del russo.
«Ah-!» Ivan si ritrovò sospinto in avanti, e quasi scivolò sul ghiaccio, che ora, sotto di lui, si stava tingendo di rosso: rimase voltato di schiena per qualche attimo, giusto il tempo di vedere anche il suo torace insanguinato e ferito proprio come quello del suo avversario.
Rimase in silenzio, e nonostante stesse perdendo molto sangue, si diresse velocemente dove le sue armi erano state gettate, ripiegando per afferrare la pistola, ma il rumeno era tornato in piedi, nonostante la ferita ed il braccio destro completamente fuori uso: era stato fortunato, sparare con il braccio sinistro non era stato facile.
«Non dovevi farlo, Romania.»
«Mi fai schifo Russia. Sei un bastardo.»
«E tu? Non dirmi che non ti sei divertito ad uccidere …»
«Oh sì, tanto ad uccidere il tuo schiavetto preferito.»
Russia rimase sorpreso di quelle parole, ma non fu disturbato mentalmente da ciò.
«Beh? Io ho ucciso le mie sorelle~» Vladimir sì.
Era sadico, amava il sangue, ma in cuor suo sapeva che non sarebbe mai arrivato ai livelli di Ivan, e ringraziava Dio di ciò.
Ivan si lanciò nuovamente contro il nemico, e Vladimir sparò un altro colpo, mancandolo di poco.
«Cazzo!»
«Ah~» questa volta, la mano del russo, arrivò velocemente al suo polso sinistro e, girandogli violentemente anche quello, gli fece scivolare la pistola via dalle dita.
«Ahn!»
Un altro calcio dello slavo sul torace del rumeno, e questo cadde nuovamente sul ghiaccio, ormai ricoperto quasi totalmente di sangue.
«Ora … voglio vederti morire.»
Il russo ampliò il suo sorriso, e ad occhi sgranati gli puntò la pistola contro la coscia.
«Lentamente~»
«N-n-
Ah!» Romania urlò di dolore, quando la pallottola dello slavo gli trapassò la coscia, e poi, Ivan, passò all’altra.
Un altro urlo di dolore, ed ora, il russo si stava affrettando a strappare un lembo di stoffa dai pantaloni per fasciarsi la ferita sul torace.
«Morirai di freddo, se non dissanguato~»
Una morte lenta. Lenta e dolorosa.
Qualcosa che Vladimir non avrebbe mai scelto per un suo nemico.

Le labbra del rumeno tremarono appena, in uno spasmo di dolore, mentre sentiva le gambe totalmente paralizzate, riscaldate dal sangue che continuava a sgorgare sotto il suo corpo ormai debole e stanco.
Trovò soltanto la forza di muovere le dita del braccio sinistro, gemendo di dolore, per afferrare una cosa preziosa che da un po’ aveva tenuto custodita nella sua manica insanguinata.
Respirò a fatica, con gli occhi socchiusi e i denti stretti per il dolore, lasciando che le lacrime si congelassero ai lati degli occhi, e passò minuti interminabili così, convivendo con il freddo ed il dolore, cercando con lo sguardo anche la più inutile delle armi che fosse lì intorno, senza trovarla.
Stava morendo.
Stava morendo, e Russia era lì, in piedi, a godersi lo spettacolo.
Che cosa era servito uccidere Lei, se ora era ridotto così, e stava perdendo il gioco?
E mentre i minuti passavano, le sue labbra mutavano dal roseo al violaceo, fino al bluastro, il sangue sulla pelle e sui vestiti si seccava, e le ferite continuavano a pulsare, il braccio ed il polso erano gonfi e ormai impossibili da muovere.

Ormai spinto al limite dalla perdita ingente di sangue e dal congelamento, trovò un ultimo briciolo di forza solo per stringere il segreto che si era tenuto nella manica e a cui era rimasto aggrappato, in quegli interminabili minuti di pura agonia: un brandello di stoffa verde che si era ben veduto dal proteggere da ogni più piccola macchia di sangue.

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Capitolo 19
*** XIX - Preghiera ***


XIX - Preghiera


Stanza: Nr. 16, Stanza di Atlante
(Titano che reggeva il mondo sulle sue spalle)
Posizione: Secondo girone interno
Dimensioni: 100 m2
Temperatura: ca. -27 °C
Fonti di luce: Lieve luce proveniente da una crepa
Ore: 14:10 - 17:00



Era lì da quasi un’ora, ormai.
Immobile, la schiena aderente al muro, il viso annoiato, con le ferite continuamente tenute sotto controllo, il fucile, la balestra e la nuova arma che gli era stata data -un arpione- adagiati a terra, poco lontano dai suoi piedi.
Il suo avversario tardava, e parecchio.
Durante quell’ora passata solo con il silenzio, ebbe modo di pensare a tutto quanto, a ricordare perfettamente quanto Arthur si fosse impegnato a curarlo, e di come lui avesse appena mandato in fumo tutti gli sforzi dell’inglese, uccidendo prima Gilbert e poi Francis.
“Arthur mi ucciderebbe se glielo dicessi.” le sue labbra parvero tremare appena, in un piccolo sorriso amareggiato che si spense subito.
“Ma probabilmente io e lui non ci incontreremo neppure …” chinò il capo, tenendo gli occhi bassi, e rimase in silenzio, in attesa che il destino decidesse per lui.

E il destino, ovviamente, fece la scelta sbagliata.

L’americano sbatté appena le palpebre, soffermandosi su quelle dita sporche di terra e sangue che arrancavano tremanti verso di lui, poi sgranò gli occhi completamente privato del respiro, quando si accorse che quello che stava strisciando e rantolando di dolore davanti a lui, portandosi dietro una scia di sangue, era proprio Arthur.

«A-Arthur-» il suo nome gli uscì come un singhiozzo dalle labbra, e si precipitò subito da lui, chinandosi al suo fianco e sollevandolo appena da terra, per sistemarlo sulla schiena e fargli adagiare la testa sulle sue ginocchia «Arthur! C-che cosa ti hanno fatto?!
Arthur!»
In quel momento comprese quanto fosse scabroso e meschino il gioco in cui la sua persona stava riscontrando tanto successo: mentre lui aveva rideva a crepapelle delle vite che si spegnevano davanti ai suoi occhi, Arthur, si trascinava a terra, con gli spasmi di dolore sulle labbra, consapevole di aver già perso in partenza, con una gamba completamente insanguinata e ormai privata di un piede.
«A-Arthur!
Rispondi-!»
In pochi attimi, le sue lacrime, iniziarono a scivolare fino al mento e poi giù, sul viso dell’inglese.
«Sta … sta un momento in silenzio, i-idiota …» gli occhi dell’inglese si schiusero a fatica, vitrei, a cercare subito quelli lucidi dell’americano.
Alfred si sorprese del lieve sorriso che Arthur si sforzò di disegnare sul pallido viso, stanco e distrutto: lo stava facendo solamente per tranquillizzarlo, conosceva bene quel sorriso amaro.
Lo stesso sorriso che gli rivolgeva quando lui, bambino, iniziava a piangere a dirotto per un ginocchio sbucciato.
Quando lo sentì sospirare a fatica e lo vide chiudere gli occhi, capì che voleva riposare, voleva solo un po’ di silenzio, per almeno qualche minuto, e allora Alfred si sforzò nel trattenere più singhiozzi possibili, adagiandogli delicatamente la testa a terra per raggiungere la gamba insanguinata.
“Scusami.
Scusami Arthur, ho buttato al vento tutti i tuoi sforzi, tutto quello che hai fatto per aiutarmi, ma ora sistemerò tutto.”

Si passò velocemente un braccio sugli occhi bagnati di lacrime e deglutì a fatica, avvicinando le mani tremanti alla ferita di Arthur, per poi bloccarsi non appena un tonfo poco lontano da loro gli giunse alle orecchie: quella doveva essere l’arma designata per l’inglese.
Lo statunitense si gettò ad afferrare il pugnale e tornò subito vicino alle gambe dell’inglese, strappando una striscia della giacca con l’aiuto dell’arma.
Voleva chiamarlo ancora, perché aveva paura del troppo silenzio che stava trascorrendo, ma per tranquillizzarsi gli bastò sentirlo gemere quando gli legò stretta la striscia di tessuto intorno alla ferita.
Con attenzione, circondò il corpo dell’inglese con le braccia, e lo sollevò da terra, andando a sistemarsi contro un muro per fargli adagiare nuovamente la testa sulle sue gambe.
«A-»
«Alfred-» l’inglese lo chiamò in uno spasmo di dolore e tornò a guardarlo negli occhi, questa volta senza alcun sorriso in volto.
«Io non ce la faccio.
Non … non posso andare avanti in questo stato.» le parole dell’europeo erano una triste realtà per l’americano, che si ritrovò a negare fermamente, con le lacrime agli occhi «cosa … cosa stai dicendo, Inghilterra?»
«Mi fa … malissimo- Alfred, m-metti fine alle mie sofferenze.
Per favore-»
«No!»
Un gesto egoista quello dello statunitense, certo, ma Inghilterra come poteva pretendere una cosa del genere da lui? Uccidere la persona che l’aveva cresciuto e che amava? Mai.
«Alfred …»
«Lo … lo sai! Non ti farei mai del male Arthur! Neanche a Berkeley avevo in programma di ucciderti!
I-io-» le parole dell’americano si arrestarono improvvisamente, quando sentì le dita dell’inglese sfiorargli la guancia bagnata di lacrime.
«Lo so-»
«E ho … ho ucciso Inghilterra. Di nuovo.»
«Non avevi altra scelta. Ho … ho ucciso anche io, anche se sembro io quello che è morto, in questo momento, t-tsk-»
L’inglese sembrò voler arrangiare una risata, un’altra di quelle per rassicurarlo, ma non vi riuscì, e si ritrovò a tossire e respirare malamente.
«Sta a sentire America, la fine non è vicina …
Da quel che sono siamo rimasti in pochi, e … ecco, promettimi solo che ci ritroveremo, come sempre.»
L’inglese ricevette in risposta il silenzio, ed altre lacrime che lentamente gli battevano sul viso, e dopo un po’ solo quella parola flebile e tremante, sulle labbra dell’americano «promesso-»
«Non è colpa tua se hai ucciso di nuovo …» Arthur volle ripetersi, mentre l’americano continuava a stringerlo e tenerlo vicino, torturandosi con tutte le questioni dolorose presenti nella sua mente: aveva appena ucciso Francis, era giusto che Arthur lo sapesse, oppure no? Che cosa provava Arthur per Francis? Lui aveva davvero buttato tutto al vento, o l’aveva fatto solo perché non aveva altra scelta?
E, soprattutto, Arthur lo stava aiutando per pietà, o perché lo amava veramente?
Non glielo avrebbe chiesto. Non in quel momento.
Non voleva metterlo sotto pressione, non voleva parlare di abomini mentali, ma piuttosto voleva passare ancora un po’ di tempo con lui, come sempre, e sentirlo vicino, nonostante quel dolore vivo e percepibile dentro al suo petto.
«Stamattina quando ti sei alzato hai acceso la luce di camera, come al solito. Q-quante volte ti ho detto che vorrei dormire un po’ di più?» Arthur voleva parlare delle loro giornate, di casa, per sfuggire a quell’orrore, per cercare di alleviare quel dolore e la vista tanto vicina di quella morte amara.
«Ti stavo preparando la colazione. Volevo-» Alfred di interruppe appena, aggrottando la fronte leggermente imbarazzato «volevo portartela a letto …»
L’inglese accennò un lieve sorriso: se lo aspettava, effettivamente, anche se non ci aveva pensato neppure un secondo di più a trattenere quel brontolio nervoso non appena diffusasi la luce nella loro stanza.
«Almeno per una mattina non avremmo mangiato toast palesemente bruciati.»
Quello fu il primo sorriso dell’americano, che a fatica, tirando su col naso, si ritrovò a ricambiare quello dell’inglese.
«I-io non brucio niente!»
Brontolò appena, per poi stringere la mano dell’americano fra le dita, non appena la sentì sfiorare la sua.
«Se dovessi metterci un po’ per tornare da te, non dimenticarti di prendere le pastiglie-»
«Lo so.» i loro sorrisi scomparvero in un attimo: quella cura pareva non finire mai.
Aveva iniziato con tre pastiglie ed un’iniezione al giorno, poi i farmaci erano stati ridotti a due, ma il liquido iniettatogli ad un siero più potente, poi si era tornati a quello di prima ed una sola pastiglia.
In quel momento la cura consisteva nel dividere a metà uno psicofarmaco e prenderne una parte appena svegli e un’altra prima di andare a dormire, ma molve volte doveva prenderne almeno una metà in più od un sonnifero la sera, perché il suo stato mentale era migliorato, ma il quieto vivere era stato completamente stravolto e lo stress non lo abbandonava neppure un momento: doveva ringraziare Arthur se non si ritirava in un angolo ad urlare e strizzare gli occhi per cercare di scacciare quelle immagini di sangue e torture che per giorni e giorni, subito dopo il suo ritorno, gli avevano riempito la testa.
Anche la mente di Arthur stava iniziando a cedere, subito dopo essere uscito da Berkeley Square, ma era riuscito a ritrovare la ragione quasi subito, non appena si era reso conto che lui aveva bisogno di un aiuto più sostanzioso e concreto.
Arthur era quello forte per tutti e due, e per questo lo ammirava, come lo aveva ammirato in passato: eppure, ora, stava morendo fra le sue braccia.
«Tu ci metti troppe cose nei toast, invece.» ed ecco che arrivava un’altra frecciatina da parte dell’inglese, che non si smentiva e, nonostante tutto, pur di distrarsi, si stava impegnando al massimo per difendere la sua cucina.
Le labbra dell’americano si incrinarono in un lieve sorriso, poi, fra loro, calò il silenzio.

«Arthur?»
La voce flebile dell’americano ruppe il silenzio dopo diversi minuti, e l’inglese se ne rimase con gli occhi chiusi e la testa adagiata contro le sue gambe.
«Che cosa c’è?»
L’americano deglutì appena, stringendo appena la mano dell’inglese, lasciando che le loro dita si intrecciassero, mentre gli occhi tornavano a velarsi di lacrime nuove.
«Ti amo.»
Arthur aprì appena gli occhi, per poi richiuderli ed accennare un sorriso.
«Anche io …»
Poi tornò il silenzio, ed Alfred rimase con gli occhi puntati sul suo petto, per assicurarsi che questo continuasse ad alzarsi ed abbassarsi lentamente, senza alterazioni.

«Non mi ero mai accorto di come fossi bello mentre dormi. Ti chiedo scusa anche per questo.» Alfred sussurrò appena, scostandogli i capelli dalla fronte: Arthur lo amava, ne era sicuro.
Non lo stava facendo per pietà.
Non lo avrebbe mai fatto per pietà, e se anche fosse stato così, lui, avrebbe continuato ad amarlo.

Alfred sospirò, chiudendo gli occhi e portando la testa all’indietro, scostando a malincuore la mano da quella dell’inglese: almeno due ore dovevano essere ormai passate.

Quel giorno in cui Arthur gli aveva regalato i soldatini, quanto era felice? Più grande aveva provato ad intagliare un pezzo di legno e farne uno suo, da aggiungere a quelli dell’inglese, ma aveva fallito miseramente.
E com’era bello, Arthur, ogni volta che dovevano essere eleganti per qualche noioso evento politico? Si sentiva così insignificante, e ammirava l’inglese. Lo aveva sempre ammirato.
E quanto avrebbe voluto stringere Arthur sotto la pioggia e pregarlo di smettere di piangere, quando gli aveva strappato di mano l’Indipendenza?
Senza quel giorno, però, ora non sarebbero stati loro.
Non ci sarebbe stato un americano in lacrime a stringere fra le braccia un inglese allo stremo, non ci sarebbe stato un americano ferito che stringeva i denti per il dolore alla spalla, mentre allungava la mano in cerca del fucile e rabbrividiva, trovandolo.
Piangendo in silenzio, mordendosi con forza il labbro inferiore per trattenere i singhiozzi, Alfred, si alzò attentamente, adagiando con delicatezza la testa dell’inglese a terra, ancora una volta, per poi baciargli la fronte.

Voleva aspettare che si addormentasse fin da subito. Non voleva guardarlo negli occhi nel momento in cui avrebbe messo fine alla sua vita, e non voleva che lui vedesse il mostro che era diventato.

Alfred gli puntò il fucile contro, deglutendo a fatica e lasciandosi sfuggire un singhiozzo, con le lacrime che ormai scendevano numerose a bagnargli il viso impallidito.
Arthur. Il suo adorato Arthur.
Che quello fosse il modo di fargli pagare tutte le vite uccise in precedenza? Che quella fosse la sua punizione?
«Ti amerò sempre-» singhiozzò, con le mani tremanti, mentre prendeva la mira sulla testa dell’inglese addormentato ed ignaro di tutto. Ignaro anche di quanto Alfred gli fosse grato e di quanto lo amasse.
Di quanto Arthur Kirkland facesse bene a quella mente persa e malata.

Esso stesso doveva spegnere la sua piccola speranza, quella fioca ma calda luce ancora presente nella sua vita, e non appena Alfred premette il grilletto gettò il fucile a terra e cadde in singhiozzi sulle ginocchia, coprendosi gli occhi gonfi di lacrime con le mani.
«A-Arthur!
Arthur!»
Si ritrovò quasi ad un urlare in lacrime, mentre lo raggiungeva strisciando a fatica, con la nausea allo stomaco e capogiri allucinanti, la vista annebbiata.
Sentì il suo corpo, quel peso assurdo, quel freddo aderire al suo, in un abbraccio mortale dove, singhiozzando, continuò a chiamare il suo nome.
«Arthur!
T-ti prego Arthur, perdonami!
Ti amo! Arthur!»

Dove continuò a chiamare la persona che avrebbe amato sempre, per tutta la vita, nonostante tutto.

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Capitolo 20
*** XX - Titani ***


XX - Titani


Stanza: Nr. 19, Stanza di Eris
(Dea del caos)
Posizione: Nucleo centrale
Dimensioni: 80 m2
Temperatura: Indefinita
Fonti di luce: Cerchio di fiamme
Ore: 17:30 - 23:44



Quella stanza aveva qualcosa di decisamente differente rispetto a tutte le altre, ed Ivan se ne rese conto non appena, superata la crepa formatasi nella stanza precedente, e poi un muro di ghiaccio ed una muraglia di fuoco, si ritrovò al centro di essa, con le suole delle scarpe immerse in una strana terra, come bruciata, o mista a cenere, nera ed argentea.
Non c’era via d’uscita, perché la muraglia di fuoco era tornata a crepitare ed illuminare la stanza con la sua integrità, e lo teneva stretto in un cerchio rovente dove, alle spalle di questa, il muro di ghiaccio era ritornato a ricoprire ogni singolo centimetro della parete umidiccia.
Un pungente odore di zolfo, ed un sudore freddo davvero fastidioso.
Sentiva l’aroma delle fiamme mescolarsi con la frescura del ghiaccio, e tutto ciò riusciva soltanto a mettergli ancor più nausea addosso, mentre provvedeva a fasciarsi stretto il torace ferito, stringendo i denti per il dolore.
Per fortuna, il proiettile che aveva colpito la coscia sinistra, gli aveva provocato una ferita molto meno grave di quella al torace, e perciò riteneva giusto doversi concentrare soltanto su quella più disperata, finché aveva tempo per farlo.
Il taglio allo sterno, ormai, non lo sentiva più, per il pugno sulla faccia, era ancora sporco di sangue, ma il dolore stava scomparendo velocemente.
Finito di annodare il lembo di tessuto intorno al torace, tese entrambe le mani in avanti, poco lontano dal suo viso, ed ecco che subito fu appesantito da una grossa bombola verde militare ed un lungo fucile scuro collegato ad essa da un tessuto isolante.
E così, alla sua collezione, insieme alla balestra, al machete, alla pistola e al kalashnikov, si aggiungeva un lanciafiamme.
Sistemata la pistola e il machete fra la cintura e i pantaloni, si caricò sulla spalla destra la balestra, e sulla schiena la bombola del lanciafiamme, sistemando il fucile di questo proprio fra essa e la schiena, per poi stringere saldamente il kalashnikov fra le mani, rimanendo immobile al centro del cerchio di fuoco, soltanto con qualche movimento impercettibile degli occhi, attenti ed ansiosi di cogliere qualche movimento oltre il crepitare d’oro rovente delle fiamme.

Erano passate ore ormai, da quando era lì ad attendere: il suo avversario ci stava mettendo davvero troppo tempo, e non ne comprendeva il motivo.
Nell’intervallo fra un crepitio e l’altro, finalmente, riuscì a percepire un debole passo alle sue spalle, e così si voltò velocemente, già puntando il kalashnikov in avanti.
Non appena lo vide, le sue labbra si incrinarono in un ghigno soddisfatto, gli occhi si assottigliarono, e il dolore di ogni ferita causatagli in precedenza parve scomparire, con ogni muscolo che già assaporava l’adrenalina e la voglia di ucciderlo, l’estati che fosse proprio quello il suo avversario.
Invece, sul viso dell’americano, era disegnata esattamente l’altra faccia della medaglia: aveva ancora gli occhi gonfi di lacrime, la testa appena china, le labbra ripiegate verso il basso e ferite dai suoi stessi denti, e non ebbe reazione quando si rese conto che quell’avversario era forte e pazzo, forse più pazzo di lui, che dopo aver pianto ancora, stretto al suo Arthur per diversi minuti, pareva aver ritrovato almeno un po’ della vecchia lucidità.
«Penso che sia l’ultima stanza.
E a quanto pare potrò vendicarmi~» il russo sorrise allegro, senza scostare gli occhi da quelli dell’americano: dopotutto era stato Alfred ad ucciderlo a Berkeley Square. E poi aveva sparato a Gilbert, quando lo avevano scoperto.
Al suo coniglietto, e lui non era neppure potuto andare a trovarlo all’ospedale.
Oh sì, si sarebbe vendicato, perché non c’era desiderio più forte, in quel momento.
Lo statunitense si rese conto che la ferita alla spalla, quella al petto e quella al torace, dovevano essere ignorate, perché Ivan avrebbe fatto fuoco molto presto e non gli avrebbe lasciato tempo di sistemarle; così si affrettò a sistemare la balestra sulla spalla, a caricare il fucile sulla schiena e a stringere l’arpione fra le mani.
Ivan era forse messo peggio fisicamente, con quella ferita al torace, ma lui, ora, aveva la mente occupata soltanto dal pensiero di Arthur, e non aveva voglia di combattere, non riusciva a percepire quella sete di uccidere che lo aveva accompagnato fino alla stanza precedente.
In più, le armi del russo, erano decisamente migliori delle sue.
Migliori, finché non arrivò la sua quarta arma, proprio davanti ai suoi occhi.

Le labbra dell’americano si incrinarono in un ghigno.
Non tutto era perduto.
E ora che ci pensava, perché doveva morire dopo aver ucciso Arthur? Quel sacrificio non sarebbe stato vano.
Avrebbe salvato la situazione, da bravo eroe.

«Ahahah! Russia~!
Forse lo sarà per te!»
Perso nuovamente ogni briciolo di lucidità, rise divertito: non c’era più un’altra faccia della medaglia.
In quel momento, entrambi, si erano già lasciati andare alla pazzia, e non vedevano l’ora di veder scorrere il sangue dell’altro, sentire il rumore delle sue ossa frantumarsi sotto i propri colpi.
Il vecchio Alfred, quello di mesi e mesi fa, quello che era sempre allegro e spensierato, non faceva altro che ridere e che poco prima era rinato dalle ceneri, per piangere la persona amata, pareva di nuovo essersi profondamente assopito, e non aveva alcuna intenzione di tornare a cercare la ragione e la razionalità.
Per Ivan, invece, il mostro che si era risvegliato in lui dalla sua prima stanza in poi, non l’aveva mai lasciato, anzi, lo aveva spinto ad uccidere Natalia e Katyusha, ma poco gli importava, forse meno di zero.

Un lanciarazzi a ricerca termica.
Ecco l’arma tanto preziosa con cui la sorte aveva deciso di premiare Alfred.
Ad Ivan, per un attimo, il suo lanciafiamme e il suo kalashnikov non sembrarono niente, se non un peso troppo concreto che avrebbe soltanto reso la sua condanna molto più probabile.
Quando vide le labbra dell’americano muoversi in fremito, capì che presto avrebbe lanciato il suo attacco, ed ebbe appena il tempo di pensarlo, perché già un razzo affilato stava stridendo nell’aria e venendo a tutta velocità verso di lui.
Alfred sembrava già piuttosto entusiasta, quando vi fu uno scoppio piuttosto violento non troppo lontano da lui: l’aveva preso.
E invece no.
Il sorriso agghiacciante sul volto dell’americano si tramutò a fatica in una smorfia, con gli occhi confusi che si rivolsero al russo: solo qualche bruciatura qua e là sul suo vecchio cappotto beige, niente di più.
«Sono a ricerca termica, dopotutto~» Ivan inclinò appena la testa, sorridendo allegro. Erano circondati da un cerchio di fiamme: come poteva pretendere, Alfred, di riuscire a direzionare con precisione i razzi verso di lui? Di certo la loro ricerca termica veniva compromessa da tutto quel calore, ed Ivan avrebbe indirizzato la cosa a suo favore.
“Che idiota.”
L’espressione del russo si fece improvvisamente seria, e allora, senza troppi complimenti, azionò il kalashnikov.
«Ah-!» lo statunitense si gettò a terra e riuscì ad evitare il grosso proiettile, per azionare a fatica l’arpione.
«Nh!» ed ecco che però, nonostante fosse costretto a terra, un po’ troppo vicino alle fiamme, riuscì ad arpionare la spalla del russo, riducendola a brandelli di carne, mentre le mani di questo cercavano in tutti i modi di liberarsi dell’arpione ed il kalashnikov era stato lasciato cadere a terra.
«Ahahah! Ma guarda un po’ chi ho catturato!» e rialzandosi, non poté che strattonare forte la corda dell’arpione, facendo cadere a terra il russo.
Senza esitare, però, nonostante il dolore, lo slavo afferrò la pistola e sparò due colpi contro l’americano, colpendolo sulla spalla già ferita e sul braccio in modo da fargli lasciare la presa sull’arma che li teneva collegati.
«Shit-» e mentre l’americano si affrettava a tamponare sulle ferite, stringendo i denti per il dolore, Russia riuscì finalmente a liberarsi dall’arpione e sospingerlo lontano, con un calcio furioso.
«America …» sibilò appena, assottigliando il proprio sguardo con la pistola ancora stretta fra le dita.
«N-non-» i denti stretti dell’americano, nonostante tutto il sangue che ora gli stava ricoprendo il braccio, parvero più un sorriso che una smorfia di dolore «non puoi fermarmi con due stupidi proiettili.»
E senza un minimo di esitazione, l’americano, lasciò scivolare la balestra poco più in basso della spalla, azionandola e liberando una micidiale freccia che andò a colpire la gamba del russo, lì dove era già stata ferita la coscia.
Le gambe di Ivan cedettero appena, e mentre il russo si affrettava a togliere la freccia dalla carne, Alfred si tuffò subito a recuperare l’arpione, che di lì a poco sarebbero tornato a squarciare la spalla del suo avversario.
«Ah!»
«Ma che cos’hai? Ahahah! Sei diventato un rammollito!»
Ma lo statunitense non si era accorto del sorriso infimo stampato sul viso del russo.
Quando entrambe le mani dell’americano si strinsero intorno alla corda dell’arpione, in modo da tirare Ivan a sé ed aprire ancor di più la ferita, il russo afferrò il fucile del lanciafiamme e lo azionò.
Una veloce scia di fuoco ridusse in cenere la corda dell’arpione, arrivando alle mani dell’americano che urlò di dolore, quando sentì i palmi bruciare, affrettandosi a farli battere più volte sulla giacca per cercare di alleviare il dolore.
«Sta zitto, America.» il russo ampliò il suo sorriso, togliendosi nuovamente l’arpione dalla carne sbrindellata della spalla e questa volta gettandolo fra le fiamme.
Ivan ripose la pistola e diede un’occhiata al kalashnikov, ancora fermo lì, ai suoi piedi, poi emise un esclamazione vocale che parve piuttosto soddisfatta, quando afferrò la balestra fra le braccia.
«La tua è una bella balestra, ma non quanto la mia, da?» e senza neanche dare tempo all’americano di capire, la azionò, sparandogli un corpo dritto al torace.
«N-nh!» l’americano perse l’equilibrio, e si ritrovò a battere i palmi delle mani bruciati e già pieni di vesciche a terra, gemendo di dolore.
Poi, lo slavo, lasciò cadere a terra anche l’ultima arma utilizzata, tenendo custoditi nelle proprie tasche il machete e la pistola ed affidandosi soltanto al lanciafiamme, nell’avvicinarsi all’avversario.
«Facciamo un gioco America!
Io aziono il lanciafiamme, e tu scappi. Finché puoi~»

Assieme al cerchio di fuoco che li teneva intrappolati al centro della stanza, si ci misero anche le fiamme liberate dall’arma del russo a compromettere le cose.
Riuscì ad evitare ogni ondata di tutte quelle lingue di fuoco, ma quando Ivan parve fermarsi, il bruciore sul viso era così forte che era evidente che la sola vicinanza con esse gli aveva provocato delle scottature.
«Sei bravo, ma credo non abbastanza~» il russo sorrise allegro, mentre lo statunitense cercava di sfruttare tutta la rabbia che aveva in corpo, il fatto che si fosse ritrovato a piangere e cullare il corpo di Arthur stretto fra le sue braccia, poco prima, e che ora, da chissà quanto tempo, doveva combattere un mostro esattamente come lui.
Ivan era come il suo riflesso allo specchio: un altro psicopatico che, molto probabilmente, riusciva soltanto a fare del male e deludere.
Alfred lo sapeva bene, che nonostante Arthur avesse risposto al suo “ti amo”, era deluso da lui, e stava male, per lui.
E allora avrebbe ucciso quel suo riflesso.
Quell’orribile mostro tanto simile a lui.

Quando si rialzò si sfilò la balestra dalla spalla e la gettò nel cerchio di fuoco: delle stupide frecce non potevano reggere il confronto con un lanciafiamme, un kalashnikov, una pistola e Dio solo sapeva quali altre sorprese lo slavo potesse riservare.
Imbracciò il fucile e premette velocemente il grilletto, andando a segno e colpendo il russo alla spalla ancora intatta.
Il russo rimase immobile per qualche attimo, poi assottigliò il proprio sguardo e, nonostante entrambe le spalle terribilmente dolorante, tornò ad impugnare la pistola, cercando di colpire l’americano in pieno tempo.
Fallito un tentativo, riprovò, colpendolo al fianco destro.
«Ah-!»
Con i diaframmi che si sollevavano e si abbassavano velocemente, i respiri affannosi, le vesti insanguinate e i visi doloranti, i loro sguardi si incrociarono, e rimasero ad osservarsi per diverso tempo.

Ivan pensò alle ferite di Alfred: prima che lui lo colpisse al torace, con un proiettile, aveva notato un taglio non troppo profondo, ma comunque abbastanza lungo, probabilmente di una spada, poi aveva una macchia di sangue piuttosto marcata sul petto, come se lo avesse colpito qualcosa di piccolo, una freccia forse.
Gli aveva trapassato la spalla con un proiettile, ma quel punto pareva essere già stato colpito da un altro, poi il braccio, e la ferita più recente, al fianco destro. Poi le mani bruciate e piene di vesciche fastidiose.

Alfred pensò alle ferite di Ivan: aveva una lievissima macchia di sangue sullo sterno, probabilmente un taglio di una spada o qualcosa del genere, aveva la coscia sinistra ferita, sicuramente da un proiettile, così come il torace, la faccia che evidentemente aveva ricevuto un pugno piuttosto consistente, anche se non era proprio cosa da classificare come vantaggio.
Oltre a questo l’inconsistente ferita alla gamba, provocatagli dalla sua freccia, ma molto importanti il proiettile conficcato in una spalla e l’altra completamente sfracellata dai due micidiali colpi di arpione che aveva ricevuto.

Lo statunitense sorrise all’improvviso, e decise di rompere quel silenzio agghiacciante creatosi fra di loro.
«Tranquillo, tutto il sangue che c’è qui, sulla mia divisa, non è solo mio.»
Ivan rimase in silenzio, continuando ad osservarlo con indifferenza.
«Ahah! Se solo sapessi chi ho ucciso~!»
E d’un tratto, il cuore del russo parve fracassare la cassa toracica, da quanto fu forte il battito.
Rimase immobile, assottigliando il proprio sguardo e parlando con voce estremamente fredda.
«Chi?»

«Il tuo coniglietto~☆»

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Capitolo 21
*** XXI - Massacro ***


XXI - Massacro




Il russo rimase in silenzio, con le labbra contratte in quell’espressione fredda ed indifferente, gli occhi color malva puntati sullo statunitense.
Sul sangue che gli sporcava la divisa. Il sangue del suo coniglietto.
La pistola, in quel momento, era inutile, perché la rabbia che gli ribolliva nel sangue era sufficiente a fargli prudere le mani e dargli abbastanza forza nel corpo da poter togliere di mezzo l’americano anche solo con la forza delle dita.
Gli occhi del russo si assottigliarono improvvisamente, la sua smorfia si incrinò in un’espressione quasi deforme, lasciando che la sua rabbia irrompesse in un verso spiritato a fior di labbra, risuonando nella stanza illuminata dalle fiamme.
L’americano rimase immobile, percependo una goccia di sudore attraversargli la tempia, stringendo saldamente le dita intorno al fucile.
Il verseggiare agghiacciante del russo si interruppe in un rantolio che parve quasi un ringhio, quando decise di gettarsi contro l’americano, che non fece neppure in tempo a raggiungere il grilletto del fucile con le dita.
Il respiro di Alfred fu bloccato dalle mani del russo, strette saldamente intorno al collo, con il viso rabbioso a pochi centimetri dal suo.
«Non dovevi.
Non dovevi toccare Prussija.»
E ad ogni parola, le dita tozze forzavano la stretta sul collo dell’americano, che cercava di allontanare lo slavo con le mani, mentre con le suole delle scarpe creava un disperato attrito sul suolo cupo, più e più volte, nel tentativo di darsi la spinta e riuscire a schiodarsi di dosso l’avversario, più determinato che mai a mettere fine alla sua vita.
«Non dovevi, America!»
Non bastava la sua morte a Berkeley Square, non bastava il fatto che Gilbert fosse finito all’ospedale e lui non fosse potuto andare a trovarlo, o che poi non gli avesse mai più rivolto la parola, ma ora doveva venire perfino a sapere che quell’odioso di un americano, fra tutti, aveva ucciso proprio il suo adorato coniglietto.
Alfred, dal canto suo, era più determinato che mai a vincere il gioco per non vanificare il sacrificio di Arthur, e così, stringendo i denti con il respiro ormai quasi del tutto assente, riuscì a muovere una gamba così rapidamente ed abilmente da riuscire a colpire il russo al torace, con una ginocchiata proprio sulla ferita.
«Nh!» il russo si portò d’istinto le mani al torace, dove ora, la ferita provocata dal proiettile, stava perdendo troppo sangue, e si riversò su un fianco, gemendo per il dolore.
Senza badare a tutto il sangue impregnatosi sul ginocchio che aveva colpito la ferita di Russia, Alfred si rialzò e gli rivolse un calcio sul torace, nonostante a proteggerlo vi fossero le braccia dello slavo, che gemette nuovamente.

Quando Ivan riaprì gli occhi, intravide Alfred imbracciare nuovamente il fucile, e puntare la canna di questo alla sua testa.
No.
Non sarebbe morto così.
Non si sarebbe lasciato mettere a terra da una sciocca ferita al torace, perché quel bastardo che ora lo squadrava dall’alto aveva ucciso la persona che amava.
Aveva ucciso Gilbert.
Ivan urlò di rabbia, quasi ringhiando e sputando veleno con gli occhi incatenati a quelli dell’americano, prima di muovere la gamba sinistra e colpirgli le caviglie con un movimento rapido di questo, buttandolo nuovamente a terra.
Nonostante la caduta, lo statunitense, non si era arreso, e teneva ancora il fucile stretto fra le mani, ma prima che potesse recuperare la presa sul grilletto, il russo si mise sulle ginocchia ed estrasse il machete, conficcandoglielo nel linguine.
«Ahh!»
L’urlo straziante dell’americano risuonò nella stanza, provocando una flebile risata agghiacciante sulle labbra del russo.
«Ne, ti sta bene America~» e si alzò in piedi, sorridendo divertito, adagiando la punta del piede sul machete per far penetrare tutta la lama, lentamente, nella ferita dell’americano, già molto profonda.
«A-ah!» lo statunitense urlò ancora, lasciando che le lacrime scivolassero lungo la pelle, e poi ad inumidire la cenere nera che gli faceva come da giaciglio.
«A-Arthur-» il suo fu un rantolare confuso, uno biascichio di lacrime e di dolore, e di quel nome che ora non faceva altro che ripetere.
«Arthur ...»
Ivan capì, e si fermò, lasciando comunque la punta del piede aderente al manico del machete: anche lui stava combattendo per la persona amata.
Anche lui, ma non lo avrebbe lasciato vincere.
Doveva vendicare Gilbert. Doveva vendicarlo a tutti i costi.

Non doveva vanificare il sacrificio di Arthur. Non doveva.
E continuava a ripeterselo mentalmente, l’americano, ormai immerso nell’oblio del dolore, con gli occhi piedi di lacrime e il corpo insanguinato.
«Arthur!» urlò, poi, sollevando il fucile e sparando alla cieca.
«Ah-!»
Il russo cadde all’indietro, portandosi subito la mano sull’incavo fra spalla e collo: lo aveva sfiorato, ma se gli avesse presso il collo, trapassandogli da parte a parte la trachea, lo avrebbe ucciso sul colpo.
Intanto, Alfred, ne approfittò per levarsi il machete dal linguine e gettarlo fra le fiamme, trascinandosi indietro cercando per lo meno di sedersi e resistere a quel dolore assurdo.

In quel momento si ritrovarono entrambi costretti a terra, feriti e doloranti, con il respiro smorzato, il sudore ad impregnare le vesti e le fiamme a scottare i loro visi martoriati.
Ivan sentiva il respiro mancare, sempre di più, con le narici ormai avvelenate dal fuoco e dalla cenere nera, dal fastidioso odore di zolfo, e dovette respirare profondamente più volte, ansiosamente, con la mano sul petto, in cerca di aria pulita.
Alfred non riusciva neppure più a muovere le gambe, da tutto il dolore che si era diffuso nel basso ventre insanguinato, dove quella ferita profonda si apriva sotto i suoi occhi, ed il sangue continuava a sgorgare. Quando poi fece caso che il sangue non era la sola sostanza a sgorgare da lì, ma che la sua fuoriuscita era accompagnata dall’urina, tirò la testa indietro quasi nauseato, stringendo i denti e respirando affannosamente.
Anche se fosse riuscito ad uccidere Ivan, lui, non sarebbe andato verso sorte migliore, con la vescica lacerata.
Eppure non voleva morire.
Si sarebbe arreso, se non avesse portato nella propria mente il pensiero di Arthur.
Entrambi i loro visi iniziavano ad apparire più pallidi del normale, le labbra dell’americano addirittura violacee, gli occhi del russo stancamente socchiusi.

America doveva fare un ultimo tentativo: lo sapeva bene.
Nonostante quei terribili giramenti di testa ed il dolore lancinante al basso ventre, fu il primo a rialzarsi, anche se si ritrovò a barcollare appena.
Il russo incrociò il proprio sguardo a quello dell’avversario, e senza più ricorrere alle armi, si alzò in silenzio.
L’americano prese la mira sulla testa del russo, ma dovette combattere con i conati e la testa dolorante, mentre il sangue continuava a sgorgargli pesantemente sulle gambe.
Il dito scivolò sul grilletto, poi si risistemò a fatica su di esso, mentre la vista si annebbiava, e quando tornò nitida, l’espressione fredda ed agghiacciante del russo era a pochi centimetri dal suo viso.
Con una manata, lo slavo, gli fece scivolare il fucile dalle mani, e allora, lo statunitense, barcollò all’indietro, socchiudendo gli occhi, ormai indebolito da quell’ingente perdita di sangue.
«Arthur …» si ritrovò ancora una volta a pronunciare tristemente il suo nome, con gli occhi lucidi, e la testa che scoppiava, consapevole di ciò che stava per delinearsi in quella stanza infernale.
«Do svidaniya, Amerika.»
E i palmi delle mani del russo si adagiarono sullo sterno dell’americano, spingendolo all’indietro con forza.
Alfred si sbilanciò ancora, e perso del tutto l’equilibrio, il suo corpo ferito incontrò le fiamme.

Ivan rimase in ascolto di quegli urli straziati, di quel corpo che lentamente si deformava, carbonizzato dalle lingue di fuoco rovente.

Il russo era così stanco ed indebolito dalle ferite che non riusciva quasi neppure a rendersi conto che ormai aveva vinto quella sfida, che aveva vinto il gioco, e che le fiamme intorno a lui si erano spente, così come il ghiaccio si era sciolto e come il buio era velocemente sceso.

Rimase immobile al centro della sala, e poi cadde sulle ginocchia, portandosi le mani alla testa, con gli occhi lucidi ed il respiro tremante.
«Gilbert …
Gilbert, tornerò da te …»
Lo voleva vedere. Lo doveva vedere.
E lasciandosi scivolare sul viso pallido le poche lacrime che un essere pazzo come lui era in grado di versare, tirò appena indietro la testa, deglutendo la fatica ed il dolore diffuso in tutto il corpo.
E ora? Ora cosa ne sarebbe stato di lui? Di loro?
Quella era l’ultima stanza, e allora perché, oltre allo spegnimento delle fiamme e allo scioglimento del ghiaccio, non era successo nient’altro?


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Quando riaprì gli occhi, la sua guancia destra era aderente alla cenere nera, e sollevato il viso se la ripulì appena con la mano, senza percepire più alcun dolore.
Non c’erano bruciature sul suo cappotto, né sangue o ferite sul suo corpo.
Stava bene, nonostante in quella stanza non fosse cambiato niente, e nelle pareti non si fosse aperta alcuna fenditura.
Quando però si sollevò in piedi notò una piccola striscia di luce proveniente dal pavimento, a qualche metro da lui.
Forse era davvero l’ultima stanza: si era aperta una fenditura nel pavimento, ed alcune piccole scale portavano sotto la stanza.
Sorrise speranzoso, e non ebbe paura di imboccare quelle scalette.
Percorsa una manciata di queste, la luce che lo illuminò era la più potente che avesse visto in tutte quelle ore trascorse lì.

Si ritrovava in una stanzetta più piccola, con tre pareti piene di tasti illuminati di colori diversi, soprattutto verdi, o bianchi, o gialli.
Nella parete vuota, che era proprio di fronte all’ultimo scalino, invece, si materializzò subito una scritta rossa.
“A te la scelta.” Semplici parole scritte col sangue, forse di tutti gli Stati periti fra le spire velenose del gioco.
Ivan si guardò intorno, avvicinandosi alle tre pareti piene di tasti: doveva premerne uno? Uno su quanti? Duemila? Forse tremila?
Erano tantissimi, di forme e colori diversi, e ognuno, molto probabilmente, nascondeva qualcosa di terribile, perché di certo in quel momento gli risultava davvero difficile pensare che metà di quelli prevedesse cose negative e metà cose positive, come era giusto che fosse.
Certo, però, i colori potevano aiutare.
Per esempio un certo colore viene sempre associato al negativo, ma quando Ivan vide quel grosso tasto, al centro della parete più vicina a lui, non ebbe alcun dubbio.

«Oh che bel colore~!»

E lo premette.



Mai premere il rosso. Mai.






✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠✠


-Lo Spazio dell’Autrice-

Ed eccoci giunti alla fine della seconda serie!
Come sempre ne approfitto per ritagliarmi uno spazietto che, come minimo, sarà più grande del capitolo in sé, pffft.

Dunque, innanzi tutto un abbraccio a tutte voi che mi avete seguito segretamente, mi avete messo fra le preferite, mi avete recensito e a chiunque passi di qui (?).
Dunque, pensavo sinceramente che l’idea del seguito avrebbe fatto calare il numero dei lettori in modo impressionante, e invece ecco qua che questa fic è finita fra le più popolari grazie a The Naiads, malice, Sweet Witch, MichiaGuaddi, Ikari Everthorne, _Whity_, RuKiA, Kawaii_, Grotesque, Kaichan__, SickMind e Nuit.
Sappiate che vi adoro tutte e vi voglio adottare. Ok dai, basta fare la cretina su. Alla fine posso dirmi soddisfatta.
Se devo parlare per me, dal punto di vista personale, ho preferito “L’Incubo”, perché ho trovato questa un po’ troppo ripetitiva, ma a quanto pare per voi non è stato così e ne sono molto contenta. Essere riuscita a mantenere un numero così alto di lettori seppur questi siano 21 capitoli di sola lotta, è stato un gran traguardo/e una gran fatica/, e ho in mente taaaante belle cose per il futuro~
Terza serie? Neanche a chiederlo!
Ed è probabile che partorirò qualche bonus track (?) del tipo “cosa fosse successo se …”, “come reagirebbe questo leggendo tale capitolo”, e cose così.
Avrei una domanda da porvi comunque: come diavolo si mettono le immagini nei capitoli? E poi anche delle copertine di ogni storia, che devo cercare. Teoricamente avrei molte idee per le copertine, ma non so disegnare, quindi mi devo affidare alle immagini sul web ;A;
Comunque se qualcuna di voi può aiutarmi mi farebbe un grande favore, ecco!
Per quanto riguarda la terza serie, il primo capitolo è probabile che arrivi fra … una settimana? Perché devo ordinare per bene le idee, ecco.
Ci saranno nuovi personaggi, nuove location e … beh, lo vedrete presto.
E ora arriva la mia parte preferita~

Osservazioni sui vari personaggi:
Ungheria: terzo posto sul podio delle più cazzute, per me. Mi dispiace solo averle concesso poco spazio. Tralasciando la battaglia con Austria, che per lei ha avuto un coinvolgimento emotivo, in quella contro Romania ha mostrato gli attributi ed è stata davvero brava.
Austria: credo che Roderich mi odi, ma con qualcuno dovevo pur aprire la lunga serie di morti, gh.
Ripeto, come avevo fatto nell’ultimo capitolo dell’”Incubo” che adoro Roderich, anche se potrebbe non sembrare, lol.
Invece detesto l’AustriaxUngheria/mi scuso in presenza di eventuali fan e mi manlevo da ogni responsabilità uwu (?)/ma ho ritenuto che già il primo capitolo dovesse far capire a tutti quanto potesse essere crudele il gioco.
Olanda: A-Abel. Il mio Abel.
Scusate, ultimamente è fiorito un amore per Olanda e neanche io so il perché -quella che da piccola detestava l’Olanda e i tulipani-
Ma smettiamola di svelare queste brutte cose su di me!
Su di lui non ho poi molto da dire, insomma, tutti voi avrete capito l’inciucio (?) fra lui e Lussemburgo. Ah, quel capitolo mi ha fatto perdere qualche lacrimuccia, ghu.
Unica cosa: mi sarebbe piaciuto tanto farlo scontrare con Spagna -scler-
Danimarca: il dispiace di averlo fatto morire subito mi ha straziato, nh. Mi è mancato per tutta la durata della fic, solo che Olanda-Danimarca mi ispirava molto/e poi sono stati proprio questi due a darmi la carica/.
Vedrò di dargli un po’ di spazio nella prossima serie. x3
Italia del Nord: povero piccolo Feliciano. Una delle morti peggiori, forse, però ridevo mentre scrivevo il capitolo.
Nutro un certo sadismo nei confronti dei fratelli Vargas -non si è mica notato, eh!- e di questo mi scuso profondamente/ma anche no/.
Bielorussia: scusami Nat, a te riservo il secondo posto fra le più cazzute, perché, sì, nustri un certo sadismo anche tu nei confronti dei Vargas, ma ti sei fatta mettere nel sacco dal suo amore impossibile.
Canada: anche Matthew mi odia. Tantissimo. Lui e Roderich non hanno avuto molto spazio né qui, né nell’”Incubo”, perciò cercherò di impegnarmi a fondo per dare un po’ di giustizia ad entrambi nella prossima serie.
Francia: Francis, che è apparso nei primi capitoli e ricomparso negli ultimi. Costretto ad uccidere qualcuno che ha amato ed allevato come un figlio e morto per mano del rivale in amore, senza poter vedere Arthur e confessargli i suoi sentimenti.
Uno sfigato, insomma.
Scusa Francis! ;A;
Germania: logico che scegliessi di far morire lui e non Gilbert, ecco.
Germania al massimo poteva vincere contro Ucraina, Belgio o Lit- ok basta, la smetto di odiarlo profondamente.
… No dai, non ce la faccio.
Però, siccome sono buona, nella terza serie gli sarà dato spazio.
Ringraziami crucco, mhpf.
Prussia: l’unico per cui ho pianto seriamente, nh ;_; avrei tanto voluto fargli incontrare Russia -Dio mio, una fanfiction senza RuPru!- ma penso che sarei annegata in fiumi di lacrime se lo avessi fatto, lol.
Grazie a te, Gilbert, ho ripreso ad odiare America, a cui NON sarà dato spazio nella terza serie.
Giappone: in questo contesto me ne approfitto per dire che sarà difficile vedere Cina in una delle mie fic, perché ho notato che qualcuna di voi l’ha nominato in una recensione xD
Comunque l’Asse è stato sfortunatissimo questa volta, bisogna dirlo.
Penso che si rifarà nella terza serie, sì.
Lussemburgo: l’unico OC della serie che, pare, abbia riscosso un minimo di successo, contrariamente a quando mi sarei aspettata. A lei riservo il primo posto delle donne cazzute, perché tutti sappiamo cosa ha combinato con Spagna, lol~
Comunque il terrore di creare una Mary-Sue è perenne, ngh, e spero che anche con i prossimi OC che spunteranno andrà bene.
Di tutta la serie è stata la mia preferita, e mi ha fatto scrivere il capitolo XIV che, nonostante preveda la sua morte, è forse quello che mi piace di più! +A+
Spagna: questo ragazzo … ha un bel culo.
Ok, forse sono un po’ migliorata con lui? Non lo so. Lo spero.
Insomma, avrei voluto dargli molto più spazio, ma siccome amo l’angst e le cose fra la famiglia ispanica e quella dei Van Halen andranno a complicarsi ho dovuto metterlo contro Alice/e tanto ho dimostrato che Lussemburgo non è una lagnosa come poteva sembrare quando è morto Abel/.
Belgio: scusami Belgio se ti odio e ti ho dato cinque righe di spazio -rotola via-
Sud Italia: -torna perché ha ancora da commentare-
Ovviamente avrei voluto farlo scontrare con Feliciano -troll- ma ho risparmiato la bastardata e ho preferito l’intreccio Olanda-Lussemburgo-Spagna-Sud Italia (Belgio l’ho messa lì per figura, se ancora ve lo state chiedendo c:).
E sì, avete visto un Lovino capace di tirare granate perché ho un’idea di lui totalmente diversa dalla classica.
Dopotutto è il Sud Italia: dove a mettiamo la mafia, eh? (?)
E anche per Feli. I partigiani, cavolo!.
Anche i Vargas sanno combattere, giuro~
Romania: mhn~ scusate, ho un feticismo per questo ragazzo/e per la RomHun/.
Qualcuno l’ha definito Diavolo, qualcuno mi ha fatto i complimenti per come lo caratterizzo, e ne sono felice.
Il capitolo dove ha massacrato Ungheria mi ha fatto sbavare, e insomma, forse, dopo Lussemburgo, è quello per cui avrei tifato ;w;
E quanto mi si è stretto il cuore quando è morto stringendo un pezzo di stoffa del vestito di Ungheria ;A;
Polonia: sinceramente? Non ho nulla da dire.
E di certo non sono molto brava con lui. Vedremo cosa combinerò nella terza serie.
Lituania: Anche per lui vale lo stesso discorso di Polonia, purtroppo. E, argh, rendiamoci conto, questo gli avrebbe chiesto di sposarlo quella sera!abr> … Sono crudele ;w;’
Ucraina: anche a lei non ho lasciato molto spazio, non perché i stia antipatica, ma perché non ce la vedo proprio immischiata in un gioco del genere.
Ricordo infatti che come arma aveva il forcone-
Inghilterra: subito a sospettare di lui, cretino di un Lovino! òAò
La morte più triste della fanfiction, a mio parere ;-;
Scusami Arthur, lo sai che sei nella mia top five e sei uno di quelli a cui voglio più bene ;//;
America: Bastardo. Bastardo maledetto.
Str- … scusate. Però dai, ha ucciso Gilbert e ho l’impressione che molti di voi tifassero per il Magnifico, quindi se lo offendo un po’ non se la prende nessuno, no?
Devo ammettere che però ho riscoperto un nuovo Alfred soprattutto in questo capitolo, quando non ha fatto altro che ripetere il nome di Arthur in lacrime per un bel pezzo.
Non nascondo che in questo capitolo mi siano venute le lacrime agli occhi verso la fine, nh.
Russia: era quasi logico che facessi vincere lui, e la vendetta in stile RuPru in finale -rigorosamente divisa in due capitoli perché sono bastarda come Alfred (?)- ci stava.
Ringraziate tutti Ivan che ha premuto il tasto peggiore~

Punteggi:

America: 07 (+ 03)
Russia: 00 (+ 05)
Italia del Sud: 00 (+ 02)
Lussemburgo: 02
Prussia: 01 (+ 01)
Romania: 02
Bielorussia: 00 (+ 01)
Francia: 00 (+ 01)
Inghilterra: 00 (+ 01)
Lituania: 01
Olanda: 01
Unghiera: 01
Austria: 00 (+ 00)
Belgio: 00
Canada: 00 (+ 00)
Danimarca: 00
Germania: 00 (+ 00)
Giappone: 00
Italia del Nord: 00 (+ 0)
Polonia: 00
Spagna: 00 (+ 00)
Ucraina: 00


Uff quanto ho scritto -stanza-
Beh …

Alla prossima.

_Neu Preussen_





Lo so che è orribile, perdonatemi, la geometria e la precisione non sono il mio forte, ma almeno dà un'idea su come fosse strutturato il tutto. Vogliatemi ancora bene! ;*;

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