Giove contro

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


GIOVE CONTRO
1.


- Dove vai? Aspetta!
Allungò una mano e cercò di afferrarla sopra il gomito, ma la pelle umida di sudore di lei gli scivolò via dalle dita. Dalla forza di quella stretta cui era appena sfuggita con uno strattone si era accorta che lui non stava affatto scherzando. Gliel'aveva letto negli occhi che gli aveva puntato addosso per un istante, lampeggianti di rabbia tra i ricci cupi. Puntò dritta verso le docce delle donne.
- Mi vuoi ascoltare per un minuto? - nonostante il tono seccato e la voce alta lei non si fermò. Gli altri frequentatori della palestra li avevano notati: alcuni sorridevano pensando al solito bisticcio tra innamorati. Stavolta no, si disse. Era infuriata: si rifugiò dentro il bagno delle donne, al momento vuoto, e lui la seguì. Quando sentì la porta aprirsi subito dietro la sua schiena lo fronteggiò.
- Dimmi che non stavi dicendo sul serio! - sbottò lui.
- Certo che dico sul serio. E vedrai che lo faccio!
- Troppo pericoloso. Ho detto che non te lo permetto!
- Smettila di comportarti da paparino! Non sei mio padre e nemmeno lui potrebbe impedirmi di fare quello che voglio.
- Certo che posso impedirti di suicidarti, invece! A me non ci pensi?
- E tu a me ci pensi? - gridò lei, il viso deformato in una maschera d'ira.
La porta si era aperta e una giovane cliente della palestra aveva fatto capolino. A quello strillo rinunciò a usufruire dei servizi igienici, tornando subito sui suoi passi e chiudendo bene la porta.
Il silenzio che seguì lo scatto della porta sembrò doversi protrarre all'infinito. Ci pensò lui a interromperlo.
- Ripensaci per favore, io...
Alzò le mani con l'intenzione di posargliele sulle spalle, ma lei le colpì con rabbia per allontanarle. Non contenta lo spintonò con forza inaspettata, in pieno petto, due volte. Colto alla sprovvista dovette retrocedere per riguadagnare l'equilibrio. Era proprio furiosa. Lasciò cadere le braccia muscolose lungo i fianchi in segno di resa.
- Vengo con te.
- Fai quel cazzo che ti pare! È la cosa che ti riesce meglio, no? - fu la violenta risposta, urlata.
Non era mai stata un tipo facile: orgogliosa, forte, decisa. E resistente: gliene erano successe di tutti i colori, ma lei era sempre lì, con la sua voglia di fare, di andare avanti da sola, con la sua sola forza. Lodevole, senza dubbio: ma aveva dei limiti anche lei e temeva che li avesse raggiunti. Era sotto un forte stress. Certo, ce n'era voluto: aveva vissuto più disavventure lei in un anno che tutti gli astronauti che lui conosceva nella loro vita messi insieme. Aveva una grande forza dalla sua, ma anche una bella dose di sfortuna. Stava esagerando però. Ora se li stava davvero cercando, i guai. Infatti se quelli derivati da un po' di inesperienza erano comprensibili, quelli cui lei voleva andare incontro ora erano del tutto gratuiti. Pertanto incomprensibili per lui. Ciò che le era accaduto al molo fantasma di Apollo sarebbe stato facile da evitare se solo lei avesse saputo i rischi che correva. Le era corso incontro tutte le volte che aveva potuto, ed era perfino rimasto coinvolto in pericolose avventure insieme a lei. Potevano vantarsi di essere sopravvissuti al tuffo in una nebulosa!
Ma ora questo! Aveva trascorso un mese abbondante insieme a lei trascurando i suoi doveri sul Raja. Alla fine della sua ultima disavventura si erano parlati a lungo per chiarirsi e le cose sembravano essersi sistemate. Le aveva dato una mano, avevano fatto dei lavoretti insieme, aveva prestato servizio sulla sua nave come specialista. Si erano allenati insieme: aveva ripreso a frequentare assiduamente la palestra con lui ed era stato contento di vederla così entusiasta da attrezzarsi con pesi nuovi per potersi allenare anche durante i viaggi. Sia lui che il suo allenatore l'avevano riempita di consigli, entrambi convinti che volesse solo mantenersi bella e in forma. Non c'era una sola ventisettenne al mondo che non desiderasse un fisico snello e tonico: lei non era sembrata da meno.
Invece c'era dell'altro. Non si era affatto tranquillizzata, non era ancora in pace con se stessa. Non del tutto, almeno. Pochi minuti prima, chiacchierando mentre completavano fianco a fianco ciascuno la propria scheda di esercizi, era saltata fuori la verità. Quasi per caso, forse per sbaglio, repentina come un tradimento. E altrettanto dolorosa.
- Non so cosa dire...
- Non dirmi niente! Non fare niente! – strillò ancora lei.
L'aveva lì davanti, provocante e sensuale, inguainata nella divisa da atletica unisex succinta e aderente, coi colori della palestra. La desiderava: l'avrebbe abbracciata com'era solito fare, avrebbe voluto affondare il viso nei suoi bellissimi capelli ricci, lucidi e voluminosi: quando li portava sciolti le conferivano quell'aspetto fiero e maestoso che lui adorava. Ma non poteva toccarla, non osava farlo. Ogni reazione alle sue parole era una fiammata, un'onda di liquido incendiario. Rabbia concentrata. Non riusciva a capire cosa avesse fatto per creare in lei tutto quel risentimento. Non dopo tutto quello che si erano detti.
- Calmati e stammi a sentire un minuto! - sbottò. Se bisogna fare la voce grossa sono capace anch'io, si disse. Ma non era arrabbiato quanto lo era lei: era solo confuso e un po' frustrato.
- Mi pare ci sia una certa differenza tra il godere della propria libertà e il rischiare la pelle per niente! Direi che...
- Ah! Di nuovo i tuoi discorsi sensati! Risparmiali per qualcun altra! - lo interruppe subito lei con un'altra vampata. Era arrossita come spesso le capitava quando era preda di forti emozioni. Dapprima le si imporporavano le gote e poi tutto il viso si infiammava. Maggiore l'ardore che la pervadeva, più la pelle s'arrossava. In quel momento era avvampata dalla base del collo fino alla radice dei capelli. L'aveva vista così solo sotto sforzo, nel tentativo di sollevare un manubrio troppo pesante per lei.
- Ancora questa storia? - esplose lui, alzando la voce – Ti ho già spiegato tutto!
- Non mi hai ancora spiegato perché devi correre sempre sulla tua nave... trovi sempre una motivazione per mollarmi da sola!
- È da più di un mese che trascuro i miei doveri sul Raja per stare con te!
- Povero caro! Mi si spezza il cuore...
- Incredibile... - ora stava esagerando: se voleva farlo arrabbiare davvero ci stava riuscendo – Sei... sei gelosa di un'astronave!
- Non sono sicura che sia un'astronave!


Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Sempre calmo, pacato, controllato. Le dava ai nervi quand'era così. Stava riuscendo a farlo alterare, ma aveva dovuto sputargli addosso una cattiveria dopo l'altra. Da tempo sospettava che avesse un'altra. Troppi dubbi, troppi sospetti. Non aveva voluto credere a quel bastardo di Mahamiri che l'aveva avvertita: una in ogni porto. Aveva fatto finta di niente quando l'aveva sorpreso in compagnia della sua ex moglie, occhi negli occhi in un locale per coppiette. Sembrava passato un secolo ma non erano nemmeno sei mesi. Le aveva anche accarezzato la schiena nuda, facendola incendiare di gelosia. Quella puttana, pensò con rancore ricordando le forme mozzafiato della bella donna, elegante e sexy. Ricordava come se fosse ieri una conversazione origliata a metà: dall'altra parte c'era di certo una donna, e non una qualsiasi se si era rivolto a lei con parole come “cara”, “tesoro”, “angelo” e “ti penso sempre”. In particolare un “ciao bella” udito per caso, non rivolto a lei, era un ago arroventato infilzato nel cuore. Non poteva essere un caso, una serie di coincidenze. Ebbene sì: era gelosa da morire. Non poteva resistere col tarlo del dubbio che tornava periodicamente a tormentarla.
- E non sono nemmeno sicura che sia solo un'astronave! - aggiunse, insinuando il peggio. Si sentiva la pelle ardere: avrebbe voluto scorticarsi il cuoio capelluto con le unghie pur di non sentire più il prurito che la stava facendo impazzire.
Parve ingigantirsi davanti ai suoi occhi. Strinse le labbra e gonfiò il petto come se stesse inspirando aria in preparazione a un urlo di battaglia. Quasi ebbe paura che potesse esplodere: non le aveva mai torto un capello, nemmeno quando recentemente lo aveva morsicato a sangue durante un rapporto sessuale un po' diverso dai soliti. Sembrava passato un anno da allora, ma erano trascorsi poco più di trenta giorni.
Invece esalò un lungo sospiro, abbassò gli occhi e parve farsi piccolo davanti a lei.
- Non ti fidi di me – mormorò. Le si strinse qualcosa dentro il petto ma era decisa a non farsi piegare da niente, stavolta.
- Tutto quello che ti ho detto, che ho fatto... non conta nulla per te – continuò lui alzando la voce – Davvero nulla?
Non era certa di quello che voleva dirgli. Era bravo a disarmarla ostentando il suo bel viso ampio da bravo ragazzo, e gli occhi che la intenerivano ogni volta. E quelle grandi mani calde che sembravano potere tutto su di lei. L'avevano già sconfitta troppe volte e non voleva perdere ancora. Era stanca di perdere.
- Non mi incanti più, bello – gli rispose infine con cattiveria, tanta da sentirsi in colpa nel momento stesso in cui parlava – ora le regole le faccio io. Si gioca a modo mio.
- Non dire...
- Silenzio! - lo interruppe subito: sapeva perfettamente che avrebbe taciuto. Lui non sopportava di parlare senza essere ascoltato e lei non gli avrebbe dato modo di dire altro.
- Siamo nel bagno delle donne e io sto per spogliarmi per fare la doccia. Se quando sarò nuda ti vedo ancora qui, strillerò così forte da farmi sentire in tutta la fottuta palestra. E oltre. Chiaro?
Aveva sibilato quelle parole tra i denti, incurvandosi in avanti senza nemmeno rendersene conto. Raddrizzò la schiena per recuperare preziosi centimetri in altezza, visto che era di poco più alta di lui, e per dimostrare che non stava scherzando cominciò a spogliarsi, dirigendosi verso la doccia più vicina. Abbassò bruscamente una spallina scoprendo un seno e si voltò appena in tempo per vedere la porta chiudersi. Era rimasta sola.
Ora poteva piangere.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


GIOVE CONTRO
2.


Sentiva un peso alla bocca dello stomaco. Paura? Aveva cercato di convincersi che non era così ma dovette arrendersi. Si trovava nella zona del porto, nel primo settore. Qui la criminalità sfiorava il settanta per cento; ogni giorno venivano esplosi una media di cinquantuno colpi d'arma da fuoco; sorprendente che la media dei morti accertati non superasse il valore di tre ogni ventiquattro ore. Non c'era sosta, mai. Sì: era paura.
Non credeva che entrare in quel locale, il cui ingresso contendeva spazio a cumuli di rifiuti e perfino qualche rottame, avrebbe migliorato la situazione. Fuori c'erano facce poco raccomandabili e loschi figuri che la squadrarono mentre lei cercava di ignorarli. Badando a non fissare nessuno, a non guardare due volte nessuno, varcò l'ingresso.
Chissà che postaccio malfamato si era immaginata. Era tutto fin troppo tranquillo: niente musica a tutto volume, niente risse in corso, niente clienti particolarmente esotici, ubriachi o altra fauna strana. Astronauti, quelli sì: di tutti i tipi. Uomini e donne, giovani e vecchi. Ce n'erano perfino un paio che indossavano come lei la divisa azzurra da motorista, ma con mostrine incomprensibili. Ognuno sembrava intento agli affari propri, calmo e tranquillo. Sembrava quasi un bar come tanti altri, solo un po' più buio e un po' più sporco. Ma nessuno sembrava farci caso. Perfino il suo ingresso passò inosservato, apparentemente.
Si diresse verso il bancone ignorando i tavolini che facevano capolino da delle nicchie alla sua destra. A metà strada colse molto movimento con la coda dell'occhio proprio alla sua destra. Ogni nicchia che ospitava un tavolino rotondo e sedie fissate al pavimento aveva la parete di fondo trasparente. Attraverso questa si poteva vedere un piccolo ambiente chiuso: uno ospitava una ragazza che ballava mezza nuda, in un altro era in corso uno spogliarello maschile, nell'ultimo che riuscì a vedere una coppia faceva sesso in modo un po' brusco. Tutto era avvolto in una fastidiosa luce blu, tutto sotto gli occhi degli avventori che occupavano i tavolini. No, non è un bar come tanti altri, giudicò sforzandosi di distogliere lo sguardo. Una tapparella discese a occultare la ballerina nuda e i due che occupavano quella nicchia si affrettarono a toccare lo schermo integrato nel tavolino, usato per ordinare e pagare le consumazioni. La barriera si risollevò immediatamente e lo spettacolo riprese.
Frugò con gli occhi tra gli avventori appoggiati al lungo bancone finché li ritrovò. Non erano difficili da individuare: erano come l'astronave da cui li aveva visti sbarcare. Tozza, essenziale, maltrattata dall'uso e molto, molto robusta. Due donne e un uomo intenti a bere e a parlare tra di loro sommessamente. Tese i muscoli del ventre per cercare di fermare il tremolio del suo stomaco ma non ottenne risultati apprezzabili. Non riusciva a convincere il proprio corpo che non c'era motivo alcuno di avere paura. Eppure le sue budella insistevano nel mandarle preoccupanti segnali che la spingevano a cercare un bagno, in fretta, mentre le sue ginocchia tremanti minacciavano di cedere a ogni passo. Senza nemmeno volerlo cercò tutte le scuse per non avvicinarsi: ma no, non sembravano armati, non sembravano pericolosi, c'era spazio in abbondanza per avvicinarsi a loro e stare lì a fianco. Così fece, dandosi continuamente della stupida. Voleva parlargli anche se ogni fibra del suo corpo le stava suggerendo che avrebbe fatto molto meglio a stare a bordo del Coyote quella sera.
- Ciao, ragazzi! Posso offrirvi da bere?
Si voltarono tutti e tre verso di lei. L'uomo fece subito un cenno al barista che portò bicchieri colmi per tutti. Anche per lei. Preoccupata, si chiese cosa diavolo fosse quel liquido dall'aspetto incolore e innocuo.
- Non sei del locale, vero?
A prima vista poteva sembrare quasi un insulto. La divisa che indossava, con le mostrine di stellapilota e la toppa ricamata del Coyote sulla spalla, non era sufficiente a distinguerla da quelle povere disgraziate che a pagamento si contorcevano nude dietro una finestrella? Si sentì avvampare e distolse subito lo sguardo, sforzandosi di sorridere. Non voleva che la donna la vedesse arrossire.
- No, affatto.
Si rese conto d'un tratto che non sapeva portare avanti quella conversazione. La donna che le aveva rivolto la parola sembrava scolpita nel ferro. Era più bassa di lei ma non si sentiva certo a disagio per quello. Aveva la pelle scura, la testa completamente rasata, gli occhi castani scuri e profondi segnati da rughe agli angoli. Anche la bocca era chiusa tra due parentesi scavate nel viso ma la pelle sugli zigomi era tesa e liscia. Sopra una maglia nera indossava una giacca marrone senza maniche che aveva visto tempi migliori, per quel che poteva capire. Quando si portò alle labbra il bicchiere, senza distogliere lo sguardo da lei, poté notare come i bicipiti tatuati di quella fossero più grossi di quanto sembrava a prima vista.
- Quindi? A cosa dobbiamo la tua generosità? Cosa vuoi da noi?
La voce insolitamente profonda di quella donna sembrava giungere dal centro del torace. La faceva sentire a disagio. Cercò rifugio osservando solo per un istante anche gli altri due. Lui era giovane: la pelle bianca butterata e rovinata rendeva ancor più sgradevole il suo viso arrogante e squadrato. Era tatuato sul collo e gli spessi segni scuri scendevano in ghirigori astratti sotto l'orlo una maglia grigia. L'altra donna la costrinse a rivedere la sua personale scala di valutazione della bellezza femminile. Lei sapeva di non essere certo una bella ragazza, ma quella che aveva di fronte poteva recriminare molto di più. Sottolineato dai capelli biondi tagliati a spazzola come il suo compagno, il suo viso era privo di qualunque armonia e delicatezza. Sgraziato e spigoloso, perfino un poco asimmetrico, ostentava una brutta cicatrice che divideva in due parti disuguali il labbro inferiore. Piercing di cattivo gusto e sopracciglia sostituite da tatuaggi a mezzaluna completavano quella maschera dalla smorfia storta. Notò che anche gli altri due erano più bassi di lei.
- Siete j-diver, giusto?
La donna dalla pelle scura le mostrò i denti, ma non era precisamente un sorriso.
- No, carina... siamo i tre porcellini!
Risero tutti e tre, precipitandola nel ridicolo. Stavolta avvampò violentemente sentendo la vergogna infiammarle la pelle fino alla radice dei capelli. Non poté evitare di cercare un po' di contegno dandosi una grattatina, ottenendo solo di peggiorare il prurito.
- Tagliamo corto... cosa vuoi? Compri o vendi?
Sorrise: la conversazione non era ancora finita ma quella doveva essere la sua ultima possibilità. Offrire da bere era stata una buona mossa per guadagnare la loro attenzione, non poteva tergiversare a lungo. Scosse la testa in un cenno di diniego.
- Avete bisogno di personale?
I tre si guardarono in faccia volgendo l'uno all'altro un'espressione indecifrabile. L'uomo modulò un sommesso fischio attraverso le labbra: forse era ammirazione, forse semplice stupore; la donna dai capelli biondi a spazzola non trovò di meglio che bestemmiare per esprimere la sua sorpresa.
- Sei sicura? Ma tu sai cosa facciamo, vero?
Lo sapeva. C'erano diverse stazioni spaziali intorno a Giove: strutture massicce, resistenti al campo magnetico del gigante gassoso, con potenti motori in grado di tenerle fuori dalle grinfie della sua terribile forza di attrazione gravitazionale. Da queste stazioni venivano lasciate “cadere” navette speciali: enormi serbatoi dotati di un modulo di comando monoposto e un singolo, mostruoso motore a fusione nucleare. Potente, ma pericoloso e tecnologicamente arretrato. Queste navette affondavano nell'atmosfera di Giove e con una bottiglia magnetica cominciavano a pompare l'idrogeno molecolare all'interno dei capienti serbatoi. L'abilità dei piloti di queste navette, noti con l'antico nome di j-diver, stava tutta nel riportare indietro il serbatoio pieno senza che la navetta subisse danni irreparabili a causa della forza di gravità gioviana, delle violente correnti, delle temperature estreme. Sintetizzando, l'abilità stava nel tornare indietro: Giove non perdonava un solo errore.
- Certo che lo so. Sembra strano, ma sono stellapilota. Ho anche una nave che...
- Non ti servirà a niente essere stellapilota né avere un'astronave cazzuta, bella bimba – la interruppe subito la donna coi capelli biondi ritti a spazzola – Solo le nostre cimici possono farcela. Bisogna saperle usare.
“Cimici” era il nome delle navette speciali pilotate dai j-diver. Era dovuto alla loro forma: un insetto senza zampe o, per meglio dire, con tre o quattro zampe disposte a raggiera a una estremità, formate dai getti vettoriali del motore a fusione. Si era documentata anche su quelle e aveva perfino trovato un simulatore software che riproduceva tutti gli strumenti di bordo.
- Lo so, lo so – rispose lei, forte delle ore trascorse a simulare cadute verso Giove e ritorno – Mettetemi alla prova.
Incrociò le braccia sul petto per nascondere il tremito delle mani. L'aveva detto: voleva andare con loro. Voleva salire su una cimice e tuffarsi verso Giove. Se le avessero detto di sì avrebbe dovuto farlo davvero. Il solo pensiero la terrorizzava, ma voleva farlo. Cercò di confortarsi col pensiero che, se quei tre erano lì a quel bar a bere superalcolici e a mostrare i loro tatuaggi, farsi un giro su una cimice di Giove non doveva essere poi così tanto pericoloso.
- Una tipa tosta eh? - la donna dalla pelle scura si era rivolta verso i suoi due compagni e da essi raccolse commenti colmi d'ironia. Non gradì molto ma tacque.
- Senti bella: noi siamo al completo. Però se proprio hai deciso di morire possiamo darti una mano lo stesso. Se ti va ti presentiamo a Mahmet... lui cerca sempre gente.
Accennò prontamente con la testa: non si sentiva in grado di mantenere salda la voce.
- Però preparati a fare un viaggio a vuoto: non è facile lavorare con lui.
Non capì quello che la donna stava cercando di dirle. Pensò a quel pervertito di Morgan: non era stato facile lavorare con lui. Aveva passato parecchio tempo anche al fianco di Ilah, hacker permalosa e piena di sé: nemmeno lei era un tipetto facile da digerire. Per non parlare del Navigatore: una IA di astrogazione trasformata in un carro armato da un involontario trapianto dentro un droide di sorveglianza armato fino all'inverosimile. Ma in parte era colpa sua. Si strinse nelle spalle: che cosa avrebbe mai potuto avere di sbagliato questo Mahmet?
- Allora beviamo e poi andiamo a cercarci qualcuno che abbia un terminale decente. Sei pronta a pagare un collegamento fino al grande Giove, morettina?
Alzò il bicchiere, dichiarandosi pronta. Temeva di non essere all'altezza di diventare una j-diver, di tornare indietro con una cimice piena di idrogeno liquido, nemmeno di bere quel liquore che teneva tra le mani incerte. Ma se non avesse mai tentato, non l'avrebbe mai saputo. Quindi sorseggiò con cautela. Se l'era immaginato: un liquore secco e ruvido, molto alcolico, dal sapore ferroso. Le aggredì la gola e la fece tossire, i tre che la stavano osservando ridacchiarono.
- Salute! - disse la donna dalla pelle scura tracannando il suo liquore con una velocità sorprendente. I suoi compagni la imitarono mostrando altrettanta disinvoltura.


Non ci misero molto a trovare una stazione di comunicazione a pagamento di quelle abilitate all'uso della rete subspaziale. La donna dalla pelle nera, che aveva tutta l'aria di essere abituata da sempre a comandare, in pochi minuti stabilì una connessione con la stazione di quel misterioso Mahmet. Non le avevano voluto rivelare perché costui era costantemente a corto di personale, ma quando lo vide sullo schermo cominciò a farsi una sua idea. Appariva come un vecchio dalla lunga e cespugliosa barba bianca, totalmente incolta. Sulla pelle grinzosa si vedevano evidenti i segni di un'età indefinibile. Gli occhi erano affondati dentro orbite livide nel cranio spelacchiato, ma erano lucidi e mobili, molto vispi. Se la vecchiaia fosse stata un incubo lui ne era l'incarnazione.
- Alina... ho detto che non te le do quelle cinquecento ton. Se sei indietro con l'estrazione sono tutti cazzi tuoi. E chiamarmi da Apollo non mi impressiona: se hai soldi da buttare beviteli o paga un uomo, così ti sfoghi.
Aveva gracchiato quelle parole in fretta, senza preamboli, senza nemmeno salutare. Le parve evidente che i due non solo si conoscevano bene, ma si frequentassero da tempo.
- Mahmet, non ti chiamo per questo. Non ti interessa un po' di carne?
- Sono quasi al completo. Gli ultimi arrivati oltre alla carne hanno dimostrato di avere anche i coglioni. Dov'è?
Alina, la donna dalla pelle nera e dalla testa rasata, si voltò verso di lei senza un'espressione decifrabile sul viso e si fece da parte. Con un passo avanti lei entrò nel campo della telecamera del terminale.
- Salve. Sono Michaela Patris.
Il vecchio reagì inarcando un sopracciglio folto e ispido. Le sue rughe si ridisposero a formare un'espressione stupita. Dalle spalle di Miki si sollevò un mormorio.
- Hey, tu sei quella che ha portato le armi su Mastodonte! - esclamò il vecchio.
- Oh, un'altra coi coglioni duri... – la voce di Alina.
Miki digrignò i denti. Non era andata esattamente così ma non aveva voglia di mettersi a raccontare. Quel collegamento le costava un occhio della testa.
- Mi assume o no? - sbottò subito.
- Come j-diver, immagino. Va bene, ti aspetto – rispose il vecchio. Chiuse la comunicazione immediatamente dopo quelle parole.
- Michaela, devi raccontarci tutto! Torna al bar con noi: voglio proprio sapere com'è andata! - Alina le circondò le spalle con un robusto braccio, tirandola a sé. Aveva un odore inconsueto ma buono. Nonostante la tuta la sentì calda come se la sua pelle scottasse di febbre.
- Chiamatemi Miki – rispose con un sorriso sulle labbra.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


GIOVE CONTRO
3.


Si svegliò con un dolore alla testa come non ne provava da tempo. La bocca impastata, lo stomaco di pietra, le budella pesanti. Riconobbe tutti i sintomi, uno a uno. Come se non bastasse era andata a letto vestita. Una sbronza colossale, di quelle che non si prendeva più da anni. Nemmeno al suo compleanno si era ridotta così. Fece rapidamente l'inventario di ciò che ricordava: l'ultima immagine offuscata che aveva di se stessa era mentre armeggiava col suo bracciale olo per aprire la camera stagna del Coyote. Corse in bagno: doveva pagare pegno per gli abusi alcolici inflitti al suo fisico.
Non riuscì a stare meglio senza un derma analgesico. I cocktail dolci e alcolici che era solita bere non la riducevano in quelle condizioni da tempo, ormai. Forse perché ne beveva sempre meno, forse perché si era assuefatta. Qualsiasi cosa avesse inghiottito in quel bar del primo settore, non ci era abituata nemmeno un po'. Si sedette sulla sponda della sua branda speciale con la testa tra le mani in attesa che il farmaco facesse effetto. Ma prima che ciò potesse avvenire sentì giungere dal ponte di comando il suono flautato che l'avvisava di una chiamata in arrivo. Controvoglia si alzò e andò a rispondere.
Coyote... - si rese conto che aveva la stessa voce rauca di quel vecchio, Mahmet. Sullo schermo apparve il viso scuro di Alina che le rivolgeva un sorriso beffardo.
- Finalmente... ce ne hai messo a svegliarti. Non avevi mai bevuto prima l'acqua di fuoco, donna bianca?
La stava prendendo in giro, era chiaro. Aveva anche alterato la voce per renderla una caricatura: ancora più profonda e cavernosa. Strano che non l'avesse chiamata “bwana”. Rispose con un grugnito mentre lottava col dolore alla testa per mettere insieme qualche frase sensata.
- O forse ho interrotto qualcosa?
Miki non comprese. Non fino a quando sullo schermo non apparvero le mani di Alina, abbozzando un gesto vicino alle clavicole. L'inquadratura della donna calva terminava poco sotto. Miki si rese conto di avere la giacca della divisa aperta fin sotto lo sterno. Si era decisa a fare una doccia ma il dolore alla testa l'aveva indotta a cercare un analgesico prima. In seguito si era distratta e si era dimenticata di lavarsi. Cazzo sono ridotta a uno straccio, pensò chiudendo la giacca fino al mento. Cercò conforto ricacciando un ciuffo di capelli dietro un orecchio, un gesto ormai da molto tempo privo di utilità per lei.
- Senti, bella bambina... abbiamo un casino sulla nostra stazione, dobbiamo partire subito. Se vuoi venire con noi devi muovere il tuo bel culo e portarlo qui più in fretta possibile. Molo 97, la nave la riconosci no?
Certo che la riconosceva. L'aveva vista attraccare.
- Vengo con la mia.
- Fai come vuoi. Salpa subito e mettiti in orbita di parcheggio. In dieci minuti arrivo.
Attraverso la nebbia e i lampi di dolore si fece largo come un tuono rotolante la consapevolezza che non aveva un equipaggio. E non aveva nemmeno il tempo di chiamare Spyro. No, non voleva chiamare Spyro. Si sentì incendiare dentro. Non poteva negare la verità: voleva che Spyro si facesse vivo da solo. Ma ciò non era avvenuto e ora si sentiva profondamente in colpa.
- Sono senza equipaggio – gettò lì la frase in fretta: le sembrava quasi una condanna. Era certa che Alina l'avrebbe mandata al diavolo e lasciata a marcire su Apollo.
- Cazzo – sbottò quella seccata ma senza la rabbia pronosticata – ti mando Irina, se ti sta bene.
Fece uno sforzo di memoria. No, non ricordava chi fosse Irina. A stento ricordava che a un certo punto della serata si era trovata di fronte a un folto pubblico di j-diver intenta a descrivere loro i sistemi del Coyote, la lingua sciolta dall'alcol. Si sentì una stupida e si ripromise di non bere mai più. Disse che andava bene Irina e la donna nera le sorrise in modo strano. Poi la salutò lasciandole l'ombra del dubbio sul significato di quel sorriso. Solo più tardi, mentre si stava godendo i suoi sessanta secondi di doccia calda, si rese conto che Alina non aveva voluto sapere nemmeno quale fosse il suo numero di ormeggio.


Fino all'ultimo secondo aveva sperato che Spyro si facesse vivo. Ma non era successo. Di che ti lamenti, cogliona, si rimproverò aspramente. L'hai cacciato via ancora, non lo rivedrai più. Rifiutandosi di credere alle sue stesse parole Miki manovrò la nave per abbandonare il molo. Al suo fianco, seduta nella poltrona dello specialista di bordo, c'era Irina. Era quella con i capelli biondi a spazzola e le sopracciglia tatuate male. Sotto la luce del ponte di comando del Coyote, certo molto più intensa di quella del bar dove l'aveva vista la prima volta, erano emersi altri dettagli inquietanti. Era davvero brutta e sgradevole a vedersi come le era sembrata la prima volta, col suo profilo dominato da un naso pronunciato e gibboso e dal cranio irregolare e bernoccoluto. Ma solo ora si rendeva conto che aveva l'orecchio sinistro parzialmente mutilato. Indossava la solita giacca frastagliata che aveva scoperto emanare un odore insolito ma non cattivo. Per qualche motivo che non afferrava i pantaloni erano aperti sui lati dall'anca al ginocchio, mantenuti stretti alle gambe da cinghie tese. Forse era per esibire i tatuaggi, che però erano visibili solo in parte. Non riconobbe nulla: solo forme astratte apparentemente prive di ogni significato. Aveva bucato le lunghe maniche della pesante maglia che indossava sotto la giacca intorno al polsino per farci passare le lunghe dita nodose e chiuso poi il palmo con un pezzo di cuoio. I guanti tecnici, lunghi fino al gomito, costavano davvero poco ormai e Miki non capiva perché darsi la pena di ridurre così una maglia termica.
Una volta abbandonati gli ormeggi Irina la sorprese ancora: non ci fu bisogno di dirle nulla. Manovrava i comandi della console dei motori come se ci avesse lavorato per tutta la vita. Miki accennò a impartirle un paio di ordini ma non appena si rese conto che li eseguiva prima che lei riuscisse a finire di parlare, se ne stette zitta fino al raggiungimento dell'orbita di parcheggio, ribollendo nel petto per la gelosia e l'invidia. La Giove Comanda, la nave dei j-diver che aveva contattato, era già lì che attendeva impaziente.
- Sei stata tu a configurare i sistemi energetici? Complimenti, un bel lavoro.
Miki non disse nulla. Non era stata lei, ma Spyro. Maledisse Irina per averle fatto ricordare i bei giorni trascorsi con quell'uomo a bordo del Coyote.
- Ti preferivo ubriaca di grog... diventi molto più socievole. Levati quella scopa dal culo, dai... non fare il comandante con me.
Non avrebbe voluto ma non poté evitarlo: arrossì in viso, sentendo perfino le guance scaldarsi.
- Chissà che cazzo ho combinato... mentre ero sbronza intendo - commentò. Ma sì, togliamoci la scopa dal culo, si disse.
- Ah... nulla di particolare – Irina allontanò le mani ossute dalla console tecnica e se le abbandonò in grembo, appoggiando la schiena sulle imbottiture della poltrona – Sei riuscita a tenerti intorno sette j-diver con la sola forza delle tue chiacchiere. Certo, aprire la cerniera della divisa ti ha aiutata, ma ne hai di cose da raccontare. E le spari anche abbastanza grosse, come piace a me.
- Che balle avrei raccontato? - scattò Miki arrossendo preoccupata. Sentì la propria intimità violata e si maledisse, poiché era solo colpa sua.
- Daaai, quella del droide da combattimento davvero le ha battute tutte... figurati se qualcuno può credere a una storia simile. Tu che ti fingi un tecnico, entri di nascosto in un laboratorio e trapianti una IA dentro un droide da guerra senza che quello ti faccia a pezzi a vista. Sembra un olofilm! Bella storia però, l'hai raccontata in modo... credibile. Sei bravina.
- Non è una balla! - sbottò Miki. Ma Irina le rise in faccia, gettando indietro la testa.
- E io dovrei credere che oggi c'è in giro una IA chiusa dentro un droide di sorveglianza armato fino ai denti, che guarda film d'azione e parla come un gangster da strapazzo? Ma falla finita... l'ho smaltito da un po' il mio grog, sai?
A interrompere la conversazione un segnale acustico che annunciò la comparsa di dati a raffica sul terminale di navigazione, proprio davanti agli occhi di Miki.
- Che c'è? - Irina si sporse verso la sua console, curiosa. Miki le disse che era giunto il momento di calcolare la rotta verso Giove e accelerare.
- Ma ce la fa questa corvetta ad arrivare prima di un mese?
- Ce la faremo in meno di una settimana, vedrai – rispose Miki piccata. Che le toccassero tutto ma non il suo Coyote. Richiamò immediatamente la console di navigazione e si mise a calcolare una rotta. Era fortunata: poco più di quattro unità astronomiche la separavano dal gigante gassoso, concedendosi un largo margine per assaggiarne il pozzo gravitazionale e stabilire il corretto approccio alla sua orbita. Fatti due conti ciò significava 105,14 ore di viaggio: poco più di quattro giorni a bordo con Irina come compagnia. Ne aveva passate di peggiori.
- Quattro giorni e nove ore... cosa fai per ingannare il tempo di solito? Solo palestra?
Miki fu quasi spaventata: il tono di Irina si era improvvisamente ammorbidito e abbassato, diventando sensuale in un modo inedito. Non l'aveva sentita parlare così a nessuno, nemmeno agli altri j-diver al bar. Non finché era rimasta lucida a sufficienza da farci caso. Si voltò alla sua destra: la donna la guardava con una nuova luce negli occhi. Si era contorta sulla poltrona fino girarsi su un fianco, assumendo una posizione scomoda ma in un certo modo provocante.
- Cosa vuoi che faccia? Un po' di pesi non mi fanno che bene – a dire la verità non ne era così certa: anche se nell'ultimo mese aveva assiduamente frequentato la palestra di Spyro e fatto senza discutere tutto ciò che l'allenatore le aveva detto, non aveva constatato un apprezzabile miglioramento della ciccia che le appesantiva braccia, fianchi e cosce. Certo: ora sollevare settanta chili stando sulla panca non era più un'impresa così ardua da ripetere, ma il suo fisico non ne voleva proprio sapere di snellirsi in proporzione.
- Si possono fare tante cose carine essendo in due, sai? Sono curiosa di sapere cosa sai fare. Io, modestamente, sono bravina a fare certi giochini... - schioccò la lingua dimostrando cattivo gusto - stimolanti... mettimi alla prova...
Le sorrise complice, poi con la lingua si leccò il piercing alle labbra. Miki colse il riferimento: “mettetemi alla prova” era ciò che lei stessa aveva detto ad Alina per farsi arruolare tra le file dei j-diver. Ma qui c'era un equivoco di fondo che andava chiarito subito.
- Spiacente, ma io non sono quel tipo di donna, non so se mi spiego.
- Hai mai provato? - no, Miki non aveva mai avuto una relazione lesbica. E non era quello che le interessava al momento. Quando lo disse a Irina, quella sembrò prenderla con filosofia: era chiaro che si era aspettata una risposta di tutt'altro genere.
- E va bene... non so se resisterai a lungo tra di noi, ma se dovessi cambiare idea sai dove trovarmi. Ti spiace avvisare la Giove Comanda che li affianchiamo?
Ci mise un attimo a capire. Irina intendeva tornare a bordo della sua nave perché lei aveva appena respinto le sue avances lesbiche? Indispettita di fronte alla prospettiva di passare davvero quattro giorni da sola coi suoi pesi e i suoi pensieri, trasmise immediatamente.
- Grazie – Irina si alzò dalla poltrona e lei colse l'occasione per osservarla con nuovi occhi: il corpo era robusto e l'altezza inferiore alla media. Non apparivano evidenti concessioni di alcun tipo ad accumuli di grasso o cellulite: Irina era essenziale nel fisico, funzionale e asciutto come un unico fascio di muscoli.
- Vuoi una mano con la tuta? - le chiese mentre si sforzava di mantenere gli occhi sui dati che la nave dei j-diver le stava trasmettendo: i parametri per l'affiancamento. Non avevano nemmeno indagato i motivi di quell'ulteriore ritardo nella partenza.
- No, grazie. Me la cavo da sola – era già nella camera di equilibrio. Leggendo i dati appena ricevuti Miki si rese conto che la Giove Comanda non aveva la minima intenzione di estendere una passerella o una teleferica per agevolare il passaggio di Irina da una nave all'altra. Terminò la manovra e si alzò in fretta dalla poltrona per andare a salutare la donna.
- Sembra che i tuoi amici non abbiano intenzione di estendere la passerella. Forse dovresti chiamarli – la avvisò. La tuta, di tipo leggero e quindi sprovvista di motori, si voltò verso di lei sulla soglia della camera di equilibrio. Attraverso la visiera alzata poteva vedere il viso spigoloso della j-diver sorriderle.
- Teleferica? Per fare cosa? Tesoro, noi rischiamo la vita ogni giorno... saltare da una nave all'altra non è che una passeggiata se confrontata a un salto nel ventre di Giove. Sei preoccupata per me?
Miki ricordò la recente passeggiata fatta da Morgan intorno allo scafo del Coyote. A ogni metro il rischio di perdersi nel vuoto era reale, lontano un solo passo. Bastava mancare un appiglio. Balzare da una nave all'altra era un suicidio assicurato secondo il suo metro di misura. Non poteva credere alle parole di Irina: farlo l'avrebbe costretta a cambiare il suo metro di misura, a rendersi conto di quello che stava facendo. Nonostante tutto non era ancora pronta, forse.
- È una pazzia – le disse tetra, ma quella le rise in faccia.
- Basta saperlo fare. Hai cambiato idea? O sei venuta solo a darmi un bacino?
- Ci vediamo – le rispose Miki facendo un passo indietro per raggiungere il pannello di comando manuale della camera di equilibrio. Irina si limitò a rispondere con un cenno di saluto. Poi si voltò di nuovo. Miki comandò la chiusura del portello interno e poi l'inizio del ciclo di decompressione.
Tornò al suo posto e attese. Dopo meno di dieci minuti una nuova raffica di dati di navigazione inondò il suo terminale di comunicazione. Quella pazza ce l'aveva fatta davvero. Non le rimase da fare altro che rispettare le indicazioni e lasciar fare alla CPU: la rotta era sicura, tutti i sistemi erano attivi e perfettamente funzionanti. La velocità era talmente bassa che avrebbe potuto anche non impostare i monitor di controllo per tenere d'occhio i motori giorno e notte, ma lo fece lo stesso. Quando non le rimase proprio più nulla da fare, si alzò dalla sua poltrona di comandante e affrontò il silenzio a bordo della sua nave.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


GIOVE CONTRO
4.


Cominciamo bene, pensò abbassando il volume della radio fino a mischiare il caotico vociare all'impressionante quantità di rumore di fondo. Era Giove, potente fonte di emissioni elettromagnetiche e di onde radio. I suoi sistemi sembravano immuni, per il momento.
Ma aveva sbagliato la frenata. Per meglio dire aveva peccato di eccessiva prudenza. Non si era mai avvicinata al gigante gassoso prima d'ora. La Giove Comanda aveva proseguito verso la gigantesca sfera striata a oltre milleseicento chilometri al secondo. Lei invece aveva imposto l'inizio della decelerazione al suo Coyote che, obbediente, aveva assunto l'assetto previsto. Da allora avevano cominciato a prenderla in giro così tanto che aveva smesso di rispondere alle loro chiamate. Probabilmente era nella natura dei j-diver non conoscere il senso della parola “limite”, quindi si erano attaccati alla radio e avevano continuato a farsi beffe della sua prudenza tramite le banali, antiquate onde ultracorte.
Aveva seguito per un po' il volo della nave di quei pazzi spericolati: non sapeva chi fosse al comando. Forse Alina, forse qualcun altro. Chiunque fosse, secondo il suo modo di vedere le cose stava lasciando precipitare la sua nave verso Giove. Quando la Giove Comanda fu tramontata dietro il pianeta da cui prendeva il nome, le trasmissioni radio cessarono. Miki ricevette un'ultima trasmissione subspaziale in forma di messaggio di testo. La invitavano a una bevuta sulla loro stazione spaziale, dal nome curioso come la loro stessa astronave: La numero sette. In calce al messaggio c'era la canzonatoria preghiera di non farli aspettare troppo.
Miki scaricò dalla rete di satelliti relais l'aggiornamento della situazione intorno a Giove. La sua destinazione era una installazione di estrazione di idrogeno, come la quasi totalità delle stazioni in orbita intorno a quel pianeta gigante. Era proprietà privata di un imprenditore di cui non era riportato nulla, nemmeno il nome. L'amministratore era un certo Mahmet: su di lui non c'era una sola informazione in più oltre il nome. I dati statistici sulla stazione, che portava il misterioso nome di Niharra, erano una lunga e noiosa sfilza di numeri che si riferivano alla sua orbita, alla capacità di immagazzinamento, all'impianto di raffinazione dello ione idrogeno-tre. Noto anche col nome di protomateria, era il combustibile principale dei convertitori massa-energia di ogni astronave destinata ai viaggi interplanetari o, a maggior ragione, alle rotte extra-mondo. L'unica cosa che colpì la sua attenzione fu l'esiguo numero di persone a bordo: Niharra poteva ospitare al massimo quattordici membri di equipaggio. Diverse ore dopo, quando il protocollo lo impose, contattò la stazione per richiedere un vettore di approccio e il permesso di attraccare. Fu allora che si rese conto che i sistemi elettronici del Coyote non erano del tutto immuni al campo magnetico di Giove. L'immagine che apparve sul suo schermo era infatti piuttosto disturbata. Era Mahmet, esattamente identico a come lo aveva visto poco più di quattro giorni prima.
- E tu sei venuta fin qui con quella? Sei più pazza di quello che pensavo.
Non era certo il modo migliore di cominciare. Sorvolò l'insulto alla sua corvetta riproponendosi di farglielo rimangiare in un secondo momento e, ignorando i protocolli di comunicazione, rispose piccata al vecchio barbuto.
- Se mi dà un vettore di approccio la porto fin lì, la mia corvetta. Ammesso che abbia qualcosa per farmi attraccare.
- Sto scherzando... bella corvetta, classe Europa... ben tenuta. Complimenti – il tono si era fatto subito conciliante. Pretendeva forse di salvarsi con così poco?
- Il vettore? - il suo tono invece era ancora piuttosto seccato e il vecchio se ne accorse. Sorrise.
- Ma certo, ma certo... dovrebbe andare bene la flangia 4, è abbastanza recente. Si troverà bene la tua corvetta.
Rise e chiuse la comunicazione. Un istante dopo le giunsero i dati per il vettore e l'ormeggio. Sì, la flangia 4 era compatibile col Coyote.
Inserì il vettore ricevuto da Mahmet e si spaventò. Non appena attivò la CPU in modo che manovrasse la nave ormai in orbita quella attivò i motori per cominciare a frenare. Una frenata sostanziale che la portò a perdere molta quota. Controllò di nuovo tutti i dati: Niharra era in orbita più in basso di quello che lei credeva, non c'era nessun errore. Si chiese per quale motivo fosse necessario sfidare la gravità del possente pianeta gassoso e quanto costasse in termini di carburante mantenere una stazione così bassa. Per tacere della gravità: i sistemi di controllo ambientale della sua nave avevano già da tempo cominciato a compensare l'attrazione gravitazionale di Giove.
Mancavano più di novanta minuti all'attracco e Miki cercò di trascorrere il tempo ripassando Giove e le sue caratteristiche principali. Per calarsi un po' di più nella parte della j-diver, almeno così credeva, attivò la telecamera esterna per avere una visuale del pianeta.
Le mancò il fiato. La telecamera le rimandò immagini terrificanti e bellissime al tempo stesso. Sembrava che la superficie fosse così vicina da poterla toccare. Da poterci cadere dentro. Fu colta dall'irrazionale paura di essere prigioniera della forza di gravità gioviana e controllò più volte gli strumenti. I motori la stavano tenendo lontano dai guai senza sforzo apparente. Non così tranquillizzata tornò a visualizzare le immagini delle telecamere esterne. Poteva vedere le turbolenze delle fasce di Giove ribollire pigramente: larghissime strisce color crema che si alternavano a più strette strie rossicce, gialle, marroni. Scorrevano in senso opposto l'una rispetto all'altra lungo tutto il pianeta, creando turbolenze vorticose: erano le correnti convettive a creare tutto quel subbuglio atmosferico di idrogeno, ammoniaca e idrocarburi di vario tipo. La più piccola avrebbe potuto inghiottire navi ben più grandi del Raja o della Vortex Procellae, e farle scomparire per sempre.
Sapeva che la gravità di Giove era terribile e che non c'era affatto da scherzare: la velocità di fuga dal pianeta gassoso era di 59,5 metri al secondo. Per sfuggire all'abbraccio gravitazionale di Madre Terra ne erano sufficienti poco più di undici. Ma si rese conto che non sarebbe stato quello il problema principale: non aveva idea delle temperature e delle pressioni in gioco e soprattutto non sapeva nulla dei venti. Cercò informazioni e trovò delle indicazioni un po' generiche: venti fino a cinquecento chilometri l'ora. Ignorava come se la cavasse una cimice in quell'inferno e per la milionesima volta in quattro giorni si chiese come se la sarebbe cavata lei.
Finalmente giunse il momento dell'attracco. Niharra, osservata con le telecamere esterne, dava l'idea di essere abbandonata. Vecchi pannelli solari sforacchiati e fuori uso da tempo se ne stavano ostinatamente distesi a raccogliere la radiazione luminosa di Giove, fonte energetica non trascurabile poiché grazie al suo intenso campo elettromagnetico era in grado di irradiare nello spazio più luce di quanta riuscisse a rifletterne dal sole. Ovviamente il modo più veloce ed economico di generare energia era quello dei “satelliti al guinzaglio”: ciondoli sferici appesi fuori della stazione stessa e lasciati penzolare attaccati a cavi speciali lunghi una trentina di chilometri. Miki ne vide decine: alcuni dei cavi erano spezzati. Vide anche un moderno convertitore massa-energia, segno che le esigenze energetiche della stazione erano cambiate parecchio nel tempo. E come non sospettare una cosa del genere, si chiese osservando le cinque torri di raffinazione dell'idrogeno. Colossi di acciaio speciale, intrichi di tubi e radiatori di calore, torri dalla vaga forma di cono rovesciato circondate da decine di serbatoi grandi e piccoli dove, presumibilmente, veniva immagazzinato il prodotto finito.
Di lì a poco il Coyote passò sotto il diretto controllo della IA della stazione e fu ormeggiato dolcemente, senza traumi né particolari scossoni. Subito dopo l'inizio della pressurizzazione della sua camera di equilibrio, apparve Mahmet sugli schermi della sua console di comunicazione.
- Benvenuta! Non ti spaventare se non trovi nessuno ad accoglierti. E non far caso agli ambienti un po' trascurati... non usiamo l'attracco 4 da un po'. Non c'è il rischio di perderti: segui sempre le indicazioni verso la centrale operativa e prima o poi incontri qualcuno.
Miki cercò di replicare ma il vecchio aveva subito interrotto la trasmissione. Si infilò quindi in una tuta integrale e si avventurò fuori del Coyote.
“Non far caso agli ambienti trascurati” le aveva detto Mahmet. Trascurati è un eufemismo, osservò. Il lungo e strettissimo corridoio che stava percorrendo sembrava più abbandonato che trascurato. Era sporco, impolverato e probabilmente era inutilizzato da così tanto tempo che era possibile vedere fiocchi di polvere galleggiare nell'aria. La luce era fioca e giallastra poiché proveniva da poche lampade molto distanti, all'interno delle quali si era accumulata sporcizia rugginosa. Anche le pareti, prive di pannelli decorativi o isolanti, mostravano sul metallo i segni dell'assenza di manutenzione: dove la condensa si raccoglieva c'erano sinistre macchie rossicce, mentre la polvere si era appiccicata sui pannelli elettrici e lungo le tubazioni grandi e piccole che zigzagavano sul basso soffitto e sulle pareti. Il pavimento, costituito da una semplice e stretta grata metallica al di sotto della quale si intuivano ulteriori tubazioni e meccanismi, era sconnesso e risuonava a ogni suo passo. In fondo al lungo corridoio occhieggiava una debole luce rossa. Proprio a metà strada Miki udì un preoccupante scricchiolio metallico echeggiare tutto intorno: il lamento di lamiere sottoposte a qualche genere di pressione o assestamento. Lo scricchiolio si esaurì presto con una serie di scatti metallici, come se qualcuno si stesse divertendo a martellare sullo scafo esterno; poi tutto tacque di nuovo. Si rese conto che il sistema di condizionamento e di pompaggio dell'aria doveva essere fermo, poiché non si sentivano i ventilatori. Il pigro galleggiare della polvere a mezz'aria denunciava l'assenza di correnti.
Finalmente raggiunse il portello che aveva davanti. La luce rossa indicava che era bloccato, ma mutò in un segnale verde ancora prima che riuscisse a formulare il pensiero di avere un problema. Premette il vistoso pulsante di apertura, protetto dalle pressioni accidentali da un'alta ghiera di metallo nero. Il portello tondo del colore della senape affondò di una spanna buona, sibilando faticosamente prima di rotolare di lato e lasciarle la via libera.
Un soffio di aria calda la investì: c'era differenza di pressione tra i due ambienti. Uscì dalla nicchia grigia che le si era aperta davanti e il portello tornò a chiudersi alle sue spalle. Si trovava in un altro corridoio, decisamente meglio tenuto e piuttosto caldo, ma non meno claustrofobico. Poteva sentire l'impianto di ventilazione in funzione e non c'era polvere in sospensione. La temperatura era più che confortevole, anzi: quasi troppo elevata. Tuttavia, esattamente come il corridoio appena abbandonato, c'era posto per far passare una persona sola alla volta. Se avesse voluto avrebbe potuto toccare agevolmente il soffitto con una mano; se avesse incrociato qualcuno avrebbe dovuto appiattirsi lungo la parete e rassegnarsi a un inevitabile contatto fisico. Dovette percorrere diverse decine di metri prima di incontrare un segnale verniciato sulle pareti che le indicava la direzione da prendere per la centrale operativa: alle sue spalle.
Tornata indietro un po' seccata, Miki superò altre nicchie chiuse ai lati del corridoio, corrispondenti agli altri approdi, finché giunse a un portello a tenuta stagna identico al primo tranne che per il colore. Anche questo si sbloccò solo quando fu vicina e si richiuse alle sue spalle senza il suo intervento. Le venne spontaneo pensare che ci fosse qualcuno che la stava tenendo sotto controllo.
Il nuovo ambiente era di poco più grande del primo, ma decisamente più abitato. Poteva sentire molte voci echeggiare nello stretto corridoio che le si parava davanti, voci che presumibilmente provenivano da qualcuno degli ambienti che si aprivano lungo i lati. Un po' imbarazzata e un po' preoccupata si decise a cominciare a cercare la fonte del vociare. Non dovette cercare a lungo: da una delle porte aperte una ventina di metri più avanti alla sua destra uscì una figura.
- Michaela, giusto?
Una voce femminile, squillante. Alzò una mano in segno di saluto e Miki rispose confermando la propria identità.
- Vieni, noi abbiamo quasi finito ma qualcosa da mangiare è rimasto. Se hai fame...
Non aveva fame, ma accettò sorridendo. La donna che l'aveva invitata scomparve oltre la soglia e Miki la raggiunse a grandi passi. Salutò tutti i presenti esitando sulla soglia: nell'aria si percepiva un denso odore di sudore, di cibo caldo e... di famiglia.
L'ambiente era lungo e stretto, al punto che le spalliere delle sedie toccavano la parete retrostante. Tutto lo spazio era dominato da un tavolo rettangolare circondato su lati lunghi da sedie fissate al pavimento. La sua superficie era coperta dai resti di un pranzo: vaschette vuote, confezioni di razioni squarciate, ampolle a prova di rovesciamento vuote o prossime all'esaurirsi, posate di plastica monouso abbandonate sporche qua e là. La donna che l'aveva accolta si stava sedendo in quel momento.
- Gente, è arrivata Michaela! Salutatela!
In un istante tutti gli sguardi furono su di lei. Si sentì spogliata, radiografata ed esaminata fin nelle sue parti più intime. Cercò di nascondere il disagio sorridendo ma rimase imbambolata lì sulla soglia mentre riceveva i saluti di tutti che si accavallavano gli uni sugli altri. Intorno al tavolo c'erano sei persone: quattro donne e due uomini, i più assortiti che lei avesse mai visto. La donna che aveva fatto sommariamente le presentazioni era del tutto rasata e la sua pelle era abbronzata fino a raggiungere una morbida tonalità nocciola: si vedevano chiaramente i sottili segni chiari lasciati intorno al collo da un costume da bagno. Di fronte a lei sedeva una donna dalla pelle così scura e lucida da sembrare volutamente tinta di nero. Ella indossava un succinto top a coprirle il petto scarno e i riflessi della luce sulla sua pelle evidenziavano le asciutte masse muscolari. C'era una donna minuta e pallida, dai capelli ricci tagliati cortissimi che la guardava senza sorridere e un'altra decisamente nerboruta che ostentava la sua muscolatura esagerata grazie a una giacca senza maniche. Un indumento evidentemente molto gradito ai j-diver poiché anche i due uomini, che la stavano divorando con lo sguardo, ostentavano braccia muscolose e tatuaggi monocromatici grazie a giacche simili.
- Abbiamo appena ricevuto i rifornimenti, è strano – obiettò una voce femminile.
- Sei qui con una nave tua? Fico! Me la farai vedere un giorno? - fece eco subito un'altra. Conversazioni interrotte ripresero di colpo accavallandosi a commenti e osservazioni, elevando il livello del brusio fino alla soglia della confusione. Miki ebbe difficoltà a capire se dovesse rispondere e, nel caso, a chi.
- Siediti! - la donna dalla pelle abbronzata la invitò, gridando per superare il caos, indicandole una sedia libera vicino all'estremità del tavolo. Incredibile quanta confusione così poche persone riescono a fare, pensò Miki. Fu in quel momento che la voce di Mahmet si fece udire.
- Signori, per favore... - forte e potente, amplificata dall'impianto audio nascosto nel basso soffitto del locale. Uno schermo si accese sopra una larga finestra nella parete opposta all'ingresso. Attraverso quella finestra si intravedeva la cucina, pulita e in ordine: evidentemente era possibile preparare cibo fresco.
Ottenuto il silenzio con il suo fare un po' burbero e un po' paterno, dallo schermo Mahmet si rivolse direttamente a lei.
- Benvenuta a bordo della stazione di estrazione Niharra, Michaela.
- Stiamo facendo manutenzione alle cimici, per questo siamo...
- Silenzio, Zarha. Parlerai dopo quanto vorrai.
Il bonario rimprovero del vecchio ebbe l'effetto di azzittire la donna che aveva parlato, quella dalla pelle nera come l'ebano, e di porre fine al bisbigliare che subito s'era levato dopo le sue parole. Miki, ancora in piedi presso il lungo tavolo, incrociò gli occhi con quelli lucidi di Mahmet sullo schermo e attese. Era il suo turno.
- Michaela, devo farti una domanda. La facciamo a tutti quelli che vengono a lavorare su questa stazione. Cosa ne pensi delle intelligenze artificiali?
Miki, sorpresa dalla domanda, allargò le braccia nell'incertezza e le lasciò ricadere lungo i fianchi un momento dopo. Si era immaginata chissà quale richiesta e non vedendo alcun nesso fra Giove, l'estrazione di idrogeno, i j-diver e le IA, rispose in tutta sincerità.
- Non mi fanno certo impazzire di gioia, è vero... ma è anche vero che non ho una vera e propria esperienza a riguardo. Non ne ho mai avuta una: non me la posso permettere.
Omise di riferire che uno degli spaventi più grossi della sua vita l'aveva avuto a causa di una IA. Ma dopotutto la stessa intelligenza artificiale aveva saputo sdebitarsi togliendola da una situazione estremamente spinosa. Poi pensò a Cuba, la IA al comando della Vortex Procellae, che aveva l'equivalente “artificiale” di una cotta per lei. Sorrise certa che nessuno lì avrebbe mai nemmeno potuto immaginarne la ragione.
- Devo dedurre che non hai opinioni negative riguardo le IA né pregiudizi né altri problemi?
La domanda di Mahmet la insospettì non poco. Aggrottò la fronte e stava per chiedergli dove volesse arrivare esattamente, ma non ne ebbe il tempo.
- Se così fosse tanto meglio. Altrimenti devi dirlo ora: una tua avversione nei confronti delle IA potrebbe infatti costituire un problema, dato che qui comando io. E si dà il caso che io sia una intelligenza artificiale.
Miki ebbe una prima reazione di sgomento, ma riuscì a controllarsi e a celarla. Quel suo “non mi fanno impazzire di gioia” era un cauto eufemismo per non esprimere la paura strisciante che provava quando aveva intorno il Navigatore, o per celare l'imbarazzo che provava di fronte alle palesi, ingombranti effusioni che Cuba le riservava. Ora aveva un datore di lavoro del tutto artificiale cui avrebbe dovuto obbedienza. Nel silenzio della sala mensa contò i propri respiri.
- Chiamatemi Miki – disse piano, sorridendo sorniona.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


GIOVE CONTRO
5.


- Posso farti una domanda?
- Certo.
- Ma se hai una nave tua... che ci sei venuta a fare qui?
Miki ci pensò un momento, ma non voleva esitare troppo a rispondere.
- Pagano bene.
Zarha torse il busto all'indietro per poterla guardare e mostrarle il suo sorriso bianchissimo se confrontato all'inchiostro nero della sua pelle lucida. Miki non poté evitare di far scivolare i suoi occhi sui muscoli della schiena, del collo, delle spalle e delle braccia di lei. Se Alina le aveva dato l'idea di essere scolpita nel ferro, allora Zarha era una statua di acciaio brunito. Non aveva un solo grammo di grasso addosso, era evidente: indossava sandali aperti dalla suola piatta e sottile, pantaloni cachi corti al ginocchio e un top elastico blu a coprirle il seno magro. Se l'avesse vista l'allenatore di Spyro probabilmente si sarebbe inginocchiato per venerarla. Ma stando a distanza: la donna nera emanava un odore caratteristico per niente piacevole.
- Sì, in effetti la paga non è male. Sai già come funziona?
- Non esattamente – non era riuscita a trovare informazioni attendibili a riguardo. La donna proseguì lungo il corridoio dandole le spalle poiché non c'era spazio per camminare affiancate.
- Semplice: tu devi pagare a Mahmet il vitto, l'alloggio, l'assistenza medica e quella tecnica, l'affitto della cimice. Lui ti paga quello che riesci a estrarre.
Miki trovò quelle condizioni qualcosa di simile a un cappio al collo. Mahmet faceva sia il prezzo della materia prima che quello dei servizi. Ecco perché era sempre a corto di personale: lavorare con lui poteva diventare davvero soffocante. Lo fece notare a Zarha che rise apertamente.
- No, non è per quello che siamo sempre sotto organico... non solo. I più scappano non appena scoprono che Mahmet è una IA. Sai, non vogliono farsi comandare da un computer. Ecco perché ti ha chiesto se hai problemi con le IA.
- Mahmet è molto sofisticato?
- Molto – rispose decisa Zarha accennando a voltarsi ma senza smettere di camminare. Lo sguardo di Miki cadde ancora una volta sul vistoso piercing al lobo dell'orecchio sinistro: un anello divaricatore inserito nella carne tenera. Era tanto grosso che avrebbe potuto infilarci il mignolo.
Attraversarono ancora un portello rotondo e finirono in una parte della stazione dove le pareti del corridoio, non tanto più distanti tra loro, erano dipinte di una calda tonalità di arancione.
- Mahmet non vuole ambienti non ottimizzati quindi non esistono alloggi singoli. Ma siccome con te siamo dispari alloggerai da sola. Fino a quando non dovessimo ridiventare pari, ovviamente. Questa è la mia stanza: la divido con Tracy.
Zarha indicò un varco aperto alla sua sinistra. La luce dentro il locale era spenta come in tutti gli altri che avevano già superato. Miki non riuscì a scorgere altro che le estremità di un paio di brande.
- E questa è la tua.
Dopo aver saltato un altro varco aperto e buio superò la soglia alla sua sinistra. La luce si accese mostrando un ambiente abbastanza largo e profondo. C'erano due brande con due comodini e due armadietti stretti e profondi. Nient'altro.
- Dovrei tornare alla mia nave a prendere qualcosa per vestirmi – osservò Miki. Aveva pensato di dormire sul Coyote ma, a quanto pareva, veniva dato per scontato che avrebbe fatto vita in comune con gli altri. Vita intima: gli alloggi erano sprovvisti di porte e il bagno era uno solo per tutti, uomini e donne.
- Chiedi a Mahmet, ma non credo sia possibile. Avrà già decompresso il corridoio di accesso all'ormeggio.
- E perché mai? - Miki cercò di non sembrare allarmata. Convinta di poter tornare sul Coyote in qualsiasi momento aveva lasciato a bordo una montagna di cose che le sarebbero state utili, oltre a degli abiti di cambio. Si rese conto anzi che aveva con sé unicamente ciò che indossava e il suo bracciale olografico.
- Risparmio energetico, ottimizzazione delle risorse. Perché mantenere abitabile un ambiente dove non passa mai nessuno?
Il ragionamento non offriva spazio a obiezioni.
- Speriamo che mi faccia andare almeno una volta: non si risparmia certo sul riscaldamento qui.
Miki si sventolò il viso con una mano: aveva già aperto la sua tuta imbottita fino all'ombelico nel tentativo di stare un po' più fresca, ma senza risultati apprezzabili. Essendosi preparata a un ambiente freddo come la maggioranza delle stazioni spaziali che aveva visitato in tutta la sua carriera di astronauta, sotto la tuta integrale indossava l'intimo termico.
- Riscaldamento? - Zarha le sorrise, ridacchiando divertita – Che riscaldamento? L'impianto di climatizzazione è impegnato a mantenerci freschi. È Giove a scaldare.
Ecco spiegato come mai sono tutti vestiti piuttosto leggeri, pensò Miki. Zarha le spiegò in breve come lo scudo di Niharra contro le radiazioni elettromagnetiche di Giove trasformasse quell'energia in calore che non era possibile disperdere del tutto all'esterno.
- Stando così le cose dovrò tornare per forza a bordo della mia nave a prendere qualcosa di più adatto. Mahmet dovrà farsene una ragione se non vuole che io perda i sensi.
- Vieni: ti mostro l'accesso agli hangar delle cimici – ghignando Zarha cambiò discorso e la precedette oltre il portello stagno successivo. Qui Miki poté vedere quello che era forse il più grande locale di tutta la stazione, di gran lunga più grande anche della centrale operativa che, stipata di apparecchiature fino all'inverosimile, costituiva il cervello di tutta la struttura. Il portello stagno si apriva su una vertiginosa passerella di metallo che tagliava a metà un ambiente enorme, dalle lontane pareti di un grigio indefinibile e di poco più fresco del resto della stazione. Lì, parecchi metri più in basso, c'erano le piazzole dove riposavano i massicci moduli vettore di sei cimici in fase di revisione. L'equipaggio della stazione, che da quell'altezza era simile a un laborioso gruppetto di insetti, stava lavorando su uno di essi dall'aspetto trasandato, sporco e davvero sgraziato, concentrando luci e attrezzature. Il resto dell'hangar giaceva nella penombra.
Zarha le spiegò che le cimici erano costituite da due parti: il modulo motore, detto anche vettore, che ospitava il propulsore vettoriale e la cabina di comando, nonché tutti i sistemi principali. Prima di partire, una volta che il vettore veniva spostato in una delle adiacenti camere di lancio, gli veniva montato il gigantesco serbatoio che conteneva alcuni sistemi ridondati e l'indispensabile generatore della “bottiglia magnetica”. Era la trappola invisibile grazie alla quale incanalavano all'interno l'idrogeno e l'elio liquidi e, chi ci riusciva, anche lo ione idrogeno-tre. L'assemblaggio del vettore sul serbatoio era tutto automatico e supervisionato da Mahmet. I serbatoi erano così rozzi e spartani che non si guastavano mai e raramente richiedevano manutenzione. Quando questa si rendeva indispensabile Mahmet attivava un hangar apposito, ancora più grande, in grado di ospitare un serbatoio alla volta.
Zarha le raccontò molte altre cose, tutte interessanti: la guidò a ritroso attraverso Niharra mostrandole i vari servizi di bordo, tra cui una fornita palestra e un interessante osservatorio: curiosamente era l'unico locale davvero grande e sgombro, soprattutto se confrontato a quanto erano affollati e stretti tutti gli altri. Zarha le disse che l'osservatorio era molto importante e che era dotato di una finestra corazzata per poter guardare Giove, ma non aggiunse altro perché Mahmet la interruppe.
- Zarha... se hai finito di fare da guida a Miki, ci sarebbe del lavoro per te alla piazzola cinque.
La donna roteò gli occhi mostrando il bianco in una silenziosa e infantile espressione di noia e rispose che sarebbe andata subito.
- Miki, tu puoi raggiungere la tua nave e prendere ciò di cui hai bisogno – continuò Mahmet – Ti invito a non sovraccaricarti... scoprirai di non avere bisogno di molto qui su Niharra.
- E assicurati di portarti qualcosa di leggero – aggiunse Zarha sorridendo – io e te abbiamo una bella cosa da fare insieme.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


GIOVE CONTRO
6.


Ci saranno trenta gradi in questo cazzo di posto, si lamentò Miki in silenzio. Accidenti a me quando ci sono venuta. Calzò le sue ciabatte di gomma blu rendendosi conto che i suoi piedi scalzi non percepivano la differenza col pavimento. Aveva rastrellato tutti gli indumenti leggeri che aveva, scovando persino un paio di vecchi pantaloncini ginnici che le stavano ancora bene e che si intonavano alla sua canottiera preferita, quella nera con la ragnatela bianca stampata sul davanti e la scritta “vedova nera”. Aveva poi fatto scorta di tutto ciò che aveva trovato tra i suoi articoli da toilette che avrebbero potuto alleviarle le sofferenze dovute alla temperatura elevata: dai deodoranti fino a mollette e fermacapelli di ogni genere per tenere legati i suoi ricci. Era come avere un cappotto sulle spalle: devo raccoglierli per forza e scoprire il collo se voglio sopravvivere, pensò.
- Va meglio?
L'apparizione di Zarha sulla porta della sua cabina la colse di sorpresa. Aveva ancora sparpagliate sulla branda più della metà delle cose che si era portata dal Coyote dentro una sacca da viaggio.
- Meglio, grazie – rispose Miki cercando di non sembrare seccata come in realtà era. Si chiese se quell'ostentazione di promiscuità fosse strumentale o semplicemente un costume di bordo. Ogni nave era un mondo a sé, con le proprie regole e le proprie usanze e Niharra sembrava più un vecchio mercantile che una stazione spaziale.
- Allora sbrigati... come sospettavo Mahmet ha scelto me per accompagnarti.
Miki seguì la donna nera lungo l'angusto corridoio, diretta all'hangar.
- Perché lo sospettavi? - le chiese, non immaginando come mai quella scelta di parole. Era stata lei a offrirsi di farle visitare la stazione poche ore prima: nessuno l'aveva obbligata.
- Perché sono più forte delle altre e perché sono più o meno alta come te.
- Anche Peter è alto come me, più o meno – osservò Miki.
- Mi sono offerta prima io. Stai lontana da Peter finché puoi. Non lo puoi sapere, non ancora ovviamente, ma lui è un problema qui a bordo. Sorpresa che Zarha affrontasse un argomento del genere senza nemmeno abbassare la voce, le chiese cosa intendesse dire.
- Intendo dire che non sempre si controlla. Va un po' a periodi e adesso è relativamente calmo. O almeno lo era prima di vederti. Non vorrei che gli fosse venuta voglia di carne fresca, non so se mi spiego... stai attenta.
- Perfettamente – rispose Miki tetra. Spazi ristretti, temperatura elevata, promiscuità: una miscela esplosiva. La mente le si affollò di un milione di aneddoti uditi in passato, casi comuni fra astronauti. Alcuni simpatici, molti altri parecchio di meno.
- E come fate qui? Voglio dire... certi problemi come li risolvete? Vi conoscete da molto, suppongo... Zarha rise di cuore.
- Intendi dire come sfoghiamo le tensioni e i bassi istinti? Come risolviamo i nostri conflitti? Sì, ci conosciamo da tanto ormai. L'equipaggio come lo vedi ora è lo stesso da diciotto mesi. Ognuno di noi sa più o meno tutto di tutti. Fortunatamente la maggior parte di noi va d'accordo con gli altri e siamo stati tutti sessualmente “liberati” dalla prolungata convivenza. C'è chi si sfoga in branda, chi saltando, chi in palestra...
Fletté un braccio mostrando un bicipite mostruoso.
- Insomma, siamo tutti adulti e maturi. Tranne Peter, sul quale abbiamo qualche dubbio nonostante la sua età anagrafica. Di solito se c'è qualche tensione a bordo lui è coinvolto. Non sempre è una persona piacevole da avere vicino. Ma è un ottimo j-diver e, purtroppo, non sa fare altro. Quindi resta qui. La donna aprì il portello che metteva in comunicazione gli alloggi con l'hangar delle cimici e si diresse decisa lungo la passerella, ciabattando velocemente fino alla piazzola numero tre. C'era ancora gente al lavoro sulla cimice alla piazzola cinque e Miki si chiese se la numero sei fosse stata vuota anche prima. Zarha sfiorò un comando nei pressi della rampa trasversale che univa la passerella a una cabina sospesa sopra la cimice. I fari tutto intorno e sopra la cimice lì avanti si accesero.
- Ti piace?
- Certo – mentì Miki pensando di non aver mai visto niente di più sgraziato in vita sua.
- Andiamo.
Seguì la donna nera lungo la rampa per raggiungere una cabina, una struttura piuttosto fragile sospesa sopra la cimice, costituita da un pavimento metallico con un grosso foro tondo nel mezzo e tre pareti di plastica. Un parapetto impediva di finire dentro il foro per errore.
- Aspetta che io ti chiami prima di scendere, eh?
La osservò calarsi con agilità dentro il foro. Sotto di esso si apriva il portello della cimice: le luci bianche di bordo permettevano di vedere l'ampio sedile, parte dei comandi e della strumentazione.
- Controlla se c'è un materassino – la sentì gridare quando fu scomparsa alla vista. Si guardò intorno: effettivamente in un angolo c'erano ammucchiati dei piccoli materassini di gomma morbida e compatta, un po' sporchi per essere stati abbandonati lì da tempo. Gridò di rimando che ne aveva trovati e Zarha le disse di sceglierne uno decente. Immaginando di doverlo usare lei stessa Miki scelse quello che puzzava di meno. Si affacciò sopra il buco guardando in basso dentro la cabina di pilotaggio della cimice. La donna nera si era accomodata sul sedile che curiosamente era ruotato con lo schienale verso il basso.
- Dài, lascia cadere dentro il materassino!
Così fece e osservò incuriosita Zarha che se lo disponeva con cura sul torace, assicurandosi che non le desse fastidio al viso e che non le ostacolasse i movimenti della testa e delle braccia.
- Che aspetti? Scendi!
Dubbiosa, Miki si calò attraverso il pavimento forato e passò attraverso il doppio portello aperto, osservando il notevole spessore del metallo dello scafo esterno e del controscafo. La cimice era davvero corazzata, piccola ma solida. Quando gli appigli per i piedi furono terminati Miki si fermò imbambolata. La cabina di comando era monoposto.
- Forza! - la esortò la donna nera tendendo verso di lei le braccia muscolose e facendole ampi cenni di scendere. Miki le fece notare che non c'era nemmeno posto per posare i piedi.
- Devi sdraiarti su di me, scema... a che cosa serve il materassino se no? Tutte le cimici sono monoposto. Avanti, scendi con la schiena verso di me. Miki stava per pentirsi di aver anche solo pensato di intraprendere quell'avventura. Per diventare j-diver stava scendendo a troppi compromessi con se stessa. Compromessi di un tipo che non gradiva. Non aveva nessuna voglia di avvicinarsi così tanto a Zarha: le bastava aver respirato il suo forte odore standole dietro durante il giro turistico di Niharra. Immaginando che stesse per ricevere la prima lezione sulle cimici di Giove, si rassegnò e fece come le era stato detto.
- Niente male come peso... era da un po' che non facevo coppia con qualcuno. Ma per fortuna sono abbastanza resistente.
- Sei la più forte hai detto – non riuscì a trattenere il disappunto: non le andava giù che qualcuno le rinfacciasse il suo peso, soprattutto dopo aver insistito per farle da materasso.
- Vero. Vedi quelle maniglie ai lati? Afferrale e tirale l'una verso l'altra.
Miki individuò le due maniglie metalliche e le tirò, scoprendo che si trattava degli strumenti di bordo. Scorrevano su due rotaie curve per andare a posizionarsi davanti al suo viso, congiungendosi e bloccandosi in posizione. Miki si sorprese di vedere solo due piccoli schermi MFD: il resto erano strumenti digitali di vecchio tipo, molto robusti. C'era anche una buona dose di vecchi pulsanti, alcuni addirittura con la sicura.
- Ti presento la cimice di Giove. Quello che hai davanti è la metà di ciò che ti serve per pilotare. L'altra metà la trovi appoggiando i gomiti sui braccioli della poltrona. Non c'è pedaliera.
Così fece e le sue palme incontrarono i due massicci joystick irti di pulsanti raggiungibili muovendo solo le dita. All'inizio faticò a concentrarsi: la poltrona dava a Miki la sensazione di essere più instabile che mai ed era costretta in una posizione scomoda. Dopotutto era sdraiata sul petto di una persona! Il contatto con la pelle nuda di lei era inevitabile: se il materassino le isolava la schiena e le natiche, non poteva fare proprio nulla per le gambe e ancor meno per l'alito di Zarha sul collo lasciato scoperto.
Passarono così, una sopra l'altra, tutto il tempo necessario perché Miki imparasse i comandi dei motori, i controlli di volo e a leggere gli strumenti del serbatoio anche se esso giaceva ancora lontano, appeso fuori dallo scafo di Niharra in attesa di essere agganciato a una cimice in partenza.
- Come ti senti? - chiese infine Zarha.
- Abbastanza sicura – disse Miki sinceramente, osservando il pigro lampeggiare delle spie e i valori degli indicatori che aveva imparato a leggere. Era tutto come nel simulatore, a parte i due joystick e l'odore.
- Forza, allora! - sentì sotto la schiena la donna muoversi e nel suo campo visivo entrarono le sue braccia nere che spinsero le mani fino al quadro dei comandi che aveva davanti al viso.
- Hey, che fai? - esclamò Miki allarmata.
- Non l'hai capito? - il tono di voce di Zarha era di rimprovero.
- Certo che ho capito! Hai appena inizializzato il reattore a fusione... che vuoi fare?
Un dito nero spinse un bottone scatenando un assordante clacson in tutto l'hangar e dando il via a un concerto di mugolii di motori elettrici e meccanismi idraulici. Un forte rumore, vicinissimo, subito dietro il pannello degli strumenti. Poi ancora motori e circuiti idraulici in azione a pochi centimetri dal suo viso. Un sibilo. Miki comprese che il pesantissimo doppio portello di ingresso si era chiuso e che si era attivato il sistema di supporto vitale. Sentì un soffio di aria gelida lambirle il viso. Aria di un impianto a circolo chiuso: lo capì dall'odore. Era lo stesso odore che aveva l'aria al chiuso della sua tuta EVA.
- Ma... ci stiamo lanciando! E la tuta? - si meravigliò Miki.
- Che tuta?
- La tuta da vuoto! In caso di emergenza che facciamo? Usciamo mezze nude come siamo?
Senza volerlo sobbalzò insieme alla donna nera: quella stava ridacchiando.
- Carina, se si verifica un'emergenza tale da dover abbandonare la cimice, non ti servirà a nulla la tuta... primo perché se qualcosa va storta, stai certa che accade nella troposfera... ventitré metri al secondo quadrato di accelerazione di gravità, venti da quattrocento a seicento chilometri all'ora... anche se tu avessi una tuta in grado di resistere a un tuffo nell'idrogeno liquido, nessuno verrebbe a salvarti in quell'inferno. Se non riesci a tornare, ti conviene pregare che Giove schiacci la cimice in fretta, senza farti soffrire.
Miki si rese conto che la j-diver aveva ragione. Se qualcosa fosse andata storta, non ci sarebbe stata una procedura d'emergenza da attuare, un segnale di soccorso da attivare, non ci sarebbe stato un salvataggio. Ma solo Giove. Una tuta spaziale non avrebbe fatto alcuna differenza: tanto valeva pilotare in bikini.
Grazie alle informazioni dei pannelli multifunzione poté seguire l'ingresso nell'hangar di lancio e l'accensione del reattore. All'interno di questo una enorme gru afferrò la cimice e la portò fuori dallo scafo. A quel punto un braccio meccanico ancora più possente portò in posizione un serbatoio e la cimice, fra urti assordanti e discreti scossoni, fu finalmente assemblata. Zarha la guidò attraverso le ultime procedure di controllo dei sistemi congiunti e poi le offrì le cinture di sicurezza.
- Servono a non volare via dal sedile. Credimi, è un rischio concreto.
Miki rifletté: la schiena rivolta all'indietro, le cinture di sicurezza... sommato a quel poco che aveva saputo sulle cimici, le parve chiaro che doveva aspettarsi di essere sottoposta a un discreto stress fisico. I muscoli forti e i corpi asciutti e compatti dei j-diver incontrati fino a quel momento confermarono la sua ipotesi. Quello che non le riuscì di immaginare, e a cui non era preparata, era quanto bruscamente sarebbe stata maltrattata.
- Distacco! - esclamò Zarha, e Miki comandò lo sgancio della gigantesca cimice dal ventre della stazione spaziale. L'accelerazione si fece sentire dentro il suo stomaco e lì dove premevano le cinture, ma non tanto come aveva immaginato. È solo l'inizio, si disse. Non c'erano telecamere esterne di alcun tipo ma non le fu difficile immaginare il profilo nero della nave da estrazione a forma di insetto stagliarsi contro le ribollenti, vicinissime nubi del gigante gassoso, pronto ad accogliere la loro sfida.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


GIOVE CONTRO
7.


Si lasciò andare sulla branda, pesantemente. Era stremata e inzuppata di sudore. Tremava. Aveva sete. Ma ce l'aveva fatta. Zarha non aveva toccato che pochi comandi: aveva pilotato lei. Nonostante la posizione scomoda dovuta al fatto che la cimice non era certo progettata per essere pilotata da una persona seduta in braccio a un'altra, aveva fatto tutto come le era stato detto. Pilotare quel mostruoso velivolo fatto per lasciarsi cadere fin dentro la troposfera di Giove e poi risalire, era più facile di quanto avrebbe potuto immaginare. Vincere l'ira violenta di Giove: quella era stata la parte difficile. La gravità aveva reso le sue braccia pesanti come travi d'acciaio, mozzato il respiro e schiacciato il petto. Capì per quale motivo la nera Zarha aveva ammesso la sua forza: non era vanteria né falsa modestia. Era semplicemente la verità, visto che per più di cinque ore l'aveva avuta sdraiata sul torace. Se io ho avuto difficoltà di respirazione, cosa avrebbe dovuto dire lei, si chiese. Cercò di immaginare l'inferno che dovevano essere state le cimici prima dell'introduzione delle piastre gravitazionali, dispositivi che alleviavano un po' la tortura creando dentro l'angusta cabina di comando un campo di forza che si opponeva all'attrazione di Giove.
Aveva perfino riempito il grande serbatoio: centinaia di tonnellate di materia prima. Zarha aveva rivendicato per sé l'intero carico e lei non aveva avuto da obiettare, considerandolo come un pagamento per l'addestramento ricevuto. Una volta ormeggiata la cimice la nera donna aveva cominciato a lamentarsi: a sentire lei non erano scese abbastanza in basso e avevano raccolto troppa ammoniaca. Miki si rese conto che sarebbe stata una cosa difficile da imparare: solo con l'esperienza avrebbe saputo quando era il momento migliore per attivare la bottiglia magnetica e cominciare a riempire il grande serbatoio per raccogliere tutto l'idrogeno possibile senza sostanze indesiderate ad abbassarne il valore agli occhi di Mahmet.
- Ciao!
Alzò la testa un poco per inquadrare la figura apparsa sulla soglia. Un caschetto di capelli castani tagliati all'altezza del mento e con le punte rivolte in avanti incorniciava un viso affilato leggermente olivastro. Occhi a mandorla scuri e il naso un po' schiacciato ne tradivano le origini asiatiche ancora piuttosto evidenti. Sorrideva offrendole una delle due ampolle che aveva in mano, caricate entrambe al massimo con un liquido trasparente.
- Non hai sete? - inarcò le sopracciglia e distese ancor più il sorriso visto che Miki esitava a risponderle.
- Scusami, sono a pezzi... certo che ho sete – faticosamente si mise a sedere sulla sponda della branda.
- È acqua. Offro io – le lanciò l'ampolla a prova di rovesciamento. Fatta per bere in assenza di gravità, non ne uscì nemmeno una goccia. Miki se la portò alle labbra e aspirò avidamente. Era troppo stanca per andare al distributore di bevande della sala mensa e servirsi da sola.
- Zarha ha detto che te la sei cavata bene per essere una nuova.
- Troppa ammoniaca.
- È lo stesso. Serve anche quella.
- E sono a pezzi.
- Riesci ancora a parlare. Non è malaccio, direi. La prima volta sono svenuta dopo l'attracco. Mi hanno tirata fuori di peso.
La squadrò bene: era piccoletta ma solo a prima vista esile. Sotto la maglietta colorata talmente grande che le arrivava a metà coscia si intuivano spalle muscolose e gambe forti. Come tutti gli altri j-diver, era un fascio di muscoli asciutti. Non riusciva a immaginarsela estratta a forza dalla cabina di pilotaggio, priva di sensi.
- A vederti non si direbbe.
- È da due anni che sono qui. Se non migliori non sopravvivi – anche lei si portò l'ampolla alle labbra e succhiò un po' d'acqua. Le teneva gli occhi fissi addosso e sul volto aveva un'espressione indecifrabile.
- Sono molti quelli che... - con una mano Miki mimò un'astronave in picchiata. In caduta verso Giove.
- Qui intendi? No, qui no. L'ultima volta che Mahmet ha perso una cimice è stato più di cinque anni fa, mi hanno detto così. Ma è lo stesso: ogni giorno potrebbe essere quello buono anche se sei esperta. Un ritardo nell'accensione, una raffica di vento, un guasto qualsiasi... alla fine il risultato è lo stesso. Non ritorni.
La donna si strinse nelle spalle come se la cosa non avesse importanza. Miki bevve ancora per prendere tempo. Non le stava antipatica e le era grata per averle portato l'acqua, ma non aveva voglia di parlare. Voleva solo riprendere fiato e farsi una doccia. Non voleva pensare a guasti, raffiche di vento ed errori umani.
- Pettinata così sembri un fungo... vorrai tagliarti i capelli.
Non ci penso nemmeno, si disse Miki. Aveva scoperto di piacersi tantissimo coi capelli così lunghi. Crescevano in fretta, ricci e voluminosi senza doverli acconciare in modo particolare: erano molto belli. Scacciò in fretta il ricordo di qualcuno cui piaceva immergervi il viso per aspirarne a fondo il profumo.
- Mah... ci penserò... dopotutto non sono così fastidiosi – ribatté toccandosi l'elastico che le teneva a fatica i ricci legati in un maldestro, voluminoso ciuffo sulla sommità del cranio. Sembrava una fontana che zampillasse capelli. Li aveva acconciati così per non dare fastidio a Zarha, che durante il volo aveva minacciato di rasarla come lei stessa era. Ma il solo pensiero di avere in testa la medesima corta lanugine della sua nera collega la fece rabbrividire.
- È lo stesso... quella che soffre sei tu. Senti: io sto qui accanto insieme a Martha. Se hai bisogno di qualcosa... chiedi a me, se vuoi. Altrimenti è lo stesso. Puoi chiamarmi Semsem.
Miki ringraziò e la salutò, non potendo fare a meno di far scivolare con invidia gli occhi sulle gambe di quella donna, sui polpacci forti e poi giù fino ai piedi nodosi infilati in logore ciabatte infradito. Non riusciva a decidere quanti anni potesse avere, ma di certo era molto sexy. Spossata, si abbandonò di nuovo sulla branda e in pochi minuti, parzialmente ristorata dall'acqua fresca, si appisolò.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


GIOVE CONTRO
8.


Un altro scossone e la sua cimice accennò a sfuggirle di mano di nuovo. Questa volta agì con maggiore decisione sui comandi e la riallineò. Allineata tanto per dire, si disse constatando i dati che apparivano sugli schermi multifunzione. Aveva una deriva di un paio di migliaia di chilometri rispetto al punto di distacco e non sapeva nemmeno se era bene o male.
Stava facendo una vera e propria sauna. Aveva scoperto che non era il calore di Giove a far bollire la cimice, ma il reattore a fusione nucleare. In preparazione al primo lancio da sola, o “salto” come dicevano i j-diver, aveva voluto fare un giro dello scafo di una cimice sulla piazzola, una di quelle che era stata appena revisionata e che non era stata ancora impiegata. Lo scafo era rivestito da uno scudo termico di un metallo ceramico piuttosto avanzato tecnologicamente, ma solo intorno ai lunghi ugelli vettoriali. Un dettaglio che strideva fortemente con il tipo di propulsore scelto: un rude, antiquato e potente reattore a fusione il cui possente impianto di raffreddamento occupava quasi metà dello scafo. Perfino l'anello di alimentazione dei getti vettoriali era raffreddato sia da banali dissipatori di metallo superconduttore, sia dal medesimo impianto di raffreddamento del motore basato sull'antico ma sempre valido principio del condensato di Bose-Einstein. Per inciso la temperatura dell'atmosfera di Giove nel punto in cui si trovava in quel momento era di gran lunga inferiore allo zero Celsius. Il gigante gassoso che l'aveva afferrata e che stava cercando di trascinarla a sé con tanta insistenza emetteva anche nell'infrarosso e quindi scaldava un po'.
Fece di nuovo una rapida panoramica di tutti gli strumenti. Molti erano disturbati proprio dall'intenso campo magnetico del pianeta gigante, ma Zarha le aveva detto che le letture erano sempre attendibili, più o meno. Non era ancora scesa abbastanza quindi chiuse la manetta lasciando che l'attrazione gravitazionale facesse il suo lavoro consentendole di risparmiare il motore e il carburante per la risalita. La cimice era infatti un delicato equilibrio fra massa, potenza del motore, riserva di idrogeno per il reattore a fusione e consumi energetici. Anche se si lasciava cadere non poteva certo spegnere il reattore: a difendere lo scafo della cimice infatti non sarebbe mai bastato il nudo metallo. C'era un generatore di deflettori che proiettava intorno alla nave una barriera energetica in grado di fermare o attenuare l'energia cinetica di ogni cosa avesse impattato il deflettore stesso a una velocità superiore ai due o tre metri al secondo. Quasi ogni cosa, si corresse. Una sicurezza... finché rimaneva in azione. Controllò anche il sistema altimetrico: era ormai prossima alla tropopausa, dove la stratosfera si mutava in troposfera. Dove cominciavano i guai. L'altimetro era di certo lo strumento più critico e più ridondato di tutto il velivolo: non avendo Giove una vera e propria superficie, non era facile determinare l'altezza autonomamente. Quindi ci si basava da un lato sulla convenzione di fissare lo zero altimetrico quando la pressione era pari a una atmosfera; dall'altro lo strumento determinava la quota triangolando con Niharra e con satelliti di precisione. Per completezza questi venivano tarati periodicamente usando semplici sonde barometriche usa e getta.
Proprio mentre pensava alla calibrazione dei satelliti di precisione in orbita intorno a Giove, quest'ultimo le diede un bello scossone facendo sbandare parecchio la sua cimice. Miki reagì con prontezza e rimise dritta la piccola nave dal grande ventre, ma si accorse con spavento che la sua velocità di deriva era bruscamente aumentata. Le vibrazioni poi non cessarono, anzi: erano così forti non solo da far tintinnare qualcosa nell'abitacolo che evidentemente non era ben fissato, ma anche dal farla desistere dall'idea di prendere una bella boccata d'aria, di cui sentiva il bisogno. Aveva paura di sbattere troppo forte i denti.
Cosa cazzo sta succedendo, si chiese rendendosi conto che stava di nuovo lottando per mantenere l'assetto. Non bastavano più le decise accensioni con cui aveva contrastato le imbardate fino a quel momento. Sentiva il sudore scorrere a rivoli su tutto il corpo, sentiva il sedile inzuppato tentare di sgropparla via, sentiva l'abbraccio stretto delle cinture farsi addirittura doloroso. Se i suoi sensi non la stavano ingannando, stava entrando in una pericolosa vite. Interrogati, gli strumenti confermarono.
Le braccia erano diventate all'improvviso pesanti come se fatte di metallo. Stava contrastando la spinta che cercava di strapparle i corti joystick di mano e con uno sforzo fisico non indifferente riuscì a manovrare per opporsi all'avvitamento, dando contemporaneamente tutta manetta al motore. La cimice ruggì, poté sentire chiaramente i quattro scarichi vettoriali soffiare violentemente, i motori che ne regolavano l'inclinazione gemere come impazziti. Lentamente la forza laterale scomparve e poté cautamente interrompere la spinta. Controllò gli strumenti: era tornata nella più tranquilla stratosfera gioviana. Più tranquilla, ma poco redditizia. Inoltre la sua deriva era ulteriormente aumentata di qualche centinaio di chilometri. Se ne rese conto con spavento quando la cimice ristabilì automaticamente la telemetria con la stazione spaziale.
Controllò la riserva di idrogeno per il reattore: ne aveva consumato tantissimo e doveva ancora riempire il gigantesco serbatoio. Devo imparare a scendere meglio: ho fatto troppe accensioni, si rimproverò. Sarebbe il colmo se tornassi a mani vuote... fin dal primo viaggio sarei in debito con Mahmet: non un buon inizio. Sentì la cimice traballare ancora un po' e controllò l'altimetro. Giove non si stanca mai, pensò. Aveva ricominciato a scendere ed era già nei pressi delle turbolenze. Stavolta devo farcela, promise a se stessa: strinse i denti e fece una piccola accensione retrograda. Una spintarella per aiutare il gigante, anche se non ne ha affatto bisogno.
L'altimetro cominciò a strepitare e Miki si rese conto d'aver fatto una sciocchezza. La sua velocità di discesa era eccessiva e infatti dopo pochi secondi anche l'allarme del deflettore cominciò a gracchiare ritmicamente: si stava esaurendo troppo velocemente. Se non fosse già stata in un lago di sudore, Miki si sarebbe sentita pervadere da una vampata di calore. Ho fatto una vera cazzata, fece in tempo a pensare. Poi la cimice cominciò a sbatacchiarla: se non avesse avuto le cinture ben allacciate sarebbe stata sbalzata dal sedile di pilotaggio. Quando gli strumenti indicarono che la navetta aveva superato lo zero altimetrico a una velocità preoccupante, Miki fu colta dal panico. Attivò tutto contemporaneamente, infischiandosene dell'improvviso aumento di carico sul reattore a fusione. Accese i motori al massimo e attivò la bottiglia magnetica. Non sarebbe tornata a mani vuote.
Di nuovo i getti ruggirono violentemente e il reattore salì oltre il massimo. Stava generando un calore insopportabile che la cimice stentava a disperdere e Miki ebbe la sensazione che sarebbe stata cotta viva dentro l'abitacolo. Lentamente la cimice arrestò la caduta: si sentì meglio. Ora restava da aggiustare l'orbita, prima di esaurire l'idrogeno per il motore a fusione. Sarebbe il colmo, pensò: sono circondata da miliardi di tonnellate di idrogeno e non posso usarlo. Come morire di sete in una distilleria di liquore. Controllò lo stato del serbatoio: era pieno a metà e la bottiglia magnetica funzionava egregiamente. La cimice si imbardò ancora pericolosamente, ma aiutata dai sistemi automatici, riuscì a recuperare l'assetto in fretta. Poco prima che l'indicatore del serbatoio segnalasse il pieno Miki spinse il motore al centodieci per cento, sperando che la cimice riuscisse a smaltire il calore prima che quello la uccidesse. E speriamo che non si rompa nulla, aggiunse guardando gli indicatori del sistema di raffreddamento: erano tutti troppo vicino al limite massimo.
Finalmente poté spegnere la bottiglia magnetica: il serbatoio era pieno. Ma il reattore non dette cenno di rallentare: la richiesta di energia era ancora elevatissima. L'altimetro segnalava una quota preoccupante: quarantuno chilometri sotto lo zero altimetrico. Zona di elevate pressioni, circa sette atmosfere, ma soprattutto di venti fortissimi. Oltre quattrocento chilometri l'ora, ricordò Miki. Ma non erano i venti a preoccuparla ora. Il deflettore era al minimo: doveva sperare di non incappare in una perturbazione contenente silicati o qualche altra schifezza a base di acido solfidrico o idrocarburi: lo scafo avrebbe potuto risentirne. Anche se a spaventarla di più era una falla nel rivestimento refrattario: i motori erano spinti al massimo e i getti avrebbero fuso lo scafo in pochi secondi se la copertura di metallo ceramico fosse venuta a mancare anche solo in un piccolo punto.
- Alzatiii! - gridò a squarciagola dopo aver contrastato una perturbazione improvvisa che le ebbe spinto il cuore in gola. L'altimetro era improvvisamente diventato pigro mentre l'indicatore di velocità verticale indicava la salvezza: sessantadue chilometri al secondo. Avrebbe cambiato la risoluzione dello strumento, ma le sue braccia erano ormai divenute pesanti come il piombo. Le tornò alla mente quando la settimana precedente aveva cercato di sollevare un manubrio da ottanta chili stando sulla panca, in palestra. Non era nemmeno riuscita a smuoverlo. Che pensiero idiota, si disse. In quel momento superò lo zero barometrico incappando in nuove, più deboli perturbazioni. La velocità di salita stava aumentato gradualmente, ma solo in prossimità della stratosfera si convinse a ridurre la spinta e a far tirare il fiato al reattore e ai motori chiudendo la manetta fino al settanta per cento. Per fortuna non c'è il termometro interno, si disse sollevata. Perderei i sensi solo guardandolo.
Ce l'aveva fatta. La cimice stava risalendo bene. Chiuse ancora un po' la manetta e il reattore diminuì ulteriormente la potenza erogata, dando sollievo anche all'impianto di raffreddamento. Anche il deflettore cominciò a guadagnare potenza, irrobustendosi. Ma lei non si sentiva affatto meglio. Il calore era soffocante, faticava a respirare e temeva di essere gravemente disidratata: la vista le si appannava a tratti, gli strumenti erano difficili da leggere nonostante fossero tutti ampiamente entro la portata del suo braccio. Tempo, ho bisogno di tempo per riprendermi. Anche i suoi pensieri annaspavano con difficoltà al punto che faticò a comprendere di stare per schizzare fuori dall'esosfera di Giove a velocità eccessiva. Chiuse completamente la manetta, chiedendosi che fine avesse fatto il temutissimo gelo siderale ora che ne aveva bisogno.
Provò a muovere gambe e braccia e le venne un dolorosissimo crampo alla coscia destra, proprio vicino al ginocchio. Gridò dal dolore, non riuscendo a trattenersi. Sono disidratata, si ripeté. Con cautela, stringendo i denti, azionò il pulsante che richiedeva l'aggancio da remoto ai sistemi di guida, per farsi telecomandare da Mahmet fino all'approccio. Difficilmente la cimice ce l'avrebbe fatta da sola con gli strumenti rozzi di cui era dotata. Ma non ebbe il segnale di conferma, né quello di ritorno. Era troppo lontana.
Finalmente il dolore per il crampo si attenuò, consentendole di ragionare un po' meglio. Richiamò sullo schermo multifunzione lo schema della rete satellitare per la navigazione e fece il punto. Niharra era davvero lontana: Giove l'aveva sbatacchiata di qua e di là fino a farla riemergere a quasi mezza orbita di distanza. La stazione stava per tramontare sotto l'orizzonte a strisce del gigante gassoso: ma quello era un quadro che poteva solo immaginare. Non ci voleva, pensò. Forse posso iniziare un'orbita retrograda, si disse, contenta di aver avuto l'idea. Provò a concentrarsi sugli strumenti, ma era troppo affaticata. Le stava venendo sonno, segno che probabilmente anche la scorta di ossigeno si stava esaurendo. La controllò e scoprì che l'atmosfera di bordo era perfetta, a parte la temperatura che sfiorava i cinquanta gradi. Dunque il termometro c'è, si lamentò. Le parve di stare peggio. Doveva stabilizzare il volo della cimice in un'orbita o avrebbe presto ricominciato a cadere verso Giove. Si stropicciò gli occhi con le mani e quelli cominciarono a bruciarle terribilmente per via del sudore. Lacrimava abbondantemente ed era accecata, poiché non riusciva a tenere gli occhi aperti. Bella trovata, cogliona, si rimproverò. Secondi perduti, secondi che invece lo spazzino del sistema solare non avrebbe sprecato. Lo spazzino: così veniva chiamato il gigante gassoso per via del suo grande pozzo gravitazionale che risucchiava oggetti di ogni tipo, dai meteoriti ai relitti di astronavi. Non voglio diventare un relitto da spazzare via! Con un occhio solo velato dalle lacrime e uno sforzo di volontà di cui non si sarebbe detta capace, Miki impostò una manovra per entrare in un'orbita retrograda. Insicura di quello che sarebbe successo, comandò l'accensione e attese, timorosa. Sperava almeno di avvicinarsi alla stazione spaziale quel tanto che bastava per essere agganciata dal sistema di rientro automatico.
Quando sentì suonare il clacson dell'allarme di prossimità si rese conto di essersi addormentata. Stava rischiando la collisione con qualcosa ed ebbe un momento di puro terrore. Mi sono addormentata! Gettò subito gli occhi sugli strumenti: era Niharra. Ed era vicina.
- Fottutamente vicina – disse a se stessa, cercando conforto nel suono della sua stessa voce. Impostò rapidamente una brevissima frenata per guadagnare tempo, anche se non sapeva quanto. Poi avviò di nuovo la procedura di aggancio da remoto, per farsi telecomandare. Udì il segnale di ritorno, poi fu la volta della luce verde sugli strumenti: era agganciata. Sentì subito la cimice intorno a sé animarsi, gli strumenti presero vita come se una presenza invisibile stesse ai comandi al posto suo. Era Mahmet che la stava portando all'approdo. Era arrivata, ora doveva solo aspettare. Si rilassò sul sedile rendendosi conto solo in quel momento che la temperatura era sensibilmente diminuita e che gli indumenti estivi che indossava erano completamente inzuppati di sudore. Perfino le cinture di sicurezza erano bagnate.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


GIOVE CONTRO
9.


Mi sono addormentata ancora! Ebbe un sussulto e la stretta delle cinture di sicurezza le ricordò che era a bordo della cimice. Era immersa nel silenzio più completo: gli strumenti erano accesi ma muti. Era assetata.
Quanto tempo è passato? Non c'erano orologi a bordo, e lei imprecò in silenzio contro i progettisti che avevano ideato quello spartano veicolo spaziale. Come se installare un orologio avesse cambiato di tanto i costi, recriminò. Poi si accorse che la sua pelle era asciutta mentre i suoi abiti ancora fastidiosamente fradici: quindi non doveva essere trascorso tanto tempo. La pelle le prudeva ovunque e nel grattarsi la testa si rese conto che la gravità era normale e nella direzione giusta.
Se due più due fa ancora quattro sono ormeggiata. Cercò di slacciare le cinture che la tenevano ancorata saldamente al sedile e si accorse di essere debole. Fece una smorfia e scoprì le labbra secche, la lingua riarsa era appiccicata al palato e le faceva male. Disidratazione, speriamo non sia grave, pensò abbandonando la testa sulle imbottiture di protezione. Era spossata, voleva solo riposare. Chiudere gli occhi e dormire, dormire. Un forte rumore metallico, come se un martello gigante avesse battuto un colpo sullo scafo esterno, la convinse a tenere gli occhi aperti. Fu quasi contenta di sentire che il suo cuore aveva ancora la forza di sussultare. Nessuno strumento si mosse per indicare qualcosa. Stupida, si rimproverò: quale strumento può dirmi chi sta prendendo a mazzate la nave?
Trascorsi pochi secondi riconobbe il rumore dei motori del pesantissimo portello della cabina di pilotaggio: si stavano attivando. A poche decine di centimetri dal suo viso qualcosa si mosse. Un soffio di aria fresca le lambì la fronte e la rese edotta del fatto che i suoi capelli erano in condizioni pietose. Con uno sforzo che le sembrò titanico afferrò le due maniglie davanti al suo viso e, sbloccate le sicure, fece scivolare ai lati le due metà del pannello degli strumenti aprendosi la strada verso l'uscita.
- Miki! Come stai? - non riconobbe la voce femminile che giunse dal buio oltre il portello. Tradiva un po' di ansia.
- Sete... - fu tutto quello che riuscì a bisbigliare: la gola sembrava un tubo di plastica e dal quel momento cominciò a dolerle davvero. Cercò di deglutire ma non aveva saliva in bocca.
- Arrivo subito!
Dopo qualche secondo vide le pallide piante di un paio di piedi posarsi sui sostegni più alti. Rapidamente quei piedi, seguiti da muscolose gambe abbronzate, guizzarono di gradino in gradino. Vide apparire un costume da bagno coloratissimo e poté sbirciare sotto la maglietta lungo la schiena fino al nodo del reggiseno.
- Togli le braccia da lì, Miki!
Obbedì, spostandole sulla pancia. Sentire la propria maglietta fradicia le diede fastidio. La donna, muovendosi con una velocità sorprendente e con agilità felina, posò i piedi nudi sui braccioli e si chinò su di lei, offrendole subito un'ampolla carica al massimo di acqua. Sono io a essere intontita, realizzò Miki.
- Ce la fai da sola? - era la donna calva e abbronzata che l'aveva accolta il primo giorno, la prima persona incontrata a bordo della stazione. Scoprì di non ricordarne il nome. Non le rispose: si limitò ad afferrare il bicchiere a prova di rovesciamento e a succhiare un po' d'acqua attraverso le labbra secche.
- Bravissima! Poco alla volta, eh! - le sembrò liquore, non acqua. Un liquore forte, corroborante, paradisiaco.
La sentì poi rivolgersi a qualcuno che era rimasto oltre il portello aperto. Disse che sembrava tutto a posto, che lei stava bene e aveva solo bisogno di bere. Sto benone, pensò. Ma non le riuscì di dirlo ad alta voce. Succhiò ancora un piccolo sorso di paradiso liquido.
- Ce la fai da sola? - era di nuovo china su di lei. Clarissa, guai a chiamarla così. Meglio Clara: per fortuna se l'era ricordato. Slacciò lesta le cinture di sicurezza prima che potesse farlo lei. Le rispose che certo, ce la poteva fare da sola. Clara le tese una mano e lei si aggrappò al suo braccio ma senza riuscire a ricambiare la stretta di lei, così salda e sicura. Finalmente poté staccare la schiena dal sedile di pilotaggio. Muoio dalla voglia di una doccia, chissà come puzzo, recriminò amaramente.
- Dai, aggrappati – Clara batté una mano sul sostegno più vicino. Miki lo afferrò cercando di non tremare.
- Ci hai fatto preoccupare, sai? Volevi dimagrire del tutto in una volta sola?
Miki avrebbe voluto risponderle bruscamente di farsi i fatti suoi e per una volta ringraziò di avere la lingua secca: in condizioni normali non si sarebbe trattenuta.
Non credeva che ce l'avrebbe fatta: incitata da Clara che saliva dietro di lei, raggiunse la cabina. Qui fu afferrata dalle nerissime mani di Zarha che l'aiutò a compiere gli ultimi passi.
- Sei fortissima – le disse quando fu in piedi davanti a lei. Clara sopraggiunse e le restituì l'ampolla, da cui Miki trasse un lungo sorso come premio.
- Non ce la faccio più – confessò.
- Tranquilla, sei arrivata – sostenendola per le braccia e camminando di lato, la accompagnarono fino alla sua branda. Qui Miki si abbandonò, esausta. La fecero spogliare e le strofinarono addosso un po' di schiuma detergente presa dal bagno dirimpetto.
- Come sono andata? - chiese Miki sentendosi decisamente meglio, anche se stanca morta.
- Mi sono dimenticata di dirti di non accendere i motori per la discesa... lascia fare a Giove, tu pensa a risalire e basta – Zarha sorrideva ma sul suo viso nero era evidente la tensione che aveva sopportato.
- Me ne sono accorta – commentò Miki. Un attimo dopo si pentì d'aver parlato: temeva di essere fraintesa. Non era un rimprovero per Zarha: senza le istruzioni da lei ricevute durante il salto in coppia avrebbe fatto molti altri errori. Le sorrise per rassicurarla. Il labbro inferiore, ancora secco, le si spaccò un poco facendola innervosire. Detestava avere le labbra screpolate.
- Però è stato un bel salto – intervenne Clara – era più comodo seguirti col termografo piuttosto che col radar... chissà cos'hai combinato.
- C'erano un sacco di turbolenze che... - cominciò lei, ma Zarha la interruppe subito.
- Sei finita in un punto dove le correnti convettive sono piuttosto imprevedibili. A un certo punto abbiamo visto che ti sei avvitata e sei sparita dentro una nuvola di ammoniaca. Abbiamo dovuto decontaminare la cimice prima di tirarti dentro, sai?
- Una puzza... - Clara le sorrise come una mamma.
- E il carico?
- Hai imbarcato un bel po' di ammoniaca, ma non tantissima – la voce rauca e gracchiate dell'incorporeo Mahmet parve riempire completamente la già sovraffollata cabina – il resto è idrogeno con un po' di elio. Perfettamente spendibile, con un po' di lavoro.
- Serve anche l'ammoniaca, Mahmet! - esclamò Clara volgendo gli occhi al soffitto basso da dove era giunta la voce dell'intelligenza artificiale.
- Siamo pieni di ammoniaca, Clara. Il guaio dell'ammoniaca è che costa quasi meno dell'idrogeno gassoso. I clienti sono sempre meno.
Miki ebbe la sensazione che la IA fosse risentita per l'osservazione. Ma non ebbe il tempo di pensare a una domanda adatta a indagarne i motivi. - Miki, a proposito del carico... te lo pago la tariffa standard ma devo tenermi il quindici per cento.
- Cosa? E perché? - esclamò Clara stupita.
- Quanti salti fai con una cimice rifornita al massimo, Clara? - quella di Mahmet sembrava una domanda trabocchetto.
- Dipende... se non ci sono problemi, quasi due.
- Ecco... Miki ha riportato indietro la sua cimice, che è partita col pieno di idrogeno per il reattore, con dodici minuti di autonomia rimasti. Undici minuti e quarantanove secondi, per la precisione...
Clara e Zarha ebbero per Miki uno sguardo a metà fra la sorpresa e l'ammirazione.
- Sei una che va forte, eh Miki? Ti piace correre...
Avrebbe desiderato scomparire sotto il lenzuolo della sua branda mentre le due donne si prendevano gioco di lei. Invece era lì nuda, anima e corpo, sotto i loro occhi. Errori compresi.
- Coraggio... sei andata benone – disse infine Zarha mostrandole i denti bianchissimi – Adesso ne parleremo anche con gli altri, ma vedrai che saranno d'accordo. Comincia a pensare dove vorresti il tatuaggio, carina!
La donna nera come l'inchiostro uscì dalla sua cabina e Clara la seguì subito, non senza averla salutata e invitata a riposare tranquillamente.
- Clara! - chiamò Miki, con uno sforzo. Quella apparve sporgendo la testa entro l'apertura della cabina.
- Che tatuaggio? - le chiese dubbiosa. In risposta ebbe un sorriso aperto.
- Non vuoi far vedere che sei diventata una j-diver?

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


GIOVE CONTRO
10.


Puntò la rotospazzola e passò più volte sopra la macchia scura. Insistendo con vigore riuscì a cancellarla. Era la quarta: uguale alle prime tre, formava una traccia che conduceva dritta dritta al portello che separava gli alloggi dall'hangar delle cimici. La stavano facendo sudare. Evidentemente qualcheduno un po' distratto aveva calpestato qualche schifezza presso una piazzola di manutenzione e l'aveva portata sotto le suole fin lì, lasciando ovunque impronte di ciabatte. Si voltò e trovò conferma: ancora poche macchie e avrebbe scoperto chi tra Clara e Samra aveva commesso il misfatto. Gliene avrebbe cantate quattro a tutt'e due se non avessero implorato in fretta il suo perdono.
- Scusa, posso... passare?
A quella voce timida si voltò di scatto, accigliata. Peter, quasi nudo come suo solito. Ci prova sempre, pensò. Che coglione.
- Che vuoi? - lo apostrofò con durezza.
- Dovrei andare in bagno... - sorrideva, e l'atteggiamento deferente non era una recita. Da quando gli aveva fatto assaggiare il manico della rotospazzola, la stessa che impugnava in quel momento, Peter non solo aveva smesso di toccarla e infastidirla a ogni occasione, ma aveva anche cambiato atteggiamento. Ora la temeva e la rispettava. Aveva creduto che quel rispetto fosse dovuto ai lividi sulla faccia e che sarebbe scomparso con essi, invece si stava rivelando duraturo. Forse addirittura permanente, come i tatuaggi che esibiva sulla sua pelle leggermente olivastra.
- L'ho appena pulito tutto – secca e dura, non gli cedette il passo.
- Ma Miki... prima o poi qualcuno dovrà pur usarlo, no?
- Dai, passa – si tolse di mezzo per farlo passare, sfruttando l'ingresso della propria cabina. Lo osservò di spalle mentre entrava nel bagno appena ripulito da cima a fondo con rotospazzola e olio di gomito. Peter era davvero un elemento destabilizzatore: uno spaccone presuntuoso e volgare, con sufficiente faccia di bronzo da pretendere ciò che veniva spontaneamente offerto e abbastanza stupido da non capire quand'è il momento di smettere. Non gli era andata giù che lei non si fosse mai messa nella branda con lui. Osservò la sua schiena tatuata, un muscoloso triangolo che convergeva verso il basso, verso due natiche sode e tonde. Però ha un bel culo, si disse. Puntò di nuovo la rotospazzola e riprese a pulire il pavimento da dove aveva interrotto, cercando di ignorare i fastidiosi rumori liquidi provenienti dal bagno.
Era giunta ormai all'ultimo tratto di corridoio quando una voce rauca e vecchia echeggiò sopra di lei.
- Miki, potresti andare alla centrale operativa per favore?
Mahmet, la IA che comandava la stazione.
- Non c'è niente da pulire lì – commentò asciutta. Non avrebbe immaginato che sarebbe arrivata a odiare la rotospazzola. Il turno di pulizia sembrava non finire mai.
- Ti aspetto, O.K.?
Era il tono di chi non ammetteva ulteriori repliche. Non sapendo dove appoggiare la rotospazzola, Miki la staccò dal pavimento e la portò con sé. Non le capitava spesso di entrare nel locale adibito a centrale operativa. Nelle tre settimane di permanenza su Niharra quella era la seconda o terza volta, mai per motivi di servizio. Era una stanza affollatissima di apparecchiature di ogni tipo: dalle console di interfaccia con i sistemi di bordo, che comprendevano tutto dal sostentamento vitale agli automatismi per la gestione delle cimici, fino al riservatissimo nucleo della IA, un armadio tecnico protetto e inaccessibile. Si era sempre chiesta chi facesse manutenzione a Mahmet e cosa avrebbero dovuto fare nel caso un guasto serio colpisse l'intelligenza artificiale che governava la stazione. Le console erano organizzate in banchi, ma erano stati aggiunti terminali a casaccio posando le unità di calcolo dove c'era spazio col risultato che la sala, non poi così grande, giaceva in un caos di cavi e componenti. Al punto che sarebbe stato problematico pulire per terra con la rotospazzola. Infatti il pavimento era sporco in modo impressionante.
- Avvicinati, per favore.
A quelle parole la console di comunicazione si accese. Miki fece come le era stato detto e cominciò a scrutare lo schermo: quello però offriva solo interminabili colonne di numeri, tra cui riconobbe solo data e ora. Era un registro.
- Da circa tre giorni riceviamo dei messaggi subspaziali da una nave che sta venendo qui. È a meno di due ore.
- E quindi? Sono i rifornimenti? Non abbiamo ancora completato la quota: se sono i clienti hanno fatto un viaggio per niente. Mancano ancora molti salti.
- Né i rifornimenti, né i clienti. Cercano te.
- Cercano me? Chi mi cerca? - esclamò puntandosi un dito contro il petto reso leggermente scivoloso dal sudore. Nonostante tutte le apparecchiature elettroniche stivate lì dentro avrebbero tratto beneficio da qualche grado in meno, il caldo era pari al resto della stazione.
- La nave si chiama Raja ed è intestata a un certo Pavel Zebrinsky...
Lo schermo della console di comunicazione mostrò uno schema generico della nave con le informazioni solitamente fornite dai transponder: numero di registro, intestatario, frequenze di chiamata e via dicendo. Non c'erano errori né dubbi.
- Occazzo – Miki sentì un peso improvviso sulle spalle e il suo cuore esultare leggero per la gioia. E adesso che faccio, si chiese.
- È un problema? - le parve di sentire una nota paterna nella voce di Mahmet. Ma l'atteggiamento umano emulato da una IA non era sufficiente a distrarla dai suoi pensieri cupi. Pensieri che credeva di essersi lasciata dietro, lontani. Precisamente a una distanza non inferiore a quattro virgola due unità astronomiche, pensò amaramente. Destino subdolo e carogna, ci prende gusto a dare ogni volta il mio indirizzo ai guai. Sentì montare dentro di sé la nota rabbia mescolata ad acido rancore, stemperata dai profondi sentimenti che si erano ridestati al solo udire quel nome: Pavel Zebrinsky. Spyro.
- Di che mi meraviglio? Gliel'avevo pure detto... - mormorò mesta, dandosi della stupida. Non aveva davvero voluto abbandonarlo, altrimenti sarebbe stata attenta a cancellare ogni traccia.
- Come, scusa? - di nuovo quel tono paterno, comprensivo. Si chiese se Mahmet fosse stato preparato anche per emulare un genitore, oltre che un avido datore di lavoro.
- Nulla, Mahmet. Parlavo a me stessa.
- Capisco – fu l'immediata risposta – Desideri che neghi il permesso di attraccare qualora dovesse farne richiesta?
E adesso che faccio? Lo accolgo a braccia aperte? È venuto a portarmi indietro, posso scommetterci l'ultimo paio di mutande pulite. E anche il reggiseno. Miki strinse i pugni e i denti, poi serrò le labbra piegandole in una smorfia. Stava lottando con se stessa, con i suoi sentimenti. No, non poteva respingerlo senza nemmeno sentire cos'aveva da dire. E se avesse tentato di portarla via, avrebbe dovuto vedersela con lei e con l'equipaggio della Niharra, se necessario. Sarebbe stato straziante, orribile e non l'avrebbe mai voluta vivere una situazione del genere ma se fosse accaduto ciò, era certa che non sarebbe stata colpa sua.
- No... no. Se dovesse richiederlo non ho obiezioni.
- Sento aria di famiglia... c'entra qualcosa quella nave col fatto che ogni tanto piangi quando pensi di essere sola? - gracchiò l'intelligenza artificiale con fare comprensivo.
- Non rompermi i coglioni, Mahmet. Fatti i cazzi tuoi.
Impugnando la rotospazzola con due mani come se fosse un'arma Miki abbandonò il locale della centrale operativa e continuò il suo turno di pulizia.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


GIOVE CONTRO
11.


Per prima cosa lo stupì il caldo. Il Raja era climatizzato intorno ai diciannove gradi Celsius per non mettere a disagio gli albini, abituati a temperature fresche; aveva visitato navi più calde, come il Coyote. Ma lì si esagerava. Abbandonato il corridoio di approdo la differenza gli era parsa sin troppo evidente per essere normale. Sapeva che lei gradiva il caldo, ma possibile che le avessero concesso di regolare il sistema di condizionamento?
Poi lo colpì il silenzio. Non si udiva nulla. Aveva sentito più volte scricchiolare lo scafo, probabilmente mentre le strutture di ormeggio finivano di assorbire il momento inerziale del Raja. Dopotutto quella stazione non era grandissima, anzi: se si confrontava la parte abitabile era più grande la sua nave.
Rimase solo con i suoi pensieri mentre le gambe lo portavano automaticamente lungo l'interminabile corridoio stretto e scarsamente illuminato. Era una parte poco frequentata della stazione: gli approdi per il carico dell'idrogeno erano infatti dall'altra parte, ovviamente vicini alla gigantesca raffineria automatica. Centinaia di tonnellate di idrogeno, elio e un pugno di idrocarburi, estratti dal sottostante Giove a rischio della vita di alcune decine di pazzi cui non stava a cuore la vita. Pazzi tra cui ora c'era anche lei.
Più di venti giorni erano trascorsi da quando avevano litigato in palestra. Venti giorni nei quali aveva cercato di ignorare i propri sentimenti. Si era sentito ferito, colpito. Umiliato, anche. Non era riuscito a ottenere la sua fiducia, nonostante le apparenze. Si era infuriato al pensiero che lei avesse finto, simulando l'interesse per lui. Aveva pianto pensando che lei avesse volutamente gettato via tutto quello che di buono sembrava ci fosse. Non era convinto che potesse essere così. Non lo era nemmeno in quel momento, non lo era stato mai. Poi era crollato.
Il Comandante si era detto d'accordo. Appena concluso l'ultimo contratto il Raja sarebbe stato a sua disposizione per un paio di settimane. C'erano volute due giornate scarse per preparare la nave e tre giorni di viaggio strizzando un po' i motori. Ma Korti non si era lamentata: le aveva dato una mano lui in sala macchine. Tutto quello che sapeva di motori e sistemi energetici lo aveva imparato da Korti, non poteva certo negarle un piccolo aiuto. Era stato abbastanza fortunato: col telescopio di bordo aveva frugato dalla distanza tutte le stazioni in orbita intorno a Giove fino a individuare la sagoma del Coyote, ormeggiato tranquillamente. Agendo come un sonnambulo aveva atteso con una calma che era parsa innaturale perfino a se stesso. Si era abituato a quel peso nel petto, a quella morsa calda che gli stringeva il cuore. Aveva paura. Paura di lei.
Giunto finalmente al portello in fondo al corridoio notò con distacco che la serratura si accese di verde solo un paio di passi prima che lui raggiungesse il pannello di controllo. Con la medesima indifferenza osservò il pesante portello stagno affondare profondamente e poi rotolare di fianco, lasciandogli libero il passaggio.
Davanti a lui si apriva un nuovo, lungo corridoio solo un po' meno claustrofobico del precedente. Più luminoso, con diversi varchi sia a destra che a sinistra e col soffitto più alto. Varcò la soglia e sentì il portello chiudersi alle sue spalle con metallico raschiare.
- Benvenuto a bordo! Prego, proceda sempre dritto fino al prossimo portello.
La riconobbe: era la voce del vecchio, l'amministratore della stazione. Fece come gli era stato detto. Gettò sguardi a destra e a sinistra scoprendo locali di servizio, una sala comune, addirittura un osservatorio. Così c'era scritto su ben due portelli alla sua sinistra, chiusi. Il silenzio regnava sovrano tanto da rendere perfettamente udibili i rumori degli impianti del supporto vitale, in particolare i ventilatori.
Raggiunse un altro portello stagno uguale a tutti i precedenti. Quella stazione, Niharra, era stata progettata secondo un ovvio criterio modulare. Tutto era spartano, essenziale, ridotto al minimo. Ed estremamente robusto: doveva sottostare alla forza gravitazionale di Giove, il secondo gigante del sistema solare. Perché andare a cacciarsi in un posto del genere, si chiese sentendo montare dentro di sé un'onda di rabbia. Perché, dopo tutti i discorsi sulla libertà, sulla voglia di navigare, di essere autonoma. Libera. Ma libera da cosa? Non lo capiva e, si rese conto, probabilmente non l'avrebbe mai capito.
Ma con quale animo si stava predisponendo a quell'incontro? Cercò di calmarsi: esitava a premere il pulsante di apertura, illuminato da una sporca luce verde a indicare che la serratura era sbloccata e che attendeva solo lui. Cosa le avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto se l'avesse respinto ancora? Tutti i discorsi che si era preparato, le parole che aveva scelto durante la lunga attesa giacevano bloccati dietro un muro di emozione. Sono emotivo, emotivo come uno scolaretto alle prese con la prima cotta per la compagna di banco, si rimproverò. Strinse i pugni, inspirò profondamente l'aria un po' viziata di quel posto e drizzò la schiena. Il prossimo corridoio l'avrebbe attraversato così: a testa alta, convinto. Sicuro di sé. Anche se dentro non si sentiva sicuro di nulla. Il portello rotolò via tra rumori metallici e di motori idraulici, ma lui non riuscì a oltrepassare la soglia. Era davanti a lui, china sulla rotospazzola che strofinava il pavimento consumato ma già pulito: ci mise un secondo di troppo a riconoscerla, anche dopo che si fu drizzata in tutta la sua altezza per fronteggiarlo.
- Ciao.
Lo guardò priva di un'espressione definibile. Fu come una coltellata al petto per lui. La ricambiò con un lungo sguardo turbato, emozionato. Era... diversa. Non solo perché se ne stava lì come se niente fosse, in un variopinto costume da bagno mai visto prima un po' piccolo per lei, e lo guardava distaccata senza salutarlo. Aveva qualcosa di diverso: era cambiata. Era più... dura.
- Ciao... – finalmente gli rispose, ma atona – come va?
Assurdo, una conversazione fra estranei. Sentiva l'inguine formicolargli alla vista della sua pelle nuda, chiara, e delle sue rotondità dondolanti mal trattenute dal sottile tessuto colorato. Sentì di dover abbattere quel muro prima che fosse completo, prima che diventasse indistruttibile.
- Sono stati i venti giorni più di merda di tutta la mia vita, credo.
- Ah, mi spiace.
Un tatuaggio sulla spalla sinistra. Il contorno di una stellina a cinque punte, dentro c'era iscritto qualcosa. Era troppo lontano per vedere cosa e il tatuaggio era piccolo. Un altro cambiamento: non era mai andata oltre gli orecchini coi quali si era perforata più volte le orecchie, fin sulla cartilagine. Stava diventando un'estranea. E quella freddezza poi! Si tratteneva a stento dall'abbracciarla. Aveva lo stomaco stretto in una morsa e faceva fatica a deglutire. Tutto per colpa di una che lo stava piantando in asso. Che l'ha già fatto, si disse. Tanto vale essere brutali.
- Tutto qui? Ti dispiace? - mantenne la calma, controllando la voce per non far uscire il dolore che aveva dentro. Non voleva regalarle tante altre soddisfazioni e si scoprì quasi pentito d'aver fatto tutta quella strada fino a lei. Tutto per nulla.
- Se ti aspettavi di vedermi correrti incontro a braccia aperte, piangendo di gioia magari, beh... hai sbagliato. Non oggi.
Non poteva credere che quelle parole fossero per lui. Si sentì pizzicare gli abiti addosso per il calore che gli stava nascendo dentro il corpo. Un'onda di rabbia calda, caldissima.
- Sono io che apro le braccia... – lo fece. Ma sbatté le mani contro le pareti dello stretto corridoio e il gesto non fu plateale come avrebbe voluto. Forse fu per quell'istante di distrazione che non finì la frase, che perse il filo di ciò che stava per dire. Ebbe il tempo di ricevere da chissà dove quell'illuminazione. Quando se ne rese conto fu grato a Niharra, la stazione spaziale dagli angusti corridoi: gli impedì di perdere Miki per sempre.
- ...se mi vuoi ancora - improvvisò.
- Non torno indietro – disse secca lei, tradendo nervosismo: le sue mani torcevano il manico della rotospazzola.
- Non te lo chiedo.
- Ho la mia vita, la mia nave... i miei amici.
- Puoi avere anche me.
- ...ci devo pensare – fu l'incerta risposta. La osservò bene: non riusciva più a tenere gli occhi dentro i suoi, le guizzava un muscolo della mascella, spostava il peso ora su un piede, ora sull'altro. Era tesa. Era bellissima. Lui si sentì afflosciare, demotivato. Non capiva. Ci doveva pensare? Ci doveva pensare! Si trattenne dal rovesciarle addosso la sua rabbia, abbandonò le braccia lungo i fianchi, pensando di arrendersi. Accennò un dietro-front. Poi cambiò idea.
- Pensare? A cosa devi pensare? - scattò, non trattenendosi più – Devi solo farti una domanda e risponderti. Non è difficile, forza! Quante volte mi hai detto di essere una coi coglioni? Beh, ecco il momento di tirarli fuori!
Nessuna reazione evidente, a parte un lieve tremore del labbro inferiore subito risucchiato tra i denti per mantenerlo fermo. Era una sconfitta. Ampiamente preventivata, ma non per questo era meno dolorosa, meno straziante. Cercò qualche parola per ferirla, per far provare anche a lei il dolore che gli stava lacerando il cuore. Ma non ci riuscì.
- Non pensarci troppo – le sibilò contro, sentendosi ferito a morte. Poi si voltò bruscamente e, azionato il portello, si incamminò a grandi passi lungo il corridoio che l'avrebbe riportato alla nave.
- Ma dove cazzo credi di andare?
Ci mise tre passi per fermarsi. Tre incerti, dolorosi passi. Si voltò in tempo per vederla piantare la rotospazzola magnetica come se fosse una lancia da infilzare nel terreno.
- Vieni qui, scemo.
Aveva vinto lei. Anche stavolta. Ma era quello che sperava. Era ciò che l'aveva spinto fino a Giove.
Tornò verso di lei, prima camminando e poi di corsa. La travolse abbracciandola stretta, intenzionato a toglierle il respiro. La sentì gemere e abbarbicarsi a lui, strettamente come lei sapeva fare per regalargli piacere. Inspirò a fondo l'odore della sua pelle, acre e soave, l'aroma dei suoi capelli ricci e ribelli, raccolti sommariamente per lasciare scoperto il collo, e lasciò che una lacrima gli rotolasse sul viso. L'avrebbe stritolata dalla gioia.
- Hey, Miki... complimenti!
Al suono di quella voce sbatté le palpebre per liberarle dalle lacrime e inquadrò rapidamente chi aveva parlato. Dai varchi nelle pareti del corridoio stavano uscendo delle persone: evidentemente c'erano delle stanze, lì. Lo sguardo si fissò sulla prima apparsa: la pelle più nera che lui avesse mai visto poco nascosta sotto un top elastico blu che copriva lo scarno seno e sotto un paio di ampi calzoni cachi, corti al ginocchio e senza cintura. Si avvicinava sorridendo con una camminata felina ma naturale, spontanea. Non poté fare a meno di notare i muscoli evidenti, allenati e asciutti. Tutto il fisico di quella donna era asciutto ed essenziale, fatto salvo l'orecchio sinistro il cui lobo era deformato da un anello di metallo tanto grande da poterci infilare un dito.
Dietro di questa veniva una piccoletta dalla pelle rosea e dallo sguardo chiaro e dolce sotto una zazzera bionda. Ma non era tanto meno muscolosa della donna nera. Anzi: a ben guardare era decisamente nerboruta e, in proporzione all'altezza, anche più massiccia. Sapeva che i j-diver erano gente strana, ma non li avrebbe mai immaginati né salutisti, né fanatici della palestra. Ma i suoi pensieri furono deviati dalle mani di Miki che premettero sul suo petto per separarsi da lui.
- Non credere di aver vinto – gli sussurrò lei. Gli occhi erano lucidi ma le guance asciutte.
- Mi hai sconfitto il primo giorno che sei salita a bordo del Raja – le soffiò in un orecchio. Ormai le due donne erano vicine e non voleva essere spiato oltre. Era chiaro che entrambe avevano assistito al loro infuocato scambio di battute stando nascoste nelle camere.
- Proprio un bel maschione, Miki... se l'avessi lasciato andare tu l'avrei rincorso io, stanne certa. Te lo porto giù io se vuole saltare, d'accordo?
Non era giovane come sembrava. Certo era più anziana di Miki e dell'altra ragazza tarchiata che se ne stava un po' in disparte, sorridendo dolcemente.
- Hey, hey! Piano, non corriamo qui, eh! Tu – Miki gli puntò minacciosa un dito contro il petto – se ti becco anche solo a fare gli occhi dolci a qualcuna che non sono io qui dentro... ti butto di fuori, chiaro? E voi state lontane! Passate parola!
L'ultimo geloso avvertimento, che conoscendo Miki era scherzoso solo nel tono, era rivolto alle altre due donne che protestarono ridendo. A sentir loro non era giusto che Miki si tenesse un uomo tutto per sé. In che razza di posto sono finito, si chiese. Ma lei tornò tra le sue braccia, calda e soda.
- Abbiamo un sacco di cose da dirci, noi due.
- Fammi mandare via il Raja: è inutile che stia qui.
- E vai a prenderti qualcosa di comodo... questa temperatura è normale, da queste parti – lo avvisò lei.
Tornò sui suoi passi, diretto al freddo corridoio di approdo. Sentì Miki rivolgersi a Mahmet, l'amministratore della stazione, per chiedergli se aveva qualcosa da obiettare. Si stupì della nota di arroganza nella voce della giovane, come se desse per scontato che ci fosse posto anche per lui. Evidentemente l'economia della stazione poteva permettersi un membro di equipaggio in più poiché il portello alle sue spalle si chiuse troncando una frase che sembrava affermativa.
Era felice. Si sentiva emozionato, leggero, contento. Stava per dire addio ai suoi vecchi compagni, ma pareva impossibile evitare una punta di amaro nella vita. Si sorprese a pensare a Rhina, la sua bellissima ex moglie. L'aveva persa: un viaggio dopo l'altro, piano piano, lentamente. Lui nello spazio a bordo di navi da trasporto, lei su Apollo a fare la donna in carriera. Con un viaggio dopo l'altro aveva trovato Miki, ciò che di più bello avesse mai avuto. Più di Rhina, ammise.
Perché, non se lo seppe spiegare.

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