Cuore di Ferro

di SparkingJester
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Ospite Sgradito ***
Capitolo 2: *** Il Santo Campione ***
Capitolo 3: *** Il Criminale ***
Capitolo 4: *** La Svolta ***
Capitolo 5: *** Il Fuoco Dentro ***



Capitolo 1
*** L'Ospite Sgradito ***


I dadi caddero sulla cassetta di legno. Un risultato sfavorevole e la guardia grugnì:
<< Dannazione, possibile che la Dea Bendata mi odi cosi tanto? Lasciamo perdere. Ritornando al discorso di prima, ragazzi. Che ne pensate della decisione del re? >>
I tre commilitoni smisero per un secondo di giocare, bere e grattarsi. Si guardarono di sottecchi e qualcuno sbuffò, annoiato e preoccupato.
<< Lo sai che non possiamo opporci oltre. Hai visto che fine hanno fatto gli altri, no? >>
Le quattro guardie erano sedute l’una di fronte all’altra, al di fuori del piccolo casolare che fungeva da guarnigione e dogana al fiume Omaon.
<< Insomma – replicò un’altra – la guerra non è mai giusta, ma io ho soltanto questo lavoro e se mi oppongo ci lascio anche le penne! >>
Tra imprecazioni e lamentele, i quattro caddero in uno sconfortante silenzio, immersi nel pensiero di cosa stava accadendo nel loro piccolo ma ambizioso regno. Solo lo scorrere delle acque alle loro spalle spezzava quell’atmosfera imbarazzante.
<< Siamo fortunati a dover restare qui. Solo pellegrini, mercanti e i nostri colleghi di ricognizione. Niente battaglie per noi, niente esecuzioni. Mi dispiacerebbe giustiziare un mio collega. >>
D’un tratto qualcosa destò i loro torbidi pensieri: uno dei quattro cavalli legati alla staccionata iniziò a nitrire senza controllo.
<< Buono, Sam! Che ti prende? >>
Il legittimo proprietario si alzò e iniziò a carezzare affettuosamente la bestia sul muso, cercando di calmarla. Il baio sembrava spaventato e continuava a fissare un punto fisso nel bosco di fronte a sé. A breve sarebbe calata la notte e le ombre appena accennate impedivano ugualmente di vedere chi vi fosse all’interno della pineta.

Passi felpati e falcata rapida. Il viandante procedeva sicuro attraverso il bosco, non curante degli eventuali rami, sassi o fanghi in cui i suoi nudi piedi affondavano. Il bianco corpo, scarno e avvolto in neri stracci, sembrava pronto a contrarsi e ad agire da un momento all’altro. La testa rasata scrutava continuamente tra gli alberi di fronte a sé e finalmente intravide qualcosa: un posto di guardia. Le mani strinsero con forza la lancia di ferro che portava con sé. Si lanciò in uno scatto bestiale.

Quando la guardia, vicina al suo cavallo, si accorse di ciò che stava accadendo, fu troppo tardi:
<< Maro, attento! >>
Le due guardie con le spalle al fiume alzarono lo sguardo e sgranarono gli occhi. La guardia che dava spalle al bosco, invece, fu spacciata.
Un viandante, lo spettro di un guerriero forse, stava a mezz’aria: freddi occhi azzurri e muscoli tesi, con le braccia portate fin dietro le spalle nel caricare il colpo con la sua lancia. Sangue e denti volarono in terra quando l’estremità della lancia si abbatté sul cranio dell’ignara guardia. Se solo la lama fosse stata integra, al posto di sangue e denti, sarebbe stata una testa a volare. Girando su se stesso, il viandante piantò con forza l’estremità spezzata alla gola della seconda guardia, ancora seduta per lo shock subito. Questa cadde a terra con la mano stretta al collo; il terzo compagno sfoderò la spada ma fu troppo lento e la lancia ferrata frantumò l’omero e, con una seconda giravolta, anche il femore. L’unica guardia ancora in piedi era pietrificata dalla paura, ancora al fianco del suo cavallo. L’oscuro viandante si avvicinò, deciso. Fissò la guardia con occhi freddi e le puntò il bastone alla gola. La guardia, terrorizzata, alzò le mani e si allontanò dall’animale. Il viandante salì in groppa al cavallo e, spronandolo a nudi talloni, cavalcò oltre il ponte di legno che attraversava il fiume, scomparendo sul sentiero all’orizzonte.

Un messaggero piumato si appollaiò sul posatoio del bastione. Un servo dall’aria annoiata srotolò il messaggio dalla zampa e, finito di leggere, fuggì in direzione del suo padrone.
Il servo spalancò la porta quasi prendendola a calci e, incurante dello sguardo omicida del suo sovrano, arrivò ai suoi piedi e vi si inginocchiò, senza fiato, porgendo il messaggio appena recapitatogli.
Rac afferrò il biglietto, lo lesse e sbiancò. Si alzò dal suo trono e sbraitò alla servitù:
<< Come diavolo è possibile. Questa è la diciassettesima volta in una settimana! Chi è costui!? >>
<< Non lo sappiamo, mio signore. Nessuno l’ha riconosciuto.  >>
Il signore del castello era in preda all’esasperazione:
<< Non posso invadere i regni alleati se un dannato viaggiatore sconfigge tutte i miei soldati! Con cosa combatterò? Con le capre!? >>
<< Signore, il problema non è che sta abbattendo tutti i suoi soldati, ma che, a giudicare dai presidi di guardia che sono stati attaccati, ci si aspetta che sia il vostro castello la sua destinazione ultima. >>
Il sovrano rimase allibito:
<< Non ne posso più! E’ cominciato tutto da quando ho dato l’ordine di uccidere tutti i disertori. Che sia uno di loro in cerca di vendetta? >>
<< Non possiamo saperlo con certezza, mio signore. >>
Rac stracciò il foglietto di carta, lo gettò in terra, afferrò lo scettro d’oro e lo batté a terra con forza. Lo batté ancora e ancora una volta. Al terzo rintocco, una possente armatura bianca fece irruzione nel salone. La sua mole superava di gran lunga quelle delle altre guardie, lo sferragliare della sua corazza in movimento generava inquietudine e, quando fu vicino, si inginocchiò e si levò l’elmo: un volto degno di un dio si mostrò al suo signore Rac. Capelli lunghi e biondi, occhi verdi, mascella poderosa e mento prominente. Le schiave e le dame presenti arrossirono di fronte al suo sguardo giovane e fiero.
<< Zuria, mio fiero condottiero. Mi rammarica doverti disturbare per così poco, ma c’è una questione che devi assolutamente risolvere. >>
Il bianco cavaliere, senza proferire parola, fischiò. Al richiamo rispose un gracchiare stridulo: una grossa cornacchia, bianca anch’essa e più grande di un gufo, entrò da una delle finestre aperte e si appollaiò sulla spalla ferrata del possente guerriero.
<< Si. Cra! Signore! >>
La voce fastidiosa uscì dal becco del pennuto, mentre il muto colosso sogghignava, bramoso del sangue di un guerriero forse alla sua altezza.

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Capitolo 2
*** Il Santo Campione ***


Il minaccioso viandante cavalcava a briglie sciolte sul polveroso sentiero di campagna, sfrecciando ad altissima velocità tra insediamenti, campagne e piccoli boschetti. La cavalcata durava ormai da quasi un giorno, il cavallo schiumava e sembrava stesse per morire da un momento all’altro. Ma il destino fu benevolo e lo prese con se prima del previsto. Il viandante udì un sibilo e, istintivamente, si chinò. Un dardo penetrò il petto dell’animale, uno si incastrò nella sua orbita e il terzo mancò di poco lo scalpo del viaggiatore. Quest’ultimo saltò giù da cavallo, portando con sé la lancia. La bestia cadde rovinosamente a terra, priva di vita. Senza badare alla misera fine del suo cavallo, il viandante proseguì sul sentiero con passo svelto e deciso.
Dalla foresta, ai lati della strada, tre balestrieri in cotta di maglia si pararono di fronte a lui con le balestre spianate e pronte a sparare. Aspettavano solo l’ordine del loro gracchiante condottiero: Zuria, il colosso bianco, venne fuori dalla boscaglia in groppa ad un massiccio bue, bardato e corazzato anch’esso.
Lo strano cavaliere, in groppa ad un bue e con una grossa cornacchia bianca sulla spalla, avanzò solenne verso il viandante, il quale però non aveva neanche rallentato il passo.
Zuria riconobbe subito l’oscuro personaggio. Prese dalla cintola un piccolo foglio di pergamena, ci scrisse sopra qualcosa e lo legò alla zampa della sua bianca creatura alata.
<< Non pensavo. Cra! Fossi tu. Cra! >>
La cornacchia parlò, agitando le ali, ma il viandante non si fermò:
<< Dovresti. Cra! Arrenderti. Cra! Contro di me. Cra! Non puoi vincere! Cra! >>
Il cavaliere alzò la mano e i balestrieri, irrequieti, si preparano a scoccare i loro dardi.
Il viaggiatore era vicino, troppo vicino. La mano si abbassò, i dardi partirono e il viandante si accovacciò. Le frecce passarono sopra la sua testa e, da quella posizione, il guerriero armato di lancia scattò con  forza verso il primo balestriere. La lunga arma in ferro si abbatté con forza sulla testa del soldato. Gli altri due, intenti a caricare le loro armi, vennero colpiti rispettivamente allo stomaco e al collo. Il bianco cavaliere rimase a bocca aperta di fronte a tanta velocità e forza. Alzò nuovamente la mano e fece riversare in strada una decina di soldati a cavallo. Il viandante non batté ciglio: impugnò la lancia con una mano e, prendendola da un’estremità, conficcò l’altra in pancia ad uno dei cavalieri che lo avevano caricato, disarcionandolo. La battaglia fu spaventosa. L’asta metallica cozzò contro le corazze, frantumò costole, spezzo gambe ai cavalli e disarcionò la maggior parte dei cavalieri. Nessuno poteva aspettarsi che una lancia priva di lama potesse risultare così efficace. Il fisico del viandante non sembrava quello di un guerriero: era pelle e ossa e muscoli. Si potevano intravedere tutte le costole e molte vene. Sembrava uno schiavo denutrito ma i muscoli, sodi e voluminosi, sfiguravano su quello strano fisico, rivelando la vera natura del viandante. Un guerriero, forse un mercenario o un soldato, ben addestrato e con dei riflessi da far impallidire qualunque altra creatura della foresta. Il modo in cui maneggiava la sua arma ipnotizzava e distraeva molti soldati, i quali restavano incantati nel veder roteare l’arma da una mano all’altra prima di abbattersi su di loro. Lunga, media o corta distanza non faceva differenza  dove il nemico fosse, la lancia spezzata si abbatté su tutti e con egual potenza.
Zuria rimase fermo ad osservare quello spettro vestito di stracci neri mentre massacrava i suoi uomini finché tutti i suoi soldati non furono al tappeto, con le ossa rotte e incapaci di muoversi. La cornacchia parlò ancora:
<< Sei forte. Cra! Ma ora te la vedrai. Cra! Con me! Cra! >>
Detto questo, la bestiaccia bianca si levò in volo e si posò su un ramo poco distante. Il bue sbuffava per il peso del cavaliere, il quale liberò la bestia dal suo pesante fardello semplicemente scendendo a terra. Zuria,  campione, cavaliere e santo protettore del reame, estrasse un enorme scudo da dietro la schiena e una mazza ferrata altrettanto mostruosa dalla cintola. Il viandante non si fece intimorire né dalla stazza, né dall’armatura scintillante e spessa, né dalle armi del suo avversario. Semplicemente proseguì diritto, facendo svolazzare la sua tunica lercia alle sue spalle. Fece per passare accanto al cavaliere, per proseguire oltre, ma la cornacchia gracchiò e il cavaliere agì:
<< Dove. Cra! Pensi. Cra! Di andare? Cra! >>
Il bianco volatile improvvisò una sonora risata. Lo scudo fece per abbattersi sulla schiena del viandante, il quale stava un passo oltre le spalle del cavaliere. L’esile guerriero si chinò, poggiò le mani a terra e sfiorò la polvere con la pancia. Appena lo scudo oltrepassò la testa della sua vittima, il viandante si rialzò rapido conficcando la lancia spezzata tra le costole del santo cavaliere. Il colpo fu inferto con una precisione ed una forza tali da entrare in una giuntura della corazza, forare la cotta di maglia e incastrarsi nella carne. Il giovane viso del campione si trasformò in una smorfia di dolore, un rivolo di sangue macchiò le sue labbra scendendo fino al mento. Il viandante estrasse la lancia, girò su se stesso all’interno della guardia avversaria e colpì dal basso verso l’alto la schiena del cavaliere, poco sopra il bacino. Il colpo fu così forte che mise in ginocchio il campione, ormai incapacitato a muoversi.
Il viandante proseguì il suo cammino a piedi, il bue corazzato brucava l’erba del bosco, la cornacchia bianca volò verso il castello e il santo campione, con un buco sul fianco e la colonna vertebrale spezzata, finì col mangiare la polvere.

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Capitolo 3
*** Il Criminale ***


La bianca cornacchia si posò sul bracciolo del trono. Lo sguardo di Rac si rabbuiò nel sapere che il suo fedele ed imbattibile campione era caduto in battaglia. Vene pulsanti fecero capolino dalle tempie e i pugni si serrarono quasi a ferire la pelle sottostante. Con rabbia, strappo il foglio dalla zampa dell’animale, il quale volò via per non fare più ritorno, lo srotolò e lesse:
<< Garria. >>
Il sovrano analizzò il nome, lesse e rilesse attentamente, fece mente locale di tutti i suoi condottieri più fidati, di tutti i suoi parenti, i suoi nemici, i suoi amici e i suoi fornitori. Quel nome gli era sconosciuto.
Sconfitto nell’onore, ordinò:
<< Prendete immediatamente tutti i registri e tutti i libri paga e trovate questo maledetto nome! >>
Dopo un via vai di servi e soldati, Rac poggiò il fronte sulla stanca mano e, con rammarico, ordinò ancora:
<< Liberate quell’ animale. >>
I soldati sbiancarono. Il braccio destro di Rac, un vecchio veterano di guerra, provò a dissuadere il suo padrone:
<< Signore, è proprio sicuro? Nessun altro aveva mai generato tanto caos nelle terre da qui a Vangord. Non possiamo fidarci. >>
Il signore tuonò:
<< Decido io cosa è meglio per me! Quel pazzo mi darà ascolto. Se lo farà, sarà lautamente ricompensato. Ora, vai a prenderlo e portalo qua! >>
Il veterano si chinò, spaventato, e corse via.
Appena dietro la cittadella che conteneva il castello del poco prospero regno di Almadia, in cima ad una collinetta adiacente, vi erano le prigioni: un sistema minerario intricato ed abbandonato da anni, riutilizzato come prigione. Dai criminali più efferati ai semplici contadini che non pagavano le tasse, tutti venivano rinchiusi nelle anguste celle della prigione che altro non erano che nicchie scavate nella nuda roccia. Non c’era pericolo di affollamento: in molto perivano sotto le pericolose esalazioni di zolfo provenienti dall’interno della grotta artificiale, altri, affollati nelle strette celle, finivano con l’uccidere i proprio compagni per stare più comodi.
Non più di qualche minuto a cavallo e il veterano fu sul posto. Scese nelle profondità della terra, insultando prigionieri, salutando le guardie di servizio e seguendo la fila di fiaccole che tenuamente illuminavano lo stretto budello che conduceva alla cella d’isolamento. Non vi erano altre celle nel raggio di trenta metri, oltre la sua. Quando si portò di fronte a lui, il veterano ebbe un fremito e i brividi risalirono lungo la schiena: un uomo, seduto con la schiena alla parete e con il volto coperto da bende, lo fissava con aria assente.
<< Beltza. >>
Risuonò la voce del veterano:
<< Puoi sentirmi, Beltza? >>
Le bende si mossero:
<< Kaol. Sbaglio o quella cicatrice sul volto te l’ho fatta io? >>
Kaol rabbrividì ancora. L’offesa non turbò il suo animo ma la paura era fin troppa:
<< Tiratelo fuori. >>
Si rivolse alle cinque guardie che lo avevano scortato fin lì. Aprirono la cella, entrarono e lo tirarono su con la forza. Il prigioniero era ammanettato, con le braccia dietro la schiena e i piedi chiusi in una morsa di legno.
<< Il tuo signore Rac vuole parlarti. Dice che se lo aiuterai, verrai ricompensato. >>
Lo strano individuo si fece trasportare senza opporre resistenza e senza aprire bocca. Attraversarono i corridoi lentamente, poiché egli non poteva correre a causa dei ceppi ai piedi. Gli altri prigionieri, alla sola vista, muovevano le mani nel segno della croce, altri ancora si nascondevano spaventati in qualche angolo buio delle loro celle e altri cantavano litanie sacre, normalmente usate per scacciare i demoni.
Il prigioniero tanto temuto infine venne legato sul dorso di un cavallo e trasportato con urgenza dal suo re.
In catene e scortato da un drappello ben armato di soldati, fu condotto finalmente ai piedi di Rac e costretto ad inginocchiarsi. Il signore del castello gli rivolse la parola:
<< Beltza, incubo di Vangord, spettro di Galadel, diavolo di Mondok, mietitore di Hifid, ti verrà concessa la totale libertà e tutti i tuoi peccati e i tuoi crimini verranno perdonati e dimenticati. Sarai nuovamente un uomo libero. >>
A quelle parole furono in molti a tremare. Un pericolo mortale come Beltza, libero di vagare per quelle terre, era più spaventoso che ospitare il diavolo in persona in casa propria.
Ma il prigioniero non era certamente uno sprovveduto e replicò:
 << Se? >>
Il sovrano non si sorprese della sua arguzia:
<< Se ucciderai un uomo per me. E’ la cosa che ti riesce meglio, no? >>
<< Dieci uomini, un carro con cavallo e tre reti. Al resto penso io. >>
Il signore parve compiaciuto. Beltza aggiunse:
<< E rivoglio indietro le mie cose. >>
Rac annuì e ordinò che gli fossero tolte le manette e il ceppo ai piedi. Beltza poi afferrò quasi con rabbia le bende che coprivano il suo volto e le tolse con uno strattone: un viso deturpato fece capolino dalla candida stoffa. Una cavità vuota al posto del naso, l’orecchio destro reciso per metà, una lunga cicatrice che calava da fronte a mento e una dentatura deforme facevano di lui il mostro che tutti odiavano. Sfortunatamente non era temuto solo per il suo sgradevole aspetto ma anche per la sua bieca crudeltà e ne diede prova quasi immediatamente: arrotolò e strinse con forza le bende tra i suoi pugni, si portò alle spalle dell’ignaro Kaol con velocità fulminea e con forza bovina cinse il suo collo, sollevandolo da terra. Il signore del feudo non osò fermalo e i soldati non ebbero il coraggio di difendere il loro povero compagno. Kaol boccheggiò finché poté, ma l’aria venne meno e il corpo nerboruto cadde a terra con un tonfo sordo. Rac non poté trattenere oltre la sua curiosità:
<< Perché? >>
La risposta fu secca e sibilante:
<< Conti in sospeso. >>

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Capitolo 4
*** La Svolta ***


Garria continuava imperterrito la sua marcia verso Nord. Mai una deviazione, mai una pausa regolare. Quando i sentieri svoltavano, lui proseguiva dritto. Pioggia, calura, fame e sete non potevano nulla contro il suo freddo spirito. Ma fu questa peculiarità a procurargli non pochi problemi: immerso in una pineta, priva di un sentiero sterrato, il viandante si ritrovò di fronte ad una piccola cascata. L’acqua sgorgava da una fessura nella roccia e cadeva nella terra sottostante formando un laghetto melmoso. Sulla cima del piccolo crinale stava un uomo: corazza di cuoio, cappuccio calato sulla testa e mantello alle sue spalle; stava in piedi, con le gambe all’altezza delle spalle e le braccia conserte. Gli sguardi dei due si incrociarono per un attimo:
<< Garria, presumo. >>
La voce rauca dell’uomo risuonò nella foresta. Il viandante non rispose.
<< Sono un gentiluomo io, non un rozzo mercenario. Mi presento: il mio nome è Beltza e sono stato mandato qui per ucciderti. >>
Continuò Beltza. Ma Garria non rispose e proseguì in direzione della cascata. Parallelamente alla barriera di terra e roccia vi era un piccolo sentiero nascosto, probabilmente usato da cacciatori e fuggiaschi, e il viandante era più che intenzionato a percorrerlo senza badare al misterioso uomo.
<< Andate. >>
Senza battere ciglio, il criminale gli sguinzagliò contro dieci mercenari armati di spade e asce. Aveva chiesto al re dieci uomini, ma non dei suoi soldati, bensì dei suoi ex compagni di scorribande, sicuramente più feroci e disinibiti.
Garria proseguì diritto senza badare alle urla di battaglia che investirono le sue orecchie ma appena uno dei mercenari fu vicino, il corpo esile e avvolto nel nero scattò e la lancia di ferro iniziò a mietere altre vittime. Sembrava che il numero non facesse la differenza contro uno come Garria. Il ferro si schiantò contro stomaci, sterni, costole e femori. Gli unici suoni erano quelli delle ossa che si spezzavano sotto i colpi della lancia e le urla dei feriti, ormai a terra a bestemmiare ai loro dei.
Beltza rimase immobile sulla cascata: i suoi occhi guizzavano con velocità ed attenzione su ogni movimento del viandante, su ogni attacco e contrattacco, sulla posizione dei piedi, delle mani, sugli occhi stessi di Garria.
Quando quest’ultimo ebbe finito di massacrare i suoi avversari urlanti, si voltò, fissò negli occhi Beltza e rimase in attesa. Lo sguardo fu ricambiato e, con le braccia ancora conserte, il nero criminale fece spallucce. Garria si voltò ancora e proseguì per il sentiero.
Beltza continuò ad osservare i suoi movimenti, il ritmo dei passi, il respiro. Cominciò a seguirlo lungo la dorsale parallela alla strada, senza staccare lo sguardo dalla sua preda. Garria sapeva di essere seguito ma non fece caso a lui e continuò. Beltza iniziò a scalare un albero con guanti chiodati, si appollaiò su un ramo e da lì iniziò a seguirlo dall’alto, saltando di albero in albero con agilità felina. Il silenzio fu finalmente spezzato:
<< Dunque, dunque. Hai i capelli rasati, ma l’attaccatura non dà segni di calvizie e la forma del tuo capello tende all’indietro. Li hai tagliati tu. Li avevi lunghi e non volevi che ti intralciassero nel tuo viaggio e nelle tue strabilianti evoluzioni con il bastone. >>
La voce di Beltza risuonò solitaria nella foresta. La vista acuta e la mente sveglia gli permettevano di tracciare interi profili psicologici delle vittime che poi derubava, uccideva o rapiva con maestria tale che ci vollero più di cinque anni di indagini e circa ventisette cavalieri pesantemente equipaggiati per catturarlo e confinarlo. Ma Garria non diede segni di vita:
<< Sei magro, troppo magro. Hai delle lievi occhiaie, dovute alla stanchezza credo. E cammini, senza correre. I tuoi muscoli sono forti e hanno comunque le energie per far fronte ad un combattimento come quello di prima. Ciò vuol dire che riposi e mangi soltanto quando il tuo fisico non sopporta più la stanchezza e sei costretto a crollare a terra esausto. Cammini per poter risparmiare più energie possibili per un possibile scontro. Furbo! >>
L’analisi continuava e Garria non rispondeva, impassibile, freddo. Beltza continuò indisturbato:
<< La tua velocità e i tuoi riflessi dimostrano la tua età. Non avrai più di venticinque o ventotto primavere. Sei giovane, ecco a cosa devi la tua tenacia. >>
L’orribile sguardo del cacciatore scrutava ogni aspetto del giovane viandante mentre quest’ultimo non sentiva su di sé alcun peso. La fredda tranquillità con cui manteneva il passo sorprese anche Beltza, il quale però aveva programmato tutto: Garria fu costretto ad oltrepassare un sasso. Il piede affondò subito dopo in una pozza d’acqua e fango, rimanendo impigliato in una rete lurida e robusta. Garria, senza emettere neanche un gemito, si ritrovò a penzolare su una piccola fossa intrappolato in una rete alla mercé del criminale sfigurato. Beltza rise di gusto ma la comicità del momento svanì subito: la fossa era perfetta per lui, ma troppo piccola per la lunghezza della lancia. Garria usò la sua asta, bloccata alle estremità della fossa, per tirarsi su. Fece leva sui muscoli addominali e, senza utilizzare le gambe, riuscì a sfuggire alla morsa della rete, ritornando su strada. Beltza vide la figura voltarsi verso di lui, fissarlo con freddezza e proseguire di passo il sentiero. Il cacciatore continuò:
<< Hai una certa fretta. Non segui mai i sentieri ma tagli attraverso tutto ciò che puoi attraversare. E da quello che mi è stato riferito, oltre quello che ho visto, non hai mai ucciso nessuno. Ossa rotte, muscoli lesionati e commozioni cerebrali. Non hai mai ucciso nessuno. Dunque non stai cercando vendetta. Non parli con nessuno, non vuoi perdere tempo con inutili discorsi. Sei vestito con un semplice telo nero avvolto intorno alle tue parti intime e al petto. Forse non vuoi che il peso di un’armatura ti intralci, non vuoi che altri abiti possano compromettere la tua abilità con la lancia. Ah, già. La tua lancia spezzata. Devi essere stato un soldato fedele a questo regno, quella era in dotazione anche alle guardie della mia prigione. >>
Lo sguardo di Garria cambiò impercettibilmente per un secondo. Qualcosa aveva colpito finalmente la sensibilità dell’impassibile viandante. E Beltza se ne accorse:
<< Quando ho detto prigione la tua freddezza si è spenta per un attimo. Giusto! Come ho fatto a non pensarci prima? Tu stai andando in direzione del castello, ma non stai andando al castello. La prigione. Vai per liberare qualche tuo compagno? No, arrivato a questo punto dovresti esserti arreso. Non si rischia di affrontare il Cavaliere Bianco per liberare un semplice compagno. >>
Beltza saltò stavolta due alberi più avanti rispetto alla sua preda, spezzò due rami con dei calci e due fili invisibili fischiarono nell’aria: una rete gigantesca scese dalle cime dei due pini e fece per investire e intrappolare il giovane viaggiatore. Beltza sorrise al pensiero di averlo finalmente catturato ma i riflessi di Garria furono decisamente più svelti. Il viandante, alla vista della grossa rete, scattò incontro alla trappola, scivolando al di sotto di essa e rialzandosi subito dopo, per poi riprendere il cammino. Beltza non poté credere ai suoi occhi: sporco di fango, foglie e terra, Garria proseguiva come se nulla fosse accaduto.
Le congetture del cacciatore nero però ebbero finalmente conferma con il provvidenziale arrivo di un falco messaggero. Beltza non si aspettava un messaggio dal suo signore Rac, ma la carta e l’inchiostro parlarono chiaro:
<< Mi è appena arrivato un messaggio. Il tuo nome è Garria Buggos. Eri un capitano di brigata, al servizio di Re Rac, signore di questo regno. Una moglie e quattro figli, tre maschi e una femminuccia. Sei stato marchiato come disertore. Ah, giusto. Il re vuole invadere i regni suoi alleati, tradendo la loro fiducia potrà conquistarli rapidamente poiché colti di sorpresa. Molti soldati si sono opposti a questa ingiustificata guerra ma sono stati tutti soppressi, le loro famiglie arrestate e i loro beni confiscati. Tu devi essere uno di quelli. Vediamo, vediamo. Qui c’è scritto che i tuoi figli sono stati crocifissi, i maschi. La femmina è stata bruciata viva. >>
Garria non mostrò alcun segno di cedimento. Sapeva bene che ciò che diceva era la verità, ma cedere ai sentimenti sarebbe stato peggio.
<< Ho capito... >>
Fece Beltza, con voce sorpresa:
<<…tua moglie. Stai andando a riprendere tua moglie dalla prigione dietro al castello! Dannazione, chi è? Ero rinchiuso lì e non l’ho mai vista. >>
Il cacciatore infine saltò giù dal pino e, sfoderando due lunghi coltelli ricurvi, si abbatté sul viandante. La lancia fu svelta e parò il colpo proveniente dall’alto.
<< Se è amore, dunque, dimostra quanto è forte il tuo legame! >>
Lo scontro fu senza eguali: rapidi fendenti di pugnali, affondi di lancia, calci mirati alla testa e spazzate con l’asta. I colpi, fermi e mirati, mostravano l’addestramento militare di Garria; quelli sinuosi, atti più a ferire che ad uccidere, rivelavano invece la vita da ladro ed assassino che Beltza passò nell’ombra, tra agguati ed imboscate. I due sembravano alla pari; nessuno dei due aveva colpito l’altro, nessun gemito di dolore, nessun cenno di stanchezza. Solo il cozzare del ferro e il sibilare delle lame. Beltza disturbò ancora l’incontro:
<< Io ho sempre agito solo per il mio tornaconto, per la mia sopravvivenza. Gli altri sono solo strumenti tra le mie mani! Dunque egoismo contro amore! Bieca crudeltà contro cieca passione! Chi vincerà? >>
Garria fu costretto più volte ad indietreggiare; se il nemico fosse entrato nella sua guardia, sarebbe stato certamente ferito. Beltza fu abbastanza abile da condurre il combattimento fuori dal sentiero, fin dentro la pineta. Passi e movimenti studiati appositamente per l’occasione, condussero Garria in trappola. Fu un attimo: la lancia puntò alla testa del criminale, quest’ultimo schivò e l’asta di ferro mosse un cavo invisibile. Il filo rilasciò  due grandi e silenziosi ceppi di legno. Garria se ne accorse troppo tardi: la sua lancia venne colpita e mandata lontano da uno dei ceppi, mentre il secondo si abbatteva sulle costole del viandante. Al cacciatore bastò poco; pochi movimenti, dettati dall’abitudine, e la preda fu incatenata tra corde, reti e cavi posti già a terra per l’occasione. Il sorriso di Beltza trovò finalmente compimento. Sollevò la sua vittima e la condusse oltre il sentiero, dove l’attendeva un carro, marcio e antico, guidato da un cavallo.
<< Il re mi ha detto di farti fuori. Ha però aggiunto che se ti avessi catturato vivo, avrei ricevuto una ricompensa extra. >>
Garria fu sbattuto all’interno del carro, circondato da sbarre di ferro. Un fetido odore di morte e urina invase le sue narici e fu costretto a cercare aria fresca fuori dalle sbarre: appoggiandosi ad esse però, notò uno strano scricchiolio. Beltza si mise alla guida del carro, ridacchiando tra sé e sé. I due si avviarono al castello per decidere del destino del fastidioso viandante.

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Capitolo 5
*** Il Fuoco Dentro ***


Il carretto attraversò rapidamente buona parte del piccolo ma bellicoso reame. Garria si accorse di quanta strada ancora avrebbe dovuto percorrere e, da una parte, fu felice d’essere stato catturato. Aveva almeno rimediato un passaggio. Il suo animo non si scompose, rimase per la maggior parte del tempo seduto, a gambe incrociate, al centro del carro. L’acqua che gli veniva offerta era in parte bevuta e in parte gettata ai bordi del carro. Beltza non comprendeva il perché si stesse comportando in quel modo, ma si limitò a sonnecchiare per la maggior parte del tempo o narrare vecchie storie su di sé al povero prigioniero.
Aveva raccontato di aver stuprato una donna un giorno e di aver massacrato il marito, obbligando lei a confessare alle autorità che il marito ucciso fosse in realtà Beltza, il cacciatore di teste. Aveva raccontato di come un giorno dovette impiccare un bambino, poiché avrebbe potuto rivelare alle guardie la sua presenza. Le storie erano piene di morte e ingiustizie degne di un demonio, ma il criminale le raccontava quasi fossero avvenimenti comici dei cari bei vecchi tempi passati.
Garria rimaneva seduto ad ascoltare ma il suo cuore non si caricò mai d’odio. Non provava alcun sentimento verso quel derelitto. E Beltza si accorse anche di questo.
Passarono due intere giornate di viaggio ma il castello fu finalmente in vista. La massiccia struttura troneggiava sulla cittadina di Almadia, la quale donava il nome al regno, circondata da una cinta muraria piuttosto antica e mal messa. Più che una città sembrava un villaggio. Il signore locale ebbe il coraggio di nominare i suoi possedimenti come “regno” e si alleò con i veri regni solo per ottenerne un aiuto di tipo economico e un velato rispetto da parte degli altri sovrani. Il carretto fu vicino all’ingresso e il prigioniero notò un secondo sentiero che conduceva alla prigione, in vista anch’essa, in cima alla collina adiacente. A fianco del carretto, stava un piccolo contingente di quattro uomini che, in vista del carro, lo avevano scortato per buona parte del percorso fino all’entrata. Uno dei soldati portava con sé un cavallo bardato e Garria sfruttò finalmente l’occasione.
L’acqua aveva avuto il compito di indebolire il già marcio legno che reggeva le corte sbarre di ferro del carro-prigione. Il viandante si appese alla trave superiore e, con uno slanciò, sfondo a calci la sbarra di ferro di fronte a lui. Il legno sottostance cedette e la sbarra finì tra le mani di Garria. Le guardie rimasero perplesse e, a vedere il prigioniero, fuggito dalla cella e con un’asta di ferro in mano, ebbero un attimo di esitazione, conoscendo la sua reputazione. Beltza, svegliato dal frastuono, fece appena in tempo a voltarsi che Garria aveva già steso i due uomini e rubato il cavallo di uno di essi. Il viandante si lanciò in una corsa sfrenata verso le prigioni e il nero cacciatore, imprecando, lasciò le redini, sganciò l’asse del carro dal giogo e seguì la sua preda in groppa al cavallo.

<< Dannazione, non succede mai niente di interessante qui! Mi sono arruolato per combattere, non per fare la guardia a questi… cani. >>
Bofonchiò delusa una giovane guardia. Il compagno, più anziano, lo confortò sull’importanza del loro compito ma qualcosa distrusse quell’aria di tranquillità: la porta d’ingresso alle miniere venne sfondata e subito un bastone ferrato spaccò la rotula del più giovane per poi urtare il petto del più vecchio. Un fantasma avvolto nel nero scivolò nella prigione, percorrendo gli stretti budelli con velocità e precisione. Tutte le guardie che intralciavano il suo cammino venivano sbattute contro le pareti della miniera o messe a tacere con mirati colpi alla gola. Garria correva con decisione ed era ormai lontano quando Beltza entrò. L’anziana guardia, ancora in grado di parlare, rivelò al cacciatore la posizione della cella della donna in questione e gli indicò la strada più breve. Beltza, percorrendo i cunicoli, pensò che Garria avesse già interrogato un carceriere in precedenza o forse aveva contatti all’interno del corpo guardia o magari avesse prestato servizio proprio in quel luogo poiché non era possibile che, dalle parole del vecchio, il viandante stesse attraversando la prigione senza esitazioni, quasi sapesse la via giusta per giungere dalla sua sposa. Poco importava però, era arrivato e Garria non era presente. Beltza si prese un secondo per riprendere fiato, fissando il cunicolo. Si voltò poi verso la cella e, nell’oscurità, vi era in effetti una donna. Una bellissima donna dai capelli rossi e ricci, coi boccoli che cadevano, sporchi, oltre le spalle. Le grida dei prigionieri vicini si fecero alte: chiedevano pietà, aiuto, cibo e qualcuna ebbe il coraggio di insultare la donna e il cacciatore. Quest’ultimo si voltò e ringhiò a tutti quanti come un cane feroce. Calò il silenzio e la paura attanagliò le membra di chi lo aveva riconosciuto ma la donna, spaventata dal volto dell’uomo, non aveva proferito parola, non pianse e non si mosse. Il cacciatore restò sorpreso da tanta fermezza di spirito, tale moglie tale marito. Si aggrappò alle sbarre e scrutò nella cella, per vedere meglio, ma qualcosa di silenzioso si schiantò sul suo fianco. Nel cadere a terra, lo sguardo cadde sulla figura di Garria che lo aveva colpito con entrambi i piedi. Il dolore lancinante gli impedì di alzarsi prontamente ed ebbe l’impressione d’essere colpito da un momento all’altro, ma ciò non avvenne. Garria era attaccato alle sbarre e la donna gli si era messa di fronte. I due si guardarono e gli occhi del freddo viandante parvero subito sciogliersi in lacrime. La donna carezzava il viso del marito e le labbra di quest’ultimo finalmente si aprirono:
<< Sono qui, amore. Non preoccuparti, ti tirerò fuori. >>
Beltza non poté credere alle sue orecchie, finalmente udiva la voce del guerriero. Le sue congetture erano esatte ma qualcosa non quadrava: si sentiva fremere dentro. Una strana sensazione aveva pervaso le sue membra, senza dargli tregua.
Una voce però ruppe quel fatidico momento:
<< Eccolo! E’ qua! >>
Una guardia, dal fondo del corridoio, incoccò una freccia e rilasciò la corda. Il dardo sibilò nel cunicolo e, tra le urla spaventate degli altri prigionieri, risuonò forte quella del cacciatore:
<< Noooooooo! >>
La freccia si era fermata nel petto di Garria, poco sotto al cuore. Del sangue iniziò a colare lungo il fianco del viandante. La giovane donna si portò le mani alla bocca e delle lacrime pulirono le sue guancie, piene di polvere. La rabbia del cacciatore era inesprimibile. Si alzò rapido ed estrasse un coltello dalla cintola. Il pugnale volò attraverso il budello di roccia e finì tra le scapole dell’arciere. Nel momento in cui il corpo cadde morto, altre guardie avevano raggiunto la postazione. I loro sguardi si fecero coraggiosi, poiché né il cacciatore né il viandante potevano nulla in uno spazio così ristretto. Ma i loro cuori furono smossi da un’onda di rabbia:
<< Lui è mio! >>
Beltza urlò quasi fosse un demone: il suo sguardo era contorto dall’ira e le sue fattezze, già mostruose, erano ancora più raccapriccianti. I prigionieri vicini piansero o tacquero, nella paura d’essere ammazzati, e a qualche guardia iniziarono a tremare le gambe. Ma la situazione sembrò precipitare bruscamente.
Beltza si sentì spingere alle spalle; cadde a terra. Il cacciatore aveva dimenticato del passaggio dal quale lui stesso era giunto fin lì. Tre guardie sbucarono alle sue spalle e le altre, incoraggiate dall’arrivo dei rinforzi, si gettarono nella mischia.
Garria riprese il suo corto bastone di ferro e lo menò sul naso di uno dei soldati. Beltza, rialzandosi, tagliò la gola di un altro. Le forze iniziarono ad abbandonare il viandante e i due nemici, il cacciatore e il viandante, furono costretti a combattere fianco a fianco. Uno per proteggere se stesso e l’amore della sua vita; l’altro per proteggere la sua preda e la libertà che gli avrebbe donato il re per il conseguimento della missione. Ma qualcosa continuava a formicolare dentro Beltza.
Le corte lame ebbero la meglio sui soldati; i movimenti flessuosi e precisi del cacciatore incontrarono spesso la carne e i tendini dei nemici ma il corto bastone iniziava a creare non pochi problemi. Garria poteva solo parare, privo di forze. Non c’era spazio per caricare i colpi e fu costretto in un angolo, dove una guardia riuscì finalmente a ferirlo alle costole. Un’altra recise il tendine di una spalla e un’altra ancora lo colpì con l’elsa al naso. Il viandante cadde a terra, ricoperto di sangue e sul punto di svenire o morire. Una lama stava per cadere sui suoi occhi ma un’altra intervenne e recise la mano della guardia urlante. Beltza stava dando prova di tutta la sua ferocia abbattendosi sulle guardie in arrivo con forza devastante. Il cunicolo fu sul punto di colmarsi per la quantità di cadaveri in uno spazio così ristretto.
Ma caduta l’ultima guardia, il cacciatore prese a respirare affannosamente. Non era affatto stanco ma qualcosa stava divagando nella sua mente. Tutte le sue scorrerie, i suoi furti, gli omicidi, gli stupri, gli inganni e le frodi, gli volavano davanti agli occhi. Poi un bagliore cancellò quelle losche immagini e ai suoi occhi si mostrò la figura di Garria. Il viandante aveva dato prova d’essere un uomo d’onore. Valoroso e instancabile combattente, aveva sconfitto centinaia di soldati pur senza ucciderli. Aveva perseguito il suo scopo con successo: arrivare dalla sua amata, rapita e imprigionata dal suo odioso sovrano. Beltza ripensò alle sue di motivazioni. Perché aveva fatto tutte quelle angherie a tutte quelle persone sconosciute? Per soldi, si giustificava, o per fama, forse? O semplicemente perché il suo aspetto non era gradito alla gente del suo villaggio? Le sue riflessioni però furono interrotte dal pianto della donna:
<< Salvalo. >>
Sussurrava in lacrime. Beltza, dal cuore di pietra, ebbe un colpo al cuore. Ne aveva viste di donne in quello stato, anche a causa sua, ma non le avevano mai fatto quell’effetto. Fissò il suo rivale, ricoperto di sangue. Aveva sempre ucciso uomini, fin dalla maggiore età, ma questo non era un uomo qualunque. Era la sua nemesi per eccellenza. Avevano principi morali totalmente diversi ed era stato l’unico, in anni e anni di vita criminosa, ad aver tenuto testa al grande Beltza, signore dei demoni.
Si chinò su Garria ed estrasse uno dei pugnali. Tolse la freccia da sotto al cuore e vi posizionò la punta del suo coltello, sullo stesso punto. Poi parlò:
<< Non posso salvarlo. E’ ridotto troppo male. Morirà. >>
La donna si disperò ancora di più e chiuse gli occhi, pieni di lacrime. Beltza continuò:
<< Guardalo, guarda tuo marito. Ha affrontato molti soldati, ha sconfitto Zuria, il Santo Campione, ed ha tenuto testa a me. Mi è sfuggito da sotto al naso e ha più volte rischiato di ammazzarmi. Quest’uomo sta morendo con quanto più onore possibile. >>
La donna continuò a piangere, sussurrando parole d’amore al suo morente sposo. Garria rispose:
<< L’ho fatto solo per lei. Ho versato sangue per amore, ed ora sono ricoperto dal mio sangue e morirò. Con la mia morte sarai libero, valoroso demone. Prenditi cura di lei, te ne prego. >>
Il cuore di Beltza fece per uscire dalla cassa toracica. Gli occhi del cacciatore si fecero lucidi e i suoi pensieri si bloccarono.
<< Hai commesso molte atrocità in passato. Ma in fondo sei un uomo abile ed intelligente. Prendi la mia vita, prendi la tua libertà e usala per donare a mia moglie un’altra vita. Che non marcisca in queste dannate celle. Ci sei passato anche tu, sai quanto sia orribile vivere e morire qui dentro. Lei non ha colpa se io ho disertato. >>
Beltza non volle saperne oltre. Strinse i denti, si morse le labbra e, con mani tremanti, affondò il coltello nella carne, fin dentro al cuore. La risposta del nero cacciatore fu una:
<< Lo farò. >>

Il vecchio re Rac sedeva tranquillo sul suo trono d’ebano. Gli occhi si illuminarono alla vista del suo sicario preferito, seguito da un lenzuolo bianco su un piccolo carretto.
<< Dunque? >>
Fu l’accoglienza del re. Beltza portò il carretto e il suo orribile volto di fronte al sovrano e lentamente scostò il velo bianco rivelando il volto di Garria, ormai freddo ma con una strana espressione.
<< Oh, meraviglioso! Hai dato pieno compimento alle mie aspettative! Ed io darò compimento alle tue, che non si dica che non sono un uomo d’onore. >>
Il sorriso beffardo del re non convinse il cacciatore. Ma Beltza non era così stupido da farsi cogliere impreparato. Se un re voleva invadere i regni alleati, tradendoli, perché avrebbe dovuto concedere la libertà ad un criminale con una taglia sulla testa superiore alla somma di qualsiasi altro criminale in circolazione?
Il re diede il segnale ai suoi soldati che avrebbero dovuto ucciderlo, ma ciò non avvenne. Anzi, una delle guardie avanzò lentamente e consegnò la propria balestra al nero cacciatore.
<< Tradisci i tuoi alleati, fai giustiziare i tuoi stessi uomini solo perché si rifiutano di combattere nel nome di una causa così stupida e, soprattutto, non mantieni la parola data con un individuo come me. Tre errori che ti porteranno alla morte. >>
La balestra venne puntata in direzione del re, il quale, vedendo che nessuno aveva la benché minima intenzione di salvarlo, si rannicchiò spaventato sul suo trono.
Beltza ordinò:
<< Ora io andrò via e porterò con me una donna. Non ti ammazzo perché voglio che tu tolga dalla circolazione la taglia sulla mia testa. Mi hai promesso e negato la libertà e io me la prenderò con la forza. >>
La balestra cadde a terra e Beltza girò i tacchi e si diresse verso l’uscita, trascinando con sé il carretto funebre.
<< Darò una degna sepoltura a quest’uomo. Prenderò la donna e sparirò per sempre da queste terre. Se vedrò ancora un avviso di taglia e se sentirò ancora parlare di te e delle tue stupide decisioni, tornerò a staccarti quella lurida testa dal collo. >>
Le guardie fecero passare il brigante, sogghignando. Nessuno aveva mai parlato in quel modo al loro re e sapevano benissimo che d’ora in avanti sarebbe cambiato tutto; il re era stato umiliato e il cacciatore di uomini aveva miracolosamente trovato redenzione.

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