Cuore di Ferro di SparkingJester (/viewuser.php?uid=130390)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'Ospite Sgradito ***
Capitolo 2: *** Il Santo Campione ***
Capitolo 3: *** Il Criminale ***
Capitolo 4: *** La Svolta ***
Capitolo 5: *** Il Fuoco Dentro ***
Capitolo 1 *** L'Ospite Sgradito ***
I dadi caddero sulla cassetta di
legno. Un risultato
sfavorevole e la guardia grugnì:
<< Dannazione, possibile che la Dea Bendata mi odi cosi
tanto? Lasciamo
perdere. Ritornando al discorso di prima, ragazzi. Che ne pensate della
decisione del re? >>
I tre commilitoni smisero per un secondo di giocare, bere e grattarsi.
Si
guardarono di sottecchi e qualcuno sbuffò, annoiato e
preoccupato.
<< Lo sai che non possiamo opporci oltre. Hai visto che
fine hanno fatto
gli altri, no? >>
Le quattro guardie erano sedute l’una di fronte
all’altra, al di fuori del
piccolo casolare che fungeva da guarnigione e dogana al fiume Omaon.
<< Insomma – replicò
un’altra – la guerra non è mai giusta,
ma io ho
soltanto questo lavoro e se mi oppongo ci lascio anche le penne!
>>
Tra imprecazioni e lamentele, i quattro caddero in uno sconfortante
silenzio,
immersi nel pensiero di cosa stava accadendo nel loro piccolo ma
ambizioso
regno. Solo lo scorrere delle acque alle loro spalle spezzava
quell’atmosfera
imbarazzante.
<< Siamo fortunati a dover restare qui. Solo pellegrini,
mercanti e i
nostri colleghi di ricognizione. Niente battaglie per noi, niente
esecuzioni.
Mi dispiacerebbe giustiziare un mio collega. >>
D’un tratto qualcosa destò i loro torbidi
pensieri: uno dei quattro cavalli
legati alla staccionata iniziò a nitrire senza controllo.
<< Buono, Sam! Che ti prende? >>
Il legittimo proprietario si alzò e iniziò a
carezzare affettuosamente la
bestia sul muso, cercando di calmarla. Il baio sembrava spaventato e
continuava
a fissare un punto fisso nel bosco di fronte a sé. A breve
sarebbe calata la
notte e le ombre appena accennate impedivano ugualmente di vedere chi
vi fosse
all’interno della pineta.
Passi
felpati e falcata rapida. Il viandante procedeva
sicuro attraverso il bosco, non curante degli eventuali rami, sassi o
fanghi in
cui i suoi nudi piedi affondavano. Il bianco corpo, scarno e avvolto in
neri
stracci, sembrava pronto a contrarsi e ad agire da un momento
all’altro. La
testa rasata scrutava continuamente tra gli alberi di fronte a
sé e finalmente
intravide qualcosa: un posto di guardia. Le mani strinsero con forza la
lancia
di ferro che portava con sé. Si lanciò in uno
scatto bestiale.
Quando la guardia, vicina al suo cavallo, si accorse di ciò
che stava
accadendo, fu troppo tardi:
<< Maro, attento! >>
Le due guardie con le spalle al fiume alzarono lo sguardo e sgranarono
gli
occhi. La guardia che dava spalle al bosco, invece, fu spacciata.
Un viandante, lo spettro di un guerriero forse, stava a
mezz’aria: freddi occhi
azzurri e muscoli tesi, con le braccia portate fin dietro le spalle nel
caricare il colpo con la sua lancia. Sangue e denti volarono in terra
quando
l’estremità della lancia si abbatté sul
cranio dell’ignara guardia. Se solo la
lama fosse stata integra, al posto di sangue e denti, sarebbe stata una
testa a
volare. Girando su se stesso, il viandante piantò con forza
l’estremità
spezzata alla gola della seconda guardia, ancora seduta per lo shock
subito.
Questa cadde a terra con la mano stretta al collo; il terzo compagno
sfoderò la
spada ma fu troppo lento e la lancia ferrata frantumò
l’omero e, con una
seconda giravolta, anche il femore. L’unica guardia ancora in
piedi era
pietrificata dalla paura, ancora al fianco del suo cavallo.
L’oscuro viandante
si avvicinò, deciso. Fissò la guardia con occhi
freddi e le puntò il bastone
alla gola. La guardia, terrorizzata, alzò le mani e si
allontanò dall’animale.
Il viandante salì in groppa al cavallo e, spronandolo a nudi
talloni, cavalcò
oltre il ponte di legno che attraversava il fiume, scomparendo sul
sentiero
all’orizzonte.
Un messaggero piumato si appollaiò sul posatoio del
bastione. Un servo
dall’aria annoiata srotolò il messaggio dalla
zampa e, finito di leggere, fuggì
in direzione del suo padrone.
Il servo spalancò la porta quasi prendendola a calci e,
incurante dello sguardo
omicida del suo sovrano, arrivò ai suoi piedi e vi si
inginocchiò, senza fiato,
porgendo il messaggio appena recapitatogli.
Rac afferrò il biglietto, lo lesse e sbiancò. Si
alzò dal suo trono e sbraitò
alla servitù:
<< Come diavolo è possibile. Questa
è la diciassettesima volta in una
settimana! Chi è costui!? >>
<< Non lo sappiamo, mio signore. Nessuno l’ha
riconosciuto. >>
Il signore del castello era in preda all’esasperazione:
<< Non posso invadere i regni alleati se un dannato
viaggiatore sconfigge
tutte i miei soldati! Con cosa combatterò? Con le capre!?
>>
<< Signore, il problema non è che sta
abbattendo tutti i suoi soldati, ma
che, a giudicare dai presidi di guardia che sono stati attaccati, ci si
aspetta
che sia il vostro castello la sua destinazione ultima. >>
Il sovrano rimase allibito:
<< Non ne posso più! E’ cominciato
tutto da quando ho dato l’ordine di
uccidere tutti i disertori. Che sia uno di loro in cerca di vendetta?
>>
<< Non possiamo saperlo con certezza, mio signore.
>>
Rac stracciò il foglietto di carta, lo gettò in
terra, afferrò lo scettro d’oro
e lo batté a terra con forza. Lo batté ancora e
ancora una volta. Al terzo
rintocco, una possente armatura bianca fece irruzione nel salone. La
sua mole
superava di gran lunga quelle delle altre guardie, lo sferragliare
della sua
corazza in movimento generava inquietudine e, quando fu vicino, si
inginocchiò
e si levò l’elmo: un volto degno di un dio si
mostrò al suo signore Rac. Capelli
lunghi e biondi, occhi verdi, mascella poderosa e mento prominente. Le
schiave
e le dame presenti arrossirono di fronte al suo sguardo giovane e fiero.
<< Zuria, mio fiero condottiero. Mi rammarica doverti
disturbare per così
poco, ma c’è una questione che devi assolutamente
risolvere. >>
Il bianco cavaliere, senza proferire parola, fischiò. Al
richiamo rispose un
gracchiare stridulo: una grossa cornacchia, bianca anch’essa
e più grande di un
gufo, entrò da una delle finestre aperte e si
appollaiò sulla spalla ferrata
del possente guerriero.
<< Si. Cra! Signore! >>
La voce fastidiosa uscì dal becco del pennuto, mentre il
muto colosso
sogghignava, bramoso del sangue di un guerriero forse alla sua altezza.
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Capitolo 2 *** Il Santo Campione ***
Il
minaccioso viandante cavalcava a briglie sciolte sul polveroso sentiero
di
campagna, sfrecciando ad altissima velocità tra
insediamenti, campagne e
piccoli boschetti. La cavalcata durava ormai da quasi un giorno, il
cavallo
schiumava e sembrava stesse per morire da un momento
all’altro. Ma il destino
fu benevolo e lo prese con se prima del previsto. Il viandante
udì un sibilo e,
istintivamente, si chinò. Un dardo penetrò il
petto dell’animale, uno si
incastrò nella sua orbita e il terzo mancò di
poco lo scalpo del viaggiatore.
Quest’ultimo saltò giù da cavallo,
portando con sé la lancia. La bestia cadde
rovinosamente a terra, priva di vita. Senza badare alla misera fine del
suo
cavallo, il viandante proseguì sul sentiero con passo svelto
e deciso.
Dalla foresta, ai lati della strada, tre balestrieri in cotta di maglia
si
pararono di fronte a lui con le balestre spianate e pronte a sparare.
Aspettavano solo l’ordine del loro gracchiante condottiero:
Zuria, il colosso
bianco, venne fuori dalla boscaglia in groppa ad un massiccio bue,
bardato e corazzato
anch’esso.
Lo strano cavaliere, in groppa ad un bue e con una grossa cornacchia
bianca sulla
spalla, avanzò solenne verso il viandante, il quale
però non aveva neanche
rallentato il passo.
Zuria riconobbe subito l’oscuro personaggio. Prese dalla
cintola un piccolo
foglio di pergamena, ci scrisse sopra qualcosa e lo legò
alla zampa della sua
bianca creatura alata.
<< Non pensavo. Cra! Fossi tu. Cra! >>
La cornacchia parlò, agitando le ali, ma il viandante non si
fermò:
<< Dovresti. Cra! Arrenderti. Cra! Contro di me. Cra! Non
puoi vincere!
Cra! >>
Il cavaliere alzò la mano e i balestrieri, irrequieti, si
preparano a scoccare
i loro dardi.
Il viaggiatore era vicino, troppo vicino. La mano si
abbassò, i dardi partirono
e il viandante si accovacciò. Le frecce passarono sopra la
sua testa e, da
quella posizione, il guerriero armato di lancia scattò con forza verso il primo
balestriere. La lunga
arma in ferro si abbatté con forza sulla testa del soldato.
Gli altri due,
intenti a caricare le loro armi, vennero colpiti rispettivamente allo
stomaco e
al collo. Il bianco cavaliere rimase a bocca aperta di fronte a tanta
velocità
e forza. Alzò nuovamente la mano e fece riversare in strada
una decina di soldati
a cavallo. Il viandante non batté ciglio: impugnò
la lancia con una mano e,
prendendola da un’estremità, conficcò
l’altra in pancia ad uno dei cavalieri
che lo avevano caricato, disarcionandolo. La battaglia fu spaventosa.
L’asta
metallica cozzò contro le corazze, frantumò
costole, spezzo gambe ai cavalli e
disarcionò la maggior parte dei cavalieri. Nessuno poteva
aspettarsi che una
lancia priva di lama potesse risultare così efficace. Il
fisico del viandante
non sembrava quello di un guerriero: era pelle e ossa e muscoli. Si
potevano
intravedere tutte le costole e molte vene. Sembrava uno schiavo
denutrito ma i
muscoli, sodi e voluminosi, sfiguravano su quello strano fisico,
rivelando la
vera natura del viandante. Un guerriero, forse un mercenario o un
soldato, ben
addestrato e con dei riflessi da far impallidire qualunque altra
creatura della
foresta. Il modo in cui maneggiava la sua arma ipnotizzava e distraeva
molti
soldati, i quali restavano incantati nel veder roteare l’arma
da una mano
all’altra prima di abbattersi su di loro. Lunga, media o
corta distanza non
faceva differenza dove
il nemico fosse,
la lancia spezzata si abbatté su tutti e con egual potenza.
Zuria rimase fermo ad osservare quello spettro vestito di stracci neri
mentre
massacrava i suoi uomini finché tutti i suoi soldati non
furono al tappeto, con
le ossa rotte e incapaci di muoversi. La cornacchia parlò
ancora:
<< Sei forte. Cra! Ma ora te la vedrai. Cra! Con me! Cra!
>>
Detto questo, la bestiaccia bianca si levò in volo e si
posò su un ramo poco
distante. Il bue sbuffava per il peso del cavaliere, il quale
liberò la bestia
dal suo pesante fardello semplicemente scendendo a terra. Zuria, campione, cavaliere e
santo protettore del
reame, estrasse un enorme scudo da dietro la schiena e una mazza
ferrata altrettanto
mostruosa dalla cintola. Il viandante non si fece intimorire
né dalla stazza,
né dall’armatura scintillante e spessa,
né dalle armi del suo avversario.
Semplicemente proseguì diritto, facendo svolazzare la sua
tunica lercia alle
sue spalle. Fece per passare accanto al cavaliere, per proseguire
oltre, ma la
cornacchia gracchiò e il cavaliere agì:
<< Dove. Cra! Pensi. Cra! Di andare? Cra! >>
Il bianco volatile improvvisò una sonora risata. Lo scudo
fece per abbattersi
sulla schiena del viandante, il quale stava un passo oltre le spalle
del
cavaliere. L’esile guerriero si chinò,
poggiò le mani a terra e sfiorò la
polvere con la pancia. Appena lo scudo oltrepassò la testa
della sua vittima,
il viandante si rialzò rapido conficcando la lancia spezzata
tra le costole del
santo cavaliere. Il colpo fu inferto con una precisione ed una forza
tali da
entrare in una giuntura della corazza, forare la cotta di maglia e
incastrarsi
nella carne. Il giovane viso del campione si trasformò in
una smorfia di
dolore, un rivolo di sangue macchiò le sue labbra scendendo
fino al mento. Il
viandante estrasse la lancia, girò su se stesso
all’interno della guardia
avversaria e colpì dal basso verso l’alto la
schiena del cavaliere, poco sopra
il bacino. Il colpo fu così forte che mise in ginocchio il
campione, ormai
incapacitato a muoversi.
Il viandante proseguì il suo cammino a piedi, il bue
corazzato brucava l’erba
del bosco, la cornacchia bianca volò verso il castello e il
santo campione, con
un buco sul fianco e la colonna vertebrale spezzata, finì
col mangiare la
polvere.
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Capitolo 3 *** Il Criminale ***
La bianca cornacchia si
posò sul bracciolo del trono. Lo
sguardo di Rac si rabbuiò nel sapere che il suo fedele ed
imbattibile campione
era caduto in battaglia. Vene pulsanti fecero capolino dalle tempie e i
pugni
si serrarono quasi a ferire la pelle sottostante. Con rabbia, strappo
il foglio
dalla zampa dell’animale, il quale volò via per
non fare più ritorno, lo
srotolò e lesse:
<< Garria. >>
Il sovrano analizzò il nome, lesse e rilesse attentamente,
fece mente locale di
tutti i suoi condottieri più fidati, di tutti i suoi
parenti, i suoi nemici, i
suoi amici e i suoi fornitori. Quel nome gli era sconosciuto.
Sconfitto nell’onore, ordinò:
<< Prendete immediatamente tutti i registri e tutti i
libri paga e
trovate questo maledetto nome! >>
Dopo un via vai di servi e soldati, Rac poggiò il fronte
sulla stanca mano e,
con rammarico, ordinò ancora:
<< Liberate quell’ animale.
>>
I soldati sbiancarono. Il braccio destro di Rac, un vecchio veterano di
guerra,
provò a dissuadere il suo padrone:
<< Signore, è proprio sicuro? Nessun altro
aveva mai generato tanto caos
nelle terre da qui a Vangord. Non possiamo fidarci. >>
Il signore tuonò:
<< Decido io cosa è meglio per me! Quel pazzo
mi darà ascolto. Se lo
farà, sarà lautamente ricompensato. Ora, vai a
prenderlo e portalo qua!
>>
Il veterano si chinò, spaventato, e corse via.
Appena dietro la cittadella che conteneva il castello del poco prospero
regno
di Almadia, in cima ad una collinetta adiacente, vi erano le prigioni:
un
sistema minerario intricato ed abbandonato da anni, riutilizzato come
prigione.
Dai criminali più efferati ai semplici contadini che non
pagavano le tasse,
tutti venivano rinchiusi nelle anguste celle della prigione che altro
non erano
che nicchie scavate nella nuda roccia. Non c’era pericolo di
affollamento: in
molto perivano sotto le pericolose esalazioni di zolfo provenienti
dall’interno
della grotta artificiale, altri, affollati nelle strette celle,
finivano con
l’uccidere i proprio compagni per stare più comodi.
Non più di qualche minuto a cavallo e il veterano fu sul
posto. Scese nelle
profondità della terra, insultando prigionieri, salutando le
guardie di
servizio e seguendo la fila di fiaccole che tenuamente illuminavano lo
stretto
budello che conduceva alla cella d’isolamento. Non vi erano
altre celle nel
raggio di trenta metri, oltre la sua. Quando si portò di
fronte a lui, il
veterano ebbe un fremito e i brividi risalirono lungo la schiena: un
uomo, seduto
con la schiena alla parete e con il volto coperto da bende, lo fissava
con aria
assente.
<< Beltza. >>
Risuonò la voce del veterano:
<< Puoi sentirmi, Beltza? >>
Le bende si mossero:
<< Kaol. Sbaglio o quella cicatrice sul volto te
l’ho fatta io? >>
Kaol rabbrividì ancora. L’offesa non
turbò il suo animo ma la paura era fin
troppa:
<< Tiratelo fuori. >>
Si rivolse alle cinque guardie che lo avevano scortato fin
lì. Aprirono la
cella, entrarono e lo tirarono su con la forza. Il prigioniero era
ammanettato,
con le braccia dietro la schiena e i piedi chiusi in una morsa di legno.
<< Il tuo signore Rac vuole parlarti. Dice che se lo
aiuterai, verrai
ricompensato. >>
Lo strano individuo si fece trasportare senza opporre resistenza e
senza aprire
bocca. Attraversarono i corridoi lentamente, poiché egli non
poteva correre a
causa dei ceppi ai piedi. Gli altri prigionieri, alla sola vista,
muovevano le
mani nel segno della croce, altri ancora si nascondevano spaventati in
qualche
angolo buio delle loro celle e altri cantavano litanie sacre,
normalmente usate
per scacciare i demoni.
Il prigioniero tanto temuto infine venne legato sul dorso di un cavallo
e
trasportato con urgenza dal suo re.
In catene e scortato da un drappello ben armato di soldati, fu condotto
finalmente
ai piedi di Rac e costretto ad inginocchiarsi. Il signore del castello
gli
rivolse la parola:
<< Beltza, incubo di Vangord, spettro di Galadel, diavolo
di Mondok,
mietitore di Hifid, ti verrà concessa la totale
libertà e tutti i tuoi peccati
e i tuoi crimini verranno perdonati e dimenticati. Sarai nuovamente un
uomo
libero. >>
A quelle parole furono in molti a tremare. Un pericolo mortale come
Beltza,
libero di vagare per quelle terre, era più spaventoso che
ospitare il diavolo
in persona in casa propria.
Ma il prigioniero non era certamente uno sprovveduto e
replicò:
<< Se?
>>
Il sovrano non si sorprese della sua arguzia:
<< Se ucciderai un uomo per me. E’ la cosa che
ti riesce meglio, no?
>>
<< Dieci uomini, un carro con cavallo e tre reti. Al
resto penso io.
>>
Il signore parve compiaciuto. Beltza aggiunse:
<< E rivoglio indietro le mie cose. >>
Rac annuì e ordinò che gli fossero tolte le
manette e il ceppo ai piedi. Beltza
poi afferrò quasi con rabbia le bende che coprivano il suo
volto e le tolse con
uno strattone: un viso deturpato fece capolino dalla candida stoffa.
Una cavità
vuota al posto del naso, l’orecchio destro reciso per
metà, una lunga cicatrice
che calava da fronte a mento e una dentatura deforme facevano di lui il
mostro
che tutti odiavano. Sfortunatamente non era temuto solo per il suo
sgradevole
aspetto ma anche per la sua bieca crudeltà e ne diede prova
quasi
immediatamente: arrotolò e strinse con forza le bende tra i
suoi pugni, si
portò alle spalle dell’ignaro Kaol con
velocità fulminea e con forza bovina
cinse il suo collo, sollevandolo da terra. Il signore del feudo non
osò fermalo
e i soldati non ebbero il coraggio di difendere il loro povero
compagno. Kaol
boccheggiò finché poté, ma
l’aria venne meno e il corpo nerboruto cadde a terra
con un tonfo sordo. Rac non poté trattenere oltre la sua
curiosità:
<< Perché? >>
La risposta fu secca e sibilante:
<< Conti in sospeso. >>
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Capitolo 4 *** La Svolta ***
Garria continuava imperterrito la sua
marcia verso Nord. Mai
una deviazione, mai una pausa regolare. Quando i sentieri svoltavano,
lui
proseguiva dritto. Pioggia, calura, fame e sete non potevano nulla
contro il
suo freddo spirito. Ma fu questa peculiarità a procurargli
non pochi problemi:
immerso in una pineta, priva di un sentiero sterrato, il viandante si
ritrovò
di fronte ad una piccola cascata. L’acqua sgorgava da una
fessura nella roccia
e cadeva nella terra sottostante formando un laghetto melmoso. Sulla
cima del
piccolo crinale stava un uomo: corazza di cuoio, cappuccio calato sulla
testa e
mantello alle sue spalle; stava in piedi, con le gambe
all’altezza delle spalle
e le braccia conserte. Gli sguardi dei due si incrociarono per un
attimo:
<< Garria, presumo. >>
La voce rauca dell’uomo risuonò nella foresta. Il
viandante non rispose.
<< Sono un gentiluomo io, non un rozzo mercenario. Mi
presento: il mio
nome è Beltza e sono stato mandato qui per ucciderti.
>>
Continuò Beltza. Ma Garria non rispose e proseguì
in direzione della cascata.
Parallelamente alla barriera di terra e roccia vi era un piccolo
sentiero
nascosto, probabilmente usato da cacciatori e fuggiaschi, e il
viandante era
più che intenzionato a percorrerlo senza badare al
misterioso uomo.
<< Andate. >>
Senza battere ciglio, il criminale gli sguinzagliò contro
dieci mercenari armati
di spade e asce. Aveva chiesto al re dieci uomini, ma non dei suoi
soldati,
bensì dei suoi ex compagni di scorribande, sicuramente
più feroci e disinibiti.
Garria proseguì diritto senza badare alle urla di battaglia
che investirono le
sue orecchie ma appena uno dei mercenari fu vicino, il corpo esile e
avvolto
nel nero scattò e la lancia di ferro iniziò a
mietere altre vittime. Sembrava
che il numero non facesse la differenza contro uno come Garria. Il
ferro si
schiantò contro stomaci, sterni, costole e femori. Gli unici
suoni erano quelli
delle ossa che si spezzavano sotto i colpi della lancia e le urla dei
feriti,
ormai a terra a bestemmiare ai loro dei.
Beltza rimase immobile sulla cascata: i suoi occhi guizzavano con
velocità ed
attenzione su ogni movimento del viandante, su ogni attacco e
contrattacco,
sulla posizione dei piedi, delle mani, sugli occhi stessi di Garria.
Quando quest’ultimo ebbe finito di massacrare i suoi
avversari urlanti, si
voltò, fissò negli occhi Beltza e rimase in
attesa. Lo sguardo fu ricambiato e,
con le braccia ancora conserte, il nero criminale fece spallucce.
Garria si
voltò ancora e proseguì per il sentiero.
Beltza continuò ad osservare i suoi movimenti, il ritmo dei
passi, il respiro.
Cominciò a seguirlo lungo la dorsale parallela alla strada,
senza staccare lo
sguardo dalla sua preda. Garria sapeva di essere seguito ma non fece
caso a lui
e continuò. Beltza iniziò a scalare un albero con
guanti chiodati, si appollaiò
su un ramo e da lì iniziò a seguirlo
dall’alto, saltando di albero in albero
con agilità felina. Il silenzio fu finalmente spezzato:
<< Dunque, dunque. Hai i capelli rasati, ma
l’attaccatura non dà segni di
calvizie e la forma del tuo capello tende all’indietro. Li
hai tagliati tu. Li
avevi lunghi e non volevi che ti intralciassero nel tuo viaggio e nelle
tue
strabilianti evoluzioni con il bastone. >>
La voce di Beltza risuonò solitaria nella foresta. La vista
acuta e la mente
sveglia gli permettevano di tracciare interi profili psicologici delle
vittime
che poi derubava, uccideva o rapiva con maestria tale che ci vollero
più di
cinque anni di indagini e circa ventisette cavalieri pesantemente
equipaggiati
per catturarlo e confinarlo. Ma Garria non diede segni di vita:
<< Sei magro, troppo magro. Hai delle lievi occhiaie,
dovute alla
stanchezza credo. E cammini, senza correre. I tuoi muscoli sono forti e
hanno
comunque le energie per far fronte ad un combattimento come quello di
prima.
Ciò vuol dire che riposi e mangi soltanto quando il tuo
fisico non sopporta più
la stanchezza e sei costretto a crollare a terra esausto. Cammini per
poter
risparmiare più energie possibili per un possibile scontro.
Furbo! >>
L’analisi continuava e Garria non rispondeva, impassibile,
freddo. Beltza
continuò indisturbato:
<< La tua velocità e i tuoi riflessi
dimostrano la tua età. Non avrai più
di venticinque o ventotto primavere. Sei giovane, ecco a cosa devi la
tua
tenacia. >>
L’orribile sguardo del cacciatore scrutava ogni aspetto del
giovane viandante
mentre quest’ultimo non sentiva su di sé alcun
peso. La fredda tranquillità con
cui manteneva il passo sorprese anche Beltza, il quale però
aveva programmato
tutto: Garria fu costretto ad oltrepassare un sasso. Il piede
affondò subito
dopo in una pozza d’acqua e fango, rimanendo impigliato in
una rete lurida e
robusta. Garria, senza emettere neanche un gemito, si
ritrovò a penzolare su
una piccola fossa intrappolato in una rete alla mercé del
criminale sfigurato.
Beltza rise di gusto ma la comicità del momento
svanì subito: la fossa era
perfetta per lui, ma troppo piccola per la lunghezza della lancia.
Garria usò
la sua asta, bloccata alle estremità della fossa, per
tirarsi su. Fece leva sui
muscoli addominali e, senza utilizzare le gambe, riuscì a
sfuggire alla morsa
della rete, ritornando su strada. Beltza vide la figura voltarsi verso
di lui,
fissarlo con freddezza e proseguire di passo il sentiero. Il cacciatore
continuò:
<< Hai una certa fretta. Non segui mai i sentieri ma
tagli attraverso
tutto ciò che puoi attraversare. E da quello che mi
è stato riferito, oltre
quello che ho visto, non hai mai ucciso nessuno. Ossa rotte, muscoli
lesionati
e commozioni cerebrali. Non hai mai ucciso nessuno. Dunque non stai
cercando
vendetta. Non parli con nessuno, non vuoi perdere tempo con inutili
discorsi.
Sei vestito con un semplice telo nero avvolto intorno alle tue parti
intime e
al petto. Forse non vuoi che il peso di un’armatura ti
intralci, non vuoi che
altri abiti possano compromettere la tua abilità con la
lancia. Ah, già. La tua
lancia spezzata. Devi essere stato un soldato fedele a questo regno,
quella era
in dotazione anche alle guardie della mia prigione. >>
Lo sguardo di Garria cambiò impercettibilmente per un
secondo. Qualcosa aveva
colpito finalmente la sensibilità dell’impassibile
viandante. E Beltza se ne
accorse:
<< Quando ho detto prigione
la
tua freddezza si è spenta per un attimo. Giusto! Come ho
fatto a non pensarci
prima? Tu stai andando in direzione del castello, ma non stai andando
al
castello. La prigione. Vai per liberare qualche tuo compagno? No,
arrivato a
questo punto dovresti esserti arreso. Non si rischia di affrontare il
Cavaliere
Bianco per liberare un semplice compagno. >>
Beltza saltò stavolta due alberi più avanti
rispetto alla sua preda, spezzò due
rami con dei calci e due fili invisibili fischiarono
nell’aria: una rete
gigantesca scese dalle cime dei due pini e fece per investire e
intrappolare il
giovane viaggiatore. Beltza sorrise al pensiero di averlo finalmente
catturato
ma i riflessi di Garria furono decisamente più svelti. Il
viandante, alla vista
della grossa rete, scattò incontro alla trappola, scivolando
al di sotto di
essa e rialzandosi subito dopo, per poi riprendere il cammino. Beltza
non poté
credere ai suoi occhi: sporco di fango, foglie e terra, Garria
proseguiva come
se nulla fosse accaduto.
Le congetture del cacciatore nero però ebbero finalmente
conferma con il
provvidenziale arrivo di un falco messaggero. Beltza non si aspettava
un
messaggio dal suo signore Rac, ma la carta e l’inchiostro
parlarono chiaro:
<< Mi è appena arrivato un messaggio. Il tuo
nome è Garria Buggos. Eri un
capitano di brigata, al servizio di Re Rac, signore di questo regno.
Una moglie
e quattro figli, tre maschi e una femminuccia. Sei stato marchiato come
disertore. Ah, giusto. Il re vuole invadere i regni suoi alleati,
tradendo la
loro fiducia potrà conquistarli rapidamente
poiché colti di sorpresa. Molti
soldati si sono opposti a questa ingiustificata guerra ma sono stati
tutti
soppressi, le loro famiglie arrestate e i loro beni confiscati. Tu devi
essere
uno di quelli. Vediamo, vediamo. Qui c’è scritto
che i tuoi figli sono stati
crocifissi, i maschi. La femmina è stata bruciata viva.
>>
Garria non mostrò alcun segno di cedimento. Sapeva bene che
ciò che diceva era
la verità, ma cedere ai sentimenti sarebbe stato peggio.
<< Ho capito... >>
Fece Beltza, con voce sorpresa:
<<…tua moglie. Stai andando a riprendere tua
moglie dalla prigione dietro
al castello! Dannazione, chi è? Ero rinchiuso lì
e non l’ho mai vista. >>
Il cacciatore infine saltò giù dal pino e,
sfoderando due lunghi coltelli
ricurvi, si abbatté sul viandante. La lancia fu svelta e
parò il colpo
proveniente dall’alto.
<< Se è amore,
dunque, dimostra
quanto è forte il tuo legame! >>
Lo scontro fu senza eguali: rapidi fendenti di pugnali, affondi di
lancia,
calci mirati alla testa e spazzate con l’asta. I colpi, fermi
e mirati,
mostravano l’addestramento militare di Garria; quelli
sinuosi, atti più a
ferire che ad uccidere, rivelavano invece la vita da ladro ed assassino
che
Beltza passò nell’ombra, tra agguati ed imboscate.
I due sembravano alla pari;
nessuno dei due aveva colpito l’altro, nessun gemito di
dolore, nessun cenno di
stanchezza. Solo il cozzare del ferro e il sibilare delle lame. Beltza
disturbò
ancora l’incontro:
<< Io ho sempre agito solo per il mio tornaconto, per la
mia
sopravvivenza. Gli altri sono solo strumenti tra le mie mani! Dunque
egoismo
contro amore! Bieca crudeltà contro cieca passione! Chi
vincerà? >>
Garria fu costretto più volte ad indietreggiare; se il
nemico fosse entrato
nella sua guardia, sarebbe stato certamente ferito. Beltza fu
abbastanza abile
da condurre il combattimento fuori dal sentiero, fin dentro la pineta.
Passi e
movimenti studiati appositamente per l’occasione, condussero
Garria in
trappola. Fu un attimo: la lancia puntò alla testa del
criminale, quest’ultimo
schivò e l’asta di ferro mosse un cavo invisibile.
Il filo rilasciò due
grandi e silenziosi ceppi di legno.
Garria se ne accorse troppo tardi: la sua lancia venne colpita e
mandata
lontano da uno dei ceppi, mentre il secondo si abbatteva sulle costole
del
viandante. Al cacciatore bastò poco; pochi movimenti,
dettati dall’abitudine, e
la preda fu incatenata tra corde, reti e cavi posti già a
terra per
l’occasione. Il sorriso di Beltza trovò finalmente
compimento. Sollevò la sua
vittima e la condusse oltre il sentiero, dove l’attendeva un
carro, marcio e
antico, guidato da un cavallo.
<< Il re mi ha detto di farti fuori. Ha però
aggiunto che se ti avessi
catturato vivo, avrei ricevuto una ricompensa extra. >>
Garria fu sbattuto all’interno del carro, circondato da
sbarre di ferro. Un
fetido odore di morte e urina invase le sue narici e fu costretto a
cercare
aria fresca fuori dalle sbarre: appoggiandosi ad esse però,
notò uno strano
scricchiolio. Beltza si mise alla guida del carro, ridacchiando tra
sé e sé. I
due si avviarono al castello per decidere del destino del fastidioso
viandante.
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Capitolo 5 *** Il Fuoco Dentro ***
Il
carretto attraversò rapidamente buona parte del piccolo ma
bellicoso reame.
Garria si accorse di quanta strada ancora avrebbe dovuto percorrere e,
da una
parte, fu felice d’essere stato catturato. Aveva almeno
rimediato un passaggio.
Il suo animo non si scompose, rimase per la maggior parte del tempo
seduto, a
gambe incrociate, al centro del carro. L’acqua che gli veniva
offerta era in
parte bevuta e in parte gettata ai bordi del carro. Beltza non
comprendeva il
perché si stesse comportando in quel modo, ma si
limitò a sonnecchiare per la
maggior parte del tempo o narrare vecchie storie su di sé al
povero
prigioniero.
Aveva raccontato di aver stuprato una donna un giorno e di aver
massacrato il
marito, obbligando lei a confessare alle autorità che il
marito ucciso fosse in
realtà Beltza, il cacciatore di teste. Aveva raccontato di
come un giorno
dovette impiccare un bambino, poiché avrebbe potuto rivelare
alle guardie la
sua presenza. Le storie erano piene di morte e ingiustizie degne di un
demonio,
ma il criminale le raccontava quasi fossero avvenimenti comici dei cari
bei
vecchi tempi passati.
Garria rimaneva seduto ad ascoltare ma il suo cuore non si
caricò mai d’odio.
Non provava alcun sentimento verso quel derelitto. E Beltza si accorse
anche di
questo.
Passarono due intere giornate di viaggio ma il castello fu finalmente
in vista.
La massiccia struttura troneggiava sulla cittadina di Almadia, la quale
donava
il nome al regno, circondata da una cinta muraria piuttosto antica e
mal messa.
Più che una città sembrava un villaggio. Il
signore locale ebbe il coraggio di
nominare i suoi possedimenti come “regno” e si
alleò con i veri regni solo per
ottenerne un aiuto di tipo economico e un velato rispetto da parte
degli altri
sovrani. Il carretto fu vicino all’ingresso e il prigioniero
notò un secondo
sentiero che conduceva alla prigione, in vista anch’essa, in
cima alla collina
adiacente. A fianco del carretto, stava un piccolo contingente di
quattro
uomini che, in vista del carro, lo avevano scortato per buona parte del
percorso fino all’entrata. Uno dei soldati portava con
sé un cavallo bardato e
Garria sfruttò finalmente l’occasione.
L’acqua aveva avuto il compito di indebolire il
già marcio legno che reggeva le
corte sbarre di ferro del carro-prigione. Il viandante si appese alla
trave
superiore e, con uno slanciò, sfondo a calci la sbarra di
ferro di fronte a
lui. Il legno sottostance cedette e la sbarra finì tra le
mani di Garria. Le
guardie rimasero perplesse e, a vedere il prigioniero, fuggito dalla
cella e
con un’asta di ferro in mano, ebbero un attimo di esitazione,
conoscendo la sua
reputazione. Beltza, svegliato dal frastuono, fece appena in tempo a
voltarsi
che Garria aveva già steso i due uomini e rubato il cavallo
di uno di essi. Il
viandante si lanciò in una corsa sfrenata verso le prigioni
e il nero cacciatore,
imprecando, lasciò le redini, sganciò
l’asse del carro dal giogo e seguì la sua
preda in groppa al cavallo.
<< Dannazione, non succede mai niente di interessante
qui! Mi sono
arruolato per combattere, non per fare la guardia a questi…
cani. >>
Bofonchiò delusa una giovane guardia. Il compagno,
più anziano, lo confortò
sull’importanza del loro compito ma qualcosa distrusse
quell’aria di
tranquillità: la porta d’ingresso alle miniere
venne sfondata e subito un
bastone ferrato spaccò la rotula del più giovane
per poi urtare il petto del
più vecchio. Un fantasma avvolto nel nero scivolò
nella prigione, percorrendo
gli stretti budelli con velocità e precisione. Tutte le
guardie che
intralciavano il suo cammino venivano sbattute contro le pareti della
miniera o
messe a tacere con mirati colpi alla gola. Garria correva con decisione
ed era
ormai lontano quando Beltza entrò. L’anziana
guardia, ancora in grado di
parlare, rivelò al cacciatore la posizione della cella della
donna in questione
e gli indicò la strada più breve. Beltza,
percorrendo i cunicoli, pensò che
Garria avesse già interrogato un carceriere in precedenza o
forse aveva
contatti all’interno del corpo guardia o magari avesse
prestato servizio
proprio in quel luogo poiché non era possibile che, dalle
parole del vecchio,
il viandante stesse attraversando la prigione senza esitazioni, quasi
sapesse
la via giusta per giungere dalla sua sposa. Poco importava
però, era arrivato e
Garria non era presente. Beltza si prese un secondo per riprendere
fiato, fissando
il cunicolo. Si voltò poi verso la cella e,
nell’oscurità, vi era in effetti
una donna. Una bellissima donna dai capelli rossi e ricci, coi boccoli
che
cadevano, sporchi, oltre le spalle. Le grida dei prigionieri vicini si
fecero
alte: chiedevano pietà, aiuto, cibo e qualcuna ebbe il
coraggio di insultare la
donna e il cacciatore. Quest’ultimo si voltò e
ringhiò a tutti quanti come un
cane feroce. Calò il silenzio e la paura
attanagliò le membra di chi lo aveva
riconosciuto ma la donna, spaventata dal volto dell’uomo, non
aveva proferito
parola, non pianse e non si mosse. Il cacciatore restò
sorpreso da tanta
fermezza di spirito, tale moglie tale marito. Si aggrappò
alle sbarre e scrutò
nella cella, per vedere meglio, ma qualcosa di silenzioso si
schiantò sul suo
fianco. Nel cadere a terra, lo sguardo cadde sulla figura di Garria che
lo
aveva colpito con entrambi i piedi. Il dolore lancinante gli
impedì di alzarsi
prontamente ed ebbe l’impressione d’essere colpito
da un momento all’altro, ma
ciò non avvenne. Garria era attaccato alle sbarre e la donna
gli si era messa
di fronte. I due si guardarono e gli occhi del freddo viandante parvero
subito
sciogliersi in lacrime. La donna carezzava il viso del marito e le
labbra di
quest’ultimo finalmente si aprirono:
<< Sono qui, amore. Non preoccuparti, ti
tirerò fuori. >>
Beltza non poté credere alle sue orecchie, finalmente udiva
la voce del
guerriero. Le sue congetture erano esatte ma qualcosa non quadrava: si
sentiva
fremere dentro. Una strana sensazione aveva pervaso le sue membra,
senza dargli
tregua.
Una voce però ruppe quel fatidico momento:
<< Eccolo! E’ qua! >>
Una guardia, dal fondo del corridoio, incoccò una freccia e
rilasciò la corda.
Il dardo sibilò nel cunicolo e, tra le urla spaventate degli
altri prigionieri,
risuonò forte quella del cacciatore:
<< Noooooooo! >>
La freccia si era fermata nel petto di Garria, poco sotto al cuore. Del
sangue
iniziò a colare lungo il fianco del viandante. La giovane
donna si portò le
mani alla bocca e delle lacrime pulirono le sue guancie, piene di
polvere. La
rabbia del cacciatore era inesprimibile. Si alzò rapido ed
estrasse un coltello
dalla cintola. Il pugnale volò attraverso il budello di
roccia e finì tra le
scapole dell’arciere. Nel momento in cui il corpo cadde
morto, altre guardie
avevano raggiunto la postazione. I loro sguardi si fecero coraggiosi,
poiché né
il cacciatore né il viandante potevano nulla in uno spazio
così ristretto. Ma i
loro cuori furono smossi da un’onda di rabbia:
<< Lui è mio! >>
Beltza urlò quasi fosse un demone: il suo sguardo era
contorto dall’ira e le
sue fattezze, già mostruose, erano ancora più
raccapriccianti. I prigionieri
vicini piansero o tacquero, nella paura d’essere ammazzati, e
a qualche guardia
iniziarono a tremare le gambe. Ma la situazione sembrò
precipitare bruscamente.
Beltza si sentì spingere alle spalle; cadde a terra. Il
cacciatore aveva
dimenticato del passaggio dal quale lui stesso era giunto fin
lì. Tre guardie
sbucarono alle sue spalle e le altre, incoraggiate
dall’arrivo dei rinforzi, si
gettarono nella mischia.
Garria riprese il suo corto bastone di ferro e lo menò sul
naso di uno dei
soldati. Beltza, rialzandosi, tagliò la gola di un altro. Le
forze iniziarono
ad abbandonare il viandante e i due nemici, il cacciatore e il
viandante,
furono costretti a combattere fianco a fianco. Uno per proteggere se
stesso e
l’amore della sua vita; l’altro per proteggere la
sua preda e la libertà che
gli avrebbe donato il re per il conseguimento della missione. Ma
qualcosa
continuava a formicolare dentro Beltza.
Le corte lame ebbero la meglio sui soldati; i movimenti flessuosi e
precisi del
cacciatore incontrarono spesso la carne e i tendini dei nemici ma il
corto
bastone iniziava a creare non pochi problemi. Garria poteva solo
parare, privo
di forze. Non c’era spazio per caricare i colpi e fu
costretto in un angolo,
dove una guardia riuscì finalmente a ferirlo alle costole.
Un’altra recise il
tendine di una spalla e un’altra ancora lo colpì
con l’elsa al naso. Il
viandante cadde a terra, ricoperto di sangue e sul punto di svenire o
morire.
Una lama stava per cadere sui suoi occhi ma un’altra
intervenne e recise la
mano della guardia urlante. Beltza stava dando prova di tutta la sua
ferocia
abbattendosi sulle guardie in arrivo con forza devastante. Il cunicolo
fu sul
punto di colmarsi per la quantità di cadaveri in uno spazio
così ristretto.
Ma caduta l’ultima guardia, il cacciatore prese a respirare
affannosamente. Non
era affatto stanco ma qualcosa stava divagando nella sua mente. Tutte
le sue
scorrerie, i suoi furti, gli omicidi, gli stupri, gli inganni e le
frodi, gli
volavano davanti agli occhi. Poi un bagliore cancellò quelle
losche immagini e
ai suoi occhi si mostrò la figura di Garria. Il viandante
aveva dato prova
d’essere un uomo d’onore. Valoroso e instancabile
combattente, aveva sconfitto
centinaia di soldati pur senza ucciderli. Aveva perseguito il suo scopo
con
successo: arrivare dalla sua amata, rapita e imprigionata dal suo
odioso
sovrano. Beltza ripensò alle sue di motivazioni.
Perché aveva fatto tutte
quelle angherie a tutte quelle persone sconosciute? Per soldi, si
giustificava,
o per fama, forse? O semplicemente perché il suo aspetto non
era gradito alla
gente del suo villaggio? Le sue riflessioni però furono
interrotte dal pianto
della donna:
<< Salvalo. >>
Sussurrava in lacrime. Beltza, dal cuore di pietra, ebbe un colpo al
cuore. Ne
aveva viste di donne in quello stato, anche a causa sua, ma non le
avevano mai
fatto quell’effetto. Fissò il suo rivale,
ricoperto di sangue. Aveva sempre
ucciso uomini, fin dalla maggiore età, ma questo non era un
uomo qualunque. Era
la sua nemesi per eccellenza. Avevano principi morali totalmente
diversi ed era
stato l’unico, in anni e anni di vita criminosa, ad aver
tenuto testa al grande
Beltza, signore dei demoni.
Si chinò su Garria ed estrasse uno dei pugnali. Tolse la
freccia da sotto al
cuore e vi posizionò la punta del suo coltello, sullo stesso
punto. Poi parlò:
<< Non posso salvarlo. E’ ridotto troppo male.
Morirà. >>
La donna si disperò ancora di più e chiuse gli
occhi, pieni di lacrime. Beltza
continuò:
<< Guardalo, guarda tuo marito. Ha affrontato molti
soldati, ha sconfitto
Zuria, il Santo Campione, ed ha tenuto testa a me. Mi è
sfuggito da sotto al
naso e ha più volte rischiato di ammazzarmi.
Quest’uomo sta morendo con quanto
più onore possibile. >>
La donna continuò a piangere, sussurrando parole
d’amore al suo morente sposo.
Garria rispose:
<< L’ho fatto solo per lei. Ho versato sangue
per amore, ed ora sono
ricoperto dal mio sangue e morirò. Con la mia morte sarai
libero, valoroso
demone. Prenditi cura di lei, te ne prego. >>
Il cuore di Beltza fece per uscire dalla cassa toracica. Gli occhi del
cacciatore si fecero lucidi e i suoi pensieri si bloccarono.
<< Hai commesso molte atrocità in passato. Ma
in fondo sei un uomo abile
ed intelligente. Prendi la mia vita, prendi la tua libertà e
usala per donare a
mia moglie un’altra vita. Che non marcisca in queste dannate
celle. Ci sei
passato anche tu, sai quanto sia orribile vivere e morire qui dentro.
Lei non
ha colpa se io ho disertato. >>
Beltza non volle saperne oltre. Strinse i denti, si morse le labbra e,
con mani
tremanti, affondò il coltello nella carne, fin dentro al
cuore. La risposta del
nero cacciatore fu una:
<< Lo farò. >>
Il vecchio re Rac sedeva tranquillo sul suo trono d’ebano.
Gli occhi si
illuminarono alla vista del suo sicario preferito, seguito da un
lenzuolo
bianco su un piccolo carretto.
<< Dunque? >>
Fu l’accoglienza del re. Beltza portò il carretto
e il suo orribile volto di
fronte al sovrano e lentamente scostò il velo bianco
rivelando il volto di
Garria, ormai freddo ma con una strana espressione.
<< Oh, meraviglioso! Hai dato pieno compimento alle mie
aspettative! Ed
io darò compimento alle tue, che non si dica che non sono un
uomo d’onore.
>>
Il sorriso beffardo del re non convinse il cacciatore. Ma Beltza non
era così
stupido da farsi cogliere impreparato. Se un re voleva invadere i regni
alleati, tradendoli, perché avrebbe dovuto concedere la
libertà ad un criminale
con una taglia sulla testa superiore alla somma di qualsiasi altro
criminale in
circolazione?
Il re diede il segnale ai suoi soldati che avrebbero dovuto ucciderlo,
ma ciò
non avvenne. Anzi, una delle guardie avanzò lentamente e
consegnò la propria
balestra al nero cacciatore.
<< Tradisci i tuoi alleati, fai giustiziare i tuoi stessi
uomini solo
perché si rifiutano di combattere nel nome di una causa
così stupida e,
soprattutto, non mantieni la parola data con un individuo come me. Tre
errori
che ti porteranno alla morte. >>
La balestra venne puntata in direzione del re, il quale, vedendo che
nessuno
aveva la benché minima intenzione di salvarlo, si
rannicchiò spaventato sul suo
trono.
Beltza ordinò:
<< Ora io andrò via e porterò con
me una donna. Non ti ammazzo perché
voglio che tu tolga dalla circolazione la taglia sulla mia testa. Mi
hai
promesso e negato la libertà e io me la prenderò
con la forza. >>
La balestra cadde a terra e Beltza girò i tacchi e si
diresse verso l’uscita,
trascinando con sé il carretto funebre.
<< Darò una degna sepoltura a
quest’uomo. Prenderò la donna e sparirò
per
sempre da queste terre. Se vedrò ancora un avviso di taglia
e se sentirò ancora
parlare di te e delle tue stupide decisioni, tornerò a
staccarti quella lurida
testa dal collo. >>
Le guardie fecero passare il brigante, sogghignando. Nessuno aveva mai
parlato
in quel modo al loro re e sapevano benissimo che d’ora in
avanti sarebbe
cambiato tutto; il re era stato umiliato e il cacciatore di uomini
aveva miracolosamente
trovato redenzione.
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