Stato di grazia.

di Gatto Magro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non capitolo: Avvertimento e disclaimer. ***
Capitolo 2: *** Cappuccetto Rosso piange e canta. ***
Capitolo 3: *** Due, strano pensiero, e rose azzurrine. ***
Capitolo 4: *** Emozioni più o meno sciolte; un passo, un polpastrello alla volta. ***
Capitolo 5: *** Fantasma: conto alla rovescia. ***
Capitolo 6: *** La prima volta il mondo sembra sbriciolarsi. ***
Capitolo 7: *** A-normal activities. ***
Capitolo 8: *** Ripetersi. ***
Capitolo 9: *** E le batterie dei sassolini magici sono da cambiare. ***
Capitolo 10: *** Rosafragola e odori da lontano. ***
Capitolo 11: *** Verdastri Canti di Natale. ***
Capitolo 12: *** Dark Boom Honey. ***
Capitolo 13: *** Asfodeli da armadio. ***
Capitolo 14: *** Tredici passi falsi: scarpe in scivolata verso la Discesa. ***
Capitolo 15: *** Oh you, you set my soul alive. ***
Capitolo 16: *** A quando la collisione, Capitano? ***
Capitolo 17: *** Placidi Incubi. ***
Capitolo 18: *** Termosifoni gelidi e il Preludio di una Cattiva Fortuna. ***



Capitolo 1
*** Non capitolo: Avvertimento e disclaimer. ***


 
 
 
O

there be players

that I have seen play,

that have so strutted

and bellowed

that I have thought

some of Nature’s journeymen

had made men,

and not made them well,

they imitated humanity

so abominably.

 
 
 


 
Shakespeare, Hamlet.

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Capitolo 2
*** Cappuccetto Rosso piange e canta. ***


Aprile 2002.
Penombra.
Il tonfo morbido e claustrofobico delle tende che, slegati i lacci di cuoio che le reggono, cadono sul pavimento. Il rumore metallico degli anellini che scorrono sulla barra portante d’ottone smangiato dall’umido, la stanza che lentamente si oscura, le ombre che si allungano sulle assi del pavimento fino ad abbracciarsi e fondersi fra loro – gambe, sedie, teste, piedi, panneggi, i lunghi steli neri delle lampade.
Il rumore di un corpo accanto al suo, il respiro di suo fratello che si fa più profondo e silenzioso mentre si siede sul pavimento.
La voce.
La voce e la magia che trasuda da ogni sillaba, pronunciata con gli ultimi strascichi di quello strano accento del tutto scomparso dall’intonazione dei nipoti, i due bambini seduti ai piedi del letto. La voce li incatena alle ombre, toglie loro il respiro e glielo ridona a proprio piacimento, stuzzica il battito cardiaco perdendosi in eco fra le strette pareti della stanza e per ritornare ad accarezzare la loro pelle d’oca, calmarli, soffiare un indugio fra i loro capelli e infilarsi dentro le ossa, scorrere insieme al loro sangue e a una vaga sensazione di terrore e una ancora più forte di improvvisa – e del tutto feticcia- vecchiaia e maturità. Fintanto che la voce suona i due bambini perdono se stessi, si spogliano dei loro corpi incredibimente forti e fragili, l’anima si scolla dalle spalle magre, diventano qualcos’altro, qualcun altro, diventano vecchi e muoiono, combattono e vincono, cadono e si sbriciolano in cenere e pezzi di marmo, gioiscono e sentono il fuoco pervadergli il petto, si disperano e amano con tutto il cuore figure evanescenti dai lunghi capelli che danzano nelle loro menti rapite.
E ascoltano, soprattutto. La voce inonda i loro sensi e insegna loro ad aprire gli Occhi.
Imparano a vedere, in una stanza buia soffocata dall’odore di incenso.
Corrugano le piccole fronti lisce, serrano le palpebre, non comprendono, vedono le figure cambiare forma e consistenza e danzare vorticosamente, disperdersi e sfaldarsi in stelle brucianti quando la voce si fa più lieve, incaspicano e cadono e qualche lacrima di impotenza riga le loro guancie – di nuovo giovani.
La voce urla e li atterrisce, li sbatte al suolo e li percuote vibrando nelle costole, fino a farsi più morbida e carezzevole aiutandoli a rialzarsi con un bacio al sapore di cera, passato e aria trasparente che attraversa i secoli.
In quell’aria trasparente, immobile fra l’occhio umano e il tocco del materiale, è sospeso il mistero del loro sangue.
 
Novembre 2012
 C’è una strada semibuia, anche se sono solo le cinque del pomeriggio le nuvole sono talmente dense e basse che qualcuno ha deciso di accendere i due lampioni che costeggiano i marciapiedi. Il risultato non è un granché, perché il fascio di luce arancione sembra quasi grigio, sfaldato in mezzo alla pioggia torrenziale che batte l’asfalto.
C’è una ragazza, anche lei inglobata in una cappa scura di gocce, cammina tranquillamente confondendosi nell’acqua che le rimbalza addosso, la felpa rossa ormai troppo bagnata per assorbire ancora pioggia. Il tessuto è incollato alla pelle, se solo fosse meno spesso le si potrebbero contare le vertebre sporgenti, l’angolo aguzzo delle scapole e la linea delle clavicole, ma si indovina solamente il nodo in cui ha stretto i capelli sulla nuca, che sporge dal cappuccio tirato sulla testa.
C’è una strada e c’è una ragazza, nient’altro che quella figurina rosso sangue a macchiare di un colore spento il grigio di questo venerdì pomeriggio.
Chiamiamola S, la ragazza. La strada non ha nome, la pioggia ha risucchiato anche l’insegna della via insieme alle case che si affacciano intorno: sparite, come fra poco lo sarà il poco che si scorge della luce dei lampioni. Accesi alle cinque del pomeriggio? Che assurdità, sta pensando la ragazza, anzi nemmeno lo pensa, è un qualcosa che tutto il suo corpo dice interiormente, un’eco che si scontra fra i suoi muscoli formicolanti e il naso che gocciola, salta fra le ciocche sottili di capelli raggrumati dall’umidità e si dondola sulle ciglia, facendone sbavare il trucco sotto le palpebre.
Ancora qualche passo. Cammina, S, nelle sue orecchie rimbomba il grattare pesante di un basso, canta muta una canzone che non c’entra nulla con la pioggia, con la strada e con il buio: canta con gli occhi accesi e le labbra che sorridono nonostante must have stabbed her fifty fucking times, I can’t believe it non sia una frase che farebbe esattamente sorridere la donna che la guarda da una finestra lì davanti, ma mancano solo due passi, un passo, e anche la donna e la sua finestra con le tende arancioni sono scomparse dalla scena, per cui non è importante che cosa farebbe o non farebbe sorridere una persona che è sparita. E poi, S non ha alcuna malsana propensione alla violenza. Non accoltellerebbe nessuno, anche se a pensarci talvolta vorrebbe prendere a botte quel deficiente di Benjamin, o suo fratello Brian. Ma non l’ha mai fatto, perché sono entrambi più grossi di lei, e in ogni caso S ha sempre saputo supplire alla sua scarsa forza fisica con una serie di astute vendette.
Ripped her eyes out right before her eyes, eyes over easy canta S alla pioggia in un sibilo di parole, da fuori, un grido di uno strano timbro di voce a metà fra lo stridulo e il profondo, dentro. 
Non c’entra assolutamente nulla, la canzone. Ma almeno riesce a levarsi dalla testa l’immagine di Brian con la faccia sbrindellata, gli occhi pesti e la mandibola storta, i denti sporchi di sangue, il respiro mozzato.
Soffia alla pioggia, S, e le sembra di aprirsi un varco di fiato fino alla fine della via, dove all’improvviso il marciapiede si appiattisce sull’asfalto, si sbriciola, si copre di un’erbaccia giallastra, scavalca una bassa staccionata di legno ed entra nel parco.
S si china perché non è della giusta bassezza per entrare dritta nella casetta di assi verniciate di rosa nel parco, e si siede sul tappeto umido e grumoso che costituisce il metro e mezzo quadro di pavimento della casa giocattolo che non vede mai molti bambini, per cui non si stupisce troppo di ospitare una ragazza di sedici anni bagnata fino all’osso, con i capelli corti, neri e spettinati e il trucco sbavato intorno agli occhi chiari, che si appoggia con la schiena alla parete e attira le ginocchia al petto posandovi sopra il mento.
Ha spento il lettore musicale, che adesso riposa silenzioso nel marsupio sformato della felpa che la ragazza indossa con una grazia un po’ spaurita, visto come le cade larga e pesante sulle spalle gracili.
- Ciao Callie. Scusa, sono in ritardo, ma mi piace la pioggia e andavo piano per sentirla di più, ecco.
- Tra poco è ora di cena. Hai fame tu? No, non tanta, io. Mi fa schifo vedere il sangue, te l’ho detto anche l’altro giorno che sono corsa fuori di casa e stavo per vomitare sul marciapiede, e allora adesso ho tipo lo stomaco chiuso, perché ho visto un sacco di sangue.
- Papà ha picchiato Brian un’altra volta, Callie. Forte. Brian aveva la bocca piena di sangue, i denti marroni, e papà aveva il suo sangue sulle mani, proprio sulle nocche perché gli ha tirato un pugno.
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
- Ti da fastidio se piango un po’, Callie?

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Capitolo 3
*** Due, strano pensiero, e rose azzurrine. ***


Maggio 2002

La bambina ha sei anni quando la sua mamma le regala il primo rossetto.
In realtà è un lucidalabbra non troppo diverso dal rosa naturale della bocca della piccola, ma alla bambina sfugge la differenza fra il tubetto sgargiante e lucido che tiene fra le mani e il piccolo gioiello rettangolare, nero e dorato che la mamma tira fuori dalla borsetta quando deve uscire. Le sembra di essere più grande, e per la prima volta nella sua vita si rende conto di essere diversa dal fratello, che sta pasticciando con le candeline sparse sul tavolo attorno alla torta e che ha un anno più di lei.
Quella improvvisa realizzazione la spiazza e si sente rotta a metà, come se si fosse accorta solo in quel momento di essersi dimenticata di vestirsi, o di non avere le gambe attaccate al corpo come la sua vecchia bambola Molly. Orripilata abbassa lo sguardo sulle proprie gambette magre e coperte di lentiggini, che si trovano esattamente dove dovrebbero essere, ovvero spuntano proprio sotto l’orlo della gonna.
Eppure lei continua a sentirsi mutilata di una componente importante della propria integrità.
Ha sempre considerato il fratello un’estensione del suo corpo, un organo attraverso il quale lei vedeva, parlava, e si muoveva; i pensieri dalla sua testolina attraversavano quello strano spazio vuoto che effettivamente separava lei e Brian, ma riprendevano il loro corso ricomparendo nel fratello in un gesto, una reazione o una risposta. Le sembrava anche che dei filamenti di nervi li tenessero uniti una all’altro, e per lei appariva naturale pensare che, se quando il fratello maggiore si sbucciava un gomito, il suo prendeva a pizzicare fastidiosamente, quel gomito sanguinante dovesse per forza essere un po’ suo.
Sulle prime cerca di costringere Bri a provare il lucidalabbra, e gli ostinati rifiuti del fratello fanno ridere i genitori e il primogenito Collins e feriscono la bimba, che non sa nemmeno quali parole usare per chiedere spiegazioni.
- Ma Bri è un maschio, tesoro! – esclama la mamma scuotendo la testa, intenerita dalla faccina dolorosamente sorpresa della figlia. Eppure la bambina sa benissimo che non è una questione di maschio e femmina; piccola com’è, quella le sembra una differenza assolutamente marginale di fronte al baratro che le si è aperto proprio davanti ai piedini scalzi. E’ più che altro un problema di identità, di presenza.
Improvvisamente comprende che le loro vite non sono la stessa medesima corsa, un ricalco perfetto tracciato senza sbavature; prima o poi lo spazio sospeso in mezzo ad esse si farà sempre più marcato fino a separarle in modo netto.
 

Novembre 2012.

S ha camminato per quasi cinque chilometri, con i piedi che seguivano una strada impressa nella memoria dei muscoli. Dopotutto i quartieri che ha attraversato sono quelli che vede ogni giorno, così come le strade, i giardini che si affacciano sui marciapiedi intralciandoli con le loro siepi rigogliose, gli incroci e le vie sono gli stessi che percorre così spesso da non prestare davvero attenzione quando cammina.
Il minuscolo parco dove si trova adesso è circondato da condomini massicci piuttosto alti e nel complesso sgraziati che lo nascondono agli occhi dei passanti, infilato in un angusto spazio vuoto in mezzo ai parcheggi privati e agli ombrosi giardini sul retro, grandi come fazzoletti e di quel colore quasi azzurro delle piante inselvatichite che si arrampicano sui muri di mattoni incrostati.
Ma se camminiamo all’indietro, tenendo gli occhi sulla casetta rosa dove sta accucciata S, pestiamo le orme che lei ha lasciato sull’erba con le sue piccole scarpe da ginnastica di tela scolorita, tendiamo le braccia dietro di noi, ecco, un altro passo, arriviamo a toccare la bassa staccionata blu che racchiude il parco. Scorriamo con le dita sull’asse, verso destra.
Un lucchetto. Arrugginito com’è, dobbiamo fare un po’ di forza per far scattare il cilindretto fuori dalla chiusura, e quando ci riusciamo ci rimangono sui polpastrelli qualche scheggia di ruggine e un odore forte di metallo scadente.
Un altro passo all’indietro; il parco sembra già più piccolo mentre entriamo nell’ombra del condominio con la facciata di stucco e un grosso melo con le radici che sbucano oltre la recinzione. Spariscono i cespugli di rose e di erbacce che si sono intrecciati alle assi marcescenti della recinzione. Sparisce l’altalena di legno, inutilizzata da quando i nuovi edifici hanno cominciato a masticare il perimetro del parco, e dondolandosi si toccano con i piedi le ringhiere dei terrazzi di fronte.
Due passi ancora e la casetta è soltanto un punto di colore sbiadito dalla pioggerellina che ha sostituito l’acquazzone, in uno scorcio del parco che intravediamo in mezzo ai fianchi delle case intorno a noi. L’aria odora un po’ di muffa. Il cane dell’uomo che abita nella casa a sinistra abbaia forte dal secondo piano; non riesce più a camminare e passa il giorno ad abbaiare alle ombre che entrano dalle finestre.
Altri cinque passi ci bastano per essere di nuovo sul marciapiede, fuori dalla cerchia di case, alle spalle una strada larga e vuota, e possiamo solo immaginare S che dice, tra i singhiozzi:
- Non è che muore, vero Callie?
Ha smesso di piovere, e qualche timido raggio di sole traccia i contorni del quartiere. Siamo proprio di fianco alla panchina della fermata dell’autobus; facciamo finta che ne passi uno proprio in questo momento, blu, che odora di persone e sigarette e pelle vecchia, facciamo finta di salire a bordo e di non dover pagare il biglietto, di scivolare sui tappetini grigioverdi e di sederci in uno dei posti liberi. Tra cinque chilometri, davanti a una casa rossa con gli infissi dipinti di bianco, fingeremo che l’autobus freni a un’inesistente fermata e allora potremo silenziosamente entrare dalla porta che S ha lasciato socchiusa, per non fare rumore o forse sapendo che qualcuno, non sa bene chi, avrebbe avuto voglia di entrare per un qualche motivo che sarebbe un peccato dire adesso. 

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Capitolo 4
*** Emozioni più o meno sciolte; un passo, un polpastrello alla volta. ***


Aprile 2002

Di nuovo nella stanza semibuia in fondo al corridoio, come succede molto spesso da qualche mese a questa parte.
Ha imparato a trovare familiarità negli oggetti che sembrano rovesciarsi sul pavimento da un momento all’altro e all’atmosfera gravida di odori e forme, ma non nella presenza della nonna seduta sul letto come se fosse un trono e lei la regina di quel reame apparentemente confinato in una stanza.
E poi è sola, questa volta.
La pioggia leggera ticchetta contro i vetri delle due ampie finestre nascoste dalle tende pesanti.
- Finalmente. – dice la voce scivolando dalle labbra sbiadite dell’anziana donna sul letto. E di chi altro potrebbe mai essere?
La bambina tace, intimidita.
- Aspettavo che accadesse, prima o poi. E’ normale, bambina mia. Sei diversa da tuo fratello e lui è diverso da te.
- Siete uno stesso seme, ma distinti al suo interno da quando non eravate che germi. I vostri sensi si completano ma sono opposti. Indipendenti ma bisognosi dell’altro. Ora, - la nonna curva la schiena per avvicinarsi al viso della nipote, che rimane paralizzata a osservare quel volto immenso, eterno e aristocratico. – ora, chissà se… chi di voi due accoglie, chi di voi due da la caccia?
Un’ombra attraversa gli occhi scuri come il petrolio della nonna e la porta anni luce di distanza dalla camera, dal letto, dalla bambina ancora immobile ritta in piedi al suo fianco, alla distanza di un paio di passi che non verranno mai compiuti.
S capisce che deve levarsi di torno e niente la solleva di più della luce in corridoio una volta che si tira la pesante porta di legno alle spalle, chiudendola.
 

Novembre 2012.

Cinque chilometri più tardi, o sarebbe meglio dire indietro, un raggio di sole attraversa la finestrella quadrata incastonata nella porta d’ingresso, si divide in quattro parti, tagliata dalle liste di legno chiaro appoggiate al vetro, trapassa la stoffa sottile di una piccolissima tendina arricciata e infine cade sul tappeto scuro ai nostri piedi.
La porta non emette suono mentre la accostiamo perché S la ritrovi come l’ha lasciata.
Lasciamo perdere il ronzio della televisione ancora accesa in salotto, la luce azzurrina che si riflette sul pavimento lucido e sulla superficie di bronzo del complicato portaombrelli affiancato dai due vasi ornamentali che superiamo, dirigendoci verso le scale proprio di fronte a noi.
Saliamo e per adesso possiamo ignorare le foto appese alle pareti bianche sporche di impronte di mani, piccole orme di dita aperte piazzate prima di uno scivolone, o nel bel mezzo di una caduta. Nelle dita grigiastre che decorano i muri delle scale indoviniamo gli strascichi del sonnambulismo di Brian quando aveva sette anni, o gli incubi notturni che svegliavano una S bambina e la facevano scendere in cerca dei genitori con il cuore che martellava nelle tempie, o la fatica di Collins nell’arrampicarsi fino al bagno dopo un allenamento di calcio.
Ecco, seguiamo il fantasma di Collins adolescente che percorre il corridoio, luminescente, invisibile quando un occasionale spicchio di sole pomeridiano sbuca dalle stanze, ma ecco che riappare sotto quella mensola impolverata, con la schiena storta sotto il peso della sacca e di tutto il fango che gli si è appiccicato addosso, mescolato con il sudore e il tipico odore di un diciassettenne sfinito e carico di adrenalina. Il fantasma si ferma davanti a una porta del tutto uguale alle altre, con l’unica differenza che questa è chiusa, e c’è qualcosa che macchia la maniglia di metallo, qualcosa di scuro e secco, uno striscio come di vernice rappresa. Il fantasma non si accorge di nulla, sudore ormai asciutto gli cola davanti agli occhi e in ogni caso quelle macchie non esistono, per lui. Appoggia la mano iridescente sulla maniglia, e se quella sporca di sangue del presente rimane perfettamente immobile, passando attraverso le dita inconsistenti di un ricordo, quella nel mondo di Collins si abbassa e lui scompare dentro la stanza.
Ci avviciniamo. L’odore del fantasma è svanito riassorbito dal passato. Qualcuno allunghi una mano e apra la porta, per favore, perché toccare quel sangue mi sembra poco igienico pur non essendo qui in modo esattamente fisico.
La maniglia è fredda al tatto, e resta bloccata.
Non è un problema; siamo fantasmi anche noi.
In questa stanza la prima cosa che colpisce è: la confusione. La confusione non in senso letterale, perché è un bagno, come tutti i bagni che conosciamo, piuttosto spoglio e luminoso. Intendo invece quella sensazione che fa aggrottare la fronte per qualche attimo, durante il quale facciamo mente locale guardandoci lentamente intorno finché il nostro cervello elabora finalmente una risposta, e la comprensione attraversa in un battito di ciglia la nostra mente, una lucidità riacquistata tutt’un tratto perché come abbiamo fatto a non accorgercene subito?
La finestra della parete opposta alla porta è socchiusa, e un’aria leggera spinge in un alito di danza le sottili tende bianche che scendono morbidamente fino al pavimento coperto di grandi piastrelle rettangolari e lucide, immacolate.
Improvvisamente: una goccia scura su una piastrella è la prima di una lunga scia che spezza il biancore statico della stanza.
Una pila di asciugamani profumati e lavati di fresco attende sopra uno sgabello con la seduta di plastica trasparente.
Improvvisamente: non sono cinque. Sono quattro. Un lembo dell’asciugamano in cima alla pila è scostato, ripiegato maldestramente come se fosse stato strappato da un movimento brusco.
Al centro della stanza, una scarpa. O meglio, un piede che calza una scarpa, piede e scarpa senza proprietario, se non una caviglia nuda che si infila nell’orlo sfrangiato di una solitaria gamba di un paio di pantaloni. La gamba incontra la scia di macchie sulle piastrelle e insieme si infilano dietro il lavabo. Siamo in piedi sulla porta, da qui non possiamo vedere dove si fondono gocce e gamba, ma possiamo ascoltare il respiro irregolare e frammentato da qualche colpo di tosse rauco che proviene da lì dietro. Quel respiro che sembra uscire a forza dalla gola di qualcuno, aggrappandosi alla carne per trattenersi nei polmoni.
A un tratto il respiro si interrompe, e le nostre braccia si ricoprono di pelle d’oca. 
Ci catapultiamo al centro della stanza e davvero il respiro non si sente più, ma forse è solo il pompare violento del nostro cuore ad assordarci.
Ci inginocchiamo sotto il lavandino, tendiamo il collo verso lo spazio di muro vuoto fra noi e il termosifone.
Brian è semisdraiato contro la parete, la testa appoggiata all’indietro e le spalle affondate verso il pavimento. Una gamba è piegata sotto il corpo, l’altra è stesa sulle piastrelle bianche.
Il suo viso è per metà coperto di sangue, l’orbita destra sta diventando viola e lo zigomo è un’ombra nera tendente al verdastro. L’angolo destro della bocca è spaccato, un grumo di sangue rappreso gli sporca le labbra e il mento. È immobile.
In questo preciso istante S ha il volto affondato nelle maniche della felpa e la voce le esce spezzata da un paio di singhiozzi:
- Non è che muore, vero Callie?
Le dita di una mano di Brian si contraggono in uno spasmo seguito come un’eco dai muscoli del collo, il ragazzo raddrizza la testa e tossisce sputacchiando minuscole gocce di un rosso intenso, simile alle pennellate oblique del tramonto che tagliano la stanza.
Con gli occhi chiusi, lentamente, si mette seduto più dritto, scivolando con le mani nelle tracce di sangue che ha lasciato trascinandosi fin lì.
L’altra metà del suo viso è esattamente dello stesso colore della parete dietro di lui, come se il muro lo stesse assimilando o il ragazzo stesso tentasse di inglobarcisi, data la pesantezza con cui è accasciato sul pavimento. Il respiro torna, lento, fiacco, muto.
Brian sbatte le palpebre, le ciglia chiare e lunghe vibrano prima di separarsi lasciando intravedere un millimetro di occhi gonfi, il bianco iniettato di sangue. Restiamo a guardarlo mentre riprende conoscenza, un pezzettino di corpo, di pelle, di polpastrello alla volta.

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Capitolo 5
*** Fantasma: conto alla rovescia. ***


Novembre 2012.

Dicevamo che sta ormai tramontando. Non succederà nulla di interessante in questa casa per le prossime tre o quattro ore, perché in fin dei conti è ancora giorno ed è nella notte che arrivano le cose buie. Così ci sediamo sul bordo della vasca – immacolato, questo, e lucido nella luce baluginante del sole che muore- e vediamo Brian a terra muoversi a scatti, velocemente, come se qualcuno avesse aumentato la velocità dell’azione in un film; alza un braccio, si tocca il viso, fa smorfie di dolore che durano un battito di ciglia, e intanto si è già alzato – le sue mani si stampano sulla superficie smaltata del lavandino, rosse - , il secondo successivo la sua testa è un’ondata di gocce d’acqua che gli incollano i capelli sulla fronte e sul collo, un secondo asciugamano scompare dalla pila, e la porta si chiude con un piccolo scatto.
Al piano di sotto, il riflesso azzurrino del televisore si spegne sul parquet. Si sente il cigolio delle gambe della poltrona e un attimo dopo il suono di una seconda serratura che si chiude si diffonde nella casa, salta i gradini, e prima di raggiungerci nel bagno sfiora lievemente la prima porta del corridoio, a destra. Una chiave gira, un’ombra sguscia fluida fino all’ingresso e riapre la porta, accostandola, poi scorre nuovamente su per le scale e si infila nella stanza, e la chiave la rinchiude dentro.
Ogni nostro respiro dura un’ora. Il sangue sul pavimento e sul lavandino è secco e scuro e il suo puzzo ristagna nella stanza, nonostante la finestra sia ancora aperta. Vi da fastidio?
Il quarto respiro si dissolve nell’aria mentre il tempo ricomincia a scorrere normalmente; dal piano di sotto giunge l’ennesimo scatto di una porta che si chiude, ma questa è la volta buona, una volta interessante, una volta che serve alla nostra storia.
Benvenuta, notte.
 

Ottobre 2010.

Madeline Hannover non può dirsi troppo contenta del legame stabilitosi fra i suoi figli e quelli dei vicini di casa. Benjamin ed Eric hanno preso a passare ogni minuto libero insieme a quello strano ragazzo che finge di essere muto e alla sua sorella minore, la quale secondo Madeline parla anche troppo. La infastidisce sorprendere la ragazzina impegnata a dialogare silenziosamente con qualcuno di invisibile e inesistente, per poi interrompersi bruscamente e sorridere in modo esagerato appena si accorge di essere osservata. O il modo in cui tiene lo sguardo fisso o inclina la testa verso sinistra con aria assorta, come se stesse davvero ascoltando qualcuno parlare.
A Maddie sembra di venir presa in giro, perché non crede che quella ragazza faccia sul serio, ma trova inquietanti entrambi i fratelli Turner anche se non ammetterebbe mai di essere spaventata da due ragazzini un po’ tocchi. La mette a disagio il modo in cui Eric racconta tutto ciò che fanno e dicono i Turner; all’improvviso suo figlio sembra pensare di star rivelando troppo e si cuce la bocca ad un’occhiata severa di Benjamin. Dal canto suo, il maggiore è troppo accomodante con le stramberie dei due fratelli, e anche se non le pare assorbito da quel rapporto come Eric, è come se li proteggesse ostinandosi a non criticarli in modo oggettivo, come se tutto ciò che fanno sia normale oppure troppo interessante per non lasciarsi coinvolgere.
A quanto pare considera Brian il suo migliore amico, ma Madeline non riesce proprio a trovare un senso in un’accoppiata così mal assortita; il figlio, biondo, alto, dal fisico asciutto e lo sguardo intelligente, e quel ragazzo dal viso da bambino, pallido, e gli occhi da  tossico.
Ed Eric, cosa c’entra fra i due?
Forse è perché è il più piccolo. Forse gioca a fare il grande con i grandi.
E i grandi, si domanda Madeline corrugando la fronte, a che gioco stanno giocando?

 
Novembre 2012.

S apre il frigo, e per quella manciata che le serve ad individuare il cartone del latte, la lampadina automatica la illumina della sua luce innaturalmente gialla. Poi la ragazza richiude lo sportello e la cucina viene risucchiata dal nero, di nuovo, e dal silenzio, come sempre.
Una volta in cima alle scale, S bussa piano alla prima porta del corridoio, a destra.
- Bri.
Un secondo tocco, quasi inesistente, di dita scheletrice sulla porta di legno. Nessun rumore dall’interno della stanza, nemmeno un fruscio o uno starnuto, ma S in fondo è contenta perché non sa se Brian si sia ripulito o sia ancora coperto di sangue. O se abbia i connotati del viso ancora tutti al loro posto, come sempre, oppure ci sia qualcosa di diverso nel fratello. Se gli sbiaditi occhi chiari siano gli stessi. Se il naso si trovi ancora in mezzo alla faccia.
S appoggia il cartone del latte sul pavimento di fronte alla porta. Non troppo vicino, perché Brian potrebbe rovesciarlo involontariamente senza vederlo. Alla giusta distanza, una macchia stranamente bianca che sembra galleggiare nel buio. Una bolla con gli spigoli.
Un bellissimo sogno di nero.
S scivola fino alla seconda porta, scorre con le dita sul muro invisibile e incontra lo stipite, poi la maniglia, entra. Non deve nemmeno avanzare a tentoni o andare in cerca dell’interruttore per trovare il suo letto, semplicemente fa un paio di passi, e all’inizio del terzo solleva un po’ di più il piede, piega il ginocchio, allunga un braccio e si arrampica sulle lenzuola.
Non hanno mai avuto paura: del buio.
Una cosa che hanno sempre temuto: tracciare i confini.
S non ha sonno, prova solo quella senzazione di pesantezza dentro il cervello che si ha quando si piange tanto e dopo si deve camminare ancora di più per tornare a casa. Perciò è troppo debole per togliersi di dosso i vestiti che puzzano di umidità e di infilarsi sotto le coperte, rimane seduta sul piumone a gambe incrociate e la schiena gobba. Frugando nelle tasche trova un’accendino di plastica trasparente, il liquido all’interno brilla fiocamente alla luce della luna che penetra dalle tende.
Non ha idea di come sia finito nella tasca dei suoi pantaloni, per un secondo si chiede se non sia proprio quello che Lia aveva in mano l’altro giorno in pausa pranzo. Lia fuma, vero? S decide che domani a scuola le chiederà se ha perso un accendino.
La luce della fiamma guizza sui mobili, sul piumone, sul viso della ragazzina, lampi arancioni che sembrano solamente accarezzare con arrendevolezza l’oscurità della camera; S la lascia spegnersi quando il pollice comincia a bruciarle.
Sbatte le palpebre nel buio, riesce a vedere solo nero e gradazioni pesanti di grigio dove la luce lunare lambisce un pezzettino di pavimento, un angolo del comodino, perfora il tessuto della tenda, le sfiora una guancia.
S sa che lui non è in casa, ma non è sollevata. La sua assenza non significa libertà, perché lui ha le chiavi della loro prigione e la porta lei non l’ha nemmeno chiusa; in un attimo la ragazzina si sente pervadere da una rabbia bollente proprio sopra lo stomaco, che brucia fin dentro la bocca. Nel buio davanti a lei ricompare il viso di Brian bianco e rosso, sporco del suo stesso sangue, e di scatto si alza dal letto e si precipita giù per le scale, quasi colpisce con il tallone in cartone del latte in mezzo al corridoio.
In soggiorno è ancora più buio che al piano di sopra, S si dirige a tentoni verso la parete est della stanza, occupata da una fila di credenze basse e scure, piene di cassetti e ante invisibili nel nero totale della stanza; in ginocchio, la testa e il busto di S vengono ingoiati da uno dei mobili quando comincia a frugarci dentro. Tocca oggetti impolverati e li spinge indietro, sfiora pacchi di documenti, scatole di cartone, gratta con le unghie contro il fondo, rovescia un bicchiere; una perfetta imitazione di un fantasma decapitato e improvvisamente sveglio, fino a quando ricompare tutta intera e con qualcosa stretto fra le braccia, con il quale si dirige in cucina.
Scivoliamo dietro di lei e occupiamo uno degli sgabelli dall’altra parte del tavolo, e finalmente distinguiamo i contorni di una scatola di latta con un disegno di rilievi sul coperchio, rovinato da parecchi graffi e ammaccature. E’ stranamente lucido, notiamo quando S lo solleva e lo appoggia proprio davanti a noi sul tavolo di legno, come se fosse continuamente utilizzato e tenuto con una certa cura.
Davanti a noi S comincia a spargere il contenuto della scatola, e solleviamo lo sguardo su dei piccoli cartoncini lucidi dal contorno bianco: delle fotografie. Fotografie di ombre, sembrerebbero, non riusciamo a scorgere di più, immersi nel buio. S invece deve conoscerne bene il soggetto, perché le tocca e sposta con noncuranza, fino a radunarne una piccola pila – saranno un centinaio, in tutto- e riporre bruscamente il resto nella scatola.
S è solamente concentrata quando avvicina l’accendino al bordo di una fotografia e lo fa scattare. La fiamma che sale e lecca un angolo della pila non getta luce su nessua emozione negli occhi della ragazzina, che guarda la superficie delle foto accartocciarsi su se stessa e carbonizzarsi.
Dura un minuto, il resto è un segno di bruciatura sul tavolo che si ingrigirà con il tempo, sporcando sempre le dita che la toccheranno di una patina nera e polverosa.
S è già sparita nella sua stanza, non ha nemmeno fatto rumore sfiorando la porta di Brian e chiudendo a chiave la sua. Sorride, anche se non lo possiamo vedere, perché sente qualcosa di definitivo piegarsi dentro di lei, stabilire silenziosamente ma con decisione uno spacco tra adesso e domani, prima e dopo, inerzia e corsa.
Ha tracciato il confine. S si inginocchia alla linea di partenza e si prepara allo scatto, al colpo di pistola.
Mancano cinque giorni prima che lo trovino morto.
 

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Capitolo 6
*** La prima volta il mondo sembra sbriciolarsi. ***


Ottobre 2010.

Quando è morta la nonna nessuno ha pianto, nella casa di fronte a quella dove vive Benjamin.
Una domenica mattina, la sua mamma lo tira giù dal letto intimandogli di vestirsi in fretta in modo decente e di venire di sotto. E di mettere a posto quella stanza, perdio!, no non adesso, ora pensa a vestirti. Perché non ti metti quella camicia bianca? No? Beh, muoviti.
Raccogliendo calzini appallottolati con una mano, mimando intimidazioni verso il disordine con l’altra, la signora Hannover attraversa la stanza come un tornado ed sparisce giù per le scale, lasciando a un Benjamin stordito poche possibilità di godersi una domenica mattina di sonno. Infilando la camicia sbagliata nei jeans, Benjamin scende le scale ciondolante e con gli occhi incollati, ancora mezzo addormentato, e trova la madre già spazientita, vestita di tutto punto, che piega il colletto della polo scura di suo fratello, in piedi nell’ingresso di casa.
- Cosa succede, mamma?
- Andiamo dai Turner a porgere le condoglianze, perché sabato siamo a pranzo fuori e non possiamo andare al funerale.
- Quale funerale?- Chiede Benjamin raggiungendo i primi stadi di lucidità. I suoi sforzi non valgono a nulla comunque, perché la signora Hannover lo ignora e guida i due figli a passo deciso (lei, loro le trotterellano dietro) dritti nel giardino di fronte. Salgono i tre piccoli gradini che rialzano la veranda dal prato e che sono ancora privi di crepe e macchie di umidità, e la madre scocca un’occhiata di avvertimento ai figli prima di passarsi una mano sul collo, riavviarsi i capelli e suonare il campanello.
La signora Turner apre la porta e li fa entrare, cercando di camuffare la sorpresa dietro una maschera di allegra cortesia. Si siede su uno dei divani di pelle verde del salotto e invita la signora Hannover a fare altrettanto, e sorride ai bambini dicendo che possono andare di sopra.
Così Benjamin ed Evan hanno seguito le stesse orme, forse più rare e marcate, delle dita che abbiamo visto noi sulle pareti della scala, e hanno avuto il loro vero e proprio primo incontro con gli sfuggenti fratelli Turner; la loro curiosità si arrampica con i loro piedi su per i gradini mentre quella della madre cresce in un diverso modo, diventando via via sempre più sbalordita e indignata nel ritrovarsi a parlare di giardinaggio irlandese con una figlia in lutto.
La tazza da tè fra le dita sottili di Madeline Hannover trema dignitosamente; intanto i figli si arrestano sull’ultimo gradino, alzano lo sguardo e registrano nelle loro menti quello che poi avrebbero chiamato, anni dopo, “l’inizio di tutto”.
 

Maggio 2002.

- Vi è successo qualcosa di particolare, oggi?
È diventata la prima domanda che la voce sussurra ai bambini appena vanno a trovare la nonna.
Brian avrebbe preferito che le sue parole restassero chiuse per sempre con lei all’interno delle quattro pareti della sua camera da letto, a vagare per la stanza dai soffitti alti e ad infilarsi nei meccanismi degli strani oggetti che ricoprono il parquet in quel compartimento stagno di fantasie in fondo al corridoio, tormentare qualche loro notte insonne, insomma: rimanessero storie.
Misteriose, bellissime storie; nient’altro, da vivere seduto sul pavimento accanto alla sorellina e poi lasciare in custodia dentro la stanza, attraversando la soglia che più che altro lo faceva pensare a un portale cammuffato tra un mondo e un altro, come nei suoi libri preferiti.
Anzi, è davvero convinto che la magia della voce possa vivere solo in quei momenti, e che perda consistenza trasferendosi nella quotidianità.
Invece è a scuola, seduto sul suo banco di fianco a quello di Lily Melkins, quando la bambina con le trecce rosse comincia a perdere copiosamente sangue dal naso. E’ inciampata su uno zaino camminando fra i banchi, e nonostante la sorpresa generale e qualche strillo – Ooooh, Lily! Che schifo!- la parentesi sembra chiudersi con la maestra che pilota la piccola verso il bagno tenendola saldamente per un braccio.
Forse.
Perché agli occhi di Brian la realtà sembra piegarsi e diventare all’improvviso meno consistente, più penetrabile, il giallo acceso delle pareti della classe si spegne mentre il mondo passa al negativo, le voci eccitate dei bambini attorno a lui vengono relegate in una zona silenziata della sua mente, le figure si appiattiscono, ogni suo muscolo si tende e vede  i quadretti appesi alla parete del corridoio di fronte alla sua classe. Vede un alunno di quinta masticare una gomma con la bocca aperta. Vede gli alberi oscillare al vento nel giardino Sud della scuola.
Vede, soprattutto, la scia sgargiante dei passi di Lily trascinata dalla maestra per tre corridoi e poi nel bagno di fianco alla mensa; il suo cervello è affollato da varie angolazioni della scena, la bambina che cammina a velocità raddoppiata o smorzata con una mano chiusa sul naso, circondata dall’ombra dove la sua figura e la sua scia di sangue brillano come insegne al neon nella notte.
Solo che la porta della classe è chiusa, e lui è ancora seduto al suo posto.
 
- Vi è successo qualcosa di particolare, oggi?
- No.
- Brian?
- No.
Silenzio. Il bambino non sa perché, ma si sente divorare dalla paura.
- Bugiardo.

 

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Capitolo 7
*** A-normal activities. ***


 
Autunno 2002.
Avere sei anni è una cosa terribilmente difficile e dolorosa; o almeno questa è la frase che Sunshine pensa più o meno ogni mattina, dal lunedì al sabato, concedendosi un risveglio più dolce e rilassato la domenica, giorno in cui qualche dio l’ha resa libera dall’angoscia di cinque ore di scuola.
La bambina non si integra con il resto della classe, la bambina è perennemente distratta e fatica a ricollegarsi con la realtà quando si richiama la sua attenzione, la bambina è scostante e la bambina è molto indietro; queste invece sono le frasi che girano in tondo nella testa della sua mamma già dopo un mese in prima elementare.
La piccola fa quel che può, ma non è colpa sua se le lettere dell’alfabeto non le entrano in testa e rimangono incollate alle pagine del libro, che siano in stampatello, in corsivo, grandi come tutta la facciata o decorate di apine e alberelli. Ogni tanto crolla e comincia a piangere tirando su con il nasino dicendo che vuole Bri e vuole andare a casa, e le maestre sono costrette a prelevare il fratello dalla seconda classe per far calmare la bambina.
Quello che dicono le maestre è vero; Sunshine non lega con nessun altro studente, è spesso persa nel suo mondo e non ha ancora imparato a leggere “Gigi va in bicicletta con GattaMiao nella borsa stretta”, che è la prima riga del libretto di letture. Gli altri alunni sono già a pagina quindici, spiega la maestra a Grace Turner nella saletta dei colloqui. Grace gira la testa e attraverso la finestrella sulla porta vede la figlia seduta in corridoio, minuscola e triste e confusa.
Sunshine non lega perché trova spossante trascorrere così tanto tempo rinchiusa in un’aula con altre trenta persone. Non riesce a gestire l’ansia di doverci stabilire un contatto né in modo spontaneo né in quanto richiesta del programma scolastico. Non riesce a seguire le lezioni e le letture perché c’è sempre qualcosa che attira il suo sguardo, o un odore che le solletica il naso, un movimento impercettibile che le sbuffa fra i capelli e in quel momento le sembra di venir risucchiata in un altro mondo che appiattisce le sagome dei compagni e la voce dell’insegnante e smorza ogni suo altro senso. Non riesce a mettere insieme le lettere di una frase perché quei segni rimangono solo macchie su una pagina ai suoi occhi. Insignificanti, slegati, privi di dimensioni.
Intanto le figure danzanti delle favole della nonna – perché sono favole, giusto?- cominciano a strisciare sul pavimento e filtrano dalla fessura sotto la porta, libere.
 
Novembre 2012.
S non è mai guarita dagli incubi notturni, ha solo imparato che erano una cosa che ai suoi genitori risultava fastidiosa come il rumore delle zanzare nelle notti d’estate; con il tempo ha imparato a svegliarsi subito, ma non ha ancora capito come riuscire ad addormentarsi di nuovo e stavolta, magari, rimanere sotto le coperte fino alla mattina.
Grazie al cielo la nonna è morta, pensa Brian ogni volta che sente S uscire dalla sua camera alle due di notte, altrimenti avrebbe pensato bene di riempirla di sonniferi, o peggio, tenerla sveglia con sé raccontandole altre storie.
Invece anche da piccola S sapeva che la notte non era il momento per rifugarsi nelle storie della nonna, ma di rimanere con i piedini caldi di piumone incollati alla realtà e scendere le scale per svegliare la madre.
Così hanno eretto una specie di muro fra giorno e notte, i due fratelli, perché in qualche modo si erano convinti che se di giorno a proteggerli ci sarebbero state le pareti di casa, così solide e forti e soprattutto vere, quelle quattro pareti che dividevano la camera della nonna dal resto della villetta, di notte invece, complice l’oscurità, sarebbe stato difficile ricordarsi che potevano uscire girando la maniglia della porta. Anche dopo la morte della vecchia signora, né S né Brian hanno mai osato introdursi nella stanza in fondo al corridoio dopo il calar del sole.
Così è appena l’alba quando S, scalza sulla moquette, si chiude lentamente la porta alle spalle, allarmata di un qualche improbabile cigolio traditore.
Vuoto.
Senza la massiccia presenza della matrona adagiata sul letto al centro della stanza, a S sembra di trovarsi dentro una scatola vuota, grigia e asettica. C’è perfino più luce che entra da sotto le tende pesanti di velluto rosso, come se, da viva, la nonna avesse gettato un’ombra sproporzionata attorno a sé, creando quell’aura di mistero, soggezione e irresistibile magnetismo semplicemente occupando il suo posto a letto.
Una volta assorbito quell’iniziale squilibrio tra la memoria della stanza e ciò che sta vedendo, S sente lo sguardo aprirsi ai lati, e ogni elemento si mette d’accordo con i suoi ricordi; il letto è molto più piccolo e basso di quello che ricordava, ma non è forse cresciuta in questi due anni? Il copriletto ricamato di viola e blu è sempre lo stesso, forse più impolverato di come l’avrebbe lasciato la nonna, ma la testata d’ebano e le due sponde a colonnine di bronzo sono lucidi come se la mamma li avesse appena passati con lo straccio- e invece non lo passa nessuno da anni, quello straccio rigato di unto. La scrivania alta ed elegante issata su quattro gambe sinuose, ingombra di strati di vita, dal bordino di pizzo che sporge dall’angolo, ricamato da mani scheletriche come quelle di S più di cento anni fa dalla nonna della nonna, prima che la figlia si sposasse con quell’americano dai capelli carota e se la portasse via in uno stato dal nome che non riusciva proprio a pronunciare; dal pizzo di quella tovaglietta, allora, lo sguardo di S si arrampica su libri rilegati di pelle consumata e altri di panno povero, dagli angoli sdruciti, e bottigliette di colonia in cui lei e il fratello tuffavano il naso, cercando di riconoscervi l’odore di un nonno, o della mamma, il forte profumo della nonna che quasi si addensava nelle narici, bottigliette e fiale d’ogni colore fra i più delicati, con etichette cancellate e arricciate, la colla ha bevuto l’inchiostro e l’ha fatto colare sul prezioso vetro, anelli neri e d’oro, o neri e si dicevano fossero d’oro, una mano di lacca rossa – S la osserva con un brivido, l’ha sempre trovata orribile-, spaghi e nastri, guanti, lacci di raso, calze, tubetti di creme color lucertola, un posacenere a forma di mandibola, una sfera di cristallo dalla sommità attraversata da una crepa, tutto questo accatastato sopra portafoto pieghevoli dall’interno di velluto scuro, macchiato di bianco o giallo, macchie verdi anche su quegli appunti – sembrerebbe proprio pergamena- scritti in un alfabeto strano, e una grossa X rossa come firma, accanto a un astuccio che odora di bruciato, stecche di ceralacca di ogni colore fuse fra di loro in sculture profumate e appiccicose, contenitori deliziosi per l’inchiostro e per le limette da unghie, una confezione di francobolli, pacchi di Kleenex, biglietti ingialliti coperti di numeri minuscoli, e penne dall’aria inutile, tanto sono preziose, abbandonate, accasciate sopra le maniche di un vestito abbandonato mezzo lì sopra e mezzo sul pavimento, l’orlo ancora richiuso nell’armadio di legno scuro…
L’armadio.
Per seguire quelle scia interminabile e caotica di oggetti accumulati, S ha quasi fatto un giro intero su sé stessa, e ora si trova con le spalle alle finestre e al letto, di fronte all’armadio che troneggia nella stanza allungandosi per ben due pareti.
Leggera come un fantasma sulla moquette lercia, S si avvicina e con qualche sforzo fa girare la minuscola chiave che spunta dalla serratura dell’anta al centro.
L’anta è pesantissima e cigola girando sui vecchi cardini, sulle prime a S prende un colpo credendo di trovarci dentro un fantasma pallido e arruffato; ma è solo il proprio riflesso, mandatole dallo specchio montato sul retro dell’anta.
- Certo che li possiamo prendere, Callie.- Sussurra la ragazzina con impazienza. – L’hai detto anche tu che solo lui può saperlo, ma dobbiamo trovarlo prima.
Si china ginocchioni sul pavimento e si allunga per sbirciare il fondo dell’armadio. Eccola. S la prende in mano, si alza frettolosamente e chiude l’armadio.
Corre fuori dalla camera così veloce che non riuscirà mai a definire con certezza se qualcuno l’abbia trattenuta per la maglia o no, lì di fronte all’armadio. E’ soltanto Callie, si dice, ignorando il suo cuore che rischia di schizzarle fuori dalla gola, tanto si è spaventata.
Eppure… ha sentito di nuovo quella sensazione inebriante di quando lei e Brian vivevano le storie della nonna, assuefatti di suggestione e piacevolmente terrorizzati.
Con le spalle appoggiate al muro, il respiro irregolare, S si chiede per mezzo secondo se non sia per caso addormentata, o davvero stia per fare quello che ha progettato stanotte.
Che diavolo di senso ha?, si chiede. Sono impazzita?
No. Le sussurra Callie. Sei perfettamente lucida. La nebbia se l’è portato via, tu l’hai visto.
La nebbia.
Deve provare, giusto?
Sarà difficile, e sì, è da pazzi. Ma S lo è a sufficienza. E se ci fosse riuscita… avrebbe vinto tutto, giusto?

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Capitolo 8
*** Ripetersi. ***


Novembre 2012.

La ragazza bionda ha la schiena curva e la musica che rimbomba troppo alta dagli auricolari e infastidisce le tre persone strette con lei su quella panchina accanto al binario 3. Lei non se ne accorge perché non sta nemmeno ascoltando quella canzone, il lettore musicale non è suo e lei se l’è ritrovato in tasca insieme a un biglietto con scritto mi dispiace tanto con la calligrafia di Lex, anche se di quest’ultima cosa non è esattamente sicura. I pantaloni non sono suoi, in ogni caso. Lei non li comprerebbe mai tanto stretti e di quel colore poi, assolutamente no. Dei jeans color fragola, ma chi li ha mai visti? Le stanno stritolando le cosce e lei, che avrà sui diciassette o diciott’anni, appoggia la fronte alle ginocchia, chiedendosi se per caso ha dormito con Lex stanotte, oppure con lui e la ragazza che ha comprato quegli assurdi pantaloni. Spera proprio di no, e le vengono in mente un pacchetto di Lucky Strike e uno di gomme da masticare gialle, che sfumano in un paio di occhi verdi.
La donna accanto a lei la urta con la borsa alzandosi dalla panca, la ragazza si riscuote e sollevando il capo una folata di vento freddo le spazza i capelli dalla fronte mentre il treno giallo si spinge per inerzia sulle rotaie fino ad arrestarsi. Pensa che la donna dovrebbe scusarsi e si alza camminando dietro di lei verso le porte del treno – silenziato il rumore della piccola folla di studenti e pendolari che si accalca attorno alle due ringhiere, i bassi dagli auricolari le vibrano fin dentro le vertebre – fissandola con insistenza in un punto in mezzo alle scapole, convincendosi che se trova un punto preciso la farà voltare con la forza dello sguardo. Ma lei sembra evaporare in mezzo a completi scuri e cravattini a righe da divisa scolastica, perdere consistenza contro lo sfondo nero delle magliette di un gruppo di metallari con gli occhi sgranati cerchiati di viola. La bionda si trova a bordo del treno che ha cominciato a muoversi di nuovo, non ha ben presente quando, e percorre i vagoni in cerca di un posto a sedere.
A metà del settimo c’è un gruppo di sei sedili disposti a circonferenza contro le pareti metalliche del treno, tre da una parte del corridoio e tre dall’altra, ma la ragazza riesce a vedere solo la sezione di sinistra perché la porta di vetro scorrevole estratta a metà le copre la visuale.
Il posto al centro è occupato da una ragazzina incredibilmente magra, forse troppo, con i capelli così scuri che sembrano blu sotto la luce artificiale dei neon appesi al soffitto, probabilmente tinti con un prodotto scadente che le ha lasciato le punte bruciate e secche. Ha un’aria seria mentre parla a ruota libera con qualcuno seduto di fronte a lei, gesticola con le mani piccolissime seminascoste dalle maniche di una felpa viola troppo abbondante su quel corpicino da elfo, ma ogni tanto le sfugge un sorriso e alza gli occhi al cielo per qualche commento del suo interlocutore.
La ragazza bionda si sfila le cuffie e si rende conto di quanto il treno le sembri silenzioso, per un secondo, prima che tutti i rumori dei passeggeri le fluiscano nelle orecchie e nel cervello; ma lei ne ascolta solo una in particolare.
- …lui mi ha detto, ti va se ti bacio un po’? Voglio dire, siamo dietro al League in mezzo ai topi morti e mi chiede se voglio che… Idiota. Fatto, credo, ma non lo vedevo bene, era buio, però era carino illuminato dalle auto che passavano da dietro i giardini. Misterioso, ecco. Allora mi ha detto di tenergli la sigaretta mentre pisciava e…
La ragazza bionda adesso fa un passo in avanti e l’altra si zittisce, la fissa con degli occhi enormi e la bocca ancora aperta, la frase in pausa. La guarda per qualche secondo e poi distende le labbra in un sorriso come se stesse trattenendo una risata, e la bionda non capisce cosa ci sia da ridere finchè non storna lo sguardo verso l’altra serie di posti.
Non c’è nessuno. All’improvviso viene anche a lei da ridere, ma quando guarda di nuovo quella ragazza mora si accorge che adesso tiene lo sguardo fisso sulle  proprie scarpe con un’espressione quasi incazzata.
- Continua pure. Non volevo interromperti.
Si lascia cadere su uno dei sedili vuoti a destra, lanciando la borsa su un altro che ha accanto.
Dietro la testa della ragazzina schizzata scorre via la stazione e si alternano cavi della luce cristallizzati dal freddo a distese di campi sbiaditi, ma non sono interessanti.
- Allora, voglio dire, non è uno molto romantico il tuo ragazzo. – Fa con una voce indisponente o forse solo stanca.
- Non era il mio ragazzo.
- Il League è un posto pessimo.
- Ho visto. Topi morti.
La bionda scoppia a ridere. – Non parlavo dei topi.
L’altra la guarda con degli occhi grandi, innocenti o incoscienti, la bionda non saprebbe dirlo.
- E di cosa parlavi?
- E’ un brutto posto e basta. Hai visto il sangue, nel bagno delle ragazze?
- Povera Calimber...- sussurra l’altra distratta, per poi tornare a guardare la bionda negli occhi con uno sguardo malizioso. – Nessuno entra più in quel bagno.
- E dove la fanno?
- Fuori. – La mora scoppia a ridere, e l’altra sente la pelle d’oca sulle braccia, ma quando se ne domanda il motivo ha già cominciato a ridere anche lei.
- Come quello che era con te?
- Forse era una ragazza. Era buio.
- Ma non l’hai visto che pisciava? – La bionda ricomincia a ridere, i jeans rosa sono davvero troppo stretti.
- Era buio. – Ripete la piccola ragazza dai capelli corvini con un sorriso che la fa assomigliare un po’ allo Stregatto, e l’idea piace tantissimo alla bionda, che la guarda divertita e attratta da quella sua aria lunatica. La sua pelle è così pallida, come la luna. 
- Dove stai andando?-  Le chiede.
- A scuola.
- Non è vero, l’ultima e unica fermata di questo treno è alla Met e lì non ti ho mai vista. Dove stai andando? – Insiste. Non sa perché, quella ragazza è una sconosciuta e non sono affari suoi dove decide (o no) di andare, ma le sembra importante saperlo. Desidera saperlo.
La mora fissa gli occhi in un punto sopra la sua testa, come se avesse perso interesse per la conversazione e per lei, e dice – Come ti chiami? – in un tono che non sembra neanche interrogativo.
- Saskia. E tu?
- Saskia. S. – Sul viso magro della ragazzina si ridipinge quel sorriso spiritato, si china in avanti verso la più grande e le spesse catene di metallo che porta al collo – un po’ troppo grandi per essere davvero delle collane- dondolano dal suo petto scarno al vuoto.
- S. – Ripete. – E chi di noi è quella giusta?
Il treno si ferma stridendo e il sorriso della ragazzina sembra andare in dissolvenza davanti agli occhi di Saskia, che rimane seduta immobile per circa un minuto fino a che il controllore l’avvisa che deve levarsi di torno, e allora si accorge che è rimasta l’unica passeggera del treno.
Voltandosi per afferrare la borsa vede una scritta sul finestrino fatta con un pennarello nero, STILL AIN’T YOUR SUNSHINE  con sotto lo stampo rosso di un bacio.
 

Dicembre 2010.

La giovane professoressa di francese della seconda A è talmente incompetente da non riuscire a mantenere il silenzio per più di dieci minuti di lezione. I ragazzi le concedono un certo margine di sarcastico rispetto, e poi si lasciano distrarre da cosa più interessanti come sigarette da girare sotto la ribalta del banco, i giochi dell’iPod, le tette della ragazza in quarta fila, sempre miracolosamente in mostra da scollature attillate, e chiacchere neanche troppo sussurrate.
Benjamin si siede in un banco dell’ultima fila accanto a Brian, che gli lancia un’occhiata frastornata e poi ritorna ad appoggiare la fronte sulla superficie del banco.
- Buongiorno splendore.
L’amico risponde con un brontolio soffocato fra felpa e legno.
- E’ la quinta ora e stai ancora dormendo?
Brian non risponde; è distrutto, sarebbe dovuto rimanere a letto e recuperare le circa quaranta ore di sonno che ha perso nell’ultima settimana, ormai ha perso il conto delle notti passate fuori a seguire tracce nauseabonde di sangue vecchio di mesi, se è fortunato, oppure anni nelle occasioni peggiori. Al ragazzo sfugge una risata sommessa se pensa alla faccia di Benjiamin se gli svelasse questi ultimi particolari.
- Il sole di mezzogiorno mi concilia il sonno. – esala dopo qualche minuto alzando il viso.
- In effetti dormire la notte è di cattivo gusto. – commenta Benjiamin con un’occhiata al colorito cereo di Brian e alle borse sotto i suoi occhi. – Che hai fatto?
- Ho portato fuori il cane. – fa Brian con una faccia assolutamente idiota che fa ridere l’altro ragazzo.
- Sarà stato un giro interessante. No, sul serio. Hai la faccia da strafatto, Bri.
Ed ecco il solito trucco di Brian quando vuole chiudere una conversazione, o meglio svicolarla: stira le sopracciglia, poi scuote il capo e fa un sorriso allegro. – Niente, Bee… niente.
Benjamin sta per aprire la bocca per ribattere quando Brian alza il braccio e prende a sventolarlo per attirare l’attenzione della professoressa. – Posso andare in bagno?
Quasi urla per sovrastare la confusione nell’aula.
La professoressa, che non può avere più di trent’anni, gli rivolge un sorriso enorme e un po’ isterico e dice, con una vena di supplica nella voce:
- Vuoi chiedermelo in francese, Brian?
- No. – Tutta la classe scoppia a ridere fino a quando il ragazzo non si chiude la porta alle spalle e si avvia nel corridoio. Brian sale le scale, supera l’altrio percorrendo il corridoio largo che porta alla mensa si infila nell’uscita antincendio sedendosi sugli enormi gradini di metallo. Fuori si congela e ogni suo respiro è una nuvola di vapore ghiacciato che si confonde nel paesaggio grigio e bianco che non si cura di osservare - ha la testa troppo occupata dai pensieri.
Dovrebbe parlare con la sorella, anche se è proprio l’ultima cosa che vorrebbe fare, perché lei si è messa in testa che sia giunto il momento di andare fino in fondo, di fare quello per cui sono nati, per vivere la loro storia. Quando Sun comincia a ripetergli queste cose, e lo fa da quando è morta la nonna, a Brian sembra di avere davanti una pazza. Gli sembra assurdo l’attaccamento della sorella a quelle che dovrebbero essere solamente storie, perché una parte del ragazzo ancora si rifiuta di credere che possano essere sul serio reali, o al massimo una strana anomalia in un mondo in fin dei conti normale e abitudinario.
C’è come qualcosa che sta costantemente davanti la testa di Brian, un muro contro la sua fronte, che gli impedisce di comprendere fino in fondo quello che gli è successo e gli sta succedendo. E perciò non riesce a crederci. Vede una grossa striscia nera davanti ai suoi occhi che gli censura il senso della sua esistenza e di quella della sorella, della nonna.
Brian pensa meglio con la testa appoggiata alle ginocchia. Può immaginare di appoggiarsi a quel muro invece che ad esse, ed è più semplice per lui riflettere sul muro se riesce fisicamente – in un certo senso, perché sempre di ginocchia si tratta – a toccarlo.
Invece viene interrotto da un odore disgustoso che si ficca nel suo naso all’improvviso.
- No. – Dice, ancora con la testa sulle ginocchia. Non ha bisogno alzare lo sguardo per riconoscere chi emana quel fetore pestilenziale, perché appartiene a una persona che conosce benissimo, e che prende posto accanto a lui sul gradino.
- Deludente. Non è affatto professionale da parte tua startene qui a dormire mentre io ti ho assunto.
- Ma taci. Non mi hai assunto, mi hai trovato.
- Non essere maleducato. E’ la stessa cosa. Tu lavori per noi. – il qualcuno al suo fianco continua a parlare con un tono educatamente sdegnato. – E fra l’altro è irritante doversi rivolgere a dei ragazzini ignoranti invece che a delle persone qualificate.
A Brian scappa un po’ da ridere. – Come se il mio fosse un lavoro.
- Lo è.
- E’ una tortura. Se non sei soddisfatto puoi sempre cercare qualcun altro.
- L’ho detto: ignoranti. Siete gli unici rimasti, ormai. In effetti mi domando il perché, ma lo chiederò a chi di dovere quando mi avrai finalmente…
- E’ un modo di dire! E comunque avevo anche altri da cercare.
- Rimane che siete un’istituzione del tutto disorganizzata! – sbotta l’altro, la sua voce diventa più acuta. A Brian stridono le orecchie e sotto le maniche della felpa ha la pelle d’oca. Improvvisamente tutta la stanchezza delle ultime settimane gli piomba addosso e la sente intorpidirgli il corpo, o forse sono i dubbi di una vita – si può essere così vecchi quindici anni?- che già comincia a tormentarlo.
- Non sai neanche dove sei morto, non parlarmi di organizzazione! E poi adesso sono a scuola, cioè fuori servizio. – Il ragazzo solleva il capo e fissa l’uomo, che non muove un muscolo e sostiene il suo sguardo indisponente.
- Non reperibile. – Insiste Brian inarcando le sopracciglia. – Sparisci insomma!
- Ma che insolente – borbotta l’uomo fra sé e sé, ma abbastanza forte perché Brian possa sentirlo e magari vergognarsi di comportarsi in quel modo con un cliente come lui, e continua a borbottare alla sinistra del ragazzo mentre il verde del suo completo di lino sbiadisce nel grigio della mattinata di dicembre, e le righe bianche svaniscono con le ultime sillabe del suo offeso soliloquio.
Il ragazzo molla un sospiro di vapore enorme, e rimane a guardarlo espandersi in volute davanti a sé finchè non si disperde, e questo un po’ gli dispiace.
- Brian?
- Che cazzo c’è ancora?- sbotta, pensando che sia di nuovo qualcuno di indesiderato venuto a lamentarsi.
- Con chi stavi parlando?
Il mondo di Brian si ferma. E’ un po’ come quando segue una traccia, tutto si fa silenzioso e disteso eppure gravido di sensazioni nel suo cervello, che bussano impazienti alla soglia della sua mente pronte per essere ascoltate e conosciute, scoperte, ma lui stupidamente si sofferma su un’immagine della ciambella che ha lasciato a metà a colazione.
Spalanca gli occhi, inghiottito da quell’immagine a cui si aggrappa.
Le sensazioni aspettano, sulla porta della sua razionalità.
Benjamin aspetta, sulla porta della scala antincendio alle sue spalle.
Un paio di noi sussultano, io mi avvicino un poco perché le cose cominciano a farsi interessanti.

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Capitolo 9
*** E le batterie dei sassolini magici sono da cambiare. ***


Ottobre 2010.

Benjamin credeva ci volesse più tempo.
Più tempo per mettersene alla ricerca, per imparare ad identificarlo e ad isolarlo dalle altre futili aggiunte edulcorate che ci sono cresciute attorno a causa della superficialità delle persone, per rendersi conto di averlo trovato e per capire che cosa si prova esattamente ad averlo in corpo, se è un’emozione precisa oppure un ibrido di istinti, un po’ come l’adrenalina o la paura.
Invece ne è quasi certo, e non è passato neanche un mese da quando la conosce; eppure il cuore scende di parecchi centimetri dalla sua sede originale nella cassa toracica, in caduta libera verso lo stomaco e il suolo, quando lei lo invita a uscire quella sera.
Gli sembra di avere le braccia troppo lunghe, i capelli sporchi e impresentabili, un brutto odore nonostante sia appena uscito dalla doccia bollente, ha paura di tartagliare in modo incomprensibile di argomenti improbabili, e mentre scende le scale per uscire si convince di respirare in maniera decisamente troppo rumorosa.
E se sta fantasticando? Guarda che ci sarà anche Brian, razza di cretino – gli sussurra all’orecchio una vocina perversa, - non sarete mica da soli, cosa credi. Non vuole rimanere sola con il tuo pessimo alito.
Benjamin raggela e cerca in fretta un pacchetto di gomme da masticare dentro la borsetta della madre, appesa all’attaccapanni in ingresso. Se ne ficca in bocca due e infila il pacchetto nella tasca del giubbotto.
Ricorderà quella serata con autentico orrore; al parco dove S gli ha dato appuntamento non solo trova Brian mascherato da vampiro in modo inquietantemente credibile, ma anche il proprio fratellino e una schiera di amici e compagni di scuola che al suo arrivo sollevano i bicchieri di plastica pieni di punch color sangue e gridano “Tanti auguri, Bee!”. La faccia di ogni persona è nascosta da una maschera orribile e deforme, o da baffi e barba finti, o dall’ombra di un cappello gigantesco oppure di un naso di plastica, o da uno spesso strato di trucco che varia dal fondotinta bianco-morto al prugna-zombie decomposto; Benjamin non trova S fino a che tutti gli invitati non si spargono per il quartiere per fare dolcetto o scherzetto. Molti di loro hanno quindici anni, è l’ultima volta che possono permettersi una cosa che sappia così di infanzia e caramelle.
Si sentono i rintocchi di mezzanotte intrecciarsi a risate distanti e urla attutite.
Una figura esile gli scivola accanto sulla panchina.
- Perché quella faccia? Avere quindici anni non è così grave.- gli soffia nell’orecchio prima di dargli un bacio sulla guancia. – Buon compleanno, Bee.
L’ultimo tocco di campana ha appena cominciato a sfumare nella notte quando Benjamin si volta e non vede nessuno al suo fianco.
Il ragazzo aveva appena accarezzato il pensiero di essere innamorato, e adesso scopre che l’amore è una forma di solitudine che fa fondamentalmente male.
 

 

Novembre 2012.

Brian apre gli occhi ma non è davvero sicuro di essere sveglio fino a quando non sente un dolore quasi extracorporeo, sordo, atterrargli pesantemente sullo zigomo destro e scendergli lungo tutta la metà del viso, entrargli dentro gli occhi e nelle gengive. Preso dal panico, resta immobile sul letto sbattendo le palpebre e fissando il soffitto, cercando di non mettersi a urlare, poi si calma e issandosi sui gomiti riesce a mettersi seduto e a mandare giù due pillole verdi che trova sul pavimento.
Si sente subito meglio, solo un po’ assente, mentre cerca di decidere se deve davvero vestirsi per andare a scuola, oppure non sia richiesto dal regolamento. Si metterà la camicia blu, decide, e un paio di jeans a caso.
Quando è in bagno e si tampona delicatamente i lividi sul viso con un asciugamano bagnato, si accorge perifericamente che il tessuto è sporco e incrostato, e non distingue abbastanza la propria immagine allo specchio per accorgersi di essersi infilato una canottiera da basket nera e sformata sopra il pigiama.
Ripassando davanti alla sua stanza raccoglie il cartone del latte mezzo vuoto e tiepido, lo sorseggia mentre scende le scale sbattendo i piedi che scivolano fuori dalle scarpe infilate come fossero ciabatte, il tallone disfatto e piegato verso l’interno. C’è un odore strano, in cucina. Brian strizza gli occhi feriti dalla luce grigia delle sette e mezzo, c’è una macchia scura ed opaca nella sua visuale: il tavolo è bruciato al centro, un cerchio perfetto, ed è venuta via un bel po’ di vernice che sciogliendosi ha rilasciato una puzza chimica davvero insopportabile. 
Brian china la testa nel secchiaio e vomita. Ci sono dei pezzi di carta sparsi intorno e sulla bruciatura, e un angolo intatto di quella che sembra una fotografia. Il volto di una giovane ragazza bruna è per metà sfigurato da una riga marrone lasciata dalla carezza di una fiamma; il ragazzo lo prende in mano con delicatezza e si accorge di quel che c’è sotto: nella polvere scura un dito ha disegnato una piccola E.
Brian sente il respiro abbandonargli i polmoni, come spinto da un muscolo fuori controllo. Inconsciamente cancella la lettera con il dorso della mano, mentre con l’altra si infila degli enormi occhiali scuri che gli nascondono il viso.

 

Giugno 2002.

Jimmy una sera chiede a Grace quand’è che ha intenzione di iniziare a preoccuparsi.
Si stanno preparando per andare a dormire, lei si sta spalmando una crema idratante su mani e gambe e lui compare dalla porta del loro piccolo bagno con lo spazzolino in bocca e un po’ di dentifricio sul mento.
Grace aspetta a rispondere. È la domanda che aspettava e alla quale non ha una risposta adeguatamente sincera, perciò temporeggia prendendo in giro prima di tutto se stessa; e se Jimmy si riferisse a Collins, che sta finendo il liceo e aspetta quella borsa di studio per il calcio? Il futuro di un figlio è qualcosa di cui è legittimo preoccuparsi, e dopotutto Collins è il maggiore, la loro prima prova di genitori. Oppure quel “preoccuparti” è detto così, un’esagerazione, e sta per un problema di poco conto come la lavastoviglie che si è rotta di nuovo, la radio che si rifiuta di sintonizzarsi sul canale 113, le tasse scolastiche, i capelli di Brian.
Grace si dice che è davvero ora di portare quel bambino da un barbiere. Lo farà questo sabato, certamente. Con le mani unte chiude il barattolo di crema e lo spinge in fondo al cassetto.
- Lo porto sabato, magari con Collins così se li fa tagliare anche lui.
Il marito inarca le sopracciglia.
- Di che stai parlando?
- E tu?
Jimmy sbuffa forte e degli spruzzi di dentifricio gli finiscono sul pigiama. Torna dentro il bagno e si sciacqua la bocca continuando a parlare con un tono quasi arrabbiato.
- Mio Dio, Grace! Apri gli occhi! Tua madre è… lei… - il getto del lavandino si spegne, una piccola pausa, poi l’acqua riprende a scorrere. – Sta facendo qualcosa a Sun e a Brian. Non dirmi che non te ne sei accorta, sono strani, cosa sta succedendo?
- Crescono.
- Crescono? – Jimmy è di nuovo sulla porta, questa volta con un asciugamano stretto fra le mani e gli occhi spalancati. – Grace, ma che cazzo?...
- Jim, abbassa la voce! Ti sentono i bambini.
- Non stanno crescendo, Grace. Hanno incubi tutte le notti. L’hai sentito Brian l’altra notte? – L’uomo fa uno sforzo per controllare il tono di voce, ma cominciano a tremargli le mani.
Grace guarda il marito vagare con uno sguardo addolorato per la stanza, per poi tornare a guardarla negli occhi e sbottare – E’ quasi svenuto!
La donna abbassa gli occhi sul copriletto e si domanda “per quanto altro tempo?” senza trovare le parole per finire di formulare il pensiero. – Era solo un sogno, si è spaventato…
- Aveva le mani sporche di fango, e non si ricordava nulla. Come diavolo ha fatto a uscire di casa? E dov’è stato? E Sunshine, che non sa ancora leggere, maledizione, e parla come un professore di storia?
La stanza piomba nel silenzio, con Jimmy a corto di fiato e parole, incapace di elencare tutte le incertezze e i dubbi che lo divorano quando pensa ai suoi due bambini, e Grace che segue i profili dei ricami delle coperte, persa nei pensieri che non può condividere con il marito perché non le crederebbe.
- Non stanno crescendo, amore. – mormora l’uomo atterrito dalle sue stesse parole. – Sembra rimangano bambini persi nel bosco in una favola.
Grace spalanca la bocca ma non ne esce alcun suono. 

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Capitolo 10
*** Rosafragola e odori da lontano. ***


Novembre 2012

Saskia si dimentica quasi subito dello strano incontro sul treno.
Le cause sono due: appena entra in classe ci trova quell’atmosfera di palpabile terrore che precede un compito in classe; i suoi compagni ingurgitano caffè delle macchinette, sfogliano i libri tenendosi il capo con una mano, ripetono silenziosamente concetti imparati a memoria con gli occhi rivolti davanti a sé senza il minimo tentativo di comprendere davvero – e come si potrebbero capire frasi come “Due occlusive aspirate appartenenti a sillabe diverse di una stessa parola non possono coesistere, e la prima si muta nell’occlusiva non aspirata della stessa serie” - quello che stanno blaterando. Saskia rimane sulla soglia e sbatte le palpebre per cinque secondi. Lei non ha studiato. Non sapeva nemmeno ci fosse un compito.
Oh, merda.
Si siede al suo banco e getta un’occhiata a Emma, al suo fianco, che ha in mano il libro di greco e fissa un paragrafo sul piuccheperfetto con gli occhi ridotti a fessura e la fronte agrottata.
Doppia merda.
La seconda causa le farà dimenticare anche del tre che si è assicurata con il compito di greco questa mattina. Per Saskia, gli avvenimenti sono un po’ come le pillole che butta giù; hanno forme e colori diversi, alcune sono davvero disgustose e le provocano conati, ma una volta ingoiate finisce tutto, si pensa alle prossime due, tre, quattro. E poi, lei si autoimpone di comportarsi almeno in superficie come un’evidente conferma che nel cervello di una bionda naturale può esistere soltanto un pensiero alla volta; Saskia ha un sacco di amici, ed è persino riuscita a convincere sé stessa di essere generalmente felice.
Perciò è per l’appunto felice quando all’ora di ginnastica scoppia un temporale e gli allenamenti di pallavolo vengono annullati. La palestra è occupata dai ragazzi che giocano una partita di calcetto e lei passa le due ore successive seduta sugli spalti circondata dalle compagne, a guardare il ragazzo biondo che corre da una parte all’altra, sudato e divertito e bello come un dio.
- Oh, ho appena notato i tuoi pantaloni. Sono nuovi? – le chiede Emma.
- Mmm? – Saskia si guarda le gambe fasciate – stritolate- dal jersey rosa fragola, abbandonando per un secondo la schiena del ragazzo biondo. – Non sono miei. Cioè. Ero da Lex e me li sono infilati per sbaglio.
Emma sgrana gli occhi e molla un risolino. – Sono di Leeex? – dice, allungando la “e” e scoppiando a ridere di nuovo.
Saskia sorride. – No. Sono della ragazza che ha dormito con me stanotte. Lex non era nemmeno in camera quando mi sono svegliata, ora ricordo!
L’amica fa una faccia sconvolta, sembra che la sorpresa le scivoli lungo il viso quando spalanca la bocca; Saskia stira le labbra pensando a quanto Emma sia stupida e torna a dedicarsi al biondo che ha segnato un goal e ride in mezzo ai compagni festanti. Non sa un cazzo della vita, Emma, pensa la bionda intenerita dal viso entusiasta del ragazzo. E’ felice di essere sé stessa. E’ felice di avere quei jeans addosso, anche se un po’ li odia per come le stanno segando le cosce, perché sono il simbolo delle figate che Saskia Viskji può fare solo perché è lei, perché le va.
Pensa a come le piacerebbe dire quanto sono scomodi quei jeans al ragazzo biondo e lasciarseli togliere da lui, e improvvisamente li odia un po’ meno.
- Bee. – pensa di dirgli Saskia. – Mi aiuti a toglierli, Bee?
 

Giugno 2002

I bambini tacciono, forse si sono dimenticati come si fa a parlare.
Può succedere anche questo mentre la nonna racconta e la Voce li porta via dalla camera senza bisogno di schiudere le tende o aprire la porta alle loro spalle.
Sunshine ha la bocca socchiusa e probabilmente non si rende conto dei capelli che le si incollano alla nuca mentre suda. Il pavimento sembra ardere nonostante non veda mai la luce del sole. Il caldo torrido dell’estate – un indizio di mondo vero in quella stanza impossibile – penetra dalle fessure tra le finestre e sotto l’uscio, indifferente a ciò che accade lì dentro.
In ogni caso, anche le tre persone nella stanza sono indifferenti a lui, come anche noi, anche se per ragioni leggermente diverse.
Ci si sente un po’ osservati, vero?
Lo sguardo della bambina non appare così vacuo a un’occhiata più attenta. Fissa incantata un punto preciso a mezz’aria nella stanza; se ci spostiamo dove la luce rossastra è meno fioca, più pura e trasparente, possiamo percepire un movimento di fili d’oro in un vento dolce e inesistente.
Ci vede.
Il bambino invece è diverso, guarda le labbra della nonna muoversi e il suo odio per lei vibra attraverso la stanza, intensificandosi nei nostri corpi traslucidi e irradiandosi lungo i nostri capelli. Ogni nostro movimento ne urta fisicamente una scheggia, scheggie di odio che vanno in pezzi tintinnando come cristallo e si ficcano a fondo nella pelle e negli occhi, nere, scivolose. Il bambino sta quasi male da quanto è pieno di angoscia, ma verso di noi non nutre rabbia, è troppo accecato da sé stesso per badare a noi in questo momento. Chissà se capisce che ogni sua cosa ci è nota.
Noi invece siamo al riparo dai loro sensi. Possono vederci, salvarci, disprezzarci, ma non vedono cosa contengono le nostre membra d’aria… i nostri cuori affogati…
Le nostre anime incrinate…
Nel vento di giugno, quell’aria sottile che fa frusciare gentilmente i raggi brucianti del sole, sentiamo uno di noi piangere, e le lacrime prendono a scorrere sul viso bianco della bambina. Il fratello gliele asciuga con le dita sottili, senza guardarla, le schegge d’odio rimangono sospese e traballano senza il suo sostegno. Guarda noi ora – un punto poco più alto della mia spalla destra.
 
 
Mi sa che stiamo per entrare nell’atmosfera vera e propria della storia, finalmente!
Ora, se lasciate un commento per farmi sapere che cosa pensate di questo qualsiasicosasia, non vi accadranno cose orribili, promesso!

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Capitolo 11
*** Verdastri Canti di Natale. ***


25 Dicembre 2010

 
Stanno seduti tutti e tre sul divano, imbronciati per varie ragioni – ugualmente imbronciati però, con un cipiglio che spinge sugli occhi le sopracciglia di Collins, fa diventare ancora più freddo lo sguardo di Brian e finisce negli angoli all’ingiù della bocca di Sun. Sono un unico muso lungo, bellissimi da guardare e tremendamente buffi nei maglioni di lana rosso-Natale che Grace gli ha infilato a forza. A Sun piacciono i maglioni con le renne bianche come la neve, Collins li detesta e Brian semplicemente li ignora.
Ha ottimi motivi, lui, per essere così arrabbiato.
Se suo fratello ce l’ha a morte perché alla veneranda età di 19 anni è ancora costretto a vestirsi in quel modo, travolto dall’entusiasmo natalizio di Grace, e Sun può essersi dispiaciuta nel vedere il tacchino completamente bruciato nel forno così, senzaq preavviso, mentre un secondo prima era stato gonfio, dorato e lucido di sugo cremoso, Brian fuma di rabbia per una questione estremamante seria.
Prima di tutto, la Lettera.
Il suo breve e acceso colloquio con lo spirito dal completo a righe gli aveva fatto sorgere deidubbi, chiamiamoli così per dirla con le sue parole, sul sistema (in realtà, a voi lo possiamo dire a bassa voce, ai margini di questa storia, che erano delle speranze, del tipo più puro. Non ditelo a Brian, si arrabbierebbe ancora di più, e oggi è Natale.); così gli era venuta in mente l’idea della Lettera, e siccome Brian è uno che le idee le mette anche in pratica, l’aveva scritta e consegnata ad un drappello di spiritelli di passaggio – ci sbattevi addosso ad ogni metro, sotto Natale.
Poi aveva aspettato, lambiccandosi il cervello cercando di trovare un senso alle parole dello spirito dal completo a righe, che aveva pronunciato parole che ancora giravano in tondo nella testa del ragazzo: “istituzione”, “organizzazione”, e poi quelle a cui non voleva assolutamente pensare, “unici” e “rimasti”. Forse erano stati solo i modi pomposi di un cliente esigente, ma quelle parole avevano fatto riflettere Brian, perché se loro erano un’istituzione doveva per forza esserci un vertice del potere, ovvero degli altri come lui – come la nonna, come Sun – che avevano una qualche voce in capitolo e che sapevano come imporla anche alle orecchie indisponenti degli spiriti. E il capitolo che interessava a Brian riguardava le dimissioni da quel mondo impazzito.
Per qualche meraviglioso giorno, il ragazzo aveva accarezzato la possibilità di restituire tutto quello che gli era disgraziatamente capitato in sorte nel corredo genetico, ma poi qualcuno aveva grattato con le unghie alla sua finestra, e un odore di erica e di mare e di legno scuro l’aveva svegliato e guidato fino al parcheggio sotterraneo del centro commerciale in fondo all’isolato. Una donna lo aspettava sotto un alone di violenta luce al neon che creava delle interferenze nel manto della pelliccia che indossava, altrimenti perfettamente credibile.
Senza una parola, aveva allungato una mano e Brian aveva teso di riflesso una delle sue per prendere la busta che gli porgeva. Era una lettera.
Era la Lettera che lui stesso aveva spedito. Solo che era tornata indietro, perché il destinatario non esisteva più.
Sul viso della donna, intaccato dalle righe viola di interferenza come una televisione non sintonizzata, era comparso il riflesso della tristezza infinita, fredda e desolante che aveva avviluppato il cuore del ragazzo. Faceva male guardarli, così male che tutte le luci si erano spente e noi ci siamo fermati in mezzo alla neve a cantare una preghiera.
Nei giorni immediatamente seguenti è stato: depresso, apatico, nervoso, irascibile, furente. Ora è livido. Non riusce ad essere abbastanza triste per questa solitudine insopportabile, per cui ha deciso di trasformarla in rabbia e testardaggine.
E c’è un’altra cosa. Una cosa importante.
Benjiamin ha sentito tutto. E le spiegazioni, Brian non è mai stato molto bravo a inventarsele, per cui da quel giorno ha cercato di evitarlo in tutti i modi, una faccenda piuttosto complicata se la persona che cerchi di evitare è il tuo migliore amico preoccupato e curioso.
Sente Collins sbuffare e pensa distrattamente che non gli ha comprato nessun regalo. Pensa anche di non dispiacersi abbastanza, perciò si alza – rotto il quadretto dei tre fratelli sul divano – ed esce dalla porta di casa con la ferma intenzione di trovare un regalo per Collins, inseguito dal fruscio della risata di Sun: come cavolo spera di trovare un negozio aperto la sera di Natale?
È una brutta cosa da dire, ma Brian non vuole bene a Collins. E non è per il fatto che ha quell’aria sana e robusta da ragazzo di provincia, o perché ha la patente. È una freddezza emotiva che ha qualcosa a che fare con il caldo colore scuro degli occhi del maggiore, così diverso dall’azzurro trasparente dei suoi. Con i sonni tranquilli del primo e le notti imbevute di terrore del secondo.
Ha a che fare con il sangue; ma adesso Brian non ha voglia di star male pensandoci. Cammina in calzini sul tappeto di neve sulla strada. La sera brilla, accesa da quel bianco che anastetizza i sensi del ragazzo: è come se dormisse, le orecchie si riempiono di un silenzio ovattato – sono in lontananza ronzii di motori, tintinnii di bicchieri, dei lievi scoppi di petardi – le tracce diventano quasi impercettibili, solo neve, solo bianco, il dolce sonno.
Solo, in mezzo ad una strada che a vederla così non si direbbe nemmeno tale. È così semplice, in mezzo a quel nulla, dimenticare per qualche intorpidito istante.
Cerchi di neve luccicano ai piedi dei lampioni. Brian pensa a come sarebbero belli dei lampioni vaganti; stanno lì ad aspettare, a lato della strada, che qualcuno infili una moneta da venti centesimi in una fessura e spinga una leva dal pomello arrugginito. Basta poi afferrare una piccola maniglia, come i bambini afferrano la mano dei genitori, e il lampione ti segue ovunque tu voglia andare, procedendo sbilenco su degli abbozzati piedi di ferro: un cono di luce giallina e un compagno di viaggio nella notte. Tutti i bambini tornerebbero a casa, pensa Brian.
Noi siamo raccolti in un piccolo gruppo sotto un pioppo rinsecchito. La neve brilla verdastra quando sorridiamo, c’è ancora più silenzio nella nostra voce quando auguriamo a Brian un buon Natale; lui ci guarda e passa.
Uno scoppio improvviso, più forte degli altri: BANG. Fischiamo insieme, spaventati, le nostre urla e le loro risate qualche isolato più in là penetrano nella testa del ragazzo, schiantandosi, scindendosi e moltiplicandosi.
Brian spalanca gli occhi trasparenti e respira annaspando come se gli mancasse il respiro. Quanto vorrebbe non respirare, così non lo sentirebbe; e invece eccolo, gli sembra di berlo dalla bocca aperta, dal naso, dagli occhi.
Sangue, e le loro risate a qualche isolato più in là.
È una pozza, nera sulla neve proprio dietro quella fila di casette. Le risa si disperdono, ma l’odore ha imbevuto l’orlo dei loro jeans.
Hanno infilato nella bocca di un randagio dei petardi accesi e sono rimasti a guardare la mandibola del cane che esplodeva e saltava via in uno spruzzo scarlatto, poi se ne sono andati strisciando i piedi. Brian si tappa il naso e la bocca con la mano, la puzza è troppo forte, e si inginocchia accanto al cane sdraiato su un fianco, la schiena inarcata scossa da spasmi di dolore. Lo accarezza, non capisce se è la sua mano a tremare in quel modo o è l’animale. Chiude gli occhi, accompagna con le dita il respiro affannato del cane finchè si estingue nell’ultimo sbuffo di vapore.
Le loro impronte sulla neve e l’odore di sangue che si sono portati dietro fino al tavolo di un bar fumoso li rendono dei topi in trappola: per Brian sarebbe davvero troppo facile scovarli. Sente distintamente l’aspro sentore di bruciato sulle loro dita, riconosce i loro visi quando si sfilano i cappelli e abbassano i cappucci; alcuni vanno alla sua stessa scuola. Il bar è vicinissimo: dietro l’angolo.  
E allora perché non si muove? Perché è ancora seduto di fianco al corpo del cane, con le mani premute contro il viso, gli occhi serrati?
Passa qualche minuto o forse perfino un’ora, lui è ancora lì. E c’è anche qualcos’altro, ora, che si distingue a malapena, strizzando gli occhi, per la luce vacua di cui si accende a tratti. Come una palla di vetro piena di brillantini minuscoli che cadono e cadono, solo che non è una palla, ha una forma bassa e allungata e sembra camminare a quattro zampe, perché si avvicina piano al ragazzo e gli sfiora un gomito. Brian abbassa le braccia, torna a respirare. Incontra lo sguardo dello spirito, che lo sfiora ancora – con il muso, pensa lui – e si addensa quasi come una nebbia per farsi vedere.
- Non posso farti andar via. – Gli sussurra dolcemente Brian. – Non ho il fuoco.
Lo spirito lo guarda dalle sue orbite lucenti come bottoni.
- Puoi restare con me, nel frattempo.
Gli sale un groppo in gola.
- Domani torniamo qui e ti faccio andare via. Porto dei fiammiferi, okay?
Non riesce più a parlare. Lo spirito continua a guardarlo, con vacuo affetto.
 
Brian si inzuppa i pantaloni camminando nella neve verso casa, lo spirito lo segue a pochi passi di distanza.
Ho un cane,pensa. Assurdo.
Ha anche un nome per lui. Mr Bungle. Sembra che gli piaccia.
 

Novembre 2012
 

A scuola non c’è.
Brian lo sa prima ancora di entrare nel cancello, perché l’odore di sua sorella lì è vecchio di ore e una scia fresca invece partiva da casa loro e andava da tutt’altra parte. Verso la stazione.
E anche se lo sa benissimo, anche se è già tardi – troppo, troppo tardi, - anche se ha ancora le dita sporche della cenere della bruciatura sul tavolo, non può fare a meno di cercarla in tutti i corridoi e in tutte le aule, correndo e scivolando sulle piastrelle verde oliva e schivando gruppi di studenti.
Quando la campanella suona è al punto di partenza: piegato in due, col fiato corto, appoggiato alla ringhiera che percorre l’ingresso dividendolo in sezioni. Appoggia la guancia al metallo smaltato giallo, il dolore al viso prende per qualche secondo un corpo diverso dal suo.
Cazzo no.È malata, è uscita fuori di testa. Calimber l’ha fatta impazzire del tutto e se l’è trascinata dietro. O lei si è trascinata dietro Calimber, e sono impazzite entrambe nello stesso attimo. Cazzo, cazzo e porca puttana. Si prende la testa fra le mani, infila le dita fra i capelli corti, bagnati del suo sudore freddo. Starebbe lì immobile fino alla fine del mondo, ed è l’ultima cosa che può permettersi di fare.
Perché sa dov’è andata Sunshine, e sa che deve andarla a prendere. È solo che ha una paura paralizzante di seguirla.
La nebbia, la nebbia gli invade il cervello, il ragazzino che cade nella nebbia dal ponte, cade e cade e cade e non arriva mai all’acqua, non finisce dentro il fiume, non lo trovano di più. Il buco in quel bianco fumoso, la cicatrice che si chiude dietro di lui subito dopo il passaggio delle scarpe da ginnastica. E cade. Ma nessuno sa dove.
Brian sta quasi per mettersi a piangere e crollare lì, un mucchio di polvere ai piedi delle scale del suo liceo.
- Brian, che ci fai qui? In classe, su!
Si solleva di scatto e gli gira la testa, si afferra alla ringhiera per reggersi. La profesoressa di francese balza avanti come per aiutarlo, poi arrossisce e fa un passo indietro.
- Ehi, tutto bene? Brian? Stai male?
- Sì… no, no. Ora vado, sì.
Lei si ricompone. Lui si raddrizza, ma resta lì impalato. Non gliene importa tanto, ma non vuole uscire dalla scuola proprio davanti a lei. Complicazioni burocratiche.
- Non puoi indossare gli occhiali durante le lezioni. Aspetta, hai la faccia sporca?...
Brian la lascia fare mentre allunga le dita davanti al suo viso e gli sfila le lenti con delicatezza. Sembra che guardi con dolcezza gli occhi della donna spalancarsi e subito dopo stringersi in un’ espressione spaventata; in realtà osserva il flusso del suo sangue aumentare di colpo e il calore del suo corpo farsi più intenso. Gli fa un po’ pena.
Si riprende gli occhiali e corre via: nella direzione giusta, per la prima volta.
 
- Mia sorella è scappata di casa. È successo dopo che nostro padre mi ha picchiato, lei è uscita di casa, ma è tornata, sì, è tornata tardi che era notte fonda, credo, ma stamattina quando mi sono svegliato non c’era più e io…
- So dov’è andata. Come?... No, non me l’ha de-… No, è solo che…
- Penso, penso che sia andata lì. Sì.
- Cazzo, ma le dico che sono sicuro, le entra o no nel cervello?
- Sedici. Io diciassette.
- Brian, Turner… Sunshine, Turner… Ma ci vuole molto, cazzo, non la potete andare a….
- Mi scusi un cazzo, eh, mi stia a sentire. Che anno?.... 1995. 1 gennaio. Lei 14 aprile, 1996.
- Va bene. Sì. Va bene. James Turner è mio padre, gliel’ho già…
- No. Mia madre è morta due anni fa.
- Resto qui. Okay. Okay.
 
Ma ci deve andare, ci deve andare comunque. Sul tavolino della saletta nel commissariato di polizia, Brian si mette a contare gli spiccioli per il biglietto del treno.
Cerca di metterci più tempo possibile, tanto che un uomo lì accanto si chiede a voce un po’ troppo alta che diavolo insegnano ai ragazzi a scuola. Indossa un completo di lino verde con delle sottili righe bianche, e nessuno dei funzionari che entrano ed escono dalla saletta sembra preoccuparsi della sua vaga trasparenza contro il blu del muro a cui si appoggia. 

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Capitolo 12
*** Dark Boom Honey. ***


Giugno 2002, ma un po’ dopo.

Le distese d’erba sono posti sicuri; questa è l’unica cosa nella vita di cui si deve sempre esser certi. Che cosa ti potrebbe mai capitare, accarezzato da sottili braccine che si piegano docili al vento caldo dell’estate, umano contro il verde scorrere dell’erba, sorvegliato dal cielo terso?
Niente, assolutamente niente.
Perciò, anche se in ogni altra attività è braccato dall’ansiotico corpo di guardia composto da suo padre e sua madre e, in loro vece, da Collins, quando invece gioca in giardino Brian viene lasciato in pace, sotto la custodia dei fili d’erba.
Jimmy e Grace hanno deciso di preoccuparsi per i loro figli più giovani; infatti le loro stravaganze hanno cominciato a passare il limite tra il tenero e il disorientante, propendendo soprattutto per il secondo. Così li osservano, sempre. In realtà non sanno bene quale punto venga dopo l’osservazione di tutti i loro gesti, ma a loro sembra comunque di fare un buon lavoro, ed è vero che i brutti episodi sono rimasti limitati dall’inizio dell’estate.
È una vera fortuna che Jimmy e Grace siano così assorbiti dal loro ruolo di genitori nella norma di figli nella norma, perché altrimenti si accorgerebbero facilmente che Sun e Brian sfuggono a ogni categoria di bambini presentata nel libro sull’educazione infantile che troneggia sul divano in salotto. Sono descritti in ogni riga, in ogni lettera. Sono un’immagine evanescente che traspare in mezzo ai simpatici caratteri stampati, prendendosene gioco: sono tutto, e quindi niente. In questo modo, Brian deve svegliarsi agli orari stabiliti dal libro a pagina 37, consumare i pasti raffigurati nella tavole a colori degli inserti dietro la quarta di copertina e giocare a pallone con suo padre per rafforzare il lato femminile e affettuoso del loro rapporto, ma può stendersi a pancia in giù sull’erba quando gli pare e stare per tutto il tempo che gli serve a fissare l’ombra del melo davanti al suo nasino.
Sente un calore piacevole spandersi sulla schiena, come una nuvola di vapore sospesa sopra la maglietta: pizzica la pelle e scurisce le lentiggini sul suo viso. Sembra perso nei suoi pensieri, forse addormentato. A Grace piace pensare che c’è una vena artistica nei modi di fare di Brian, e bisogna dire che non è caduta troppo lontano dalla realtà; se gli artisti aprono squarci nel mondo per immettervi i propri, il bambino sembra avere una certa tendenza a rifugiarsi in pezzetti di dimensioni, grandi abbastanza per spiare attraverso le cuciture saltate, con un occhio solo. Ed è quello che sta succedendo ora.
Con le palpebre strizzate, la fronte corrugata, Brian scruta attraverso i fili d’erba. Non possiamo dirvi ciò che vede danzare sulle creste della realtà impercettibile: quegli spettacoli sono inviolabili per noi, anche se vi assistiamo costantemente. Le nostre parole non sono che le impronte di quelle che abbiamo pronunciato quando era ancora Aria che ci faceva vivere, e non sbattere di qua e di là impotenti contro il vento forte, false eco ammucchiate in cerca di senso – questa è la nostra forma – brancolanti spezzoni ripetuti da un registratore lasciato acceso nel mezzo di una conversazione insignificante, una volontà muta che raschia una gola di carta bruciata.
Imitiamo la vostra esistenza, ma le parole restano caos di indefinizione, mere più delle bugie, soggetti o oggetti del nulla.
È davvero triste per noi guardarvi, confidiamo a Brian attirando la sua attenzione con le flebili luci con cui illuminiamo le foglie del melo; il gioco lo diverte, cerca di accendere i fili d’erba stringendoli tra indice e pollice e compiamo noi l’illusione per lui, per vederlo ancora ridere e godere del suono della sua voce, e cercare di imprimerlo nelle nostre assurde memorie e provare a ridere anche noi, più tardi quando se ne sarà andato.
Perché, chiede. Perché siamo tristi, non appena torna serio.
Non ci siamo più, rispondiamo; aggrotta la fronte, ma io vi vedo, siete qui.
Guardaci. La nostra pelle è acqua che imbeve la terra e non la sazia, lacrime sulle foglie e una luce che in realtà non è che l’allucinazione della luce vera, piegata e distorta dai nostri falsi corpi, è il sole che ci dà la caccia e cerca di smascherare il nostro trattenerci qui.
Io posso aiutarvi, dice Brian, anche se non sa ancora come.
Sì. Tu sei nato per aiutarci. Vorremmo tanto toccarti, sai; sembri così caldo e vivo e compatto sotto, nella luce; il tuo corpo, vedi, risponde alla luce, dialoga con Lei in un linguaggio pieno e sottile e liquido e sonoro, una lingua di fuoco tiepido e acqua del più bel colore azzurro che tu possa immaginare, il più bel ricordo del color azzurro che permea le nostre menti a brandelli.
Ma sprechiamo desideri, sai. I soffioni non vengono raccolti tutti, i temporali primaverili li falciano via prima che la lanugine diventi desiderio. E così anche voi non siete che solchi già tracciati, tacche lungo cui arranca l’affanno della trascendenza di un’anima; non valete la pena più di un sospiro profondo tre quarti di secolo.
Il calore sulla sua pelle si spegne all’improvviso come se il sole si fosse fulminato.
 

Inverno 2010.

Essere giovani non porta dolore. Ma essere giovani per sempre è come alla fine un continuo nascere, crescere, invecchiare, dilaniare la carne e accucciarsi su un lembo di terra gelida per spirare in solitudine. E poi nascere, ancora. Venire alla luce.
Sembra la cosa più bella del mondo, vero?
E in effetti è così, direbbe Sun in un sussurro al vostro orecchio.
Trascurate di chiederlo a Brian, se non volete guadagnarvi un’occhiata gelante – o un occhio pesto. Non è cattivo, è solo una di quelle persone a cui il cuore si piega e si sgretola per i dettagli che agli altri sfuggono. Come la gioia negli occhi di chi sta aspettando lo svelarsi di una sopresa, quella gioia luccicante che contiene l’idea del vero desiderio di quella persona, che rimarrà inevitabilmente delusa, ecco. L’umore di Brian è condizionato dal modo in cui qualcuno ride, o da come le foglie pendono dagli alberi in autunno.
Attirate l’attenzione di Benjiamin; vi sta ascoltando, anche se guarda fuori dalla finestra. Fissarvi non gli piace, si concentra meglio su ciò che ha da dire se volge lo sguardo altrove, non è molto bravo con le parole. Forse la domanda lo lascerebbe ammutolito. Sarebbe bello, certo, ma oltre il condizionale la mente di Bee non riesce a spingersi; sa che non è e non sarà mai, forse Bee crede in Dio anche se non vuole dirlo a nessuno. Forse sa che cos’è un imperfetto ludico stipulativo, e questo è davvero molto importante in questo preciso momento – sarà l’unico della sua classe a non sollevare eloquentemente le sopracciglia scorrendo la domanda sessantotto della prova invalsi di lingua e grammatica. L’imperfetto ludico stipulativo e la domanda sessantotto accendono di un’improvvisa, bellissima luce azzurra il suo cervello, in una fulminazione che lo lascia con la penna a mezz’aria e gli occhi strabuzzati in maniera piuttosto teatrale.
No, non potremmo dirvi che cosa sia l’idea che gli ha appena trapanato ogni terminazione nervosa.
Sì, ve lo diremo lo stesso. La verità è che leggendo la parola “imperfetto” gli è subito venuta in mente la crepa della porta Ovest d’evaquazione, seguita dall’immagine dei dolci sempre troppo molli o troppo secchi di Grace Turner (nonostante tutti gli sforzi culinari della donna; in sua difesa bisogna dire che i biscotti della quarta tavola a colori del libro sull’educazione degli adolescenti sono particolarmente complicati), immagine soffocata dal tessuto spesso della maglia di Brian quel giorno in cui l’ha sorpreso a discutere concitatamente con il muro scrostato della scuola, o forse con i gradini della rampa antincendio. Su “ludico” galleggiano le risate nascoste nelle maniche dei vestiti di Sunshine, quando prende in giro le persone facendo finta di cadere in trance. Ma è “stipulativo” a far urlare tutte insieme le sirene d’allarme nella testa di Benjiamin, aula di lingua, corridoio del terzo piano, ore 10:34; gli sguardi obliqui fra i due fratelli Turner sono tacite riprese e ammonizioni, accordi intessuti nella fibra del silenzio e di iridi azzurro trasparente, guerre dichiarate senza sudore di corpi inutilmente mossi e paci ristabilite da palpebre sottili e frementi.
Benjiamin realizza che né Brian né Sunshine hanno la minima idea di che cosa sia un imperfetto ludico stipulativo; loro credono davvero a tutto ciò che di pazzesco hanno finora raccontato – e taciuto, soprattutto – a lui e ad Eric. I loro accordi silenziosi, il loro cameratismo esclusivo non ha nulla di costruito e stipulato.
Le storie di Brian e Sun, le loro vite, loro sono reali. In un modo così assoluto e concreto che Bee si sente svuotato di un senso importante non appena concepisce il pensiero.
 
Essere giovani per sempre?
Eric sorride un sorriso strano e corre via.
 
- Dov’è? Non è da nessuna parte. Non qui, non altrove.
Benjiamin lancia i sassi attraverso i fori della rete, osservando le nuvole macilente che si arrampicano in un cielo color latte. Lui e Squarrel si trovano in uno spiazzo incastrato fra il fianco occidentale della scuola e la recinzione che la separa da una distesa di campi denudati dalla stagione. I rumori degli studenti in ricreazione arrivano dal cortile, nascosto alla loro vista da una striscia di arbusti che emanano un brutto odore di ferro.
- Taglia corto, Squarrel. Devo parlare con Brian e tu sai dov’è. Dimmelo.
Se vuoi sapere qualcosa, una cosa qualsiasi, il Covo di Squarrel ti dà il benvenuto tutti i giorni dal lunedì al sabato, orario scolastico e non. Dal prezzo di mezzo grammo al periodo mestruale della inserviente con la parrucca, dai risultati delle partite di NBA al numero di formiche che Eddie Borghoff tiene nel cassetto, alla marca delle mutande di Rosie Wick, alle nuove forme gergali, Squarrel sa tutto, sempre. Nonostante la fonte inesauribile di informazioni pazzesche che questo ragazzo raccoglie in segreto – non ha mai fatto una domanda, a nessuno. Come diavolo fa a sapere che Kristi è incinta? – gli studenti di solito si tengono alla larga dal Covo, perché è diventata ormai una convinzione diffusa che quello strano ragazzo possa apprendere ogni tuo segreto semplicemente guardandoti con quei suoi orrendi occhi viola.
- Non vuole farsi trovare. In questo momento è invisibile, senza corpo, né impronta sull’asfalto. Vedi Bee, il tuo amico si detesta abbastanza da annullarsi, ogni tanto.
Nugoli di moscerini sopra i campi. Odore di ferro. Benjiamin trova un sasso azzurro e se lo mette in tasca.
- Devo parlare con lui. Non ho tempo di star qui a sentire le tue cavolate. Per favore.
- Dove va chi non vuole essere trovato, Bee? Dove si nasconde chi ha paura della caccia?
Sta per cominciare a piovere, decide Benjiamin passandosi una mano fra i capelli corti e umidi.
- Io dico che il piccolo Bri-Bri ha proprio la faccia di uno che non riesce a dormire… - Incalza Squarrel. Non gli piace essere ignorato; non gli piace non dare risposte. Bee si volta di scatto a guardarlo spalancando gli occhi nel momento in cui afferra il senso delle sue parole, e Squarrel si sente incredibilmente pieno e soddisfatto. Si aggiusta il cappello cencioso.
- Grazie, amico. – Fa il biondo allungandogli una Lucky Strike.
 
Il secondo piano del padiglione Est è occupato per intero dall’infermeria.
Detta così la fa sembrare proprio enorme, vero? Invece è molto piccola: uno stanzone quadrato quattro metri per quattro arredato da due letti dall’aria secca e triste, coperti da uno strato di carta a strappo, ruvida e sottile e color menta, un armadietto per il primo soccorso e uno scaffale di fotografie del primo marito dell’infermiera Roberts. In realtà l’ufficio di questa signora bassa, secca e color menta come la carta a strappo occupa tutto il resto del piano, ma nessuno è mai riuscito a entrarci e scoprire cosa mai ci sia dentro – nessuno, a eccezione forse di Squarrel, ma nessuno gliel’ha mai chiesto.
Benjiamin, per nulla scoraggiato dai letti vuoti che trova nell’infermeria, riesce a tirar fuori la signora Roberts dal suo ufficio e a spedirla, armata di valigetta di Pronto Soccorso, dalla parte opposta della scuola a salvare una certa Annie che pare abbia battuto forte la testa cadendo dalle scale e perda un sacco di sangue, abbia la tonsillite e sia pure svenuta. Non si può non credere agli occhi verdi di Bee, perciò la signora Roberts parte giù per le scale con una fretta e uno spirito che stupiscono non poco il ragazzo.
C’è una certa eccitazione, lo ammettiamo anche noi, mentre schiude la porta verde menta dell’ufficio dell’infermiera e ci si infila dentro. Meraviglie, meraviglie sigillate in barattoli cilindrici e esagonali e quadrati e da biscotti scozzesi e meraviglie che luccicano in controluce sospese in liquidi colorati e densi come miele, meraviglie senza forme e senza tempo invadono la stanza, ma purtroppo non c’è tempo per ammirarle e adorarle, come desiderano da tanti anni.
I cassoni disposti in fila a ridosso del muro hanno i cassetti contrassegnati da una targhetta plasticata e delle grandi ante quadrate di laminato scuro. Benjiamin le apre una dopo l’altra scoprendo che in realtà custodiscono solo polvere e dei pezzi di carta giallastra sparsi sul fondo.
Inginocchiato sul pavimento, Benjiamin trova Brian dietro l’anta dell’ultimo cassone a destra, rannicchiato contro la parete di fondo, le braccia strette al petto che si solleva ad un ritmo lieve, un non-ritmo di piccoli respiri di polvere orchestrato con la punta delle dita da un Sonno maldestro.
 
Dalla porta arrivano il fiatone dell’infermiera, i suoi tacchi sul pavimento e le sue imprecazioni contro di lui; Benjiamin entra in fretta nel cassone e chiude l’anta piegando le gambe il più possibile. Lo spazio è grande abbastanza perché possa rimanere incastrato lì al buio ad attendere che l’effetto dei sonniferi ingeriti da Brian si esaurica, finché il buon odore della carta vecchia lo fa scivolare nel torpore. In questo stato, con i sensi attutiti e sparsi per il corpo che non riesce neanche a vedere, crederebbe a qualsiasi storia. 

 
 
 
 
 
 
 
L’Autrice:
Ecco qui per la felicità (?) del miei quindici lettori, il nuovo capitolo!
Dai, sprecatevi e fatemi sapere perché cavolo continuate a leggere; sarebbe molto interessante! 

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Capitolo 13
*** Asfodeli da armadio. ***


 Novembre 2012

Alcune situazioni non possono che presentarsi nei giorni di pioggia.
I ventagli di nuvole intagliati dai graffi violenti di un vento selvatico cavalcano il cielo plumbeo, vomitando acqua in scroscianti lamenti, e i fuochi si accendono, i panni fumano, i nasi gocciolano, ci si stringe le braccia al petto e si intrecciano le dita davanti alle labbra schiuse da un lungo respiro caldo. Le porte si chiudono, appoggiate agli stipiti con la cautela di chi ha paura dell’eco dei propri passi; si spalancano le ferite, ricucite da un Passato assuefatto con i suoi capelli scoloriti e la punta di un’unghia: si spalancano sotto i colpi della pioggia, come le pozzanghere che scavano le strade di campagna e inghiottono il terreno intorno, sciolto, morbido.
E non se ne accorge nessuno, perché non guardano per terra, ma fuori dalla finestra, per cogliere la luce del lampo, sempre troppo tardi.
Le ragazze nel campo di pallavolo della Met alzano in sincrono i piccoli menti pallidi verso le nuvole scure, accogliendo sulle guance compatte le prime goccie, grosse e rumorose sulla loro pelle tesa: nel giro di pochi secondi diventano secchiate, rivoli continui d’acqua gelata sotto cui le ragazze danzano, ridendo e vorticando con passi ineguali, spruzzandosi con le punte delle code di cavallo e strattonandosi per le magliette fradicie con le dita appuntite. I loro denti bianchi e dritti brillano dietro la cortina di pioggia finchè la professoressa di ginnastica le raggiunge gridando, riparandosi con una felpa, e le spinge in fretta nell’edificio. L’ultima ad entrare è quella ragazza che tutti guarderebbero se questa fosse una fotografia; ancora invischiata nel sogno, ancora persa in un giro su sé stessa, per dimenticare, per respirare. Dopo un po’ le sue gambe di jeans rosa fragola si fermano, la danza è sciolta e l’ha lasciata un po’ sconcertata a fissarsi i piedi.
Qualcuno deve gridarle dalla porta, perché i suoi occhi scattano in su e un sorriso con qualche strascico di smarrimento le nasce sulle labbra.
Il pallone rotola via e si infila sotto un cespuglio di bosso.
 
Il temporale inizia quando arriva di corsa al parcheggio della stazione, silenziosa e deserta nella sua stasi mattutina, dopo che la folla di studenti e pendolari l’ha abbandonata; precisamente, inizia quando alza il viso per vedere il sole scomparire dentro una nuvola scura.
Ci metterà troppo tempo ad arrivare in treno. Troppo tempo, sussurriamo fra i buchi delle sue scarpe,  per uno che è in grado di rendersi invisibile leccandosi la punta dei polpastrelli. Oh, come sarebbe bello se credeste alle nostre parole stonate: potremmo raccontarvi di un ragazzino, un ragazzino magro e con la pelle indifferente alla pioggia gelida, che nel parcheggio vuoto, davanti ad una stazione ferroviaria di mattoni screpolati, con un salto elegante si arrampica come un gatto su un alto palo elettrico, spaventando gli uccelli appollaiati lì in cima, e dopo aver girato un po’ lo sguardo intorno, ecco, allunga un piede, le braccia aperte e tese sopra i fianchi a cercare l’equilibrio, o il giusto soffio di vento per spiccare il primo volo, ora è sul filo, si sbilancia bruscamente, in punta di piedi
sta per cadere, i cuori vi balzano in gola perché il cavo ondeggia e lo vedete già a terra, il ragazzo, il viso nell’asfalto e le mani di pietra, e prendete fiato per gridare.
Invece il secondo dopo è di nuovo immobile: sorride, è così facile, il vento gli riempie le pieghe dei vestiti e anima i capelli in una bellissima scena impossibile.
 
Vedreste un ragazzo attraversare il cielo, sfilando sui cavi telefonici, e noi trascinati dalla sua corsa, come acquiloni di carta scadente e piena di buchi.
 

Luglio 2002

- Brian, tesoro, vedi se riesci a convincere la nonna a uscire con noi.
Brian brontola, mugugna, pesta i piedi, guarda sua madre in tralice e poi aggancia lo sguardo di Collins per cercare sostegno: tanto la nonna non è mai uscita di casa, perché dovrebbe farlo oggi, e per festeggiare la festa di un Paese in cui odia stare così tanto da essersi ricostruita il proprio in una stanza?
- Fila, o non ti compro le gomme.
Il bambino scaglia un’ultima occhiata rancorosa alla mamma, che lo ignora totalmente per dedicarsi alle pieghe del proprio abito verde – bello e lucido, liscio come una carezza – e si avvia rassegnato al piano di sopra. Prima di aprire la porta in fondo al corridoio, indugia con le dita sulla maniglia di ottone ossidato, che, come la gobba di un gatto mentre fa le fusa, si gonfia in una “s” ad accogliere morbidamente il palmo della sua mano. Brian ha già le vertigini. Quando abbassa la maniglia e schiude appena la porta, le ombre si riversano sul pavimento e lo afferrano per le caviglie.
Le candele sono accese e le tende chiuse, il soffitto è immerso nel buio e potrebbe essere distante chilometri e vomitare le eco dei rumori nella camera, se solo un qualche rumore infrangesse le mute regole del regno in fondo al corridoio.
Senza nessuna intenzione di avvicinarsi al letto, Brian rimane con la schiena incollata alla porta e la mano destra serrata intorno alla maniglia; non ha esattamente paura, ma è rigido e all’erta, come un animale che ti ha sentito arrivare e si è immobilizzato, con le orecchie tese, pronto a schizzare via.
- Oggi è il tuo compleanno, Brian. – Esordisce la Voce senza preamboli. – Ti voglio fare un regalo.
- No. – Risponde meccanicamente il bambino, preso in contropiede. Poi si ricompone. – No, oggi non è il mio compleanno. Siamo in luglio. La mamma ha detto di chiederti…
- Stai zitto. Che pretese hai di conoscere il giorno, se non percepivi che il ventre.
Brian non capisce bene quello che sta dicendo la Voce, ma sa che, il giorno della sua nascita, il medico ha scritto sul suo libretto la data e l’ora del parto, insieme a un sacco di cose eccitanti, come la circonferenza del suo cranio da neonato. Senza contare che sono sette anni che, ormai, vede la torta e i regali sempre lo stesso giorno.
- Oh, ma non è come ti hanno raccontato. Non fidarti di loro, non aprire le orecchie alle loro parole. Che cosa sanno, loro? Hanno bisogno di scrivere ogni cosa per poterla ricordare. E costruiscono le loro leggi su ciò che hanno trovato di scritto, in scrigni polverosi sepolti sotto la terra. Quale verità custodiscono i sassi, Brian? Quella dei topi che la rodono, quella degli insetti?
Lui non risponde più. Vorrebbe correre giù a prendere il suo libretto delle cure mediche e mostrarlo alla nonna; vorrebbe diventare improvvisamente forte come un supereroe e lanciare il letto dalla finestra, che pensiero terribile gli sta attraversando la mente, e non si accorge di che cosa c’è di strano, strano davvero: non riesce ha sentire l’odore del sangue della nonna. E questo non è mai, mai capitato con nessun’altra persona.
- Non vuoi il tuo regalo?
No, vuole soltanto andare via. O forse un po’ di curiosità gli è venuta, condensatasi sotto la maglietta blu, e ha solo troppa paura di avvicinarsi al centro della stanza e guardarla in viso. Alla fine si decide a staccarsi dalla porta e avanza, circospetto. Azzarda un’occhiata alle mani della vecchia seduta sul letto: sono vuote, intrecciate sopra il risvolto della coperta pesante.
- Cos’è quella faccia? Avvicinati.
- Ancora.
-Ancora.
Il cuore comincia a battergli in petto, sfarfallando contro le costole. Il nero si dilata davanti ai suoi occhi, ipnotizzandolo; non distingue più nulla nella camera e sente le ginocchia molli.
- Ti regalo la verità, Brian. La risposta sincera ad una domanda che vorrai porgermi. Qualsiasi cosa chiederai, io risponderò. Ti piace? Ti piace il tuo regalo?
 
Grace le tenta tutte: biscotti, carezze, baci, minacce di non comprargliele sul serio, le gomme che bruciano la lingua, e poi implori, ancora coccole, ma non c’è verso di frenare il pianto incontrollato di Brian, che gli arrossa le guance e gli occhi e lo lascia scosso dai sussulti. Alla fine lo caricano in macchina ugualmente e per tutta la notte Grace lo tiene in braccio, e pazienza se le sporca il vestito, lo stringe forte e ascolta il suo cuore disarmonico mentre guarda le stelle cadere sulle fiaccole accese lungo le strade.
 

Inverno 2010

- È perché è qualcosa di grave, vero? Di terribile. Non c’è bisogno che me lo tieni nascosto, te lo vedo scritto in faccia, te l’ho visto negli occhi il giorno che ti ho conosciuto. Lo dicevano loro, me ne parlavano senza che io chiedessi niente, non ti arrabbiare, non era per farmi gli affari tuoi. Erano i tuoi occhi. So che c’è qualcosa. Tu non vuoi dirlo, ma i tuoi occhi sì.
Mia mamma aveva detto che dovevamo venire a porgervi le condoglianze, e ci aveva spinti fuori di casa in quella nebbia sottile che scende in autunno. Io pensavo che ci volevano i biscotti, primo perché ero pieno di sonno, e poi perché mi ricordavo il funerale di un mio zio in cui ci hanno fatto scoppiare di biscotti, invece che in lacrime. Senza biscotti in mano avevo una paura terribile di vedervi piangere. Tua madre era tranquilla, sembrava che non si aspettasse minimamente di vederci e fossimo una piacevole sorpresa per colazione. Ma tu, tu avevi una faccia.
Brian si stringe le braccia sullo stomaco, al buio.
- Io ero felice che fosse morta. Io ho sempre voluto che fossemorta. E in un certo senso…
Il respiro di Benjiamin si stropiccia contro le pareti dell’armadio, raschiando l’anta di legno e rovinando negli angoli polverosi.
- L’hai uccisa tu?
- No, - risponde, dopo averci rimuginato su. – in un certo senso, dicevo, lei… Lei era già morta, ma non so se puoi capire.
- No. Spiegamelo. – sussurra Bee.
- Non sentivo l’odore del suo sangue, ed era impossibile, perché è proprio quello a cui servo: sentire l’odore del sangue. Ma non il suo. Quando ero vicino a lei, era come se il mio senso non fosse in grado di sintonizzarsi sulla sua frequenza. Era in un altro mondo, il suo sangue, o nel nostro mille anni fa: ma qui, qui non c’è mai stato.
- Non aveva sangue?!...
Il ragazzo non ha parole più adatte a spiegarsi meglio, perciò lascia che la nota d’allarme nel tono dell’altro sfumi nel buio, prima di continuare.
- Era sfasata. Lei non c’era più, qui, ma per qualche motivo è rimasta in una strana forma immobile, forse perché doveva insegnarci. – La voce di Brian si riempie di amarezza.  – O forse perché si era cucita alla vita con distrazione, negli anni, e non riusciva più a sciogliere i punti per andarsene. Non era un fantasma; i fantasmi non hanno un corpo, prima di tutto. Era un avanzo di essere che si era nascosto in un sacco di carne per sfuggire alla morte. A volte…
Uno con le dita affonda fra le costole, l’altro le preme sulla bocca per non fare troppo rumore con la sua paura, esplosa di colpo in uno schiocco di labbra, in un sussurro più acuto uscito dalle labbra di Brian, da un suo brivido che, cieco o confuso dall’oscurità, è continuato sulla pelle di Benjiamin. A volte, a volte gli incubi sbucano da dietro gli angoli bui dove immaginavamo di trovarli, provando un piacere sinistro nel terrorizzarci, pur sapendo che l’ombra non nascondeva nulla. A volte…
- … penso a quello che mi ha detto un giorno. Non mi ricordo perché, ma ero salito in camera sua per una cosa veloce, forse mi aveva mandato mia madre, non so. Lei ha detto che mi avrebbe dato il mio regalo di compleanno, anche se non era quello il giorno, no, era estate e stavamo uscendo per festeggiare il quattro luglio, ecco!, e ha detto, lei, ti regalo la verità… la risposta sincera, e vera, a una domanda qualsiasi che le avrei posto.
Bee manda giù della saliva amara. – Che cosa le hai chiesto?
Le palpebre gli scivolano sugli occhi, dolcemente. Ha un freddo terribile, nel cervello, sotto la pelle fino in fondo allo stomaco. Non sente quasi più la parete dell’armadio a cui è appoggiato; è come essere su un’altalena sul fondo del mare, dove un’oscillazione porta via una vita intera e le alghe tingono i capelli di colori impuri. Ed è di una lentezza infinita, fuori da ogni mondo, decisa dagli orologi spezzati abbandonati in file lungo strade di stelle fioche.
- Perché, ho chiesto. Perché esisteva qualcuno come me, e perché ero lì, in quel momento. E lei ha detto…
I loro cuori sono gli scogli che si sbriciolano straziati dalle onde deturpati dal sale piovono piovono e le sirene muoiono piovono piangono chiamano i loro amanti che se ne vanno lontano con la cera sciolta nelle orecchie hanno capito hanno imparato perché hanno imparato a cantare con voce d’acqua e ora possono lasciare che le sirene muoiano e i loro capelli verdi facciano radici i cuori di due ragazzi sradicano l’anima e la lanciano dagli scogli è meglio così amore mio durerà poco durerà un attimo chiudi gli occhi e sussurra i versi che abbiamo imparato dagli steli dei fiori le notti di luce prega gli dei che non ti ascoltino mai e invoca il mio nome amore io ti seguirò più tardi più presto mai nell’acqua piovono piangono le nostre mani sfinite ed è il momento ora ti lascerò andare senso vita strappati e lasciami solo per quattro tramonti e tredici secoli perché non ce la faccio perché non respiro perché non muoio
con te
detto, ha detto che per un difetto, per un accidente, per un maledetto disastro noi siamo qui per vivere per sempre e per sempre tentare di separare vita e morte, noi che le possediamo entrambe contorte e continue e piegate e contigue, tranciare le porte con gli stati paralleli della quarta dimensione, e liberare le menti degli uomini, che non abbiano più paura, più ricordi, più fine nella limitatezza, paura, vedi, e lasciar andare gli altri, quelli che passano oltre per sempre e mai più, compiere ogni culto, terminare ogni religione o ridurla a inconscia
niente più paura, vedi, capisci…
le nostre mani faranno questo con il fuoco, e poi non vi servirà più, lo porteremo via, lo porteranno via con loro e lo rivedrete una volta… passati… e finirete tutti in uno scarico di anime senza sbocchi e via d’uscita è questo, capisci, il senso davanti a noi e il motivo per cui perché per come quando dove domani ieri sarà per sempre fino alla fine, fine di tutto nello scarico delle anime senza scappatoia, lì a raccogliere fiori di un giallo spento e lacrime di perla e piangere per il proprio corpo slegato abbandonato in un angolo di esistenza prima di venire bruciato da noi per sciogliere con il calore e la violenza la carne dallo spirito e gli occhi non vedranno più come prima non daranno colore non vedranno anno anno dopo anno per i miliardi di anni che vi aspettano vedranno i cieli a falde cadenti e sogneranno palpebre sogneranno dita con cui palparsi e corpi per amarsi nello scarico di anime è questa l’unica ragione, troppo semplice e rovinosa insopportabile ed è vicina ora
e dovrei dirti tante altre cose, ma ora questo è tutto ciò che mi gira rigira rovescia nella mente sai e io non ce la faccio a dirtele tutte e ti direi scappa, scappa via, scappa lontano e nasconditi e chiudi gli occhi e cerca di non ascoltare le urla…
 
Al buio non esistono i colori, ma, dei due ragazzi dentro l’armadio, uno ha i capelli chiari come la luce finta che assorbiamo e l’altro scuri come le nostre orbite vuote. E da fuori, impigliati come siamo ai rami spogli degli alberi, ascoltiamo i loro flussi di paura orribile e diversa: una è rabbiosa e ribolle compatta nei limiti del corpo, ma la seconda scivola gelida e inonda i gradini e il pavimento e i tappeti fino ad incontrare la terra del cortile, dove affonda, e sparisce, e nel suo corso ammorba e avvelena.
 
 
 
 
Angolo della… della… di quella persona che ha scritto tutto ciò:
Ma che è? Che roba è questa? Cristo, non lo so. Questo è quello che succede quando cerco di spiegare delle cose precise che ho in mente sull’intreccio di una storia: sbrodolo. Boh. Non sono capace di essere chiara, perciò addio oggettività e benvenuto caos primordiale.
Nel prossimo capitolo starò più attenta, giuro, e cercherò di non farmi prendere troppo! Buona sera cari voi.
La colonna sonora di questo pezzo è by Cure, Flaming Lips, Clash, The Sugarcubes e altri che sono passati e non mi ricordo. 
Ah, ho appena scoperto una cosa bellissima e non volevo aspettare di pubblicare il prossimo capitolo per dirvela: guardate su YouTube questo video di cui metto il link qui sotto... A 0:16 compare Brian esattamente come me lo immagino io! *-* Okay, sparisco. ù.ù


http://www.youtube.com/watch?v=63LPH5al_tk

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Capitolo 14
*** Tredici passi falsi: scarpe in scivolata verso la Discesa. ***


Novembre 2012

Ma se fosse
Se fosse il momento giusto…
Davvero…
Le gocce mitragliano le sue braccia nude e sfregano sulla pelle, acqua ruvida, lucida la pelle e profondo più dei polmoni il fiato; riesce a sentire le boccate di aria gelida fin dentro lo stomaco, ma continua a correre sui cavi che sovrastano le rotaie arrugginite, dritto verso ovest con il vento che grida in strane lingue gonfiandogli i vestiti.
Se fosse il momento giusto, pensa Brian, e se lo fosse davvero, vorrei perdere l’equilibrio e scivolare di sotto, per sbaglio, e sfracellarmi il cervello sulla ruggine e sui ciuffi d’erba che spuntano nella ghiaia zuppa.
 
Sun e i momenti di teatralità. Un rapporto complicato.
La ragazzina si è accovacciata sotto una tettoia in fondo al giardino della Met – il centro nevralgico del traffico di stupefacenti dei ragazzini ricchi che frequentano l’istituto, ma solo dal lunedì al mercoledì. Gli studenti della Met trasudano serietà anche in sciocchezze come lo spaccio di droghe leggere – ed è magicamente asciutta, ma parecchio infastidita. L’entrata in scena che aveva preso forma nella sua mente ha perso colore e forma, sfaldata dalla pioggia scrosciante, che rende troppo tipico il suo ingresso inaspettato nella vita di Benjiamin; il suo malumore peggiora con l’aumentare dei colpi umidi sulla lamiera che la ripara.
- Così non va bene, Callie. – Si tira il cappuccio sulla testa e nasconde il viso fra le ginocchia. – Per niente. È ridicolo. Callie, tu non puoi fare niente?
Aspettarlo sotto il pioppo, annegata nella pioggia che si tuffa dalle foglie , i capelli spalmati sulla fronte, il trucco una maschera attorno a suoi grandi occhi pallidi, Benjiamin, e la sua voce acutizzata dall’aria pesante e scura, un gattino caduto nel fossato che chiede di essere preso in braccio e sfamato.
S scaccia con veemenza la scena fuori dalla sua mente, lasciandola sciogliere sul prato in uno dei rivoletti che precipitano dalla collinetta fino allo spiazzo di cemento del parcheggio. Pensierosa, si tocca il viso con le dita e raccoglie l’ombretto sbavato sotto la palpebra, riuscendo solo ad allargare le macchie nere fin sulle guance.
- Oh… Callie, che bella idea.
 
In ginocchio sul balcone di una fila di finestre che dà sul corridoio, S alza l’indice e lo appoggia sulla cornice di legno chiaro di una lastra di vetro, tracciando la forma di una piccola serratura, stilizzata. Ci infila dentro il dito e ruota il polso, come se fosse una chiave; con un piccolo tonfo, la finestra si apre e S atterra sul pavimento di marmo.
Silenziosa come un’ombra, si infila nello spazioso cubicolo della Segreteria della Met, e con facilità scova i cassetti etichettati come “Archivio”. Con l’aiuto di una sedia, raggiunge lo scompartimento segnato con la lettera H e dopo qualche secondo di scartabellamenti alla cieca – non riesce a vedere dentro il cassetto, anche se è in punta di piedi sulla sedia da ufficio – estrae il fascicolo di Benjiamin.
- Che figata questi istituti privati, Callie. Sembra quasi un ufficio segreto del governo, dici che si scrivono anche quante volte gli studenti fanno la pipì?
Callie non sembra interessata a verificare questa possibilità, e S non ne ha il tempo; le basta sollevare la copertina per trovare ciò di cui ha bisogno.
- Ecco… 1364 c, Viale Saint F. the Seventh. Genitori separati, vive con la madre Madeline Brown-Hannover, un fratello minore, deceduto blablabla, il resto lo sappiamo.
Si infila il fascicolo sotto la canottiera e lascia tutto in disordine: il cassetto spalancato e la poltroncina posizionata contro la parete, con sopra l’impronta infangata delle sue scarpe malconce. Rovista un po’ tra le scartoffie sulla scrivania, curiosa tra i documenti ordinatamente impilati, ruba dei timbri dall’aria ufficiale e qualche caramella alla frutta trovata sotto la tastiera del computer, canticchiando a mezza voce una canzone sentita al Donney qualche giorno fa con Lia e Belle e qualche altra scema con una sigaretta al cioccolato fra le labbra. DaDa pretty girls and glimpsy weapon jeans e un sentore di cioccolato nell’aria viziata del Donney, S non ricorda altro di quel giorno.
Sta per girarsi e uscire dalla Segreteria, quando qualcosa sul tavolo attira la sua attenzione: uno spicchio di fotografia sotto i fogli che ha sparpagliato sul tavolo, boccoli biondi e una bella bocca imbronciata e sensuale. S sposta gli altri fogli con una mano e compare la ragazza che ha incontrato sul treno, quella con gli occhi rovesci – è l’unica parola che venga in mente a S per quegli occhi. Il suo sguardo cattura qualche parola del ritaglio di giornale: Saskia Viskji, disabitata, incendio, Alexener Sachs, ustioni troppo gravi per… morto…
Elettrizzata, piega l’articolo e lo infila sotto i vestiti insieme al fascicolo, poi esce dalla Segreteria facendo sbatacchiare le tendine della porta in vetro. I corsi finiscono a mezzogiorno, ha ancora un sacco di tempo prima che Benjiamin esca da scuola. Per un po’ gira per i corridoi, nascondendosi non appena sente voci o rumori di passi in avvicinamento; spia i bidelli con gli spazzoloni umidi stretti in pugno e le tasche piene di penne, rovista nei cappotti appesi fuori dalle tasche, mettendosi in tasca ciò che riceve l’approvazione di Callie: accendini e cartine da sigaretta mezze leccate, centesimi puzzolenti, pacchetti di cracker in buono stato. Trova anche le chiavi di un automobile, ma quelle le lascia al proprio posto in una giacca di pelle scolorita ad arte, anche se Callie la rimprovera. Ad un certo punto, nelle tasche della felpa avverte un oggetto freddo e sottile: il pennarello indelebile.
- Cosa ne dici, tu… Facciamo già capire che c’è qualcosa che non va? Siamo nel backstage di un film dell’orrore, alla fine.
Attraversa di nuovo tutti i corridoi, in senso contrario, scrivendo su ogni singolo armadietto le stesse parole a caratteri grandi e frettolosi. Quando le pareti della scuola sudano “Bee Han” in una cascata infinita di lettere inclinate, ripone in tasca il pennarello e, dopo aver fissato bene nella memoria l’effetto della sua opera, sguscia fuori da una finestra e si dissolve nella pioggia battente, da dove, qualche secondo più tardi, prende forma la sagoma grondante di un ragazzo con dei vestiti scuri troppo leggeri per la stagione.
Brian districa dall’odore melmoso del cemento e della terra bagnati quello della sorellina, che si attenua rapidamente in direzione nord-ovest, oltre la recinzione della scuola e l’ordinata folla di casette identiche l’una all’altra dalla parte opposta del parcheggio. Si mastica le labbra, raccogliendo il sapore della pioggia: seguirla subito – e poi? – o bloccare il suo piano, qualunque sia con esattezza, intercettando Benjiamin. All’angolo di un’ampia strada dietro la schiera di case, Brian vede una cabina telefonica accanto ad un cassonetto, sfocati dalla pesante cortina d’acqua più che dagli edifici, che la vista del ragazzo trapassa senza difficoltà; in un lampo è all’asciutto, nel metro quadrato odoroso di sigarette, sudore e spazzatura della cabina, e sta introducendo le monetine del biglietto del treno nella fessura metallica sotto la pulsantiera incrostata e mezza divelta, con la cornetta rossa incastrata fra la spalla e l’orecchio. Il numero nove è intatto, ma per premere l’uno deve infilare le inghie nel buco che ospitava il pulsante.
- La ragazzina che state cercando sta andando ora al numero 1364 c del Viale Saint F. Qualcosa. Muovete il culo, o le accadrà qualcosa di molto brutto.
Agganciando senza aspettare ascoltare la risposta del poliziotto, Brian spera davvero che il pesante timbro messicano che ha impostato getti in allarme il commissariato, abbastanza da spedire degli uomini al 1364 c con l’acceleratore pestato a tavoletta e una fretta inusuale per dei pigri poliziotti di provincia. Per trovare la casa di Benjiamin, lui non ha bisogno di fascicoli e telefonate cammuffate, visto che ci è stato spesso, anche se a insaputa dei suoi abitanti.
E non è la prima volta che entra di soppiatto alla Met, ma è preso da un’angoscia sottile non appena la sua visuale viene invasa dalle parole nere e gocciolanti da ogni angolo in cui posi lo sguardo. Sun, ma che cazzo stai facendo.
Una truppa di bidelli, preceduta da fantasiose imprecazioni e dal rumore dei loro passi di marcia, sbuca da un angolo; per un soffio non travolgono il ragazzo, che si appiattisce contro una parete, diventando soltanto la pozzetta d’acqua sotto i suoi piedi.
- Ma quando diavolo hanno fatto questo disastro? – Inveisce un uomo agitando in aria una mano larga quanto il badile che Brian da piccolo usava come slittino.
- Su tutti i fottuti armadietti, in tutti i fottuti piani! – Gli fa da eco una donnetta piccola come un folletto e con la stessa vocetta ticchettante. – Questa volta qualcuno finisce fuori, e con il culo a righe!
Il baccano in corridoio attira un professore, che mette la testa fuori dalla porta, vicinissimo a Brian, il quale si sposta di qualche millimetro per non sentire il suo alito da caffè stantio.
- Ehi Tommy, qui sto cercando di far dire a Sullivan che cos’è il capitalismo e ti assicuro che non è… Oh, che cavolo?...
I bidelli esplodono in un boato di minacce, spiegazioni e parolacce additando il disastro dei vandali, professor Cole, guardi che robe, non si può tollerare, adesso mi dica lei come faccio io a pulire, chiamiamo la polizia stavolta, può starne certo!, andiamo dalla preside e li vogliamo tutti fuori questi drogati riccastri, le sembra possibile, andiamo noi a casa loro a imbrattare tutti i cazzo di muri!
Cole è senza parole, gira gli occhi su e giù per il corridoio. In tutte le classi adiacenti le lezioni si interrompono a causa degli schiamazzi, e presto le cornici delle porte spalancate sono assiepate di occhi che brillano curiosi, sconcertati e divertiti, sale un ronzio di mille voci e commenti ed esclamazioni e nel giro di un secondo il corridoio è zeppo di persone sgomitanti.
-Real Man... Ma che vuol dire?
- L’hanno fatto adesso! L’hanno fatto adesso! Come cazzo è possibile?
- Tommy si sarà fatto qualcosa di pesante e ha scritto tutto lui!
- O mi sono fatto qualcosa di troppo pesante io e questo è un trip assurdo…
- IN CLASSE, MALEDIZIONE!
- Così sono più carini gli armadietti…
- Mi hanno rubato l’accendino e le cartine!
- RIMANETE IN CLASSE, O…
- C’è scritto Ho messo una bomba nel water!
- Stamattina Gwen-La-Pazza aveva le mani sporche d’inchiostro, venti dollari che è stata lei…
- Blue… Bleah… Bee?
- Bee Han.
- Bee Han.
- Bee Han.
-Benjiamin Hannover. – Sussurra Brian, schiacciato fra la schiena di una punk, spalle graffiate e profumo di camomilla, e il muro gelido e molle come budino. Con il cuore incastrato in gola, cerca di concentrarsi per individuare Benjiamin, ma gli odori, i corpi e i battiti sono troppi e intasano i suoi sensi. A fatica, si fa largo nella folla di persone senza curarsi di dare nell’occhio; qualcuno lo nota per un secondo, ma l’attenzione di tutti è assorbita dalla confusione delle pareti coperte di inchiostro. Affonda in corpi caldi, inciampa in grovigli di scalini e gambe e scarpe e brevi occhiate furenti, ed a un tratto lo sente.
L’odore di Benjiamin, rapido come uno schiaffo in faccia, gli balza addosso appena poggia la punta del piede al piano terra. Lucky Strike e cannella e sudore e calzini sporchi e pioggia e risate. Il suo battito cardiaco. Il suo respiro profondo e agitato, dagli spogliatoi nell’ala est oltre i laboratori di biologia e chimica.
Brian si volta di scatto, andando a sbattere contro una ragazza bionda che lo trafigge con lo sguardo. Un’altra lì accanto trilla un “Ehi, fa’ attenzione!”, ma lui sta già correndo come un pazzo, con le scarpe che slittano sul pavimento. Aule, laboratorio di biologia, di chimica, studenti ovunque, parole a caso nell’aria sovrasatura, freddo, stanzino dei libri dimenticati, corridoio in  discesa, pavimento di plastica, risate, calore, grappoli di ragazzi e ragazze dai vestiti morbidi e le dita affusolate.
Lucky Strike.
 
 

Luglio 2002

Silenziosi come gatti, furtivi come graffi di sogno: metà mattina, sole sbiadito, alto poco più dei vasi di petunie nel terrazzo della vicina di casa, un caldo sulla loro pelle reso umido e appiccicoso dalla colpevole trepidazione che affanna i loro petti leggeri, dietro al capanno degli attrezzi l’aria è intorbidata dal sudore che cade dalle loro ciglia e da un aroma di mistero pressato in un angolo di giardino inaridito.
Il maschietto si appoggia sulle ginocchia nude una cartella di pelle, levigata dalle danze deterioranti dei tarli e delle falene, inebriati da un sentore spesso di naftalina e ricordi che ha preso forma nell’armadio, come un corpo dalle articolazioni intrecciate e flessuose. Arricciano il naso, troppo giovane per assaporare tali odori, estranei alla loro vita sgargiante di profumi edulcorati. Trascurano tutto il romanticismo che un momento del genere richiederebbe negli occhi, improvvisamente velati di luccicori, di un adulto al posto loro; è un tono scuro di blu o viola quello che accede il loro sguardo vibrante e affonda i denti in una paura morbida come un frutto. Il tempo è tremendamente sbagliato, così insignificante questa giornata di un sole piccolo come un occhio che spia dai panni stesi che sono questo nuvole filacciose sopra le due testoline scure.
Dov’è il vento gelido che fa sbattere le finestre con una voce di doloroso stridio, dov’è la marcia possente di nubi che promettono tempesta? Niente, neppure un sospiro quando il bambino fa scattare la serratura della valigetta, una piccola fibbia d’ottone sbavacchiato dal torpore di mezzo secolo. In un pezzo di carta muffita, dentro una striscetta di pelle che penzola dal corpo inanimato della valigetta consunta, le voluttuose spirali del nome della sua proprietaria rimangono perfettamente immobili: non si srotolano per guizzare in difesa dei suoi segreti, e il plico verdastro, le briciole di un fazzoletto, il triangoletto di carta piegata scivolano sull’erba, placidi e addormentati, quando Brian rovescia la valigia.
Ci infiliamo resti di mani nei resti di bocche – non ha possibilità di rilevanza, a chi appartengono – per frenare il singulto di curiosità e remoto terrore che sfrangia i nostri confini.
- Non toccarlo! – Intima Brian alla sorella, interrompendo la nostra estasi nauseante. Sunshine ritira in fretta la mano sotto il ginocchio, come un’ostrica si rificca nel guscio, scottata, ma continuando a fissare il foglietto ripiegato, prigioniero di due fili d’erba crespa. Il tonfo sfrigolante del plico gonfio di lettere è rimasto inascoltato.
Il vento caldo e scostante è un avvertimento tedioso nelle orecchie dei due fratelli; i loro occhi cuciono invisibili fili di perle tra i sottilissimi disegni in rosso sui bordi della carta bruna.
Non toccarlo, rimbombano le parole avanti e indietro, terra e sole, polvere e acqua, il nostro gioco di ripetizioni sempre più grottesche, ma a che serve se il bambino sta già allungando la mano, sedotto dal motivo ipnotico e sbiadito; spiega il foglio grinzoso, stirandolo con i palmi sudati, trattenendo il fiato ad ogni nuovo intreccio di linee rosse rivelato dalle pieghe, ormai impresse nella carta.
Sun inclina il capo, una ciocca di capelli le cade sul naso. Mi ci nascondo dietro per sbirciare meglio, ma la bimba scaccia la mia pigra essenza con uno sbuffo.
Brian, con un’espressione febbrile, accarezza l’ovale formato dai minuscoli tratti scarlatti al centro del foglio, come se fosse sulle tracce di un incantesimo tattile o volesse coglierne l’improvviso innesto.
- Sembra una faccia… è una faccia, Bri?
- Non so…
- Ma sì, guarda! – Sun fa per poggiare le dita sul foglio, ma Brian le schiaffa via la mano senza neanche sapere perché. La sorellina lo guarda, ferita, poi riprende in un mormorio accorato. – Gli occhi, il mento…
Oh, ma lui non l’ascolta neppure. È pericoloso e magnetico il flusso aspro che dalla mente gli cola giù nel petto, non capisce più niente, è assorbito nei fori color muffa lasciati dal continuo tratto di simboli e scalanature, morde la gola il flusso e brucia i muscoli del petto, rode le ossa, depone uova velenose sul fondo del polmoni, strizza il cuore imbevuto nell’agro liquido dove nuotano serpenti privi di occhi e coperti di spine, e lo vediamo spillare nelle vene e capovolgere il flusso sanguigno, solo tossina, miasma, rigurgiti ferrosi, fuoco sferzante nelle costole del ragazzino, e solo noi che assistiamo a
Com’è che si chiama, l’abbiamo scordato, perché proprio ora come sarebbe bello scandirne il nome sulla lingua
Oh maledetto nostro corso di idee svuotate, Atroce il suo nome e alveari di funesti aborti le sue figlie a buchi, buchi, buchi umidi che trasudano fiele e frutta putrefatta cammuffata da cerbiatti dai colori tenui… come ti chiami, fine del mondo, come ti urlano le schiere dalle ginocchia spezzate dalla paura, come ti piangono i fiori passiti e passati, moto assurdo e incompiuto nella pazzia, motore fiammeggiante, sterile parentame e nido di dolore, come?... Invisibile scempio, scomparso dal tempo e ora di nuovo qui, a fare in polvere e livore di pelle cascante
Incarnazione…
Spirano le nostre memorie crivellate, troppo tardi, terribile, e nessuno vede cosa sta succedendo, non è percepibile nemmeno per la vista della ragazzina, ma noi… io… dove sono?...
A miliardi di chilometri di distanza, Brian, fuori di sé, solleva il foglio e se lo appoggia al viso, odoroso, avvolgente.
Gli angoli di carta si sbriciolano, cenere. Qualcosa si muove, è come uno schianto di passi provenienti dal confine del mondo, la terra trema contro le loro gambe e Sun cade all’indietro, sui gomiti.
Non si accorge della pelle che comincia a bruciare. Un rombo viscerale sale dalla terra e le si arrampica dentro il corpo, sgrana gli occhi, la bocca è un grido non suo.
Non riesce a staccare gli occhi orripilati dal viso del fratello.
Ferro, legno, sangue. Piume. Raccapriccio, terrore.
Scultura impossibile secoli caduti volti di pietra abisso di senno degenerate ere muschio degli spiriti ostili e infangati dalla lordura prolifica su una facciata di funghi melmosi e visioni realistiche di spasmi opprimenti e torture ingloriose fessura cannibale di giustizia semiumana caduta dal cielo e precipitata in un viso fra assordanti detonazioni capelli immoti e rappresi come umore marcescente tratti sfondati e riesumati con il ferro incandescente sgravati da nubi addensate di panico lacerante spettrale risorgimento di arbusto vitale e linfa avvelenata sbavata ritorta grandiosa effigie di oppio
Maschera…
 
Il mento di pietra dell’Incarnazione cade, scoprendo un buco orrido e buio. Voci nella testa della ragazzina, che non riesce a muoversi. Quella dell’essere è indistinguibile dagli affanni che gridano, è la grave base su cui fioriscono gli accordi stridenti di diecimila lamenti, la tomba dove si arrampicano tralici di edera occhieggiante.
 

Inverno 2010

È semplicemente assurdo.
Benjiamin scuote la testa e il freddo gli morsica il collo improvvisamente scoperto, ma il cervello continua a ribollire di pensieri che nascono e scoppiano uno dentro l’altro; di tutti quelli che sente accalcarsi, premendo nelle orecchie riparate dal berretto di lana, riesce a formularne solo uno, che è anche il più idiota.
- Ma non hai freddo?
Stanno andando verso casa, e anche se non nevica la città è frustata da un vento gelido che mozza il respiro; la temperatura è addirittura scesa dopo il tramonto. Benjiamin ha ritirato le braccia dalle maniche del giubbotto e tiene le mani infilate sotto le ascelle, il suo fiato imperla la sciarpa di goccioline e ogni tanto una lacrima si stacca dalle sue lunghe ciglia chiare, ma Brian cammina come se fosse su una spiaggia in una serata ventosa, felpa aperta su una canottiera grigia e mani piantate nelle tasche. Alla domanda di Bee, gli si stampa sulle labbra un sorriso a denti stretti.
- Certo!
- Ah. – Sotto l’orlo del berretto, la fronte di Benjiamin si corruga. – E quindi sei semplicemente coglione o c’è qualche altra spiegazione al fatto che sei, mmm, nudo?
Non si fida affatto dell’espressione allegra dell’amico, non dopo averlo visto in quello stato, chiuso nell’armadio nell’ufficio dell’infermiera Roberts. Eppure sarebbe ora che si abituasse ai suoi sbalzi d’umore.
- Ho freddo, relativamente… lo sento, ma sono più concentrato su altro. – Intercettando l’occhiata perplessa di Benjiamin, cerca di spiegarsi meglio. – È quello che sentiresti tu se fossi in una stanza molto calda, con un condizionatore acceso, ma molto distante.
Silenzio. Contano i lampioni che si accendono al loro passaggio, sembra il dolce epilogo di un film, o il suo drammatico inizio. Si possono sentire battere i denti di Benjiamin.
- La mia idea di freddo è più assoluta.
- Quello nello scarico di anime? Ci sei stato?
- No, lo avverto soltanto. Non sempre.
- Adesso?
Bee ha milioni di domande, ma se da una parte non vuole sciupare la parvenza di buonumore di Brian, non vuole nemmeno risvegliare il panico che gli ha visto negli occhi, a scuola. Se vuoi fingere, pensa il ragazzo,ti lascerò farlo. Le spiegazioni me le darai poi.
Stanno per imboccare la Julian quando una voce che li chiama si alza dalle siepi di un giardino, e un volto si affaccia da un cancello dall’altra parte della strada.
- Brian, ehi!
Le braccia ossute del signor Podmore ballano nelle maniche consumate del maglione, invitandoli ad avvicinarsi alla brutta faccia piatta che sbuca dalle sbarre di ferro battuto.
I due ragazzi si scambiano un’occhiata interrogativa, sul viso di Brian passano mille espressioni che Bee non sa come interpretare e, nel dubbio, non rallenta il passo.
- Ragazzino Turner! Mi sono appena ricordato una cosa, una cosa proprio matta eh… Mi stai a sentire? No? Che giornata strana, quella, sì…
Brian si blocca, immobile sul marciapiede chiazzato dalla luce tiepida di un lampione, che svela la minaccia nei suoi occhi.
- Ah, ti sei fermato. Volete un tè, ragazzini? Un po’ tardi per tornare a casa. State facendo ammalare questo vecchio, con questo freddo cane mi si secca la gola, sì… - La barba bianca trema, le grinze della pelle del vecchio tremolano, in attesa che abbocchino.
- Benjiamin. – Chiama Brian con voce incolore, dura come pietra. – Vuoi ascoltare un’altra brutta storia, o vuoi tornare a casa?
L’altro deglutisce a vuoto, la schiena percorsa dai brividi.
 
Il guizzo enigmatico delle candele – stranamente eccitante, l’antico salotto foderato di carta da parati muffita e cuscini consumati, - il vapore che sale dal liquido fumante nelle tazze di un servizio scompagnato, l’odore di abbandono, di sporco, le gobbe arcuate di uno o due gatti che sfilano fra le gambe tozze dei divani sfondati, i fievoli rintocchi di una campana a vento, il broncio vigile di Brian e la zoppia di Podmore, che arranca dal salotto alla cucina portando un pezzo di merenda alla volta.
Biscotti al cioccolato.
Zollette di zucchero, una per favore, Benjiamin si svolge la sciarpa dal collo, se lo tenga il suo tè, borbottio ostile dal riquadro della finestra.
Il principe gradisce del limone, o ne ha già in bocca uno intero?, risata spezzata da un accesso di tosse e l’umore di Brian che precipita ancora di più in un silenzio al vetriolo.
Finalmente Podmore sprofonda nella poltrona – si alza un coro di scricchiolii, i ragazzi si domandano se siano le sue ossa o la poltrona – e con i palmi irruviditi si sfrega le ginocchia di tela consunta.
- Allora, allora… che cosa sa il giovane Hannover di questa bizzarra storia? Cosa ti hanno raccontato?
A disagio, Benjiamin cerca gli occhi di Brian, ma lui è troppo assorbito dallo studio di un quadro sbiadito appeso accanto al bastone delle tende.
- Beh, ehm. – Esordisce, guardandosi le mani. – Brian mi ha raccontato del, uhm, dello scarico di anime e…
Un altro scoppio di tosse gli fa morire le parole in gola, e sbircia di sottecchi il vecchio che si batte un pugno nodoso sul petto e rischia di rimanerci secco lì davanti a loro – la qual cosa sembra non dispiacere in maniera particolare a Brian, che degna la scena di uno sguardo divertito.
- Santo Dio! – Annaspa l’uomo, una volta ripreso fiato. – L’unico Sheridan che non sa raccontare una storia come si deve, ce l’ho in casa io, ce l’ho! Dalla fine, parte, lui!
Podmore molla un sospiro grumoso e teatrale.
- Sheridan? – Domanda Bee, la fronte aggrottata.
- Il cognome di mia nonna.
- Se ci vuoi fare il favore di tacere, vorrei far capire al nostro signor Hannover, qui, la portata del pasticcio in cui si è cacciato. – Il vecchio squadra il ragazzo seduto di fronte a lui con un cipiglio insieme solenne e intrigato, come se studiasse una buffa specie di animale con quei suoi occhiacci penetranti. – Un pasticcio davvero interessane, tuttavia… Leggendario, meraviglioso, ancestrale, direi.
Benjiamin sente distintamente Brian sbuffare nel buio. Una scarica di eccitazione gli attraversa il petto e senza rendersene conto si protende in avanti, generando nuovi cigolii che vanno a raccogliersi alle dita dei nostri piedi, inanellandosi alla pelle sgualcita.
- Oh, sei tutto orecchie. Sturale per bene, ragazzino, e anche tu lì dietro, piccola volpe, ti ho versato il tè. Dov’è tua sorella? Ah, ti ho detto di tacere, me lo dirai dopo. Bene. Sì.
Che cosa pensi, tu, della vita?
Benjiamin sbatte le palpebre, preso in contropiede: ma non stava per ascoltare una storia?
- E da dove inizia una storia, se non dalle domande? Rispondi a questa.
Gli occhi di Brian lampeggiano alle sue spalle.
- Penso che devo ancora decidere se siamo qui perché lo ha deciso qualcuno, o siamo semplicemente nati per via di una combinazione… di eventi. Se è stato qualcuno, o qualcosa, a metterci qui, la cosa mi spaventa un po’, ma se invece è stato il puro caso a produrre la nostra esistenza, ecco, ci si sente un po’… un po’ soli, no? Non avremmo un senso. Eppure non mi piace molto neanche l’ipotesi di un’entità divina che ragioni sulle sue pedine spiegate nel mondo. O forse sono entrambe le cose? Un essere potente e completo ha lanciato i dadi, e poi si è distratto o stancato e ha lasciato che i suoi piccoli demoni si divertissero mescolando l’argilla con il fuoco e facendola colare in forme inattese sulla Terra.
Il ragazzo ammutolisce, non sa più che parole usare e tanto meno dove andrà a parare la sua risposta, né da dove pescare formule che non suonino così ripetitive. Nella stanza cala il silenzio e per un po’ ci divertiamo a nuotare sospesi fra le caviglie di Brian e le braccine di fumo sopra le tazze di tè. Singolare, soffiamo nelle orecchie di Benjiamin, i palmi delle mani di questo vecchio sono completamente annerite, te ne sei accorto?, ma non può ascoltarci.
Un rumore grottesco, simile ad un intero mobile di vetreria rovesciato sul pavimento, pezzi di ferro che rimbalzano sulla pietra, unghie che grattano una lavagna lucidissima, finestre che sbattono e assordanti fischi di treni in partenza su binari infuocati, prende vita nella stanza facendo trasalire Benjiamin, che si rovescia un po’ di tè sui pantaloni scottandosi le dita; il vecchio si contorce sulla poltrona sollevando nugoli di polvere, scosso da una risata incontrollabile scandita da colpi di tosse rasposa. Un angolo delle labbra di Brian si solleva, impercettibilmente.
- Diavolo di un alchimista! Cos’hanno dato a questo ragazzo, pillole di febbre, dosi massicce di imbecillità, cacca di rospo!
Podmore si sganascia senza ritegno per almeno due minuti, infiniti per Benjiamin, che ormai è viola per l’imbarazzo, poi d’un tratto si raddrizza e sospira, un gomito appoggiato al ginocchio e i lanosi baffi vibranti.
- Per Castore, ragazzino, tu non mi hai risposto. Non volevo sentirmi ripetere assurde teorie che nessuno di noi potrà mai anche solo immaginare come fondate. Ciò che hai detto va semplicemente oltre la logica umana, salta oltre la nostra comprensione come un cervo che supera un cespuglio di mirtilli. Non perdere tempo in simili sproloqui. Oh, mi guardi risentito… attento: ti ho fatto una domanda sulla vita, e tu mi hai dato una risposta sulla morte, o su un momento precedente alla nascita, che è morte, allo stesso modo.
- Allora non capisco. – Benjiamin affonda le guance nei palmi delle mani, accigliato. – Come si fa a parlare soltanto di vita, se prima di tutto la vita non è di una cosa solo, ma di tantissime? E se tutti gli uomini pensano, e si trovano a ragionare sulla vita, arrivano ad una conclusione che è soggettiva e particolare? È come se ci fossero miliardi di vite possibili.
- Ne esisterà almeno qualcuna che, oltre a essere possibile, sia anche reale. Alla fine, dobbiamo convenire che la vita esiste, quindi è reale. E allora vedi che la mia domanda significava… quale cosa, per te, quale attributo della nostra esistenza, dimostra che siamo vivi, e quindi reali?
Dai buchi nel legno sgorga un grido sottile di ragnatele di spirito, ammassate negli spazi lasciati sgombri dalla sporcizia e dai tarli; in un angolo scuro, l’unico in grado di sentirci conficca il suo sguardo nelle mie orbite vuote e si appoggia l’indice sulle labbra chiuse. Il nostro assenso dondola fra i capelli di Brian, illuminandoli di un verde pallido e smorto.
- Bambino, sto per raccontarti la storia della tua anima.
 
 
 
 
 
 
Gatto Magro___________________
Buongiorno ai lettori più timidi del mondo! Sono tornata con un capitolo bello lungo stavolta, e sto già scrivendo il prossimo. Mi sono venute un paio di idee davvero, davvero folli @_@
Mmm niente, non ho molto da aggiungere se non: ascoltate Nude dei Radiohead, è una goduria, e Dart For My Sweatheart di Archie Bronson Outfit.
Recensite, così mi fate felice :D (e perché se no è noioso pubblicare).

Two, only you
Can remove
Such an ache, oh

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Capitolo 15
*** Oh you, you set my soul alive. ***


Novembre 2012
 

- Non viene a scuola con noi, l’hai visto com’era conciato? Mai visto prima, che diavolo ci faceva qui, sono sicura che è stato lui a fare ‘sto disastro! Dovremmo dirlo alla preside, eh Saskia?
È da almeno dieci minuti che Emma parla a ruota libera nell’orecchio dell’amica, la quale pare proprio non sentirla per un bizzarro effetto di straniamento, o semplicemente ignorarla per dedicarsi in libertà alle punte gocciolanti dei propri lunghi capelli dorati.
- Saki, mi stai ascoltando? – Emma si pianta davanti a lei, le rade sopracciglia color carota sollevate in due piccole “u” capovolte sopra i suoi occhi tondi.
- Che cos’è che vuoi dire alla preside? – Risponde la bionda con un’aria distratta e annoiata.
Emma brontola, e con le mani puntate sui fianchi ripete a velocità supersonica quello che ha appena terminato di dire. Senza neanche farla finire, l’altra la prende per il gomito e comincia a trascinarla verso l’uscita, dove si stanno riversando tutti gli studenti in seguito al termine delle lezioni.
- Saki, che fai?! Dovremmo dirlo a qualcuno, che abbiamo…
- Ma che ti frega, almeno con il macello che tireranno su la preside, i prof e i bidelli ci sarà un po’ di movimento, no? – Saskia prende al volo il suo giubbotto dalla fila di appendini accanto alla quarta C e lancia addosso all’amica quello accanto, di pelle grigia. – E poi noi non c’entriamo nulla, perciò non ti devi preoccupare, tu.
- Guarda, come ti pare… - Emma lancia un’occhiata esasperata al soffitto, armeggiando imbranata con le maniche del cappotto. Saskia la supera e si avvia nel corridoio con un rumore umido di tacchi di legno sul marmo, soffiando da sopra la spalla un “come ti è andata greco oggi?”.
Nessuna risposta. Si volta e si accorge che l’altra è rimasta impalata davanti alla parete, incorniciata da Bee Han e dalle gocce di pioggia che si vedono scorrere sui vetri delle finestre.
- Ems?
- ‘Fanculo. – Sbotta. – Mi hanno fregato le chiavi della macchina.
 

(spazio, ma non
 tempo)

 
Madeline Hannover non è in casa quando una finestra, al terzo piano della graziosa villetta al numero 1364 c del Viale Saint F. the Seventh, sprofonda nella cornice di legno verniciato; sembra non possedere volume per qualche incerto istante, si squaglia il vetro insieme alla pioggia grigia. Dura un secondo, poi tutto torna normale.
Sun atterra sulla morbida moquette verde bosco, e Madeline Hannover immagina di distendere una carezza sui capelli di suo figlio Evan; le rimane una sensazione di secco sulle dita, perché il ricordo tattile di quella carezza risale all’estate in cui ha portato tutta la famiglia a Level Beach e il vento tirava fortissimo, seminando sabbia e sale che indurivano i loro capelli, spazzando indietro i cappucci delle giacche di nylon. C’è una foto, su un mobile di ebano che ha sistemato accanto allo studio, che li ritrae con gli occhi strizzati, le nocche sbiancate e delle smorfie torve, scattata mentre resistevano alle raffiche che sferzavano la scogliera sassosa; S ci passa accanto regalandole un sorriso intenerito. La stanza di Benjiamin è quella prima del lucernario che inzuppa di grigiore invernale l’intera lunghezza del corridoio.
Madeline Hannover va al cimitero tutti i giorni, con la macchina che odora solo di lente giornate di lavoro e infiniti raffreddori, perché i fiori che sistema sul sedile del passeggero sono finti come le sue unghie cremisi artigliate al volante. Ma va bene così, si ripete, inserendo il freno a mano e sprofondando con i tacchi nel ghiaino dell’ingresso. Dopotutto, è finta anche la tomba sotto la lastra di cemento che porta il nome di suo figlio, perché il corpo di Evan, dentro, non c’è.
Trovata, Callie, esulta S girellando per la camera da letto, volteggia in passi di danza che trascinano schizzi di fango sul parquet, le palpebre socchiuse, le dita che raccolgono l’aria fredda.
Non l’hanno mai trovato. In un mondo rotondo, dovrebbe essere impossibile che qualcosa cada, si rompa, e non venga più trovato. Una parte del cuore di Madeline ringrazia il fiume che ha cancellato l’esistenza del figlio, perché non avrebbe saputo sopportare l’orrore di ripescare i rottami del suo corpo senza vita.
Stomaco di nebbia che l’ha avvolto mentre precipitava dal ponte, stomaco d’acqua che gli ha annullato il respiro dopo l’impatto, per lei non ha alcuna importanza chi lo abbia inghiottito; Evan non è neanche in uno stomaco di terra, anche se quel metro di suolo stanco lungo il perimetro del cimitero porta il suo nome.
La foto a colori sotto l’epigrafe ricambia il suo sguardo desolato.
Portami via da qui. Portami al mare, anche se è inverno, il mare di ferro mi è sempre piaciuto tanto e anche il saporastro dell’aria gelida e i grovigli di alghe scure: io so nuotare, ma volare no, quello lo sanno fare solo i gabbiani che bucano il cielo di lunghe strida.
Madeline è una statua di pietra povera che va sbriciolandosi appena l’aria si fa più rigida, porta fiori finti ad un altare dismesso e rimane docilmente ad attendere un’epifania carica di profumi iperurani. Le statue non pensano, ma a lei viene concessa un’eccezione per via della sua pelle ancora bella: cade dunque un pensiero, cala un’idea nella sua mente sformata, la sua portata impossibile le sfonda il cranio e le incendia l’orlo della veste porfidia.
Stomaco di cielo.
 

Inverno 2010, quando i giorni sembrano non terminare, non ancora.
 

- Quando venne il tempo, ero sulla piccola nave che portò in Massachussets un arruffato gruppo di irlandesi, coperti di fuliggine e così affamati che di notte Jackson li trovava ad addentare il sartiame, giuro, come i topi che avevamo caricato a Portagros. Dopo quaranta giorni di traversata li sbarcammo a Providence, dove ci coprirono di baci e maledizioni e sgattaiolarono fra i casotti del porto, e dopo un po’ sparì anche il rumore che si portavano dietro ovunque, di monetine che sbattevano perché tenevano centesimi piccoli nelle calze, per non perderli in mare e comprarci le focacce di malto. Non ne rividi mai più neanche mezzo, di quegli irlandesi, ma questa deve essere per forza una piccola bugia, perché altrimenti la storia sarebbe già finita.
Lo stomaco di Benjiamin ribolle piacevolmente, riscaldato dal tè che ogni tanto si ricorda di sorseggiare, tanto il ragazzo è rapito dalla voce bassa e in qualche modo famigliare del vecchio; potrebbe ascoltarlo per ore, in un’attesa neanche tanto spazientita che ogni pezzo della narrazione vada al suo posto e il quadro che Podmore sta tessendo con un filo ricco e scintillante, ma grosso, come un rotolo di corda da nave a cui si è intrecciato un filo d’oro, assuma forme chiare.
Brian è meno docile, chiuderebbe la scatola consumata del cucito e con un calcio la spedirebbe sotto il divano, a far compagnia alle ragnatele e alla polvere che gli fa pizzicare il naso. E l’arazzo della sua esistenza potrebbe anche andare a quel paese; il vecchiaccio poteva evitare di fare il giro lungo per rispondere alla sua stessa domanda.
- Io lavavo il ponte diciassette volte al giorno, pelavo le poche patate che il signor Chapman mi lasciava toccare, svuotavo fuori bordo i vasi da notte, che spesso erano già vuoti perché a non mangiare niente, ragazzo, è difficile cagare qualcosa; insomma facevo il mozzo, e sognavo di essere il capitano, anche se il nostro aveva sempre la stessa camicia rigata di unto e nessuna giacca blu di velluto a cui appuntare medaglie, e nemmeno un tricorno spolverato o un cannocchiale d’ottone – quello ce l’avevamo di legno, ma lo teneva Jackson appeso al collo e a volte permetteva alle ragazze di dare un’occhiata alle onde, in cerca delle code delle sirene o degli sbuffi dei serpenti marini. Io però sapevo che non si sarebbero fatti vedere al sole, come normali banchi di pescetti grigi, così, quando sapevo che c’era la luna alta in cielo – no, non andavo a nascondermi sottocoperta, ero coraggioso, io! – abbracciavo forte il legno smangiato del parapetto e mi sporgevo per guardare, di sotto, l’acqua scura che diventava cielo notturno, e mentre la barca rollava si capovolgevano, a turno, una sopra e l’altro sotto.
Vedi, a me sembrava che gli irlandesi avessero tutti la faccia uguale – con quegli occhi storti ti osservavano di sbieco trascinare i sacchi di lenticchie sul ponte, le loro dita lunghe e bianche erano sempre in movimento, le loro facce avevano sempre quella pallida smorfia di nostalgia appiccicata, una specie di sorriso triste ossidato nella sporcizia, – ma c’era una ragazza che aveva due occhi che ti addentavano l’anima. La conobbi una notte che il mare era un gatto addormentato, lei non riusciva a dormire e l’unica volta in cui la vidi sorridere fu quando le confessai che stavo appostato per vedere il guizzo argenteo di una sirena sotto il pelo dell’acqua – ma mi sarebbe andato bene anche un serpente marino.
Si chiamava Aisling e aveva diciotto anni, ma sembrava averne dieci di più. Mi disse che se avessi visto una sirena non avrei dovuto crederci, ma comunque cercare di ricordare come suonava il suo canto, e correre a svegliarla. La luna le illuminava il viso e a me sembrava la cosa più bella che avessi mai visto.
Aisling aveva soltanto una valigia, un cappellino di paglia con un sottogola di lino tinto di rosso e un anellino di ferro troppo largo per il suo anulare. Gliel’aveva dato un ragazzo americano dai capelli color carota come anello di fidanzamento, il giorno della partenza, con l’allegra promessa che la fede nuziale sarebbe stata d’oro. Aisling non mi volle dire se era innamorata di quel ragazzo, e non era la sera giusta per parlare di matrimoni e vita dall’altra parte di un oceano.
Si era appena lavata nella tinozza di legno che usavamo per lessare il pesce, cominciò a parlare e a intrecciarsi i capelli bagnati, che, seguendo i suoi movimenti liquidi, catturavano i raggi di luna e si accendevano d’argento. Non ho mai sentito nessuno parlare in modo simile, era come ascoltare una lingua nuova, diversa dalla mia e da qualsiasi altra di cui avessi conosciuto il ritmo, apparteneva ad un mondo che non aveva nulla a che fare con l’asciutto e appuntito linguaggio dell’equipaggio, ma neanche con il soffice gorgheggio che immaginavo si parlasse in posti remoti come l’est o i Caraibi; eppure, sorprendentemente, comprendevo ogni parola. Aisling aveva la straordinaria capacità di farti vivere insieme alle complicate parole che le uscivano dalle labbra, e la sua Voce incantava le membra e faceva risalire il cuore in superficie, che battesse così forte che pareva di tenerlo in mano, e collegato ad altri cuori di persone che non riuscivi a vedere, ma potevi immaginare grazie a lei. Lei sapeva tutto, di quelle persone sospese sull’acqua, perché le parlavano costantemente e la seguivano ovunque andasse, e lei non era mai da sola, neanche quando scappava sotto le colline irlandesi fradicie di magia. Voleva molto bene a quelle persone morte tanto tempo fa.
A volte, però, era difficile riuscire a sopportare i loro continui sussurri, e le sembrava di essere soltanto una pazza che ricordava compulsivamente cose sentite chissà dove, e allora era terribile, perché la sua voce diventava come un drago velenoso e mi raccontava storie che mi terrorizzavano fino a farmi scappare nella mia cuccetta puzzolente, lasciandola sola a continuare la sua sfuriata agli abissi. Faceva paura, Aisling, e non riusciva sempre a non farmelo pensare.
Da sotto le sopracciglia cespugliose, Podmore arrischia uno sguardo alla figura di Brian, accucciata contro il divano, che guarda le stelle invernali incorniciate dalla finestra del salotto. L’aria trema del rancore del ragazzo che respira lentamente; i nostri giochi di luci fra i suoi capelli si interrompono, le nostre dita timorose scorrono sulle sue guance e cercano un rimedio ai suoi muscoli contratti, ma evaporano a quel falso contatto caldo. La rabbia monta e si infrange, trattenuta con i denti e un tic nervoso dei piedi e l’odio indirizzato alle stelle.
- Nonostante tutte quelle voci nella sua testa, e le persone che le riempivano la vista, si sentiva molto sola, abbandonata a un compito che nessuno le ha mai spiegato. Accade che gli esseri umani trasmettano i sentimenti negativi che covano negli anni alle uniche persone che potrebbero capirli. Aisling ha insegnato tanto ai suoi nipoti, ma l’ira che l’ha bruciata non ha piegato la testa all’amore.
- Lei non era arrabbiata. – La voce di Brian emerge dall’ombra, un rantolo buio spinto dallo stomaco. – Era pazza.
- La rabbia e la pazzia si incontrano in sfumature a cui abbiamo dato nomi diversi. Il tuo odio sorregge il fantoccio di una donna morta da diversi anni: lascialo andare. Tua nonna non voleva farvi del male, e in un modo distorto, in un modo pericoloso e malato, vi voleva bene. E vi ha accompagnato all’imbocco di una strada dove non avrebbe saputo condurvi nessun altro. Sapeva che, se non aveste visto dove cominciava, avreste passato la vita sentendovi persi nel mondo sbagliato. Come era capitato a lei.
- Tu non sai. – Si intuisce la sagoma di Brian scuotere la testa, la voce incrinata in una risata senza entusiasmo. – Tu non sai com’era averla lì accanto.
- Ma – Dopo un’eternità Bee apre la bocca e si ritrova la gola secca. – Perché era… voglio dire, perché era arrabbiata? Con chi lo era?
- Ah! Mi state solo ingarbugliando le idee. Non è il momento di parlare di sentimenti – vi sfido io, a parlarne con linearità, di quelli, e se poi vogliamo discutere di odio, rabbia e pazzia, non basterebbero dieci di queste notti immobili. Di tutte le cose che mi disse la ragazza irlandese, una mi scaldò dentro in un posto che nessun altro pensiero arrivò mai a toccare. E fu come accendere il fuoco e chiuderlo in un barattolo e conservarlo tra le pieghe meno concrete della carne, da dove ogni tanto lo tiro ancora fuori, e mi ci siedo vicino per scaldare queste vecchie ossa.
Disse: la tua anima è stata ovunque. Ieri ha inseguito un cervo lungo coste che tu non hai visto; oggi ha scelto di riposare nel tuo corpo; dove sarà la tua anima domani, quando chiuderai gli occhi? E c’era una bella espressione sul suo volto, mentre lo diceva, mi stava traducendo i sussurri del vento. Io le ho creduto.
Per un po’ l’unico rumore nella stanza rimane quello dei cucchiaini che ruotano in fondo alle tazzine sbeccate; gira, gira e vortica nel grazioso vapore, si staglia nella polvere come l’ombra delle ombre, la gemella riccioluta dell’oscurità crepitante.
- Ma allora dopo che si è morti l’anima si stacca dai cadaveri e entra in un nuovo…
Podmore lo zittisce con un gesto della mano scorticata e un verso di sonoro disappunto.
- Non ti ho spiegato prima, ragazzo, che non stiamo parlando di morte? Non la può sapere nessuno, la risposta alla tua domanda. La morte non riguarda le anime in nessun modo; non le sfiora, non ne parla e non le guarda danzare. E’ un principio, se non opposto, sicuramente diverso. Gli uomini vivi sanno che cos’è la morte, il loro cervello lo sa, la loro pelle che raggrinzisce, non l’anima che non vi ha nulla a che vedere. L’anima non sa nulla, nemmeno la vita, perché essa è vita; non ha concezione del proprio essere, perché semplicemente lo incarna.
- Non capisco. – Benjiamin scuote la testa, cercando Brian con lo sguardo in una muta richiesta di soccorso, ma quello sembra scomparso nel nulla.
Il vecchio sprofonda i gomiti nelle ginocchia, con il mento aguzzo fra le mani. Le sue palpebre spesse sono serrate sopra gli evidenti bulbi oculari, e in questa posizione continua a parlare con lentezza, come se con le parole stesse inseguendo un percorso proiettato nelle sue orbite, a luce fioca.
- Hai sentito di tanti uomini che si chiesero perché fossero uomini, e gli altri uomini fossero uomini, perché le nuvole fossero tali, la terra fosse terra e l’acqua somigliasse all’acqua. L’anima non si interroga sulla propria essenza, perché essa stessa è essenza. L’anima non sa della propria essenza, perché ne è cosciente in maniera diversa, allo stesso modo in cui tu sei cosciente che il cielo sta sopra la terra; non l’hai imparato, perciò non lo sai, ma avverti e hai sempre avvertito che così è. Quando diciamo che un uomo muore e il suo corpo si sfalda dentro una tomba, stiamo dicendo che la sua essenza, che lo rendeva vivo, l’ha lasciato, ma l’essenza non cessa mai di essere, non inizia mai ad invecchiare. Non impara e non sa. Quello che rimane di un uomo, dopo la morte, visto che tanto ti interessa saperlo, è l’essenza che abitava il suo corpo, e ti verrebbe da dire che allora l’essenza è come un fantasma che rimane identico a com’era, preservando i ricordi e le passate emozioni, ma abbandonando il proprio corpo… è difficile, bambino, ma non è proprio così. Le anime non ricordano e non parlano, ma raccolgono momenti nel loro corso, e ricordi, e parole, e sensazioni, che rimangono inglobate in loro.
- Non capisco, - ammette il ragazzo, torturandosi le labbra con gli incisivi. – perché allora non è che ci sia un ordine secondo cui un’anima deve calare in un corpo. Si trova lì, per un caso inspiegabile, e in quel corpo scocca la vita. Mi sta dicendo che se un’anima cadesse in un tavolo, avremmo tavoli che camminano, parlano e frequentano la scuola?
- Ti sto parlando di persone, non di pezzi di arredamento.
- A questo punto mi sembrano davvero la stessa cosa. – Commenta caustico, facendo sorridere il vecchio con i suoi pochi denti rimasti, lunghi e stretti come tasti di un pianoforte. – Senza contare che non capisco il ruolo di Brian, in tutta questa roba… Lui spedisce le anime nello scarico, ma questo vuol dire impedire la vita, uccidere gli uomini che devono ancora…
Si interrompe, turbato. Ma dove stanno andando a parare?
- Santo Cielo, no, no! – esclama Podmore con una risatina gracchiante. – Il tuo amico non sta cercando di sopprimere la vita di questo mondo, ragazzo mio. Sarebbe come giocare a scacchi contro la fine del mondo, non ti pare? Io non so tutto, non posso che ammetterlo. Quello che so è che dopo tanto andare, incarnarsi e lasciar appassire, vagare e abbandonare, le anime si stancano. E allora chiedono a chi le può udire di lasciarle andare in un posto dove possano smettere di esistere.
Podmore sembra perso nel suono delle ultime sillabe che ha pronunciato, senza accennare ad aggiungere altro, e dopotutto anche Benjiamin si lascia avvolgere dall’incertezza del silenzio, con la mente che corre sfiatata attorno al grumo di nozioni che ha appreso e che giacciono strette in un nodo pulsante sotto una luce verticale.
Si sente spossato ed estenuato come dopo una corsa sfiancante, ma che non lo ha portato dritto a nessun traguardo, salutato da grida di entusiasmo. Il silenzio che si aggrappa alle sue spalle e gli ronza nella testa è la prova che è perfino più confuso di prima, anzi, gli sembra che Podmore non abbia fatto altro che complicare la delirante storia di Brian, ma senza imprimerle una direzione.
Delirante.
Brian si era rintanato in un armadio per quasi ammazzarsi di sonniferi, per poi crollargli addosso nel buio in una valanga di parole rombanti e per di più insensate alle orecchie curiose, ma razionali, di Benjiamin; ma, stando alla conclusione di Podmore, il suo migliore amico non faceva altro che praticare una sorta di eutanasia spirituale in qualche anima logora e malata di vivere.
Non torna, pensa Bee posando la tazza, con il fondo di tè ormai freddo, accanto a quella intatta lasciata da Brian accanto ad un paio di biscotti ridotti in briciole. Alzandosi cautamente dalla poltrona, si spolvera i jeans dalla polvere che vi si è depositata – curiosamente – durante il racconto; il vecchio non muove un muscolo e forse si è addormentato.
- Bri? – Chiama a bassa voce, facendo il giro della stanza. – Bri, dove sei?
- È andato via. Ore fa. – Il salotto ha perduto il suo sinistro fascino, le candele sono spente e l’aria è piena di sospiri e fischi lievissimi; Benjiamin sfiora l’infarto sentendo di nuovo la voce del vecchio coglierlo alle spalle.
È acuta, ora, stridente come il verso di un uccello notturno. Lui non si è mosso, è fermo nella stessa posizione che l’ha congelato poco prima.
Benjiamin avverte ogni singolo brivido che gli investe la pelle delle braccia. Ore fa? Attraversa la stanza senza perdere d’occhio la figura curva di Podmore appollaiata sulla poltrona lisa, e sbircia il cortile dalla finestra appannata. Di Brian, fuori, neanche l’ombra.
Il cuore gli balza in gola, dolorosamente, e lo stomaco lo segue a ruota invadendo la sua gabbia toracica e contorcendosi contro i polmoni.
- Signore, - Esala, stringendo le dita attorno alla maniglia, fredda come un pezzo di ghiaccio. – quando ci ha chiesto di entrare… Era un’altra storia, che mi voleva raccontare. Non questa.
All’improvviso, avverte una violenta sensazione di freddo sotto i piedi.
Di freddo, di bagnato. Abbassa lo sguardo sulle proprie scarpe: il pavimento si illumina di veloci riflessi… lucidi.
E in movimento.
Stordito, si accorge che il legno è coperto d’acqua scura, che si infrange in piccole onde contro le gambe tornite dei mobili.
- B-BRIAN! – Urla, la lingua impastata, rimasta inerte fra i denti. – DOVE CAZZO SEI! BRIAN!
I suoi occhi schizzano da un angolo all’altro, cercando di bucare l’oscurità verdastra e innaturale in cui è sprofondato il salotto.
Niente.
La sagoma del vecchio è un grumo nero sopra la poltrona, attraversato dai riflessi dell’acqua che lo disegnano come languide scariche elettriche sparse per le profondità del cielo.
Benjiamin, con il cuore che gli martella furiosamente nelle tempie, quasi non sente le parole che prendono forma dal buio e lo raggiungono inerpicandosi sulle sue gambe.
- Allora piombò l’Incarnazione nel nostro mondo nel momento in cui spuntarono le radici agli alberi e i frutti caddero al suolo…
Tuona.
Sgraziata, annichilente, stridula, ma tuona dall’acqua e dalla sua stessa carne. Il ragazzino non riesce neanche a muoversi, la bocca spalancata e il terrore negli occhi.
- … disse agli alberi di correre e ai frutti di incastrarsi di nuovo nel grembo del legno, e marcire nella fibra, tornare a non avere un nome, disse agli uccelli che sarebbero precipitati nel mare e i pesci saltati loro in gola, a migliaia, strappandoli da dentro e spargendo funghi e vermi…
Il freddo succhia via la forza dal suo corpo, che crolla a terra, inzuppandosi di quell’acqua vischiosa. Una sua mano, inerte, rimane aggrappata alla maniglia. Violenti singulti lo scuotono, facendolo rabbrividire fin dentro gli organi interni.
- … e diedero a Incarnazione una corona di corna di cervo, spezzate dall’odio, di piume nere e gialle, di metallo putrido generato dal fuoco del Serpente, issarono la sua testa mozzata e ridente su un trono irto di spine, e Incarnazione promise loro che li avrebbe amati…
Acqua nera, luce verde. Spigoli orribili e deformi si rovesciano nel salotto, contratto e dilatato e scosso dalle fondamenta. Una scia di fiamme gelide. Cade la polvere come in una nevicata, e la vista di Benjiamin comincia ad offuscarsi, sbiadendo la sua percezione laterale delle scale che portano al primo piano.
Un paio di scarpe atterrano pesantemente sui gradini, prima che l’oscurità gli si ficchi nelle orbite spalancate.
Le ultime cose che sente sono un urlo da una distanza infinita e uno strattone sotto le ascelle.
Poi il tempo si blocca, sospeso come una membrana viola sopra le nuvole, e ogni cosa si riduce allo scrocchiare della neve sotto passi leggeri e infiniti.
 

(spazio
e tempo,
ma poco)

 
Una scia scomposta di neve spostata intacca la candida perfezione della Julian, sotto cui si sono fusi e addormentati la strada e i marciapiedi; ruzzola scura fuori dalla recinzione fatiscente del giardino del vecchio Podmore e prosegue, sbrigativa e frammentata, come se perdesse qualcosa e tornasse di corsa sui suoi passi per rificcarselo in tasca, per diversi metri del largo viale alberato, prima di infilarsi in un piccolo buco sotto la siepe del numero 18 e sparire risucchiata dal fogliame di pece addormentata.
Brian trascina Benjiamin lungo il porticato fino alla colonna di mattoni che fa angolo con il garage, dove lo lascia scivolare delicatamente a terra, ansante. L’ha letteralmente portato in braccio fin lì, e nonostante l’amico lo superi di poco in altezza, è molto più muscoloso e pesante da trasportare.
Soprattutto se sei divorato da una paura fottuta che non sia soltanto svenuto.
Brian si piega sulle ginocchia e prende fra le mani il viso di Benjiamin, freddo e pallido come la luna. Alla fioca luce della lampada da esterni, scorge le sue palpebre vibrare leggermente e le piccole nuvolette di vapore che sfuggono dalle sue narici.
- Bee. – Soffia piano il ragazzo, allungando uno schiaffetto sulla guancia scolorita dell’altro, che scuote il capo di qualche millimetro e comincia a respirare affannosamente e ad agitarsi. Scalcia e trema, gli occhi serrati e il volto tirato in un’espressione di panico puro.
- No… NO! Basta!
Brian lo afferra per le spalle e gli blocca le gambe contro il suo corpo, cercando di farlo svegliare da quell’incubo vivido e irraggiungibile.
- Shh, non urlare, sono io, sono io e basta, sono Brian!
La lotta dura per una manciata di secondi, poi il corpo del ragazzo cade nuovamente contro i mattoni, le membra irrigidite e gli occhi sbarrati, ma vuoti.
Brian raggela; non c’è niente in quelle palpebre spalancate, gli occhi verdi di Benjiamin sono come palle di vetro piene di nebbia.
- No… no, per favore
Fissa stralunato quel volto cereo, reso sfocato dai pochi millimetri che lo separano dal proprio. E dal velo umido che scende sui suoi, di occhi. Che cosa gli è saltato in testa, di farlo entrare in quella casa… di lasciarlo solo con quell’uomo?...
- Benjiamin. – tenta di nuovo, perché non ci può credere. Con la voce rotta, a pezzi, sparsa per la terra secca e dura. Se lui muore adesso, con tutta la sicurezza del mondo Brian può pensare di ammazzarsi a sua volta; non è nemmeno un pensiero questo, ma una verità che scotta sotto la sua pelle increspata di brividi. E non ha neanche più senso pensare al freddo, alla fame, a cercarsi il battito del cuore fra le costole.
Fa sempre troppo silenzio, pensa il ragazzino disperatamente. E se lo martella in testa finché non sente qualcosa, avanti e indietro.
Un singhiozzo.
Dalla gola sbagliata. Un risucchio affannato e uno sfarfallare di ciglia bionde che gli solletica la fronte.  
Con un sussulto, il colore torna nelle iridi di Benjiamin, che si trova ad articolare l’aria fredda con le labbra, avvolto dall’abbraccio stritolante di Brian. 

 
 




 
 
 
 
Gatto Magro o Autrice di questo delirio o Essere umano che si squaglia di caldo;
Eccomi a rompere con le note a fine capitolo, anche se in realtà non ho nulla da dire e non sono sicura che qualcuno mi legga sul serio (mah).
Ah, sì. Ho deciso che Eric non si chiama Eric, ma Evan (- E chi sarebbe Eric? – ecco, questo è il tipico esempio di lettore che mi spezzerebbe il cuore; Eric è il fratellino di Benjiamin. Per la cronaca, sarà maledettamente importante in seguito, se questo fantomatico seguito verrà scritto.)
Scrivendo questo capitolo, mi sono, oltre che drogata di Misfits, anche odiata perché volevo che Podmore fosse il caro nonnino pronto a salvare i ragazzi con tè e biscotti al cioccolato e invece si rivela più fuori di un balcone di tutti loro :’( Questa storia sta sfuggendo dal mio controllo. Il capitolo non finisce così, il prossimo sarà un bis con una parte che non vedo l’ora di scrivere **
E… boh, niente. Grazie a chi legge, chi apre involontariamente e scappa urlando, chi rovescia il caffè sul computer lanciandomi un anatema in lingue sconosciute, eccetera. 

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Capitolo 16
*** A quando la collisione, Capitano? ***


Luglio 2002, anche se tutti vorrebbero che passasse in fretta.
 
Jimmy si rigira fra le mani un laccio di cuoio e il suo sguardo dondola fra la parete spoglia di fronte a sé e i propri palmi rigati di un liquido denso e scuro.
Jimmy fissa la parete color panna e si chiede perché non ci siano impronte di bambini, mentre in casa sua ogni muro ha almeno una ditata infantile premuta a tradimento sull’ultima mano di bianco; gli sembra inconcepibile la perfezione di questa distesa di colore, senza neppure la bava accidentale di un pennarello scarico o i graffi dei pastelli a cera. Come nella cameretta di Brian.
Jimmy fissa la striscia di cuoio secco che si è arrotolato fra le dita fino a che non sono diventate gonfie e biancastre, e si dice che avrebbe dovuto gettarla in un buco nella terra, invece di regalarla al figlio minore: aveva già fatto l’abitudine al gusto del sangue mentre serviva a suo padre per assicurarsi l’elmetto sotto la gola, prima di uscire allo scoperto nella notte e correre per le paludi in mezzo alle nuvole di schegge e fuoco ai tempi dei bombardamenti. Legata al collo di suo figlio, non avrebbe saputo che augurargli la sola cosa che conosceva.
Il muro e le sue dita senza circolazione.
Il bianco e il sangue di suo figlio.
E si dava un ritmo con i piedi, perché Jimmy covava la paura di perdere l’equilibrio in quell’oscillazione incomprensibile e impazzire nel vuoto sottostante.
 
- È una lesione superficiale e non ha strappato i muscoli, per fortuna. Ma dovrà tenersi le cicatrici. – Un dottore senza volto si è aggiustato la montatura degli occhiali sul naso di cartone. Non sa davvero come facesse a parlare, non aveva bocca. Bastava che gli dicesse che andava tutto bene, che sarebbero tornati a casa e avrebbero potuto dimenticarsene.
-… Davvero una strana sfortuna, visto che è soltanto caduto dalla bicicletta. – La sagoma di cartone si è ripiegata fino a scomparire nel pavimento, lasciando Jimmy ad incantarsi di nuovo nell’alternarsi del bianco e del sangue, del sangue e del bianco. Per quanto altro tempo ancora?
Avrebbe dovuto capirlo. Correre fuori e salvare suo figlio da qualsiasi mostro fosse scappato dalle ombre sotto il suo letto per fargli del male; subito, non appena ha visto la luce del sole indietreggiare dal pavimento, velocissima, come in fuga da una tenebra improvvisa che si è appropriata del cielo del primo pomeriggio.
Invece ha chiuso le finestre perché la pioggia rovina il legno.
 
- Aisling, Aisling è uscito! È venuto fuori!
La sagoma scura nel riquadro della porta di ingresso ha preso a urlare rivolto alla tromba delle scale, come se sapesse che lei era lì. La madre di Grace. Che con i temporali che non scoppiano ha sempre avuto qualcosa a che fare.
Jimmy ha registrato solo le sopracciglia imbrattate di sangue dell’uomo, mentre il suo cervello le ha ricucite sul volto del vecchio Podmore, il vecchio che abita all’inizio della via e che poche volte mostra il volto abbronzato e ruvido al mondo oltre la sua siepe. Le labbra livide e spaccate, gli occhi lucidi di paura e risoluzione, le macchie sulla camicia sono rimasti dettagli in trasparenza dietro la vista che ha riempito la testa di Jimmy.
- Chiama l’ospedale. James… ti chiami James, vero? Turner, chiama l’ospedale. Di’ che è caduto dalla bici.
Il caldo peso fra le sue braccia.
Profumo di incenso sale dai capelli bagnati di Brian, la sua testa abbandonata sulla sua spalla, ora. Jimmy non riesce a capire se suo figlio sta respirando, e rimane stordito dalla bellissima forma delle sue piccole narici asciutte.
Sunshine, aggrappata alle colonnine della veranda, piange scomposta. Morde la vernice bianca, gli occhi incollati all’onirico trittico incorniciato dai cardini della porta.
 
Novembre 2012
 
Sul bordo scuro del letto sono allineati una decina di bicchieri colorati, dal fondo coperto di cera e con uno stoppino storto incastrato nel mezzo, un po’ affogato nelle gocce plastificate.
S si rigira l’accendino fra le mani e alla fine si decide ad accendere le candele una alla volta, scottandosi le dita. In punta di polpastrelli, accarezza la curve ampollose del vetro reso opaco dalle lingue di fuoco. La luce grigia sul pavimento si colora e prende vita.
Rosso, blu, verde, nero.
Comincia a non divertirsi più, nella stanza di Benjiamin in attesa che lui torni.
Rosso, blu. Nero.
Allunga il collo e legge l’orario sullo schermo della radiosveglia a forma di Darth Fener: l’una e un quarto, l’una e venti, l’una e venticinque…
Rossoblu fotografa la stanza.
 
E se al posto del chiacchiericcio di una fiumana di studenti impeccabili, di suole di scarpe umide e infangate che cigolano sulle lastre di marmo, di secche risate e voci acute, l’aria si potesse riempire di musica, a volteggiare sopra il corridoio che conduce alla palestra sarebbe un’orchestrata di Danny Elfman.
Benjiamin è a pochi metri da lui che ascolta un alto ragazzi dai capelli rossi, con un sorriso leggero sulle labbra e lo sguardo fisso sulla confezione di plastica che non ne vuole sapere di sciogliere il suo abbraccio dal pacchetto di sigarette.
Benjiamin che litiga con le linguette di plastica è un’immagine dolorosamente famigliare per Brian, che si regge con una mano al termosifone bollente, le guance in fiamme. Con la mano libera si sfila gli occhiali da sole.
Come nelle solite commedie, ad un tratto Benjiamin comincia a guardarsi intorno spaesato, come se sentisse dietro la nuca, fra i capelli umidi, il formicolio dello sguardo di Brian. O i suoi pensieri dalla parte opposta del corridoio. In realtà siamo solo noi che gli allunghiamo fantasmi di pizzicotti, ma in ogni caso alza il viso dal pacchetto giallo e trova, nella distanza che non è neanche troppa, un paio di occhi azzurri così grandi che sembrano galleggiare da soli, sospesi di fianco al termosifone.
Brian vede le sue palpebre spalancarsi al rallentatore e le labbra schiudersi per aspirare l’aria e dare vita ad una sorpresa di dieci secondi, perché poi gli angoli ricadono in una piega amara e gli occhi verdi di Benjiamin si appiattiscono quando si accorge dell’inchiostro sulle pareti, proprio dietro le sue spalle.
E Brian si sfoca nella sua vista mentre decifra le parole che coprono i muri.  
In due sillabe liquida frettolosamente lo spilungone e si precipita verso di lui, ancora aggrappato al termosifone con le nocche delle mani viola, e si avvicina tanto che i loro nasi quasi si sfiorano. Prima di parlare, si guarda nervosamente intorno, ma nessuno fa caso a loro. Il corridoio sembra essersi dilatato, chiudendoli in una bolla calda.
- Ma che cazzo ci fai tu, qui. – L’accusa senza punto di domanda, senza preamboli e senza rabbia, strabuzzando gli occhi perché forse, tenendoli così spalancati, riesce a guardarlo bene tutto prima che sparisca come un sogno da dormiveglia. – E che cosa ti è saltato in testa? – aggiunge, accennando stupefatto alle pareti.
- Passavo per caso. – mente Brian automaticamente. – Non avevo l’ombrello e allora mi sono infilato qui sotto. E sto cercando di asciugarmi i vestiti, come vedi…
Un’abbozzo di risata sfugge dalla bocca di Benjiamin. – Coglione.
- D’accordo. – Brian pianta uno sguardo serio nel suo. – Sei in pericolo. Lo sono tutti, qui e fuori e da qualsiasi parte ora siano a ripararsi dalla pioggia, ma per primo salvo te perché sei fondamentale per quello che si è messa in testa. O almeno ci provo.
- Aspetta, aspetta… Cosa? Che pericolo? E chi si è messo in testa cosa? E… Dio, la tua faccia.
Brian ruota gli occhi indicando le pareti coperte di inchiostro.
- È una vecchia storia che si ostina a ripetersi. – mormora rivolto più a sé stesso.
- BENJIAMIN!
Sussultano entrambi, strappati all’esterno della bolla da quella voce acuta.
Rapidissimo, Brian si infila nuovamente le lenti scure e scompare mentre Benjiamin attraversa con un’occhiata malinconica l’aria trasparente davanti a sé, e poi si volta.
Madeline gli piomba davanti e lo afferra per i gomiti, pallidissima e fuori di sé.
- Mamma?
- Con chi stavi parlando? – tartaglia Madeline scossa dai brividi, gli zigomi solcati dal trucco sbiadito. – Chi era quello?
- Stavo… stavo solo mettendo dei libri nell’armadietto. – risponde in fretta Benjiamin, battendo piano il palmo su quello più vicino con un sorriso innocente.
- Ce ne dobbiamo andare subito.
- Ma si può sapere che ti è successo? Perché non sei al lavoro?
- Adesso non importa! – grida Madeline scuotendolo. Un paio di ragazzine si voltano verso di loro, ma lei non abbassa la voce. – Dobbiamo andare via!
È isterica. Benjiamin ammutolisce, incapace di pensare e capire cosa sia mai successo mentre lui giocava a calcio neanche mezz’ora fa. E fuori pioveva e lui rideva attorniato dai suoi compagni, arrotolava le maniche della maglietta che continuavano a scivolare e si scostava i capelli dalla fronte sudata, ma questo sembra essere accaduto una vita fa.
Anzi, si insinua nella sua mente, è la tua vita fa che è tornata al suo posto come se non fosse passato un giorno.
 
Brian rimane a guardare Madeline trascinare via il figlio finchè non scompaiono dalla sua vista, infilando una doppia porta che sbatte violentemente alle loro spalle, regalandoli al temporale.
Il corridoio ora è deserto e silenzioso.
Asciuga come può le lenti degli occhiali con un lembo della canottiera zuppa, masticandosi pensieri e una guancia. Madeline deve aver visto i poliziotti trascinare sua sorella fuori da casa sua, o magari l’ha incontrata all’interno prima del loro arrivo. Non è importante chiarire la questione, Brian sa che adesso quella donna, di cui ha fatto fatica a riconoscere il viso, terrà Benjiamin il più lontano possibile da qualsiasi cosa abbia la lontana somiglianza con lui o con Sunshine e questo è esattamente quello che lui vuole.
O forse no?
Come in risposta ai suoi pensieri, arriva il rumore secco di una porta che sbatte e subito dopo Benjiamin lo sta raggiungendo di corsa, sdrucciolando sul pavimento lucido di fanghiglia.
- Le ho detto che avevo dimenticato un libro. – Gli ansima in faccia. Brian si accorge di indietreggiare solo quando si ritrova appiattito contro la fila degli sportelli metallici.
- Ci sei ancora? Stasera vediamoci al League, è un pub qui vicino. Potremo parlare con calma.
- Ma è quello pieno di topi?
- AAAH! – Benjiamin lancia un grido e balza indietro.
L’altro lo guarda, allibito. – Che diavolo ti prende?
- Sei… sei… - deglutisce e sospira, levando gli occhi al cielo. – Non pensavo fossi qui!
- Qui dove? Pensavi di conversare con un lucchetto?
- Qui nel senso di qui davanti. – spiega Benjiamin gesticolando contro il pavimento, spazientito.
Brian per l’emozione è diventato invisibile senza rendersene conto. Pieno di imbarazzo, riemerge nella luce pallida a braccia conserte e un’espressione tirata piuttosto buffa.
- Bentornato. Ci sarai stasera, vero?
- Sì.
- Okay. – Il ragazzo dai capelli biondi storce le labbra, sospeso fra la fretta e qualcosa che vorrebbe dire. – Devo proprio andare, hai visto mia mamma.
Si salutano con un’occhiata frettolosa, e Benjiamin ha già un piede fuori dalla porta quando si volta di scatto.
- Bri?
- Dimmi.
Ci riflette un attimo.
- Ciao. – fa alla fine, uscendo con la testa incassata nelle spalle. Si incollano a quella schiena impettita e subito inzuppata di pioggia, la brevi note della risata di Brian.
 
Inverno 2010. Anche se nessuno dovrebbe saperlo.
 
Ma ve lo racconteremo comunque, per farvi felici prima che l’acqua inizi a bollire, brontolando sul fornello.
Per riempire le vostre ansie da giornate che si accorciano e cieli che diventano più bui con il trascorrere dei mesi. Per farvi sentire come se qualcuno vi stesse parlando da un punto indefinito, ma vicinissimo, mentre vi stringete più forte le coperte addosso e vi lasciate amare dalle nostre voci, in mancanza d’altro.
Io lo so, voi lo sapete.
Le fiabe vi ameranno più di qualsiasi altra persona in questo mondo. Consegnateci la vostra febbre, noi vi daremo il ricordo di una tazza fumante e del crepitio di un caminetto e vi guariremo dalla paura del buio.
Vi piacerà sapere il pensiero che martella nella testa di Benjiamin, il primo che è riuscito a formulare soltanto il mattino dopo quello strano giorno. Prima, per i pensieri non c’è stato spazio.
 
Nel mezzo di quell’abbraccio scomposto, Brian si ricorda che in una notte di metà inverno fa molto più freddo del solito, e che le braccia di Benjiamin sono coperte di pelle d’oca. Si scosta da lui con delicatezza e fa per alzarsi, ma l’altro lo afferra per la maglietta.
- Non andare via, Bri, eh?
- No. – mormora Brian, stupito dalla dolcezza che si ritrova nella voce. – Ti porto su, ma devi reggerti in piedi per far capire ai tuoi che sei tornato. Ti aspetto proprio sulle scale e ti accompagno, non vado via.
- Non riesco a muovermi.
- Sì che ci riesci. – continua a dirlo a voce bassa, come se fosse un segreto o un incantesimo, per far cessare il tremito di quelle labbra esangui. Lo aiuta a far passare un braccio attorno alle sue spalle e lo solleva dalle mattonelle gelate, senza che quelle quattro parole smettano di fluttuare in nuvolette di fiato.
- Hai le chiavi? – gli domanda in un soffio, una volta davanti la bella porta a mosaico di casa Hannover.
- In tasca. – biascica Benjiamin di rimando.
- Ora apro la porta, devi stare su da solo. Attraversi l’ingresso e saluti i tuoi genitori. Io sono sul primo gradino ad aspettarti.
La serratura scatta e la porta si apre svelando un ingresso illuminato da due belle lampade a muro; Benjiamin non fa in tempo a cercare una risposta che sente il corpo di Brian allontanarsi dal proprio, per ridursi ad un paio di lievi tacche sul tappeto e sparire definitivamente. Le gambe gli cedono improvvisamente ed è costretto ad aggrapparsi ad uno stipite per non crollare di nuovo a terra. Lo stomaco gira e si rivolta nella pancia come un giostra impazzita e la fronte è imperlata di sudore.
- Sono qui. Ce la fai. – è il sussurro del buio proprio davanti al suo naso.
- Bee? Sei a casa?
Il ragazzo si raddrizza ansimando giusto il momento prima che una figura si stagli nel corridoio, sfiorata appena dalla luce calda delle lampade.
- Evan.
Mette un piede dentro casa, concentrato a non finire con la faccia a terra per quanto gli tremano le gambe, più che a chiacchierare con il fratellino.
- Tutto okay? Sei sparito per tutto il pomeriggio. Avevi il cellulare spento e mamma pensava di chiamare la scuola, ad un certo punto. – Il ragazzino si avvicina al fratello maggiore, osservandolo incuriosito. – Eri con Brian e Sun?
- No, ero a scuola. Abbiamo fatto qualche ora di studio collettivo, ci hanno tenuti lì per prepararci agli esami e roba del genere. Il cellulare mi si è scaricato. – Inventa Benjiamin guadagnando le scale, dove vede qualcosa muoversi nei riflessi delle fotografie incorniciate. – Io vado a letto, sono sfinito.
“Sono qui”, sente bisbigliare prima che un fruscio gli attraversi la schiena e il corpo di Brian si faccia di nuovo tangibile al suo fianco.
Si arrampicano al piano superiore seguiti dagli occhi di Evan, che forse ha visto il buio tremolare nel punto in cui si trovava Brian.
 
- Ti sembra il caso di fare il timido? – fa Brian con un sorriso, notando l’espressione di Benjamin quando solleva il suo maglione per dargli una mano a sfilarlo. – Hai tutti i vestiti zuppi, e da solo non riusciresti a prendere in mano una matita.
Sembrava la cosa più normale da fare, visto che se non si fosse messo in fretta qualcosa di asciutto, si sarebbe preso una bronchite. E Brian si sarebbe sentito ancora più in colpa.
I problemi iniziano quando comincia a sbottonargli la camicia: anche se non avesse acceso la lampadina sopra il comodino, sarebbe stato difficile non notare le guance del ragazzo dagli occhi verdi, tinte di un grazioso viola acceso. Benjiamin si strapperebbe volentieri la faccia, e dentro di sé ringrazia l’apparente concentrazione dell’altro fra asole e bottoni, che gli impedisce di guardarlo negli occhi e accorgersi di…
Della sveglia a forma di Darth Fener, a cui Bee incolla lo sguardo per smettere di scivolare dal volto di Brian alle sue dita sottili, ma è difficile seguire la successione dei secondi – interminabili – e dei minuti – troppo veloci – se il suo tocco freddo accompagna le maniche della camicia per farla cadere sul pavimento.
- Ma cosa stai dicendo. – sbuffa, lanciandogli un’occhiata veloce. Gli sembra quasi di vedere la mascella di Brian contrarsi velocemente per trattenere un sorriso, e il suo cuore affonda nella cassa toracica, pesante e stropicciato.
Brian non può capire. Lui non ha limiti fisici con le persone, come se fosse la cosa più naturale del mondo sorridergli a due millimetri dal viso; si avvicina, entra ed esce e non hanno alcuna importanza le reazioni e le conseguenze. Le tempeste, poi, sono in fondo alla lista.
Anche quando si ritrova seduto sul suo letto a domandarsi perché diavolo si senta così male e meglio allo stesso, indefinibile istante, e Brian armeggia con la cintura dei suoi pantaloni con un’espressione serafica stampata in volto, Benjiamin sa che per il ragazzo non c’è nessun significato particolare di cui preoccuparsi, in quel momento, e questo è l’unico motivo per cui il cuore non gli sta battendo furiosamente nel petto.
Se ne resta immobile con il viso accaldato e lo sguardo basso, silenziosamente felice e disperato della pelle chiara dell’altro. E delle piccole lentiggini che gli circondano gli enormi occhi troppo chiari, quando la luce della luna è abbastanza intensa. E di una serie di altre questioni di enorme, incalcolabile importanza che cominciano a pesargli dappertutto, ma ancora da lontano, sfocate, come se avessero bucato il suo corpo solo in uno strato distante di atmosfera e la collisione vera e propria dovesse ancora avvenire. Il dolore sarebbe arrivato più tardi; stanotte, sotto la pelle del ragazzino dagli occhi verdi, vediamo un fuoco d’artificio che cerca di soffocarsi con stracci umidi e sogni disastrosi.
Dopo averlo aiutato ad infilare la maglia degli Scorpions che usa come pigiama, Brian scosta le coperte dal letto e tra un po’ di contorsioni, sospiri e parolacce, alla fine Bee è steso con il piumino tirato fin sotto il mento.
- Hai i piedi freddi?
Prova a muovere le dita sotto la coperta pesante.
- Un po’.
- Cerca di metterti seduto, adesso dovresti riuscire a muoverti.
È come avere il corpo svuotato delle ossa e degli organi e riempito al loro posto di acido lattico. Benjiamin si tira su a fatica, affondando nel materasso. Brian lo fa spostare e si appoggia i suoi piedi scalzi in grembo, iniziando a strofinare la pelle con le mani per restituirle calore, sussurrando ogni tanto delle sillabe che non afferra, ma che riversano nel suo corpo ondate di tepore. Ma forse è la tachicardia che gli scuote le costole a far tornare la circolazione.
- Va meglio adesso, grazie.
In silenzio Brian rimette tutto a posto, raccoglie i vestiti dal pavimento per impilarli su una sedia e si allunga a spegnere la luce, prima di sedersi sul bordo del letto, rivolto verso la finestra.
- Chiudo le tende?
- No. Perché?
- Boh. – scuote le spalle. – Magari ti dava fastidio la luce.
Benjiamin annega in secondi di angoscia, temendo che si sia di nuovo allontanato, che quel momento in cui erano davvero troppo vicini sia già scaduto. Gli fa male da morire, anche se non capisce dove metta radici, tutto il baratro attraverso cui il male si propaga. Non sapeva di averlo in corpo, uno spazio così grande, un buco nero. Lo passa da parte a parte, inzuppando il cuscino di putredine organica.
Ma che diavolo gli prende?
Deve solo sforzarsi di dire qualcosa che lo tenga vicino.
- Tu non torni a casa? Saranno preoccupati. – deficiente. Per qualche motivo però funziona, perché Brian torna a guardarlo con un lieve sorriso sulle labbra.
- Direi di sì. Ma ho già detto a Sun che sarei tornato molto tardi, o non sarei tornato affatto. Ho pensato… - si interrompe, alzando torvo un sopracciglio. – che avresti voluto delle spiegazioni.
Beh, spiegazioni un po’ migliori di quelle che ho provato a darti oggi.
Ridono. Ridono con i muscoli di Bee che tirano dolorosamente, e Brian che si chiede quanto sono andati vicini a farsi ammazzare, poco fa.
- Non so se ho ancora voglia di spiegazioni, per oggi mi basta così.
- Neanche la storia della buonanotte? – insiste Bri, di nuovo inspiegabilmente allegro.
- No. Basta. – ribatte l’altro, sollevato dalla leggerezza tornata nei modi del ragazzo. Se qualcuno fosse mai riuscito a capire che cosa passasse per la testa di Brian, Benjiamin gli si sarebbe inginocchiato ai piedi, impaziente di ascoltare tutte le meraviglie che aveva scoperto fra le lentiggini e i capelli scuri. Ma magari è tutto molto più semplice, realizza in un secondo momento.
- A che cosa stai pensando, Bri?
Invece di rispondere, il ragazzo si stende al suo fianco sopra il piumino. Il volto tranquillo rivolto al soffitto, si accarezza lentamente lo sterno per poi scivolare sulle costole sporgenti, ben visibili sotto il tessuto leggero della canottiera.
 Thrrrrrud. Scorrono le dita.
Thrrrrrud.
- Mi piace l’inverno, di solito. La neve, il fuoco, le persone con le guance rosse e il raffreddore sprofondati nelle sciarpe. Il rumore dei vestiti pesanti, se ci fai caso Bee, è proprio bello. I colori diventano più scuri, più intensi. Ma soprattutto mi piace perché nonostante faccia freddissimo, io riesco a sentire il calore fin dentro le ossa, nei giorni giusti.
- Sei gelato. Copriti.
Un guizzo di luce attraversa il casco di Darth Fener quando scocca la mezzanotte. Brian solleva velocemente la coperta e si accoccola accanto a Benjiamin, chiudendo gli occhi. Il suo gomito è a neanche un centimetro dallo stomaco di Bee, che con una mano supera quella ridicola distanza e in punta di polpastrelli gli sfiora le costole aguzze.
Thrrrrrud.
Le ossa appuntite di Brian si sciolgono sotto dita calde; lui da solo non ci era mai riuscito, a smussare quegli spigoli che gli strappano i vestiti e imprigionano il respiro. Altri tre o quattro polmoni gli invadono la cassa toracica, e in tutti rimbomba un battito cardiaco che non è il suo.
- Prima hai detto… - sussurra Benjiamin. – dei giorni giusti…
- Il prima non esiste più. Siamo dei piccoli, fragili momenti che vanno a cozzare contro gli agenti atmosferici finché non veniamo ridotti in cenere. Moriamo una decina di volte nel corso della vita, e rimane il nostro lamento insistente e disilluso a gonfiare teli sfilacciati che chiamiamo corpi. Le emozioni, i sentimenti e le idee ci logorano attraverso il tempo, scandito dalla contraddizione della felicità in mezzo ai rottami e di diciassette secondi di amore puro.
- Oggi è un giorno ingiusto. – constata Benjiamin, con un’amarezza che non capisce fino in fondo.
Il profilo di Brian si crepa in un piccolo sorriso per la parola che l’altro ha utilizzato.
Ingiusto, non sbagliato. Brian non aveva mai pensato davvero alla differenza.
- Io lo so che tu ci credi alla felicità, Bee, e anche all’amore.
- Faccio male?
- No. Sì. Stai male, quando ci credi?
Per un po’ cala il silenzio sul respiro tranquillo di Brian e sui pensieri sconnessi di Benjiamin, che si inseguono in un girotondo nauseante di esplosioni insonnolite.
- Forse credere alla felicità e all’amore fa male per principio, Bri. E magari ti sbagli, perché non sono loro a durare diciassette secondi, ma soltanto le conferme che li abbiamo trovati. Riusciamo a stare insieme alla nostra felicità e al nostro amore per un lasso di tempo inspiegabilmente breve.
 
Noi abbiamo sentito raccontare questa storia tante volte, e non siamo più sicuri di quale versione sia la meno distorta fra quelle che hanno attraversato i mari e i giorni; alcuni spiritelli color cobalto che cavalcano le tempeste dicono che i muscoli di Benjiamin erano troppo sfiniti per reggerlo ancora per molto in quella posizione, issato sui gomiti per vedere meglio il viso di Brian, e in un certo momento accadde che scivolò sulle sue labbra. Alle anime che ricoprono di lunghi steli fosforescenti i fondali marini piace raccontare che i ragazzini caddero addormentati uno addosso all’altro, con i respiri a sollevare sottili ciocche di capelli, ma la versione che mi piace di più e mi ripeto ogni volta che l’inverno dura più del solito, come succede da diversi anni a questa parte ormai, è quella in cui Brian ad un tratto sorride del tocco morbido del ragazzo sulla sua pancia tremante, e Benjiamin bacia piano un angolo di quel sorriso, il cervello annebbiato e gli occhi grandi come piattini da caffè, o come la luna appesa al cielo buio oltre la finestra.
L’epilogo della fiaba, invece, ce lo ricordiamo tutti. Con la gola che trema, le mani sudate, fischi di vapore e un luccichio nei nostri occhi, conservato intatto con la gelosia del cani randagi; lo recitiamo battendo i piedi e i bastoni, in una cantilena che ha perso il suo significato e che, per qualche motivo, ci fa sentire ancora uomini.
Prima di aprire gli occhi, prima di rendersi conto di averli chiusi, prima ancora di scollarsi da un incubo scialbo e poi dimenticarlo, Benjiamin si chiede come avesse fatto a scambiare Brian con Sunshine.
 
 
- L’amore non esiste.
 L’odio, la pazzia, il legno e i calzini non esistono.
Esisti tu, ed esisto io.
I sogni e i colori sono una bugia,
 perché la vita non è giusta
e la verità è sbagliata.

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Capitolo 17
*** Placidi Incubi. ***


Sono tornata.
Ci ho messo un mese per scrivere questo capitolo, tra scuola e studio e pazzia e tazze di tè alla menta, ma non ho abbandonato Brian, Sun e compagnia bella. E non ho nemmeno finito di rompervi le palle, perciò eccovi il Capitolo-Diciassette-Che Dovrebbe-Essere-Il-Sedici.
Vi siete ricordati di rileggere il finale del capitolo scorso? Bravissimi.
Comunque mi trovo qui sopra soltanto perché volevo fare una cosa un po’ strana, cioè una dedica.
Ho scritto un bel pezzo di questo capitolo pensando a RuboLaVitaDentroDiMe e a tante cose di cui mi aveva parlato. In realtà non so nemmeno se leggerai, ma in ogni caso Placidi Incubi è per te, cara Ragnatela. E anche un po’ per tutti, se ad un certo punto vi riconoscete.
Gatto Magro
 
 
 
 
 
 
 
cheers baby cheers
 
    Novembre 2012
 
Mi ustiono le dita sui tuoi messaggi insignificanti
 
- Oh, Brian. Non fare la femminuccia.
Scrive da tutto il giorno. È la cosa più facile del mondo: otto parole e un senso che non saprebbe spiegare, perché non capisce da dove gli sia uscito. Tuttavia lo sente come un bisogno fisico, colargli dallo sterno e scivolargli attraverso la curvatura delle costole, inzuppandogli gli organi interni.
Deve vedere quella frase prendere vita davanti ai suoi occhi, così i minuti potranno scorrere più velocemente e un dio gli soffierà il coraggio nelle vertebre.
Sul vapore delle vetrine dei negozi di elettrodomestici, dei finestrini delle automobili parcheggiate, coperte di schizzi di fango, e sullo strato di sporcizia indefinita che ricopre i tavoli del League; la scrive ovunque gli capiti e se trovasse un ago se la inciderebbe dentro la pelle.
A quest’ultimo pensiero, si immobilizza con il dito sospeso sopra “insigni…”, improvvisamente contrariato.
Sono proprio una femminuccia.
- Come lavoro part time potresti darti alla pubblicazione di poesie, ci hai pensato?
- Ma chiudi il becco. – borbotta il ragazzo a labbra serrate, sprofondando contro lo schienale della panca di legno. Chiude gli occhi e cerca concentrarsi sulla musica masticata delle casse, ridotta ad un sottofondo dei rumori all’interno del locale – voci, baci, bicchieri, risate, urla e tacchi di scarpe che battono il pavimento unto.
- Non è cortese ignorare i compagni di bevuta. – osserva educatamente una voce che proviene poco più in là della pinta di birra, intatta e grondante condensa sullo straccetto improvvisato come sottobicchiere. Il vetro del boccale, già opaco e incrostato di vecchio sporco, diventa ad un tratto ancora più scuro, e due dita di birra scompaiono.
Subito dopo, come se non fosse mai successo, la luce torna a fluire contro il vetro.
- I went for the study of evil souls and wish that they replied – canticchia Brian muovendo la testa al ritmo veloce della canzone. È talmente strana quell’espressione allegra sul suo volto, che lo spirito dal completo a righe si dimentica di inventare un commento sarcastico. Se solo non fosse in una condizione in cui i giuramenti hanno ben poco valore, giurerebbe che il ragazzino sta quasi sorridendo mentre tamburella con le dita sull’orlo del tavolo.
- Brian, mio Dio. Che ti prende? – domanda, sbigottito.
- Adoro questa canzone! – esclama il ragazzo, mimando un piccolo assolo di chitarra sulle note che sopravvivono alla confusione.
- Io la trovo piuttosto sgraziata. – obietta lo spirito, facendo sparire un altro sorso di birra acidula. Brian lo ignora completamente e si raddrizza sulla panca con le orecchie tese, ipnotizzato dalla musica come un gatto da una mosca che gli ronza davanti al muso.
- E mi ricorda qualcosa, ma non mi…
- Oh, beh. Davvero interessante. – Lo spirito sventola una mano in un gesto annoiato, scacciando anche le ultime briciole della canzone contro un gruppetto di ragazze dalla schiena nuda e lucida. – Senti, ho trovato una cosa che dovrebbe davvero preoccuparti.
Brian, con ancora gli occhi spalancati e il labbro inferiore stretto fra gli incisivi, gli fa distrattamente cenno di continuare. Si sta sforzando di ricordare dove ha già sentito quella musica, ma i rumori del locale e la voce penetrante dello spirito dal completo a righe soffocano lentamente ogni traccia che si era risvegliata nella sua mente, e quell’espressione di curiosità infantile gli si spegne sul volto quando la melodia riaffonda nell’inconscio. Deluso e infastidito, con ancora impresso nelle orecchie il timbro nasale del cantante, appoggia il mento sul tavolo e si rassegna a dar retta allo spirito, che intanto ha già preso a parlare a ruota libera nel suo solito tono aristocratico.
- Proprio l’altro ieri, sai, quando sono caduti quei quattro centimetri di neve e Cinda ha tirato fuori il cappotto rosso, mi sono svegliato all’improvviso in un luogo angusto, buio e molto puzzolente. Non capivo dove fossi finito, ho pensato di star sognando o che mi avesse ficcato lì il vento, e intanto quell’odore continuava a pizzicarmi il naso…
- Tu nemmeno ce l’hai, un naso. – lo interrompe Brian, ferreo.
- Sì che ce l’ho, razza di maleducato. Questo cosa ti sembra? – inveisce lo spirito indicandosi vagamente sopra il colletto della camicia, punto sul vivo.
Il ragazzo si sbuffa lontano dagli occhi un ciuffo di capelli neri, ben deciso a non lasciarsi trascinare in discussioni ontologiche. – Vai avanti, per carità.
- Dunque, dicevo? Ah, sì. L’odore. Mi ha del tutto sconvolto, non riuscivo a sentire altro che non fosse quel misto di polvere, fuoco, carbone… Ed è successa una cosa incredibile. Un ricordo mi ha invaso la mente, Brian. Che colori, che immagini meravigliose, e tutto quel calore… Cinda ha tirato fuori il cappotto rosso perché aveva freddo. Ero finito dentro un camino.
Lo spirito dal completo a righe tace, come se l’emozione fosse troppo intensa e stesse cercando di arginarla. – Ero dentro un camino, e l’odore di bruciato mi ha ricordato il giorno in cui sono morto.
Sorpreso, Brian solleva il mento dal tavolo. È essenziale per lui sapere dove la morte di uno spirito è avvenuta, perché altrimenti non sarebbe in grado di staccarlo completamente dall’esistenza terrena ed inviarlo allo scarico di anime; lo spirito dal completo a righe lo assilla da anni, tormentandolo affinché rintracci il suo cadavere, ma Brian non ha mai trovato neanche una goccia di sangue in centinaia di notti insonni.
Sta giusto per aprire la bocca e dire qualcosa, visto che il fantasma sembra perso in un fiume di emozioni difettose, quando qualcosa di liscio e affusolato entra nella sua visuale.
Un paio di mano atterra sul tavolo, facendo sobbalzare i boccali vuoti.
Profumo di fragola sintetica, fondotinta e aspirina.
C’è una ragazza a due centimetri dalla faccia di Brian, che, con due occhi dal colore sbavato da un pesante strato di trucco, lo fissa in maniera sinistra.
Brian vede le sue labbra schiudersi, ma al posto delle parole un urlo acutissimo e allo stesso tempo smorzato, come lo sferragliare di un treno arrugginito, gli perfora le orecchie. Rimane intontito a sequire la scia luccicante del rossetto della ragazza, troppo freddo e rosa sulla sua pelle ambrata, mentre lei continua a parlare; lo spirito dal completo a righe si inabissa fra le assi del pavimento e le urla si fanno sempre più distanti, abbandonando piccole crepe sul bordo del boccale e sulle unghie di Brian.
- Ems, per te mi sta ascoltando o è perso in un viaggio mentale?
Un altro visetto sbuca da sopra la spalla nuda della ragazza, nascosto subito da una mano che prende a sventolare davanti al naso di Brian.
- EEEEEEEHIIIIIIIIIIIII?
- Smettila, così si rincoglionisce ancora di più!
- Ahia.
- Aspetta, cosa? Ha parlato!
Le ragazze si zittiscono, avvicinandosi ancora di più per sentire. Brian abbassa lo sguardo sulle proprie mani artigliate al legno marcio del tavolo.
- Ahia. – mormora di nuovo, esaminando l’unghia dell’anulare destro: è aperta in due da un solco rosso scuro, da cui cade una lunga lacrima di sangue.
Una delle due ragazze si volta per estrarre dalla borsa un fazzoletto di carta, che porge a Brian in silenzio, mentre l’altra si limita a storcere il naso e a guardare da un’altra parte, gli occhi velati da una strana espressione.
Quella che ancora lo fissa non fa che masticarsi quel rossetto lucido, e alla fine sembra non trattenersi più e scoppiare:
- Eri nella nostra scuola oggi, alla Met. Non ti ho mai visto prima, o almeno credo, perché mi sei in qualche modo familiare.
- Non so di cosa stai parlando. – Metà del fazzoletto è imbevuto di rosso ed emana un forte odore di ferro che gli pizzica nel naso. Ha riconosciuto la ragazza: è quella con cui si è scontrato mentre scivolava per i corridoi della Met, e l’altra è la sua amica dai capelli color carota che l’ha apostrofato gridando. A dire il vero non gliene importa molto, lui è lì per Benjiamin, e poi sta cercando di fare mente locale per localizzare lo spirito dal completo a righe; perché diavolo si è fatto prendere dal panico in quel modo? Si sarà rifugiato a gocciolare fra le grate delle fogne al limitare del bosco, come fa sempre quando lui e Brian litigano furiosamente e si lascia riempire di dubbi noiosi circa i suoi assurdi ricordi bucherellati.
Gli stava parlando del fuoco, del calore…
- Ah! – Brian sussulta sulla panca e ritira di scatto la mano ferita dal palmo della ragazza bionda. Il fazzoletto con cui cercava di tamponargli il dito si strappa, rimanendole appiccicato ai polpastrelli in lunghe fibre collose. Mentre le due lo fissano allibite, Brian volta la mano per scorgere dei segni, ma non c’è nulla.
Si era sentito bruciare la pelle, a contatto con lei.
Un senso di allarme comincia a strisciargli su e giù per l’intestino come un’amara intuizione: e se fosse stata questa ragazza a spaventare in quel modo lo spirito?
- Saki, non è meglio se andiamo? – miagola l’altra sottovoce, scrutando Brian di sottecchi, stando bene attenta a non sfiorare con lo sguardo le sue dita insanguinate. – Così ti lavi le mani anche tu…
La bionda la ignora. Ogni traccia di timore, o almeno sorpresa, è già scomparsa dai suoi occhi obliqui. Una sorta di sensualità liquida ha preso il suo posto, e le iridi scure sembrano brillare e pulsare lievemente come una luna sdoppiata dalle pozzanghere.
È bellissima, e perfettamente consapevole di esserlo. Brian rimane in silenzio ad aspettare la prossima mossa dello strano animale che gli sta di fronte, un po’ impossibile ed evanescente fra il luccicare del rossetto e i vestiti leggeri che sembrano starle addosso per lo stesso magnetismo che vibra fra le sue ciglia.
- Va tutto bene? – domanda lei con un accenno di sorriso, spostanto i capelli da una spalla all’altra.
- Sì. – ribatte lui, cauto. Lancia un’occhiata alla porta, da cui non compare ancora nessun ciuffo biondo sotto un cappello di lana, e quasi senza accorgersene passa le dita sopra le parole incise sul legno.
Insignificanti”.
- Sembri uno abituato al dolore, in ogni caso. – La bionda lo dice in tono amichevole, ma le sue parole dipingono sul visetto pallido della ragazza insieme a lei un’angoscia profonda. Quando questa si solleva appena per dare una scorsa veloce ai lividi sul volto di Brian, un’onda di empatia verde acceso gli lambisce i sensi, e sotto le trecce del maglione può figurarsi i brividi sulle sue esili braccia – lo accarezza per un lungo secondo, l’onda, per poi ritirarsi timidamente dietro una cortina di sottili capelli rossi, e stare lì a rimescolarsi.
- Chi siete? – fa Brian incuriosito, inclinando il capo per scorgere il viso nascosto della ragazza.
- Mi chiamo Saskia – la bionda scivola sulle “s” con voce roca – e lei è Emma… Emma, che fai? – aggiunge cambiando improvvisamente tono, afferrando il gomito dell’amica.
Emma mugola e alza il viso. I capelli seguono la linea morbida della guancia e cadono dalla fronte, scoprendo lei che continua a torturarsi il naso con le dita.
- Scusa. Scusa, è che mi da tanto fastidio…
- Le da’ fastidio vedere il sangue. – Sospira Saskia infastidita, staccandosi dalle dita i rimasugli del fazzoletto insanguinato. Brian si affretta a cacciare le mani sotto il tavolo.
- Così va meglio, grazie. – dice Emma stirando un sorriso all’indirizzo del ragazzo, che si accorge un po’ tardi di dover ricambiare.
- D’accordo, senti – Interviene Saskia, riprendendo da dove si erano interrotti. – io sono sicura di averti visto stamattina, ma se ti fa piacere farò finta che non sia mai successo… A patto che tu ci dica che cosa stessi facendo lì.
- Forse ha inteso male il significato di “affari propri”.
- Forse hai inteso male il significato di quello che ho detto. Se non ci racconti questa bella storia, noi ti denunciamo al consiglio scolastico per le scritte sui muri.
Gli occhi di Emma balzano dal sorriso falso di Saskia alla smorfia indifferente di Brian, che si fronteggiano dai due lati del tavolo mangiucchiato. Alla ragazza dai capelli color carota dispiacciono tutte le situazioni di conflitto, che riguardino scaramucce fra due bambini o le guerre nucleari: lei sente il cuore vibrare e deve annodarsi le dita per non afferrare le mani di qualcuno durante un litigio. Per un attimo pensa di intervenire, poi le torna in mente il dito scorticato del ragazzo e decide di starsene in disparte a preoccuparsi silenziosamente.
- Non riesco a pensare a nulla che possa importarmi di meno di un consiglio scolastico. Per quello che vale, non sono stato io a fare quella roba sulle pareti.
- D’accordo. D’accordo… - le unghie irregolari di Saskia producono un rumore strano, tamburellando sulla superficie unta del legno, può essere un bussare disperato come una corsa di un animale zoppo. La luce viene risucchiata dentro la sua testa quando il sorriso le si cancella dalla bocca di plastica. – Non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami.
- Brian.
- Brian cosa?
- Collins. – mente Brian impassibile, sostenendo lo sguardo penetrante della ragazza. Gli viene quasi automatico, perché dentro di sé, in maniera confusa e aggrovigliata, avverte ancora quel senso di allarme e minaccia che gli aveva procurato toccarla. Si sente come se stesse misurando l’orlo di un baratro nebbioso, e lo preoccupa non riuscire a sondare nulla di ciò che si trova nel fondo. Sotto il trucco color fango di Saskia si apre una voragine infinita di materia spessa, fitta come una rete, dove il puzzo artificiale si scioglie nel calore di qualcos’altro che a Brian continua a sfuggire, e poi dov’è finito Benjiamin, sono le nove e mezza ormai e lui dov’è, lo stomaco di Brian perde schegge di ghiaccio e bolle d’angoscia e lui non torna ancora dalla notte di novembre.
Distoglie lo sguardo da Saskia e lo lascia vagare nel vuoto, attraverso i corpi lucidi che hanno riempito il locale in secondi per lui insignificanti. Ci sono due ragazzi, vestiti di viola da capo a piedi, che non fanno che ridere scoprendo dei lunghi denti candidi per la gioia di un gruppo di uomini tutti uguali, tarchiati e con la faccia nascosta dalla barba, la canottiera macchiata di sudore e di un intruglio color Jack Daniel’s dal sapore di vomito, schiere di felpe colorate e troppo leggere sopra ragazzi pelle e ossa che tremano di freddo e si guardano truci pensando ai numeri irrazionali e alle macchinette dei preservativi, ai ventitré anni e alle strade di campagna divorate dall’erba cattiva, pensano i ragazzi con la gola tagliuzzata dalle lamette confortevoli – così lisce da passarsele anche sui polsi, che non succede niente, e sulle spalle sulle cosce sulla vita, che non ti farà male davvero – e non ci pensano alle ragazze che si accoccolano sulle loro ginocchia o sotto i tavoli a piangersi sulle ginocchia spellate, con la consolazione delle piccole luci delle loro magliette corte, strappate, rubate e tagliate, raccogliendo a grumi, fra le mani a coppa, le facce che si incollano addosso tutte le notti dopo aver pianto acido, e se ne stanno così, a spegnersi piano, sotto una musica che non li capisce, bollenti e sbiaditi e troppo stanchi di vivere per trovare il coraggio di scappare dalle corriere e dai treni ad alta velocità dalla vernice scrostata, per amare senza uccidersi e per essere felici che tra poco è Natale.
- Che cosa guardi? – soffia la ragazza dai capelli d’oro e gli occhi da Medusa.
- Niente. - risponde Brian.
- Allora è Francesca, quella con il maglione blu. È molto carina nei giorni pari, negli altri è un vero mostro perché va in crisi di astinenza e si strappa i capelli. L’hanno buttata fuori dalla squadra di pallavolo perché faceva cose strane negli spogliatoi… Ma dovresti chiedere ad Emilia, erano sempre appiccicate. Stavano insieme o cose così, si portavano dei regali tutti i giorni, incartati di verde. Un giorno Emilia si è messa a urlare in corridoio, e non erano parole, urlava e basta, di rabbia, e strappava la carta verde di un regalo e dentro c’era un biglietto del treno e hanno portato via Emilia legandola alla barella dell’ambulanza. Per due mesi non l’ha vista nessuno, poi è tornata a scuola e stava solo con Mordre, quello sfigato che le morde le dita sotto la finestra. Parlano solo di lampioni, ti giuro, dalla mattina alla sera. Credo lo facciano anche quando scopano.
- Saki. – la voce di Emma è infantile, e il suo viso scuro. – Smettila.
- Oh Ems, ma perché? Siamo tutti amici in questa vita di merda. L’altro giorno Costa ha smesso di farsi, sai Brian? Siamo tutti contenti per lui, e perché così c’è più eroina per gli altri. Il prezzo cala, è la legge del mercato. Emma e io non ci capiamo un cazzo degli andamenti economici, ma qui tutti sanno dirti dove puoi trovare ciò che ti farà felice. Tutti vogliono essere felici! Perfino Daphne, anche se non si stacca mai dal computer: ha paura di morire prima di finire una storia che sta scrivendo, e non parla nemmeno più, scrive e basta tutto il giorno, anche mentre mangia e mentre piange. Quel mascara che ha sulle guance è lì da un anno, non si scrosta più. Se ci pensi fa un po’ impressione, è vero, ma basta fregarsene e allora tutto va meglio. Lo dicono anche i libri. E lo scrivono sui muri, come stamattina. Perché alla fine Bee Han che cazzo vuol dire, se non questo?
- Saskia. Basta, per favore.
- Fregatene e vai a dormire, vuol dire. Chiudi gli occhi e iniettati qualche bel sogno artificiale che ti faccia meno paura del mondo, quando ti svegli. Addormentati su canzoni laceranti e vuote come il cielo, faremo tutti dei placidi incubi sulla fine delle linee degli autobus e sulla superficie dei laghi ghiacciati. Ad Emma questo fa paura, non ha ancora capito. Sembra così indifesa, vero Brian? In realtà anche lei è marcia dentro, come tutti quanti. Non deve fare finta di non fare schifo come noi, io so tutto di lei e…
- SASKIA SMETTILA!
Emma scatta verso l’alto, rigida e bianca come un lenzuolo, gli occhi lucidi dietro uno schermo di rabbia terrorizzata, i pugni stretti contro i fianchi. Il suo grido rauco, il suo movimento repentino strappano Brian dalla trance in cui era scivolato e zittiscono Saskia, ma per il resto potrebbe non essersi mossa affatto e non sarebbe cambiato nulla; la musica continua a grondare dal soffitto, le persone ad esistere intorno al loro tavolo e Saskia a sorridere canzonatoria.
Emma dondola sui piedi, furiosa e imbarazzata, ma più che altro codarda: in un goffo movimento raggira la sedia e corre via, zigzagando fra i tavoli per poi sparire dietro una robusta ringhiera in fondo al locale.
 - È piuttosto tenera, dopotutto. – commenta Saskia freddamente, uno sguardo gelido ancorato al punto dov’è scomparsa la ragazza.
Brian non commenta, confuso. Presta attenzione al flusso disordinato delle sensazioni di Emma, sotto il pavimento, consapevole del fatto che normalmente non se ne sarebbe curato affatto.
- Ti sbagli, sai. – commenta distrattamente, per distogliersi dai pensieri. – Le scritte sul muro.
- Perché dici?
- Per me, quelle lettere hanno un significato. Uno, trecentomila. Sono… importanti.
Di nuovo a fissare la porta chiusa, di nuovo lo stomaco rivoltato come un vecchio calzino.
Saskia lo guarda intensamente, come a cavargli altre parole dalla pelle, ma poi scuote la testa e fa per alzarsi.
- Guardati intorno: lo sai che ho ragione io. – afferma la ragazza – Devo andare a controllare che Emma non si faccia nulla. È stato un piacere conoscerti, Brian Collins.
Un vuoto “ciao” da parte del ragazzo rincorre la sua sfilata attraverso il League, che catalizza occhiate storte e lampeggianti alla carezza dei jeans corti sopra il sedere, ai buchi nelle calze e alla linea morbida delle scapole, ben visibili sotto la maglietta trasparente.


 


I’m coming home,
 I’m coming home I swear.
Just, wait another thousand years,  I made my plans a little bit wrong.
 I’ll be coming home
Someday.
 


 
“- E di’, un giorno ci tornerai a casa?
Lei lo guardò tagliente, facendogli seccare in gola il sorriso impacciato che tratteneva nel cuore.
- La mia casa sta alla destra della fine del mondo. Tu ci vorresti tornare?
- E a sinistra che ci sta, Aisling, a sinistra?
- La grandiosa caduta delle fondamenta.”
- Oceano 1951.
(più a sinistra che a destra)



 
 
Luglio 2002, ancora, perdonami.
L’ennesima visita, un balcone.
Una vertigine dilatata per sedici piani tutti uguali, piatti e quadrati e schematici e bianchi, senza spruzzi di disarmonia, senza angoli morbidi e nemmeno lo zucchero nelle macchinette del caffè, abbandonate in mezzo a corridoi lisci e vuoti.
Le scale rivestite di gomma blu, un balcone, il vuoto ben visibile attraverso le dita dei piedi scalzi; buca la consistenza della pelle e ricade all’indietro, lascivo, scorticando l’intonaco dell’edificio.
Un balcone sul buio di quel cubo inutile, dove si affacciano faccie grigie e morti viventi; e le nuvole, ricalcate dalle ombre filamentose sulle vertebre delle pareti.
Il bambino dai capelli scuri assiste indifferente alla festa in corso proprio sotto i suoi piedi sospesi, fra le foglie e la lanugine del bosso. Nelle sue orbite spente non ha fine la celebrazione senza senso degli spiriti, che sollevano il cappello e sventagliano le fibre muscolari iridescenti per salutare le finestre. Da alcune figure fosche oltre il vetro, attraverso l’infisso, scorre già via un’essenza che scintilla piano contro il muro, come bava di lumaca sotto la luce dei lampioni.
Le scie brillano in migliaia per gli occhi socchiusi di Brian, ma in cambio possono soltanto avere questo strano rigurgito di abbandono, che lo lascia seduto inerte su un balcone polveroso a considerare passivamente i quarantanove metri – davvero nulla, in fin dei conti – che lo separano dalle anime dei morti.


 
(Settemetriindietro,corridoiosilenziosoelucebianca,troppo.)

 
 
Sunshine sembra non essere più in grado di stare in piedi da sola.
Da quando la corsa del Mostro l’ha scagliata indietro, nel giardino di casa sua, soltanto tre settimane fa, le sue ginocchia non hanno smesso di tremare neppure nel sonno – e così cammina, la piccola Sunshine, cammina tutta la notte e va a sbattere contro suo padre che pure non riesce a dormire, contro la straniata preoccupazione di Collins e contro la confusione che le fa sembrare irriconoscibile persino casa sua.
Ora se ne sta aggrappata al proprio cuore, con le dita che scavano la pelle per sentirlo un po’ più vicino, un po’ più acceso, e sorveglia la figura immobile del fratellino seduto sul balcone dell’ospedale. Dei piccoli segni bianchi sono appena visibili sulla sua schiena nuda, simmetrici, all’altezza delle scapole, e Sunshine sa che continuano anche sul torso di Brian in due strisce speculari, dalle clavicole all’incavo delle ascelle.
Grace e Jimmy non fanno che tormentare i medici perché trovino un modo per cancellare le cicatrici, trascinando un Brian invariabilmente apatico su e giù per sedici piani da due settimane.
Non sembrano aver notato che al loro bambino è caduta la faccia.
Sunshine rabbrividisce pensando che, tramite quei segni, qualcosa di terribile si è ancorato al suo corpo per portarlo via con sé.
 

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Capitolo 18
*** Termosifoni gelidi e il Preludio di una Cattiva Fortuna. ***


“You don’t say what music is. It’s a secret no one should know.
We owe it to God and to Prometheus.”
- Benjiamin Hannover, un qualsiasi giorno pari
di un anno futuro.
Ma ora, Inverno 2010
 
- Promettimi che da adesso non avrai più paura. Promettilo anche se sarà una bugia. Promettilo in modo che io ci creda.
È appena sorto il sole, ma la sua luce è troppo debole e rimane addensata fra il cielo e il soffitto come una nuvola tenue, non ferisce le iridi chiare del ragazzo che ha parlato con la voce impastata di sonno.
Sussurra con l’alito acido sulla guancia di un’altra persona ancora addormentata, che respira con troppa cura per esserlo davvero.
- So che sei sveglio.
- Ti puzza l’alito. – mugugna l’altro, girando faticosamente su un fianco e trascinandosi dietro tutta la coperta. E le promesse, poi. Una puzza inestinguibile di vicoli ciechi pieni di occhi iniettati di sangue. Il ragazzo avvolto nel piumone sa bene quanto le promesse facciano male in luoghi invisibili allo sguardo.
- Brian. – riprova il primo ragazzo, sillabando un brivido di freddo. Il cielo appiattito contro la finestra promette ancora neve, e un’indulgente bugia renderebbe quel risveglio perfetto.
- Io la metabolizzo bene la paura, sai. – Brontola il secondo, annaffiando il piumone di vocali che Benjiamin deve immaginare al posto giusto. – Sei tu che dovresti averne.
Il mucchio di coperte ha uno spasmo improvviso e da una fessura un paio di occhi gonfi lo mettono a fuoco.
- Perché non hai paura? – l’apostrofa Brian, interdetto.
Il biondo solleva una mano e la avvicina alla fessura, facendo per allargarla e vedere il resto del viso di Brian, ma questo si ritrae in fretta inghiottito dal piumone, finché non trova un nuovo spiraglio da cui riprendere a spiarlo a metà.
Benjiamin sorride e la mano ricade sul lenzuolo già freddo.
- Perché ho te.
Prima di ricevere una risposta, si alza ed esce dalla camera, pescando una felpa dal cumulo di vestiti sulla poltrona. Quando Brian spinge via le coperte e si tira su, restando a fissare la porta con un’espressione indecifrabile – alterata forse dal sonno, forse dall’esatta impressione del termosifone gelido acquattato sotto la finestra, forse dallo spicchio di luna ancora pendente dal cielo -, Benjiamin è già di sotto, a frugare nei cassetti della cucina alla ricerca di un pacchetto di biscotti al cioccolato, un sorriso a mezza bocca e un’allegra nostalgia del Natale appena trascorso.
- Allora non hai niente.
 
 
Una vecchia bimba dalla gonna viola interrompe un balzo a metà, fluttuando incerta davanti ad una figuretta magra, immobile all’angolo del marciapiede.
- Spostati. - le intima la ragazza, accompagnando la parola con un gesto infastidito.
La bimba si affretta a  raccogliere ordinatamente le balze della gonna, che le ondeggiano attorno alle caviglie ossute, e si apposta di fianco alla ragazza. Le sue ossa scricchiolano con un rumore simile al vento.
- Che spettacolo patetico. – dichiara la ragazza seccamente. Il suo visetto da elfo, scuro e contratto, è rivolto alla porzione di casa che sbuca da sopra un’ordinata siepe di ligustro; sotto il cappuccio della felpa, i suoi occhi d’ombra incrinano il vetro di una finestra al secondo piano.
La bimba solleva il mento per seguirne la direzione, e il suo collo si spezza.
Spalanca la bocca in uno sbadiglio senza suono, e la mascella si stacca dagli zigomi.
Un lamento gorgoglia basso nella sua gola incartapecorita.
- In fondo sono dolci, non trovi?
Le unghie cadono a terra una alla volta, accolte dal marciapiede che si squaglia in cerchi concentrici prima di ingoiarle.
Attratta dal silenzio dell’anima, Sunshine la guarda per la prima volta con gli occhi pieni di disgustata compassione.
- Sei solo di passaggio, vero?
- Come tutti.
Le dita infreddolite accarezzano l’accendino, sul fondo di una tasca.
- Vieni. – le dice, più morbida. – Ti accompagno.
 
Si sta già avviando a passo spedito, seguita dai saltelli da passerotto della bimba, quando un pensiero le fa girare i tacchi e raggiungere la porta d’ingresso della casa, cui bussa educatamente.
Un piccolo stormo di uccelli inizia a fischiare dai rami spogli del melo, coprendo il veloce scambio di battute tra Sunshine e la porta, che si apre verso l’interno incespicando sulle pieghe di un grazioso tappetino verde bosco.
C’è Benjiamin sulle scale, la felpa della tuta che basta appena a coprirgli il fondo dei boxer, un piede a mezz’aria fra un gradino e il successivo, che con il pacchetto di biscotti stretto sotto un braccio le rivolge un goffo cenno di saluto – e un’occhiata allarmata, chissà perché – prima di correre al piano superiore.
- Evan, ti va di uscire? – chiede Sun alla persona che le ha aperto, senza distogliere lo sguardo tagliente dal ragazzo che si dilegua per le scale.
 
Una vecchia bimba-passerotto, che lascia impronte di artiglio sulla neve notturna; due gambette magre, chiuse da un paio di calze trasparenti, che nuotano nei grossi anfibi di pelle nera; un cappuccio orlato di pelliccia sintetica che si affretta per tenere il loro passo bizzarro, cercando al tempo stesso di non finire in mucchi di neve troppo alti e di infilarsi dei guanti azzurro pioggia: la stravagante ronda delle otto-e-qualcosa di una profumata domenica mattina.
- Dove andiamo? – domanda il cappuccio, le guance già arrossate dal freddo che punge la pelle nuda.
Gambette Trasparenti lascia penzolare la risposta tra altri pensieri, distratta dal solco di neve sciolta che si stacca dal cancello di Podmore e corre giù per la via da dove sono venuti. Passerotto tossicchia, docile.
- Voglio farti vedere una cosa meravigliosa. – dice infine Gambette Trasparenti.
- Che cosa? Hai trovato gli scoiattoli con sei zampe di cui mi avevi raccontato?
- No Evan, quelli arrivano gli ultimi giorni di inverno, e sono sempre meno. Ogni anno potrebbero non venire più perché il viaggio è molto lungo, ma no, non parlavo di loro.
Sunshine spinge il ragazzino in una via laterale molto stretta, che sbuca sulla sponda sassosa di un torrente muto; è ghiacciato durante la notte, e sulla superficie scura è posato un strato di neve sottile come zucchero. Una chiazza di erba dura, a pochi metri da loro, ospita il sonno pesante di due o tre cassonetti coperti di ruggine e sporcizia e schizzi di poltiglie strane; attorno alla base respirano accasciati diversi sacchetti di plastica lucida di brina, una scarpa da tennis, le schegge verdognole di una bottiglia di birra, lo schermo sfondato di un televisore e una colonia di preservativi usati.
Gambette Trasparenti si avvicina sicura, calpestando i pezzi di vetro sotto le suole spesse degli anfibi, e si inginocchia davanti ad uno dei cassonetti, mentre Passerotto ed Evan rimangono indietro, titubanti.
- Sunshine?
Con il suo sorriso da gatto, la ragazza lo invita a farsi avanti. I suoi occhi brillano come lampadine al neon e lui sente una vampata di calore pervadergli la pancia.
Si china vicino a lei, le ginocchia dei pantaloni si bagnano subito di fango sciolto.
- Guarda. – gli sussurra Sunshine all’orecchio. – Guarda.
L’accendino di plastica rossa scatta fra le sue dita.
Prima di infilare il braccio sotto il cassonetto, Sun studia l’espressione di Evan, accesa dall’eccitazine.
E non succede nulla, per qualche secondo, tranne il battito furioso del cuore di Evan sotto gli strati di piuma e lana, o i sospiri intermittenti di Passerotto, che zampetta innervosita alle loro spalle.
Poi un’onda di calore denso e bollente investe i due ragazzini accucciati ed Evan ruzzola sui talloni, serrando gli occhi con forza e lasciandosi sfuggire un grido di sorpresa.
In mezzo alle ruote spezzate, istantanee fra i mucchi di rifiuti, scattano lingue di fuoco azzurro e scintille accecanti, che esplodono a contatto con il suo viso col rumore di un muro di mattoni che crolla, e sembrano fargli male, sembrano scottarlo fin dentro il cervello, non riesce a smettere di guardare le fiamme bluastre che gli incendiano la retina, e intanto Sunshine canta o tossisce o recita una preghiera e il ventre di Passerotto si lacera in un grumo di lamenti spessi come sartiame, e vomita per terra una sostanza liscia, immateriale, fluida come plasma, che rimbalza sui sassi in una continua pioggia viscida finché le lingue di fuoco non vi si avventano sopra e la riducono in scaglie di cenere.
Passerotto urla di paura, ma ha finito di esistere ancora prima che le note stridule si disperdano nell’aria, echeggiando contro il retro delle case e scivolando via sul ghiaccio che cementa il fiumiciattolo.
Ventisette briciole di anima impigliate al suo cappello di lana.
Ventisei vengono spazzate via da un turbine di aria invernale che sguscia impazzito da un vicolo.
Venticinque si accendono di scintille e bruciano presto in fumo biforcuto.
Ventiquattro scavano angeli di neve in mezzo alla spazzatura.
Ventitrè è il numero della non esistenza, di una parentesi di sogno dove le ore si contraggono in gocce di pioggia e cori di fiamme; ventitrè briciole di anima risucchiano tutte le altre in un luogo che non verrà mai più alla luce.
 
- Sono quelli avanzati da Natale. – Benjiamin porge i biscotti a Brian, che si avventa sul pacchetto come se non vedesse cibo da settimane. Considerando i suoi zigomi affilati e la foga con cui strappa la carta marrone, Bee decide che dopotutto non è un’ipotesi tanto improbabile.
- Che voleva Sun? – domanda il ragazzo con la bocca piena.
Benjiamin, interdetto, rimane fermo nell’atto di infilarsi sotto le coperte.
- Se ti stupisci per così poco, mi deludi.
- L’hai vista dalla finestra? – Il biondo si scuote dai brividi che gli si sono attaccati alle spalle, e pesca un biscotto dal pacchetto per mangiucchiarlo distrattamente.
- No.
- Hai sentito la sua voce?
- No.
- Va bene.
Brian si irrigidisce al suo fianco, fulminandolo con gli occhi.
- Ma va bene cosa? – lo aggredisce, con la voce punta da una nota acuta. – Benjiamin. Io vedo attraverso le cose. E non vedo solo tuo padre seduto sulla tazza del cesso, con in mano il giornale della settimana scorsa e lo spazzolino bocca. Vedo le sue vene bluastre come se fossero quei cartelli stradali luminosi, e io ci andassi a sbattere contro a velocità disumana. Vedo l’intreccio dei vasi sanguigni e il loro snodarsi dal cervello alle cosce e giù fino alle punte dei piedi nelle sue ciabatte di gomma consumata. Vedo il sangue che gli correrà su una guancia tra qualche minuto, quando si taglierà la barba con la lametta vecchia e farà troppa pressione sulla pelle. Vedo le gocce sulla camicia, che si dovrà cambiare, ma ha finito quelle bianche e allora andrà a rovistare fra la roba appena stirata, facendo innervosire tua madre. E ha il ciclo, lei, a proposito. Ti va bene, questo?
Benjiamin lo ascolta in silenzio, la nuca appoggiata morbidamente alla testiera del letto. Accarezza il bordo sbocconcellato del biscotto, facendo soltanto attenzione alle onde nella voce di Brian.
C’è il mare invernale, nella voce del ragazzo dagli occhi azzurri e pieni di rabbia bollente.
- Va bene. – risponde, quando quello rimane a respirare profondamente, per evitare di urlare.
- Non fare finta di niente, cazzo. Sei così… - Brian fa crollare le braccia sul letto, troppo arrabbiato per insultarlo come si deve. Poco dopo riprende a parlare, soffocando ad ogni parola.
- Stanotte potevi morire. E anche adesso il pensiero ti terrorizza. Perciò non mi devi mentire. Non devi. Noi siamo una cosa sbagliata. Ma esistiamo davvero, quindi per favore, per favore, non fare finta.
Benjiamin smette di fissare il biscotto, per puntare gli occhi in quelli di Brian.
- Se riesci a vedere questa specie di futuro prossimo, puoi renderti conto che anche tu fai finta. Lo facciamo tutti, è nella natura delle cose. Tu mi hai mentito un sacco di volte, e io mi sono fatto piacere le tue parole tranquillizzanti perché, in qualche modo, sapevo che un giorno ti saresti fidato abbastanza per dirmi la verità. Nemmeno le tue bugie sono facili da sopportare. Come il tuo volto, o le tue allusioni, i veli di rancore che ti strappi dagli occhi solo quando ti accorgi che ti guardo. Tenendoti aggrappato a tutti i tuoi segreti, non fai altro che recitare una verità stampata fra il tuo cervello e un posto lontano, di cui la tua mente ha una paura invalidante.
- Avrei voluto tenerti fuori da tutto questo.
Inaspettatamente, Benjiamin allunga una mano e con il dorso di due dita accarezza la guancia di Brian. Il percorso sulla sua pelle bianca è un po’ zoppo; se, immersi nel buio, era stato quasi semplice lasciargli quel bacio sulle labbra sottili, la luce del giorno rende difficile anche solo pensare di avvicinarsi troppo. Eppure il ragazzo si limita a sbattere le palpebre, incerto, torturando il lenzuolo con le unghie. – Forse, - esordisce Benjiamin, distratto dal battito accelerato del suo cuore. – forse non c’è un motivo sbagliato, se è andata così. Esiste il destino, dalle tue parti?
Lo dice con un sorriso così grande che Brian non può fare a meno di ridere, ad occhi chiusi, con il naso arricciato, e Benjiamin se lo trova all’improvviso così vicino che sente le sue ciglia solleticargli una guancia.
- Oh, quello, ma quando mai ci ha lasciato?
 
“You owe me answers.”
Said the caveman to the paint he scratched on the rocks.
 
Dai tetti delle case sfuma via una nebbia strana, mentre Brian mordicchia le labbra di Benjiamin, lasciandole umide e arrossate.
C’è un piano infinito, - gli sussurra sulla bocca, con voce roca – che avvolge il mondo e si dipana in estremità tubolari che conducono alle dimensioni che vi sono sfuggite. In un nodo scuro e pulsante nasce la storia che cercavi ieri sera, dietro gli steli dei lampioni crepati. Se vuoi… se il tuo fato ti dice che è il tempo – Brian ride e lo bacia, la sua lingua pizzica, il suo fiato gli riempie i polmoni – io ti posso raccontare di quando si è sgretolata la gabbia della Fine e i grandi cancelli di fuoco sono piombati sulla Terra, che ne dici? Delle nuvole di piombo appesantite contro le sfere celesti che le hanno fatte scoppiare, dell’intreccio di serpenti lungo il bastone del pastore…
Sono le storie che Benjiamin non sapeva di aspettare, eppure, ora che la persona più impossibile della sua vita gliele sta snocciolando fra le narici e una guancia irruvidita dall’inverno, non coglie neanche metà delle parole. Maledetti baci, e quel sentore di menta e cioccolato nascosto fra gli incisivi di Brian. Sente le palpebre pesanti, ma si impone di vincerle per continuare a vedere la meraviglia liquida fra le ciglia del ragazzo dai capelli scuri.
Poi arriva un momento in cui la sua voce diventa un sibilo e le sue iridi si fratturano e la pelle intorno alle orbite si bagna di viola.
- È un gioco come un altro, Bee. – soffia Brian. – Evan ha appena tirato i suoi dadi.
 
Novembre 2012, la parte che non volete sentire
 
- Non piangere Callie, non importa se ci hanno prese. Non avere paura.
Andrà tutto bene.
Lo dicono nei libri.
No, lo so che non ti piace leggere, ma a me sì, vedi, abbastanza. Se la mia vita fosse come Lunar Park mi piacerebbero di più.
Hai ragione Callie, la mia vita è peggio di Lunar Park.
Callie non lo so quando verranno a tirarci fuori, ma non hanno alternative. Il letto è scomodo e puzza di sudore, ci hanno preso l’accendino e quella cosa lì, ma io e te non vogliamo fare del male a nessuno, vero?
 
S è seduta sull’umido pavimento della cella, all’interno del commissariato – in equilibrio sui talloni, sposta il peso da un piede all’altro per sentire il rumore bagnato della suola delle scarpe che si stacca dai lastroni luridi. Callie detesta gli spazi che separano le mattonelle, ci vede le piste dei ratti e dei germi fluorescenti, così S ha disegnato un nuovo reticolo di inchiostro nero che nasce dai suoi polpastrelli e le restituisce, vibrazione su strappo, i mugolii delle anime intrappolate nella ragnatela.
Callie distribuisce leccate e pizzicotti, raccoglie i denti e semina coltelli, prendendo a lagnarsi quando S cade in un silenzio troppo denso.
Aspetta, odiando gli interminabili sprechi di secondi fra una tappa e l’altra del suo gioco della morte.
Aspetta che i poliziotti smettano di lanciarle occhiate protettive, come se fosse stata un cucciolo perso nella notte. Aspetta che passino le ore e si affrettino i giorni, e rivolge preghiere intimidite ai graffi che ricoprono le pareti, affinché il tempo salti la parte in cui deve arrivare Lui.
La ragnatela schiocca e le anime gemono, investite dal terrore della ragazzina.
Non devo avere paura, non devo avere paura, si ripete ad occhi chiusi. Callie mi protegge e il tempo e il disegno e ciò che ho rubato, lui non può farmi del male, mancano quasi quattro giorni prima che lo trovino morto.
Sboccia un sorriso sulle sue labbra mangiate, ma dura troppo poco: dei passi pesanti, inselvatichiti, suonano per il corridoio illuminato a led, avvicinando l’uomo dei suoi incubi ad un punto in cui può sentire tutto l’odore incandescente della sua rabbia.
La sua voce lacerata e stopposa, vomitata a fiotti dalla bocca, intasa la serratura della porta.
- Lo state facendo di nuovo.
S si stampa una mano sul viso, trattenendo gli spasmi di paura che le fioccano per tutto il corpo ad immaginarlo lì, dietro le sottili sbarre di metallo.
- Mostri.
Nella testa di S si spegne la luce e il buio comincia a sbattere con forza, dall’interno del cranio.
- Non siete degni di vivere. Non meritate di respirare, neanche se foste rinchiusi in una tubatura diecimila metri sottoterra.
Suo fratello non avrebbe serrato gli occhi. Brian gli avrebbe risposto di guardarsi le gambe, le braccia, di trascinarsi davanti ad uno specchio e di provare a riconoscere il proprio volto.
Dopodiché, Lui gli si sarebbe avventato contro, quasi soffocato dall’orrore di vedersi riflesso; Brian avrebbe sopportato i morsi, i tagli, pur di vedere alla fine la Bestia crollare sfinita. Dai muscoli orridi della creatura sarebbero riemersi i lineamenti di Jimmy e per un po’ avrebbero fatto finta che non fosse successo niente di brutto.
- Mi basterà chiuderti in un luogo dove nessuno ti senta gridare.
 
Mi basterà guardare il cielo di notte, dal terrazzo dell’ultimo piano
Per sapere che non c’è davvero nient’altro, in tutto l’universo
che capirà.
Niente quanto un volo contro il cemento nelle notti senza luna.
Io parlo di te con tutti i rumori paurosi che mi prendono alle spalle,
con ogni giornata scura,
con ogni lampione spento.
 
(ma tu dove sei?)
 
Il mondo di Brian è improvvisamente tiepido.
Il ragazzo dagli occhi verdi gli viene incontro attraverso il locale; le bolle di niente scoppiano mentre si sfila il giubbotto, i guanti bucati, il berretto di lana appesantito dalla condensa; scoppiano le bolle agli angoli del sorriso che le sue labbra faticano a trattenere, e la sua pelle è di un colore acceso e vivo che contrasta con le tinte acide e lacrimose che ricoprono tutto il resto, e le percezioni esterne finiscono sotto i piedi di Brian, espulse dal suo corpo da un’improvviso getto di una sostanza più reale dei loro accidenti frantumati. Essere pieno di sensazioni soltanto sue lo lascia disorientato.
Non si pensa, davanti ad un viso come quello di Benjiamin.
Lo si guarda, apparire, illuminarsi, stropicciarsi e collidere con l’atmosfera, deformare lo spazio in lunghi scivoli di sguardi – curva del naso, occhiaie, le guance, la piega delle palpebre.
- Che cazzo di freddo che fa. – battono i suoi denti come una macchina da scrivere.
Scrive l’aria, la voce di Benjiamin, compone la luce che esplode fra i polmoni di Brian.
- Sono dovuto venire in bicicletta. A mia madre non piace questo posto.
- Forse a tua madre piace ancora meno che ci sia io, in questo posto.
- Probabil…- il resto finisce, insieme allo starnuto, nei guanti che Bee sta cercando di sfilarsi dalle dita intirizzite.
E poi si guardano.
E continuano a guardarsi – Bee con un angolo della bocca che trema, l’altro sentendosi crescere dentro un disagio per tutto, tanto che non sa nemmeno dove mettere le braccia – anche quando una cameriera dalla faccia verde chiede loro se vogliono ordinare qualcosa.
- Una birra rossa media. Tu?
- Un tè alla menta. – fa Brian a bassa voce, arresosi a fissare la punta bagnata delle proprie scarpe.
- Un tè alla menta. – ripete Benjiamin, mentre si apre in un sorriso dei suoi, scuotendo leggermente la testa.
- Mi sei mancato. – riprende, quando la cameriera si eclissa.
Brian si agita sulla panca, insofferente. – Puoi smetterla di guardarmi?
- Perché?
- ‘Cause I’m ugly just to see.
A Brian capita, a volte, di dimenticare com’è il suo viso. Ricordarsene in questo momento, pesto per i lividi neri e verdastri, l’angolo della bocca spaccato, lo fa quasi sprofondare sotto il tavolo per la vergogna.
- Tu per me sei bello sempre. – Occhi Verdi adesso ha la gola secca. – E io?
- Tu cosa?
- Se ti sono mancato.
- No.
Adesso potrebbe calare un silenzio rimbombante, partire dalla radio note stonate – subito impigliate fra le bocche spalancate di tutti i presenti, ammutoliti e voltati simultaneamente a fissare i due ragazzi e il mostruoso “no” pronunciato da Brian, sospeso sopra le loro teste come una nuvola di gas. Invece siamo soltanto noi a tendere le orecchie al suono spezzato del cuore di Benjiamin.
- Perché sono venuto a trovarti spesso. Ti ho guardato dormire, soffiando sopra il tuo letto le stelle filanti dei bei sogni.
- Avrei preferito svegliarmi.
- Perché? – Brian alza gli occhi per guardarlo di nuovo, con una lieve smorfia divertita sulle labbra. – Non ti sono piaciuti?
L’altro sta per aprire la bocca e ribattere, ma un’ombra si delinea sul tavolo proprio in mezzo ai loro profili.
- Scusate? Mi dovete dare una mano.
 
Saskia Viskji, le mani piantate sui fianchi morbidi, fa rimbalzare uno sguardo strano da un ragazzo all’altro. Posandosi su Brian, si sporca di curiosità famelica, malia e preoccupazione; staccandosi da lui si fa più limpido, per riscaldarsi di sorpresa negli occhi verdi di Benjiamin.
- Non riesco a far uscire Emma dal bagno… Non dice una parola, non fa un rumore. Vi prego.
- Penso che dovremmo rispettare la sua privacy. – risponde il primo, indifferente. – Non possiamo certo sfondare la porta…
Benjiamin guarda Saskia, perplesso. – La porta? Ma i bagni del League non sono sempre…
- Chiusi.
Brian si alza di colpo, facendo trasalire entrambi. Gli occhi spalancati e fissi sulla ringhiera dietro cui è scomparsa la ragazza, inspira a fondo per cercare il suo odore. Se ci avesse fatto caso, poco fa, avrebbe notato che, mentre il profumo di Saskia era rimasto ben percettibile per tutto quel tempo, quello di Emma era del tutto svanito.
In un secondo balza sul tavolo, lo scavalca e schizza giù per la tromba di scale di legno, intimando a Benjiamin uno “stai fermo dove sei o ti uccido”, che il ragazzo ovviamente ignora per seguirlo a ruota, imitato da Saskia.
È quando il suo piede è sul primo gradino che un pensiero fulmineo attraversa la mente del ragazzo – troppo veloce per essere formulato in parole, troppo veloce per cambiare idea e risalire. Una sensazione schiacciante di pericolo, sorta dall’ombra, si avventa su di lui facendogli perdere l’equilibrio; Benjiamin ruzzola giù malamente, frenato appena in tempo dalla schiena di Brian, indistinguibile dal buio totale in cui si ritrovano immersi.
Due occhi lo fulminano, brillando pallidi della luce fioca che scende dal locale.
- C’è un’interruttore, sul muro. - la voce di Saskia arriva inaspettata e vicinissima, facendolo trasalire.
Mentre Brian tasta il muro alla ricerca dell’interruttore, lo sguardo di Benjiamin è attirato da un movimento alle loro spalle; i gradini, torti nella rozza imitazione di una scala a chiocciola, sono imbevuti di una profonda ombra viola e sembrano quasi pulsare e srotolarsi nell’oscurità. Benjiamin strizza le palpebre, tentando di penetrare il buio – è soltanto legno, si ripete, incredulo della paura che l’ha afferrato senza preavviso, legno tarlato e nient’altro, nient’altro.
Legno vivo?... si insinua nella sua testa; le assi si dilatano come fibre muscolari, divorano lo spazio del pianerottolo sotterraneo fino alla punta delle sue Nike, gorgogliando sorde, annullandogli il battito cardiaco. Batte le palpebre sugli occhi orripilati e quelle sembrano tornare al loro posto, e subito dopo ricominciare a strisciare…
- Brian. Quel maledetto interruttore. – mormora fra i denti, a voce più bassa possibile.
Uno schiocco polveroso, un ronzio discorde e prolungato.
La nuda lampadina che penzola sopra le loro teste si illumina per un secondo, brillando incandescente, prima di fulminarsi in scintille acide, riconsegnando i loro respiri gelidi alle tenebre.
Benjiamin e Saskia trattengono il fiato, irrigiditi, appena confortati dal riuscire a sfiorare i vestiti dell’altro. Un fruscio umido disegna il percorso delle mani di Brian sul muro.
Fsssh…
Fsssh…
Fsssh…
…Stomp.
Compensato povero e scorticato, coperto di inchiostro e schizzi di vodka e piscio.
- A chi con attenzione cerca, sempre sarà data una porta. – Gli occhi di Brian appaiono d’un tratto, iridescenti, gettando una luce biancastra sugli incisivi che sbucano dal suo sorriso, un poco più sotto. – Ricordami di ucciderti, quando usciamo da questo buco.
La maniglia ruota, grattando il foro nel compensato in cui è ficcata. Sbriciola schegge sulla mano di Brian, che spinge con delicatezza la porta verso l’interno.
Benjiamin e Saskia lo sentono prendere un profondo respiro. Due. Tre.
Non c’è differenza fra l’interno del bagno e il pianerottolo: lo stesso buio compatto, la stessa aria pesante, uguali il rumore di minuscole gocce di umidità che rovinano l’intonaco e la muffa annidata inerte in ventagli sul soffitto. Solo il pavimento è diverso, sotto i loro piedi.
Freddo come una lastra di ghiaccio.
Il pavimento respira con un ritmo morto da secoli.
Saskia artiglia un braccio di Bee, scavando la pelle con le unghie, quando il cigolio della porta li coglie alle spalle, chiudendoli dentro.
Benjiamin vorrebbe sciogliersi sul pavimento, tanto sente freddo e vorrebbe trovare una mano di Brian, una soltanto, e dirgli andiamo via ti prego.
- Ho un accendino. – sussurra Saskia. – Lo accendo?
Si fruga nelle tasche, e dopo qualche secondo la piccola fiamma gialla bagna i loro volti in curve e cerchi, calda contro i loro muscoli contratti dall’angoscia.
- Passamelo. – le intima Brian, studiando per un momento i loro volti. – Che vi prende? È soltanto un bagno.
Senza aggiungere altro, si avvicina alla parete, muovendo l’accendino per far luce davanti a sé.
Da quello che gli occhi di Benjiamin districano dal buio, la stanza è rettangolare, piuttosto sformata sulla lunghezza; da un lato, una fila di lavabi sbeccati e resi opachi dalla sporcizia – l’ultimo è stato completamente divelto, lasciando intravedere le tubature come ossa esposte -; quello opposto si apre in cinque porte tutte uguali, che nei primi tempi del League dovevano essere laccate di un grigio uniforme, mentre ora sono incise a fondo da simboli puntuti, rigate di unto e divorate da disegni osceni, sequenze di numeri abbandonati lì con la speranza di essere ricordati – “chiamami solo per parlare, solo per parlare lo giuro, non ho strane malattie, chiamami ti prego”- e smozzichi di poesie senza grammatica scritti con la punta secca di un pennarello rosso, tanto rosso su queste porte crivellate dalle ubriacature barcollanti delle principesse che piovevano quaggiù, a piangere.
Soprattutto su quella al centro, dove le scie inaridite si confondono in forme dense, simmetriche e sensuali come macchie di Rorschach.
Quella a cui Brian si avvicina per ultima, quella che non ruota sui cardini al suo colpetto, svelando un piccolo, squallido cubicolo.
 
(rosse anche le piastrelle su cui avanzate strisciando,
piccoli corpuscoli vermosi, rosso il cielo fuori dietro il muro di nebbia, rosso del pianto delle stelle più vicine,
e rosso il vostro cuore che tengo in bocca,
rosso il liquido che mi scivola sul mento,
rosse le gocce in cui leggerò il vostro destino, e cadono sulla merda che copre il pavimento cadono,
e peccato che non vediate,
rosso il colore che ho scagliato su tutte le pareti
tutte le pareti, perché tu te ne andassi via
via
via.)

 
- Ma quello è sangue. – biascica Benjiamin senza intonazione.
Brian si volta appena, e da Occhi Verdi il suo sguardo scivola ad incontrare Saskia. La ragazza si stringe nelle spalle.
- È una storia vecchia.
- Lo so. – il ragazzo avvicina l’orecchio alla superficie della porta; il suo naso è reso inservibile da qualche strano fenomeno che ha preso dimora nel bagno, ma la traccia di Emma svanisce esattamente nel punto in cui si trova. - È dietro questa porta. – Prova a spingerla, prima leggero, poi a colpi sordi. – Ma è chiusa.
La luce scivola di qualche centimetro, le ginocchia di Brian schioccano quando si piega sul buco della serratura, un disco di metallo ossidato tenuto fermo da un perno. Una piastrina triangolare segna “libero”.
Brian stringe due dita attorno al disco e preme per farlo girare, ma senza riuscire ad estrarlo dalla porta. Raddrizzatosi, si guarda intorno – per quanto sia possibile, tenendo alto l’accendino graffiato di Saskia che ogni tanto li abbandona, sopraffatto da misteriosi spifferi – e muove alcuni passi nel bagno.
Benjiamin e Saskia guardano immobili la sua schiena sfocarsi in un angolo buio. Lo sentono frugare in rumori appuntiti, metallo e ceramica e piastrelle in frantumi, finché ritorna con in mano un tubo coperto di tacche, sottile e lungo più o meno quanto un braccio. Con la piccola fiamma sulle dita annodate, sembra un cavaliere a cui il Fato ha tolto la memoria, e che per gelosia ha rinchiuso sottoterra. Per tenerlo vicino e non farlo innamorare delle orbite astrali.
(Che cosa vi prende? È soltanto un bagno.)
Brian abbatte con decisione un’estremità del tubo sulla serratura, facendo schizzare via il disco che sfiora una guancia di Saskia, regalandole uno zigomo di ruggine. Un roco sferragliare riempie l’aria: proviene dal buco su cui il ragazzo si china nuovamente, intravedendo rapidi e minuscoli ingranaggi incassati nel legno, al posto di una normale serratura.
- Questa qui non si apre. – dichiara, chiudendo un occhio per vedere meglio. – È opera di un Mostro dei Chiavistelli.
- Un... che cosa?
- Un Mastro – si affretta a correggersi Brian. – dei Chiavistelli. Loro fabbricano questi aggeggi, loro custodiscono il segreto per aprirli. – conclude alzandosi.
- E adesso? – sbotta Saskia, basita dall’espressione da “ho fatto tutto quello che potevo fare” sul viso di Brian. – La vuoi lasciare lì dentro?
- Perché, Saskia, che cosa c’è lì dentro? – ribatte Brian, velenoso. Le si para davanti, scrutando nei suoi occhi scuri.
- Non lo so. – mormora la ragazza, muovendo la testa a scatti. – Non lo so, non lo so.
- Bri. – Benjiamin si frappone fra loro, cercando di agganciare lo sguardo di Brian. – Lo sento anche io, che c’è qualcosa di… Di oscuro, qui, è freddo e strano, sembra di stare a chilometri dalla luce e la devi tirare fuori quella ragazza, per favore. È una mia amica.
Brian lo guarda in silenzio. I suoi occhi si spengono. L’accendino si spegne.
- Hai imparato a mentire anche tu.
Ed è buio.
Brian sospira e si volta, il pollice già preme sulla rotellina quando un sibilo gli perfora le orecchie.
Schiocchi nelle pareti, e le unghie di Benjiamin che gli si piantano nel fianco.
Le lampadine che dondolano dal soffitto, nate da nodi di cavi neri, si accendono e spengono per tre volte, in rapida successione, e tra gli sfrigolii dell’elettricità che muore, Benjiamin è quasi sicuro di scorgere due figure dalle lunghe membra pallide.
Nel buio totale, dei colpi sordi si abbattono dall’interno della porta centrale, facendogli schizzare il cuore in gola.
L’aria è spezzata dal grido rauco di Saskia, poi Benjiamin viene spinto violentemente all’indietro, addosso alla ragazza e contro il muro. L’intonaco si sgretola sui loro vestiti.
Rumore di ferro sul ferro, stridente, di pioggia di schegge, di lividi e cadute; loro non possono vedere, ma la porta crolla a terra in un unico pezzo sofferente, il corpo di Brian viene scagliato via, e una figuretta esile fende velocissima l’aria, sputata dal cubicolo. Benjiamin sente lo spostamento farsi strada per schiantarglisi addosso, ma qualcosa lo frena e lui si sente afferrare e tirare su dal pavimento. Saskia raschia la parete alla disperata ricerca della maniglia, e quando la trova spalanca la porta e scappa. Benjiamin viene spinto fuori; tenta di correre e di respirare insieme e le sue ginocchia picchiano sulle scale.
Una sensazione delirante di sollievo lo coglie a tal punto che si mette a tremare.
Il corpo che l’aveva spinto lo supera come una massa cangiante, e lui ripiomba nel panico, carponi sui primi gradini. Non funziona più.
È incastrato nella paura.
- Alzati Bee, alzati alzati alzati alzati…
Il corpo è tornato indietro. Benjiamin non riconosce la voce, ma è un’iniziezione di vita nelle sue vene aride.
Con il cuore che martella nelle tempie, segue la corsa dell’ombra e le onde della figuretta disarticolata che porta sulle spalle.
 
Quando riemergono nel calore del locale, una luce densa ridisegna il volto di Brian. I capelli di Emma frusciano contro la sua felpa.
- Andiamo fuori. – sta dicendo il ragazzo, ansimante, indicando l’uscita con un cenno del capo.
L’aria pungente della sera che gli invade i polmoni è stranamente rassicurante, come il basso muretto scalcinato che racchiude il cortiletto sul retro del League, e le molli altalene dei cavi dei binari del treno, che sfiorano la  loro stessa erba.
- Emma! Emma… oddio…
Saskia ha la gola chiusa, la voce rotta, il trucco sciolto sulle guance. Aspira nervosa dalla sigaretta umida di lucidalabbra e segue con gli occhi tutti i movimenti di Brian, mentre questi posa a terra il corpicino, ma non accenna a muovere un passo verso di lei.
- È viva?
- Sì.
- CHE CAZZO ERA… - l’urlo le si strozza in gola, e prosegue in un mormorio. – Che cosa è successo?...
- Io non lo so. Davvero.
I fari veloci di un’auto illuminano metà dei loro corpi, sfigurandoli con il loro pallore giallastro.
- Sarebbe meglio portarla a casa.
- Le hanno rubato l’auto, oggi, a scuola… E vive distante e io…
- Cerca di stare tranquilla. Respira, va tutto bene.
Anche se non crede ad una parola, la ragazza riesce a controllare il singhiozzo. – La porto a casa con me, vivo negli alloggi studenteschi. Prendiamo il treno.
Le nuvole spesse e la luce arancione.
- Non lasciatemi sola.

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