I N T E R N A T __dalla Bielorussia con furore__

di Ortensia_
(/viewuser.php?uid=124384)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** _assurde proposte, assurde decisioni_ ***
Capitolo 2: *** _il mio nuovo nome_ ***
Capitolo 3: *** _una giornata speciale_ ***



Capitolo 1
*** _assurde proposte, assurde decisioni_ ***


I N T E R N A T
__☭ dalla Bielorussia con furore ☭__




Lui e Feliciano abitavano sotto lo stesso tetto da un paio di anni, ormai.
Una convivenza piuttosto tranquilla, tranne quando il minore aveva i suoi exploit di idiozia e il maggiore quelli di eccessiva irascibilità.
Lovino di certo non si sarebbe mai aspettato che da quel giorno, ogni cosa, sarebbe cambiata.
E non si sarebbe neppure mai aspettato di riuscire ad acconsentire una decisione così bizzarra e importante, sia per lui che per suo fratello.

«Adottiamo un bambino!»
Quelle parole parvero quasi pugnalarlo in pieno petto, per come sobbalzò il meridionale, rivolgendo un’occhiata attonita al minore.
Non stava prestando attenzione alla tv, ma piuttosto ad un vecchio archivio di documenti che occupava solo spazio e che stava seriamente pensando di buttare nella spazzatura, ma aveva catturato i suoni alle sue spalle, e la scena, a giudicare dalle urla scassa cazzo di una donna e dai vagiti di un bambino, riguardava quasi sicuramente un parto.
«Porca puttana Feliciano, spegni la tv. Quella roba ti dà alla testa-» bofonchiò nervoso, sperando che le parole del settentrionale fossero solo una proposta a caldo, causata dall’insensata gioia del momento. Non che per Lovino non vi fosse felicità, visto che quella rompi coglioni aveva finalmente smesso di urlare.
Feliciano la spense davvero la tv, senza più scostare i propri occhi dal maggiore, e non per accontentare una sua richiesta e cercare fin da subito di dimenticare quella pazza idea che gli era balzata in testa.
Se l’aveva spenta, facendo calare il silenzio in tutta la casa, era perché riteneva che un discorso così serio non dovesse essere disturbato da alcun rumore.
«Ecco, bravo.» Lovino tornò soddisfatto ad osservare i vecchi documenti fra le sue mani, convinto che Feliciano lo avesse fatto per dargli ascolto e nient’altro.
«Ehm, dicevo: adottiamo un bambino?»
Feliciano si ripeté, e Lovino non poté credere alle sue orecchie.
«Ma che cazzo stai dicendo?
I-insomma, sei serio?!» il meridionale aggrottò confuso la fronte, alzandosi dalla poltrona per adagiare i vecchi documenti sul tavolino di legno al centro della sala e raggiungere la scrivania: era nervoso, e il fatto che stesse camminando avanti e indietro davanti alla mobilia della sala ne era la perfetta dimostrazione.
Loro due. Loro due con un bambino.
Feliciano doveva essere impazzito sul serio, e poi non era certo una cosa legale -come se l’incesto fosse permesso, invece-
Rimase in ascolto del suo silenzio per un po’, poi lo incalzò con lo sguardo, cercando di incitarlo nel dire qualcosa.
«Tutte le coppie hanno un bambino! Anche noi dovremmo!»
«Noi non siamo come tutte le altre coppie, Feli.»
«Appunto, io non posso avere un bambino-» lo sguardo languido di Feliciano lo mise inspiegabilmente alle strette: che il minore lo volesse davvero, un figlio, e fosse dispiaciuto di non poterlo avere a causa della sua relazione omosessuale? O che fosse tutta una bastardissima tattica per provare a convincerlo?
«Non potremo mai averne uno, non possiamo neanche sposarci …
Almeno provare con l’adozione …»
«Se è per questo la legge non ci concede neppure il diritto di fare del bene ed adottare un bambino.» il leggero sorriso che si dipinse sul viso del meridionale parve più una smorfia amareggiata, che sorprese il settentrionale: anche Lovino voleva un bambino, ma non voleva ammetterlo? Poteva essere qualcosa da aspettarsi da lui, effettivamente, e magari si era già arreso allo Stato e alle egoiste imposizioni che probabilmente pesavano sulle loro teste per colpa di un luogo ben preciso: il Vaticano.
Feliciano sospirò sonoramente, riportando il proprio sguardo sullo schermo nero e silenzioso della tv: vedeva riflessa l’immagine di un uomo al quale era appena permesso amarne un altro, ma al quale era negato l’essere padre.

«Se proprio vuoi un bambino facciamo qualcosa di buono e non adottiamo uno di questi casinisti qui sotto, porca puttana.»
Feliciano si sorprese delle parole del fratello: dunque lo aveva convinto? Gli rivolse un sorriso allegro, grato che avesse acconsentito davvero «veh, qualcosa di buono? Ad esempio?»
Senza alcuna esitazione, Lovino, aprì il cassetto della scrivania ed estrasse un opuscolo sui paesi dell’Europa dell’Est, sbattendoglielo sulla faccia.

«Oh?» Feliciano aprì l’opuscolo su una pagina a casaccio, rivolgendo una rapida occhiata al fratello «vuoi andare a Mosca per adottare un bambino?»
«No.
Non Mosca. Vai a pagina quindici.»
Il minore riportò il proprio sguardo sull’opuscolo, e si affrettò a raggiungere la pagina numero quindici: Bielorussia.
«I bambini qui sono senza genitori, ma stanno bene, lì, oltre a non avere una famiglia, non vengono trattati molto bene …»
Alle parole del fratello, il settentrionale, aggrottò la fronte confuso: perché Lovino sapeva quelle cose? Che avesse già fantasticato all’idea di un’adozione, ma l’avesse abbandonata per orgoglio e paura?
«Davvero?»
«Ci sono degli istituti che raccolgono bambini di diversa età, ma da quel che ho sentito sono trattati come bestie, non come persone.
Uno è a circa un centinaio di chilometri da Minsk.
Si chiamano Internat.»
«Internati …?» Feliciano parve bisbigliare, a fior di labbra.
«Più o meno una cazzata del genere, sì.»
Lovino voleva andarci, lì: lo vedeva dai suoi occhi.
«Allora andiamo!» il minore si sollevò dal divano, con quel vivace incitamento.
«Dimentichi che siamo due uomini.
Hai pensato che è illegale sia qui che in Bielorussia?»
«Ci presenteremo come fratelli! Dopotutto è quel che siamo, no?» Feliciano avrebbe trovato una soluzione per tutto.
«Mh, gli accenti Feli.
Insomma, un fratello con un evidente accento meridionale e l’altro con un perfetto accento veneziano …» e Lovino un problema.
«Sono bielorussi, magari non se ne accorgono.» alle parole del settentrionale, Lovino negò appena, per poi muoversi verso l’uscita della sala.
«Dove vai?»
«Tu aspetta e fammi la valigia, per la tua attendi il mio ritorno.»
«M-ma-»
«Tranquillo idiota, ho un’idea che ci metterà al sicuro da ogni eventuale problema.»

Inutile dire che il sorriso divertito sulle labbra del maggiore gli aveva appena provocato un intenso brivido lungo la schiena.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** _il mio nuovo nome_ ***


«Oh! Voi dovete essere i coniugi Vargas!» un uomo nerboruto, con il cranio pallido lasciato visibilmente scoperto da quei pochissimi capelli brizzolati rimasti intorno alla testa ed un paio di baffi folti e bianchi, sotto il naso importante, accolse i due italiani a braccia aperte, esibendosi in un ottimo italiano, nonostante il forte accento slavo.
«E lei deve essere il direttore.» Lovino strinse la mano all’uomo dal sorriso magnanimo, ma provò solo disgusto nell’osservare i suoi abiti che, nonostante fossero eleganti, parevano logori e vecchi.
«Venite, vi faccio fare un giro dell’istituto!»
Istituto o prigione?
Lovino aveva già notato quanto fosse stretto il corridoio principale, con l’intonaco bianco ingiallito dal tempo, le tubature metalliche a tratti scoperte, a causa di alcune crepe fin troppo profonde.
Lui e Feliciano si erano organizzati per bene, e dalla decisione presa la domenica, erano riusciti a costruire una piccola tabella di marcia, per poi partire per Minsk il mercoledì mattina, molto presto, in modo da arrivare lì di pomeriggio ed incontrare i bambini.
Tutto il resto dell’istituto, comunque, si presentava da sé: ogni cosa era stata abbellita e migliorata per l’occasione, per la visita di due aspiranti genitori, ed era evidente.
Certo, avevano tutto: stanze, mensa, aule di informatica e tematica, un giardino ben curato in cui i bambini potevano giocare, bagni tirati a lucido, ma chi gli assicurava che quelle stanze non rimanessero sovraffollate e soffocanti per tutto l’anno? Che quella mensa non avesse del cibo orrendo e di scarsissima qualità? Che quelle aule non stessero cadendo a pezzi e che non fossero fornite neppure di Internet? Che quel giardino ben curato non fosse in verità utilizzato solo dal personale, e che quei bagni non fossero sempre sporchi e venissero ripuliti solo per far buona impressione agli esterni?
Lovino storse il naso a quel pensiero, e proprio in quel momento, il direttore, si voltò verso di loro con un sorriso sornione.
«Direi che possiamo andare dai bambini.»
Ed allungò improvvisamente il passo, ma tornò a fermarsi poco dopo, con un’espressione confusa in volto.
Il meridionale la notò subito, e non poté che capire: guai in arrivo.
«Sa, è un po’ emozionata all’idea di vedere i bambini!» calcò quella frase con una risata nervosa, e Feliciano rivolse subito un’occhiata ad entrambi: che credeva Lovino? Non era facile starsene con le lenti scure in un posto chiuso, con quella lunga parrucca castana a pizzicargli le guance appena tinte di cipria, stretta sotto al fazzoletto bianco ad adornargli la testa. Per non parlare di quel vestito a balze bianche e rosate, lungo fin oltre alle ginocchia, che Lovino gli aveva quasi infilato con la forza.
Lovino si atteggiava da boss della situazione, ma era logico: a lui non era toccata la parte della moglie.
Per fortuna, per ciò che riguardava le scarpe, il Signor Vargas aveva optato per delle ballerine semplicissime: con i tacchi la copertura sarebbe certamente saltata.
« È una gran bella donna, me lo lasci dire.
Magari un po’ alta e troppo riservata, ma una gran bella donna.»
Il direttore annuì convinto, tornando poi sui suoi passi, lasciandosi alle spalle un italiano piuttosto sconcertato, che subito andò a ripescare con uno strattone la sua attuale signora, impegnata a sbirciare oltre una porta.
«Feliciano, per favore, già stai attirando l’attenzione con il tuo silenzio, vedi di non fare qualche cazzata …»
«Volevo solo salutare quei bambini, ora che sono arrivata fino a qui penso sia mio diritto-»
«Ma senti come ti sei calato bene nella parte, ora parli pure al femminile …
Bah, comunque che credi? Questi bambini non sapranno una parola di italiano!»
Quando il direttore udì quelle parole, non poté che voltarsi ed ammonire il meridionale.
«Molti italiani vengono qui, e molti dei nostri bambini sanno coniugare perfettamente i verbi nella vostra lingua, perché gli insegniamo regolarmente l’italiano.
Hanno perfino un’insegnante madrelingua. Dovessero esserci problemi nella comunicazione fra voi ed il vostro bambino, o la vostra bambina, potreste perfino chiedere aiuto a lei.»
Lovino rimase in silenzio, alquanto innervosito dal fatto che il direttore avesse appena demolito la sua sicurezza, ma se il bambino che avrebbero adottato sapeva già un po’ di italiano, era comunque una scocciatura in meno per loro.
Fu qualcun altro che parlò al posto suo.
«Veh~ allora potrò parlarci senza problemi~?»
Il direttore si immobilizzò davanti alla porta, aggrottando appena la fronte, mentre Lovino sembrò incenerire con lo sguardo quell’idiota di suo fratello, che con vestito e parrucca pareva ancora più scemo, ora che aveva trovato il coraggio di guardarlo meglio.
«Ovviamente.
Vi lascio soli con loro ora, sono infondo al corridoio, nell’ultima stanza a destra.»
«Grazie.
Vieni id- eh-! Vieni tesoro, andiamo a vedere i bambini!» e il meridionale non poté che stringere i denti, spalleggiato dal minore, nella speranza che quella penosa messa in scena stesse andando in porto.

«Sei proprio un idiota!»
«D-dovevo dire qualcosa, Lovi!»
«Potevi limitarti a versetti idioti, non a quello, ca-»
«Lovino, non davanti ai bambini!»
Quando il settentrionale pronunciò quella frase, le parole, anzi, le parolacce, morirono sulle labbra del meridionale, che deglutì appena, quasi come se si trovasse davanti ad un giudice penitenziario, piuttosto che ad un branco di bambini fra i cinque e i sei anni, solamente desiderosi di affetto.
Per loro veder già litigare due possibili genitori non doveva essere stato molto piacevole, visto che se ne stavano raccolti timidamente in gruppo ad osservarli intimoriti.
«Mhpf, guarda quante testoline bionde, ricordano tanto i crucchi, di certo non avrai problemi a scegliere, eh?» il maggiore rivolse un acido commento al fratello, che però, senza dargli ascolto, si era già avvicinato ai bambini, alcuni dei quali avevano già iniziato a ridere e tirargli le balze del vestito.
Era ovvio che Feliciano fosse quello più adatto ad avvicinare i poppanti, quindi il meridionale avrebbe lasciato la scelta finale a lui, perché in quanto a Lovino Vargas il “saperci fare con i bambini” non era nel suo DNA, e probabilmente non ci sarebbe mai stato.
Mentre Feliciano se ne stava chinato a ridere, in mezzo a quelle testoline bionde piene di brio e voglia di affetto, Lovino se ne rimase con la schiena aderente alla porta, senza osservare alcun punto preciso nella stanza: si sentiva quasi soffocare.
Un bambino.
Era pur sempre una decisione importante, e per quanto Feliciano fosse affettuoso e potesse donargli amore, non avevano esperienza, e lui, invece, non sarebbe mai stato all’altezza di nulla, neppure dell’affetto.
D’un tratto, però, notò qualcosa, o meglio qualcuno, che gli ricordò terribilmente un bambino brontolone ed ozioso, separato dal fratello fin dall’infanzia, e cresciuto da una persona che non era né una madre, né un padre.
Aveva i capelli un po’ più lunghi delle altre bambine, lisci, probabilmente ben pettinati per l’occasione, e di un bianco argenteo, se ne stava girata di spalle ad osservare la piccola finestrella presente nella stanza, e ora che Lovino le si avvicinava, poteva notare il vestito di pizzo bianco e quel grande fiocco lilla fra i capelli, a tenere giù la frangetta sottile e precisa.
Nessun biondo cenere, nessun biondo paglierino, grazie a Dio.
Era completamente diversa da tutti gli altri: non era in cerca di affetto, non era minimamente incuriosita dalla loro visita, ne si stava facendo due risate attaccata al vestito di Feliciano.
Il meridionale trovò un po’ di coraggio e si sedette vicino a lei.
Era probabile che fosse sfigato e che quella lì non sapesse per davvero una parola di italiano, visto che per un po’, fra loro, vi fu solo silenzio.
«Sono proprio degli idioti se pensano di trovare l’amore così facilmente.» e invece no. L’italiano lo sapeva, e anche bene.
Lovino le rivolse una rapida occhiata, vedendola gonfiare appena le guance, evidentemente imbronciata.
«E voi anche. Siete degli idioti se pensate di farla franca, si vede che siete due uomini.»
«Eh-?» il meridionale rimase senza parole, poi scosse appena la testa, come a volersi riprendere: scoperti da una bambina alta come un nano da giardino.
«Come-?»
«I peli.» le labbra rosee della piccoletta si contrassero in una smorfia, mentre alzava appena il braccio sinistro e si indicava sotto l’ascella.
Lovino sospirò innervosito: avrebbe pensato dopo a sgridare la sua moglie pelosa.

«Piuttosto, come ti chiami?» lasciatosi alle spalle l’imbarazzo di essere stato scoperto, le pose quella domanda cercando di mantenere la calma: se li aveva scoperti un’insignificante bambina, allora il direttore …?
La bambina alzò le spalle, continuando a guardare la finestra «mi chiamano tutti “Bielaje”, per via dei capelli e della pelle.»
«Bel nome di merda.»
Lo vide alzarsi, ed allontanarsi subito: che problema aveva? Voleva dire “bianca”, era un normalissimo nomignolo.
Normalissimo, anche se lei non lo aveva mai sentito suo.
Quando sentì la porta della stanza chiudersi, la sua testolina, parve scattare in avanti, e a capo chino, ancora imbronciata, si ritrovò a pensare che anche questa volta nessuno avrebbe accettato di volerle bene.

«Come si chiama la bambina con i capelli più lunghi e più chiari?»
Il direttore alzò appena il capo, aggrottando la fronte confuso.
«Bielaje?»
«Sì, lo so che la chiamate Bi- così, ma voglio sapere il suo nome vero.»
«Cosa? Le ha parlato?» il direttore parve piuttosto sorpreso, e dopo qualche attimo aprì uno dei cassetti della scrivania, cercando con le dita tozze fra gli archivi giallastri.
«Allora, suo padre è morto di overdose quando la madre era al terzo mese di gravidanza, in quanto a questa, aveva problemi con l’alcool ed è morta qualche giorno dopo la sua nascita, teoricamente il suo nome è … ah, eccolo qui.» il direttore estrasse un foglio ingiallito, adagiandolo sulla superficie della grossa scrivania «Natasha.»
«Mh, grazie.» Lovino fece per uscire, quando il direttore lo chiamò.
«Signor Vargas, non penserà di adottare quella lì, eh? È una peste, e non parla con nessuno …»
«Con me ci ha parlato.» e senza rivolgere più attenzione al direttore, si congedò.

Quando l’italiano tornò a sedersi vicino a lei, sobbalzò appena: come mai era tornato indietro?
«… Ti piace “Natalia”?»
La bambina gli rivolse un’occhiata inespressiva «se non hai niente di meglio da proporre …»
«Lovi?» Feliciano si avvicinò ai due, sorridendo e subito salutando la bambina con la mano «sono tutti così carini …» quando però vide la piccoletta voltare il viso paffuto dall’altra parte, senza che ricambiasse il suo saluto, aggrottò appena la fronte «veh, tranne lei-»
Pareva perfino esserci rimasto male, Feliciano.
«Probabilmente le fai paura.»
«Eh? M-ma-»
«Ti avevo detto di fare la ceretta da tutte le parti.» il maggiore parve incenerirlo con lo sguardo.
«Ma fa male!»
«Beh, vedi di stare fermo con le braccia, idiota.»
Sentendo quella bizzarra conversazione, Natalia, era confusa, sì, ma pensò che quei due, in verità, dovessero volersi un gran bene, e non importava davvero che fossero due uomini, due donne, o un uomo ed una donna: voleva solo che qualcuno la portasse via di lì, anche solo per un giorno.
Lovino si alzò nuovamente e, seguito dal fratello, lasciò la stanza.
«Allora?»
«Me lo devi dire tu, Lovi.»
«In che senso?» si fermarono a metà corridoio, comprendendo ci fosse ancora molto da discutere, prima di comunicare la loro decisione al direttore.
«Nel senso che … è la prima volta che ti vedo parlare con un bambino.»
«Sì, ma quella lì non è tenera e dolce come vuoi tu.»
«Non lo è perché forse è più timida degli altri. Lo diventerà quando ci conoscerà meglio, veh~»
Lovino doveva cogliere al volo quell’occasione: effettivamente, quella piccoletta, gli sembrava la cosa migliore dentro quella stanza, l’ideale che potesse capitargli, e non poté che costringere nelle mani del fratello tutti i documenti, falsi e non, per concludere l’accordo.
«Vai. Chiedi di Natasha.
Intanto io vado a prenderla.»
E mentre dava le spalle al fratello, tornando verso la stanzetta, pregò che quei documenti falsi, quel plico di menzogne fra le braccia della sua signora pelosa, bastasse per convincere il direttore.
Probabilmente sì: chissà perché aveva l’impressione che bastasse pagare per portare un bambino via di lì. Non importava chi fossi tu, ma quante banconote potevi sborsare.

«Ehi peste, vieni qua!»
Stava parlando con lei?
La bambina si voltò confusa, e quando vide l’italiano farle cenno di raggiungerlo, sulla porta, si alzò e lo raggiunse in un attimo: era umiliante anche per lei, aver detto che trovare l’amore era impossibile, ma inseguirla così, non appena le era stata data occasione di ottenerne almeno un po’.
«Avete scelto me?»
«Dispiaciuta?»
No, per niente.
Quando l’italiano la prese -molto poco delicatamente- fra le braccia e se la mise in spalla quasi più come fosse un sacco di patate, la bambina si ritrovò subito a scalciare «s-sì! Non mi piacete!
Non mi piacete per niente!»
Lovino doveva redigere una piccola rettifica nella sua testa: che sapessero bene l’italiano, era soltanto uno svantaggio per le sue orecchie.

«Lei è proprio una bella signora, sa?»
«A-ahn-» Feliciano balbettò appena, spiazzato dai complimenti evasivi del direttore.
«Già, è proprio una bella signora, ma non dimentichi che è sposata.»
«Oh! Ci ha interrotto sul più bello! Ahah!» il direttore rise nervosamente, incalzato dal meridionale.
«Quanto starete qui? Siete in albergo?»
«Sì, fra una settimana gliela riporteremo.»
Sapevano bene quanto fossero lunghe le fasi burocratiche: per ora la bambina poteva rimanere con loro solo per pochi giorni e in occasione delle festività.
«Che nome metto?»
«Natalia-!»
Tutte e tre si sorpresero di quel bofonchiare oltre la spalla del Signor Vargas, e il direttore annuì attonito.
«Allora ci vediamo fra una settimana.
Arrivederci!»
«Arrivederci.»
Natalia, ovviamente, se ne rimase in silenzio, e anche Feliciano, che si limitò ad afferrare velocemente i documenti, sotto lo sguardo confuso del direttore.
«Ah sì, se prima era emozionata, ora è sul punto di commuoversi, non si preoccupi!» e ricambiò le parole di Lovino con un sorriso magnanimo.

«Bella signora tua sorella, brutto coglione.»
Non appena furono sul vialetto di ghiaia che collegava l’entrata dell’istituto al cancello nero, il meridionale brontolò nervoso.
«Lovino, calmati.»
«Ah! Calmati un cazzo!»

La piccola bielorussa aveva già capito una cosa: avrebbe imparato tante belle parole, visto che almeno la metà di quelle che uscivano dalla bocca del meridionale le erano totalmente sconosciute.


E dopotutto, il nome che Lovino le aveva dato, le piaceva davvero.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** _una giornata speciale_ ***


Quando i Vargas tornarono in albergo erano appena passate le sedici, e nonostante il fuso orario di Minsk fosse soltanto sessanta minuti più avanti rispetto all’ora italiana, era ben visibile sul loro viso quanto fossero provati a causa del cambiamento.
Fra tempo e temperatura non sapevano davvero chi fosse il peggiore. Anzi, Lovino non lo sapeva, ma Feliciano sì: nessuno dei due.
Il minore dei fratelli Vargas era decisamente più determinato a togliersi quel vestito di dosso, prima di tutto.
La piccola Natalia non aveva detto una parola da quando erano usciti dall’Istituto, e fuori da quelle mura piene di crepe e ricoperte penosamente di strati giallognoli di intonaco, sembrava ancor più diversa da tutti gli altri bambini.
Un bambino normale, un bambino senza genitori, che era rimasto chiuso all’Inferno dai primi giorni di vita fino ai sei-sette anni, avrebbe certamente cercato la mano di uno dei due, nonostante i primi attimi di imbarazzo, ma lei se ne stava con il broncio in mezzo a loro, e certe volte la vedevano allungare faticosamente il passo, ma impegnarsi in assurde smorfie per nascondere la fatica sul suo viso. Doveva essere davvero orgogliosa della propria immagine: aveva subito rifiutato con uno scossone deciso della testa l’offerta di Feliciano di portarla in spalla.
Un bambino normale avrebbe accettato subito, e si sarebbe lamentato per tutti quei metri percorsi a piedi, al freddo, perché nonostante fossero a primavera inoltrata, l’impressione che le nuvole stessero per sgretolarsi in fiocchi di neve era davvero pressante.

Guardandola, Lovino, avrebbe scommesso che quel nano da giardino sarebbe diventato una donna forte e carismatica, ma si rendeva conto che fare previsioni del genere quando ancora non sapevano se sarebbero riusciti ad adottarla in tutto per tutto era inutile e avrebbe soltanto inferto più dolore su un’eventuale e possibilissima delusione.

«Finalmente!»
Feliciano esplose di gioia e si precipitò subito in bagno, ovviamente goffamente e quasi inciampando, a causa del vestito che evidentemente aveva il potere di impedirgli piuttosto facilmente movimenti semplici come un balzo ed una corsa appena accennata.
Quando Lovino scostò gli occhi dalla porta appena chiusa e, rivolgendoli verso il basso, incontrò lo sguardo pungente della bambina, non poté che sobbalzare appena: quegli occhi vispi e silenziosi, di quel violaceo che a tratti pareva misto all’azzurro, gli incutevano un’inquietudine che non riusciva a spiegarsi.
«Hai fame?» gli sembrò la cosa più sensata da dire, ma lei scostò placidamente gli occhi dai suoi e si arrampicò sul letto matrimoniale della stanza, coricandosi a pancia sotto, al centro di questo, ovviamente senza dire una parola.
«Che educata …» bofonchiò.
Parlava il maestro dell’educazione, che ovviamente non si rendeva neppure conto che quella, per lei, era molto probabilmente la prima volta su un letto così grande, morbido e pulito, in una stanza profumata, dove l’aria era tanta e di pochi, e non manchevole e di troppi.
«Tanto il cibo farà schifo come nell’Istituto.»
La sentì bofonchiare, con il viso spinto contro le coperte profumate del letto.
«Fa come ti pare, ma non potrai rimanere per sempre senza mangiare.»
E vedendola immobile, con le gambe e le braccia allargate, quasi volesse occupare tutto lo spazio del letto, Lovino capì che per almeno qualche ora avrebbe dovuto lasciarlo a lei.
Mancavano ancora diverse ore alla cena, ed osservando il letto, completamente occupato da quell’ingranato mostriciattolo, la piccola poltroncina in pelle rossa vuota, e la finestra, appena illuminata da un freddo sole, si sentì sprofondare nella noia più totale.
«Ahn-» quel lieve brontolio, proveniente dal bagno, attirò subito la sua attenzione, e allora scorse Feliciano sul bordo della porta osservarlo con sguardo quasi supplichevole.
«Lovi, emh … mi-
Mi aiuti con le ascelle?»
Il maggiore rimase a guardarlo esterrefatto, per poi sospirare appena e trattenere un sorriso divertito.
«Sempre meglio di niente …»

«Ha detto che non vuole mangiare niente?» Feliciano si fermò davanti alla porta, sistemandosi nuovamente la parrucca.
«Già.
Dice che fa schifo.»
«Facciamo così, andiamo a cena e se c’è qualcosa di buono glielo portiamo qui, veh~»
Della serie: come viziare al meglio una bambina, eh Feli?
«Feliciano, aspetta-»
Feliciano aveva appena aperto la porta, quando si ritrovò a socchiuderla nuovamente.
«Cosa c’è?»
«Non possiamo lasciarla qui in camera da sola …»
«La finestra è chiusa, non ci sono oggetti appuntiti e la porta si apre solo-»
«Dall’interno, idiota.»
«… È bassa, magari non ci arriva-»
Il meridionale squadrò l’altro, raggiungendolo sulla porta per aprirla e uscire fuori in corridoio, e rivolgersi ad una donna di servizio.
«Mi scusi, noi dovremmo andare a cenare, non è che potrebbe tenerci d’occhio la stanza?»
Quando gli occhi di ghiaccio della grossa inserviente si puntarono su di loro, si sentirono entrambi percorrere da un brivido di freddo.
La donna rimase troppo a lungo ad osservare Feliciano.
«Quanto tempo pensate di impiegare per la cena?»
«Sicuramente meno di un’ora.» Lovino puntò i suoi occhi su di lei, quasi come se volesse distogliere la sua attenzione da Feliciano.
«Mh, vedrò di pulire più lentamente, ma voi sbrigatevi.»
«Grazie.»
E il meridionale non si risparmiò un’occhiataccia stizzita, circondando le spalle di Feliciano per avviarsi con lui lungo il corridoio.

Quando furono più lontani, il minore non poté trattenersi dal sussurrare le sue difese.
«Questa volta mi sono depilato da ogni parte.»
«Mhn, vediamo soltanto di sbrigarci con questa cazzo di cena.»

Detto fatto.
Gli italiani sono sempre stati buone forchette, e non appena Feliciano e Lovino ebbero modo di assaggiare quella cucina non poterono fare a meno di dare piena ragione alla piccola Natalia.
«Dobbiamo assolutamente trovare qualcosa di mangiabile-» Lovino brontolò rabbioso, passando la tessera magnetizzata nella fessura della porta ed aprendola senza fare caso all’inserviente, che era rimasta lì a controllare come promesso e che ora aveva interrotto le sue pulizie per osservarli ed esaminarli.
Feliciano, per pura cortesia, si dovette sforzare di ringraziare con voce più femminile possibile, per poi chiudersi la porta alle spalle.
«Magar-»
«Sh!» il meridionale si portò velocemente l’indice sulle labbra, ed il fratello comprese subito che uno dei modi migliori per farsi scoprire era parlare a voce alta con qualcuno dietro la porta che pareva più Sherlock Holmes in vesti da inserviente. «Magari la colazione sarà migliore …» sussurrò poi il settentrionale, soffermando il proprio sguardo sulla bambina, ancora addormentata sul letto.
«Vado a chiedere se hanno una stanza da tre.»
«Va bene.»
E mentre il settentrionale tornava finalmente in bagno per togliersi vestito, parrucca e tutto il resto degli accessori, Lovino uscì nuovamente in corridoio, trovandolo completamente vuoto.
Quella donna si era presa la briga di rallentare il proprio lavoro, anzi, fermarlo del tutto, solo per aspettarli ed esaminarli.
Sbuffò, sentendosi le vene pervase dallo stress che già era riuscito ad accumulare in un misero giorno.

Di ritorno a mani vuote dalla reception, il meridionale non poté che rientrare in camera sotto forma di fascio di nervi.
Quando vide il letto completamente invaso dalla bambina -ma come diavolo faceva un nano simile ad impadronirsi di un tale spazio?- e la poltrona occupata da un Feliciano esausto e profondamente addormentato, sospirò e adagiò la propria schiena contro la porta, osservando la luce fioca del lampione oltre la finestra.
«Mi tocca dormire per terra, mhpf, fantastico …» le sue labbra si incrinarono in una smorfia, quando si scostò dalla porta e raggiunse l’armadio, per afferrare due coperte e sistemarne una su Feliciano e un’altra su Natalia.
«E non ci sono neanche più coperte, né cuscini.
Che palle, Bielorussia, devo starti proprio sul cazzo-!»
E mentre voltava le spalle alla finestra, vide anche la luce fioca del lampione spegnersi, e lasciare posto ad una luce ben differente, ancor più dolce e delicata: quella della neve.

Si sedette a terra, adagiando la schiena al lato del letto, infondo, cercando di non pensare a quella scomodissima posizione, ma soltanto a quanta voglia avesse di dormire.

«Buongiorno Lovi!»
La voce del fratello lo fece sussultare, e in un attimo si ritrovò a gemere, con le dita che cercavano disperatamente di massaggiare il collo e le prime vertebre della schiena.
«Cazzo …»
Non poteva dirsi un gran risveglio, quello del maggiore dei fratelli Vargas, mentre l’altro era già in piedi e stava sfoggiando un grosso sorriso, apparentemente senza motivo.
Si sollevò in piedi a fatica, e allora incontrò lo sguardo vispo della piccola Natalia, seduta sul letto, ma che se ne vedeva bene dall’uscire dalle coperte, che parevano quasi formare un grosso nido morbido e caldo intorno a lei.
«Mhn, dormito bene immagino-»
Protestò l’italiano, ma la piccola non lo degnò di risposta.
«Ordino la colazione.»
Lovino tirò su la cornetta e attese solo qualche attimo; quando uno dei baristi rispose, la reazione fu immediata.
«Oh, fanculo, Feliciano parlaci tu, che sei sicuramente più internazionale di me.
Non so, crucco, inglese, una delle due di sicuro la sanno-!» il meridionale si sedette al fianco della bambina, e allora entrambi si misero ad osservare Feliciano, in attesa che facesse da mediatore per comunicargli le opzioni previste dalla colazione del primo di Maggio.
«Non avete il cappuccino?»
La smorfia di disapprovazione che per un attimo si disegnò sul volto del settentrionale fu indescrivibile.
«Ah, allora io prendo un caffè.
Se no ci sono la cioccolata e il tè-» si rivolse poi a voce più bassa a Natalia e Lovino.
«Io prendo la cioccolata.»
«Prendete il tè-» Natalia sembrava alquanto decisa di ciò che aveva appena detto, e i due italiani non poterono che rimanere in silenzio e aggrottare la fronte confusi.
«E poi o biscotti o croissant.»
«I biscotti. È meglio.» Natalia annuì decisa, ma Lovino ebbe da obbiettare, probabilmente solo per il gusto di ostacolare la piccola peste che gli aveva appena causato un mal di schiena ed un torcicollo terribili.
«Croissant.»
«Per lo meno prendilo alla marm-»
«Cioccolato.»
Feliciano li osservò per qualche attimo, prima di riprendere la conversazione al telefono, come se stesse cercando di capire se Lovino fosse davvero sicuro della sua decisione.
«Bene, allora: una cioccolata calda e un croissant al cioccolato, due tè e due biscotti.»
Natalia si lasciò sfuggire un lieve sorriso, trionfante per quella vittoria ottenuta almeno per metà sul fronte italiano, mentre Lovino si ritrovò a sbuffare irritato.

«Che schifo!»
Lovino si ritrovò quasi a sputare il boccone mandato giù con terribile fatica, sotto lo sguardo perplesso di Feliciano.
«Per lo meno il tè e i biscotti sono decenti …» e a questo proposito, il settentrionale non poté che dedicare un’occhiata complice alla piccola Natalia, che pareva piuttosto soddisfatta della lezione appena impartita -indirettamente- a Lovino.
«Tieni Lovi.»
Feliciano accennò un sorriso, porgendogli la tazza di tè, ancora piena per metà, e due biscotti.
«Almeno mangi qualcosa, visto com’è andata ieri sera …»
«Grazie-»
Si ritrovò quasi costretto ad accettare, perché ormai aveva un vero e proprio buco nello stomaco e la fame iniziava a divenire incontrollabile.
«L’avevo detto che faceva schifo-
Vorrei tanto assaggiare qualcosa di buono, almeno una volta …»
Quella della piccola parve piuttosto una riflessione scappata al silenzio dei pensieri e detta senza volere a voce.
«Se fossimo in Italia mangeresti un sacco di cose buone, veh!»
«Sì …?»
E gli sguardi dei due italiani si incontrarono subito, complici: la cosa iniziava a farsi interessanti, e nessuno dei due poté negarsi un sorriso divertito sul volto.

«Abbiamo gli ingredienti!»
Feliciano entrò nella stanza sventolando un pacchetto di mozzarella, con aria piuttosto entusiasta, e anche alla piccola Natalia sfuggì un sorriso: non capiva perché, ma c’era qualcosa che le diceva che quella sarebbe stata una giornata molto diversa dalle altre.
Una giornata speciale.
«Allora-» Lovino afferrò la borsa della spesa, guardando al suo intero ed esaminando il tutto per bene.
«Feliciano, pensi tu al sugo? Io e la peste pensiamo all'impasto, magari.»
«Va bene!»
Dio solo sapeva che cosa avrebbero ritrovato le inservienti dopo la preparazione di una pizza in camera.
«Allora, metti un po’ d'acqua qui.»
«Al centro?»
Il grosso piatto era adagiato sul letto, con al centro la farina che pareva quasi formare un cratere dove la piccola Natalia avrebbe dovuto versare l’acqua, così la bambina si decise a rimanere seduta sulle gambe di Lovino, chinato di fianco al letto, e versare lentamente il liquido, stringendo fra le piccole mani la bottiglietta.
«Ecco brava, va bene così.
Adesso il sale.»
Ed entrambi presero un pizzico di sale con cui cosparsero il “cratere” di farina.
«E ora?»
«Ora devi decidere tu: se ti metti ad impastare questa cosa ti sporcherai tutte le mani e poi dovrai lavartele per bene-»
Lovino non sapeva neppure perché le stesse parlando così, perché si stesse atteggiando in un modo così gentile nei suo confronti: non era possibile che si fosse già affezionato a lei dopo un giorno passato a patire un assurdo dolore a collo e schiena, no?
«Impasto!»
Senza farselo ripetere due volte, la bambina affondò le mani nella farina, che presto, inumidita dall’acqua e con l’aiuto dello lievito, divenne un vero e proprio impasto.
«Io ho finito col sugo.»
«Bene, portala a lavarsi le mani, io penso al resto.»
Quando Lovino rimase solo davanti all’impasto, sospirò perplesso.
«Senza matterello. Mhn.»

«La mangiamo o la picchiamo?»
«Ah! Spiritosa!» Lovino strinse i denti, cercando di appiattire il più possibile l’impasto e farlo aderire per bene al tegame, mentre una goccia di sudore gli attraversava velocemente la tempia.
«È così difficile?» Natalia dovette trattenere una risata.
«Perché non ci provi tu?»
Ma quando si ritrovò a sforzare l’impasto inutilmente, senza che questo aderisse alla teglia, dovette ricredersi.
«Mhn-»
«Veh! Imparerai Natalia, non preoccuparti~»
Feliciano sorrise, per poi tenderle il contenitore del sugo e il grosso cucchiaio di legno con cui avrebbe dovuto cospargere l’impasto.
Quando la bambina smise di cospargere l’impasto col sugo, gli italiani si ritrovarono con un piatto pieno di cubetti di mozzarella ed una piccola ampolla con delle foglie di basilico, ma i loro sorrisi scomparvero in un attimo.

«E il forno?»
Inutile dire che alla domanda di Feliciano, Lovino imprecò, sbattendosi la mano sulla fronte.

«Allora, se siamo fortunati nessuno ci vedrà!» Feliciano adagiò la bambina su una lavatrice, per poi chinarsi ad aiutare Lovino ad accendere il forno, sotto lo sguardo perplesso e allo stesso tempo divertito di lei.
Davvero quei due erano convinti che nessuno gli avrebbe visti?
Due italiani, di cui uno travestito, che cercavano di far cuocere una pizza in un negozio di elettrodomestici, aspettando di arrivare per lo meno a tre quarti della cottura per cospargerla anche di basilico e mozzarella.
Come potevano non essere visti?
«Veh! Senti che profumino!»
«Eh appunto!
Feliciano, distrai il personale!»
«Eh?»
«Non voglio finire in una prigione siberiana per aver cucinato una cazzo di pizza in un forno non mio.»
«La Siberia è in Rus-»
«Sta zitta nana! Cazzo Feliciano, sei una bella donna o no?!»
Il minore aggrottò la fronte come preoccupato, per poi deglutire appena, annuendo poco convinto.
«Vado-»
«Ma che non ti tocchino, o li gonfio!»
Lovino poté agire indisturbato, e dopo aver aggiunto basilico e mozzarella, per poi risistemare la pizza nel forno ed attendere altri dieci minuti, lo spense e strinse fra le mani, anzi, fra i guantoni da cucina, la teglia calda della pizza.
«E ora come pensi di uscire?»
«A questo devi pensarci tu.»
Il ghigno sul volto del meridionale non prometteva nulla di buono, decisamente.

Natalia si sentiva terribilmente umiliata, e infatti aveva deciso fin da subito che si sarebbe data un contegno, ma doveva ammetterlo, era disposta anche ad una cosa del genere pur di assaggiare una sola fetta di quel cibo mai visto, che aveva un profumo così buono.
Afferrò il vestito lilla della cassiera, e lo tirò appena verso il basso, con le guance appena gonfie e gli occhi lievemente lucidi.
«Oh, tesoro, non trovi la tua mamma?»
Natalia negò decisa, incrinando le labbra in una smorfia che aveva tutta l’aria di star per scoppiare in uno strillo isterico, accompagnato da un bel pianto.
«Era nel negozio?»
Negò ancora, indicando fuori dal negozio e tirando ancora il vestito della cassiera, che si vide costretta ad accompagnarla fuori.
«Mama!» e mentre alle spalle di una cassiera alquanto confusa si dileguava un italiano e la sua pizza appena cucinata, la bambina si gettò fra le braccia di un altro italiano, travestito da donna, che provvide subito a cambiare strada per evitare le domande della donna bielorussa.
«Che … buon profumo …» in quanto a questa se ne rimase davanti al negozio con le idee leggermente confuse.

«Ce l’abbiamo fatta!»
Quando anche Natalia e Feliciano arrivarono in camera, trovarono la teglia con la pizza già tagliata a fette sul letto.
«Il primo assaggio a te, peste. Te lo sei meritato.»
Lovino le indicò quello che, in quel momento, poteva benissimo definire “ben di Dio”.
Non aveva mai visto un piatto così bello, o sentito un profumo così buono, che le aveva stimolato la fame solo stuzzicandole appena le narici.
Ne prese una fetta senza alcuna fatica, visto che ormai la pizza era divenuta tiepida al punto giusto, e non appena la addentò, i suoi occhi parvero illuminarsi.
«Ma è buonissima!»
E quella fu la prima volta che la videro sorridere veramente, estremamente felice.

Era stata davvero una giornata speciale, per lei.
Che aver portato due sconosciuti stranieri al mal di schiena e al rischio di un arresto l’avesse fatta già affezionare a loro?
Non lo sapeva, questo, ma per la prima volta nella sua vita si era sentita a casa, e aveva sorriso di felicità.
Vera, pura, meravigliosa felicità.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1188202