Game, Set And Match di nightswimming (/viewuser.php?uid=11000)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dritto ***
Capitolo 3: *** Rovescio ***
Capitolo 4: *** Doppio Fallo ***
Capitolo 5: *** Volée ***
Capitolo 6: *** Veronica ***
Capitolo 7: *** Lob ***
Capitolo 8: *** Break ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Note
dell’autrice:
questa
fantastica versione di Holmes e Watson è di esclusiva
proprietà di Steven
Moffat e Mark Gatiss, siano benedetti, mentre le tenniste Steffi Graf e
Monica
Seles sono di esclusiva proprietà di loro stesse. Voi vi
starete chiedendo: “cosa
diavolo c’entra?” e avete pienamente ragione, ma vi
assicuro che più avanti
nella storia le cose si faranno più chiare. :D
Scrivo
per pura gioia da fan e Dio me ne scampi se da tutto questo ci guadagno
anche
solo un centesimo.
John
Watson inspirò profondamente e strinse le labbra in una
piega severa, quasi dura.
“No”.
Sherlock
Holmes continuò imperturbabile a prestare attenzione al suo
cellulare.
“No cosa, John?”
“No
che non è inutile, Sherlock” ribatté
lui, obbligandosi a mantenere un tono fermo
ma conciliante.
Non
c’erano due parole capaci di stare peggio in una stessa frase
come conciliante e Sherlock
Holmes.
Il
detective alzò lo sguardo dal suo Blackberry e sporse in
avanti il labbro
inferiore.
“Detersivo
per lavandini”. Atteggiò ancora di più
una smorfia di finta riflessione.
“Detersivo impiegato per togliere eventuale sporco da un
oggetto che si lava
già da solo a ogni singolo uso che ne viene
fatto”. Chinò nuovamente il capo
sul cellulare. “Inutile a livelli di guardia,
direi”.
John
lo guardò come se fosse sul punto di scagliargli addosso con
forza il suddetto
detersivo per lavandini.
“Come
il tuo parere sulle faccende domestiche,
d’altronde”.
Gli
voltò le spalle, ma non prima di aver internamente gioito
della sua espressione
indignata.
“Stai
diventando una noiosa casalinga, John” lo raggiunse la sua
voce infastidita dal
reparto dei surgelati.
Si
girò nuovamente per guardarlo: avanzava accanto a caciotte,
salami e yogurt con
passo maestoso e il cappotto che volteggiava attorno alle sue gambe ad
ogni
falcata, dribblando l’occasionale carrello con grazia.
Ridacchiò.
Era un’immagine esilarante, quasi parodica –
qualcosa di molto simile al
costringere un rugbista a un’esercizio di danza classica.
Piccoli
lord
sociopatici fanno la spesa, capitolo primo.
“Lo
sono sempre stato. Avresti dovuto vedere l’infermeria
militare: era sempre uno
specchio, grazie a me”.
Sherlock
alzò un sopracciglio.
“Avvincente”.
“Vero?
Ora aspettami qui in coda, che mi sono dimenticato il sale
grosso”.
Lui
sbuffò ma gli tolse con uno strattone melodrammatico il
cesto di mano e si mise
dietro a una famiglia piena di marmocchi esagitati che presero a fargli
le
boccacce.
John
rise apertamente.
“Ricordati
che l’infanticidio è un crimine,
Sherlock”.
“A
che cosa ti serve, il sale
grosso?”
“A
spararti meglio”.
Lo
vide lanciare un’occhiata che avrebbe ghiacciato
l’inferno alla deliziosa bimba
con le trecce che allungava le sue manine grasse verso di lui.
“A
cucinare, Sherlock, mi sembra ovvio. Hai bisogno d’altro,
già che faccio un
altro giro?”
“Un’endovena
di nicotina” sibilò seccamente. Poi sorrise, se
così si poteva chiamare
quell’esposizione forzata dei denti. “Per
favore”.
*
“Andiamo.
È un’occasione speciale”.
“Sherlock…”
“Me
lo merito, John!”
“E
cosa avresti fatto per meritartelo?”
“Esisto.
Vivo. Respiro. La mia presenza su questo mondo è un dono
continuo”.
“Pfff.
Scusa un attimo, chiamo Anderson e chiedo cosa ne pensa al riguardo. Ho
proprio
voglia di farmi due risate”.
“Ho
fatto la spesa con te. Io non faccio mai la
spesa con te”.
“Questo
semmai evidenzia ancora di più la tua disgustosa pigrizia -
di certo non ti
aiuta ad ottenere quello che vuoi”.
Una
sola”.
“…”
“…Per
favore”.
John
alzò gli occhi al cielo, allungò una mano verso
il tavolino e gli lanciò in
grembo il posacenere rubato a Buckingham Palace. Sherlock lo prese al
volo con
un versetto deliziato.
Aveva
detto le due paroline magiche, dopotutto. Conoscendo il soggetto in
questione
si poteva tranquillamente gridare al miracolo.
“Aaah,
sì. Sì sì sì”.
John
gli puntò addosso l’indice teso.
“Una
di numero, non di più”.
Sherlock
si mise una sigaretta fra le labbra e la accese con
un’espressione di gioia
profonda che rasentava l’oscenità. Tirò
due lunghe boccate e fece precipitare
la cenere nel prezioso oggetto di cristallo (il quale, se John aveva fatto bene i suoi
conti, doveva valere
come tutta la sua pensione di invalidità) con un gesto denso
di una ritualità
molto rimpianta.
“Non
dovrebbe essere difficile per una mente geniale come la tua concepire
il fatto
che fumare fa male” commentò con tono di
rimprovero. Sherlock rovesciò la testa
indietro sul divano ed espirò un lungo filo di fumo in
direzione del soffitto.
“Non
guastarmi questo raro piacere, John” mormorò, gli
occhi chiarissimi socchiusi
appena, le spalle rilassate.
John
rabbrividì. Un brivido caldo, di provenienza sconosciuta.
Cosa c’era di così
sconvolgente in quella voce baritonale che pronunciava la parola
“piacere”, d’altronde?
Non riusciva a capirlo.
Sventolò
una mano in aria con fare stizzito per scacciare il fumo e quei
pensieri
fastidiosi da davanti a sé.
“Certo
che potresti almeno scomodarti ad aprire la finestra!”
Nessuna
risposta. Aveva chiuso gli occhi in preda alla beatitudine, e sembrava
non
averlo nemmeno sentito.
Si
trattenne dal tirargli un cuscino soltanto grazie allo
scalpiccìo dei passi
della signora Hudson sulle scale.
“Sherlock?
John?”. Al lieve bussare, gli occhi di Sherlock si riaprirono
e rotearono verso
l’alto in preda all’esasperazione. “Siete
presentabili?”
John
avrebbe tanto voluto chiederle per quale motivo si ostinasse a fare
sempre
quella domanda stupida quanto superflua. Era mezzogiorno passato, loro
erano da
poco scesi a fare la spesa, quindi aveva la certezza di non
sorprenderli ancora
in pigiama – e allora perché diavolo chiedeva se
fossero presentabili? Cosa
accidenti avrebbero dovuto fare, per non essere
presentabili?
“Sesso”.
John
sobbalzò sulla poltrona. Sherlock stava spegnendo la
sigaretta nel posacenere
con piccole, eleganti torsioni del polso, un angolo delle labbra
piegato
beffardamente all’insù.
“Come?...”
chiese, maledicendosi per il tono scandalizzato che si era ritrovato ad
utilizzare e per il tè che si era appena versato su tutta la
camicia.
Sherlock
non nominava mai il sesso al di fuori della scena del crimine, quando
gli
serviva per spiegare il movente di un omicidio. A lui il sesso,
apparentemente,
non interessava; di sicuro non lo conosceva. La frecciatina di Mycroft
era
stata illuminante al proposito. Dato che non avrebbe mai tirato in
ballo di
propria spontanea volontà un argomento di cui sapeva poco o
niente, col rischio
di uscire sconfitto da un’eventuale discussione, John era
genuinamente sorpreso
di fronte a una menzione così plateale di quella parola.
Oltretutto,
la sigaretta gli aveva arrochito la voce (ormai, grazie a Dio, non era
più
abituato a fumare) e lui aveva pronunciato la parola
“sesso” con un tono
inferiore di un’ottava rispetto al suo abituale.
La
cosa non avrebbe dovuto turbare John – Dio, non se ne sarebbe
dovuto neanche accorgere
– eppure, sempre per quello
strano motivo che non riusciva a spiegarsi, la cosa lo turbava eccome.
“Come?”
ripetè, schiarendosi la voce per darsi un tono.
Sherlock
gli rivolse uno di quegli irritanti sguardi da “ma
è ovvio!” che facevano
andare in bestia chiunque, da Anderson (specialmente Anderson) a lui
stesso.
“La
risposta alla tua domanda” disse semplicemente.
“Io
non ho fatto alcuna domanda” ribatté in fretta
John.
“Ma
l’hai pensata”.
John
rimase a fissarlo senza neanche battere le ciglia, incredulo; Sherlock
si piegò
in avanti e unì le punte delle dita di fronte a
sé con fare professionale.
“Ogni
volta che la signora Hudson chiede il permesso di entrare con quella
frase, ti
irrigidisci istintivamente. Le spalle, i lineamenti del viso, tutto. E
non è perché
ti dà fastidio l’intrusione che potrebbe
posticipare il tuo pranzo - la
signora Hudson ha fatto irruzione in questa casa in ore molto
più improbabili di
questa, e tu non sei mai stato turbato come adesso - no, è
questo modo specifico della signora Hudson
di presentarti che ti urta e ti fa pensare: “che razza di
domande fa? Cosa
diavolo potrebbe impedirci di essere presentabili a mezzogiorno
inoltrato?...”
Si
alzò dal divano con un movimento fluido e si diresse ad
aprire la porta,
curandosi di mantenere il contatto visivo.
“La
risposta è: sesso. Teme di interromperci. Tutti,
temono di interromperci. Ah, a parte qualche patetico individuo che lo
spera
intensamente, in modo da essere in grado di rendere più
vivace la sua noiosa
esistenza lanciandosi su qualche gustoso gossip”.
Alzò anche l’altro angolo
delle labbra. “Dovresti lasciar perdere i pettegolezzi, John.
Sembra che non
facciano bene ai tuoi nervi”.
Aprì la porta, e in
un secondo il suo sorriso
trionfante era scomparso per lasciar posto a un’espressione
educatamente
interrogativa.
“Buongiorno, signora Hudson. Ha
bisogno?”
Note
dell’autrice:
ciao
a tutti, questa è la mia prima fic su Sherlock e voi non
avete idea del
nervosismo da debuttante che mi sta assalendo in questo momento XD
Mi
scuso per la cortezza del capitolo, che, come è scritto,
è soltanto un
prologhino introduttivo piccino picciò.
A
presto, mi auguro, e spero vi piaccia. :*
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Capitolo 2 *** Dritto ***
“Sherlock,
caro, hai dimenticato di prendere il giornale dalla cassetta della
posta”
trillò la signora Hudson facendosi largo
nell’appartamento, un sorriso gioioso
sulle labbra. “Ho pensato fosse un vero peccato, visto la
splendida notizia in
prima pagina!”
“Quale?”
chiese Sherlock in tono annoiato, togliendo il cadavere decapitato di
un maiale
dal divano per farle spazio. “Anderson si è dato
alla pesca sportiva? La pesca
sportiva si è data ad Anderson?”
“Sherlock”
piagnucolò la signora Hudson, torcendosi le mani alla vista
delle macchie di
sangue rappreso sui suoi cuscini. “Un maiale… Sul
mio divano…”
“È
molto mansueto, signora Hudson” la rincuorò
Sherlock con un’allegra pacca sulla
spalla. “Non crea nessun disturbo”.
“Ci
credo” mormorò John con aria critica.
“È morto”.
Sherlock
gli rivolse un’occhiata infastidita che voleva dire
“piccolezze”. John sospirò
e si alzò in piedi mettendosi le mani sulle ginocchia.
“Una
tazza di tè, signora Hudson?”
Quest’ultima,
che si era seduta sull’orlo estremo sul divano cercando di
darsi un contegno,
acconsentì in fretta e subito dopo tornò a
rivolgere la propria attenzione a
Sherlock che si era messo a suonare il violino.
“Quella
povera ragazza, Sherlock, per fortuna l’hanno rilasciata.
Avevo veramente paura
che le fosse successo qualcosa di molto brutto”.
Il
detective non mostrò il minimo segno di interesse.
“Ah
sì?”. Cavò un suono molto simile a un
gatto che si fosse chiuso la coda in una
porta. “Bene”.
John
poteva leggergli in faccia la parola “noioso”
come se fosse comparsa in caratteri al neon sulla sua fronte. Lui,
invece,
sporse la testa oltre il muro e le rivolse un’espressione
meravigliata.
“La
ragazza? Vuole dire Chris Howard?”. Imprecò: si
era appena scottato un dito col
bollitore. “La giocatrice di tennis?”
La
signora Hudson si mise entrambe le mani sul cuore con un gesto
sollevato.
“Appena
diciott’anni… Povera bambina… Meno male
che è tutto finito”.
John
si fece avanti con il vassoio con le tazze e la teiera,
l’aria interessata.
“Che
storia pazzesca” mormorò, sedendosi sulla sua
poltrona dopo aver servito il tè.
Sherlock alzò gli occhi al cielo e prese a roteare
l’archetto in aria a mo’ di
spada. “Prima inglese a vincere Wimbledon dopo più
di quarant’anni. Diventa
praticamente un’eroina nazionale e il giorno dopo la
vittoria… Puf”. Bevve un
sorso dalla sua tazza, pensieroso. “Sparita nel
nulla”.
“È
illesa?” chiese con voce strascicata Sherlock, riprendendo a
suonare con
vigore.
La
signora Hudson scorse veloce l’articolo.
“Sì.
Non un capello fuori posto, Dio sia lodato”.
Sherlock
sbuffò e sorrise in maniera ovvio.
“Ricerca
spasmodica di pubblicità”. Produsse un acuto
spaccatimpani. “Noioso, noioso,
noioso”.
John
lo guardò esterrefatto.
“Ricerca
spasm- Sherlock, hai idea di cosa voglia dire vincere Wimbledon da
inglese? Si
è a un passo così”
mostrò due dita a
pochi millimetri l’una dall’altra, “dal
diventare baronetti. Più pubblicità di questa
e si muore!”
Sherlock
gli rivolse uno sguardo per niente impressionato.
“Io
sono stato decine di volte a un passo così dal diventare
baronetto”. La sua
bocca si stirò in un ghigno derisorio. “Come puoi
vedere, è un titolo che danno
a cani e porci”.
“Sherlock!
Il linguaggio!”
“Le
chiedo scusa, signora Hudson”. Riposò il violino
sulla spalla, seccato. “Quell’imbecil-
Quel discutibile individuo
di mio
fratello è baronetto, John. Ridicolo, semplicemente
ridicolo”.
John
inspirò profondamente, tentando di recuperare la calma.
“Beh,
fatto sta che si è appena chiusa una storia orrenda e
dovremmo esserne tutti
felici”.
Sherlock
alzò il violino per aria in segno di vittoria.
“Evviva”
disse in tono da funerale.
“Sherlock-”
Il
campanellò squillò in maniera famigliare.
“Toh”
disse Sherlock, divertito. “Baronetto in fabula. Signora
Hudson, le
dispiacerebbe andare ad aprire?”
“Non
sono la vostra domestica, giovanotto” fece sussiegosa
quest’ultima prima di alzarsi
in piedi. Il detective le sorrise in maniera disgustosamente falsa.
“La
ringrazio”.
*
John
si sistemò più comodamente sulla poltrona, in
attesa. Nonostante l’atmosfera
fosse sempre così densa da poter essere tagliata con un
coltello ogni volta che
il maggiore degli Holmes veniva a fare visita, si scoprì a
essere felice di
quell’intrusione imprevista: Sherlock stava raschiando il
fondo del barile dell’intrattabilità.
Erano passati mesi dall’ultimo caso considerato stimolante a
sufficienza, e la
sua pazienza languiva quasi come le loro finanze.
“Suo
fratello è un po’… suscettibile
stamattina, signor Holmes”.
John
sorrise. La signora Hudson stava tentando di mettere in guardia il loro
ospite.
Santa donna.
“Stamattina,
signora Hudson? ”. Mycroft sembrava scettico e molto
divertito. “Immagino che
suscettibile sia un garbato eufemismo per insopportabile”.
Sherlock
emise un basso ringhio da cane da caccia. Lo scalpiccìo di
passi e le voci
erano vicinissimi, e fu questioni di secondi prima che qualcuno
bussasse.
“È
permesso?”
Sherlock
si sdraiò sul divano e si raggomitolò con la
schiena alla porta, avvolgendosi
nella sua vestaglia come un baco da seta.
“No”.
La
porta si aprì e Mycroft fece la sua abituale entrata
flemmatica nella stanza,
dondolando l’ombrello che portava appeso al braccio. Era
impeccabilmente
vestito e illeggibile come sempre.
“Oh
per l’amor di Dio, Sherlock” disse infastidito,
avvicinandosi con aria oltraggiata
al gomitolo di seta azzurra che era diventato suo fratello.
“Comportati da
persona adulta”.
“Prima
che entrassi” mormorò il suddetto gomitolo con un
sibilo arrabbiato, “questa
era una brutta giornata”.
“E
ora?”
“Ora
è orrenda”.
John
si trattenne a stento dal lasciarsi sfuggire una risatina. Mycroft
prese un
lungo, tremante sospiro denso di indignazione contenuta, poi prese a
dondolarsi
sulle punte e si rivolse con tono perfettamente controllato al dottore.
“John”
salutò educatamente, porgendogli una mano che lui
strinse, “felice di
vederla”.
“Idem”
fece John, cordiale.
Il
gomitolo di seta blu emise un grugnito che voleva dire
“brutto venduto”.
Mycroft
gli sorrise, non dando alcun segno di voler allentare la stretta.
“Mi
dica, dottore, come se la cava a tennis?”
John
rimase immobile, preso alla sprovvista. Un occhio di Sherlock fece
capolino da
sopra la spalla, guardingo e – sebbene lui se lo volesse
negare ad ogni costo –
interessato.
“Beh,
ho giocato un po’
all’università…”.
Ridacchiò, confuso. “Data la mia statura
non ho mai avuto un servizio micidiale, ma mi dicevano che avevo un
buon
rovescio”.
Gli
occhi di Mycroft brillarono di una luce maliziosa. John conosceva
quello
sguardo: era lo stesso che Sherlock mostrava al mondo prima di
snocciolare uno
dei suoi monologhi al vetriolo verso il povero malcapitato di turno.
“Scommetto
che se la cavava egregiamente. Al contrario del nostro Sherlock,
qui” indicò il
gomitolo rannicchiato sul divano con il proprio ombrello, lo sguardo
pieno di
rammarico, “che era straordinariamente poco dotato”.
“Non
è vero!”
“…Sebbene
a lui costi ammetterlo” proseguì Mycroft senza
fare un plissè. Lanciò uno
sguardo complice a John, il quale rabbrividì. “Era
piuttosto bravo a scherma,
però. Ha sempre preferito gli sport che prevedevano il
contatto fisico”. Si
chinò per sussurrargli in tono confidenziale:
“Sport individuali, ovviamente,
anche perché chiunque avrebbe preferito farsi uccidere il
gatto sotto gli occhi
piuttosto che averlo in squadra”.
John
emise uno sbuffo divertito.
“Sherlock
preferiva il contatto fisico?” Indicò a suo volta
il gomitolo sul divano, che
ora tremava di rabbia. “Stiamo parlando della stessa
persona?”
“John,
piantala di familiarizzare col nemico!”
Mycroft
annuì vigorosamente.
“Oh
sì, sì. Lo teme moltissimo, ma lo desidera con
altrettanta forza. Così tenta di
ottenerlo… Con i metodi che gli sono più
congeniali, diciamo”.
Sherlock
decise che ne aveva abbastanza e scattò in aria come una
molla, afferrando al
volo l’archetto del violino prima di avvicinarsi alla coppia
con passi
infuriati e puntarlo a pochi centimetri dal naso del fratello.
“Smettila”
sibilò, la voce tremante di rabbia. “Sei solo
invidioso perché la tua pancia
grassa non ti ha mai fatto vincere nemmeno una medaglia di
badminton!”
Mycroft
fece filosoficamente spallucce.
“Ho
altre qualità”.
“Ah
sì? Nascoste, presumo”. Fece roteare nuovamente
l’archetto come una sciabola; John
arretrò d’istinto per paura di essere accecato.
“Così nascoste che nemmeno un
detective geniale come me ha mai saputo trovarle!”
Mycroft
rise a denti stretti.
“Sì…”
I
due fratelli si scambiarono un’occhiata di gelido rancore.
Sherlock, notò John,
tremava ancora per la rabbia, mentre Mycroft non aveva fatto una piega.
“Ora
che ho la tua attenzione” sillabò lento il
maggiore dei due, “vorresti sederti
e ascoltare il motivo della mia visita? Prima te lo dico, prima me ne
vado.
John potrà mangiare il suo tanto desiderato pranzo e
tu” gli rivolse un ghigno,
“potrai correre a chiamare la mamma per dirle di lucidare
ancora una volta le
tue medaglie di scherma”.
Sherlock
alzò il mento, fiero.
“Non
metterti comodo”.
John,
capendo che ormai la tempesta era passata, si intromise fra i due
schiarendosi
la voce.
“Mh,
non lo ascolti, Mycroft”. Gli indicò con un
sorriso indeciso la propria
poltrona. “Prego”.
“Grazie,
John”. Una volta che si furono tutti seduti, Mycroft
appoggiò l’ombrello di
fianco alla gamba destra e cominciò a parlare.
“Immagino abbiate visto i
giornali, stamattina”.
“Sì”
rispose John, guardando con la coda dell’occhio Sherlock che
era ancora nero in
volto.
“La
signorina Howard è stata rilasciata incolume, cosa di cui
siamo tutti grati,
dopo un sequestro durato più di un mese. In questi trenta
giorni non è stata
fatta la minima chiarezza né sugli esecutori né
sui mandanti del rapimento.
Scotland Yard brancola nel buio”.
“Che
novità” commentò Sherlock a denti
stretti. Mycroft annuì.
“Ora,
la signorina Howard non è una persona qualunque. Ha
risollevato l’immagine
dello sport inglese a livello mondiale, dopo anni di insuccessi
francamente
imbarazzanti dato che il nostro paese è la culla del
tennis-”
“La
Francia è la culla del tennis, Mycroft, visto che
quest’ultimo è un’evoluzione
della pallacorda” corresse Sherlock, secco. “Sei
sempre così fastidiosamente
impreciso”.
John
lo implorò con lo sguardo di non riprendere la loro faida
aggrappandosi a cose
così infantili, ma per sua fortuna Mycroft non volle
raccogliere l’offesa.
“Dicevo,
Wimbledon è il più importante evento tennistico
del globo e gli atleti nostrani
si sono sempre rivelati inadatti a mantenere alti i loro standard.
Questo fino
alla signorina Howard. Inutile dire che lasciare questi criminali
impuniti
vanificherebbe i suoi sforzi nel risollevare l’immagine del
paese”.
Sherlock
si lasciò sfuggire una risatina amara.
“Una
ragazza poco più che maggiorenne è stata rapita e
tutto quello che vi interessa
è la figura che ci fa questa maledetta nazione”.
John
gli rivolse uno sguardo incredulo. Persino Mycroft ruppe la sua solita
corazza
impassibile e sollevò un sopracciglio, stupito.
“Da
quando sei così sensibile alle disgrazie altrui,
Sherlock?” chiese quest’ultimo
profondamente interessato.
Sherlock
voltò la testa, infastidito, intimandogli con un gesto
nervoso della mano di
andare avanti. John notò con meraviglia che era leggermente
arrossito.
“È
una questione di ampio respiro, fratello. Mi è stato chiesto
dai piani alti di”
sorrise, minaccioso, “stimolare il tuo interesse al
riguardo”. Lanciò uno
sguardo eloquente a John. “La ricompensa, inutile dirlo,
sarà adeguata ai
vostri sforzi”.
Sherlock
gli rivolse un’occhiata penetrante.
“La
polizia non ha richiesto il mio aiuto”.
“La
cosa ha mai avuto importanza per te? Comunque, ho già dato
disposizioni”.
Sollevò il proprio orologio da polso davanti a sé
e si mise a fissarlo con
attenzione. “Riceverai una chiamata dall’ispettore
Lestrade in tre… due… uno…”
Il
cellulare di Sherlock prese a vibrare dalla tasca della sua vestaglia.
Il
detective lanciò un ultimo sguardo assassino a suo fratello,
dopodichè si alzò
in piedi e si diresse con passi di piombo in cucina.
Mycroft
sorrise trionfante e si congedò da John con la promessa che
si sarebbe
risentiti presto.
*
“Stupido…
Irritante… Becchino”.
John
rise. Non aveva mai sentito quella particolare denominazione di
Mycroft, prima –
e dire che Sherlock sapeva diventare piuttosto fantasioso al riguardo.
“Becchino?”
chiese, aggrappandosi alla maniglia gialla mentre il taxi in cui erano
seduti
prendeva una curva particolarmente stretta.
“Sì,
è un maledetto corvaccio del malaugurio. Lui e il suo
ridicolo ombrello”. Fece
un gesto stizzito verso il finestrino, da cui entrava la luce calda del
sole. “Cosa
diavolo se ne fa se non piove? Crede di fare scena? Beh, fa solo pietà”.
“Per
me ci dorme anche insieme” rincarò la dose John,
sorridendo. Sherlock emise uno
sbuffo d’assenso. “Magari ci fa pure il bagno,
assieme. Ma non solo nella doccia
– no, anche al mare. Sai, lo coordina al costume gessato e
alla cravatta con su
gli ombrelloni…”
Sherlock
si fece sfuggire una breve risata di fronte a quell’immagine.
“Non
che tu sia meglio. Secondo me, vostra mamma ti comprava tutto col
bavero per farti
contento. Le t-shirt, i pigiami, ogni cosa. Così potevi fare
l’erore del
mistero in ogni circostanza”.
Non
riuscì più a trattenersi e scoppiò a
ridere, lanciando un’occhiata di sbieco a
Sherlock per vedere quanto fosse grave il danno che aveva fatto.
“Attento,
John” gli intimò questo in tono glaciale. Ma
sorrideva.
Note
dell’autrice:
questa
storia unisce due delle mie più grandi passioni, il tennis e
Sherlock, ma
siccome immagino che non tutti siano dei tifosi di questo sport vi
avverto ora
che lo scenario è questo e che beh, se non vi piace,
è comprensibilissimo e
forse dovreste fermarvi qui.
Se
invece la cosa non vi crea tanto disturbo unitevi alle danze *O*
(Non
vi preoccupate, non c’è così tanto
tennis. Era solo un avvertimento in
amicizia, visto che non voglio annoiare nessuno).
Ringrazio
ancora tutte le gentilissime persone che hanno commentato :*
P.S.
Ah, nel canone Sherlock è un bravo spadaccino. Pensavo fosse
divertente fargli
vincere un paio di medaglie di scherma :D
P.P.S.
La povera Inghilterra non fa così schifo, a tennis, anche se
è vero che un
inglese non vince Wimbledon da molti decenni, sia nel circuito maschile
sia in
quello femminile. È una cosa che gli rode molto ma su cui
fanno anche molta
ironia :D
|
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Capitolo 3 *** Rovescio ***
La
famiglia Howard abitava in un’elegante villetta di un bel
quartiere
residenziale, il cui giardino era in quel momento completamente
occupato da
fotografi, giornalisti e poliziotti che tentavano di mantenere
l’ordine.
Il
sergente Donovan, radiotrasmittente alla mano, riconobbe John e
Sherlock in
mezzo alla folla impazzita e fece loro un riluttante cenno di
riconoscimento.
“Dovevo
aspettarmelo” disse a denti stretti facendo segno agli agenti
di lasciarli
passare avanti. “Come se non ci fossero già
abbastanza scocciatori in questa
casa” proseguì indicando con disprezzo
l’impressionante montagna di persone che
strillavano a pieni polmoni di poter fare foto, interviste, domande ai
famigliari.
“Giuro
che ho spento il flash” ribatté soavemente
Sherlock. Donovan gli lanciò uno
sguardo di fuoco.
“Vedi
di tenere a freno la lingua, freak. La ragazza è sotto
shock”. Giocherellò con
l’antenna della ricetrasmettente, lo sguardo improvvisamente
scuro. “Sembra che
non si sia accorta che è stata rilasciata. Non-”
fece un gesto brusco con la
mano, intimando loro di entrare, “Beh, vedrai con i tuoi
occhi. Ma se fai il
bastardo come tuo solito ti sbatto fuori, fosse l’ultima cosa
che faccio”.
Sherlock
le rivolse un sorriso sarcastico. “Stai allegra, Donovan
– ah, ma sono
indelicato, forse. Dimenticavo che per te è soprattutto una
faccenda personale
”.
John,
prevedendo una battuta spiacevole delle sue, lo spinse avanti
mettendogli una
mano in mezzo alle scapole. Sally lo guardò confusa.
“Cosa?”
Prima
che John lo spedisse praticamente a spintoni oltre la porta, il
detective fece
in tempo a farle un occhiolino.
“Niente
cadavere, niente Anderson!”
*
Lestrade
li accolse nel piccolo androne della casa, visibilmente accigliato.
“Sherlock.
John”. Si strinsero brevemente la mano. “Spero che
tu riesca a cavarne fuori
qualcosa, perché noi non sappiamo che pesci
pigliare” disse rivolto al
detective.
Quest’ultimo
si tolse i guanti con un sorriso arrogante sulle labbra.
“Credo
proprio che avrò più successo di voi. Come
sempre”.
Lestrade
alzò gli occhi al cielo.
“Seguitemi.
La ragazza è al piano di sopra”.
“Pensate
che sappia qualcosa dei suoi rapitori?” chiese John salendo
le scale.
L’ispettore fece spallucce.
“Non
riusciamo a capirlo”.
“Non
parla?”
“Sì
e no”. Aprì la prima porta a destra, facendo un
cenno ai due poliziotti che la
sorvegliavano. “Adesso vedrete”.
*
La
stanza era piccola, con i muri dipinti a strisce rosa e bianche
completamente
tappezzati di poster raffiguranti tenniste nelle pose più
disparate. Accanto a
una grande finestra, coperta fino al mento da un spesso piumone, stava
rintanata nel letto una ragazzina che avrà avuto al massimo
diciott’anni.
“Avevo
detto basta domande! È esausta, deve riposare!”
John
arretrò istintivamente di fronte alla furia bionda che aveva
interrotto il loro
contatto visivo con quella che doveva essere Christine Howard. Era una
giovane
donna sui venticinque anni, dai lineamenti delicati e gli occhi
azzurri, che
ora li stavano squadrando con rabbia e diffidenza.
“Siamo
con la polizia, signorina…” fece conciliante John
porgendole una mano.
“Pamela
Howard” rispose secca lei senza stringergliela.
“Non mi interessa se siete
della polizia o dell’MI6. Mia sorella è ancora
provata da quello che le è
successo. Si era detto basta interrogatori, per oggi!”
Sherlock
alzò un sopracciglio, stringendo le labbra in una piega
severa e ricambiando lo
sguardo ostile che la donna gli stava rivolgendo. Lestrade si fece
avanti
schiarendosi la voce.
“Signorina
Howard, il signor Watson, qui” indicò John con un
gesto della mano, “è un
dottore. Cioè uno, ehm, psicologo… In qualche
modo. E il signor Holmes è il suo
assistente”. Lanciò un’occhiataccia a
Sherlock che aveva già aperto la bocca
per ribattere, indignato. “Vogliamo solo accertarci che sua
sorella non abbia
subito traumi gravi”.
“Per
un’eventuale terapia c’è
tempo”, rispose duramente la donna. “Fuori di
qui” e
indicò la porta, irremovibile.
“Altrimenti
cosa fa”, si intromise Sherlock in tono per niente
impressionato, “chiama la
polizia?”
Per
evitare che Pamela Howard stampasse una delle sue mani dalle lunghe
dita
affusolate sulla guancia del suo migliore amico, John si intromise tra
i due
con quello che si augurava fosse un atteggiamento diplomatico.
“Le
chiedo solo cinque minuti, signorina. Domande semplici, elementari,
giusto per
controllare le sue reazioni di base”. Alzò le mani
in segno di resa. “Poi ce ne
andremo. Promesso”.
Pamela
Howard lo squadrò dall’alto in basso come se
volesse dissezionarlo con lo
sguardo. John deglutì; lei incrociò le braccia
sul petto.
“Giuri”
impose, drastica.
“Su
cosa?” chiese John, confuso.
“Su
Ippocrate, mi pare ovvio” suggerì Sherlock
spazientito.
“Su
quello che ha di più caro. Mia sorella deve riposare
– ergo, ve ne dovete andare fra cinque minuti e non
oltre”. Assottigliò gli
occhi, minacciosa. “Ho bisogno di una garanzia”.
John
si girò a guardare Sherlock. Sherlock ricambiò lo
sguardo di John.
Non
poteva sapere se il suo amico avesse davvero intenzione di andarsene in
cinque
minuti di orologio; lui non era scaramantico, ma non gli andava
comunque di
giurare su Harry – che in ogni caso gli aveva sempre dato un
sacco di problemi.
Oh
beh, dato che era partito tutto dal detective, la soluzione era
semplice.
“Giuro
su di lui” disse ad alta voce, indicando Sherlock con un
dito. Questi lo guardò
come se John gli avesse appena tranciato con una motosega le corde del
suo
violino sotto agli occhi.
“Che
cosa?”
“Le
posso assicurare che il giuramento ha valore” si intromise
Lestrade, esibendo
un sorriso che a John parve fintamente rassicurante e genuinamente
spaventoso.
“Capisce…”
Pamela
Howard sembrò abbandonare per un momento la sua espressione
truce, sostituendola
con quella di una che la sapeva lunga.
“Aaah…”
disse, annuendo lentamente.
John
si rese conto che giurare su Sherlock era stata una pessima, pessima
idea.
“Posso
parlare con la ragazza, ora? Faccia partire i cinque minuti”.
Non
vedeva l’ora di andarsene da quella casa che, Donovan aveva
ragione, era
completamente invasa dai pazzi.
*
“Ciao,
Christine” salutò gentilmente John,
inginocchiandosi a lato del letto.
Nonostante la ragazza avesse diciotto e non cinque anni, era un gesto
che gli
era venuto naturale fare: così, in pigiama, con il viso
pallidissimo e gli
occhi inquieti che guardavano ovunque tranne lui, sembrava poco
più che una
bambina terrorizzata. “Sono il dottor Watson. Sono qui per
aiutarti”.
Si
girò per lanciare uno sguardo alle sue spalle. Sherlock, con
il cappotto ancora
indosso, ascoltava la loro conversazione con sguardo attento, una mano
stretta
a pugno appoggiata alla bocca.
Avevano
concordato che fosse più sicuro che John si occupasse
dell’interazione, visto
che Pamela aveva insistito per restare nella stanza e ascoltare tutto
parola
per parola.
Tornò
a rivolgere la propria attenzione alla ragazza. Assomigliava molto alla
sorella, sebbene avesse un viso più rotondo e dei tratti
ancora infantili;
piena di lentiggini, con quel naso buffo, avrebbe avuto una faccia
simpatica se
non fosse stata contratta dall’ansia.
“Vorrei
che mi dicessi, senza sforzarti, quello che ti ricordi sia avvenuto il
giorno
dopo la finale. Va bene qualunque cosa, sensazioni, odori, rumori che
ti sembra
di aver sentito…”. Si interruppe di colpo: gli
occhi della ragazza si erano
riempiti di lacrime. Si affrettò a rassicurarla:
“Calmati, Christine, nessuno
ti farà più del male-”
“Basta
così” sentì interromperli la sorella,
il tono che non ammetteva repliche.
“No,
aspetti un attimo, i cinque minuti non sono passati”
ribatté risoluto John.
Sherlock gli lanciò un discreto, ma sincero sguardo di
apprezzamento per la sua
caparbietà. “Christine, ascoltami”.
La
ragazza alzò faticosamente la testa e incontrò
per la prima volta i suoi occhi.
Sembrava completamente sperduta. Gli tornarono in mente le parole di
Donovan:
pareva che fosse ancora sotto sequestro, che non si fosse resa conto di
essere
stata liberata.
“Va
bene” scandì piano John, sorridendole con
tenerezza, “qualunque cosa”.
Christine
abbassò nuovamente il capo, poi lo rialzò,
guardò fuori dalla finestra e annuì
impercettibilmente.
“Mille…”.
Deglutì, a fatica, la voce tremante e arrochita di chi deve
aver gridato per
giorni, senza essere mai ascoltata.
“Millenovecentonovantatre”.
Dopodiché
si girò da un lato e chiuse gli occhi, stringendo forte i
pugni ai lati del
viso.
*
“Grazie
mille, Greg, per aver così gentilmente calcato la mano
prima” sussurrò
sarcastico John nell’orecchio dell’ispettore mentre
tutti scendevano al piano
di sotto. “Ora anche le poche persone che non credevano alla
mia omosessualità
avranno alzato bandiera bianca”.
Lestrade
sorrise e tentò di trattenere una risata per non farlo
arrabbiare
ulteriormente.
“Non
ho detto niente di esplicito”.
“Ah
sì? Beh, le tue sopracciglie alzate erano più
esplicite di un mio coming out
sul momento!”
“Andiamo,
John, è stato fatto unicamente a fini professionali. Che
cosa diavolo te ne
frega se Pamela Howard pensa che tu sia gay e stia con
Sherlock?”
John
pensò a quei begli occhi azzurri brillanti di rabbia e a un
fisico scolpito da
anni e anni di esercizio fisico (anche lei era una tennista
professionista).
“…Beh,
se proprio lo vuoi sapere me ne frega!”
Lestrade
rise e John non potè fare a meno di imitarlo. Era una
situazione totalmente
surreale.
“Se
voi due avete finito di shignazzare come due stupide liceali”
li interruppe
Sherlock in tono annoiato, gli indici sulle tempie e gli occhi che
fremevano di
fastidio sotto le palpebre chiuse, “io starei tentando di
risolvere questo caso”.
John
alzò gli occhi al cielo. Sherlock riaprì i suoi
di scatto e gli lanciò uno
sguardo incendiario.
Sembrava
sul punto di dire qualcosa di velenoso, ma venne interrotto da Pamela
Howard
che, evidentemente impressionata dall’ubbidienza di Watson
psicologo ai suoi
ordini, stava cercando di farsi perdonare la sua durezza di poco prima
con l’offerta
di una tazza di tè.
Vi
furono dei sospiri sollevati e un coro di risposte affermative, e in
pochi
secondi tutta la squadra investigativa era sciamata nella cucina della
casa.
*
“Eravamo
tutti così fieri di lei. Così felici”.
Pamela abbassò lo sguardo sulla sua
tazza di té, gli occhi un po’ lucidi. “Christine
è sempre vissuta per
allenarsi, per il tennis. Era timida, non usciva quasi mai, non
stringeva
amicizie facilmente e si isolava spesso. Vedeva solo il traguardo, ed
è così
crudele che subito dopo averlo raggiunto sia stata ridotta…
Com’è ora…”
Tirò
su col naso. John le mise una mano sulla spalla, un sorriso di conforto
sulle
labbra. Sherlock, dalla parte opposta della cucina, lo
fulminò con lo sguardo.
John
non gli prestò attenzione neanche per sbaglio.
“A-aveva
sempre avuto problemi a fidarsi, a buttarsi, a vivere in mezzo alle
persone…
Ora temo che non ci proverà neanche più. Sembra
l’ombra di sé stessa”.
Singhiozzò rumorosamente, coprendosi gli occhi con la mano
libera, il corpo che
tremava. “Non parla nemmeno più, l’avete
visto coi vostri occhi”.
“Signorina
Howard, sua sorella è stata rilasciata solo ieri. Lo stato
di shock in cui si
trova è perfettamente normale” si intromise
Lestrade, pratico e gentile. “Non
pensi al peggio. Le sue capacità di ripresa potrebbero
sorprenderla”.
Pamela
gli rivolse uno sguardo grato, gli occhi rossi e un sorriso tremante
sulle
labbra.
“Sì,
forse ha ragione. Non dovrei essere così negativa.
È che Christine è sempre
stata così fragile… E tutta questa pressione
mediatica non aiuta di certo”
concluse, il tono duro di poco prima di nuovo evidente nella sua voce.
Donovan
fece un passo in avanti nella sua direzione.
“Faremo
il possibile per tenere lontani gli sciacalli” disse
combattiva. “Non si
preoccupi di quello. Sappiamo come tenere a bada la stampa”.
Uno
sbuffo scettico echeggiò nella stanza. Tutti si voltarono
istintivamente verso
Sherlock.
“Lei
non la pensa nella stessa maniera, signor…” chiese
freddamente Pamela. Sherlock
le rivolse uno sguardo noncurante e si girò con un movimento
elegante in modo
da appoggiare la schiena al frigorifero.
“Holmes.
No, non penso che sappiano come tenere a bada la stampa, ma sono certo
che
faranno il possibile – come sono altrettanto certo che non basterà
minimamente” disse mellifluo,
tornando poi a rivolgere l’attezione alla propria tazza di te.
La
ragazza assottigliò gli occhi e gli rivolse uno sguardo
pieno di malcelato
disprezzo.
“Lei
non mi piace”.
“Ah,
me lo dicono sempre tutti” ribatté lui con voce
leziosa, facendo finta di
pavoneggiarsi con una mano. John capì subito che in
realtà, sotto le stupide
arie che si stava dando, era mortalmente serio. “Vale anche
il reciproco, se le
interessa” concluse il detective poggiando con garbo la tazza
di tè sul
lavello, gli occhi indignati di tutti fissi su di lui.
Pamela
si irrigidì di scatto.
“Sarei
grata se se ne andasse, visto che non è che un misero
assistente e qui è di ben
poca utilità”.
Un
ghigno derisorio si dipinse sulle labbra di Sherlock.
“Ah,
le obbedisco subito. Qui è lei la padrona di
casa”. Si rinfilò i guanti,
lentamente, con grande attenzione. “Anche se dubito che i
suoi genitori, se mai
dovessero scoprire che lei è incinta, sarebbero
così comprensivi da non
sbatterla fuori”.
Rialzò
uno sguardo duro e freddo come il ghiaccio sulla ragazza: Pamela era
impallidita e stringeva con frenesia il bordo del piano cucina con le
nocche,
come se avesse paura che le gambe non la reggessero.
Lestrade
fece un passo in avanti verso di lui, minaccioso.
“Holmes-”
“Le
consiglierei di riferire al suo ragazzo sia questa bella notizia sia
quell’altra,
meno bella, dell’aborto che ha già messo in
programma per lunedì prossimo nella
clinica privata qui dietro l’angolo”. Fece una
pausa teatrale, poi spalancò gli
occhi in un’espressione di falsa sopresa, le labbra strette
in una piega
crudele. “Ah, ma il bambino non è suo…
Mi sbaglio? Oh, allora potrebbe
rivelarsi complicato dirglielo, dato che lui sospetta già da
mesi una tresca
col suo allenatore”.
Pamela
era cerea in viso come se avesse appena visto un fantasma. Nella cucina
calò un
silenzio agghiacciante.
Sherlock
fece un piccolo sorriso.
“Se
davvero la polizia è così brava a tenere a bada
la stampa, vedrà che nessuno
farà trapelare la notizia al di fuori di queste quattro
mura. La consideri una
sorta di prova del nove. John”. Rivolse uno sguardo intenso
ed eloquente all’amico,
che lo guardava disgustato. “Andiamo”.
Sherlock
girò sui tacchi e si avviò verso la porta
d’ingresso. Pamela scoppiò a piangere.
Donovan esplose in una sequela di insulti che avrebbero fatto
impallidire uno
scaricatore di porto. Lestrade chiese seccamente a John di tenerlo a
bada, la
prossima volta.
John
sospirò, annuì con la coda fra le gambe e
uscì a propria volta dalla casa.
Il
marciapiede era vuoto. Sherlock aveva preso un taxi da solo.
Note
dell’autrice:
grazie
ancora a tutti dei bellissimi commenti :* Spero vi piaccia come si sta
sviluppando la storia.
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Capitolo 4 *** Doppio Fallo ***
John
uscì dal taxi sbattendo la porta. La voce del guidatore lo
inseguì dal veicolo
ricordandogli il resto e lui borbottò che poteva pure
tenerselo.
Erano
le sei di sera, il cielo era scuro, faceva freddo e quel viaggio verso
casa in
solitudine non l’aveva aiutato ad ammorbidirsi nei confronti
di Sherlock. Tutto
il contrario; sentiva la rabbia crepitare sottopelle come una corrente
elettrica
bisognosa di scaricarsi distruttivamente su un oggetto.
Salì
gli scalini con passo pesante, in modo da palesare il suo arrivo. Era
arrabbiato, ma era pur sempre un ex-militare con un solidissimo codice
d’onore:
non l’avrebbe mai colpito alle spalle.
Anche
se sapeva che dare a Sherlock il tempo di prepararsi significava
annullare del
tutto le possibilità di vittoria.
Girò
la maniglia ed entrò nell’appartamento in
penombra. Lui era già in vestaglia, e
suonava vicino alla finestra dandogli le spalle. Questo significava che
l’aveva
visto arrivare e si era messo a suonare in quel modo barbaro
appositamente per
lui.
Digrignò
i denti: il detective sapeva benissimo che quelle
“melodie” (sempre se così si
potevano chiamare) tutte acuti e sfrigolii mandavano in pezzi i suoi
nervi.
Sherlock era in assetto di guerra – molto bene, se era questo
che voleva,
guerra avrebbe avuto.
“Che
cosa diavolo significava quel che
è
successo prima?”
Lui
non si voltò neanche.
“Esattamente
quello che ho detto”.
John
strinse i pugni lungo i fianchi, chiuse gli occhi per raccogliere quel
minimo
di pazienza che gli era rimasta e scosse la testa.
“Hai…
distrutto quella ragazza. Senza nessun motivo”.
Sherlock
attaccò un motivo frenetico e rabbioso. John vide che le sue
dita erano pallide
per lo sforzo.
“Io
non faccio mai niente senza motivo”. Smise bruscamente di
suonare e si girò: il
suo sguardo era freddo e tagliente come un coccio di vetro.
“Al contrario di
te”.
John
fece un passo avanti ma riuscì a trattenersi
all’ultimo dal prenderlo per il
bavero e strattonarlo.
“Cosa?...”
Rise senza allegria. “Certo, certo, sono stato io a torturare
psicologicamente
per sfizio una poveretta con i nervi già a pezzi per il
rapimento di sua
sorella! Mi hai proprio colto in flagrante!”
Sherlock
resse brevemente il suo sguardo con quella che sembrava, e qui John
dovette
fare un serio sforzo per non tirargli un pugno, delusione;
poi chinò la testa e riprese a suonare il violino con
fare annoiato.
“A
volte adoperi una forma di sarcasmo molto stupida”.
John
arricciò il labbro come se avesse intenzione di morderlo.
“Scommento
che qui dovrei ringraziarti perché hai detto “a
volte” e non “sempre”. Beh, se
è il tuo modo di riportare la discussione su binari
ragionevoli, mi spiace non
sta avendo un cazzo di effetto”.
Sherlock
fece schioccare l’archetto in aria e si girò a
fronteggiarlo con gli occhi
brillanti di rabbia.
“Perché
hai giurato su di me?” chiese, le labbra tremanti.
John
batté incredulo le palpebre.
“Scusa?”
“Perché”
ripetè Sherlock spiccando le singole lettere come fossero
proiettili che lui
stesse rivolgendo contro John, “hai giurato su di
me?”
“Ma
che domanda è?”
“Una
domanda sensata!”
Il
dottore si strinse nelle spalle e si passò una mano fra i
capelli, abbassando
lo sguardo a terra.
“Ma
non lo so, la ragazza mi ha chiesto di giurare e tu eri lì,
ben visibile, e ho
pensato che fosse comodo-”
“Comodo”. Sherlock
pronunciò la parola
come se la avesse assaggiata, masticata e poi sputata con disgusto.
“Comodo,
John?...”
Il
dottore gli si avvicinò di un passo, annuendo con il mento
ben alto in aria.
“Sì,
comodo, Sherlock, e infatti siamo riusciti a parlare alla ragazza! Era
così per
dire!”
“Perché
non hai giurato su Harry?” chiese velocissimo il detective,
l’archetto ancora
stretto in mano.
“Ma
saranno fatti miei!”
“Lei
non era comoda perché
è
un’alcolizzata, vero? Su di lei non sei riuscito a giurare
così per dire”.
Abbassò il tono di voce a un sussurro.
“Perché ti fa pena, una sorella a
metà”.
Ora
erano a un metro scarso di distanza e la tensione era insopportabile.
John
pensò che forse era veramente il caso di prendersi a pugni e
risolverla nella
buona, vecchia, incivile maniera: non gli piaceva dove il discorso
stava
andando a parare.
“Sherlock”
disse, calmo e minaccioso, “ti consiglio di fermarti
qui”.
Il
detective continuava a fissarlo con quello sguardo penetrante capace di
far
confessare agli assassini non solo gli omicidi, ma persino i peccatucci
di
gioventù. Era uno sguardo-combinazione capace di aprire ogni
cassaforte segreta
custodita nei cuori della gente: era straordinario e anche un
po’ crudele – di
certo era impietoso – oppure, come adesso, era crudelmente
straordinario,
perché John non avrebbe dovuto sentirsene attratto come da
una calamita. Quale
persona sana di mente l’avrebbe trovato bello e magnetico?
Forse un uomo come
lui che in quel momento sapeva di essere totalmente dalla parte del
giusto,
senza alcuna colpa sulla coscienza; o forse, un uomo come lui che si
sentiva
vivo solo in presenza del pericolo.
E
Dio solo sapeva se quegli occhi e la persona cui appartenevano non
erano la
cosa più pericolosa con cui lui avesse mai avuto a che fare.
“Potevi
andare sul classico” disse infine Sherlock, dopo un lungo
momento di
intensissimo silenzio che sembrava essersi dilatato
nell’eternità, “potevi
giurare su Dio”.
John
strinse le labbra in una linea praticamente invisibile.
“Cioè
tu mi stai dicendo” cominciò, il respiro corto, la
voce tremante di
esasperazione, “che sarebbe più consigliabile
giurare il falso su Dio – su Dio,
Sherlock – che non su di te. Ho
capito bene?”
“Sì”.
Ci
fu una pausa.
“Sapevo
che avevi deliri di onnipotenza” disse grave John,
“ma questo…”
Sherlock
alzò gli occhi al cielo.
“Dio
non esiste, John”.
“Grazie
al cielo, altrimenti ci litigheresti ogni minuto!”
“Probabile”.
Sherlock
sorrise, ma non era uno dei rari sorrisi che coinvolgevano quegli occhi
implacabili – era un segno di interpunzione non detto: era un
punto e a capo.
Era un “ho vinto io” che scaturiva unicamente dal
suo cervello e non dal suo
cuore.
Beh,
si disse John, per vincere quella volta sarebbe dovuto passare sul suo
cadavere.
“Le
tue convinzioni religiose-”
“Che
sono anche le tue”.
“…Non
lo puoi sapere con certezza, visto che non ne abbiamo mai
parlato” tentò
diplomaticamente John, anche se un brivido freddo gli corse lungo la
schiena.
“Non
ti ho detto tutto quello che avevo dedotto su di te quando ci siamo
conosciuti”
continuò impertubabile Sherlock, facendo ondeggiare
l’archetto per aria, il
mento appoggiato in maniera quasi civettuola sul violino.
John
sentì un altro brivido – questa volta gelido, e in
tutto il corpo.
“Ah
no? E cosa non mi avresti detto?” chiese, fingendo un tono
indifferente e
persino un po’ annoiato.
Sherlock
sorrise di nuovo: questa volta era un vero e proprio punto esclamativo
di trionfo.
“Quando
ho incontrato i tuoi occhi per la prima volta”
cominciò, suadente, quasi
confortante, “anche se non avevo intuito la guerra precisa
cui avevi partecipato,
ho capito che ciò che avevi vissuto ti aveva convinto nel
profondo che un’idea
di Dio non può sopravvivere alla realtà di quegli
orrori”. Reclinò leggermente
la testa per fissarlo da una migliore angolazione. “Medico,
reduce di guerra,
Iraq o Afghanistan, zoppia psicosomatica… Ateo. Disilluso.
Cinico”.
“Tu
che dai del cinico a me” commentò John con uno
sbuffo, teso a mascherare il
tremore della sua voce, “ovvio”.
“Se
sei ateo, perché non hai giurato su Dio?”
domandò Sherlock in tono ovvio.
“Perché
essere atei non vuol dire non portare rispetto a una fede che non
è la tua”
rispose John in maniera altrettanto ovvia.
“Tu
non hai fede in me?”
John
si irrigidì. Aveva ragione: quel discorso era diventato
paradossale.
“Sherlock”
John lo implorò con lo sguardo di capire, di lasciar
perdere, “Non importa
quanto geniale tu possa essere, o quanto infallibile. Tu. Non. Sei.
Dio. Ficcatelo
bene in testa”.
“Non
ho mai sostenuto di esserlo” replicò serafico
Sherlock. “Ti ho chiesto se hai
fede in me. Ti ho chiesto perché, sapendo che avresti
giurato il falso (perché infatti
la conversazione con la signorina Howard è durata cinque
minuti e quarantotto
secondi, e tu lo sapevi, che
sarebbe
andata a finire così), hai scelto di giurarlo, fra tutti
quelli che conosci, su
di me”.
John
alzò le mani in segno di esasperazione.
“Ma
che ne so! Te l’ho detto, eri lì, giurare su di te
avrebbe reso più facile a
Pamela Howard credermi, fine della storia! Non ci ho riflettuto
più di tanto.
Era una cosa senza significato, uno strumento ai fini
dell’indagine. Nient’altro”.
John
fece uno scatto all’indietro, trattenendo il respiro:
Sherlock aveva appena
gettato il violino sul divano con violenza e ora gli stava urlando
contro, il
viso congestionato e i capelli in tempesta.
“È
questo il punto! Perché non pensate mai? Perché
non vi prendete il tempo per
pianificare con un minimo di intelligenza quello che state per dire?
Perché,
Dio, fate tutto così per fare? Perché?!
È un comportamento demenziale, stupido,
stupido, stupido!”
“Sherlock-”
“Siete
una razza orrenda” sibilò il detective, prendendo
dei grossi respiri – era pallido,
e tremava. “E stupida. Mi chiedo cosa diavolo sia successo
alla selezione
naturale, per aver permesso a così tanti di voi di restare
in vita”.
John
sentì un flusso inconsulto di sangue e adrenalina pompargli
nei muscoli e per
un attimo sentì di poterlo ammazzare di botte:
sentì che se avesse iniziato a
colpirlo non avrebbe mai smesso, finchè non si fosse mosso
di più, e solo perché
lo amava – sì, amava l’uomo che in quel
momento lo considerava l’esponente più
marcio di una razza stupida e inutile – non alzò
un dito su di lui.
Anzi,
chiuse gli occhi, piegò a sua volta la testa e quando li
riaprì il suo sguardo
era duro e piatto come una lastra di marmo.
“Sai,
ho spesso pensato che fossi freddo, inumano, egocentrico fino alla
mania, totalmente
incapace di vivere con le altre persone senza ferirle e autocelebrare
te stesso”
la sua voce era pesante come il suo sguardo, eppure limpida, quasi
paterna, “ma
non mi avevi mai disgustato”.
Girò
sui tacchi e se ne andò, accompagnando con delicatezza la
porta come chi sa che
non si disturberà mai più a tornare.
Sherlock
chiuse gli occhi; non si voltò; questa volta, non volle
vederlo allontanarsi
dalla finestra.
*
Per
un attimo aveva seriamente pensato di lasciare l’appartamento
di Baker Street, e
con esso il suo coinquilino. La passeggiata serale e l’aria
gelida sulle rive
del Tamigi lo aiutarono per fortuna a pensarci su e al trattenersi dal
fare
gesti avventati: a dire la verità non aveva nemmeno capito
l’esatto motivo per
cui Sherlock si era arrabbiato e gli aveva fatto
quell’assurda piazzata. La
vocina falsa che gli ripeteva incessantemente quanto non gli importasse
più
nulla di lui, e che poteva pure andarsene a quell’Inferno in
cui non credeva, era
stata in poco tempo soppiantata da un’altra voce,
più dolce e autoritaria
(inquietantemente simile a quella della signora Hudson) che gli aveva
consigliato saggiamente di far sbollire la rabbia entrambi e di
riparlarne
daccapo.
Si
trattava pur sempre di uno sfogo emotivo di Sherlock. Uno sfogo emotivo
di Sherlock! Era incredibile. La
piccola
crisi che aveva avuto a Baskerville, quando aveva creduto di non
potersi più
fidare del proprio intuito, aveva a che fare unicamente con
sé stesso – ma quella
sera lui era sbottato per un motivo esterno all’universo
della propria mente:
quel maledetto giuramento.
John
si era ripetuto fra sé e sé quel che aveva detto
a Pamela Howard quel
pomeriggio, cercando di rievocare le esatte parole e analizzandole sia
separatamente che nell’insieme per trovare cosa avesse tanto
turbato il
detective: ma non era venuto a capo di nulla.
Rabbrividì
e si strinse nella giacca. Era vestito troppo leggero, per le tre di
mattina:
ma si era così arrabbiato poco prima che la propria
temperatura corporea era l’ultima
cosa cui aveva badato.
Aveva
bisogno di tornare a casa. E non soltanto per stare al caldo.
*
Quando
salì gli scalini del 221B era ancora così immerso
nei propri pensieri dal non
notare la figura apprensiva e confusa della signora Hudson in piedi
davanti
alla porta del loro appartamento.
“Signora
Hudson” la salutò, sorpreso, “che ci fa
alzata così tardi?”
La
donna lo guardò preoccupata.
“Ho
sentito degli spari e sono scesa a controllare che non fosse successo
nulla di
grave – ma era solo Sherlock che se la prendeva con i miei
muri”. Aggrottò le
sopracciglia, assumendo un’espressione compunta.
“Deve farsi passare questa
brutta abitudine di maltrattare le pareti quando non sta
bene-”
“Non
sta bene?” chiese John, con un tono più ansioso di
quanto avrebbe voluto.
Maledizione, non era lui quello che era stato trattato come un errore di
Dio.
Dio
in cui, effettivamente, non credeva.
Dovevi
proprio
dimostrare di aver fatto bene i compiti a casa, eh, Sherlock?
La
signora Hudson gli rivolse uno sguardo clinico che lo fece quasi
indietreggiare
spalle al muro.
“John
Watson” il dottore deglutì, aspettandosi il
peggio, “avete avuto uno dei vostri
litigi?”
“Quali
sarebbero i nostri litigi?”
“Oh,
ma niente, quelle piccole discussioni che ogni coppia ha di tanto in
tanto…”
John
sospirò rumorosamente e aprì la bocca per provare
a spiegare (per la millesima volta!)
che lui e Sherlock non
erano una coppia, ma la signora Hudson fece un gesto sbrigativo con la
mano.
“Ho
ragione?”
“Ha
usato un termine improprio ma sì, il succo è
quello” si arrese John.
“Quale?
Discussioni? Allora incomprensioni-”
“No”.
John sperò di essere suonato molto categorico.
“Coppia”.
La
signora Hudson lo guardò con un’aria che definire
persuasa era non solo un’inesattezza,
ma un’enorme bugia.
“Vuole
dormire sul mio divano stasera?”
“Eh?”
Entrambi
sobbalzarono: un botto isolato echeggiò nel corridoio,
seguito da una breve
serie di spari a breve distanza l’uno dall’altro,
per finire poi con il rumore
di un oggetto fragile che si infrangeva a terra.
John
sospirò. Suonava come la sua teiera preferita.
La
signora Hudson tornò a guardarlo con aria critica.
“Forse
è meglio lasciarlo da solo per un altro
po’”.
“Sì,
lo penso anch’io”.
“Può
comunque sgusciare dentro, John, è pur sempre casa sua e
Sherlock deve imparare-”
Qualcosa
esplose, colpita da un’altra sequela di proiettili. John si
prese la faccia fra
le mani.
Decisamente
non voleva che il prossimo della lista a finire in mille pezzi fosse
lui.
“Accetto
l’offerta” disse, laconico.
La
signora Hudson gli fece pat pat su un braccio con aria empatica.
“Vedrà
che domattina si sarà tutto sistemato. Fra me e mio marito
finiva sempre così:
pensi che una volta gli ho lanciato addosso tutto il servizio buono e
sono
andata a dormire da mia sorella. Il giorno dopo abbiamo
fatto…” si interruppe
per far vagare lo sguardo sul soffitto con aria sognante, “la
pace” ridacchiò
con una mano sulle
labbra, “migliore del nostro matrimonio”.
John
ebbe quasi l’impressione che la successiva, violenta sequela
di proiettili
(sette, doveva aver cambiato il caricatore) fosse l’indignata
reazione di
Sherlock a quell’allusione terrificante.
*
La
mattina seguente si incamminò tutto indolenzito
giù per le scale e prese un
lungo sospiro davanti alla porta chiusa. La testa gli doleva: non aveva
dormito
nulla, sia per la straordinaria scomodità del divano della
signora Hudson, sia
per i pensieri che gli affollavano la testa.
Stupidamente
si chiese se anche Sherlock avesse avuto problemi a prendere sonno per
colpa
della loro discussione. Che domande, lui aveva sempre
problemi a prendere sonno: era un miracolo quando lo faceva!
Si
sistemò il colletto della camicia stropicciata per calmarsi
i nervi e abbassò
la maniglia.
L’appartamento
era illuminato dalla luce pallida del primo mattino, ed era delizioso.
John si
rimproverò per aver solo pensato di poterlo abbadonare. Era
la casa migliore
che avesse mai avuto.
E
non solo per
merito di questi bei mobili…
Di
Sherlock non c’era traccia. Si diresse un po’
abbacchiato a prepararsi un tè un
cucina.
Mentre
aspettava che l’acqua bollisse salì in camera per
prendere dei vestiti puliti e
sentì il rumore della doccia nel corridoio. Sorrise
d’istinto: allora c’era. Si
cambiò in fretta e tornò al piano di sotto.
La
teiera (non la sua preferita - aveva sentito bene, la sera prima: i
cocci se ne
stavano ammucchiati tristemente accanto ai fornelli) aveva appena preso
a
fischiare quando lo sentì scendere gli scalini ed entrare in
soggiorno.
Era
vestito in modo stranamente trascurato considerando i suoi standard.
I
pantaloni avevano la piega storta, le scarpe erano state allacciate di
fretta e
la camicia era sbottonata per metà. Si reggeva la testa
avvolta nell’asciugamano
con entrambi le mani, e fu solo quando se lo fu tolto dagli occhi che
si
accorse di lui.
Si
fissarono per alcuni lunghissimi momenti.
“Ho
preparato del tè-”
“Credevo
fosse la signora Hudson-”
John
ridacchiò.
“Nah,
è una bugia. Sapevi che ero io. Sai distinguere
perfettamente le singole
camminate”.
Sherlock
strinse l’asciugamano con entrambe le mani, guardandolo con
aria forzatamente
calma.
“Corretto.
Lo sapevo”. Mosse piano la bocca in una smorfia che non era
un sorriso, quanto
un palese sforzo di non esternare emozioni. “Non sapevo se
crederci, però”.
“Non
hai fede in me, Sherlock?” ritorse con tono sarcastico John,
voltandosi per
versare il tè nelle loro tazze.
Non
si accorse mai quanto si fossero irrigiditi i suoi lineamenti al suono
di
quella frase.
*
“Io
non sarei tornato”.
Erano
in un taxi, diretti verso una destinazione sconosciuta al dottore
– un contatto
che Sherlock trovava utile per risolvere il caso.
John,
che fino a quel momento aveva guardato fuori dal finestrino, si volse
verso di
lui con espressione sorpresa.
“Cosa?”
Sherlock
non lo guardava.
“Io
non sarei tornato” ripeté, più
lentamente, e John aveva l’impressione che
pronunciare quella frase gli costasse tantissimo. “Non
credevo che tu l’avresti
fatto”.
“Io
non sono te”.
“Lo
so”.
“Grazie
a Dio”.
Sorrise,
sperando di farlo sorridere a sua volta, ma fallì. La
mascella di Sherlock era
talmente contratta che sembrava non l’avrebbe lasciato
sorridere mai più.
John
sospirò e si mise a fissare le proprie mani congiunte.
“Ti
sbagli” disse, annuendo fra sé e sé.
Sherlock posò subito lo sguardo su di lui
e John sorrise nuovamente: per attirare la sua attenzione nulla era
più
efficace che dirgli che era in torto. “Saresti tornato. Forse
avresti fatto
passare un po’ più di tempo, ma saresti tornato a
casa, prima o poi”.
Sherlock
rimase in silenzio, sprofondando nel bavero del proprio cappotto.
“Come
fai a saperlo?” chiese, e a John la sua voce parve quasi
esitante.
“Ho
fede in te, Sherlock”.
Si
guardarono. A volte le sue espressioni assumevano una dolcezza di cui
nessuno –
tranne lui, e di questo John ne era sicuro - si accorgeva. Sherlock
stesso per
primo. Erano languide, e spesso pensose, quasi tristi.
Bellissime,
pensò, e un po’
se ne vergognò. Non era certo quello il momento di cedere a
riflessioni così
frivole, non con Sherlock che incredibilmente sembrava non sapere cosa
rispondergli.
“Cosa
si dice in questi casi?” disse infine lui, dopo aver
schiarito la voce e essersi
sistemato ancora più strettamente la sciarpa intorno al
collo, “Grazie?”
“No.
Scusa”.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo.
“Scusa,
sono stato un povero stronzo. Ti ho detto cose che non
pensavo”. John cercò il
suo sguardo e Sherlock lo incontrò con molta riluttanza.
“Al che io
risponderei: fa niente, Sherlock. So come sei fatto. Vorrei soltanto
sapere quale
tipo di esplosione nucleare sia scoppiata in quel cervello sopraffino per partorire una scena
madre che nemmeno
Cleopatra”.
“Mamma
mi diceva sempre che avrei dovuto fare l’attore”
ribattè Sherlock in tono
neutro, ma John si accorse che era leggermente arrossito.
“Mycroft era verde d’invidia”.
John
ridacchiò e Sherlock, finalmente, alzò un timido
angolo di labbra a sua volta.
“È
vero. Sei un ruffiano incredibile, e un contaballe pazzesco, e un
imitatore
formidabile”. Abbassò la voce. “Ma non
ti illudere di fare fesso me. Non so cosa
ti sia preso ieri sera, ma avrei comunque gradito una spiegazione al
posto
della tua performance da tragedia greca”.
“Non
serve più una spiegazione” rispose evasivo il
detective, chiedendo al taxista
di fermarsi davanti a una casetta dall’aria pulita e
ordinaria in fondo alla
via. John assunse un’espressione confusa e un po’
irritata.
“Ah
no?”
“No”.
Sherlock scese dal taxi e infilò la testa
nell’abitacolo per gettargli uno
sguardo intenso e un po’ lucido. “Perché
stamattina sei tornato”.
Poi
gli sbatté la portiera in faccia.
Note
dell’autrice:
non
so come ringraziarvi del feedback incredibilmente positivo che questa
storia
sta avendo. Davvero, non me l’aspettavo e mi fa felice in una
maniera che voi
non avete idea. :D
Grazie
ancora e spero che la storia continui a piacervi :*
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Capitolo 5 *** Volée ***
Sherlock
suonò il campanello. John si schiarì la gola,
dondolandosi sui talloni.
“Quindi…
Stiamo andando da un contatto”.
Il
detective fece un piccolo sorriso di sufficienza, curandosi di
mantenere con la
maniglia in ottone della porta il contatto visivo ben saldo.
“Sì”.
“Che
genere di contatto?”
Si
sentì uno scalpiccìo di passi dietro la porta.
Sherlock allargò il proprio
sorriso.
“Ho
bisogno della consulenza di un esperto” sussurrò
chinandosi lentamente verso di
lui.
John
assunse un’espressione sarcastica.
Stavano
entrambi fissando lo stucco bianco dello stipite con estremo interesse.
“Tu
che chiedi una consulenza? Scomodandoti pure?... Sì,
certo”. Emise un grugnito
scettico. “Come no”.
“Non
sono ferrato nel campo e non mi interessa esserlo”
ribatté il detective in tono
annoiato, togliendosi i guanti con grazia sbrigativa. “Sono
informazioni
inutili che dimenticherò subito dopo aver risolto il
caso”.
“Quale
campo?”
“Quello
con una rete in mezzo”.
“Ah,
allora Mycroft aveva ragione… Dovevi essere proprio una
schiappa”.
Ridacchiò.
Gli sembrò quasi di aver sentito il rumore dei denti di
Sherlock che
digrignavano l’uno contro l’altro.
“John-”
“Sherlock Holmes! Oh, che magnifica
sorpresa!”
John
riuscì a cogliere il supersonico mutamento
d’espressione dell’amico, che aveva
riprogrammato i lineamenti da “tesi e infastiditi” a “rilassati e
affabili”: l’effetto che ne era derivato era
comico a dir poco e lui quasi rise in faccia all’entusiasta
signora di mezza
età che aveva avviluppato Sherlock in un abbraccio
soffocante.
“Signora
Murray, lieto di- Ugh”.
John
sigillò le labbra in una strettissima linea di puro
autocontrollo, alzò lo
sguardo alle nuvole e attese, la pancia che gli doleva.
La
signora Murray era bassa e rotondetta, ed era vestita in un chiassoso
vestito a
fiori rosa su sfondo nero che era stato accuratamente abbinato a un
trucco
abbondante (sulle sfumature del lilla) e a una permanente (rosso fuoco,
fresca
di parrucchiere). Sembrava avere tutta l’intenzione di
separare Sherlock in due
all’altezza della vita con la forza delle sue braccia; il
detective si era
fatto pallido in volto e tentava, delicato ma fermo, di staccarsi le
sue mani
di dosso.
“Non
mi aspettavo una sua visita! Oh caro, caro Sherlock Holmes!”
profferì
gioiosamente la signora, con il volto ancora nascosto nella sua
sciarpa. Sherlock,
sconvolto da tanto contatto fisico indesiderato, riuscì
finalmente a sgusciare
via e per un attimo John ebbe l’impressione che volesse
cercare riparo dietro
di lui come un bambino.
“Signora
Mur-” ritentò ancora, cercando di darsi un
contegno, ma la donna gli stava
gentilmente schiaffeggiando una guancia con aria soddisfatta e lo
interruppe di
nuovo.
“Oh,
finalmente un po’ di carne, qui, che alto alto e distinto
com’è lei era un
peccato far precipitare questi begli zigomi nel vuoto”.
John
emise un verso a metà fra un singhiozzo di risa sguaiate e
un rantolo e si
affrettò subito a guardare in terra. Sherlock gli
rifilò un’occhiata di fuoco.
“Signora
Murray” proruppe con un tono che sperava essere fermo a
sufficienza, “le
presento il dottor John Watson”. Si lasciò
sfuggire un sorriso di malcelata soddisfazione:
l’amico era rimasto avviluppato nella sua stessa trappola, e
stava venendo sommerso
di entusiastici “Lieta! Onoratissima! Gli amici di Sherlock
Holmes sono anche
amici miei!”
“Buongiorno,
buongiorno” le sorrise intimorito John staccandosi
nervosamente da lei.
La
signora Murray fece un passo indietro (entrambi tirarono un sospiro di
sollievo) e se ne stette sulla porta ad osservarli come fossero un bel
quadro.
“Oh,
che meraviglia”. Si sfregò le mani, contenta come
una bambina. “Entrate,
entrate! Lasciate che vi offra un bicchierino di sherry e qualche
biscottino”.
Gli fece strada con calore. “Maggie è in casa,
sarà felicissima di poterla
salutare!”
Sherlock
sorrise con quella che a John parve pura, atarassica rassegnazione e la
seguì
all’interno. Il dottore lo seguì un po’
frastornato.
*
John
aprì e richiuse le palpebre con lentezza. Era al terzo
bicchierino (“bicchierino”:
boccale, semmai) di sherry ed erano
solo le undici del mattino. Cominciava a vederci un po’
annebbiato.
Erano
seduti in un assurdo salotto ricoperto ovunque di pannelli di tek e
incisioni
di stelle alpine, terribilmente simile a che un alpeggio senza mucche:
c’era
persino una collezione di tegami di rame in bella mostra sotto a un
orologio a
cucù.
Se
lui si sentiva fuori posto, lì, sprofondato in un
allucinante divano color
salmone a parlare in toni vivaci di politica con la signora Murray,
beh, non
osava immaginare cosa stesse provando Sherlock in quel momento.
Si
voltò a fissarlo: era annoiato e a disagio, ma sembrava non
voler arrivare al
punto di quella visita. Ogni persona normale si sarebbe fermata a
scambiare due
chiacchiere di cortesia prima di chiedere un favore – ma
Sherlock? Quando mai
si era piegato alle inutili e fastidiose convenzioni sociali?
“Sua
figlia come si sta comportando?” lo sentì invece
domandare educatamente, col
tono un po’ incerto di chi probabilmente pronunciava quelle
parole per la prima
volta in vita sua.
La
signora Murray rivolse entrambe le mani al cielo come a suggerire che
per il
comportamento di sua figlia c’era solo da chiedere un
miracolo a Dio.
“Ah,
non me ne parli! Sempre chiusa in camera sua a pianificare
chissà quali
diavolerie. Tra l’insegnamento e i suoi strambi hobby a
malapena la vedo ai
pasti”. Afferrò con gratitudine un braccio di
Sherlock e ci affondò dentro la
french manicure fino a seppellirla nella
manica del cappotto. “Ma da quando ce l’ha
riportata” sussurrò, gli occhi
lucidi e la voce commossa, “è un’altra
vita, signor Holmes! Un’altra vita!”
Sherlock
annuì fingendo empatia meglio che poteva e si
alzò d’improvviso in piedi,
mettendosi a camminare in tondo per quel terrificante salotto.
“Pensa
che potrei vederla e, diciamo, chiederle
un’informazione?”
La
signora Murray scattò in piedi a propria volta e a quel
punto anche John, per sport,
si allineò ritto di fianco al suo amico, sentendosi allegro
e barcollante.
“Ma
non è che può, deve!” Diede loro le spalle e fece strada per
le scale che conducevano al piano di sopra, gesticolando animatamente.
“È il
minimo! Il minimo! Sarà contentissima di aiutarla”.
Di
nuovo, quel sorriso fiacco e un po’ rassegnato. John era
sempre più confuso.
“Ma
che succede, Sherlock?” chiese strascicando un po’
la voce.
“La
signora Murray è una mia ex-cliente”
iniziò lui sottovoce e palesemente
controvoglia, prima di interrompersi e guardare John con occhi che
avrebbero
forato i diamanti. “Ma per l’amor di Dio, tu sei
ubriaco!”
John
fece un cenno di diniego così convinto che la testa prese a
girargli e dovette
appoggiargli una mano sulla spalla.
“No”
gorgogliò.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo.
“Ci
mancavi solo tu” mugugnò, riprendendo a salire le
scale. “Dicevo” la sua voce
ora tremava di esasperazione contenuta a stento, “ho dato
loro una mano a
ritrovare la ragazzina quando è scappata di casa, un paio di
anni fa”.
“E
tu ti saresti occupato di una cosa così
ordinaria?” domandò John, incredulo.
Sherlock
ringraziò la signora Murray che li stava vigorosamente
spingendo verso una
porta chiusa e attese che lei avesse ridisceso le scale per
rispondergli.
“Vedrai
che non c’è niente di ordinario in lei”
disse, sibillino.
John
annuì più confuso di prima. Quasi
barcollò di nuovo quando vide che Sherlock
stava bussando e schiarendosi la voce, invece di entrare a tutta
velocità
facendosi svolazzare scenograficamente dietro il cappotto come suo
solito.
Da
dietro la superficie di legno scuro rispose uno stereo acceso a volume
molto
alto e una voce acuta che li invitava ad entrare.
*
La
stanza non era una stanza, si disse John entrando. No,
quell’accumulo di libri,
vestiti, pacchetti vuoti di sigarette e cd dai quali spuntavano
timidamente un
letto e un tavolo non si poteva davvero definire stanza. Tana, forse. O
magazzino. O enorme casino,
più
propriamente.
La
lampada sopra la scrivania era stata oscurata buttandoci sopra una
camicia da
notte a fiori, per cui John, nella penombra, non riuscì a
identificare
chiaramente la figura accucciata per terra davanti a quella che
sembrava
un’enorme voliera: vide che era rotondetta anche lei, e che
portava i capelli
castano scuro lunghi fino alla vita, e che le sue unghie erano smaltate
di uno
scioccante giallo fosforescente - ma a parte questo non
riuscì a distinguere
altro.
Dallo
stereo poggiato precariamente sul comodino si spandeva una canzone che
era
stata una delle sue preferite all’università, e
John prese a battere il ritmo
con il piede, non sapendo bene che cos’altro fare. Sherlock
se ne stava
immobile di fianco a lui: fissava la ragazza con sguardo se possibile
ancora
più penetrante e clinico del solito.
I’ve travelled to a mystical time zone
And I missed my bed
And I soon came home
“Le
risparmio di sforzare gli occhi con questa poca luce, signor
Holmes” disse la
ragazza in quella sua voce eterea e acuta che aveva usato poco prima
per
invitarli ad entrare, “niente bende sui polsi, niente segni
sul collo, e se sta
cercando un possibile nascondiglio per una mia eventuale riserva di
medicinali
sta sprecando il suo tempo. Non c’é”.
Alzò lo sguardo su di loro e sorrise.
A
John ricordò subito Sherlock perché quella
dimostrazione di falsa affabilità
non le era arrivata agli occhi.
Si
pulì le piccole mani con cui aveva trafficato nella voliera
sui pantaloni della
tuta. Aveva delle dita straordinariamente affusolate, e un viso tondo e
pallido
da bambola pesantemente truccato. Quell’apparenza delicata
nascondeva però
atteggiamenti ben poco morbidi, come John ebbe subito modo di notare.
“Come
se poi le mie scelte personali riguardassero lei o miei genitori - che
hanno
deciso di approfittare di nuovo delle sue qualità, mi
sbaglio? O è qui in visita
di dispiacere, lei e il suo amico amante degli Smiths?”
John
sollevò lo sguardo per incontrare quello della ragazza,
sentendosi chiamato in
causa. Era scuro e pacato, eppure – proprio come quel suo
tono di voce leggero
e frivolo – stranamente minaccioso.
Sherlock
persisteva a rimanere in silenzio.
They say there’s too much caffeine
In your bloodstream
And a lack of real spice in your life
I said leave me alone
‘Cause
I’m alright
“Tua
madre non ha offerto nessun incarico e io, di conseguenza, non ho
accettato
niente” disse infine con lentezza. Lei lo guardò
con aria di scherno.
“Sono
commossa dalla vostra fiducia”.
Sherlock
assunse un’espressione illeggibile che sembrava voler
mascherare qualcosa
successo fra i due di cui John non era a conoscenza.
Stava
per dire qualcosa, qualunque scemenza per rompere
quell’imbarazzante silenzio
quando una cosa non bene
identificata
urtò la sua caviglia a gran velocità facendolo
sobbalzare.
“Cos-”
La
ragazza alzò gli occhi al cielo e trasse quello che sembrava
un sospiro colmo di
rimprovero. John fece un piccolo saltello di sorpresa quando
sentì il qualcosa cominciare
a prendere compulsivamente a beccate la punta della sua scarpa.
“Oh,
Lou, grazie a Dio sei rispuntato fuori” commentò
con leggerezza lei, quasi come
stesse parlando del tempo e non di un maledetto
qualcosa con becco e artigli che si era appena avvinghiato al
suo piede.
“Questo passatempo stava cominciando a diventare
stressante”.
“Passatempo?!”
urlò John, abbassandosi per tentare di acchiappare quello
che doveva essere un
animale non meglio identificato. Lou colse l’occasione giusta
per tentare di
staccargli un dito con una beccata e sfrecciare in volo fino
all’altra parte
della stanza, raspando e rimbalzando a più riprese contro il
muro e invertendo
obbligatoriamente la rotta verso la porta.
Vide
che persino Sherlock era rimasto un po’ turbato
dall’immagine di uno splendido
esemplare di ara macao che svolazzava in giro a tutta
velocità lanciando urla
belluine.
“Ma
che accidenti-”
La
ragazza si chinò a prendere da un mucchio di vestiti quello
che doveva essere
un cappotto e li scostò gentilmente dal proprio cammino,
prima di gettare
l’indumento addosso al volatile impazzito e bloccarlo a terra.
Restarono
tutti e tre per un attimo a fissare il cappotto sobbalzare furiosamente
in un
angolo.
“Non
potevo tenere accesa la lampada grande perché
un’illuminazione eccessiva
amplifica l’effetto paranoide della cocaina”
spiegò a bassa voce lei con
estrema semplicità. “Lou si era messo a sbattere
ovunque, iper-eccitato, e mi
stava venendo il mal di testa”.
John
inorridì; Sherlock annuì fra sé e
sé, pensieroso.
“Come,
prego? Hai… somministrato della cocaina a
quell’uccello?!”
La
ragazza si chinò ad afferrare cappotto e pappagallo in un
tutt’uno e si diresse
verso la voliera con aria pratica.
“Una
soluzione ultradiluita in acqua, meno dello 0,07 per cento. Ma ha avuto
comunque un’ottima risposta per essere
così-”
“HAI
DATO DELLA COCAINA A UN PAPPAGALLO? MA CHE COSA TI DICE LA
TESTA?!”
“Qualche
dato in più rispetto ai test di Schroff e Von
Anrepp?”
John
si volse esterrefatto verso l’amico, che fece spallucce, come
se avesse appena
chiesto semplicemente un bicchiere d’acqua.
“Sherlock,
ti sembra il caso di incoraggiare simili-”
La
ragazza fece un piccolo, soddisfatto sorriso.
“Niente
di particolarmente significativo. I volatili avvertono sonnolenza
più tardi di
rane e conigli, a quanto pare, e un uso prolungato della sostanza
provoca
paralisi temporanea e difficoltà nel volo. Inoltre sono
più sensibili ad
infarti e a crisi di soffocamento da stress”. Fece toc toc
con un dito su una
delle sbarre della voliera, dentro la quale Lou si agitava ancora, e
sbuffò.
“Ci sarebbe qualche robetta da aggiornare, ma non ho
voglia”.
“…Robetta”
fece eco John, stupefatto. Sherlock annuì ancora.
“Capisco”.
Le si avvicinò di un passo, con delicatezza, come se stesse
camminando su vetri
rotti. “Visto che sembri considerarla una visita di
dispiacere, vorrei esporti
subito il motivo per cui sono qui in modo da ottimizzare il tempo di
entrambi”.
“Una
proposta intelligente” rispose lei con voce annoiata.
Rialzò lo sguardo: John
si stupì ancora di quanto sembrasse innocua,
quasi… tenera, eppure fosse in
grado di emanare un senso di durezza che nemmeno il più
disilluso degli adulti
che aveva conosciuto sembrava avere in sé. “Ma da
un uomo come lei, come
sarebbe possibile aspettarsi di meno?”
Quelle
parole aspre e sibilate fecero irrigidire Sherlock, che alzò
lo sguardo al
soffitto.
“Grazie”,
disse infine, riabbassando la testa e facendo un cenno nella sua
direzione,
“Magdalena”.
“Non
ho detto che la aiuterò” sputò lei,
secca.
“Oh,
non ancora”. Sherlock sorrise come un gatto che, dopo vari
frustranti
tentativi, abbia finalmente messo le sue zampe sulla crema.
“Ma lo farai
presto”.
Calò
un silenzio tesissimo e pesante.
John
si schiarì la voce, dondolandosi sui talloni. La ragazza
volse lentamente lo
sguardo verso di lui e prese a fissarlo con attenzione.
“Oh,
ma che maleducata” disse in tono lento ed insinuante,
“non mi sono presentata
al suo collega”. Si alzò in piedi e gli tese una
mano minuscola e pallida.
“Magdalena Murray”.
Il
dottore sembrò esitare e considerare quell’arto
teso con perizia.
“Non
si preoccupi, tengo la voliera molto pulita e la sterilizzo
spesso” lo rassicurò
lei con il sorriso più sincero che avesse mostrato fino a
quel momento.
“Bisogna essere cauti con i soggetti degli
esperimenti”.
John
si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito e le strinse la mano
con molta meno
diffidenza di prima.
“Dillo
a lui” sussurrò facendo un cenno con la testa
verso Sherlock; il quale,
stranamente, non si mise a fissarlo torvo come faceva di solito quando
lui lo
prendeva in giro, ma sorrise. Magdalena ridacchiò.
“John Watson. Sarei ancora
più lieto di conoscerti se non avessi appena ammesso di aver
drogato un animale
innocente - e averlo fatto a fini scientifici non ti
giustifica”.
La
ragazza sospiro e tornò a picchiettare col dito sulla
voliera: Lou ruzzolava e
raspava ossessivamente su e giù per i trespoli posti a varie
altezze nella
gabbia.
“Almeno
qualcuno in questa stanza si sta annoiando un po’ meno,
adesso” sussurrò con
aria quasi invidiosa.
John
era sempre più inquietato dall’aumentare dei suoi
atteggiamenti che gli ricordavano
Sherlock.
“Magdalena
insegna fisica quantistica” disse il detective senza alcuna
inclinazione
particolare nella voce, come se avesse appena spiegato che alla ragazza
piaceva
molto il rosa. John strabuzzò gli occhi: quando la signora
Murray aveva
nominato l’insegnamento, lui aveva pensato che si riferisse a
sé stessa. “E ha
una passione sviscerata che potrebbe tornarci molto utile”.
“Cosa,
gli Smiths?” ribatté il dottore, sarcastico,
pensando che fosse tutto un grande
scherzo. La ragazza fece un sorrisetto, tolse la camicia da notte dalla
lampada
e andò a spalancare le persiane.
La
luce invase la stanza e John capì.
*
“Non
vi offro niente da bere perchè immagino che mia madre vi
abbia tormentato
abbastanza, su questo punto. E lei, dottore, se posso permettermi, mi
sembra
già un po’… svagato”.
John
arrossì e abbassò lo sguardo a terra,
sottraendosi agli occhi sbeffeggiatori
della ragazza.
“Gradiremmo
arrivare al punto” fece Sherlock sedendosi sul letto. Lei,
raggomitolata contro
il cuscino poggiato sulla testiera, si raccolse le gambe al petto per
evitare
di toccarlo.
“Non
serve incombermi fisicamente addosso” sibilò
arrabbiata. Sherlock alzò un
sopracciglio.
“Ah
no? Bene”. Si rialzò, sistemandosi le pieghe dei
pantaloni. “Immagino avrai
saputo di Christine Howard”.
John
si chiese come diavolo facesse a non saperlo una che aveva ricoperto i
muri, le
ante degli armadi e quant’altro di poster e ritagli di
giornali a sfondo
tennistico. Era persino un po’ inquietante; più
che una passione, sembrava una
mania.
Magdalena
alzò gli occhi al cielo.
“E
io immagino che lei si stia occupando del caso”. Fece una
smorfia spazientita.
“Abbiamo finito con le affermazioni pleonastiche?”
Guardare
due individui affetti con molta probabilità da sindrome di
Asperger era quasi
divertente, pensò John. Non sarebbe stato male metter su un
giro di scommesse
su chi avrebbe infine umiliato intellettualmente l’altro.
Ora
capiva perché Sherlock aveva usato quei modi di riguardo e
si era trattenuto
dallo sbottare sia con lei che con la madre: Magdalena gli piaceva
perché era
simile a lui. Era un po’ di sana competizione. Certo, non era
Moriarty o
qualche brilliante serial killer, ma in quel momento non doveva starsi
annoiando come al solito.
E,
se John non aveva letto male il linguaggio del suo viso, ci doveva
essere un
altro motivo di carattere più personale per averlo reso
così docile nei suoi
confronti.
“In
che cosa ci può aiutare una fanat- una grande appassionata
di tennis?” chiese
John al detective, correggendosi frettolosamente. Sherlock
tamburellò le dita
sul proprio cappotto, gli occhi fissi nei suoi: era la prima volta che
gli
rivolgeva quello sguardo da “comportati bene”. Di
solito le cose funzionavano
all’inverso.
“Christine
Howard ha problemi di fiducia e di socialità ma i suoi
limiti finiscono qui. È
perfettamente in grado di parlare, ma è terrorizzata
dall’idea di essere
scoperta dal suo rapitore (che lei pensa possa ascoltarla sempre) e
punita –
questo rapitore deve averla minacciata di qualcosa. E sua sorella ha
torto: non
ha un carattere fragile. Una ragazzina di diciotto anni che vince una
delle
competizioni sportive più importanti del mondo non ha un
carattere fragile. E
infatti ha parlato lo stesso, solo” spiegò nel suo
usuale ritmo sostenuto,
prima di fare una pausa ad effetto, “che l’ha fatto
in codice”.
Magdalena
annuì in assenso, gli occhi fissi sul detective e le
sopracciglia aggrottate.
John assunse l’espressione di chi ha appena avuto
un’illuminazione.
“Io
avevo pensato al numero di una cassaforte, o a delle coordinate.
Persino alla
sua data di nascita”. Rivolse un sorriso ammirato a Sherlock.
“E invece… Ma
certo. Ha usato il codice che le è più
famigliare. Ovvio. Geniale, Sherlock, io
mi ci sarei rotto il capo per giorni su quella cifra”.
Gli
occhi del detective si illuminarono come facevano ogni volta che il
dottore si
complimentava con lui.
“Era
abbastanza intuitivo, John” ribatté con tono
severo, ma il suo sguardo rimase
morbido.
Magdalena
scrutò attentamente entrambi e sorrise con aria lupesca
prima di inserirsi nel
discorso.
“È
possibile sapere di che cosa si tratta o volete che vi ceda il letto ed
esca?”
chiese con la sua migliore voce ingenua e trillante.
John
sobbalzò e aprì bocca per ribattere, Sherlock
scosse la testa e lo precedette:
“Vorrei
che mi dicessi tutto quello che di saliente è successo nel
mondo del tennis nel
1993, o in alternativa se esiste una tecnica che porta quel nome, o una
marca
di racchette o palline o divise, o qualsiasi cosa ti sembri collegato
in
qualche modo a Christine Howard”.
Magdalena
lo ascoltò con attenzione, annuì e si mise a
gambe incrociate.
“Tenterò
di restringere il campo. Nessuna tecnica, nessuna marca, nessuna
denominazione
alternativa che contenga quelle cifre. Si tratta di un torneo, di un
giocatore,
di un allenatore… Dunque, vediamo…”
Chiuse gli occhi. “Wimbledon: Pete Sampras
e Steffi Graf; U.S. Open: Pete Sampras e Steffi Graf ; Australian Open:
Jim
Courier e Monica Seles; Roland Garros: Sergi Bruguera e Steffi Graf
– no, niente
di utile, tsk, fatti i singolari passiamo ai doppi, no, no, no, non
c’entra…
Vediamo il ranking mondiale…” Prese a
mordicchiarsi le unghie, due rughe
parallele di concentrazione ben visibili sulla fronte chiara. John la
guardava
esterrefatto; Sherlock sembrava incoraggiarla non interrompendo nemmeno
per un
secondo il contatto visivo con lei. “Le date delle finali, i
compensi degli
sponsor, il totale in premi dei finalisti agli slam e dei vincitori, i
numeri
u- Ma certo”.
Battè entrambi le mani
sul copriletto, trionfante. “Ma certo, come ho fatto a non
pensarci. E si sta
pure parlando di Christine Howard. Come ho fatto a non arrivarci
prima”.
“Ci
hai messo” John controllò
il suo
orologio da polso con lo stesso tono laconico che adoperava spesso
anche con
un’altra persona, “un minuto e mezzo”.
“Speso
a smistare informazioni inutili” rettificò lei
puntandogli addosso l’indice
teso. “Ergo sprecato”.
“Di
che si tratta?” la incalzò Sherlock dopo aver
rivolto un sorrisino di
compatimento a John.
Magdalena
fece schioccare la lingua, come a suggerire che l’argomento
non le piaceva, e
cominciò a parlare.
“Nel
1993 si assiste a una delle rivalità tennistiche
più appassionanti di sempre, e
per quanto straordinaria, è appena iniziata. Monica Seles
contro Steffi Graf.
Steffi Graf è l’attuale numero uno del mondo e ha
già vinto diversi tornei del
Grande Slam; Monica è giovanissima, ha esattamente
l’età della Howard, ma le
strappa un titolo dopo l’altro fino a toglierle il vertice
della classifica. Il
tifo da entrambe le parti è accesissimo, la sfida
è appassionante, ma a
qualcuno tutto questo dà alla testa”. La ragazza
volse lo sguardo verso uno dei
tanti poster appesi sopra il suo letto. John lo riconobbe subito:
raffigurava
la stessa tennista di quello della camera di Christine Howard, una
donna alta e
bruna in completo bianco intenta a servire. “Durante i quarti
del torneo di
Amburgo, il 30 aprile 1993, un fan impazzito della Graf di nome Gunter
Parche
scavalca le tribune e accoltella la Seles in campo”.
Magdalena scosse la testa
e proseguì. “La ferita non è grave
– la lama affonda di un centimetro e mezzo
vicino alla spalla sinistra – ma lo shock psicologico
è enorme. La Seles
abbandona il professionismo per due anni e perde la supremazia.
Vincerà ancora
qualche titolo, ma non tornerà mai nella forma che aveva
durante il suo periodo
d’oro e Steffi Graff uscirà ampiamente vincitrice
dal loro scontro privato”.
“Cosa
c’entra tutto questo con la Howard?” chiede John,
giungendo le mani in grembo.
“Gli
stili di Christine Howard e della Seles sono molto simili.
Accelerazione
impressionante, grande tenuta nervosa, e inoltre entrambe giocano il
diritto e
il rovescio a due mani”. Magdalena mimò entrambe
le mosse con grande slancio
atletico e John le sorrise. Sembrava trasfigurarsi in una persona
più luminosa
e felice quando parlava della sua passione. “Ma penso che
quello che l’abbia
spinta a considerare la Seles il suo idolo sia la precocità.
Hanno cominciato entrambe
a vincere giovanissime. Christine Howard si identifica totalmente con
lei, è
una cosa che le ha sempre dato forza”.
“Continuo
a non capire” ribatté John. Sherlock congiunse le
punte delle dita davanti al
viso e socchiuse gli occhi.
Magdalena
lo guardò alzando un sopracciglio, compiaciuta.
“I
giornali dicevano che i rapitori non hanno voluto un riscatto,
né in forma di
soldi né in quella di favori… Il motivo
dev’essere per forza un altro”. Sorrise.
“Vuole un aiutino, signor Holmes?”
Il
detective si irrigidì d’un tratto, ma fu solo un
secondo; un attimo dopo le sue
spalle si erano già rilassate e lui si era alzato per
prendere il cappotto.
“Non
offendere la tua intelligenza insinuando che io non ci sia arrivato
nell’esatto
momento in cui hai nominato l’incidente, Magdalena”
le disse in tono quasi
paterno, come se le stesse dando un buffetto verbale. La ragazza
sbuffò.
“Lei
non dà mai nessuna soddisfazione”.
John
si alzò in piedi con un sospiro rassegnato.
“Qualcuno
si scomoderebbe ad illuminare un povero mortale?...”
“Per
strada, John” lo rabbonì Sherlock stringendosi la
sciarpa intorno al viso. “Mi
sei stata molto utile” disse poi porgendo la mano destra alla
ragazza.
Lei
gli fece una smorfia divertita ma non fece alcun segno di voler
ricambiare.
“C’erano
dubbi?” rispose secca, poi allungò la mano a John.
Il
dottore guardò prima lei, poi Sherlock, ma questi aveva
appena girato sui
tacchi con una scrollata di spalle che trasudava finta indifferenza e
si era
diretto fuori dalla porta.
“Ecco
la mente più brillante d’Inghilterra che fa i
capricci” commentò la ragazza, un
ghigno soddisfatto sulle labbra. John le strinse la mano volutamente un
po’ più
forte di come faceva di solito con le donne; lei emise un verso di
interessata
sorpresa. “Oh, scusi, scusi, non intendevo riportare il suo
dio personale sul
piano umano attribuendogli un difetto – uno dei
più innocui che ha, tra l’altro.
Mi spiace molto se l’ho ferita”.
John
decise di ignorarla.
“E
quale sarebbe, questo difetto?”
Magdalena
fece finta di pensarci su.
“L’infantilismo?
Il narcisismo? La permalosità?...”
“Sembri
conoscerlo molto bene” disse calmo John.
Lei
ritirò la mano dalla stretta e gli diede le spalle per
tornare a rivolgersi
alla voliera. Il pappagallo sembrava essersi un po’ placato:
si dondolava
pigramente da uno dei trespoli, a testa in giù.
“Di
certo più di quanto avrei desiderato”. Fece toc
toc sulle sbarre. “Oh, non in
quel senso, non si preoccupi… Sherlock Holmes
sarà pure un sociopatico e
un’ex-drogato, ma di certo non è un pederasta. E a
quanto ne so io le donne non
gli interessano nemmeno”. Il disco degli Smiths era finito da
un pezzo e lei si
diresse al comodino per rimetterlo daccapo. “Arrivederci,
dottor Watson”.
E,
sulla stessa canzone del loro ingresso in quella camera, John
seguì il suo
amico giù per scale, curandosi di chiudere dietro di
sé la porta e quella
strana ragazzina.
And people who are uglier than you and I
They take what they need
And just leave
Note
dell’autrice:
mi
scuso per il ritardo nell’aggiornamento, ma gli esami
incombono e il gatto ha
avuto il raffreddore e gli alieni sono atterrati nel mio cortile e- la
morale è
che sono discontinua di natura. Terribilmente discontinua. Mi dispiace
ç_ç
Urgono
alcune precisazioni:
1.
Ho
alzato il rating della storia per la menzione della droga e del suo
deprecabile
uso su un pappagallo. Ora, non penso assolutamente che sia necessario
ribadirlo, ma non si sa mai: quello descritto qua sopra è
fondamentalmente
maltrattamento animale e, seppure descritto in toni comici, il mio
giudizio su
tali pratiche è totalmente negativo. Lo so, mi sento stupida
persino a dirla, una cosa
così ovvia, ma è un
argomento che mi sta molto a cuore ed è purtroppo una storia
vera, che avevo
letto in rete un po’ di tempo fa.
2. Schroff
e Von Anrepp sono due degli scienziati che per primi hanno fatto
ricerca sull’effetto
delle droghe sugli animali, citati nel saggio “Sulla
cocaina” di Sigmund Freud.
Li ho scelti a caso fra gli altri perché mi piacevano i nomi
:3
3. La
storia di Steffi Graf e Monica Seles è vera, purtroppo (di
nuovo).
4. La
canzone degli Smiths in questione si chiama “A Rush And A
Push And The Land Is
Ours”, ed è bellissima <3
5. A
chi interessasse fare un po’ di chiarezza nel monologo di
Maggie: i tornei da
lei citati sono le quattro principali competizioni tennistiche
internazionali e
sono detti “slam” (Wimbledon si gioca
sull’erba, gli U.S. Open e gli Australian
Open sul cemento, il Roland Garros sulla terra rossa): chi li vince
tutti e
quattro nello stesso anno solare fa il cosiddetto “Grande
Slam”. La coppia di
nomi che segue sono rispettivamente il vincitore e la vincitrice dei
tornei
singolari (perché poi ci sono anche i tornei del doppio, ma
ve li ho
risparmiati XD) del 1993. Ringraziamo Wikipedia per avere degli annali
tennistici
così bene organizzati <3
6. La
sfidante di Monica Seles a quei tragici quarti di finale di Amburgo si
chiamava
Magdalena Maleeva; Andy Murray è, invece, un tennista
britannico (che tra l’altro
nel momento in cui scrivo ha appena vinto il suo primo slam –
bravo, Andy <3).
Dall’unione di questi due è nata quel
discutibile personaggio che è Maggie :D
7. Queste
note dell’autore sono quasi più lunghe del
capitolo stesso. Siete autorizzati a
tirarmi i pomodori.
Ringrazio
ancora tantissimo tutti quelli che seguono, preferiscono, commentano o
semplicemente leggono. Fate palpitare il mio cuoricino di gioia *-*
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Capitolo 6 *** Veronica ***
“Interessante
ragazza.”
Sherlock
sorrise freddamente e si rinfilò i guanti con estrema cura.
John strinse le
labbra fra loro, continuando a fissarlo per sollecitare una risposta,
ma il
detective sembrava aver esaurito le cose da dire.
“Beh,”
riprovò John, gettando uno sguardo distratto fuori dal
finestrino, “ci ha
fornito informazioni utili, mi pare di capire. Qualche idea?”
“Quattro”
rispose subito Sherlock. Sembrò rifletterci su.
“Cinque.”
“Potrei
saperne almeno una? Così, per simpatia?”
“Io
non sono simpatico.”
Il
taxista prese un dosso a una velocità che il dottore
giudicò a dir poco
illegale e lui si ritrovò a mugolare di dolore quando un
gomito puntuto di
Sherlock gli affondò nel fianco.
“Ahia.”
sussurrò, infastidito. Il detective sorrise con aria felina.
“Male?”
“Sì!”
“Bene.
Leccati le ferite in silenzio.” Congiunse le lunghe dita
pallide da avati a sé e
ci appoggiò contro la linea dura delle labbra. “Io
devo pensare.”
“Sai,
la signorina Murray doveva darti qualche rispostaccia in
più. Te le saresti
meritate tutte” sbottò John, seccato dal mutismo
condiscendente dell’amico.
Sherlock
non si disturbò nemmeno a replicare con qualcosa di
tagliente.
*
Lestrade
li aspettava davanti a casa Howard, finalmente tranquilla e liberata
dall’assedio
dei giornalisti.
“Spero
che si tratti di qualcosa di importante.” mugugnò
l’ispettore aprendo loro la
portiera.
Sherlock
lo guardò con aria esterrefatta, come se Lestrade,
sottintendendo con la sua
frase che qualcosa più importante di un caso semplicemente esistesse, lo avesse ferito a morte.
“Certo
che è importante” rispose, basito.
L’ispettore scosse la testa e gli fece segno
di avviarsi verso l’ingresso della casa.
John
gli diede una solidale pacca sulla spalle.
“Lascialo
stare” disse, rassegnato.
“Brutta
giornata?”
“A
quanto pare non va pazzo per i teenager.”
“Ma
dai. Incredibile.” Si incamminarono fianco a fianco lungo il
vialetto di
ghiaia, che scricchiolò sotto le loro scarpe. Il cielo era
piatto e grigio come
una lastra di marmo e il freddo mordeva attraverso i vestiti.
“Magari gli
lascio uno dei miei ragazzi per un pomeriggio, allora. Che so,
così lo può portare
al cinema-”
“-e
là ucciderlo.”
“E
nascondere il corpo.”
“E
poi chiamare la polizia, e dire che il film era noioso a livelli criminali.”
Sherlock
chiese loro con aria stizzita se avessero intenzione di ritornare
all’asilo,
dopo aver finito di sghignazzare come due irritanti mocciosi.
“Scusa,
nonna.” fece contrito John, suscitando un altro accesso di
risa nell’ispettore.
Le
sopracciglia di Sherlock schizzarono in alto fino
all’attaccatura dei capelli.
“Nonna?”
“Sì.
Non sai chi siano i Beatles, proprio come mia nonna.”
Sherlock
alzò gli occhi al cielo, con l’aria di chi volesse
dire “ancora queste
stupidaggini”. Lestrade lasciò che la mascella gli
precipitasse a terra senza
nemmeno provare a trattenerla.
“Come non sai chi sono i Beatles?!”
chiese, con un acuto finale che sconfinava nell’isteria.
Sherlock gli lanciò
uno sguardo persino più sprezzante del solito e
suonò il campanello.
“Banali.
Noiosi. Infantili. Testi da studentelli e musica per
ragazzine.”
“Allora
lo sai chi sono!”
John
prese il braccio dell’ispettore.
“Greg,
forse è meglio fermarci qui-”
“Ero
felicemente ignorante fino a due settimane fa, quando John mi ha
inflitto l’ascolto
di qualcosa di stucchevolmente allegro che parlava di un sergente e del
pepe, o
qualche altro condimento – sinceramente non mi-”
“Sergeant
Pepper’s” disse in tono pieno di pathos Lestrade,
come se avesse appena
pronunciato il nome di una sacra reliquia. “Tu,” gli
puntò l’indice contro, “su
Sergeant Pepper’s tieni chiusa la bocca.”
Era
così serio che a John mise paura.
“To’,
sento arrivare la signorina Howard. In ritardo, come tutte le donne che
non
sanno darsi un tono in altro modo.” Sherlock finse un tono
deliziato, ma il
dottore notò che deglutiva con irritazione al solo pensiero
di vederla di nuovo.
“Peccato dover interrompere questa interessante dissertazione
sulla musica
popolare…”
“Non
è musica popolare, sono i Beatles!”
“…Ma
ci sono cose più importanti di cui occuparci!”
John
decise che era giunto il momento di separarli fisicamente. Lestrade
aveva quasi
la bava alla bocca. Tutti a Scotland Yard sapevano della sua patologica
ossessione per i Fab Four – teneva incorniciata una foto
fatta ad Abbey Road,
in posa sul classico attraversamento pedonale, vicino a quella dei
propri figli
– tutti tranne ovviamente Sherlock, che considerava le
passioni degli esseri
umani interessanti quanto un singolo respiro di Anderson.
“Greg-”
“Tu
non sei normale!”
Sherlock
alzò un sopracciglio in un modo che voleva dire
“lo scopri ora?” e
fortunatamente, in quel momento, la porta si aprì.
*
Dire
che Pamela Howard fosse infelice di rivedere Sherlock era un pesante
eufemismo.
“Lei”
dichiarò in un borbottìo ostile. Il detective
allargò le braccia.
“Io. Ho
portato degli amici. É qua la festa, no?”
“Che
cosa vuole?” sibilò la donna, assottigliando gli
occhi.
“Dimostrare
quanto ancora una volta la scientifica si sia rivelata incompetente e
fastidiosamente ottusa. Ma se mi offre un tè, non dico certo
di no.”
John
si prese la radice del naso fra due dita e scosse la testa. Lestrade
fece l’unica
cosa utile e mostrò il distintivo.
“Ci
siamo visti un paio di giorni fa,” tentò,
affabile. Pamela lo squadrò con un’occhiata
diffidente.
“Voi
potete entrare, se volete. Per poco.” Rivolse uno sguardo
disgustato al
detective – sì, John decise che era proprio
disgusto quello con cui fissava
Sherlock, e sentì l’irrazionale impulso di urlarle
contro – e strinse le
labbra in una piega ferrea. “Lui no.”
Sherlock
fece allegramente spallucce. La sua espressione nauseata non sembrava
affliggerlo
minimamente.
“Bene,
divertitevi. Solo, sia gentile, porti i miei saluti a sua sorella; le
chieda anche
per quanto altro tempo ha intenzione di rimanere chiusa in casa per
sfuggire a
un rapitore che non la lascerà mai vivere in pace
fintantochè sarà libero. Le
dica, per conoscenza, che io so cosa le ha fatto e ho tutta
l’intenzione di
consegnarlo alla giustizia, ma che sono bloccato alla porta da una
mediocre
tennista di secondo livello e non posso parlarle di persona. Ah,
un’ultima
cosa: che straordinaria sequela di ace, in quel secondo set! Mai vista
una cosa
simile! I suoi genitori devono essere così fieri
di lei…”
Sherlock
pronunciò il suo monologo con estrema calma, e grandissima
soddisfazione. Gli
brillavano gli occhi – era quasi indecente il modo in cui
gioiva nel praticare
il suo personalissimo sport preferito: umiliare chi lo infastidiva.
John si
sentì avvampare di imbarazzo. Lestrade era senza parole.
Pamela
lo fissava con occhi lucidi di schifo, come si fisserebbe un ragno
ributtante e
molto velenoso.
“Lei
mi fa ribrezzo” dichiarò infine, la mano che
tremava sulla maniglia della porta,
la voce colma di rabbia. “È un mostro, e dovrebbe
farsi curare.”
Il
detective alzò gli occhi al cielo.
“Sì,
sì, sì. Basta con questi stupidi
convenevoli.” Sherlock si chinò fino a
sfiorarle la fronte con la propria. “Sua sorella non
è stata restituita illesa
come pensa. Non le interessa sapere cosa le hanno fatto? Chi
è stato? Come
fermarlo?” Si rialzò, considerandola
dall’alto in basso con un’occhiata gelida.
“Allora mi lasci entrare. Me ne andrò il
più velocemente possibile.”
Pamela
si morse forte le labbra, ma chinò il capo e li
lasciò passare. John notò che
aveva le lacrime agli occhi.
“Sherlock”
sibilò minaccioso, stringendo con energia il braccio
dell’amico mentre salivano
le scale, “ti avverto, se non la smetti con le tue sevizie
psicologiche…”
“Non
è nemmeno lontanamente brava quanto la sorella. Chi
è che ha vinto Wimbledon
delle due?” rispose monocorde lui, avendo almeno la decenza
di tener basso il
tono di voce. “Se qualcuno glielo avesse fatto notare quando
era bambina, non
avrebbe intrapreso la carriera sbagliata.”
“Tu
non sei nessuno per somministrarle le tue perle di saggezza. E
comunque, queste
cose si dicono in un altro modo.”
Sherlock
irrigidì i lineamenti fino a trasformarsi in una maschera di
pietra.
“C’è
un solo modo di dire la verità” disse secco,
“e se tu lo imparassi, il modus
narrandi che adoperi nel tuo blog migliorerebbe di gran
lunga.”
Divincolò
il braccio ed entrò nella camera di Christine prima che John
avesse modo di
terminare il discorso.
*
Christine
Howard era pallida e reticente al contatto umano come la prima volta
che l’avevano
vista. Li guardava spaventata e diffidente dal letto, sepolta nel
sempiterno
mucchio di coperte, lanciando uno sguardo di turbata confusione alla
sorella in
cerca di chiarimenti.
“Chris,
tesoro, hanno novità sul tuo rapitore” fece Pamela
in tono materno, sedendosi
di fianco a lei sul piumone. Le accarezzò con tenerezza la
frangia. “È questione
di un attimo.”
Christine
annuì nervosamente.
Sherlock
fece un passo in avanti.
“Christine,
ora io, il dottor Watson e l’ispettore Lestrade usciamo dalla
stanza. Te lo
prometto.” Le lanciò il suo miglior tentativo di
occhiata rassicurante: mise
persino le mani avanti, per tranquillizzarla. John lo osservava
curioso. “Però
tu ora,” riprese lentamente il detective, attento,
“devi toglierti la maglia e
mostrare a tua sorella dove ti hanno ferita con quel
coltello-”
Christine
lanciò un urlo strozzato e prese a scuotere ciecamente la
testa, in preda a un
attacco di panico. John fece un passo in avanti e tentò di
immobilizzarla per
evitare che si facesse del male. Pamela Howard e Lestrade osservavano
raggelati
la scena.
“Coltello?!”
chiese infine la sorella con gli occhi grandi per l’orrore.
“Dove? Che le hanno
fatto? Non aveva nessun segno addosso!”
“Perché
il rapitore ha calcolato bene i tempi” rispose in fretta
Sherlock, osservando
con sollievo come John fosse riuscito a calmare la ragazzina e le
stesse
sentendo il polso. “Si tratta di una ferita piccola, veloce a
rimarginarsi, fatta
in modo preciso, con uno scopo.” Aspettò ancora
qualche secondo per
avvicinarsi, quando vide che Christine aveva riposato la schiena contro
i
cuscini e aveva ripreso a respirare regolarmente. “Scopo
raggiunto, a quanto
pare.”
“Che
scopo?” urlò quasi Pamela, correndo a lato della
sorella, come se volesse
proteggerla dal detective. Sherlock si bloccò istintivamente
e fece un passo
indietro di fronte all’occhiata minacciosa della donna. John
notò che il labbro
inferiore gli era tremato per un attimo.
“Non
sia sciocca, Sherlock è l’unico a sapere
dov’è la ferita.” Il dottore si
stupì
di quanto la sua voce suonasse dura e accusatoria. Stava cominciando a
stancarsi del modo in cui Pamela Howard trattava il detective, come se
fosse un
lebbroso. Sevizie psicologiche o meno, non gli importava
d’improvviso più
niente. “Vieni, Sherlock. Christine, riesci a farci vedere
questo taglio? Si
tratta di un secondo.”
Il
suo tono gentile e premuroso sembrò convincere sia Sherlock,
che si inginocchiò
di fianco al letto, sia Christine, che diede loro le spalle con
un’espressione
vergognosa e sofferente.
“Si
sente soltanto” sussurrò, la voce roca. Poi prese
una mano di Sherlock e la
infilò sotto la maglia, facendola risalire fino a sotto la
scapola sinistra. Il
detective, sorpreso in un primo momento da quel gesto, si riprese
subito e
passò delicatamente due dita sul punto indicatogli.
Sospirò.
John
lo guardò con aspettativa.
“Posso
farla vedere anche a lui? È un dottore,” chiese
Sherlock con quella che
sembrava una strana forma di riverenza. Christine rivolse a John
un’occhiata
quasi imbarazzata e annuì. John sollevò la maglia.
Non
c’era niente.
“Qui”,
indicò Sherlock. John passò a sua volta due dita
su quella porzione di pelle e
trasalì. C’era una cicatrice –
invisibile, frutto di una rimarginazione
perfetta, ma c’era.
Christine
teneva la testa china in modo che i capelli le coprissero la faccia.
Pamela le
strinse forte una mano e lei la divincolò bruscamente,
umiliata.
“È
l’unica che ti ha fatto, vero?” domandò
piano Sherlock, come se stesse
maneggiando del vetro fragilissimo con la propria voce. "Un
mese fa, appena sei
stata rapita.”
Christine
annuì facendo dondolare tutto il corpo.
“John,
riesci a dirmi qualcosa?” chiese brusco Sherlock. In un
angolo, Lestrade
tentava di calmare Pamela, che sembrava sotto shock.
“Ferita
da arma da taglio, rimarginata con aiuto medico. Pulita, nessuna
infezione.
Vecchia di… Sì” rispose, annuendo in
direzione dell’amico. “Approssimativamente
trenta giorni.”
“Quanto
profonda?”
John
rimase in silenzio il tempo necessario per tornare ad analizzare la
ferita.
“Direi
un centimetro, forse un centimetro e mezzo.”
Christine
si lasciò sfuggire un singhiozzo.
“Andiamo”
stabilì Sherlock, alzandosi di scatto. “Si tratta
di intimidazione. Portata a
buon fine, direi. La stessa esatta posizione e la stessa esatta
profondità
della ferita inflitta a Monica Seles. Il messaggio è
semplice: torna pure in
campo, non servirà a nulla, farai la fine del tuo idolo:
fuori gioco, e
sconfitta. Certo, se mai ti riprenderai abbastanza da riuscire a
tornarci, in
campo. Lestrade, io qui ho finito.” disse, e dopo un breve,
indecifrabile
sguardo a Pamela Howard uscì di corsa dalla stanza.
John
rassicurò ancora con qualche parola la giovane,
salutò educatamente l’ispettore
e la sorella, e lo seguì con altrettanta velocità.
*
“Quindi
è per questo che non hanno chiesto un riscatto. Ai rapitori
non interessano i
soldi. Interessa soltanto che-”
“-che
Christine Howard smetta di giocare, sì.”
confermò Sherlock agitando una mano
per attirare l’attenzione di un taxi. “Trauma
psicologico inferto senza quasi
lasciare segno. Niente maltrattamenti, niente denutrizione,
probabilmente non le
hanno neanche parlato per tutte quel mese – lei di sicuro non
l’ha fatto: ha le
corde vocali fuori esercizio – no, nulla di nulla, solo un
minuscolo taglietto,
probabilmente fatto piano, affondando la lama poco a poco, per farle
sentire,
per farle capire, e poi pomate
cicatrizzanti, punti minuscoli… Non rimane nessun segno. Ma
in realtà rimane”,
si battè forte due dita contro la fronte, “qui. Su
qualsiasi altra persona l’effetto
non sarebbe stato così devastante, ma Christine Howard era
particolarmente
sensibile in quel punto… La paura di essere destinata a non
riprendersi mai più…
come il suo idolo, come quella con cui si identifica completamente. Una
carriera brillante stroncata in giovane età. Due fati
identici.” Sorrise in
quella sua maniera un po’ maniacale, selvaggia. “Un
lavoro di fino. Ingegnoso,
ingegnoso.”
Salirono
sul taxi, entrambi frementi per la scoperta appena fatta.
“Ma
quindi,” cominciò John, febbrile, “se
non è per i soldi… se non è per
ottenere
qualche favore…
“…È
una faccenda personale.” Sherlock gli rivolse uno dei sorrisi
raggianti che
custodiva per quei rari momenti in cui John gli sembrava
intellettualmente
inestimabile. “Sentimenti, quelle cose
lì.” Scosse una mano in aria come se
volesse scacciare una mosca fastidiosa. “Ah, sono una rovina,
l’ho sempre
pensato.” Gli si fece più vicino, chianando il
volto verso il suo e prendendo a
gesticolare infervorato. “Torna da Magdalena e chiedile tutto
quello che sa
sulle rivali della Howard, profili psicologici, età,
reddito, cognome da nubile
della madre, quell’infernale ragazzina conosce anche le cose
più morbosamente
inutili. Domandale anche quanto era profonda la ferita di Monica
Seles.”
John
sbattè confuso le palpebre.
“Ma
hai detto proprio tu che era-”
Sherlock
sbuffò, infastidito.
“L’ho
dedotto. Era logico, ma ho bisogno di sapere se è vero.
Questo tizio fa le cose
con cura: è spietato.”
“Povera
ragazza” commentò John, riportando alla mente
l’immagine della crisi di panico
di Christine. Sherlock guardava fuori dal finestrino e sembrava non
ascoltarlo,
ma al dottore parve di vederlo annuire impercettibilmente.
“Tu dove vai ora?”
Il
detective tirò fuori il cellulare dalla tasca e sorrise
lupesco.
“Vado
a fare visita al mio diletto fratello.”
“Cosa?
Mycroft? E perché?”
“Ho
un’idea che potrebbe rivelarsi corretta.”
Digitò svelto un messaggio, eccitato.
“Anzi, ne ho un paio.”
Note
dell’autrice:
mi
prostro fino a terra per scusarmi per il ritardo, e spero che questo
capitolo
vi sia piaciuto. <3
P.S. Ho appena riletto il capitolo postato, e ho trovato una quantità di refusi francamente imbarazzante: chiedo venia, ma sto scrivendo senza l'aiuto di un beta, perciò soffro molto durante le autocorrezioni ç_ç
|
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Capitolo 7 *** Lob ***
John
prese un bel respiro, indugiando più del necessario prima di
scendere dal taxi.
“Signore?”
L’autista
lo guardava confuso dallo specchietto retrovisore.
“Tutto
a posto?”
John
gli sorrise stancamente.
“Sì,
sì, scusi. Ero sovrappensiero.” Gli
allungò i soldi sopra la leva del cambio.
“Grazie. Arrivederci.”
“Buona
giornata.”
Non
fece quasi in tempo a mettere piede fuori che sentì un forte
sfrigolare di
freni; un momento dopo, era steso a terra, con di fianco a lui una bici
i cui
pedali continuavano pigramente a girare.
“Ouch.”
Provò
ad alzarsi, i gomiti che gli dolevano, le ginocchia indolenzite, ma
qualcosa
gli impediva di muoversi.
O
meglio, qualcuno.
“Ahia.”
John
trovò la forza di ridacchiare.
“Sono
contento che la pensiamo alla stessa maniera.”
Avvertì
che il suo assalitore si tirava faticosamente in piedi, imprecando a
bassa
voce.
“Non
so come scusarmi,” sentì balbettare,
“sono un maledetto imbranato, maledizione,
e poi si chiedono perché non ho il coraggio di prendere la
patente della
macchina…”
John
accettò la mano che gli veniva porta e incontrò
due occhi verdi pieni di
vergogna.
“Beh,
sì, se fosse stato in macchina, immagino che ora sarei
morto.” Rise.
Il
ragazzo davanti a lui fece un sorriso tirato e lo tirò su.
Era sulla ventina,
con un naso ridicolmente lungo e sottile, e una zazzera di capelli
rossi in
testa. Indossava un parka e una camicia a quadri, e, nonostante
l’avesse quasi
azzoppato, John trovò che avesse un’aria simpatica.
“Mi
dispiace davvero” ripetè, desolato. John
agitò una mano in aria.
“Tranquillo.
Capita.” Lo aiutò a rimettere in piedi la bici.
Era incredibilmente pesante, a
causa di una valigetta legata malamente al portapacchi che, a giudicare
da
quanto tiravano le cinghie, doveva essere piena a dismisura.
Sorrise,
incuriosito. Era molto simile alla sua ventiquattrore da ambulatorio.
Un
giovane collega, forse?
“Medico?”
chiese.
“Le
ho fatto così male?” Il ragazzo fece una smorfia
furba, che ridispose l’ordine
delle lentiggini sulle sue guance. “Non credevo.”
Gli tese una mano.
John
rise e gliela strinse.
“John
Watson.”
“Stewart
Coxon. E no, non sono un medico. Cioè, almeno, non per gli
esseri umani.”
John
capì dall’accento che era scozzese come lui. La
simpatia nei suoi confronti
aumentò esponenzialmente.
“Aaah,
capito. Sei uno di quei privilegiati che curano esseri incapaci di
contestarti
le ricette.” Sospirò al ricordo delle
innumererevoli discussioni sostenute con
persone che credevano di meritare una laurea in medicina molto
più di lui. “Beato
te.”
Stewart
rise una risata leggermente stridula, contagiosa.
“Mah,
non saprei.” Si arrotolò una manica del parka per
mostrargli una serie di tagli
paralleli proprio sopra il polso. “Quanti dei suoi pazienti
fanno dei graffi
così quando si infastidiscono?”
John
strabuzzò gli occhi.
“Bontà
di Dio.” Si chinò per osservare meglio i tagli,
che sembravano recenti. “Quale
bestia lascia dei segni del genere?”
Stewart
si ricoprì il braccio con un’espressione di
infantile orgoglio sul viso. John
sospirò interiormente: era così giovane. Pensava
ancora che le ferite fossero
qualcosa da esibire per impressionare.
“Un’iguana”
disse il ragazzo con una luce eccitata negli occhi. John sorrise.
“Mi
sembravano un po’ troppo grosse per essere un regalo del
micio di casa.”
“Un
lucertolone di più di dieci chili. La padrone era
un’imbecille di prim’ordine,
non sapeva nemmeno dargli da mangiare nel modo corretto.” Il
suo sguardo si
adombrò. “Mi ha fatto pena, quella povera
bestia.”
E
dire che la “povera bestia” aveva rischiato di
strappargli una mano con una
semplice zampata. Quel ragazzo aveva decisamente la vocazione.
“Beh,
Stewart, è stato un piacere conoscerti.” Si
scambiarono una breve, calorosa
stretta di mano. “Buona fortuna per la tua
carriera.”
“Arrivederci.”
Ed
entrambi mossero un passo verso casa di Maggie.
Si
guardarono stupiti.
“Ah-”
“Anche
tu-”
“Sì.”
“Ah.”
John
si schiarì la voce.
“Sei
qui per il pappagallo?”
Gli
sembrò di sentire un debole sospiro provenire dal ragazzo,
ma l’altro teneva la
testa bassa e non riuscì a capire bene.
“Sì”
rispose sconsolato. “Sono qui per il pappagallo.”
Sembrò accorgersi del tono
eccessivamente tragico con cui aveva pronunciato la frase, e
arrossì.
John
sorrise sotto i baffi. Allora esisteva qualcun altro al mondo con un
debole per
le persone irritanti, sociopatiche e al limite del genio. Non era
l’unico
pazzo.
“E
lei? È amico dei genitori di Maggie?”
“No.”
Sono un amico della ragazza era
un’affermazione falsa e rischiosa. Decise di mediare.
“Sono… un conoscente che
ha bisogno di un favore.”
Stewart
aggrottò le sopracciglia e si incupì. Il suo tono
divenne leggermente
aggressivo.
“Che
cosa vuole da lei?”
Calma
i bollenti
spiriti, Romeo,
pensò divertito John.
“Una
consulenza sportiva.” Si affrettò a spiegarsi:
Stewart sembrava un ragazzo
gentile, ma in quel momento aveva un aspetto a dir poco minaccioso.
“Lavoro
assieme a un investigatore privato, che sta indagando su un caso nel
mondo del
tennis. Magdalena è molto ferrata sull’argomento e
noi non lo siamo. Ci sta
gentilmente dando una mano.”
Stewart
alzò un sopracciglio, pieno di diffidenza.
“Gentilmente?”
John
sentì un moto di istintivo affetto verso di lui. Dio solo
sapeva quanto avevano
in comune, e non pensava solo all’ascendenza scozzese.
“Ci
sta dando una mano, punto.” rispose con un sorriso affabile.
Stewart sembrò
convincersi e rilassò i lineamenti.
“Questo
suo amico” chiese con fare curioso, “è
per caso Sherlock Holmes?”
John
annuì, stupito.
“Sì.
Come fai a saperlo?”
Il
ragazzo si rabbuiò.
“È
quello che l’ha riportata a casa quando è
scappata. Cioè l’unica altra persona
con cui Maggie abbia avuto contatti un minimo ravvicinati negli ultimi
due
anni.”
“L’unica
altra persona a parte te?”
Stewart
fece un altro sospiro, che gli fece intendere quanto per lui i contatti
non
fossero mai stati ravvicinati a sufficienza.
“Sì.”
Stette in silenzio per un attimo, lanciando uno sguardo malinconico
alla porta
della casa davanti a loro. Quando si rivoltò verso di lui,
però, sorrideva di
nuovo. “Mi faccia un favore, può?”
“Certamente.”
“Lo
ringrazi da parte mia. Questo suo amico. Per quello che ha
fatto.”
Per
distoglierlo dall’imbarazzo che gli aveva nuovamente
arrossato le guance, John
gli propose di andare a suonare il campanello.
*
Dopo
essere stati braccati da un’euforica signora Murray per tutto
il tragitto porta
d’ingresso-piano superiore (“Stu, ragazzo mio, ti
sei fatto così bello! Così bello!
Vero, dottore? Oh, dovrebbe
capirlo anche quell’altra lassù!”), John
e Stewart riuscirono ad arrivare
incolumi (e miracolosamente sobri) davanti alla camera di Maggie.
“Quella
donna sarà la mia morte” boccheggiò
Stewart, togliendosi con il dorso di una
mano i segni di rossetto che la madre di Maggie gli aveva lasciato
sulle
guance. “Mi mette ogni volta in situazioni di un imbarazzo
mostruoso.”
John
ridacchiò, ma poi si ritrovò a pensare a quelle
dannate candele che Angelo si
ostinava ancora a mettere sul tavolo suo e di Sherlock e
d’improvviso non si
sentì più nella posizione di prenderlo in giro.
“Sì,
ho presente la sensazione,” borbottò.
Da
dietro la porta si sentiva della musica ovattata.
Heifer whines, could be human
cries
Closer comes the screaming knife
This beautiful creature must die
“Questa
ragazza ha la passione degli Smiths, vero?”
commentò John bussando alla porta.
Rivolse uno sguardo sorpreso a Stewart: si era illuminato come la
decorazione
di un albero di Natale.
“Eh?
Ah, sì. Ascolta solo loro. E la messa da requiem di
Mozart,” commentò il
ragazzo affastellando una parola sull’altra, un sorriso
vagamente imbecille
sulle labbra. John aggrottò le sopracciglia: suonava tutto
abbastanza
deprimente, perché aveva l’aria così
felice mentre gli diceva quelle cose?
Oh.
Ma certo.
“Gliel’hai
regalato tu il disco, eh?” commentò divertito.
Stewart arrossì per quella che
sembrò la centesima volta da quando lo conosceva.
“Avanti.”
Entrarono.
A death for no reason
And death for no reason is murder
*
La
camera aveva ancora l’aspetto di un piccolo villaggio
distrutto da un tornado,
ma almeno il pappagallo se ne stava calmo e disintossicato al sicuro
nella sua
gabbia.
Magdalena
era seduta sul letto con un mucchio di fogli protocollo in grembo;
brandiva una
penna rossa, con la quale li stava metodicamente e selvaggiamente
riempiendo di
segnacci.
“Imbecille,
ameba, cretino, cretino, cretino di proporzioni bibliche, decerebrato,
idiota…”
mormorava come un mantra, gettando via via la propria opera di
vandalismo sul
pavimento.
Come
l’altra volta, le finestre erano chiuse e nella stanza vi era
poca luce, perciò
John non se ne accorse subito. Stewart aveva evidentemente
l’occhio più
allenato del suo.
“Cazzo…”
fu l’incredulo borbottìo del ragazzo.
“Maggie, che accidenti hai fatto ai
capelli?”
Lei
alzò la testa con un movimento scocciato.
“Eh?”
John
aprì e chiuse la bocca, basito. Stewart era nelle sue stesse
condizioni:
boccheggiava come un pesce.
Magdalena
li guardò con aria annoiata e sbuffò.
“Oh,
quante scene per un po’ di-”
“Hai
i capelli bianchi! Ridicolmente corti, e bianchi!”
Lei
assottigliò gli occhi, passandosi istintivamente una mano
nella corta zazzera
di capelli candidi che aveva effettivamente sostituito la lunga chioma
castana.
“E
allora?” sbottò, aggressiva – troppo
aggressiva, notò John.
“E
allora sembri un marine in pensione!”
John
ebbe l’impressione che lei avesse letteralmente nitrito di rabbia.
“Come,
scusa?”
“Ehm,
buongiorno. Di nuovo.” si intromise incerto John, cercando di
sedare la faida
sul nascere.
Inutile
dire che venne bellamente ignorato.
“Se
avevi voglia di tingerti, non potevi farlo di un colore cristiano come
tutto il
resto degli esseri umani?!”
“Vai
a dire queste cose al tuo stupido pappagallo, vedrai che forse
così otterrai
qualche effetto!”
“Che
diavolo ti è preso?”
“Mi
annoiavo!”
“Beh,
vai a correre, la prossima volta!”
“Vaffanculo!”
John
si prese la radice del naso fra indice e pollice. Perfetto. Oltre a
dover
gestire ogni giorno un bambino di sei anni travestito da consulente
investigativo, ora gli toccava pure il battibecco adolescenziale fra
uno
spilungone scozzese sfregiato da un’iguana e una diciottenne
esperta di fisica
quantistica che sembrava Tempesta degli X-Men.
“Okay,
basta.” cominciò in tono ragionevole, i nervi che
cominciavano a cedergli.
“Isterica!
Sei un’isterica! E non mi interessa se hai quasi vinto un
premio Nobel!”
“Ho
detto: vai a parlare con il pappagallo! Così ti confronti
con un cervello
simile al tuo!”
“Ti
avverto, Maggie, se scopro che l’hai usato per qualche altro
esperimento, io ti
denuncio e poi ti-“
“E
poi cosa?!”
“BASTA!”
I
due smisero subito di urlare e si voltarono a guardarlo
all’unisono,
stupefatti. John digrignò i denti e prese un lungo respiro.
“Scannatevi
pure quanto vi pare, non mi interessa. Voglio soltanto parlare con lei
un
secondo” indicò sbrigativamente Maggie con un dito
accusatore, occhieggiandoli
entrambi con il suo miglior cipiglio genitoriale, “e poi
tolgo il disturbo.”
“Okay”
disse piano Stewart, facendo quel che sapeva fare meglio: arrossire.
“Okay”
disse nella sua vocetta acuta Maggie, facendo quel che sapeva fare
meglio:
alzare gli occhi al cielo.
“Bene.”
Rivolse uno sguardo più dolce a Stewart, che era paonazzo.
“Tu e il pappagallo
potete ascoltare, se volete.”
“No,
fa niente.” sussurrò in risposta lui evitando di
guardarlo negli occhi. Sollevò
con cautela la gabbia fra le braccia e si diresse verso la porta.
“Sono al
piano di sotto. Con tua madre.” disse a Maggie in tono
forzatamente neutro.
“Buona
fortuna,” rispose sarcastica lei.
John
lo osservò uscire con le spalle tristemente piegate
all’ingiù, come se la
voliera fra le sue mani pesasse cento chili.
Maggie
si accese una sigaretta. Oltre al colore dei capelli, aveva cambiato
anche
quello delle unghie: ora erano viola melanzana.
“Idiota,”
mormorò a mezza voce, scagliando l’accendino sul
letto. Alzò uno sguardo
scocciato sul dottore: “Non dicevo a lei,
ovviamente.”
John
le lanciò un’occhiata penetrante. La ragazza
fissava il copriletto come se
volesse incenerirlo con la sola forza delle iridi castane.
“Ovviamente”
ripetè, cercando di rimanere conciliante. “Mi
spiace aver disturbato la tua… la
vostra…” gesticolò indeciso,
“insomma, Sherlock ha bisogno di altre
informazioni e mi ha mandato a chiedertele.”
Magdalena
sogghignò.
“Sì,
molto comodo mandare il proprio galoppino a sbrigare la bassa
manovalanza.
D’altronde, è un uomo così
impegnato…”
Spense la sigaretta in una tazza che sembrava essere sul quel comodino
da
giorni. “Tra una crisi d’astinenza e
l’altra non deve riuscire neanche a
ritagliarsi un buco nell’agenda. Ha!” Sorrise, ma
non era affatto un sorriso.
Era qualcosa di vagamente spaventoso. “Buco. Interessante
scelta lessicale.”
John
Watson era un dottore: aveva la pazienza e il distacco emotivo nel
sangue. Ma,
come aveva già ricordato a qualcun altro, aveva le sue
giornate no.
“Sentimi
bene, ragazzina,” sibilò avvicinandosi di un passo
al letto, “se sei incazzata
perché hai litigato con il tuo fidanzatino e hai bisogno di
qualcuno contro cui
sfogarti, hai sbagliato persona. Segui il suo consiglio e vai a
correre, perché
non tollererò un’altra mancanza di rispetto da
parte tua, né nei miei confronti,
né in quelli di Sherlock.” Le puntò un
dito contro e si sorprese nel vedere che
stava tremando: era veramente fuori di sé. Sentiva il sangue
rombargli nelle
orecchie. “È chiaro?”
Magdalena
irrigidì le spalle e si strinse le mani in grembo. La sua
faccia rimase senza
espressione, un viso immobile di bambola che sembrava vecchio di
cent’anni a
causa del colore dei capelli e della fissità dello sguardo;
ma John era
diventato un esperto a leggere oltre quelle che sembravano
dimostrazioni di
spassionata indifferenza.
“Mi
può ripetere, cortesemente, il suo ruolo nella vita di
Sherlock Holmes?”
chiese, la voce ferma ma stranamente meccanica, iper-controllata. John
abbassò
il dito e strinse le mani a pugno lungo i fianchi.
“Collega.”
E piantala, Watson. “Amico,”
aggiunse, e c’era una spiccata fierezza nella sua voce.
Magdalena
annuì sovrappensiero.
“Capisco,”
disse fra sé e sé. “Beh, siete una
coppia bene assortita.”
“Grazie,”
rispose automaticamente John. Sembrò accorgersene a scoppio
ritardato. “Un
momento, noi non siamo-”
Magdalena
lo interruppe con un gesto svelto della mano.
“Diceva
di ulteriori informazioni. Vada avanti. La ascolto,” disse, e
sorrise.
Un
sorriso piccolo, incerto, quasi timido, come se non fosse sicura al
cento per
cento di starlo facendo nel modo giusto. Un sorriso che a John
ricordava
qualcuno.
Forse
fu proprio il pensiero di Sherlock a spingerlo a sorriderle a sua volta.
*
Maggie
spense la sua decima sigaretta della giornata nell’esatto
momento in cui John
Watson ebbe finito di spiegarle gli sviluppi della situazione.
“Il
suo amico è sulla pista giusta,”
asserì, lasciandosi andare contro il cuscino.
Lanciò uno sguardo distratto a John, ma pochi secondo dopo
sembrò metterlo bene
a fuoco e scosse la testa. “Ma si sieda, prego. Sposti pure
quello che trova
d’ingombro.”
Il
dottore sollevo cautamente una pila di libri che occupava una sedia
munita di
rotelle e la appoggiò a terra. Notò il titolo del
primo volume del mucchio:
“Anime morte”, di Gogol.
Nientemeno,
si disse
sorridendo fra sé e sé. Magdalena
intercettò la sua espressione.
“Le
piace la letteratura russa?” chiese, evidentemente
sforzandosi di fare della
normale conversazione, cioè una che esulasse da tenniste
pugnalate e pappagalli
sotto l’effetto di droghe illegali.
John
si sedette.
“Dammi
del tu, per favore.” Le sorrise, mostrandole che apprezzava
il tentativo. “Ho
letto qualcosa a scuola, ma non posso dire di considerarmi un
appassionato.”
Accavallò le gambe. “Quindi sei
d’accordo con l’ipotesi di Sherlock?”
Lei
si tirò le gambe al petto e appoggiò il mento
sulle ginocchia.
“Penso
che la mancanza della richiesta di un qualsiasi tipo di riscatto sia
abbastanza
indicativa” rispose, pensierosa. “E, considerando
la scarsa vita sociale della
Howard, trovo appropriato battere la pista delle sue rivali in campo.
Sono gli
unici rapporti personali che possono aver creato delle
inimicizie.”
John
annuì.
“Chi
suggeriresti?”
Magdalena
si morse l’unghia del pollice.
“La
Howard ha sempre dimostrato un’indole timida e remissiva,
completamente opposta
al suo atteggiamento di gioco. Non mi ricordo nessun plateale sgarbo
nei
confronti di chicchessia.” Una pausa. “Certo che
però…”
John
aggrottò un sopracciglio, incuriosito.
“Però
cosa?”
Magdalena
scese dal letto e accese il computer che teneva sulla scrivania. Il
dottore le
si avvicinò trascinandosi sulle rotelle.
“Ricordi
chi era l’avversaria che la Howard ha incontrato in finale a
Wimbledon? Quella
finale che poi ha vinto?” chiese la ragazza, aprendo una
cartella che sembrava
contenere scan di articoli di giornale.
“Certo.
Era Gabriela Sánchez, la numero uno del mondo. Tutti la
davano per favorita.”
Magdalena
gli lanciò un veloce sguardo di apprezzamento per la
risposta. Evidentemente,
non si aspettava che John lo sapesse.
“Esatto.”
Cliccò su uno dei tanti articoli che aveva selezionato.
“Vincitrice di nove
slam, due coppe Davis e una medaglia d’oro olimpica. La
migliore tennista a
livello mondiale dai tempi della Navratilova, prima ovviamente
dell’avvento delle
sorelle Williams. Ha trentatrè anni ed è tuttora
una giocatrice formidabile – beh,
è la numero uno, semplicemente.” Scorse con il
mouse una testata giornalistica
dopo l’altra. I titoli recitavano cose come La
tigre argentina ruggisce ancora, Gabriela
d’oro, Settebello della
Sánchez: è il
suo terzo Roland Garros. “Carattere infernale: la
chiamano la McEnroe in
gonnella. Ha sempre unito un talento incredibile ad un comportamento un
po’… sopra
le righe.” Magdalena fece un sorrisetto
e gli mostrò tutt’altro genere di articoli:
svariati arresti per consumo di
droga, tre fermi per percosse ai danni dei paparazzi, diverse
resistenze a
pubblico ufficiale, guida in stato di ebbrezza. “In sede di
divorzio ha tirato
un pesante fermacarte d’argento contro il suo terzo
ex-marito. La stampa è
impazzita. Cose del tipo: ‘Il celeberrimo servizio della Sánchez
funziona davvero su ogni tipo di
superficie’ e sotto una foto del sangue sulle piastrelle del
tribunale, con il
giudice, gli avvocati e tutti i testimoni attorno al poveretto con in
mano dei
fazzolettini di carta. Gli ha pagato migliaia di sterline di danni
– sette
punti sullo zigomo destro – e ancora oggi dice che se ne
avesse la possibilità
glielo lancerebbe di nuovo, e più forte. Un tipo
spumeggiante.”
John
fece un fischio.
“Hai
capito.” Rivolse uno sguardo perplesso alla ragazza, che
continuava a
smanettare sul pc. “Ma non possiamo metterla fra la lista dei
sospettati solo
perché ha, diciamo… Una tendenza
all’aggressività.”
“Sai
quanta gente finirebbe indagata, altrimenti. La polizia non saprebbe
più che
pesci pigliare.”
“Qualcuno
ti direbbe che la polizia non saprebbe in ogni caso che pesci
pigliare.”
“Sherlock
sarebbe il primo a essere sbattuto dentro. E il secondino di turno nel
chiudere
la sua cella canterebbe di gioia, e subito dopo butterebbe la chiave
nel
proverbiale pozzo.”
John
ridacchiò. Era uno scenario sin troppo facile a immaginarsi.
“Sì,
penso anch’io.” Gettò una breve occhiata
al cellulare: nessun messaggio. A
Sherlock evidentemente non erano fischiate le orecchie. Si
schiarì la voce.
“Tornando a noi.”
“Il
terzo ex-marito della Sánchez è inglese. Un
filosofo.” Magdalena arricciò il
naso, vagamente schifata. “Come la maggior parte dei
cosiddetti intellettuali,
è straordinariamente stupido.”
John
ricordò un pomeriggio in cui Sherlock aveva tirato
giù da uno scaffale
l’Enciclopedia Britannica e si era messo sistematicamente ad
insultare tutte le
più eminenti personalità culturali dalla C in poi.
“Beh,
immagino che-”
“No
no. È veramente senza speranza.” Magdalena si
accese l’ennesima sigaretta. “Tre
anni fa ha scritto un pretenzioso pamphlet sulla fusione fredda
approcciata dal
punto di vista filosofico. Gliel’ho distrutto da cima a
fondo, e avevo ancora
l’acne diffusa.”
“Beh,
sei tu ad essere molto brillante. Il poveretto è nella
media, o solo un filo
più in alto. Non è mica colpa sua se non
è al tuo livello. C’ha provato,” disse
quasi affettuosamente John, appoggiandosi con la schiena alla sedia.
Magdalena
gli lanciò uno sguardo tra lo stupito e il perplesso. Il
dottore le sorrise.
“Neanch’io
sono un genio. Difendo la mia categoria.”
“Hai
la straordinaria capacità di trovarti sempre dalla parte del
giusto. E con estrema
spontaneità,” commentò la ragazza con
aria pensierosa. John arrossì.
“Beh,
grazie-”
“Ad
ogni modo, il nostro paese è talmente assetato di gloria
nazionale da essere
andato letteralmente in visibilio alla prospettiva di guadagnarsi
un’atleta con
un palmarès così.” Magdalena
sogghignò. “Sposando un inglese avrebbe potuto
avere la doppia cittadinanza, e le nostre autorità speravano
che, al momento di
dover scegliere fra l’una e l’altra durante le
competizioni internazionali, la
Sánchez sarebbe passata sotto la nostra
bandiera.” Fece una risatina maligna e aprì un
altro articolo, di cui persino
il titolo aveva toni molto accesi. “Spettacolare
sbaglio.”
Ah
sì. John ricordava. Lo scandalo diplomatico della
Sánchez, che era numero uno
anche allora, e che aveva ardentemente rifiutato di giocare anche solo
cose
come le partite dell’oratorio con i colori inglesi.
“‘Non mi farò annettere come un territorio
conquistato’ è stata la cosa
più civile che ha detto. Il resto sono insulti
spagnoli per la maggior parte incomprensibili”
proseguì Magdalena, scrollando
sempre più giù con il mouse. John era allibito:
aveva un database di
informazioni che la CIA se lo sognava. “Fatto sta che il
Regno Unito ha il
dente avvelenato con lei da allora. Funzionari del corpo medico
sportivo la
sommergono di controlli anti-doping ogni volta che mette piede nella
sua
residenza qui, la polizia la trattiene ore negli aereoporti,
l’anti-droga le
piomba in casa ad orari assurdi per vedere se si fuma ancora gli
spinelli.
Dispettucci del genere.”
John
rise, allibito. Irruzioni nel bel mezzo della notte alla ricerca di
droga che
si sapeva non si sarebbe mai trovata? La cosa gli suonava famigliare.
“Mi
sembra tutto francamente patetico.”
“Lo
è. L’Inghilterra non ha preso bene il rifiuto e
lei non fa niente per smussare
gli angoli. Rilascia conferenze stampa di fuoco.”
“Ok,
va bene, ma ancora non capisco.”
“La
Sánchez non ha perso solo una finale di Wimbledon
– che già è pesante, come
sconfitta. Un mese fa era reduce dall’anno migliore della sua
carriera: oro
alle Olimpiadi, US Open, Roland Garros, Australian
Open…” Rivolse uno sguardo eloquente
al dottore. “Adesso capisci?”
Gli
ingranaggi nel cervello di John presero a girare a più non
posso. Quando ci
arrivò, gli parve che i suoi neuroni si fossero messi a
rintoccare come il Big
Ben.
Si
passò una mano fra i capelli ancora militarmente corti.
“Oh, cazzo.”
“Eh
sì. Oh, cazzo.” Magdalena allargò a
schermo intero l’articolo pubblicato il
giorno dopo la finale. La notizia della scomparsa della Howard non
aveva ancora
fatto in tempo a raggiungere la stampa e non se ne faceva parola; la
prima pagina
mostrava una foto di Christine in ginocchio sull’erba del
campo che piangeva
incredula, e accanto vi era un’altra foto di una donna dalla
carnagione abbronzata
e il fisico magro, ma atletico che esibiva con riluttanza la coppa
della
seconda classificata. “Il Golden Slam. I quattro slam e la
medaglia d’oro
olimpica: nessuno c’è mai riuscito, né
uomo, né donna. Nessuno. La Sánchez era
a un passo dall’entrare nella storia come la più
grande tennista di tutti i
tempi, e chi glielo impedisce? Una ragazzetta che non ha ancora finito
la
scuola ed è a Wimbledon solo grazie a una wild card.
Inglese, per di più.”
Cliccò su un primo piano della sconfitta. Gabriela
Sánchez teneva il mento alto
come una regina, ma aveva il sorriso amaro di chi avesse appena finito
di
succhiare un limone. “Ce n’è abbastanza
per pensare all’omicidio, no?” commentò
Magdalena, alzando un sopracciglio in maniera eloquente.
John
si lasciò andare sullo schienale della sedia e
incrociò le braccia sul petto.
“È
un’accusa pesante,” disse, piano, due rughe di
profonda concentrazione sulla
fronte.
“È
l’unica pista a cui io riesca a pensare.”
“La
interrogheremo.”
“Beh,
in bocca al lupo.” Magdalena si accese l’ennesima
sigaretta. “L’ultimo
giornalista che ha tentato di intervistarla si è preso un
secchio d’acqua in
testa. Portate un ombrello.”
John
fece spallucce. “Siamo a Londra, ed è novembre.
L’avremmo portato in ogni
caso.”
Magdalena
fece un sorrisetto, che non accennò a diminuire nei secondi
successivi. John le
rivolse un’occhiata interrogativa: la ragazza sembrava persa
nei propri
pensieri.
“Che
c’è?” le chiese, incuriosito.
Magdalena
scosse la testa con un’aria che sembrava quasi malinconica.
“Sai,
John, è altamente improbabile che imprese sportive come il
Golden Slam o anche
semplicemente il Grande Slam siano possibili in futuro. Il tennis di
adesso è
profondamente diverso da quello di una volta. La concorrenza
è spietata, il
gioco molto più fisico, veloce, gli standard altissimi. I
primi dieci del mondo
sono tutti candidati plausibili alla vittoria in uno slam; e gli altri
nove
sono sempre dietro a mordere loro le calcagna. Un tempo
c’erano Borg, McEnroe,
Lendl, fine. Il resto era carne da macello – qualcuno
più bravo di altri, sì, ma
non c’era storia con le teste di serie.” Spense la
sigaretta nel posacenere.
“La Sánchez è l’ultima
protagonista del tennis vecchio stampo. Avrebbe potuto
compiere un’impresa epica, mai vista prima, e
un’era si sarebbe chiusa con i
fuochi d’artificio per far posto a una nuova generazione di
tennisti molto
precoci, tutti forti allo stesso livello, potenziatissimi a livello
fisico ma
decisamente poco creativi. Christine Howard ha un gioco completo, ma
è una
delle poche: fidati che le nuove promesse non sono niente a che vedere
con il
genio, il perfezionismo che si vedeva un tempo. Djokovic e la
Sánchez erano gli
ultimi con le carte in regola per sbaragliare ogni record e entrare
nella
leggenda. Tutti e due hanno avuto un anno straordinario, ma non ce
l’hanno
fatta.”
John
sorrise fra sé e sé. Magdalena Murray, una
nostalgica. Chi l’avrebbe mai detto.
“Lo
sport va così. Si vince e si perde, no? Fa parte del
gioco,” replicò,
conciliante.
Magdalena
annuì e chiuse il computer con uno scatto.
“Fa
parte della vita, direi. A proposito, restando sul tema dello sport
come metafora
di qualcosa di più universale… Sai chi
è stata l’unica altra tennista capace di
arrivare così vicino al Golden Slam?”
John
ci pensò una decina di secondi, poi scosse la testa con una
smorfia incredula.
“Non
mi dire- Steffi Graf, vero?”
A
Magdalena si illuminarono gli occhi.
“Corretto.
E indovina chi le mise i bastoni fra le ruote, strappandole le vittoria
allo
stesso identico torneo, ventidue anni fa?”
Questa
volta John non ebbe alcun bisogno di rifletterci su.
“Monica
Seles.”
Magdalena
emise un versetto deliziato di fronte a tanta prontezza.
“La storia si
ripete.”
Il
cellulare di John suonò. Il dottore riuscì quasi
a percepire la rabbia del
mittente dalla veemenza di quegli squilli.
“Sherlock?”
disse, cauto. Magdalena alzò gli occhi al cielo.
“John,
vieni a
casa. Subito.” La
voce del detective era quasi un ringhio.
Il
dottore si sistemò meglio sulla sedia.
“Che
è successo?”
“Mycroft.”
“Mycroft,
cosa?”
“Mycroft, punto. Ho bisogno di un tè.
Vieni a
farmi un tè.”
John
sospirò.
“Come
si dice?” tentò, in un tentativo in extremis di
fare dell’ironia sui modi tirannici
dell’amico.
“Sbrigati?”
“Risposta
sbagliata!” esclamò in un finto tono entusiastico
da presentatore televisivo. “Aspetterai.”
Allargò
gli occhi, stupefatto. Era sicuro che Sherlock avesse appena nitrito di impazienza.
“Smettila
di
essere così puerile, John!”
“Ah
ah. Io, puerile, detto da te. Divertente.”
John
rialzò lo sguardo su Magdalena. Aveva l’aria
mortalmente annoiata: mancava poco
che si mettesse a limarsi le unghie.
Decise
di tagliare corto.
“Senti,
Sherlock-”
“Non
aspetterò
un minuto di più! È un secolo che ti chiedo di
farmi un tè e tu ti ostini a non
ascoltarmi. Rimedia subito e vieni qui.” John
avvertì una potente
ispirazione far sfrigolare la cornetta. “ORA.”
Sentì
le mani cominciare a prudergli.
“Sherlock,
usa il tuo fenomenale intelletto e cerca di seguirmi: non sono a casa
da
stamattina.” Sillabò ogni lettera con cura,
pollice e indice della mano destra uniti
a cerchio a scandire le parole man mano che venivano pronunciate.
Magdalena,
nel mentre, aveva preso a ghignare come una iena. “Come
accidenti avrei potuto
ascoltarti se sono dall’altra parte di Londra, in un posto in
cui oltretutto mi
hai spedito tu?” Si
accorse che
formulata così la frase poteva suonare offensiva e fece un
gesto di scuse in
direzione della ragazza. Lei dismise la sua preoccupazione con uno
svolazzo
frivolo della mano.
La
cornetta gracchiò di nuovo. La principessina stava
sospirando.
“Come
sei
ostico, Dio, John.”
“Vuoi
sapere cosa sei tu?” ribatté aggressivo, sentendo
la pazienza abbandonarlo.
Magdalena
gli mimò con il labiale qualcosa che somigliava a sei incazzato perché stai litigando con
il tuo fidanzatino? e John
le rivolse un’occhiata di fuoco. La ragazza rise con aria
malefica.
“John-”
“No!
John un tubo. Strozzatici con il tuo tè. Torno per
cena.” E gli mise giù il
telefono.
Sentì
un lungo fischio proveniente dalla proprio destra.
“Allora,
la bisbetica è stata domata?”
John
voleva soltanto un minuto da solo per prendere a testate un muro
– o Sherlock,
se solo si fosse reso disponibile – e recuperare un
po’ di pace.
“La
smetti?”
“Perché
mai? È divertente.”
Gli
assomigliava in maniera terribile. Terribile.
“Bene,”
disse, alzandosi in piedi. “Grazie dell’aiuto.
Buona serata.” disse secco,
tendendole una mano in segno di saluto.
Magdalena
gliela strinse.
“Che
fai? Corri da lui?”
“Fatti
gli affari tuoi.”
Lei
non accennava a voler allentare la stretta sulle sue dita.
Il
cellulare emise quel singolo squillo che indicava l’arrivo di
un messaggio.
John lo cavò di nuovo fuori dalla tasca e
digrignò i denti immaginandosi già lo
stizzoso contenuto di quel che stava per leggere.
Che
gran segno
di carattere, sbattermi giù il telefono. Complimenti, John.
SH
John
imprecò ad alta voce.
“Che
dice?” gli arrivò la voce velenosamente curiosa
della ragazza.
“Cosa
c’è di poco chiaro nella frase ‘fatti
gli affari tuoi’?” replicò stizzito il
dottore, digitando veloce una risposta.
Ti
comporti da
viziato e capriccioso e io agisco di conseguenza. E la tua amica, qui,
è
snervante quasi quanto te. Mi sta mandando ai matti. JW
“Nulla.
Ho deciso di ignorare selettivamente quella frase.”
John
le lanciò un’occhiataccia. Il cellulare
vibrò ancora.
Non
è una mia
amica. SH
E
ancora:
Vieni
qui se lei
ti dà tanto noia. SH
“Non
dargli soddisfazione, John. Se non è capace di richiedere in
modo esplicito la
tua compagnia senza esimersi dal trattarti come uno sguattero, non
merita che
tu lo soddisfi. Non trovi?”
John
si interruppe a metà della risposta che stava digitando,
allibito. Magdalena lo
guardava con un’espressione di falsissima innocenza in viso.
Ci godeva, John
riusciva a capirlo, nel tentare di mettere zizzania: gli sembrava di
vederla sfregarsi
interiormente le mani al solo pensiero.
“Sei
tanto carina quando snoccioli tutta la tua cultura tennistica. Ti
illumini,
ridi, fai battute, vieni incontro alle persone. Poi, improvvisamente,
torni nel
mondo vero, quello fuori dalle linee tracciate di bianco, e ti metti a
sfoggiare questa cattiveria leziosa come se fosse un bel
vestito.” Il cellulare
nella mano di John vibrò ancora, ma lui quasi non lo
sentì; al momento lo
interessava molto di più mantenere il contatto visivo con
quella ragazzina
annoiata che si divertiva a fare insinuazioni sulla sua vita
all’unico scopo di
distrarsi un po’. La cosa che più lo mandava in
bestia era che, con quel che
aveva detto, si era avvicinata pericolosamente alla verità.
E
non era possibile. Sherlock deduceva, non si faceva dedurre. Da
nessuno. Perché
nessuno aveva mai osato, nessuno era mai riuscito ad avvicinarsi
abbastanza. E
improvvisamente spuntava fuori lei, millantando di avere certe carte in
mano
che nemmeno John stesso si era mai sognato di possedere.
“Chiedimelo.”
John
aggrottò le sopracciglia, stringendo a pugno la mano che non
reggeva il
cellulare. Magdalena lo squadrava calma e perfettamente padrona di
sé dalla
sedia, con l’aria paziente e già vittoriosa di un
pescatore che sappia di aver
lanciato un’esca squisita.
“Cosa?”
replicò John, lento, intimidatorio. La ragazza gli fece un
antipatico
sorrisetto.
“Chiedimi
come faccio a sapere così tanto di lui.”
Sta
cercando di
mettere zizzania, si
ripetè svelto John fra sé e sé. Odia
Sherlock. Non sai perché, ma ti deve bastare. Non cascarci.
“No,
non mi interessa,” rispose duro. Fece per alzarsi e andarsene
una volta per
tutte, ma la sua vocetta acuta e insinuante lo trattenne.
“Sì
che ti interessa. Muori dalla voglia di saperlo. Sei incuriosito, un
po’
inquieto, e molto geloso.” Si sporse verso di lui,
acciambellandosi sulla sedia
con l’aria goduriosa di una gatta al sole. “Il che,
devo ammettere, quasi mi
lusinga.”
John
rimase in silenzio, inchiodato sul posto. Quelle sue analisi
così esatte, al
contrario di quelle di Sherlock, che lo mettevano in soggezione e gli
davano
piacere come l’osservare un’opera d’arte,
avevano il potere di fargli passare
un brivido sgradevole lungo la schiena. Come se il suo sguardo clinico
l’avesse
trapassato da una parte all’altra a mo’ di
coltello.
Quella
ragazza era potenzialmente pericolosa, per lui, per Sherlock, per lui e per Sherlock. Ma John non era mai
riuscito a tirarsi indietro di fronte al pericolo. E d’altro
canto, doveva sapere.
“Ti
propongo un patto. Tu resti un’altra mezz’ora, e io
ti dico tutto quello che so
del tuo amico. Così quando uscirai di qua saprai se vale
veramente la pena di
tornare a casa a preparargli un bel tè caldo.” Gli
lanciò una lunga occhiata penetrante,
e John rabbrividì. Magdalena era così giovane,
così fragile d’aspetto, e aveva
il sorriso timido e raro di Sherlock: ma di Sherlock non aveva mai
avuto paura.
Di lei, ora, ne aveva. “O se invece è il caso di
non tornare affatto.”
Il
cellulare squillò per l’ennesima volta. John
deglutì e lesse il messaggio, la
mano che gli tremava impercettibilmente.
Ho
tolto le
unghie dal barattolo del tè. Non so perché io le
abbia messe lì – il vasetto
vuoto della marmellata che hai finito ieri era molto più
adatto allo scopo. SH
La
cosa più vicina a una scusa che Sherlock fosse capace di
rivolgergli.
Sentì
il cuore stringerglisi in un incommensurabile moto d’affetto
per il proprio
coinquilino. In quel momento voleva solo vederlo, litigare ancora un
po’ per la
storia del tè e delle unghie, imporgli l’ascolto
di Rubber Soul mentre puliva i
piatti per entrambi e poi guardarlo
mettersi la vestaglia per stare più comodo durante i suoi
esperimenti notturni.
Il fatto che avesse tentato goffamente di scusarsi per guadagnarsi la
sua
benevolenza, poi, gli faceva sospettare che avesse un sincero bisogno
di lui.
Mycroft doveva avergli davvero sconvolto il suo già fragile
equilibrio umorale.
La
cosa più logica, la cosa che avrebbe voluto di
più, la cosa più giusta da fare
sarebbe stata andarsene da lì e tornare da lui. Tornare da lui: solo il modo in cui
quella frase suonava nella sua
mente era in grado di fargli battere forte il cuore.
“Allora?”
Magdalena
sorrideva tutta fremente d’aspettativa e John non desiderava
altro che levarle
quel ghigno sbeffeggiatorio e arrogante dalla faccia. Massì,
che gli
raccontasse pure tutto quello che voleva. Niente avrebbe potuto
sconvolgerlo. Era
vero, non sapeva quasi nulla del passato di Sherlock, ma era certo di
conoscerlo già intimamente, fin nella sua natura
più profonda. Sì, lo conosceva
al cento per cento. Ne era sicuro.
L’amore
dà questo tipo di presunzione, di delirio di onnipotenza, di
certezza
matematica di fronte all’equazione dell’altro, per
quanto complessa sia. John
era innamorato e perciò non faceva eccezione.
Decise
almeno di non darle la soddisfazione di un assenso a voce alta e si
limitò ad
annuire.
Dammi
un’ora. Non
ho ancora finito, qui. JW
Note
dell’autrice:
mi
scuso con le persone a cui del tennis non frega nulla per il capitolo
traboccante
di riferimenti, regole, nomi e altre noiosaggini. Spero che il tutto
non sia
risultato troppo monotematico – in ogni caso, da qui in poi
la storia torna a
spostarsi prevalentemente sul rapporto fra John e Sherlock e sul loro
modus
operandi nel seguire il caso. <3
WARNING!
Qui
sotto vi è una valanga di note alla storia, fastidiose come
Google quando ti fa
“forse cercavi…?”. Leggetele a vostro
tedio e pericolo.
Alcune
precisazioni, tennistiche e non solo, per quei santi che si sono
sorbiti questa
tirata e vogliono vederci più chiaro (vi apprezzo, vi amo
dal profondo del
cuore) (ma davvero):
1.
La
canzone citata in corsivo è “Meat Is
Murder” degli Smiths, gruppo che ascolto ossessivamente
ogni volta che mi metto a scrivere questa storia. Secondo me Morrissey
scrive
dei testi molti sherlockiani (non me ne avere, Moz, è inteso
come un
complimento).
2.
Sì,
ho ascoltato anche il Requiem di Mozart perché ero in lutto,
sì, ovviamente
potete ridere di me quanto volete, sì, non è
normale, lo so, ma hanno
posticipato la terza stagione, di nuovo, e io mi chiedo, è
questo il modo di trattare i nostri poveri nervi, e ancora, non voglio che i miei figli assistano alla
scena pietosa di me che piango durante il matrimonio di John (perché
tanto
so che c’è, me lo sento nelle ossa come i
reumatismi – MOFFTISS! *scuote
pugno*), perciò
sbrigatevi, ecco,
così posso smetterla di lagnarmi e tornare ad ascoltare la
mia amata Geri
Halliwell.
3.
Per
gli appassionati di Doctor Who, il personaggio di Stewart è
fisicamente
ispirato al buon Rory. :D
4.
Gabriela
Sánchez è un personaggio di fantasia, ispirato
però a una tennista realmente
esistente, Gabriela Sabatini. Ai tempi dell’aggressione di
Monica Seles, si
pensò, come gesto di sostegno, di congelare la classifica
internazionale femminile
fino al ritorno in lizza della poveretta; tutte le altre tenniste
però votarono
contro a questa mozione (compresa la Graf) ad eccezione della Sabatini,
l’unica
a supportare apertamente la collega.
5.
La
coppa Davis è praticamente l’equivalente
tennistico dei Mondiali di calcio. Il
tifo è lo stesso, una roba pazzesca. La competizione
è a squadre, composte da
quattro giocatori, e sebbene sia forse il torneo più
blasonato del mondo del
tennis, si partecipa unicamente per la gloria. A vincerlo non ci si
guadagna
una cippa di niente. (A parte una coppa fighissima a forma di
insalatiera). (Una
cosa che non ho mai capito di questo sport è la predilezione
per i trofei a
forma di insalatiera: anche quello di Wimbledon è fatto
così. Che ci troveranno
mai? Boh). Se mai foste curiosi e voleste vedere
com’è fatta una bella partita
di tennis, guardatevi un match di coppa Davis (o di Fed Cup, che
è la Davis per
le donzelle). Vengono giù i muri, e, cosa che non guasta,
l’Italia è straforte.
:D
6.
Il
termine “wild card” indica (mi riferisco al solo
tennis) un giocatore o una
squadra che vengono ammessi a un torneo senza dover passare per le
qualificazioni. È un’iniziativa a mio parere molto
figa, che permette a
giocatori bravi e promettenti, ma che non si trovano nella parte alta
della
classifica, di accedere alle grandi competizioni: spesso è
una cosa che concede
il paese ospitante al proprio vivaio di giocatori, per farli emergere
(è il
caso di Christine, che è un’inglese a Wimbledon, e
che nella storia è molto
giovane, quindi professionista da pochissimo tempo). Ovviamente
è molto raro
che le wild card avanzino di molto nei tornei, ma ci sono state alcune
clamorose eccezioni, e quando succede che uno di questi signori nessuno
vinca,
è veramente emozionante. Immagino sia come essere abituati a
giocare nel
campetto dietro casa e arrivare in un lasso brevissimo di tempo a
segnare il goal
della vittoria nella finale di Champions League contro, mettiamo, il
Barcellona
di Guardiola. O battere la Pellegrini nei 200 a stile quando fino al
giorno
prima nuotavi pigramente nella tua piscina comunale di fiducia.
7.
“Come
la maggior
parte dei cosiddetti intellettuali, è straordinariamente
stupido”
è una citazione
dal film “Le relazioni pericolose”.
8.
Non
sono sicura di come funzioni la prassi giuridica
per l’acquisizione della doppia nazionalità nel
caso ci si sposi un bel
britanno. Penso non proprio così. Diciamo che ho inventato
tutto di sana
pianta, con buona pace del governo inglese, e cioè di
Mycroft (scusa, Mycroft).
9.
Steffi
Graf, in realtà, ce la fece a vincere il Golden Slam:
è l’unica nella storia ad
aver compiuto questa impresa. Nessun uomo invece finora ci è
mai riuscito.
10.
Who’s
who dei
nomi citati a caso:
Martina Navratilova è una
delle
giocatrici più forti di tutti i tempi, attiva negli anni
’70 e ‘80; Venus e Serena
Williams giocano
tuttora, e hanno stravinto di tutto dagli anni ’90 ad oggi,
sia nel singolare
sia nel doppio, che giocano spesso insieme; John
McEnroe è una leggenda, qualcosa tipo il John
Lennon del
tennis. Era un talento straordinario, definito dagli ammiratori un
ribelle, e
dai detrattori uno stronzo viziato che se la prendeva a più
riprese col
pubblico e cogli arbitri - i quali sono stati maltrattati da lui in
tutti i
modi umanamente possibili (vi ricorda qualcuno?). Io lo amo a livelli
folli, è
il mio preferito da sempre, ma, per restare neutrali, diciamo che era
una testa
calda con un gran brutto carattere, e che Tom Hulce, l’attore
che interpreta
Mozart in Amadeus, si è
ispirato a
lui per costruire il suo personaggio. Non so se rendo l’idea;
Ivan Lendl, Bjorn Borg e il già
citato John
McEnroe sono alcuni fra i giocatori più forti
della storia, attivi fra i ’70
e gli ’80; Novak Djokovic
è l’attuale
numero uno al mondo del tennis maschile.
Ringrazio
ancora tutti del calorosissimo benvenuto nel fandom che avete dato a
questa
storia. Grazie, grazie, grazie, significa moltissimo per me. :*
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Capitolo 8 *** Break ***
Note:
menzione
di un
tentativo di suicidio, contenuti deprimenti, e Sherlock che fa il
brillante
filosofeggiando su morte e cadaveri.
Humber
Bridge
Kingston
upon
Hull, North Lincolnshire, Inghilterra
Rabbrividì
mentre si toglieva il cappotto. Faceva freddo, molto freddo.
Meglio.
L’acqua gelida,
sommata alla caduta da quell’altezza, avrebbe contribuito a
renderla del tutto
incosciente. Con un po’ di fortuna non avrebbe sentito nulla.
Si
chinò ad
aprire la zip dello zaino che aveva portato con sé e
tirò fuori il necessario.
Indossò sopra ai vestiti che già aveva una
dolcevita, un maglia di cotone, un
golf di lana e una felpa di pile. Passò una pesante sciarpa
intorno al collo e
si mise i guanti.
Tirò
su col
naso: il suo corpo non sentiva più la temperatura esterna.
Era una notte nevosa
di dicembre e lei si sentiva al caldo.
Sono
i nervi,
pensò. L’adrenalina. Incredibile.
Considerò
con
sguardo spento il panorama di fronte a lei. Diverse macchie di
vegetazione
ricoprivano le basi fangose del ponte; l’acqua sembrava
un’immota lastra di
marmo nero. Non c’era un filo di vento a incresparne la
superficie. In
lontananza, all’orizzonte, le luci della cittadina di
Burton-upon-Humber
rilucevano fisse e sfocate.
Che
squallore,
pensò. Una sensazione di soffocamento le si fece strada in
gola.
Basta.
Basta con
tutto questo vuoto. Basta con il senso di disorientamento. Basta con la
piattezza, l’inevitabilità triste di quel che
sentiva da sedici anni. Basta.
Rovistò
nello zaino
e ne tirò fuori una decina di grosse pietre piatte, che
aveva raccolto lungo la
sponda del fiume il giorno prima. Se le ficcò in tasca,
prese un lungo respiro,
lasciò che il silenzio del ponte deserto le rimbombasse
un’ultima volta nelle
orecchie e si arrampicò sul muretto di protezione.
Una
volta in
piedi la sensazione di potere e libertà le diede le
vertigini. Si sentiva il
mondo in mano, si sentiva pienamente in controllo della propria
libertà decisionale.
Dio, si sentiva bene.
Sorrise
amara.
Chi amministrava la vita e la morte in terra aveva un pessimo senso
dell’umorismo.
Allargò
le
braccia e chiuse gli occhi.
“Pietre
nelle
tasche. Che cosa digustosamente letteraria.”
Magdalena
sobbalzò e per poco non perse l’equilibrio.
Mulinò le braccia, cercando
disperatamete di ribilanciarsi, il cuore che le batteva a mille nelle
tempie.
“Chi
è lei?”
urlò, la paura che le sfondava il petto. Non si fidava a
sufficienza delle proprie
capacità motorie per provare a girarsi e fronteggiare lo
sconosciuto.
Cristo,
doveva
darsi una calmata. Stava per uccidersi – che senso aveva
agitarsi così?
“Sherlock
Holmes,”
rispose la voce, in tono monotono e indifferente. Come se parlare con
un’aspirante suicida in bilico sul muro di protezione di un
ponte fosse
ordinaria routine per lui.
“Che
cosa vuole?”
urlò, sperando di suonare sufficientemente minacciosa anche
con la voce che le
tremava.
Questo
non ci
voleva. Gradiva solo consumare il proprio suicidio in perfetta
solitudine, era
chiedere troppo? Non aveva forse diritto a un ultimo desiderio o
stronzate del
genere?
“I
soldi che tua
madre ha promesso a chiunque ti riporti a casa. Perciò
smettila con questa
pagliacciata e scendi di lì.”
Magdalena
rise
secca, sentendo un’ondata di isteria invaderla tutta. Tutto
il suo corpo
tremava per la tensione nervosa. Non era possibile.
“Se
li ficchi
nel culo quei soldi! E ora se ne vada, mi sta distraendo!”
ringhiò.
Sentì
una
risatina supponente risuonare dietro di sé.
“Se
davvero volessi
ucciderti, niente ti potrebbe distrarre; per cui, come ti dicevo prima,
piantala di essere sciocca e scendi di lì. Hai decisamente
più talento in altre
cose che nel recitare la parte dell’eroina romantica
distrutta dalla vita”.
“E
lei che
diavolo ne sa?” urlò Magdalena, tentando di
sovrastare il boato del vento che
aveva preso a soffiare fortissimo. I suoi denti battevano. Il rush di
adrenalina era scomparso, sostituito da un senso di confusione mista a
panico
per come il suo piano era stato compromesso da
quell’arrogante sconosciuto, e
lei aveva di nuovo freddo.
“So
molte cose
di te.” Una pausa. “Per cominciare, rischi davvero
di cadere ora che il vento
si è alzato. Intendi andartene da questo mondo scivolando giù per cento
metri di altezza come un equilibrista
goffo e ridicolo che abbia fatto male i suoi calcoli? Io non credo.
Volevi una
fine in grande stile. Una morte fuori dall’ordinario. Sarebbe
stato così
semplice soffocarti col gas o ingurgitare una dose eccessiva di
anti-depressivi
(so che il tuo medico te li ha prescritti: è un idiota, tu
non sei depressa, e
infatti non hai provato la tentazione di assumerli), ma no, trovavi
questi
metodi così disperatamente noiosi, banali, vuoti di senso.
Meglio qualcosa di
eclatante, in grado di strappare un applauso al tuo pubblico
immaginario. Un
salto. Un balzo ferino. Un gesto d’azione. Ma non da uno
stupido palazzo: dal
ponte più alto del Regno Unito. Aggiungiamo pure il fatto
che il tuo amatissimo,
defunto padre è nato qui vicino, a Kingston upon Hull, e non
a Londra, come tua
madre, cui sei molto meno legata. Ti sei scelta il palcoscenico
più funzionale
e maestoso a un tempo per celebrare la tua dipartita intrisa di
simbolicità.
Ben architettato. Torna tutto.”
Magdalena
batté
le palpebre. Quel monologo dai toni freddi e sentenziosi sembrava
averle
impedito di fare qualsiasi altro movimento. Era come se, con le sue
parole,
questo Sherlock Holmes le avesse sparato un narcotico. La sua mente
sembrava
barcollare come un ubriaco.
Non
era
possibile. Era rimasta stupita dal solo fatto che lui fosse riuscito a
trovarla,
a seguirla fin lì attraverso un percorso volutamente
labirintico che lei aveva
ideato per seminare le sue tracce, ma perfino quella sua
abilità, che già le
sembrava incredibile, non era nemmeno lontanamente paragonabile alla
stupefacente esattezza di quelle deduzioni. Quel suo discorso era
un’opera di
genio e astrazione. Sembrava conoscerla intimamente e non erano mai
entrati in contatto
prima di quel momento.
“Chi
è lei?”
ripetè, e stavolta, non riuscì a impedire che la
sua voce tremasse.
Udì
un sospiro
che sembrava trattenere a stento tutta l’impazienza del suo
interlocutore.
“Girati.
Lentamente,” ammonì in tono duro,
“stai perdendo
sensibilità al piede sinistro per il gelo. Tenere le scarpe
e le calze ti
avrebbe aiutato ad andare a fondo esattamente quanto le pietre nelle
tasche,
sai?” Si schiarì la voce. Il vento si era fatto
fortissimo. “Ora, movimenti
piccoli e misurati. Segui i miei esatti ordini e girati.”
Magdalena
non
riuscì a fare altro che obbedire. Non intendeva in ogni caso
andare fino in
fondo al suo piano in presenza di un estraneo. Tanto valeva
assecondarlo e
tentare di persuaderlo ad andarsene.
Compì
con
estrema cautela una rotazione di centottanta gradi. Nel suo campo
visivo
comparve prima la fila di pinnacoli di cemento che tenevano su il
ponte, poi
l’asfalto della strada, puntellato di segnali di lavori in
corso, e, infine, un
uomo alto e pallido avvolto in un pesante cappotto.
Magdalena
sentì
i meccanismi del suo cervello ricominciare lentamente a girare. Lo
shock era
passato: ora, i suoi neuroni dovevano assolutamente tornare a
funzionare a
pieno regime, o il suo obiettivo sarebbe andato in fumo.
L’uomo
aveva un
viso bianco e incavato che sembrava scolpito nel gesso. La pelle doveva
essere
estremamente sensibile alle temperature estreme perchè le
labbra erano spaccate
dal freddo, il naso e le guance erano rossi come se qualcuno li avesse
violentemente sfregati con un straccio e il resto del colorito era
livido.
Nonostante il cappotto fosse ampio e tagliato su una persona di
un’altezza
superiore alla media, Magdalena riusciva a intuire un’estrema
magrezza sotto i
vestiti. Fisicamente debole? Atleticamente impreparato? Forse, ma se i
suoi muscoli
avevano la metà dei riflessi del suo cervello, allora era
comunque fregata.
L’uomo
aveva
un’apparenza aliena. I lineamenti erano nel complesso
piacevoli e i fitti ricci
neri lo facevano sembrare un cherubino, ma vi era un che di tagliente,
di
inquietante nel modo in cui i suoi occhi azzurri la guardavano tale da
non
riuscire comunicarle un’impressione generale di bellezza.
Si
sentiva una
ferita aperta sotto l’occhio impietoso di un medico. Un
medico interessato
unicamente alla malattia e non alla persona.
“Bene,”
fece
l’uomo una volta che lei si fu completamente girata verso di
lui, “ora scendi
dal muro.”
“No,”
ribattè
decisa. Sherlock Holmes arricciò un labbro in un moto di
fastidio e alzò gli
occhi al cielo.
“Allora
perlomeno siediti. Piedi per terra, in modo da non perdere
l’equilibrio”
sbottò.
Aveva
senso.
Magdalena ubbidì.
L’uomo
incrociò
le mani dietro la schiena e si mise a passeggiare per il ponte fissando
il
cielo sopra di lui con aria soddisfatta, come se quella situazione
fosse del
tutto normale e loro due stessero amabilmente discorrendo del tempo.
Era
snervante.
“Dunque,
veniamo
a noi. Sei una persona di un certo intelletto. Sono sicuro che il tutto
si
possa risolvere senza riprovevoli sbavature,” disse, tornando
a rivolgere lo
sguardo su di lei con un sorriso per niente amichevole.
Magdalena
inarcò
un sopracciglio.
“Definisca
sbavature,” replicò diffidente.
“Tu
ti ostini a
non collaborare e io mi vedo costretto a usare le maniere
forti,” rispose
subito l’uomo, impassibile. Magdalena rise secca.
“Al
suo minimo
movimento superfluo io sbilancio il peso all’indietro e lei
si può scordare i suoi
soldi. Non è nella posizione di dare ordini.”
“Eppure
poco fa ti
ho ordinato di girarti e tu hai obbedito.”
“Trovavo
maleducato darle le spalle. Tutto qui.”
L’uomo
si lasciò
sfuggire una breve risata.
“Capisco.”
Frugò
in una tasca senza distogliere lo sguardo dal suo. Magdalena
seguì il movimento
delle sue mani con occhi diffidenti.
“Cosa
sta
cercando?”
“Sigarette.”
“Fumare
fa
male,” disse in automatico. Per dargli fastidio –
certamente non perché era preoccupata
per il suo benessere.
Sherlock
Holmes
si accese una sigaretta con irritante flemma.
“Morire
nel modo
che ti sei scelta fa più male. Te lo assicuro.”
Tirò una lunga boccata.
“Immagino che fra le tue preoccupazioni vi fosse anche quella
di venirne fuori
come un cadavere dall’aspetto decente. Tu non vuoi morire,
vuoi solo un
sontuoso funerale pieno di persone che si strappino i capelli in
lacrime rimpiangendo
la tua indispensabile, preziosa, svalutata presenza su questa terra.
Com’è
ovvio, vuoi fare bella figura nella tua bara di legno di noce, sobria
ma
elegante. Beh, ti consiglio vivamente di rivedere i tuoi piani,
perché i morti
affogati sono gonfi e lividi e dall’aspetto repellente.
Specie se il corpo
viene tolto dall’acqua dopo un lasso di tempo prolungato - e data
l’efficienza pressochè nulla della polizia
inglese, questo è altamente probabile.” Un breve,
freddo sorriso. “La corrente
in questo punto del fiume è molto forte. Verrai trascinata
sul fondo, morta, se
ti va bene, altrimenti è plausibile che tu riesca ad
avvertire il dolore insopportabile
di un qualche tuo osso che si frattura contro il pietrame prima che il
tuo
cuore si fermi per sempre. Perché fai quella faccia? I sassi
che ricoprono i
basamenti dei piloni per tenerli ancorati a terra non sono
sott’acqua da
abbastanza tempo per essersi smussati. Se le mie previsioni sono
corrette,
sbatterai a più riprese contro ogni superficie contundente e
ne uscirai
perlomeno sfregiata. Niente bel visino etereo da esibire nella tua
comoda bara.
La gente ti passerà accanto con una smorfia di ipocrita, pio
rammarico in
volto, mormorando afflitta “così intelligente,
così giovane, tutta la vita
davanti, perché perché
perché”, ma dentro di sé
tratterrà i conati di vomito
davanti a quel pasticcio di sangue rappreso che sarà
diventata la tua faccia.”
Magdalena
sentì
qualcosa di fastidiosamente appiccicoso pizzicarle le guance.
Alzò una mano per
controllare che cosa fosse: lacrime. Stava piangendo.
Sherlock
Holmes
sembrava trovarlo un ottimo segno, perché ora le stava
apertamente sorridendo
con quella che sembrava un’aria soddisfatta.
“La
morte di cui
si fa esperienza nella vita reale non è quella dei libri.
Sai cosa succede
quando un essere umano smette di vivere? Il cadavere entra in rigor
mortis; il
corpo assume posizioni grottesche e ridicole. La vescica si svuota. Ti
ritrovi
a riposare nel sonno eterno in un bagno di escrementi. Dopo appena
pochi giorni
cominci a emanare un fetore disgustoso. Se non viene scelta
l’opzione della
cremazione, finisci sottoterra, banchetto per i vermi. Piangi, piangi
pure
quanto vuoi: significa che finalmente ragioni, che hai smesso di
trovare questa
prospettiva così allettante. È positivo. Non
c’è niente di peggio del morire
nell’illusione che dopo si possa diventare qualcosa di
migliore-”
“Basta,”
gemette
lei, la voce che l’aveva definitivamente tradita. La gola le
sembrava un denso
nodo di lacrime e dolore: non riusciva a deglutire. Aveva la vista
appannata.
Voleva soltanto che tutto finisse. Voleva smettere di respirare, di
ascoltare,
di pensare,
maledizione!
“Basta,
stia
zitto, non mi importa! Se ne vada di qui e la smetta- io…
Voglio solo stare da
sola.” Si odiò per come stava piagnucolando, per
come stava stringendo le
proprie mani in una morsa, come una bambina piccola. “Voglio
solo… Trovare un…
Un termine, un punto d’ arrivo, qualcosa che abbia un senso,
una… una
conclusione, qualcosa che mi faccia sentire-”
“Non
esiste,” la
interruppe gelido lui. I suoi occhi erano diventati enormi, e
sembravano
incolori: la mano che reggeva la sigaretta tremava. “Si
spende un’esistenza intera
a cercare di crearsi questo qualcosa da soli e non ci si resce quasi
mai. Ora
scendi di lì e seguimi in macchina.”
Nella
nebbia di
sconforto e panico che riempiva la sua mente, Magdalena
recuperò un brandello
di lucidità.
“Lei…”
Fissò le
sue labbra: erano spaccate perché lui continuava a
leccarsele. E il naso non
era tutto rosso allo stesso modo. Le narici, in particolare, erano
irritate al
punto da sanguinare. “Lei… È in crisi
d’astinenza-”
“Giù
di lì e in
macchina, ho detto!” urlò l’uomo. Sotto
un’apparenza controllata si doveva
effettivamente trovare al limite. Le pupille erano enormi, e lo
facevano
sembrare pazzo.
“Ecco
perché
vuole così tanto quei soldi. Ne ha bisogno… Per
comprarsi la dose,” mormorò
Magdalena fra sé e sé. Un moto violentissimo di
rabbia la scosse da capo a
piedi al punto da farla tremare. “Lei ha il coraggio di
venire qui a seviziarmi
e a farmi la sua lezioncina del cazzo quando non è altro che
un tossico! È
questo il senso che ha cercato di costruirsi da solo?! Ma si
è guardato allo
specchio? Io sarò una debole,” sibilò,
il volto congestionato, la voce carica
di disprezzo puro, “ma lei mi fa più pena di
quanto me ne faccia io a me
stessa. Chissà da quanto tempo lei non vive più.
Chissà da quanto tempo sarebbe
stato meglio che lei fosse morto. Le piace giocare a fare Dio con
quelli che
considera messi peggio di lei, vero? Quanta soddisfazione ne trae? Un
inutile parassita,
ecco quello che è! Sciacallo! Mi fa schifo!”
Urlò,
urlò così
tanto che le lacrime le bagnarono di nuovo le guance e la gola prese a
bruciarle
come se fosse arroventata, e dopo pochi secondi era tutto di nuovo
silenzio e
il suo cuore batteva forte e il suo respiro non era più
sotto controllo.
Non
si era
nemmeno accorta di aver chiuso gli occhi nel tentativo di tornare in
sé stessa.
Quando li riaprì, Sherlock Holmes stava guardando di nuovo
il cielo, e sembrava
più magro e spettrale che mai.
“Sai,
ragazzina,” disse in un sussurro basso, roco, gli angoli
della bocca piegati in
un sorriso amaro, “l’irrazionalità di
questo mondo è insopportabile. So che la avverti
in ogni cosa, come me. Ma il fatto che a uccidersi siano solo le
persone che ne
sono consapevoli, le uniche che potrebbero tentare di impostare le cose
in una
giusta direzione e magari riuscirvi, e che a restare in vita siano gli
stupidi
e quelli senza morale né emozioni, solo perché
questi ultimi non soffrono e i
primi sì…” Abbassò lo
sguardo su di lei. Magdalena avvertì un colpo al cuore. I
suoi occhi non erano più freddi e vuoti: sembravano
contenere qualcosa di
dolorosamente vivo, pulsante, che inglobava tutto, da
quell’iride chiarissima alla
pupilla alla lacrime mai piante. Dubitava che un uomo del genere fosse
mai
riuscito a piangere: era una sorta di lacrimazione asciutta, cerebrale
ed
efficiente, come lo era lui. “Beh, è ancora
più irrazionale, no? Non ha senso.
E andrà avanti così per sempre.”
Magdalena
chiuse
nuovamente gli occhi e abbassò la testa. Si sentiva molto
stanca.
“Senta,”
disse
infine trascinando le parole, dopo che un silenzio pesante come un
incudine fu
calato fra di loro, “ho molti soldi con me.” Si
frugò nelle tasche e tirò fuori
un portafogli ben imbottito. “Sono tutti i miei risparmi. Le
propongo un
patto.”
Gli
lanciò uno
sguardo per vedere se la stesse seguendo. Sherlock Holmes
annuì.
“Sto
ascoltando.”
“Sono
abbastanza, credo, per comprare una quantità sufficiente di
qualsiasi droga lei
stia assumendo. Quelli che mia madre le avrebbe dato non sono molti di
più. La
mia famiglia non è ricca. Li prenda.”
Tirò fuori le banconote e le arrotolò in
un fascio ordinato. Lui non reagì in alcun modo visibile.
“Li prenda e mi lasci
proseguire quello che stavo facendo, la prego.”
Sherlock
Holmes
la considerò con una lunga occhiata penetrante. Magdalena
rabbrividì: non
sentiva più le dita dei piedi.
“D’accordo.
Ma
li voglio controllare da vicino.”
“Non
si fida?”
“No.”
Magdalena
fece
spallucce. L’uomo occhieggiava il denaro con occhi famelici:
era uno spettacolo
degradante. Era davvero stanca dello squallore di questa vita.
Sollevò
un
braccio e gli allungò le banconote.
Sherlock
Holmes
si avvicinò a passi lenti. Aveva gambe lunghissime, per cui
in quattro falcate
era già arrivato sinoda lei. Le sfilò il denaro
di mano stando attento a non toccarle
le dita.
Magdalena
si
lasciò sfuggire un singhiozzo e non osò guardarlo
negli occhi. Aspettò
immobile, paralizzata, esausta. Si sentiva così pesante da
avere l’impressione
di non aver più bisogno delle pietre nelle sue tasche per
andare a fondo.
“Non
sono falsi,”
lo sentì dire in un sussurro. Era strano: per lui era
evidentemente una buona
notizia, ma il suo tono di voce era grave. Sembrava quasi rammaricato.
“No.”
Fu
questione di
un secondo. Non ebbe nemmeno il tempo di registrare il suo movimento
fulmineo.
Un attimo prima stava respirando l’aria gelida di quella
notte di dicembre e l’attimo
dopo qualcosa di morbido le veniva premuto sulla bocca.
L’ultima cosa che fu in
grado di ricordare fu un intenso odore dolciastro, come di zucchero a
velo.
*
Si
svegliò quando
la macchina prese una curva in maniera particolarmente brusca e lei
sbattè la
testa contro la maniglia della portiera.
Gemette.
Si
sentiva confusa e una vaga sensazione di nausea le stringeva la bocca
dello
stomaco. Le ci volle qualche minuto per ricordare, per disporre nel
giusto
ordine i pensieri.
Tentò
di
mettersi seduta dalla posizione sdraiata, ma quando cercò di
sostenersi al
finestrino, scoprì che non poteva farlo. Aveva le mani
legate con un una corda.
“Bentornata
fra
noi,” disse una voce sarcastica.
Magdalena
battè
piano le palpebre. Gli occhi di Sherlock Holmes la fissavano dallo
specchietto
retrovisore.
“Tu
mi hai-”
cominciò, senza fiato per la rabbia e
l’umiliazione. “Tu mi hai drogata, figlio
di puttana! Slegami subito!”
Sherlock
accese
il riscaldamento e girò a destra a un incrocio con
malagrazia. Magdalena
riconobbe il paesaggio notturno circostante: erano a pochi chilometri a
nord di
Londra.
“Così
che tu
possa saltarmi al collo e mandarci a sbattere contro un albero? Non
credo
proprio.”
Magdalena
si
divincolò con violenza, calciando con i piedi contro il
sedile del guidatore.
Sherlock strinse gli occhi, infastidito.
“Ferma.
Questa
macchina non è al titanio. Può essere
danneggiata,” la ammonì minaccioso.
“Dirò
a mia
madre come mi hai trattato. Lo racconterò alla polizia.
Finirai a marcire in
galera, bastardo!”
“E
io riferirò
di averti trattenuto in extremis dal fare una scelta estremamente
stupida. Sono
certo che saranno d’accordo con la mia decisione di averti
immobilizzato in
modo da non permetterti di fare ulteriori
danni a te stessa.” Inserì la quarta. Il motore
rombò. “I suicidi falliti possono
essere molto inaffidabili e per nulla riconoscenti.”
Incontrò nuovamente i suoi
occhi nello specchietto. “Non è vero, ragazzina?
Dovresti essermi grata. Ti ho
salvato la vita.”
Magdalena
tirò
un altro calcio, furiosa.
“Vaffanculo!
Vaffanculo, lasciami andare! Lasciami, ho detto!”
“Che
linguaggio.
Credi che il turpiloquio sia in grado di intimidirmi?”
“Beh,
sai come
si dice, pezzo di merda, “tentare non nuoce”. Ora
fammi scendere da questa
macchina del cazzo e-”
Si
interruppe,
esterrefatta.
Stava
ridendo.
Sherlock Holmes stava ridendo.
“Non
rientri nel
profilo psicologico della depressione. Decisamente no. Sei, come
immaginavo,
soltanto una adolescente vanitosa e annoiata, troppo intelligente per
il tuo
stesso bene, in disperata ricerca di attenzioni.”
Magdalena
raggelò.
“Tu
non sai un
cazzo di me,” sibilò con voce collerica e
tremante. “Nulla. Sei solo un tossico
fallito e mentalmente disturbato. Dovrebbero legare te per impedirti di
fare
del male a te stesso, e soprattutto per impedirti di farne ad
altri!”
“Mi
sono sempre
chiesto come non ci abbiano pensato prima, in effetti,”
rispose mellifluo
Sherlock Holmes.
Magdalena
tirò
l’ennesimo calcio e riprese ad agitarsi sul sedile
posteriore, gemendo per la
frustrazione.
“Sta’
ferma
immobile, e zitta, possibilmente. Non costringermi a sedarti di
nuovo.”
“Che
cosa mi hai
somministrato? Che razza di schifezza mi hai fatto inalare? Ha effetti
a lungo
termine?” chiese con improvviso spavento la ragazza,
smettendo di colpo di
muoversi.
“Un
preparato
chimico di mia invenzione, molto meno dannoso del cloroformio, ma
estremamente
più efficace. Non ti preoccupare: hai già espulso
le tossine respirando. E
insultandomi.”
Le
sue parole le
arrivavano lontanissime e confuse. Gli occhi le bruciavano.
Si
rilassò
contro il finestrino, abbandonando la testa contro il vetro. Pianse, il
più
silenziosamente possibile. Pianse e desiderò di essere morta
come non l’aveva
mai desiderato prima d’ora.
*
Si
svegliò
mezz’ora dopo, sentendo il morso delle corde sui suoi polsi
farsi meno intenso.
Sherlock
Holmes,
ai suoi piedi, la guardava impassibile, un ginocchio
sul sedile posteriore. Fuori dal
finestrino si scorgeva il panorama famigliare della strada di casa sua.
“Spero
che lei
muoia solo” mormorò in tono spento.
Sherlock
Holmes ghignò,
le labbra spaccate, gli occhi vuoti. Non le era mai sembrato
più simile a un
fantasma come in quel momento.
“E’
molto
probabile che accadrà.”
Note
dell’autrice: sì,
avete visto bene. Ho aggiornato. Dopo… *controlla*
più di un anno. Dio mio,
faccio schifo.
Non
ho idea di quando posterò il prossimo capitolo,
sarò sincera. Questo qui era
quasi pronto da un bel po’ e… ma vi giuro che
farò del mio meglio. Sono molto
affezionata a questa storia, anche se a rileggere certi punti mi si
accappona
la pelle. Ero così gggiovane e inesperta quando ho
cominciato a scriverla XDDD
Spero
vi piaccia :***
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