Game, Set And Match

di nightswimming
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dritto ***
Capitolo 3: *** Rovescio ***
Capitolo 4: *** Doppio Fallo ***
Capitolo 5: *** Volée ***
Capitolo 6: *** Veronica ***
Capitolo 7: *** Lob ***
Capitolo 8: *** Break ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note dell’autrice: questa fantastica versione di Holmes e Watson è di esclusiva proprietà di Steven Moffat e Mark Gatiss, siano benedetti, mentre le tenniste Steffi Graf e Monica Seles sono di esclusiva proprietà di loro stesse. Voi vi starete chiedendo: “cosa diavolo c’entra?” e avete pienamente ragione, ma vi assicuro che più avanti nella storia le cose si faranno più chiare. :D
Scrivo per pura gioia da fan e Dio me ne scampi se da tutto questo ci guadagno anche solo un centesimo.
 
 
 
 
 
 
 
 
John Watson inspirò profondamente e strinse le labbra in una piega severa, quasi dura.
“No”.
Sherlock Holmes continuò imperturbabile a prestare attenzione al suo cellulare.
No cosa, John?”
“No che non è inutile, Sherlock” ribatté lui, obbligandosi a mantenere un tono fermo ma conciliante.
Non c’erano due parole capaci di stare peggio in una stessa frase come conciliante e Sherlock Holmes.
Il detective alzò lo sguardo dal suo Blackberry e sporse in avanti il labbro inferiore.
“Detersivo per lavandini”. Atteggiò ancora di più una smorfia di finta riflessione. “Detersivo impiegato per togliere eventuale sporco da un oggetto che si lava già da solo a ogni singolo uso che ne viene fatto”. Chinò nuovamente il capo sul cellulare. “Inutile a livelli di guardia, direi”.
John lo guardò come se fosse sul punto di scagliargli addosso con forza il suddetto detersivo per lavandini.
“Come il tuo parere sulle faccende domestiche, d’altronde”.
Gli voltò le spalle, ma non prima di aver internamente gioito della sua espressione indignata.
“Stai diventando una noiosa casalinga, John” lo raggiunse la sua voce infastidita dal reparto dei surgelati.
Si girò nuovamente per guardarlo: avanzava accanto a caciotte, salami e yogurt con passo maestoso e il cappotto che volteggiava attorno alle sue gambe ad ogni falcata, dribblando l’occasionale carrello con grazia.
Ridacchiò. Era un’immagine esilarante, quasi parodica – qualcosa di molto simile al costringere un rugbista a un’esercizio di danza classica.
Piccoli lord sociopatici fanno la spesa, capitolo primo.
“Lo sono sempre stato. Avresti dovuto vedere l’infermeria militare: era sempre uno specchio, grazie a me”.
Sherlock alzò un sopracciglio.
“Avvincente”.
“Vero? Ora aspettami qui in coda, che mi sono dimenticato il sale grosso”.
Lui sbuffò ma gli tolse con uno strattone melodrammatico il cesto di mano e si mise dietro a una famiglia piena di marmocchi esagitati che presero a fargli le boccacce.
John rise apertamente.
“Ricordati che l’infanticidio è un crimine, Sherlock”.
“A che cosa ti serve, il sale grosso?”
“A spararti meglio”.
Lo vide lanciare un’occhiata che avrebbe ghiacciato l’inferno alla deliziosa bimba con le trecce che allungava le sue manine grasse verso di lui.
“A cucinare, Sherlock, mi sembra ovvio. Hai bisogno d’altro, già che faccio un altro giro?”
“Un’endovena di nicotina” sibilò seccamente. Poi sorrise, se così si poteva chiamare quell’esposizione forzata dei denti. “Per favore”.
 
*
 
“Andiamo. È un’occasione speciale”.
“Sherlock…”
“Me lo merito, John!”
“E cosa avresti fatto per meritartelo?”
“Esisto. Vivo. Respiro. La mia presenza su questo mondo è un dono continuo”.
“Pfff. Scusa un attimo, chiamo Anderson e chiedo cosa ne pensa al riguardo. Ho proprio voglia di farmi due risate”.
“Ho fatto la spesa con te. Io non faccio mai la spesa con te”.
“Questo semmai evidenzia ancora di più la tua disgustosa pigrizia - di certo non ti aiuta ad ottenere quello che vuoi”.
Una sola”.
“…”
“…Per favore”.
John alzò gli occhi al cielo, allungò una mano verso il tavolino e gli lanciò in grembo il posacenere rubato a Buckingham Palace. Sherlock lo prese al volo con un versetto deliziato.
Aveva detto le due paroline magiche, dopotutto. Conoscendo il soggetto in questione si poteva tranquillamente gridare al miracolo.
“Aaah, sì. Sì sì sì”.
John gli puntò addosso l’indice teso.
“Una di numero, non di più”.
Sherlock si mise una sigaretta fra le labbra e la accese con un’espressione di gioia profonda che rasentava l’oscenità. Tirò due lunghe boccate e fece precipitare la cenere nel prezioso oggetto di cristallo (il quale, se John  aveva fatto bene i suoi conti, doveva valere come tutta la sua pensione di invalidità) con un gesto denso di una ritualità molto rimpianta.
“Non dovrebbe essere difficile per una mente geniale come la tua concepire il fatto che fumare fa male” commentò con tono di rimprovero. Sherlock rovesciò la testa indietro sul divano ed espirò un lungo filo di fumo in direzione del soffitto.
“Non guastarmi questo raro piacere, John” mormorò, gli occhi chiarissimi socchiusi appena, le spalle rilassate.
John rabbrividì. Un brivido caldo, di provenienza sconosciuta. Cosa c’era di così sconvolgente in quella voce baritonale che pronunciava la parola “piacere”, d’altronde? Non riusciva a capirlo.
Sventolò una mano in aria con fare stizzito per scacciare il fumo e quei pensieri fastidiosi da davanti a sé.
“Certo che potresti almeno scomodarti ad aprire la finestra!”
Nessuna risposta. Aveva chiuso gli occhi in preda alla beatitudine, e sembrava non averlo nemmeno sentito.
Si trattenne dal tirargli un cuscino soltanto grazie allo scalpiccìo dei passi della signora Hudson sulle scale.
“Sherlock? John?”. Al lieve bussare, gli occhi di Sherlock si riaprirono e rotearono verso l’alto in preda all’esasperazione. “Siete presentabili?”
John avrebbe tanto voluto chiederle per quale motivo si ostinasse a fare sempre quella domanda stupida quanto superflua. Era mezzogiorno passato, loro erano da poco scesi a fare la spesa, quindi aveva la certezza di non sorprenderli ancora in pigiama – e allora perché diavolo chiedeva se fossero presentabili? Cosa accidenti avrebbero dovuto fare, per non essere presentabili?
“Sesso”.
John sobbalzò sulla poltrona. Sherlock stava spegnendo la sigaretta nel posacenere con piccole, eleganti torsioni del polso, un angolo delle labbra piegato beffardamente all’insù.
“Come?...” chiese, maledicendosi per il tono scandalizzato che si era ritrovato ad utilizzare e per il tè che si era appena versato su tutta la camicia.
Sherlock non nominava mai il sesso al di fuori della scena del crimine, quando gli serviva per spiegare il movente di un omicidio. A lui il sesso, apparentemente, non interessava; di sicuro non lo conosceva. La frecciatina di Mycroft era stata illuminante al proposito. Dato che non avrebbe mai tirato in ballo di propria spontanea volontà un argomento di cui sapeva poco o niente, col rischio di uscire sconfitto da un’eventuale discussione, John era genuinamente sorpreso di fronte a una menzione così plateale di quella parola.
Oltretutto, la sigaretta gli aveva arrochito la voce (ormai, grazie a Dio, non era più abituato a fumare) e lui aveva pronunciato la parola “sesso” con un tono inferiore di un’ottava rispetto al suo abituale.
La cosa non avrebbe dovuto turbare John – Dio, non se ne sarebbe dovuto neanche accorgere – eppure, sempre per quello strano motivo che non riusciva a spiegarsi, la cosa lo turbava eccome.
“Come?” ripetè, schiarendosi la voce per darsi un tono.
Sherlock gli rivolse uno di quegli irritanti sguardi da “ma è ovvio!” che facevano andare in bestia chiunque, da Anderson (specialmente Anderson) a lui stesso.
“La risposta alla tua domanda” disse semplicemente.
“Io non ho fatto alcuna domanda” ribatté in fretta John.
“Ma l’hai pensata”.
John rimase a fissarlo senza neanche battere le ciglia, incredulo; Sherlock si piegò in avanti e unì le punte delle dita di fronte a sé con fare professionale.
“Ogni volta che la signora Hudson chiede il permesso di entrare con quella frase, ti irrigidisci istintivamente. Le spalle, i lineamenti del viso, tutto. E non è perché ti dà fastidio l’intrusione che potrebbe posticipare il tuo pranzo - la signora Hudson ha fatto irruzione in questa casa in ore molto più improbabili di questa, e tu non sei mai stato turbato come adesso -  no, è questo modo specifico della signora Hudson di presentarti che ti urta e ti fa pensare: “che razza di domande fa? Cosa diavolo potrebbe impedirci di essere presentabili a mezzogiorno inoltrato?...”
Si alzò dal divano con un movimento fluido e si diresse ad aprire la porta, curandosi di mantenere il contatto visivo.
“La risposta è: sesso. Teme di interromperci. Tutti, temono di interromperci. Ah, a parte qualche patetico individuo che lo spera intensamente, in modo da essere in grado di rendere più vivace la sua noiosa esistenza lanciandosi su qualche gustoso gossip”. Alzò anche l’altro angolo delle labbra. “Dovresti lasciar perdere i pettegolezzi, John. Sembra che non facciano bene ai tuoi nervi”.
Aprì la porta, e in un secondo il suo sorriso trionfante era scomparso per lasciar posto a un’espressione educatamente interrogativa.
“Buongiorno, signora Hudson. Ha bisogno?”

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: ciao a tutti, questa è la mia prima fic su Sherlock e voi non avete idea del nervosismo da debuttante che mi sta assalendo in questo momento XD
Mi scuso per la cortezza del capitolo, che, come è scritto, è soltanto un prologhino introduttivo piccino picciò.
A presto, mi auguro, e spero vi piaccia. :*

 

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Capitolo 2
*** Dritto ***


“Sherlock, caro, hai dimenticato di prendere il giornale dalla cassetta della posta” trillò la signora Hudson facendosi largo nell’appartamento, un sorriso gioioso sulle labbra. “Ho pensato fosse un vero peccato, visto la splendida notizia in prima pagina!”
“Quale?” chiese Sherlock in tono annoiato, togliendo il cadavere decapitato di un maiale dal divano per farle spazio. “Anderson si è dato alla pesca sportiva? La pesca sportiva si è data ad Anderson?”
“Sherlock” piagnucolò la signora Hudson, torcendosi le mani alla vista delle macchie di sangue rappreso sui suoi cuscini. “Un maiale… Sul mio divano…”
“È molto mansueto, signora Hudson” la rincuorò Sherlock con un’allegra pacca sulla spalla. “Non crea nessun disturbo”.
“Ci credo” mormorò John con aria critica. “È morto”.
Sherlock gli rivolse un’occhiata infastidita che voleva dire “piccolezze”. John sospirò e si alzò in piedi mettendosi le mani sulle ginocchia.
“Una tazza di tè, signora Hudson?”
Quest’ultima, che si era seduta sull’orlo estremo sul divano cercando di darsi un contegno, acconsentì in fretta e subito dopo tornò a rivolgere la propria attenzione a Sherlock che si era messo a suonare il violino.
“Quella povera ragazza, Sherlock, per fortuna l’hanno rilasciata. Avevo veramente paura che le fosse successo qualcosa di molto brutto”.
Il detective non mostrò il minimo segno di interesse.
“Ah sì?”. Cavò un suono molto simile a un gatto che si fosse chiuso la coda in una porta. “Bene”.
John poteva leggergli in faccia la parola “noioso” come se fosse comparsa in caratteri al neon sulla sua fronte. Lui, invece, sporse la testa oltre il muro e le rivolse un’espressione meravigliata.
“La ragazza? Vuole dire Chris Howard?”. Imprecò: si era appena scottato un dito col bollitore. “La giocatrice di tennis?”
La signora Hudson si mise entrambe le mani sul cuore con un gesto sollevato.
“Appena diciott’anni… Povera bambina… Meno male che è tutto finito”.
John si fece avanti con il vassoio con le tazze e la teiera, l’aria interessata.
“Che storia pazzesca” mormorò, sedendosi sulla sua poltrona dopo aver servito il tè. Sherlock alzò gli occhi al cielo e prese a roteare l’archetto in aria a mo’ di spada. “Prima inglese a vincere Wimbledon dopo più di quarant’anni. Diventa praticamente un’eroina nazionale e il giorno dopo la vittoria… Puf”. Bevve un sorso dalla sua tazza, pensieroso. “Sparita nel nulla”.
“È illesa?” chiese con voce strascicata Sherlock, riprendendo a suonare con vigore.
La signora Hudson scorse veloce l’articolo.
“Sì. Non un capello fuori posto, Dio sia lodato”.
Sherlock sbuffò e sorrise in maniera ovvio.
“Ricerca spasmodica di pubblicità”. Produsse un acuto spaccatimpani. “Noioso, noioso, noioso”.
John lo guardò esterrefatto.
“Ricerca spasm- Sherlock, hai idea di cosa voglia dire vincere Wimbledon da inglese? Si è a un passo così” mostrò due dita a pochi millimetri l’una dall’altra, “dal diventare baronetti. Più pubblicità di questa e si muore!”
Sherlock gli rivolse uno sguardo per niente impressionato.
“Io sono stato decine di volte a un passo così dal diventare baronetto”. La sua bocca si stirò in un ghigno derisorio. “Come puoi vedere, è un titolo che danno a cani e porci”.
“Sherlock! Il linguaggio!”
“Le chiedo scusa, signora Hudson”. Riposò il violino sulla spalla, seccato. “Quell’imbecil- Quel discutibile  individuo di mio fratello è baronetto, John. Ridicolo, semplicemente ridicolo”.
John inspirò profondamente, tentando di recuperare la calma.
“Beh, fatto sta che si è appena chiusa una storia orrenda e dovremmo esserne tutti felici”.
Sherlock alzò il violino per aria in segno di vittoria.
“Evviva” disse in tono da funerale.
“Sherlock-”
Il campanellò squillò in maniera famigliare.
“Toh” disse Sherlock, divertito. “Baronetto in fabula. Signora Hudson, le dispiacerebbe andare ad aprire?”
“Non sono la vostra domestica, giovanotto” fece sussiegosa quest’ultima prima di alzarsi in piedi. Il detective le sorrise in maniera disgustosamente falsa.
“La ringrazio”.
 
*
 
John si sistemò più comodamente sulla poltrona, in attesa. Nonostante l’atmosfera fosse sempre così densa da poter essere tagliata con un coltello ogni volta che il maggiore degli Holmes veniva a fare visita, si scoprì a essere felice di quell’intrusione imprevista: Sherlock stava raschiando il fondo del barile dell’intrattabilità. Erano passati mesi dall’ultimo caso considerato stimolante a sufficienza, e la sua pazienza languiva quasi come le loro finanze.
“Suo fratello è un po’… suscettibile stamattina, signor Holmes”.
John sorrise. La signora Hudson stava tentando di mettere in guardia il loro ospite. Santa donna.
“Stamattina, signora Hudson? ”. Mycroft sembrava scettico e molto divertito. “Immagino che suscettibile sia un garbato eufemismo per insopportabile”.
Sherlock emise un basso ringhio da cane da caccia. Lo scalpiccìo di passi e le voci erano vicinissimi, e fu questioni di secondi prima che qualcuno bussasse.
“È permesso?”
Sherlock si sdraiò sul divano e si raggomitolò con la schiena alla porta, avvolgendosi nella sua vestaglia come un baco da seta.
“No”.
La porta si aprì e Mycroft fece la sua abituale entrata flemmatica nella stanza, dondolando l’ombrello che portava appeso al braccio. Era impeccabilmente vestito e illeggibile come sempre.
“Oh per l’amor di Dio, Sherlock” disse infastidito, avvicinandosi con aria oltraggiata al gomitolo di seta azzurra che era diventato suo fratello. “Comportati da persona adulta”.
“Prima che entrassi” mormorò il suddetto gomitolo con un sibilo arrabbiato, “questa era una brutta giornata”.
“E ora?”
“Ora è orrenda”.
John si trattenne a stento dal lasciarsi sfuggire una risatina. Mycroft prese un lungo, tremante sospiro denso di indignazione contenuta, poi prese a dondolarsi sulle punte e si rivolse con tono perfettamente controllato al dottore.
“John” salutò educatamente, porgendogli una mano che lui strinse, “felice di vederla”.
“Idem” fece John, cordiale.
Il gomitolo di seta blu emise un grugnito che voleva dire “brutto venduto”.
Mycroft gli sorrise, non dando alcun segno di voler allentare la stretta.
“Mi dica, dottore, come se la cava a tennis?”
John rimase immobile, preso alla sprovvista. Un occhio di Sherlock fece capolino da sopra la spalla, guardingo e – sebbene lui se lo volesse negare ad ogni costo – interessato.
“Beh, ho giocato un po’ all’università…”. Ridacchiò, confuso. “Data la mia statura non ho mai avuto un servizio micidiale, ma mi dicevano che avevo un buon rovescio”.
Gli occhi di Mycroft brillarono di una luce maliziosa. John conosceva quello sguardo: era lo stesso che Sherlock mostrava al mondo prima di snocciolare uno dei suoi monologhi al vetriolo verso il povero malcapitato di turno.
“Scommetto che se la cavava egregiamente. Al contrario del nostro Sherlock, qui” indicò il gomitolo rannicchiato sul divano con il proprio ombrello, lo sguardo pieno di rammarico, “che era straordinariamente poco dotato”.
“Non è vero!”
“…Sebbene a lui costi ammetterlo” proseguì Mycroft senza fare un plissè. Lanciò uno sguardo complice a John, il quale rabbrividì. “Era piuttosto bravo a scherma, però. Ha sempre preferito gli sport che prevedevano il contatto fisico”. Si chinò per sussurrargli in tono confidenziale: “Sport individuali, ovviamente, anche perché chiunque avrebbe preferito farsi uccidere il gatto sotto gli occhi piuttosto che averlo in squadra”.
John emise uno sbuffo divertito.
“Sherlock preferiva il contatto fisico?” Indicò a suo volta il gomitolo sul divano, che ora tremava di rabbia. “Stiamo parlando della stessa persona?”
“John, piantala di familiarizzare col nemico!”
Mycroft annuì vigorosamente.
“Oh sì, sì. Lo teme moltissimo, ma lo desidera con altrettanta forza. Così tenta di ottenerlo… Con i metodi che gli sono più congeniali, diciamo”.
Sherlock decise che ne aveva abbastanza e scattò in aria come una molla, afferrando al volo l’archetto del violino prima di avvicinarsi alla coppia con passi infuriati e puntarlo a pochi centimetri dal naso del fratello.
“Smettila” sibilò, la voce tremante di rabbia. “Sei solo invidioso perché la tua pancia grassa non ti ha mai fatto vincere nemmeno una medaglia di badminton!”
Mycroft fece filosoficamente spallucce.
“Ho altre qualità”.
“Ah sì? Nascoste, presumo”. Fece roteare nuovamente l’archetto come una sciabola; John arretrò d’istinto per paura di essere accecato. “Così nascoste che nemmeno un detective geniale come me ha mai saputo trovarle!”
Mycroft rise a denti stretti.
“Sì…”
I due fratelli si scambiarono un’occhiata di gelido rancore. Sherlock, notò John, tremava ancora per la rabbia, mentre Mycroft non aveva fatto una piega.
“Ora che ho la tua attenzione” sillabò lento il maggiore dei due, “vorresti sederti e ascoltare il motivo della mia visita? Prima te lo dico, prima me ne vado. John potrà mangiare il suo tanto desiderato pranzo e tu” gli rivolse un ghigno, “potrai correre a chiamare la mamma per dirle di lucidare ancora una volta le tue medaglie di scherma”.
Sherlock alzò il mento, fiero.
“Non metterti comodo”.
John, capendo che ormai la tempesta era passata, si intromise fra i due schiarendosi la voce.
“Mh, non lo ascolti, Mycroft”. Gli indicò con un sorriso indeciso la propria poltrona. “Prego”.
“Grazie, John”. Una volta che si furono tutti seduti, Mycroft appoggiò l’ombrello di fianco alla gamba destra e cominciò a parlare. “Immagino abbiate visto i giornali, stamattina”.
“Sì” rispose John, guardando con la coda dell’occhio Sherlock che era ancora nero in volto.
“La signorina Howard è stata rilasciata incolume, cosa di cui siamo tutti grati, dopo un sequestro durato più di un mese. In questi trenta giorni non è stata fatta la minima chiarezza né sugli esecutori né sui mandanti del rapimento. Scotland Yard brancola nel buio”.
“Che novità” commentò Sherlock a denti stretti. Mycroft annuì.
“Ora, la signorina Howard non è una persona qualunque. Ha risollevato l’immagine dello sport inglese a livello mondiale, dopo anni di insuccessi francamente imbarazzanti dato che il nostro paese è la culla del tennis-”
“La Francia è la culla del tennis, Mycroft, visto che quest’ultimo è un’evoluzione della pallacorda” corresse Sherlock, secco. “Sei sempre così fastidiosamente impreciso”.
John lo implorò con lo sguardo di non riprendere la loro faida aggrappandosi a cose così infantili, ma per sua fortuna Mycroft non volle raccogliere l’offesa.
“Dicevo, Wimbledon è il più importante evento tennistico del globo e gli atleti nostrani si sono sempre rivelati inadatti a mantenere alti i loro standard. Questo fino alla signorina Howard. Inutile dire che lasciare questi criminali impuniti vanificherebbe i suoi sforzi nel risollevare l’immagine del paese”.
Sherlock si lasciò sfuggire una risatina amara.
“Una ragazza poco più che maggiorenne è stata rapita e tutto quello che vi interessa è la figura che ci fa questa maledetta nazione”.
John gli rivolse uno sguardo incredulo. Persino Mycroft ruppe la sua solita corazza impassibile e sollevò un sopracciglio, stupito.
“Da quando sei così sensibile alle disgrazie altrui, Sherlock?” chiese quest’ultimo profondamente interessato.
Sherlock voltò la testa, infastidito, intimandogli con un gesto nervoso della mano di andare avanti. John notò con meraviglia che era leggermente arrossito.
“È una questione di ampio respiro, fratello. Mi è stato chiesto dai piani alti di” sorrise, minaccioso, “stimolare il tuo interesse al riguardo”. Lanciò uno sguardo eloquente a John. “La ricompensa, inutile dirlo, sarà adeguata ai vostri sforzi”.
Sherlock gli rivolse un’occhiata penetrante.
“La polizia non ha richiesto il mio aiuto”.
“La cosa ha mai avuto importanza per te? Comunque, ho già dato disposizioni”. Sollevò il proprio orologio da polso davanti a sé e si mise a fissarlo con attenzione. “Riceverai una chiamata dall’ispettore Lestrade in tre… due… uno…”
Il cellulare di Sherlock prese a vibrare dalla tasca della sua vestaglia. Il detective lanciò un ultimo sguardo assassino a suo fratello, dopodichè si alzò in piedi e si diresse con passi di piombo in cucina.
Mycroft sorrise trionfante e si congedò da John con la promessa che si sarebbe risentiti presto.
 
*
 
“Stupido… Irritante… Becchino”.
John rise. Non aveva mai sentito quella particolare denominazione di Mycroft, prima – e dire che Sherlock sapeva diventare piuttosto fantasioso al riguardo.
“Becchino?” chiese, aggrappandosi alla maniglia gialla mentre il taxi in cui erano seduti prendeva una curva particolarmente stretta.
“Sì, è un maledetto corvaccio del malaugurio. Lui e il suo ridicolo ombrello”. Fece un gesto stizzito verso il finestrino, da cui entrava la luce calda del sole. “Cosa diavolo se ne fa se non piove? Crede di fare scena? Beh, fa solo pietà”.
“Per me ci dorme anche insieme” rincarò la dose John, sorridendo. Sherlock emise uno sbuffo d’assenso. “Magari ci fa pure il bagno, assieme. Ma non solo nella doccia – no, anche al mare. Sai, lo coordina al costume gessato e alla cravatta con su gli ombrelloni…”
Sherlock si fece sfuggire una breve risata di fronte a quell’immagine.
“Non che tu sia meglio. Secondo me, vostra mamma ti comprava tutto col bavero per farti contento. Le t-shirt, i pigiami, ogni cosa. Così potevi fare l’erore del mistero in ogni circostanza”.
Non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere, lanciando un’occhiata di sbieco a Sherlock per vedere quanto fosse grave il danno che aveva fatto.
“Attento, John” gli intimò questo in tono glaciale. Ma sorrideva.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: questa storia unisce due delle mie più grandi passioni, il tennis e Sherlock, ma siccome immagino che non tutti siano dei tifosi di questo sport vi avverto ora che lo scenario è questo e che beh, se non vi piace, è comprensibilissimo e forse dovreste fermarvi qui.
Se invece la cosa non vi crea tanto disturbo unitevi alle danze *O*
(Non vi preoccupate, non c’è così tanto tennis. Era solo un avvertimento in amicizia, visto che non voglio annoiare nessuno).
Ringrazio ancora tutte le gentilissime persone che hanno commentato :*
P.S. Ah, nel canone Sherlock è un bravo spadaccino. Pensavo fosse divertente fargli vincere un paio di medaglie di scherma :D
P.P.S. La povera Inghilterra non fa così schifo, a tennis, anche se è vero che un inglese non vince Wimbledon da molti decenni, sia nel circuito maschile sia in quello femminile. È una cosa che gli rode molto ma su cui fanno anche molta ironia :D

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Capitolo 3
*** Rovescio ***


La famiglia Howard abitava in un’elegante villetta di un bel quartiere residenziale, il cui giardino era in quel momento completamente occupato da fotografi, giornalisti e poliziotti che tentavano di mantenere l’ordine.
Il sergente Donovan, radiotrasmittente alla mano, riconobbe John e Sherlock in mezzo alla folla impazzita e fece loro un riluttante cenno di riconoscimento.
“Dovevo aspettarmelo” disse a denti stretti facendo segno agli agenti di lasciarli passare avanti. “Come se non ci fossero già abbastanza scocciatori in questa casa” proseguì indicando con disprezzo l’impressionante montagna di persone che strillavano a pieni polmoni di poter fare foto, interviste, domande ai famigliari.
“Giuro che ho spento il flash” ribatté soavemente Sherlock. Donovan gli lanciò uno sguardo di fuoco.
“Vedi di tenere a freno la lingua, freak. La ragazza è sotto shock”. Giocherellò con l’antenna della ricetrasmettente, lo sguardo improvvisamente scuro. “Sembra che non si sia accorta che è stata rilasciata. Non-” fece un gesto brusco con la mano, intimando loro di entrare, “Beh, vedrai con i tuoi occhi. Ma se fai il bastardo come tuo solito ti sbatto fuori, fosse l’ultima cosa che faccio”.
Sherlock le rivolse un sorriso sarcastico. “Stai allegra, Donovan – ah, ma sono indelicato, forse. Dimenticavo che per te è soprattutto una faccenda personale ”.
John, prevedendo una battuta spiacevole delle sue, lo spinse avanti mettendogli una mano in mezzo alle scapole. Sally lo guardò confusa.
“Cosa?”
Prima che John lo spedisse praticamente a spintoni oltre la porta, il detective fece in tempo a farle un occhiolino.
“Niente cadavere, niente Anderson!”
 
*
 
Lestrade li accolse nel piccolo androne della casa, visibilmente accigliato.
“Sherlock. John”. Si strinsero brevemente la mano. “Spero che tu riesca a cavarne fuori qualcosa, perché noi non sappiamo che pesci pigliare” disse rivolto al detective.
Quest’ultimo si tolse i guanti con un sorriso arrogante sulle labbra.
“Credo proprio che avrò più successo di voi. Come sempre”.
Lestrade alzò gli occhi al cielo.
“Seguitemi. La ragazza è al piano di sopra”.
“Pensate che sappia qualcosa dei suoi rapitori?” chiese John salendo le scale. L’ispettore fece spallucce.
“Non riusciamo a capirlo”.
“Non parla?”
“Sì e no”. Aprì la prima porta a destra, facendo un cenno ai due poliziotti che la sorvegliavano. “Adesso vedrete”.
 
*
 
La stanza era piccola, con i muri dipinti a strisce rosa e bianche completamente tappezzati di poster raffiguranti tenniste nelle pose più disparate. Accanto a una grande finestra, coperta fino al mento da un spesso piumone, stava rintanata nel letto una ragazzina che avrà avuto al massimo diciott’anni.
“Avevo detto basta domande! È esausta, deve riposare!”
John arretrò istintivamente di fronte alla furia bionda che aveva interrotto il loro contatto visivo con quella che doveva essere Christine Howard. Era una giovane donna sui venticinque anni, dai lineamenti delicati e gli occhi azzurri, che ora li stavano squadrando con rabbia e diffidenza.
“Siamo con la polizia, signorina…” fece conciliante John porgendole una mano.
“Pamela Howard” rispose secca lei senza stringergliela. “Non mi interessa se siete della polizia o dell’MI6. Mia sorella è ancora provata da quello che le è successo. Si era detto basta interrogatori, per oggi!”
Sherlock alzò un sopracciglio, stringendo le labbra in una piega severa e ricambiando lo sguardo ostile che la donna gli stava rivolgendo. Lestrade si fece avanti schiarendosi la voce.
“Signorina Howard, il signor Watson, qui” indicò John con un gesto della mano, “è un dottore. Cioè uno, ehm, psicologo… In qualche modo. E il signor Holmes è il suo assistente”. Lanciò un’occhiataccia a Sherlock che aveva già aperto la bocca per ribattere, indignato. “Vogliamo solo accertarci che sua sorella non abbia subito traumi gravi”.
“Per un’eventuale terapia c’è tempo”, rispose duramente la donna. “Fuori di qui” e indicò la porta, irremovibile.
“Altrimenti cosa fa”, si intromise Sherlock in tono per niente impressionato, “chiama la polizia?”
Per evitare che Pamela Howard stampasse una delle sue mani dalle lunghe dita affusolate sulla guancia del suo migliore amico, John si intromise tra i due con quello che si augurava fosse un atteggiamento diplomatico.
“Le chiedo solo cinque minuti, signorina. Domande semplici, elementari, giusto per controllare le sue reazioni di base”. Alzò le mani in segno di resa. “Poi ce ne andremo. Promesso”.
Pamela Howard lo squadrò dall’alto in basso come se volesse dissezionarlo con lo sguardo. John deglutì; lei incrociò le braccia sul petto.
“Giuri” impose, drastica.
“Su cosa?” chiese John, confuso.
“Su Ippocrate, mi pare ovvio” suggerì Sherlock spazientito.
“Su quello che ha di più caro. Mia sorella deve riposare – ergo, ve ne dovete andare fra cinque minuti e non oltre”. Assottigliò gli occhi, minacciosa. “Ho bisogno di una garanzia”.
John si girò a guardare Sherlock. Sherlock ricambiò lo sguardo di John.
Non poteva sapere se il suo amico avesse davvero intenzione di andarsene in cinque minuti di orologio; lui non era scaramantico, ma non gli andava comunque di giurare su Harry – che in ogni caso gli aveva sempre dato un sacco di problemi.
Oh beh, dato che era partito tutto dal detective, la soluzione era semplice.
“Giuro su di lui” disse ad alta voce, indicando Sherlock con un dito. Questi lo guardò come se John gli avesse appena tranciato con una motosega le corde del suo violino sotto agli occhi.
“Che cosa?”
“Le posso assicurare che il giuramento ha valore” si intromise Lestrade, esibendo un sorriso che a John parve fintamente rassicurante e genuinamente spaventoso. “Capisce…”
Pamela Howard sembrò abbandonare per un momento la sua espressione truce, sostituendola con quella di una che la sapeva lunga.
“Aaah…” disse, annuendo lentamente.
John si rese conto che giurare su Sherlock era stata una pessima, pessima idea.
“Posso parlare con la ragazza, ora? Faccia partire i cinque minuti”.
Non vedeva l’ora di andarsene da quella casa che, Donovan aveva ragione, era completamente invasa dai pazzi.
 
*
 
“Ciao, Christine” salutò gentilmente John, inginocchiandosi a lato del letto. Nonostante la ragazza avesse diciotto e non cinque anni, era un gesto che gli era venuto naturale fare: così, in pigiama, con il viso pallidissimo e gli occhi inquieti che guardavano ovunque tranne lui, sembrava poco più che una bambina terrorizzata. “Sono il dottor Watson. Sono qui per aiutarti”.
Si girò per lanciare uno sguardo alle sue spalle. Sherlock, con il cappotto ancora indosso, ascoltava la loro conversazione con sguardo attento, una mano stretta a pugno appoggiata alla bocca.
Avevano concordato che fosse più sicuro che John si occupasse dell’interazione, visto che Pamela aveva insistito per restare nella stanza e ascoltare tutto parola per parola.
Tornò a rivolgere la propria attenzione alla ragazza. Assomigliava molto alla sorella, sebbene avesse un viso più rotondo e dei tratti ancora infantili; piena di lentiggini, con quel naso buffo, avrebbe avuto una faccia simpatica se non fosse stata contratta dall’ansia.
“Vorrei che mi dicessi, senza sforzarti, quello che ti ricordi sia avvenuto il giorno dopo la finale. Va bene qualunque cosa, sensazioni, odori, rumori che ti sembra di aver sentito…”. Si interruppe di colpo: gli occhi della ragazza si erano riempiti di lacrime. Si affrettò a rassicurarla: “Calmati, Christine, nessuno ti farà più del male-”
“Basta così” sentì interromperli la sorella, il tono che non ammetteva repliche.
“No, aspetti un attimo, i cinque minuti non sono passati” ribatté risoluto John. Sherlock gli lanciò un discreto, ma sincero sguardo di apprezzamento per la sua caparbietà. “Christine, ascoltami”.
La ragazza alzò faticosamente la testa e incontrò per la prima volta i suoi occhi. Sembrava completamente sperduta. Gli tornarono in mente le parole di Donovan: pareva che fosse ancora sotto sequestro, che non si fosse resa conto di essere stata liberata.
“Va bene” scandì piano John, sorridendole con tenerezza, “qualunque cosa”.
Christine abbassò nuovamente il capo, poi lo rialzò, guardò fuori dalla finestra e annuì impercettibilmente.
“Mille…”. Deglutì, a fatica, la voce tremante e arrochita di chi deve aver gridato per giorni, senza essere mai ascoltata. “Millenovecentonovantatre”.
Dopodiché si girò da un lato e chiuse gli occhi, stringendo forte i pugni ai lati del viso.
 
*
 
“Grazie mille, Greg, per aver così gentilmente calcato la mano prima” sussurrò sarcastico John nell’orecchio dell’ispettore mentre tutti scendevano al piano di sotto. “Ora anche le poche persone che non credevano alla mia omosessualità avranno alzato bandiera bianca”.
Lestrade sorrise e tentò di trattenere una risata per non farlo arrabbiare ulteriormente.
“Non ho detto niente di esplicito”.
“Ah sì? Beh, le tue sopracciglie alzate erano più esplicite di un mio coming out sul momento!”
“Andiamo, John, è stato fatto unicamente a fini professionali. Che cosa diavolo te ne frega se Pamela Howard pensa che tu sia gay e stia con Sherlock?”
John pensò a quei begli occhi azzurri brillanti di rabbia e a un fisico scolpito da anni e anni di esercizio fisico (anche lei era una tennista professionista).
“…Beh, se proprio lo vuoi sapere me ne frega!”
Lestrade rise e John non potè fare a meno di imitarlo. Era una situazione totalmente surreale.
“Se voi due avete finito di shignazzare come due stupide liceali” li interruppe Sherlock in tono annoiato, gli indici sulle tempie e gli occhi che fremevano di fastidio sotto le palpebre chiuse, “io starei tentando di risolvere questo caso”.
John alzò gli occhi al cielo. Sherlock riaprì i suoi di scatto e gli lanciò uno sguardo incendiario.
Sembrava sul punto di dire qualcosa di velenoso, ma venne interrotto da Pamela Howard che, evidentemente impressionata dall’ubbidienza di Watson psicologo ai suoi ordini, stava cercando di farsi perdonare la sua durezza di poco prima con l’offerta di una tazza di tè.
Vi furono dei sospiri sollevati e un coro di risposte affermative, e in pochi secondi tutta la squadra investigativa era sciamata nella cucina della casa.
 
*
 
“Eravamo tutti così fieri di lei. Così felici”. Pamela abbassò lo sguardo sulla sua tazza di té, gli occhi un po’ lucidi. “Christine è sempre vissuta per allenarsi, per il tennis. Era timida, non usciva quasi mai, non stringeva amicizie facilmente e si isolava spesso. Vedeva solo il traguardo, ed è così crudele che subito dopo averlo raggiunto sia stata ridotta… Com’è ora…”
Tirò su col naso. John le mise una mano sulla spalla, un sorriso di conforto sulle labbra. Sherlock, dalla parte opposta della cucina, lo fulminò con lo sguardo.
John non gli prestò attenzione neanche per sbaglio.
“A-aveva sempre avuto problemi a fidarsi, a buttarsi, a vivere in mezzo alle persone… Ora temo che non ci proverà neanche più. Sembra l’ombra di sé stessa”. Singhiozzò rumorosamente, coprendosi gli occhi con la mano libera, il corpo che tremava. “Non parla nemmeno più, l’avete visto coi vostri occhi”.
“Signorina Howard, sua sorella è stata rilasciata solo ieri. Lo stato di shock in cui si trova è perfettamente normale” si intromise Lestrade, pratico e gentile. “Non pensi al peggio. Le sue capacità di ripresa potrebbero sorprenderla”.
Pamela gli rivolse uno sguardo grato, gli occhi rossi e un sorriso tremante sulle labbra.
“Sì, forse ha ragione. Non dovrei essere così negativa. È che Christine è sempre stata così fragile… E tutta questa pressione mediatica non aiuta di certo” concluse, il tono duro di poco prima di nuovo evidente nella sua voce.
Donovan fece un passo in avanti nella sua direzione.
“Faremo il possibile per tenere lontani gli sciacalli” disse combattiva. “Non si preoccupi di quello. Sappiamo come tenere a bada la stampa”.
Uno sbuffo scettico echeggiò nella stanza. Tutti si voltarono istintivamente verso Sherlock.
“Lei non la pensa nella stessa maniera, signor…” chiese freddamente Pamela. Sherlock le rivolse uno sguardo noncurante e si girò con un movimento elegante in modo da appoggiare la schiena al frigorifero.
“Holmes. No, non penso che sappiano come tenere a bada la stampa, ma sono certo che faranno il possibile – come sono altrettanto certo che  non basterà minimamente” disse mellifluo, tornando poi a rivolgere l’attezione alla propria tazza di te.
La ragazza assottigliò gli occhi e gli rivolse uno sguardo pieno di malcelato disprezzo.
“Lei non mi piace”.
“Ah, me lo dicono sempre tutti” ribatté lui con voce leziosa, facendo finta di pavoneggiarsi con una mano. John capì subito che in realtà, sotto le stupide arie che si stava dando, era mortalmente serio. “Vale anche il reciproco, se le interessa” concluse il detective poggiando con garbo la tazza di tè sul lavello, gli occhi indignati di tutti fissi su di lui.
Pamela si irrigidì di scatto.
“Sarei grata se se ne andasse, visto che non è che un misero assistente e qui è di ben poca utilità”.
Un ghigno derisorio si dipinse sulle labbra di Sherlock.
“Ah, le obbedisco subito. Qui è lei la padrona di casa”. Si rinfilò i guanti, lentamente, con grande attenzione. “Anche se dubito che i suoi genitori, se mai dovessero scoprire che lei è incinta, sarebbero così comprensivi da non sbatterla fuori”.
Rialzò uno sguardo duro e freddo come il ghiaccio sulla ragazza: Pamela era impallidita e stringeva con frenesia il bordo del piano cucina con le nocche, come se avesse paura che le gambe non la reggessero.
Lestrade fece un passo in avanti verso di lui, minaccioso.
“Holmes-”
“Le consiglierei di riferire al suo ragazzo sia questa bella notizia sia quell’altra, meno bella, dell’aborto che ha già messo in programma per lunedì prossimo nella clinica privata qui dietro l’angolo”. Fece una pausa teatrale, poi spalancò gli occhi in un’espressione di falsa sopresa, le labbra strette in una piega crudele. “Ah, ma il bambino non è suo… Mi sbaglio? Oh, allora potrebbe rivelarsi complicato dirglielo, dato che lui sospetta già da mesi una tresca col suo allenatore”.
Pamela era cerea in viso come se avesse appena visto un fantasma. Nella cucina calò un silenzio agghiacciante.
Sherlock fece un piccolo sorriso.
“Se davvero la polizia è così brava a tenere a bada la stampa, vedrà che nessuno farà trapelare la notizia al di fuori di queste quattro mura. La consideri una sorta di prova del nove. John”. Rivolse uno sguardo intenso ed eloquente all’amico, che lo guardava disgustato. “Andiamo”.
Sherlock girò sui tacchi e si avviò verso la porta d’ingresso. Pamela scoppiò a piangere. Donovan esplose in una sequela di insulti che avrebbero fatto impallidire uno scaricatore di porto. Lestrade chiese seccamente a John di tenerlo a bada, la prossima volta.
John sospirò, annuì con la coda fra le gambe e uscì a propria volta dalla casa.
Il marciapiede era vuoto. Sherlock aveva preso un taxi da solo.
 
 
 


 
 
Note dell’autrice: grazie ancora a tutti dei bellissimi commenti :* Spero vi piaccia come si sta sviluppando la storia.

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Capitolo 4
*** Doppio Fallo ***



John uscì dal taxi sbattendo la porta. La voce del guidatore lo inseguì dal veicolo ricordandogli il resto e lui borbottò che poteva pure tenerselo.
Erano le sei di sera, il cielo era scuro, faceva freddo e quel viaggio verso casa in solitudine non l’aveva aiutato ad ammorbidirsi nei confronti di Sherlock. Tutto il contrario; sentiva la rabbia crepitare sottopelle come una corrente elettrica bisognosa di scaricarsi distruttivamente su un oggetto.
Salì gli scalini con passo pesante, in modo da palesare il suo arrivo. Era arrabbiato, ma era pur sempre un ex-militare con un solidissimo codice d’onore: non l’avrebbe mai colpito alle spalle.
Anche se sapeva che dare a Sherlock il tempo di prepararsi significava annullare del tutto le possibilità di vittoria.
Girò la maniglia ed entrò nell’appartamento in penombra. Lui era già in vestaglia, e suonava vicino alla finestra dandogli le spalle. Questo significava che l’aveva visto arrivare e si era messo a suonare in quel modo barbaro appositamente per lui.
Digrignò i denti: il detective sapeva benissimo che quelle “melodie” (sempre se così si potevano chiamare) tutte acuti e sfrigolii mandavano in pezzi i suoi nervi. Sherlock era in assetto di guerra – molto bene, se era questo che voleva, guerra avrebbe avuto.
“Che cosa diavolo significava quel che è successo prima?”
Lui non si voltò neanche.
“Esattamente quello che ho detto”.
John strinse i pugni lungo i fianchi, chiuse gli occhi per raccogliere quel minimo di pazienza che gli era rimasta e scosse la testa.
“Hai… distrutto quella ragazza. Senza nessun motivo”.
Sherlock attaccò un motivo frenetico e rabbioso. John vide che le sue dita erano pallide per lo sforzo.
“Io non faccio mai niente senza motivo”. Smise bruscamente di suonare e si girò: il suo sguardo era freddo e tagliente come un coccio di vetro. “Al contrario di te”.
John fece un passo avanti ma riuscì a trattenersi all’ultimo dal prenderlo per il bavero e strattonarlo.
“Cosa?...” Rise senza allegria. “Certo, certo, sono stato io a torturare psicologicamente per sfizio una poveretta con i nervi già a pezzi per il rapimento di sua sorella! Mi hai proprio colto in flagrante!”
Sherlock resse brevemente il suo sguardo con quella che sembrava, e qui John dovette fare un serio sforzo per non tirargli un pugno, delusione; poi chinò la testa e riprese a suonare il violino con fare annoiato.
“A volte adoperi una forma di sarcasmo molto stupida”.
John arricciò il labbro come se avesse intenzione di morderlo.
“Scommento che qui dovrei ringraziarti perché hai detto “a volte” e non “sempre”. Beh, se è il tuo modo di riportare la discussione su binari ragionevoli, mi spiace non sta avendo un cazzo di effetto”.
Sherlock fece schioccare l’archetto in aria e si girò a fronteggiarlo con gli occhi brillanti di rabbia.
“Perché hai giurato su di me?” chiese, le labbra tremanti.
John batté incredulo le palpebre.
“Scusa?”
“Perché” ripetè Sherlock spiccando le singole lettere come fossero proiettili che lui stesse rivolgendo contro John, “hai giurato su di me?”
“Ma che domanda è?”
“Una domanda sensata!”
Il dottore si strinse nelle spalle e si passò una mano fra i capelli, abbassando lo sguardo a terra.
“Ma non lo so, la ragazza mi ha chiesto di giurare e tu eri lì, ben visibile, e ho pensato che fosse comodo-”
Comodo”. Sherlock pronunciò la parola come se la avesse assaggiata, masticata e poi sputata con disgusto. “Comodo, John?...”
Il dottore gli si avvicinò di un passo, annuendo con il mento ben alto in aria.
“Sì, comodo, Sherlock, e infatti siamo riusciti a parlare alla ragazza! Era così per dire!”
“Perché non hai giurato su Harry?” chiese velocissimo il detective, l’archetto ancora stretto in mano.
“Ma saranno fatti miei!”
“Lei non era comoda perché è un’alcolizzata, vero? Su di lei non sei riuscito a giurare così per dire”. Abbassò il tono di voce a un sussurro. “Perché ti fa pena, una sorella a metà”.
Ora erano a un metro scarso di distanza e la tensione era insopportabile. John pensò che forse era veramente il caso di prendersi a pugni e risolverla nella buona, vecchia, incivile maniera: non gli piaceva dove il discorso stava andando a parare.
“Sherlock” disse, calmo e minaccioso, “ti consiglio di fermarti qui”.
Il detective continuava a fissarlo con quello sguardo penetrante capace di far confessare agli assassini non solo gli omicidi, ma persino i peccatucci di gioventù. Era uno sguardo-combinazione capace di aprire ogni cassaforte segreta custodita nei cuori della gente: era straordinario e anche un po’ crudele – di certo era impietoso – oppure, come adesso, era crudelmente straordinario, perché John non avrebbe dovuto sentirsene attratto come da una calamita. Quale persona sana di mente l’avrebbe trovato bello e magnetico? Forse un uomo come lui che in quel momento sapeva di essere totalmente dalla parte del giusto, senza alcuna colpa sulla coscienza; o forse, un uomo come lui che si sentiva vivo solo in presenza del pericolo.
E Dio solo sapeva se quegli occhi e la persona cui appartenevano non erano la cosa più pericolosa con cui lui avesse mai avuto a che fare.
“Potevi andare sul classico” disse infine Sherlock, dopo un lungo momento di intensissimo silenzio che sembrava essersi dilatato nell’eternità, “potevi giurare su Dio”.
John strinse le labbra in una linea praticamente invisibile.
“Cioè tu mi stai dicendo” cominciò, il respiro corto, la voce tremante di esasperazione, “che sarebbe più consigliabile giurare il falso su Dio – su Dio, Sherlock – che non su di te. Ho capito bene?”
“Sì”.
Ci fu una pausa.
“Sapevo che avevi deliri di onnipotenza” disse grave John, “ma questo…”
Sherlock alzò gli occhi al cielo.
“Dio non esiste, John”.
“Grazie al cielo, altrimenti ci litigheresti ogni minuto!”
“Probabile”.
Sherlock sorrise, ma non era uno dei rari sorrisi che coinvolgevano quegli occhi implacabili – era un segno di interpunzione non detto: era un punto e a capo. Era un “ho vinto io” che scaturiva unicamente dal suo cervello e non dal suo cuore.
Beh, si disse John, per vincere quella volta sarebbe dovuto passare sul suo cadavere.
“Le tue convinzioni religiose-”
“Che sono anche le tue”.
“…Non lo puoi sapere con certezza, visto che non ne abbiamo mai parlato” tentò diplomaticamente John, anche se un brivido freddo gli corse lungo la schiena.
“Non ti ho detto tutto quello che avevo dedotto su di te quando ci siamo conosciuti” continuò impertubabile Sherlock, facendo ondeggiare l’archetto per aria, il mento appoggiato in maniera quasi civettuola sul violino.
John sentì un altro brivido – questa volta gelido, e in tutto il corpo.
“Ah no? E cosa non mi avresti detto?” chiese, fingendo un tono indifferente e persino un po’ annoiato.
Sherlock sorrise di nuovo: questa volta era un vero e proprio punto esclamativo di trionfo.
“Quando ho incontrato i tuoi occhi per la prima volta” cominciò, suadente, quasi confortante, “anche se non avevo intuito la guerra precisa cui avevi partecipato, ho capito che ciò che avevi vissuto ti aveva convinto nel profondo che un’idea di Dio non può sopravvivere alla realtà di quegli orrori”. Reclinò leggermente la testa per fissarlo da una migliore angolazione. “Medico, reduce di guerra, Iraq o Afghanistan, zoppia psicosomatica… Ateo. Disilluso. Cinico”.
“Tu che dai del cinico a me” commentò John con uno sbuffo, teso a mascherare il tremore della sua voce, “ovvio”.
“Se sei ateo, perché non hai giurato su Dio?” domandò Sherlock in tono ovvio.
“Perché essere atei non vuol dire non portare rispetto a una fede che non è la tua” rispose John in maniera altrettanto ovvia.
“Tu non hai fede in me?”
John si irrigidì. Aveva ragione: quel discorso era diventato paradossale.
“Sherlock” John lo implorò con lo sguardo di capire, di lasciar perdere, “Non importa quanto geniale tu possa essere, o quanto infallibile. Tu. Non. Sei. Dio. Ficcatelo bene in testa”.
“Non ho mai sostenuto di esserlo” replicò serafico Sherlock. “Ti ho chiesto se hai fede in me. Ti ho chiesto perché, sapendo che avresti giurato il falso (perché infatti la conversazione con la signorina Howard è durata cinque minuti e quarantotto secondi, e tu lo sapevi, che sarebbe andata a finire così), hai scelto di giurarlo, fra tutti quelli che conosci, su di me”.
John alzò le mani in segno di esasperazione.
“Ma che ne so! Te l’ho detto, eri lì, giurare su di te avrebbe reso più facile a Pamela Howard credermi, fine della storia! Non ci ho riflettuto più di tanto. Era una cosa senza significato, uno strumento ai fini dell’indagine. Nient’altro”.
John fece uno scatto all’indietro, trattenendo il respiro: Sherlock aveva appena gettato il violino sul divano con violenza e ora gli stava urlando contro, il viso congestionato e i capelli in tempesta.
“È questo il punto! Perché non pensate mai? Perché non vi prendete il tempo per pianificare con un minimo di intelligenza quello che state per dire? Perché, Dio, fate tutto così per fare? Perché?! È un comportamento demenziale, stupido, stupido, stupido!”
“Sherlock-”
“Siete una razza orrenda” sibilò il detective, prendendo dei grossi respiri – era pallido, e tremava. “E stupida. Mi chiedo cosa diavolo sia successo alla selezione naturale, per aver permesso a così tanti di voi di restare in vita”.
John sentì un flusso inconsulto di sangue e adrenalina pompargli nei muscoli e per un attimo sentì di poterlo ammazzare di botte: sentì che se avesse iniziato a colpirlo non avrebbe mai smesso, finchè non si fosse mosso di più, e solo perché lo amava – sì, amava l’uomo che in quel momento lo considerava l’esponente più marcio di una razza stupida e inutile – non alzò un dito su di lui.
Anzi, chiuse gli occhi, piegò a sua volta la testa e quando li riaprì il suo sguardo era duro e piatto come una lastra di marmo.
“Sai, ho spesso pensato che fossi freddo, inumano, egocentrico fino alla mania, totalmente incapace di vivere con le altre persone senza ferirle e autocelebrare te stesso” la sua voce era pesante come il suo sguardo, eppure limpida, quasi paterna, “ma non mi avevi mai disgustato”.
Girò sui tacchi e se ne andò, accompagnando con delicatezza la porta come chi sa che non si disturberà mai più a tornare.
Sherlock chiuse gli occhi; non si voltò; questa volta, non volle vederlo allontanarsi dalla finestra.
 
*
 
Per un attimo aveva seriamente pensato di lasciare l’appartamento di Baker Street, e con esso il suo coinquilino. La passeggiata serale e l’aria gelida sulle rive del Tamigi lo aiutarono per fortuna a pensarci su e al trattenersi dal fare gesti avventati: a dire la verità non aveva nemmeno capito l’esatto motivo per cui Sherlock si era arrabbiato e gli aveva fatto quell’assurda piazzata. La vocina falsa che gli ripeteva incessantemente quanto non gli importasse più nulla di lui, e che poteva pure andarsene a quell’Inferno in cui non credeva, era stata in poco tempo soppiantata da un’altra voce, più dolce e autoritaria (inquietantemente simile a quella della signora Hudson) che gli aveva consigliato saggiamente di far sbollire la rabbia entrambi e di riparlarne daccapo.
Si trattava pur sempre di uno sfogo emotivo di Sherlock. Uno sfogo emotivo di Sherlock! Era incredibile. La piccola crisi che aveva avuto a Baskerville, quando aveva creduto di non potersi più fidare del proprio intuito, aveva a che fare unicamente con sé stesso – ma quella sera lui era sbottato per un motivo esterno all’universo della propria mente: quel maledetto giuramento.
John si era ripetuto fra sé e sé quel che aveva detto a Pamela Howard quel pomeriggio, cercando di rievocare le esatte parole e analizzandole sia separatamente che nell’insieme per trovare cosa avesse tanto turbato il detective: ma non era venuto a capo di nulla.
Rabbrividì e si strinse nella giacca. Era vestito troppo leggero, per le tre di mattina: ma si era così arrabbiato poco prima che la propria temperatura corporea era l’ultima cosa cui aveva badato.
Aveva bisogno di tornare a casa. E non soltanto per stare al caldo.
 
*
 
Quando salì gli scalini del 221B era ancora così immerso nei propri pensieri dal non notare la figura apprensiva e confusa della signora Hudson in piedi davanti alla porta del loro appartamento.
“Signora Hudson” la salutò, sorpreso, “che ci fa alzata così tardi?”
La donna lo guardò preoccupata.
“Ho sentito degli spari e sono scesa a controllare che non fosse successo nulla di grave – ma era solo Sherlock che se la prendeva con i miei muri”. Aggrottò le sopracciglia, assumendo un’espressione compunta. “Deve farsi passare questa brutta abitudine di maltrattare le pareti quando non sta bene-”
“Non sta bene?” chiese John, con un tono più ansioso di quanto avrebbe voluto. Maledizione, non era lui quello che era stato trattato come un errore di Dio.
Dio in cui, effettivamente, non credeva.
Dovevi proprio dimostrare di aver fatto bene i compiti a casa, eh, Sherlock?
La signora Hudson gli rivolse uno sguardo clinico che lo fece quasi indietreggiare spalle al muro.
“John Watson” il dottore deglutì, aspettandosi il peggio, “avete avuto uno dei vostri litigi?”
“Quali sarebbero i nostri litigi?”
“Oh, ma niente, quelle piccole discussioni che ogni coppia ha di tanto in tanto…”
John sospirò rumorosamente e aprì la bocca per provare a spiegare (per la millesima volta!) che lui e Sherlock non erano una coppia, ma la signora Hudson fece un gesto sbrigativo con la mano.
“Ho ragione?”
“Ha usato un termine improprio ma sì, il succo è quello” si arrese John.
“Quale? Discussioni? Allora incomprensioni-”
“No”. John sperò di essere suonato molto categorico. “Coppia”.
La signora Hudson lo guardò con un’aria che definire persuasa era non solo un’inesattezza, ma un’enorme bugia.
“Vuole dormire sul mio divano stasera?”
“Eh?”
Entrambi sobbalzarono: un botto isolato echeggiò nel corridoio, seguito da una breve serie di spari a breve distanza l’uno dall’altro, per finire poi con il rumore di un oggetto fragile che si infrangeva a terra.
John sospirò. Suonava come la sua teiera preferita.
La signora Hudson tornò a guardarlo con aria critica.
“Forse è meglio lasciarlo da solo per un altro po’”.
“Sì, lo penso anch’io”.
“Può comunque sgusciare dentro, John, è pur sempre casa sua e Sherlock deve imparare-”
Qualcosa esplose, colpita da un’altra sequela di proiettili. John si prese la faccia fra le mani.
Decisamente non voleva che il prossimo della lista a finire in mille pezzi fosse lui.
“Accetto l’offerta” disse, laconico.
La signora Hudson gli fece pat pat su un braccio con aria empatica.
“Vedrà che domattina si sarà tutto sistemato. Fra me e mio marito finiva sempre così: pensi che una volta gli ho lanciato addosso tutto il servizio buono e sono andata a dormire da mia sorella. Il giorno dopo abbiamo fatto…” si interruppe per far vagare lo sguardo sul soffitto con aria sognante, “la pace” ridacchiò con una mano sulle labbra, “migliore del nostro matrimonio”.
John ebbe quasi l’impressione che la successiva, violenta sequela di proiettili (sette, doveva aver cambiato il caricatore) fosse l’indignata reazione di Sherlock a quell’allusione terrificante.
 
*
 
La mattina seguente si incamminò tutto indolenzito giù per le scale e prese un lungo sospiro davanti alla porta chiusa. La testa gli doleva: non aveva dormito nulla, sia per la straordinaria scomodità del divano della signora Hudson, sia per i pensieri che gli affollavano la testa.
Stupidamente si chiese se anche Sherlock avesse avuto problemi a prendere sonno per colpa della loro discussione. Che domande, lui aveva sempre problemi a prendere sonno: era un miracolo quando lo faceva!
Si sistemò il colletto della camicia stropicciata per calmarsi i nervi e abbassò la maniglia.
L’appartamento era illuminato dalla luce pallida del primo mattino, ed era delizioso. John si rimproverò per aver solo pensato di poterlo abbadonare. Era la casa migliore che avesse mai avuto.
E non solo per merito di questi bei mobili…
Di Sherlock non c’era traccia. Si diresse un po’ abbacchiato a prepararsi un tè un cucina.
Mentre aspettava che l’acqua bollisse salì in camera per prendere dei vestiti puliti e sentì il rumore della doccia nel corridoio. Sorrise d’istinto: allora c’era. Si cambiò in fretta e tornò al piano di sotto.
La teiera (non la sua preferita - aveva sentito bene, la sera prima: i cocci se ne stavano ammucchiati tristemente accanto ai fornelli) aveva appena preso a fischiare quando lo sentì scendere gli scalini ed entrare in soggiorno.
Era vestito in modo stranamente trascurato considerando i suoi standard.
I pantaloni avevano la piega storta, le scarpe erano state allacciate di fretta e la camicia era sbottonata per metà. Si reggeva la testa avvolta nell’asciugamano con entrambi le mani, e fu solo quando se lo fu tolto dagli occhi che si accorse di lui.
Si fissarono per alcuni lunghissimi momenti.
“Ho preparato del tè-”
“Credevo fosse la signora Hudson-”
John ridacchiò.
“Nah, è una bugia. Sapevi che ero io. Sai distinguere perfettamente le singole camminate”.
Sherlock strinse l’asciugamano con entrambe le mani, guardandolo con aria forzatamente calma.
“Corretto. Lo sapevo”. Mosse piano la bocca in una smorfia che non era un sorriso, quanto un palese sforzo di non esternare emozioni. “Non sapevo se crederci, però”.
“Non hai fede in me, Sherlock?” ritorse con tono sarcastico John, voltandosi per versare il tè nelle loro tazze.
Non si accorse mai quanto si fossero irrigiditi i suoi lineamenti al suono di quella frase.
 
*
 
“Io non sarei tornato”.
Erano in un taxi, diretti verso una destinazione sconosciuta al dottore – un contatto che Sherlock trovava utile per risolvere il caso.
John, che fino a quel momento aveva guardato fuori dal finestrino, si volse verso di lui con espressione sorpresa.
“Cosa?”
Sherlock non lo guardava.
“Io non sarei tornato” ripeté, più lentamente, e John aveva l’impressione che pronunciare quella frase gli costasse tantissimo. “Non credevo che tu l’avresti fatto”.
“Io non sono te”.
“Lo so”.
“Grazie a Dio”.
Sorrise, sperando di farlo sorridere a sua volta, ma fallì. La mascella di Sherlock era talmente contratta che sembrava non l’avrebbe lasciato sorridere mai più.
John sospirò e si mise a fissare le proprie mani congiunte.
“Ti sbagli” disse, annuendo fra sé e sé. Sherlock posò subito lo sguardo su di lui e John sorrise nuovamente: per attirare la sua attenzione nulla era più efficace che dirgli che era in torto. “Saresti tornato. Forse avresti fatto passare un po’ più di tempo, ma saresti tornato a casa, prima o poi”.
Sherlock rimase in silenzio, sprofondando nel bavero del proprio cappotto.
“Come fai a saperlo?” chiese, e a John la sua voce parve quasi esitante.
“Ho fede in te, Sherlock”.
Si guardarono. A volte le sue espressioni assumevano una dolcezza di cui nessuno – tranne lui, e di questo John ne era sicuro - si accorgeva. Sherlock stesso per primo. Erano languide, e spesso pensose, quasi tristi.
Bellissime, pensò, e un po’ se ne vergognò. Non era certo quello il momento di cedere a riflessioni così frivole, non con Sherlock che incredibilmente sembrava non sapere cosa rispondergli.
“Cosa si dice in questi casi?” disse infine lui, dopo aver schiarito la voce e essersi sistemato ancora più strettamente la sciarpa intorno al collo, “Grazie?”
“No. Scusa”.
Sherlock alzò gli occhi al cielo.
“Scusa, sono stato un povero stronzo. Ti ho detto cose che non pensavo”. John cercò il suo sguardo e Sherlock lo incontrò con molta riluttanza. “Al che io risponderei: fa niente, Sherlock. So come sei fatto. Vorrei soltanto sapere quale tipo di esplosione nucleare sia scoppiata in quel cervello sopraffino  per partorire una scena madre che nemmeno Cleopatra”.
“Mamma mi diceva sempre che avrei dovuto fare l’attore” ribattè Sherlock in tono neutro, ma John si accorse che era leggermente arrossito. “Mycroft era verde d’invidia”.
John ridacchiò e Sherlock, finalmente, alzò un timido angolo di labbra a sua volta.
“È vero. Sei un ruffiano incredibile, e un contaballe pazzesco, e un imitatore formidabile”. Abbassò la voce. “Ma non ti illudere di fare fesso me. Non so cosa ti sia preso ieri sera, ma avrei comunque gradito una spiegazione al posto della tua performance da tragedia greca”.
“Non serve più una spiegazione” rispose evasivo il detective, chiedendo al taxista di fermarsi davanti a una casetta dall’aria pulita e ordinaria in fondo alla via. John assunse un’espressione confusa e un po’ irritata.
“Ah no?”
“No”. Sherlock scese dal taxi e infilò la testa nell’abitacolo per gettargli uno sguardo intenso e un po’ lucido. “Perché stamattina sei tornato”.
Poi gli sbatté la portiera in faccia.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: non so come ringraziarvi del feedback incredibilmente positivo che questa storia sta avendo. Davvero, non me l’aspettavo e mi fa felice in una maniera che voi non avete idea. :D
Grazie ancora e spero che la storia continui a piacervi :*

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Capitolo 5
*** Volée ***


Sherlock suonò il campanello. John si schiarì la gola, dondolandosi sui talloni.
“Quindi… Stiamo andando da un contatto”.
Il detective fece un piccolo sorriso di sufficienza, curandosi di mantenere con la maniglia in ottone della porta il contatto visivo ben saldo.
“Sì”.
“Che genere di contatto?”
Si sentì uno scalpiccìo di passi dietro la porta. Sherlock allargò il proprio sorriso.
“Ho bisogno della consulenza di un esperto” sussurrò chinandosi lentamente verso di lui.
John assunse un’espressione sarcastica.
Stavano entrambi fissando lo stucco bianco dello stipite con estremo interesse.
“Tu che chiedi una consulenza? Scomodandoti pure?... Sì, certo”. Emise un grugnito scettico. “Come no”.
“Non sono ferrato nel campo e non mi interessa esserlo” ribatté il detective in tono annoiato, togliendosi i guanti con grazia sbrigativa. “Sono informazioni inutili che dimenticherò subito dopo aver risolto il caso”.
“Quale campo?”
“Quello con una rete in mezzo”.
“Ah, allora Mycroft aveva ragione… Dovevi essere proprio una schiappa”.
Ridacchiò. Gli sembrò quasi di aver sentito il rumore dei denti di Sherlock che digrignavano l’uno contro l’altro.
“John-”
Sherlock Holmes! Oh, che magnifica sorpresa!”
John riuscì a cogliere il supersonico mutamento d’espressione dell’amico, che aveva riprogrammato i lineamenti da “tesi e infastiditia “rilassati e affabili”: l’effetto che ne era derivato era comico a dir poco e lui quasi rise in faccia all’entusiasta signora di mezza età che aveva avviluppato Sherlock in un abbraccio soffocante.
“Signora Murray, lieto di- Ugh”.
John sigillò le labbra in una strettissima linea di puro autocontrollo, alzò lo sguardo alle nuvole e attese, la pancia che gli doleva.
La signora Murray era bassa e rotondetta, ed era vestita in un chiassoso vestito a fiori rosa su sfondo nero che era stato accuratamente abbinato a un trucco abbondante (sulle sfumature del lilla) e a una permanente (rosso fuoco, fresca di parrucchiere). Sembrava avere tutta l’intenzione di separare Sherlock in due all’altezza della vita con la forza delle sue braccia; il detective si era fatto pallido in volto e tentava, delicato ma fermo, di staccarsi le sue mani di dosso.
“Non mi aspettavo una sua visita! Oh caro, caro Sherlock Holmes!” profferì gioiosamente la signora, con il volto ancora nascosto nella sua sciarpa. Sherlock, sconvolto da tanto contatto fisico indesiderato, riuscì finalmente a sgusciare via e per un attimo John ebbe l’impressione che volesse cercare riparo dietro di lui come un bambino.
“Signora Mur-” ritentò ancora, cercando di darsi un contegno, ma la donna gli stava gentilmente schiaffeggiando una guancia con aria soddisfatta e lo interruppe di nuovo.
“Oh, finalmente un po’ di carne, qui, che alto alto e distinto com’è lei era un peccato far precipitare questi begli zigomi nel vuoto”.
John emise un verso a metà fra un singhiozzo di risa sguaiate e un rantolo e si affrettò subito a guardare in terra. Sherlock gli rifilò un’occhiata di fuoco.
“Signora Murray” proruppe con un tono che sperava essere fermo a sufficienza, “le presento il dottor John Watson”. Si lasciò sfuggire un sorriso di malcelata soddisfazione: l’amico era rimasto avviluppato nella sua stessa trappola, e stava venendo sommerso di entusiastici “Lieta! Onoratissima! Gli amici di Sherlock Holmes sono anche amici miei!”
“Buongiorno, buongiorno” le sorrise intimorito John staccandosi nervosamente da lei.
La signora Murray fece un passo indietro (entrambi tirarono un sospiro di sollievo) e se ne stette sulla porta ad osservarli come fossero un bel quadro.
“Oh, che meraviglia”. Si sfregò le mani, contenta come una bambina. “Entrate, entrate! Lasciate che vi offra un bicchierino di sherry e qualche biscottino”. Gli fece strada con calore. “Maggie è in casa, sarà felicissima di poterla salutare!”
Sherlock sorrise con quella che a John parve pura, atarassica rassegnazione e la seguì all’interno. Il dottore lo seguì un po’ frastornato.
 
*
 
John aprì e richiuse le palpebre con lentezza. Era al terzo bicchierino (“bicchierino”: boccale, semmai) di sherry ed erano solo le undici del mattino. Cominciava a vederci un po’ annebbiato.
Erano seduti in un assurdo salotto ricoperto ovunque di pannelli di tek e incisioni di stelle alpine, terribilmente simile a che un alpeggio senza mucche: c’era persino una collezione di tegami di rame in bella mostra sotto a un orologio a cucù.
Se lui si sentiva fuori posto, lì, sprofondato in un allucinante divano color salmone a parlare in toni vivaci di politica con la signora Murray, beh, non osava immaginare cosa stesse provando Sherlock in quel momento.
Si voltò a fissarlo: era annoiato e a disagio, ma sembrava non voler arrivare al punto di quella visita. Ogni persona normale si sarebbe fermata a scambiare due chiacchiere di cortesia prima di chiedere un favore – ma Sherlock? Quando mai si era piegato alle inutili e fastidiose convenzioni sociali?
“Sua figlia come si sta comportando?” lo sentì invece domandare educatamente, col tono un po’ incerto di chi probabilmente pronunciava quelle parole per la prima volta in vita sua.
La signora Murray rivolse entrambe le mani al cielo come a suggerire che per il comportamento di sua figlia c’era solo da chiedere un miracolo a Dio.
“Ah, non me ne parli! Sempre chiusa in camera sua a pianificare chissà quali diavolerie. Tra l’insegnamento e i suoi strambi hobby a malapena la vedo ai pasti”. Afferrò con gratitudine un braccio di Sherlock e ci affondò dentro  la french manicure fino a seppellirla nella manica del cappotto. “Ma da quando ce l’ha riportata” sussurrò, gli occhi lucidi e la voce commossa, “è un’altra vita, signor Holmes! Un’altra vita!”
Sherlock annuì fingendo empatia meglio che poteva e si alzò d’improvviso in piedi, mettendosi a camminare in tondo per quel terrificante salotto.
“Pensa che potrei vederla e, diciamo, chiederle un’informazione?”
La signora Murray scattò in piedi a propria volta e a quel punto anche John, per sport, si allineò ritto di fianco al suo amico, sentendosi allegro e barcollante.
“Ma non è che può, deve!” Diede loro le spalle e fece strada per le scale che conducevano al piano di sopra, gesticolando animatamente. “È il minimo! Il minimo! Sarà contentissima di aiutarla”.
Di nuovo, quel sorriso fiacco e un po’ rassegnato. John era sempre più confuso.
“Ma che succede, Sherlock?” chiese strascicando un po’ la voce.
“La signora Murray è una mia ex-cliente” iniziò lui sottovoce e palesemente controvoglia, prima di interrompersi e guardare John con occhi che avrebbero forato i diamanti. “Ma per l’amor di Dio, tu sei ubriaco!”
John fece un cenno di diniego così convinto che la testa prese a girargli e dovette appoggiargli una mano sulla spalla.
“No” gorgogliò.
Sherlock alzò gli occhi al cielo.
“Ci mancavi solo tu” mugugnò, riprendendo a salire le scale. “Dicevo” la sua voce ora tremava di esasperazione contenuta a stento, “ho dato loro una mano a ritrovare la ragazzina quando è scappata di casa, un paio di anni fa”.
“E tu ti saresti occupato di una cosa così ordinaria?” domandò John, incredulo.
Sherlock ringraziò la signora Murray che li stava vigorosamente spingendo verso una porta chiusa e attese che lei avesse ridisceso le scale per rispondergli.
“Vedrai che non c’è niente di ordinario in lei” disse, sibillino.
John annuì più confuso di prima. Quasi barcollò di nuovo quando vide che Sherlock stava bussando e schiarendosi la voce, invece di entrare a tutta velocità facendosi svolazzare scenograficamente dietro il cappotto come suo solito.
Da dietro la superficie di legno scuro rispose uno stereo acceso a volume molto alto e una voce acuta che li invitava ad entrare.
 
*
 
La stanza non era una stanza, si disse John entrando. No, quell’accumulo di libri, vestiti, pacchetti vuoti di sigarette e cd dai quali spuntavano timidamente un letto e un tavolo non si poteva davvero definire stanza. Tana, forse. O magazzino. O enorme casino, più propriamente.
La lampada sopra la scrivania era stata oscurata buttandoci sopra una camicia da notte a fiori, per cui John, nella penombra, non riuscì a identificare chiaramente la figura accucciata per terra davanti a quella che sembrava un’enorme voliera: vide che era rotondetta anche lei, e che portava i capelli castano scuro lunghi fino alla vita, e che le sue unghie erano smaltate di uno scioccante giallo fosforescente - ma a parte questo non riuscì a distinguere altro.
Dallo stereo poggiato precariamente sul comodino si spandeva una canzone che era stata una delle sue preferite all’università, e John prese a battere il ritmo con il piede, non sapendo bene che cos’altro fare. Sherlock se ne stava immobile di fianco a lui: fissava la ragazza con sguardo se possibile ancora più penetrante e clinico del solito.
 
I’ve travelled to a mystical time zone
And I missed my bed
And I soon came home
 
“Le risparmio di sforzare gli occhi con questa poca luce, signor Holmes” disse la ragazza in quella sua voce eterea e acuta che aveva usato poco prima per invitarli ad entrare, “niente bende sui polsi, niente segni sul collo, e se sta cercando un possibile nascondiglio per una mia eventuale riserva di medicinali sta sprecando il suo tempo. Non c’é”. Alzò lo sguardo su di loro e sorrise.
A John ricordò subito Sherlock perché quella dimostrazione di falsa affabilità non le era arrivata agli occhi.
Si pulì le piccole mani con cui aveva trafficato nella voliera sui pantaloni della tuta. Aveva delle dita straordinariamente affusolate, e un viso tondo e pallido da bambola pesantemente truccato. Quell’apparenza delicata nascondeva però atteggiamenti ben poco morbidi, come John ebbe subito modo di notare.
“Come se poi le mie scelte personali riguardassero lei o miei genitori - che hanno deciso di approfittare di nuovo delle sue qualità, mi sbaglio? O è qui in visita di dispiacere, lei e il suo amico amante degli Smiths?”
John sollevò lo sguardo per incontrare quello della ragazza, sentendosi chiamato in causa. Era scuro e pacato, eppure – proprio come quel suo tono di voce leggero e frivolo – stranamente minaccioso.
Sherlock persisteva a rimanere in silenzio.
 
They say there’s too much caffeine
In your bloodstream
And a lack of real spice in your life
I said leave me alone
‘Cause I’m alright
 
“Tua madre non ha offerto nessun incarico e io, di conseguenza, non ho accettato niente” disse infine con lentezza. Lei lo guardò con aria di scherno.
“Sono commossa dalla vostra fiducia”.
Sherlock assunse un’espressione illeggibile che sembrava voler mascherare qualcosa successo fra i due di cui John non era a conoscenza.
Stava per dire qualcosa, qualunque scemenza per rompere quell’imbarazzante silenzio quando una cosa non bene identificata urtò la sua caviglia a gran velocità facendolo sobbalzare.
“Cos-”
La ragazza alzò gli occhi al cielo e trasse quello che sembrava un sospiro colmo di rimprovero. John fece un piccolo saltello di sorpresa quando sentì il qualcosa cominciare a prendere compulsivamente a beccate la punta della sua scarpa.
“Oh, Lou, grazie a Dio sei rispuntato fuori” commentò con leggerezza lei, quasi come stesse parlando del tempo e non di un maledetto qualcosa con becco e artigli che si era appena avvinghiato al suo piede. “Questo passatempo stava cominciando a diventare stressante”.
“Passatempo?!” urlò John, abbassandosi per tentare di acchiappare quello che doveva essere un animale non meglio identificato. Lou colse l’occasione giusta per tentare di staccargli un dito con una beccata e sfrecciare in volo fino all’altra parte della stanza, raspando e rimbalzando a più riprese contro il muro e invertendo obbligatoriamente la rotta verso la porta.
Vide che persino Sherlock era rimasto un po’ turbato dall’immagine di uno splendido esemplare di ara macao che svolazzava in giro a tutta velocità lanciando urla belluine.
“Ma che accidenti-”
La ragazza si chinò a prendere da un mucchio di vestiti quello che doveva essere un cappotto e li scostò gentilmente dal proprio cammino, prima di gettare l’indumento addosso al volatile impazzito e bloccarlo a terra.
Restarono tutti e tre per un attimo a fissare il cappotto sobbalzare furiosamente in un angolo.
“Non potevo tenere accesa la lampada grande perché un’illuminazione eccessiva amplifica l’effetto paranoide della cocaina” spiegò a bassa voce lei con estrema semplicità. “Lou si era messo a sbattere ovunque, iper-eccitato, e mi stava venendo il mal di testa”.
John inorridì; Sherlock annuì fra sé e sé, pensieroso.
“Come, prego? Hai… somministrato della cocaina a quell’uccello?!”
La ragazza si chinò ad afferrare cappotto e pappagallo in un tutt’uno e si diresse verso la voliera con aria pratica.
“Una soluzione ultradiluita in acqua, meno dello 0,07 per cento. Ma ha avuto comunque un’ottima risposta per essere così-”
“HAI DATO DELLA COCAINA A UN PAPPAGALLO? MA CHE COSA TI DICE LA TESTA?!”
“Qualche dato in più rispetto ai test di Schroff e Von Anrepp?”
John si volse esterrefatto verso l’amico, che fece spallucce, come se avesse appena chiesto semplicemente un bicchiere d’acqua.
“Sherlock, ti sembra il caso di incoraggiare simili-”
La ragazza fece un piccolo, soddisfatto sorriso.
“Niente di particolarmente significativo. I volatili avvertono sonnolenza più tardi di rane e conigli, a quanto pare, e un uso prolungato della sostanza provoca paralisi temporanea e difficoltà nel volo. Inoltre sono più sensibili ad infarti e a crisi di soffocamento da stress”. Fece toc toc con un dito su una delle sbarre della voliera, dentro la quale Lou si agitava ancora, e sbuffò. “Ci sarebbe qualche robetta da aggiornare, ma non ho voglia”.
“…Robetta” fece eco John, stupefatto. Sherlock annuì ancora.
“Capisco”. Le si avvicinò di un passo, con delicatezza, come se stesse camminando su vetri rotti. “Visto che sembri considerarla una visita di dispiacere, vorrei esporti subito il motivo per cui sono qui in modo da ottimizzare il tempo di entrambi”.
“Una proposta intelligente” rispose lei con voce annoiata. Rialzò lo sguardo: John si stupì ancora di quanto sembrasse innocua, quasi… tenera, eppure fosse in grado di emanare un senso di durezza che nemmeno il più disilluso degli adulti che aveva conosciuto sembrava avere in sé. “Ma da un uomo come lei, come sarebbe possibile aspettarsi di meno?”
Quelle parole aspre e sibilate fecero irrigidire Sherlock, che alzò lo sguardo al soffitto.
“Grazie”, disse infine, riabbassando la testa e facendo un cenno nella sua direzione, “Magdalena”.
“Non ho detto che la aiuterò” sputò lei, secca.
“Oh, non ancora”. Sherlock sorrise come un gatto che, dopo vari frustranti tentativi, abbia finalmente messo le sue zampe sulla crema. “Ma lo farai presto”.
Calò un silenzio tesissimo e pesante.
John si schiarì la voce, dondolandosi sui talloni. La ragazza volse lentamente lo sguardo verso di lui e prese a fissarlo con attenzione.
“Oh, ma che maleducata” disse in tono lento ed insinuante, “non mi sono presentata al suo collega”. Si alzò in piedi e gli tese una mano minuscola e pallida. “Magdalena Murray”.
Il dottore sembrò esitare e considerare quell’arto teso con perizia.
“Non si preoccupi, tengo la voliera molto pulita e la sterilizzo spesso” lo rassicurò lei con il sorriso più sincero che avesse mostrato fino a quel momento. “Bisogna essere cauti con i soggetti degli esperimenti”.
John si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito e le strinse la mano con molta meno diffidenza di prima.
“Dillo a lui” sussurrò facendo un cenno con la testa verso Sherlock; il quale, stranamente, non si mise a fissarlo torvo come faceva di solito quando lui lo prendeva in giro, ma sorrise. Magdalena ridacchiò. “John Watson. Sarei ancora più lieto di conoscerti se non avessi appena ammesso di aver drogato un animale innocente - e averlo fatto a fini scientifici non ti giustifica”.
La ragazza sospiro e tornò a picchiettare col dito sulla voliera: Lou ruzzolava e raspava ossessivamente su e giù per i trespoli posti a varie altezze nella gabbia.
“Almeno qualcuno in questa stanza si sta annoiando un po’ meno, adesso” sussurrò con aria quasi invidiosa.
John era sempre più inquietato dall’aumentare dei suoi atteggiamenti che gli ricordavano Sherlock.
“Magdalena insegna fisica quantistica” disse il detective senza alcuna inclinazione particolare nella voce, come se avesse appena spiegato che alla ragazza piaceva molto il rosa. John strabuzzò gli occhi: quando la signora Murray aveva nominato l’insegnamento, lui aveva pensato che si riferisse a sé stessa. “E ha una passione sviscerata che potrebbe tornarci molto utile”.
“Cosa, gli Smiths?” ribatté il dottore, sarcastico, pensando che fosse tutto un grande scherzo. La ragazza fece un sorrisetto, tolse la camicia da notte dalla lampada e andò a spalancare le persiane.
La luce invase la stanza e John capì.
 
*
 
“Non vi offro niente da bere perchè immagino che mia madre vi abbia tormentato abbastanza, su questo punto. E lei, dottore, se posso permettermi, mi sembra già un po’… svagato”.
John arrossì e abbassò lo sguardo a terra, sottraendosi agli occhi sbeffeggiatori della ragazza.
“Gradiremmo arrivare al punto” fece Sherlock sedendosi sul letto. Lei, raggomitolata contro il cuscino poggiato sulla testiera, si raccolse le gambe al petto per evitare di toccarlo.
“Non serve incombermi fisicamente addosso” sibilò arrabbiata. Sherlock alzò un sopracciglio.
“Ah no? Bene”. Si rialzò, sistemandosi le pieghe dei pantaloni. “Immagino avrai saputo di Christine Howard”.
John si chiese come diavolo facesse a non saperlo una che aveva ricoperto i muri, le ante degli armadi e quant’altro di poster e ritagli di giornali a sfondo tennistico. Era persino un po’ inquietante; più che una passione, sembrava una mania.
Magdalena alzò gli occhi al cielo.
“E io immagino che lei si stia occupando del caso”. Fece una smorfia spazientita. “Abbiamo finito con le affermazioni pleonastiche?”
Guardare due individui affetti con molta probabilità da sindrome di Asperger era quasi divertente, pensò John. Non sarebbe stato male metter su un giro di scommesse su chi avrebbe infine umiliato intellettualmente l’altro.
Ora capiva perché Sherlock aveva usato quei modi di riguardo e si era trattenuto dallo sbottare sia con lei che con la madre: Magdalena gli piaceva perché era simile a lui. Era un po’ di sana competizione. Certo, non era Moriarty o qualche brilliante serial killer, ma in quel momento non doveva starsi annoiando come al solito.
E, se John non aveva letto male il linguaggio del suo viso, ci doveva essere un altro motivo di carattere più personale per averlo reso così docile nei suoi confronti.
“In che cosa ci può aiutare una fanat- una grande appassionata di tennis?” chiese John al detective, correggendosi frettolosamente. Sherlock tamburellò le dita sul proprio cappotto, gli occhi fissi nei suoi: era la prima volta che gli rivolgeva quello sguardo da “comportati bene”. Di solito le cose funzionavano all’inverso.
“Christine Howard ha problemi di fiducia e di socialità ma i suoi limiti finiscono qui. È perfettamente in grado di parlare, ma è terrorizzata dall’idea di essere scoperta dal suo rapitore (che lei pensa possa ascoltarla sempre) e punita – questo rapitore deve averla minacciata di qualcosa. E sua sorella ha torto: non ha un carattere fragile. Una ragazzina di diciotto anni che vince una delle competizioni sportive più importanti del mondo non ha un carattere fragile. E infatti ha parlato lo stesso, solo” spiegò nel suo usuale ritmo sostenuto, prima di fare una pausa ad effetto, “che l’ha fatto in codice”.
Magdalena annuì in assenso, gli occhi fissi sul detective e le sopracciglia aggrottate. John assunse l’espressione di chi ha appena avuto un’illuminazione.
“Io avevo pensato al numero di una cassaforte, o a delle coordinate. Persino alla sua data di nascita”. Rivolse un sorriso ammirato a Sherlock. “E invece… Ma certo. Ha usato il codice che le è più famigliare. Ovvio. Geniale, Sherlock, io mi ci sarei rotto il capo per giorni su quella cifra”.
Gli occhi del detective si illuminarono come facevano ogni volta che il dottore si complimentava con lui.
“Era abbastanza intuitivo, John” ribatté con tono severo, ma il suo sguardo rimase morbido.
Magdalena scrutò attentamente entrambi e sorrise con aria lupesca prima di inserirsi nel discorso.
“È possibile sapere di che cosa si tratta o volete che vi ceda il letto ed esca?” chiese con la sua migliore voce ingenua e trillante.
John sobbalzò e aprì bocca per ribattere, Sherlock scosse la testa e lo precedette:
“Vorrei che mi dicessi tutto quello che di saliente è successo nel mondo del tennis nel 1993, o in alternativa se esiste una tecnica che porta quel nome, o una marca di racchette o palline o divise, o qualsiasi cosa ti sembri collegato in qualche modo a Christine Howard”.
Magdalena lo ascoltò con attenzione, annuì e si mise a gambe incrociate.
“Tenterò di restringere il campo. Nessuna tecnica, nessuna marca, nessuna denominazione alternativa che contenga quelle cifre. Si tratta di un torneo, di un giocatore, di un allenatore… Dunque, vediamo…” Chiuse gli occhi. “Wimbledon: Pete Sampras e Steffi Graf; U.S. Open: Pete Sampras e Steffi Graf ; Australian Open: Jim Courier e Monica Seles; Roland Garros: Sergi Bruguera e Steffi Graf – no, niente di utile, tsk, fatti i singolari passiamo ai doppi, no, no, no, non c’entra… Vediamo il ranking mondiale…” Prese a mordicchiarsi le unghie, due rughe parallele di concentrazione ben visibili sulla fronte chiara. John la guardava esterrefatto; Sherlock sembrava incoraggiarla non interrompendo nemmeno per un secondo il contatto visivo con lei. “Le date delle finali, i compensi degli sponsor, il totale in premi dei finalisti agli slam e dei vincitori, i numeri u- Ma certo”. Battè entrambi le mani sul copriletto, trionfante. “Ma certo, come ho fatto a non pensarci. E si sta pure parlando di Christine Howard. Come ho fatto a non arrivarci prima”.
“Ci hai messo” John  controllò il suo orologio da polso con lo stesso tono laconico che adoperava spesso anche con un’altra persona, “un minuto e mezzo”.
“Speso a smistare informazioni inutili” rettificò lei puntandogli addosso l’indice teso. “Ergo sprecato”.
“Di che si tratta?” la incalzò Sherlock dopo aver rivolto un sorrisino di compatimento a John.
Magdalena fece schioccare la lingua, come a suggerire che l’argomento non le piaceva, e cominciò a parlare.
“Nel 1993 si assiste a una delle rivalità tennistiche più appassionanti di sempre, e per quanto straordinaria, è appena iniziata. Monica Seles contro Steffi Graf. Steffi Graf è l’attuale numero uno del mondo e ha già vinto diversi tornei del Grande Slam; Monica è giovanissima, ha esattamente l’età della Howard, ma le strappa un titolo dopo l’altro fino a toglierle il vertice della classifica. Il tifo da entrambe le parti è accesissimo, la sfida è appassionante, ma a qualcuno tutto questo dà alla testa”. La ragazza volse lo sguardo verso uno dei tanti poster appesi sopra il suo letto. John lo riconobbe subito: raffigurava la stessa tennista di quello della camera di Christine Howard, una donna alta e bruna in completo bianco intenta a servire. “Durante i quarti del torneo di Amburgo, il 30 aprile 1993, un fan impazzito della Graf di nome Gunter Parche scavalca le tribune e accoltella la Seles in campo”. Magdalena scosse la testa e proseguì. “La ferita non è grave – la lama affonda di un centimetro e mezzo vicino alla spalla sinistra – ma lo shock psicologico è enorme. La Seles abbandona il professionismo per due anni e perde la supremazia. Vincerà ancora qualche titolo, ma non tornerà mai nella forma che aveva durante il suo periodo d’oro e Steffi Graff uscirà ampiamente vincitrice dal loro scontro privato”.
“Cosa c’entra tutto questo con la Howard?” chiede John, giungendo le mani in grembo.
“Gli stili di Christine Howard e della Seles sono molto simili. Accelerazione impressionante, grande tenuta nervosa, e inoltre entrambe giocano il diritto e il rovescio a due mani”. Magdalena mimò entrambe le mosse con grande slancio atletico e John le sorrise. Sembrava trasfigurarsi in una persona più luminosa e felice quando parlava della sua passione. “Ma penso che quello che l’abbia spinta a considerare la Seles il suo idolo sia la precocità. Hanno cominciato entrambe a vincere giovanissime. Christine Howard si identifica totalmente con lei, è una cosa che le ha sempre dato forza”.
“Continuo a non capire” ribatté John. Sherlock congiunse le punte delle dita davanti al viso e socchiuse gli occhi.
Magdalena lo guardò alzando un sopracciglio, compiaciuta.
“I giornali dicevano che i rapitori non hanno voluto un riscatto, né in forma di soldi né in quella di favori… Il motivo dev’essere per forza un altro”. Sorrise. “Vuole un aiutino, signor Holmes?”
Il detective si irrigidì d’un tratto, ma fu solo un secondo; un attimo dopo le sue spalle si erano già rilassate e lui si era alzato per prendere il cappotto.
“Non offendere la tua intelligenza insinuando che io non ci sia arrivato nell’esatto momento in cui hai nominato l’incidente, Magdalena” le disse in tono quasi paterno, come se le stesse dando un buffetto verbale. La ragazza sbuffò.
“Lei non dà mai nessuna soddisfazione”.
John si alzò in piedi con un sospiro rassegnato.
“Qualcuno si scomoderebbe ad illuminare un povero mortale?...”
“Per strada, John” lo rabbonì Sherlock stringendosi la sciarpa intorno al viso. “Mi sei stata molto utile” disse poi porgendo la mano destra alla ragazza.
Lei gli fece una smorfia divertita ma non fece alcun segno di voler ricambiare.
“C’erano dubbi?” rispose secca, poi allungò la mano a John.
Il dottore guardò prima lei, poi Sherlock, ma questi aveva appena girato sui tacchi con una scrollata di spalle che trasudava finta indifferenza e si era diretto fuori dalla porta.
“Ecco la mente più brillante d’Inghilterra che fa i capricci” commentò la ragazza, un ghigno soddisfatto sulle labbra. John le strinse la mano volutamente un po’ più forte di come faceva di solito con le donne; lei emise un verso di interessata sorpresa. “Oh, scusi, scusi, non intendevo riportare il suo dio personale sul piano umano attribuendogli un difetto – uno dei più innocui che ha, tra l’altro. Mi spiace molto se l’ho ferita”.
John decise di ignorarla.
“E quale sarebbe, questo difetto?”
Magdalena fece finta di pensarci su.
“L’infantilismo? Il narcisismo? La permalosità?...”
“Sembri conoscerlo molto bene” disse calmo John.
Lei ritirò la mano dalla stretta e gli diede le spalle per tornare a rivolgersi alla voliera. Il pappagallo sembrava essersi un po’ placato: si dondolava pigramente da uno dei trespoli, a testa in giù.
“Di certo più di quanto avrei desiderato”. Fece toc toc sulle sbarre. “Oh, non in quel senso, non si preoccupi… Sherlock Holmes sarà pure un sociopatico e un’ex-drogato, ma di certo non è un pederasta. E a quanto ne so io le donne non gli interessano nemmeno”. Il disco degli Smiths era finito da un pezzo e lei si diresse al comodino per rimetterlo daccapo. “Arrivederci, dottor Watson”.
E, sulla stessa canzone del loro ingresso in quella camera, John seguì il suo amico giù per scale, curandosi di chiudere dietro di sé la porta e quella strana ragazzina.
 
And people who are uglier than you and I
They take what they need
And just leave
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: mi scuso per il ritardo nell’aggiornamento, ma gli esami incombono e il gatto ha avuto il raffreddore e gli alieni sono atterrati nel mio cortile e- la morale è che sono discontinua di natura. Terribilmente discontinua. Mi dispiace ç_ç
Urgono alcune precisazioni:
1.      Ho alzato il rating della storia per la menzione della droga e del suo deprecabile uso su un pappagallo. Ora, non penso assolutamente che sia necessario ribadirlo, ma non si sa mai: quello descritto qua sopra è fondamentalmente maltrattamento animale e, seppure descritto in toni comici, il mio giudizio su tali pratiche è totalmente negativo. Lo so, mi sento stupida persino a dirla, una cosa così ovvia, ma è un argomento che mi sta molto a cuore ed è purtroppo una storia vera, che avevo letto in rete un po’ di tempo fa.
2.    Schroff e Von Anrepp sono due degli scienziati che per primi hanno fatto ricerca sull’effetto delle droghe sugli animali, citati nel saggio “Sulla cocaina” di Sigmund Freud. Li ho scelti a caso fra gli altri perché mi piacevano i nomi :3
3.     La storia di Steffi Graf e Monica Seles è vera, purtroppo (di nuovo).
4.     La canzone degli Smiths in questione si chiama “A Rush And A Push And The Land Is Ours”, ed è bellissima <3
5.     A chi interessasse fare un po’ di chiarezza nel monologo di Maggie: i tornei da lei citati sono le quattro principali competizioni tennistiche internazionali e sono detti “slam” (Wimbledon si gioca sull’erba, gli U.S. Open e gli Australian Open sul cemento, il Roland Garros sulla terra rossa): chi li vince tutti e quattro nello stesso anno solare fa il cosiddetto “Grande Slam”. La coppia di nomi che segue sono rispettivamente il vincitore e la vincitrice dei tornei singolari (perché poi ci sono anche i tornei del doppio, ma ve li ho risparmiati XD) del 1993. Ringraziamo Wikipedia per avere degli annali tennistici così bene organizzati <3
6.  La sfidante di Monica Seles a quei tragici quarti di finale di Amburgo si chiamava Magdalena Maleeva; Andy Murray è, invece, un tennista britannico (che tra l’altro nel momento in cui scrivo ha appena vinto il suo primo slam – bravo, Andy  <3). Dall’unione di questi due è nata quel discutibile personaggio che è Maggie :D
7.   Queste note dell’autore sono quasi più lunghe del capitolo stesso. Siete autorizzati a tirarmi i pomodori.
 
Ringrazio ancora tantissimo tutti quelli che seguono, preferiscono, commentano o semplicemente leggono. Fate palpitare il mio cuoricino di gioia *-*

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Capitolo 6
*** Veronica ***


“Interessante ragazza.”
Sherlock sorrise freddamente e si rinfilò i guanti con estrema cura. John strinse le labbra fra loro, continuando a fissarlo per sollecitare una risposta, ma il detective sembrava aver esaurito le cose da dire.
“Beh,” riprovò John, gettando uno sguardo distratto fuori dal finestrino, “ci ha fornito informazioni utili, mi pare di capire. Qualche idea?”
“Quattro” rispose subito Sherlock. Sembrò rifletterci su. “Cinque.”
“Potrei saperne almeno una? Così, per simpatia?”
“Io non sono simpatico.”
Il taxista prese un dosso a una velocità che il dottore giudicò a dir poco illegale e lui si ritrovò a mugolare di dolore quando un gomito puntuto di Sherlock gli affondò nel fianco.
“Ahia.” sussurrò, infastidito. Il detective sorrise con aria felina.
“Male?”
“Sì!”
“Bene. Leccati le ferite in silenzio.” Congiunse le lunghe dita pallide da avati a sé e ci appoggiò contro la linea dura delle labbra. “Io devo pensare.”
“Sai, la signorina Murray doveva darti qualche rispostaccia in più. Te le saresti meritate tutte” sbottò John, seccato dal mutismo condiscendente dell’amico.
Sherlock non si disturbò nemmeno a replicare con qualcosa di tagliente.
 
*
 
Lestrade li aspettava davanti a casa Howard, finalmente tranquilla e liberata dall’assedio dei giornalisti.
“Spero che si tratti di qualcosa di importante.” mugugnò l’ispettore aprendo loro la portiera.
Sherlock lo guardò con aria esterrefatta, come se Lestrade, sottintendendo con la sua frase che qualcosa più importante di un caso semplicemente esistesse, lo avesse ferito a morte.
“Certo che è importante” rispose, basito. L’ispettore scosse la testa e gli fece segno di avviarsi verso l’ingresso della casa.
John gli diede una solidale pacca sulla spalle.
“Lascialo stare” disse, rassegnato.
“Brutta giornata?”
“A quanto pare non va pazzo per i teenager.”
“Ma dai. Incredibile.” Si incamminarono fianco a fianco lungo il vialetto di ghiaia, che scricchiolò sotto le loro scarpe. Il cielo era piatto e grigio come una lastra di marmo e il freddo mordeva attraverso i vestiti. “Magari gli lascio uno dei miei ragazzi per un pomeriggio, allora. Che so, così lo può portare al cinema-”
“-e là ucciderlo.”
“E nascondere il corpo.”
“E poi chiamare la polizia, e dire che il film era noioso a livelli criminali.”
Sherlock chiese loro con aria stizzita se avessero intenzione di ritornare all’asilo, dopo aver finito di sghignazzare come due irritanti mocciosi.
“Scusa, nonna.” fece contrito John, suscitando un altro accesso di risa nell’ispettore.
Le sopracciglia di Sherlock schizzarono in alto fino all’attaccatura dei capelli.
Nonna?”
“Sì. Non sai chi siano i Beatles, proprio come mia nonna.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo, con l’aria di chi volesse dire “ancora queste stupidaggini”. Lestrade lasciò che la mascella gli precipitasse a terra senza nemmeno provare a trattenerla.
Come non sai chi sono i Beatles?!” chiese, con un acuto finale che sconfinava nell’isteria. Sherlock gli lanciò uno sguardo persino più sprezzante del solito e suonò il campanello.
“Banali. Noiosi. Infantili. Testi da studentelli e musica per ragazzine.”
“Allora lo sai chi sono!”
John prese il braccio dell’ispettore.
“Greg, forse è meglio fermarci qui-”
“Ero felicemente ignorante fino a due settimane fa, quando John mi ha inflitto l’ascolto di qualcosa di stucchevolmente allegro che parlava di un sergente e del pepe, o qualche altro condimento – sinceramente non mi-”
“Sergeant Pepper’s” disse in tono pieno di pathos Lestrade, come se avesse appena pronunciato il nome di una sacra reliquia. “Tu,” gli puntò l’indice contro, “su Sergeant Pepper’s tieni chiusa la bocca.”
Era così serio che a John mise paura.
“To’, sento arrivare la signorina Howard. In ritardo, come tutte le donne che non sanno darsi un tono in altro modo.” Sherlock finse un tono deliziato, ma il dottore notò che deglutiva con irritazione al solo pensiero di vederla di nuovo. “Peccato dover interrompere questa interessante dissertazione sulla musica popolare…”
“Non è musica popolare, sono i Beatles!”
“…Ma ci sono cose più importanti di cui occuparci!”
John decise che era giunto il momento di separarli fisicamente. Lestrade aveva quasi la bava alla bocca. Tutti a Scotland Yard sapevano della sua patologica ossessione per i Fab Four – teneva incorniciata una foto fatta ad Abbey Road, in posa sul classico attraversamento pedonale, vicino a quella dei propri figli – tutti tranne ovviamente Sherlock, che considerava le passioni degli esseri umani interessanti quanto un singolo respiro di Anderson.
“Greg-”
“Tu non sei normale!”
Sherlock alzò un sopracciglio in un modo che voleva dire “lo scopri ora?” e fortunatamente, in quel momento, la porta si aprì.
 
*
 
Dire che Pamela Howard fosse infelice di rivedere Sherlock era un pesante eufemismo.
“Lei” dichiarò in un borbottìo ostile. Il detective allargò le braccia.
“Io. Ho portato degli amici. É qua la festa, no?”
“Che cosa vuole?” sibilò la donna, assottigliando gli occhi.
“Dimostrare quanto ancora una volta la scientifica si sia rivelata incompetente e fastidiosamente ottusa. Ma se mi offre un tè, non dico certo di no.”
John si prese la radice del naso fra due dita e scosse la testa. Lestrade fece l’unica cosa utile e mostrò il distintivo.
“Ci siamo visti un paio di giorni fa,” tentò, affabile. Pamela lo squadrò con un’occhiata diffidente.
“Voi potete entrare, se volete. Per poco.” Rivolse uno sguardo disgustato al detective – sì, John decise che era proprio disgusto quello con cui fissava Sherlock, e sentì l’irrazionale impulso di urlarle contro – e strinse le labbra in una piega ferrea. “Lui no.”
Sherlock fece allegramente spallucce. La sua espressione nauseata non sembrava affliggerlo minimamente.
“Bene, divertitevi. Solo, sia gentile, porti i miei saluti a sua sorella; le chieda anche per quanto altro tempo ha intenzione di rimanere chiusa in casa per sfuggire a un rapitore che non la lascerà mai vivere in pace fintantochè sarà libero. Le dica, per conoscenza, che io so cosa le ha fatto e ho tutta l’intenzione di consegnarlo alla giustizia, ma che sono bloccato alla porta da una mediocre tennista di secondo livello e non posso parlarle di persona. Ah, un’ultima cosa: che straordinaria sequela di ace, in quel secondo set! Mai vista una cosa simile! I suoi genitori devono essere così fieri di lei…”
Sherlock pronunciò il suo monologo con estrema calma, e grandissima soddisfazione. Gli brillavano gli occhi – era quasi indecente il modo in cui gioiva nel praticare il suo personalissimo sport preferito: umiliare chi lo infastidiva. John si sentì avvampare di imbarazzo. Lestrade era senza parole.
Pamela lo fissava con occhi lucidi di schifo, come si fisserebbe un ragno ributtante e molto velenoso.
“Lei mi fa ribrezzo” dichiarò infine, la mano che tremava sulla maniglia della porta, la voce colma di rabbia. “È un mostro, e dovrebbe farsi curare.”
Il detective alzò gli occhi al cielo.
“Sì, sì, sì. Basta con questi stupidi convenevoli.” Sherlock si chinò fino a sfiorarle la fronte con la propria. “Sua sorella non è stata restituita illesa come pensa. Non le interessa sapere cosa le hanno fatto? Chi è stato? Come fermarlo?” Si rialzò, considerandola dall’alto in basso con un’occhiata gelida. “Allora mi lasci entrare. Me ne andrò il più velocemente possibile.”
Pamela si morse forte le labbra, ma chinò il capo e li lasciò passare. John notò che aveva le lacrime agli occhi.
“Sherlock” sibilò minaccioso, stringendo con energia il braccio dell’amico mentre salivano le scale, “ti avverto, se non la smetti con le tue sevizie psicologiche…”
“Non è nemmeno lontanamente brava quanto la sorella. Chi è che ha vinto Wimbledon delle due?” rispose monocorde lui, avendo almeno la decenza di tener basso il tono di voce. “Se qualcuno glielo avesse fatto notare quando era bambina, non avrebbe intrapreso la carriera sbagliata.”
“Tu non sei nessuno per somministrarle le tue perle di saggezza. E comunque, queste cose si dicono in un altro modo.”
Sherlock irrigidì i lineamenti fino a trasformarsi in una maschera di pietra.
“C’è un solo modo di dire la verità” disse secco, “e se tu lo imparassi, il modus narrandi che adoperi nel tuo blog migliorerebbe di gran lunga.”
Divincolò il braccio ed entrò nella camera di Christine prima che John avesse modo di terminare il discorso.
 
*
 
Christine Howard era pallida e reticente al contatto umano come la prima volta che l’avevano vista. Li guardava spaventata e diffidente dal letto, sepolta nel sempiterno mucchio di coperte, lanciando uno sguardo di turbata confusione alla sorella in cerca di chiarimenti.
“Chris, tesoro, hanno novità sul tuo rapitore” fece Pamela in tono materno, sedendosi di fianco a lei sul piumone. Le accarezzò con tenerezza la frangia. “È questione di un attimo.”
Christine annuì nervosamente.
Sherlock fece un passo in avanti.
“Christine, ora io, il dottor Watson e l’ispettore Lestrade usciamo dalla stanza. Te lo prometto.” Le lanciò il suo miglior tentativo di occhiata rassicurante: mise persino le mani avanti, per tranquillizzarla. John lo osservava curioso. “Però tu ora,” riprese lentamente il detective, attento, “devi toglierti la maglia e mostrare a tua sorella dove ti hanno ferita con quel coltello-”
Christine lanciò un urlo strozzato e prese a scuotere ciecamente la testa, in preda a un attacco di panico. John fece un passo in avanti e tentò di immobilizzarla per evitare che si facesse del male. Pamela Howard e Lestrade osservavano raggelati la scena.
“Coltello?!” chiese infine la sorella con gli occhi grandi per l’orrore. “Dove? Che le hanno fatto? Non aveva nessun segno addosso!”
“Perché il rapitore ha calcolato bene i tempi” rispose in fretta Sherlock, osservando con sollievo come John fosse riuscito a calmare la ragazzina e le stesse sentendo il polso. “Si tratta di una ferita piccola, veloce a rimarginarsi, fatta in modo preciso, con uno scopo.” Aspettò ancora qualche secondo per avvicinarsi, quando vide che Christine aveva riposato la schiena contro i cuscini e aveva ripreso a respirare regolarmente. “Scopo raggiunto, a quanto pare.”
“Che scopo?” urlò quasi Pamela, correndo a lato della sorella, come se volesse proteggerla dal detective. Sherlock si bloccò istintivamente e fece un passo indietro di fronte all’occhiata minacciosa della donna. John notò che il labbro inferiore gli era tremato per un attimo.
“Non sia sciocca, Sherlock è l’unico a sapere dov’è la ferita.” Il dottore si stupì di quanto la sua voce suonasse dura e accusatoria. Stava cominciando a stancarsi del modo in cui Pamela Howard trattava il detective, come se fosse un lebbroso. Sevizie psicologiche o meno, non gli importava d’improvviso più niente. “Vieni, Sherlock. Christine, riesci a farci vedere questo taglio? Si tratta di un secondo.”
Il suo tono gentile e premuroso sembrò convincere sia Sherlock, che si inginocchiò di fianco al letto, sia Christine, che diede loro le spalle con un’espressione vergognosa e sofferente.
“Si sente soltanto” sussurrò, la voce roca. Poi prese una mano di Sherlock e la infilò sotto la maglia, facendola risalire fino a sotto la scapola sinistra. Il detective, sorpreso in un primo momento da quel gesto, si riprese subito e passò delicatamente due dita sul punto indicatogli. Sospirò.
John lo guardò con aspettativa.
“Posso farla vedere anche a lui? È un dottore,” chiese Sherlock con quella che sembrava una strana forma di riverenza. Christine rivolse a John un’occhiata quasi imbarazzata e annuì. John sollevò la maglia.
Non c’era niente.
“Qui”, indicò Sherlock. John passò a sua volta due dita su quella porzione di pelle e trasalì. C’era una cicatrice – invisibile, frutto di una rimarginazione perfetta, ma c’era.
Christine teneva la testa china in modo che i capelli le coprissero la faccia. Pamela le strinse forte una mano e lei la divincolò bruscamente, umiliata.
“È l’unica che ti ha fatto, vero?” domandò piano Sherlock, come se stesse maneggiando del vetro fragilissimo con la propria voce. "Un mese fa, appena sei stata rapita.”
Christine annuì facendo dondolare tutto il corpo.
“John, riesci a dirmi qualcosa?” chiese brusco Sherlock. In un angolo, Lestrade tentava di calmare Pamela, che sembrava sotto shock.
“Ferita da arma da taglio, rimarginata con aiuto medico. Pulita, nessuna infezione. Vecchia di… Sì” rispose, annuendo in direzione dell’amico. “Approssimativamente trenta giorni.”
“Quanto profonda?”
John rimase in silenzio il tempo necessario per tornare ad analizzare la ferita.
“Direi un centimetro, forse un centimetro e mezzo.”
Christine si lasciò sfuggire un singhiozzo.
“Andiamo” stabilì Sherlock, alzandosi di scatto. “Si tratta di intimidazione. Portata a buon fine, direi. La stessa esatta posizione e la stessa esatta profondità della ferita inflitta a Monica Seles. Il messaggio è semplice: torna pure in campo, non servirà a nulla, farai la fine del tuo idolo: fuori gioco, e sconfitta. Certo, se mai ti riprenderai abbastanza da riuscire a tornarci, in campo. Lestrade, io qui ho finito.” disse, e dopo un breve, indecifrabile sguardo a Pamela Howard uscì di corsa dalla stanza.
John rassicurò ancora con qualche parola la giovane, salutò educatamente l’ispettore e la sorella, e lo seguì con altrettanta velocità.
 
*
 
“Quindi è per questo che non hanno chiesto un riscatto. Ai rapitori non interessano i soldi. Interessa soltanto che-”
“-che Christine Howard smetta di giocare, sì.” confermò Sherlock agitando una mano per attirare l’attenzione di un taxi. “Trauma psicologico inferto senza quasi lasciare segno. Niente maltrattamenti, niente denutrizione, probabilmente non le hanno neanche parlato per tutte quel mese – lei di sicuro non l’ha fatto: ha le corde vocali fuori esercizio – no, nulla di nulla, solo un minuscolo taglietto, probabilmente fatto piano, affondando la lama poco a poco, per farle sentire, per farle capire, e poi pomate cicatrizzanti, punti minuscoli… Non rimane nessun segno. Ma in realtà rimane”, si battè forte due dita contro la fronte, “qui. Su qualsiasi altra persona l’effetto non sarebbe stato così devastante, ma Christine Howard era particolarmente sensibile in quel punto… La paura di essere destinata a non riprendersi mai più… come il suo idolo, come quella con cui si identifica completamente. Una carriera brillante stroncata in giovane età. Due fati identici.” Sorrise in quella sua maniera un po’ maniacale, selvaggia. “Un lavoro di fino. Ingegnoso, ingegnoso.”
Salirono sul taxi, entrambi frementi per la scoperta appena fatta.
“Ma quindi,” cominciò John, febbrile, “se non è per i soldi… se non è per ottenere qualche favore…
“…È una faccenda personale.” Sherlock gli rivolse uno dei sorrisi raggianti che custodiva per quei rari momenti in cui John gli sembrava intellettualmente inestimabile. “Sentimenti, quelle cose lì.” Scosse una mano in aria come se volesse scacciare una mosca fastidiosa. “Ah, sono una rovina, l’ho sempre pensato.” Gli si fece più vicino, chianando il volto verso il suo e prendendo a gesticolare infervorato. “Torna da Magdalena e chiedile tutto quello che sa sulle rivali della Howard, profili psicologici, età, reddito, cognome da nubile della madre, quell’infernale ragazzina conosce anche le cose più morbosamente inutili. Domandale anche quanto era profonda la ferita di Monica Seles.”
John sbattè confuso le palpebre.
“Ma hai detto proprio tu che era-”
Sherlock sbuffò, infastidito.
“L’ho dedotto. Era logico, ma ho bisogno di sapere se è vero. Questo tizio fa le cose con cura: è spietato.”
“Povera ragazza” commentò John, riportando alla mente l’immagine della crisi di panico di Christine. Sherlock guardava fuori dal finestrino e sembrava non ascoltarlo, ma al dottore parve di vederlo annuire impercettibilmente. “Tu dove vai ora?”
Il detective tirò fuori il cellulare dalla tasca e sorrise lupesco.
“Vado a fare visita al mio diletto fratello.”
“Cosa? Mycroft? E perché?”
“Ho un’idea che potrebbe rivelarsi corretta.” Digitò svelto un messaggio, eccitato. “Anzi, ne ho un paio.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: mi prostro fino a terra per scusarmi per il ritardo, e spero che questo capitolo vi sia piaciuto. <3
P.S. Ho appena riletto il capitolo postato, e ho trovato una quantità di refusi francamente imbarazzante: chiedo venia, ma sto scrivendo senza l'aiuto di un beta, perciò soffro molto durante le autocorrezioni ç_ç

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Capitolo 7
*** Lob ***


John prese un bel respiro, indugiando più del necessario prima di scendere dal taxi.
“Signore?”
L’autista lo guardava confuso dallo specchietto retrovisore.
“Tutto a posto?”
John gli sorrise stancamente.
“Sì, sì, scusi. Ero sovrappensiero.” Gli allungò i soldi sopra la leva del cambio. “Grazie. Arrivederci.”
“Buona giornata.”
Non fece quasi in tempo a mettere piede fuori che sentì un forte sfrigolare di freni; un momento dopo, era steso a terra, con di fianco a lui una bici i cui pedali continuavano pigramente a girare.
“Ouch.”
Provò ad alzarsi, i gomiti che gli dolevano, le ginocchia indolenzite, ma qualcosa gli impediva di muoversi.
O meglio, qualcuno.
Ahia.”
John trovò la forza di ridacchiare.
“Sono contento che la pensiamo alla stessa maniera.”
Avvertì che il suo assalitore si tirava faticosamente in piedi, imprecando a bassa voce.
“Non so come scusarmi,” sentì balbettare, “sono un maledetto imbranato, maledizione, e poi si chiedono perché non ho il coraggio di prendere la patente della macchina…”
John accettò la mano che gli veniva porta e incontrò due occhi verdi pieni di vergogna.
“Beh, sì, se fosse stato in macchina, immagino che ora sarei morto.” Rise.
Il ragazzo davanti a lui fece un sorriso tirato e lo tirò su. Era sulla ventina, con un naso ridicolmente lungo e sottile, e una zazzera di capelli rossi in testa. Indossava un parka e una camicia a quadri, e, nonostante l’avesse quasi azzoppato, John trovò che avesse un’aria simpatica.
“Mi dispiace davvero” ripetè, desolato. John  agitò una mano in aria.
“Tranquillo. Capita.” Lo aiutò a rimettere in piedi la bici. Era incredibilmente pesante, a causa di una valigetta legata malamente al portapacchi che, a giudicare da quanto tiravano le cinghie, doveva essere piena a dismisura.
Sorrise, incuriosito. Era molto simile alla sua ventiquattrore da ambulatorio. Un giovane collega, forse?
“Medico?” chiese.
“Le ho fatto così male?” Il ragazzo fece una smorfia furba, che ridispose l’ordine delle lentiggini sulle sue guance. “Non credevo.” Gli tese una mano.
John rise e gliela strinse.
“John Watson.”
“Stewart Coxon. E no, non sono un medico. Cioè, almeno, non per gli esseri umani.”
John capì dall’accento che era scozzese come lui. La simpatia nei suoi confronti aumentò esponenzialmente.
“Aaah, capito. Sei uno di quei privilegiati che curano esseri incapaci di contestarti le ricette.” Sospirò al ricordo delle innumererevoli discussioni sostenute con persone che credevano di meritare una laurea in medicina molto più di lui. “Beato te.”
Stewart rise una risata leggermente stridula, contagiosa.
“Mah, non saprei.” Si arrotolò una manica del parka per mostrargli una serie di tagli paralleli proprio sopra il polso. “Quanti dei suoi pazienti fanno dei graffi così quando si infastidiscono?”
John strabuzzò gli occhi.
“Bontà di Dio.” Si chinò per osservare meglio i tagli, che sembravano recenti. “Quale bestia lascia dei segni del genere?”
Stewart si ricoprì il braccio con un’espressione di infantile orgoglio sul viso. John sospirò interiormente: era così giovane. Pensava ancora che le ferite fossero qualcosa da esibire per impressionare.
“Un’iguana” disse il ragazzo con una luce eccitata negli occhi. John sorrise.
“Mi sembravano un po’ troppo grosse per essere un regalo del micio di casa.”
“Un lucertolone di più di dieci chili. La padrone era un’imbecille di prim’ordine, non sapeva nemmeno dargli da mangiare nel modo corretto.” Il suo sguardo si adombrò. “Mi ha fatto pena, quella povera bestia.”
E dire che la “povera bestia” aveva rischiato di strappargli una mano con una semplice zampata. Quel ragazzo aveva decisamente la vocazione.
“Beh, Stewart, è stato un piacere conoscerti.” Si scambiarono una breve, calorosa stretta di mano. “Buona fortuna per la tua carriera.”
“Arrivederci.”
Ed entrambi mossero un passo verso casa di Maggie.
Si guardarono stupiti.
“Ah-”
“Anche tu-”
“Sì.”
“Ah.”
John si schiarì la voce.
“Sei qui per il pappagallo?”
Gli sembrò di sentire un debole sospiro provenire dal ragazzo, ma l’altro teneva la testa bassa e non riuscì a capire bene.
“Sì” rispose sconsolato. “Sono qui per il pappagallo.” Sembrò accorgersi del tono eccessivamente tragico con cui aveva pronunciato la frase, e arrossì.
John sorrise sotto i baffi. Allora esisteva qualcun altro al mondo con un debole per le persone irritanti, sociopatiche e al limite del genio. Non era l’unico pazzo.
“E lei? È amico dei genitori di Maggie?”
“No.” Sono un amico della ragazza era un’affermazione falsa e rischiosa. Decise di mediare. “Sono… un conoscente che ha bisogno di un favore.”
Stewart aggrottò le sopracciglia e si incupì. Il suo tono divenne leggermente aggressivo.
“Che cosa vuole da lei?”
Calma i bollenti spiriti, Romeo, pensò divertito John.
“Una consulenza sportiva.” Si affrettò a spiegarsi: Stewart sembrava un ragazzo gentile, ma in quel momento aveva un aspetto a dir poco minaccioso. “Lavoro assieme a un investigatore privato, che sta indagando su un caso nel mondo del tennis. Magdalena è molto ferrata sull’argomento e noi non lo siamo. Ci sta gentilmente dando una mano.”
Stewart alzò un sopracciglio, pieno di diffidenza.
“Gentilmente?”
John sentì un moto di istintivo affetto verso di lui. Dio solo sapeva quanto avevano in comune, e non pensava solo all’ascendenza scozzese.
“Ci sta dando una mano, punto.” rispose con un sorriso affabile. Stewart sembrò convincersi e rilassò i lineamenti.
“Questo suo amico” chiese con fare curioso, “è per caso Sherlock Holmes?”
John annuì, stupito.
“Sì. Come fai a saperlo?”
Il ragazzo si rabbuiò.
“È quello che l’ha riportata a casa quando è scappata. Cioè l’unica altra persona con cui Maggie abbia avuto contatti un minimo ravvicinati negli ultimi due anni.”
“L’unica altra persona a parte te?”
Stewart fece un altro sospiro, che gli fece intendere quanto per lui i contatti non fossero mai stati ravvicinati a sufficienza.
“Sì.” Stette in silenzio per un attimo, lanciando uno sguardo malinconico alla porta della casa davanti a loro. Quando si rivoltò verso di lui, però, sorrideva di nuovo. “Mi faccia un favore, può?”
“Certamente.”
“Lo ringrazi da parte mia. Questo suo amico. Per quello che ha fatto.”
Per distoglierlo dall’imbarazzo che gli aveva nuovamente arrossato le guance, John gli propose di andare a suonare il campanello.
 
*
 
Dopo essere stati braccati da un’euforica signora Murray per tutto il tragitto porta d’ingresso-piano superiore (“Stu, ragazzo mio, ti sei fatto così bello! Così bello! Vero, dottore? Oh, dovrebbe capirlo anche quell’altra lassù!”), John e Stewart riuscirono ad arrivare incolumi (e miracolosamente sobri) davanti alla camera di Maggie.
“Quella donna sarà la mia morte” boccheggiò Stewart, togliendosi con il dorso di una mano i segni di rossetto che la madre di Maggie gli aveva lasciato sulle guance. “Mi mette ogni volta in situazioni di un imbarazzo mostruoso.”
John ridacchiò, ma poi si ritrovò a pensare a quelle dannate candele che Angelo si ostinava ancora a mettere sul tavolo suo e di Sherlock e d’improvviso non si sentì più nella posizione di prenderlo in giro.
“Sì, ho presente la sensazione,” borbottò.
Da dietro la porta si sentiva della musica ovattata.
 
Heifer whines, could be human cries
Closer comes the screaming knife
This beautiful creature must die

 
“Questa ragazza ha la passione degli Smiths, vero?” commentò John bussando alla porta. Rivolse uno sguardo sorpreso a Stewart: si era illuminato come la decorazione di un albero di Natale.
“Eh? Ah, sì. Ascolta solo loro. E la messa da requiem di Mozart,” commentò il ragazzo affastellando una parola sull’altra, un sorriso vagamente imbecille sulle labbra. John aggrottò le sopracciglia: suonava tutto abbastanza deprimente, perché aveva l’aria così felice mentre gli diceva quelle cose?
Oh. Ma certo.
“Gliel’hai regalato tu il disco, eh?” commentò divertito. Stewart arrossì per quella che sembrò la centesima volta da quando lo conosceva.
“Avanti.”
Entrarono.
 
A death for no reason
And death for no reason is murder
 
*
 
La camera aveva ancora l’aspetto di un piccolo villaggio distrutto da un tornado, ma almeno il pappagallo se ne stava calmo e disintossicato al sicuro nella sua gabbia.
Magdalena era seduta sul letto con un mucchio di fogli protocollo in grembo; brandiva una penna rossa, con la quale li stava metodicamente e selvaggiamente riempiendo di segnacci.
“Imbecille, ameba, cretino, cretino, cretino di proporzioni bibliche, decerebrato, idiota…” mormorava come un mantra, gettando via via la propria opera di vandalismo sul pavimento.
Come l’altra volta, le finestre erano chiuse e nella stanza vi era poca luce, perciò John non se ne accorse subito. Stewart aveva evidentemente l’occhio più allenato del suo.
“Cazzo…” fu l’incredulo borbottìo del ragazzo. “Maggie, che accidenti hai fatto ai capelli?”
Lei alzò la testa con un movimento scocciato. “Eh?”
John aprì e chiuse la bocca, basito. Stewart era nelle sue stesse condizioni: boccheggiava come un pesce.
Magdalena li guardò con aria annoiata e sbuffò.
“Oh, quante scene per un po’ di-”
“Hai i capelli bianchi! Ridicolmente corti, e bianchi!”
Lei assottigliò gli occhi, passandosi istintivamente una mano nella corta zazzera di capelli candidi che aveva effettivamente sostituito la lunga chioma castana.
“E allora?” sbottò, aggressiva – troppo aggressiva, notò John.
“E allora sembri un marine in pensione!”
John ebbe l’impressione che lei avesse letteralmente nitrito di rabbia.
“Come, scusa?”
“Ehm, buongiorno. Di nuovo.” si intromise incerto John, cercando di sedare la faida sul nascere.
Inutile dire che venne bellamente ignorato.
“Se avevi voglia di tingerti, non potevi farlo di un colore cristiano come tutto il resto degli esseri umani?!”
“Vai a dire queste cose al tuo stupido pappagallo, vedrai che forse così otterrai qualche effetto!”
“Che diavolo ti è preso?”
“Mi annoiavo!”
“Beh, vai a correre, la prossima volta!”
“Vaffanculo!”
John si prese la radice del naso fra indice e pollice. Perfetto. Oltre a dover gestire ogni giorno un bambino di sei anni travestito da consulente investigativo, ora gli toccava pure il battibecco adolescenziale fra uno spilungone scozzese sfregiato da un’iguana e una diciottenne esperta di fisica quantistica che sembrava Tempesta degli X-Men.
“Okay, basta.” cominciò in tono ragionevole, i nervi che cominciavano a cedergli.
“Isterica! Sei un’isterica! E non mi interessa se hai quasi vinto un premio Nobel!”
“Ho detto: vai a parlare con il pappagallo! Così ti confronti con un cervello simile al tuo!”
“Ti avverto, Maggie, se scopro che l’hai usato per qualche altro esperimento, io ti denuncio e poi ti-“
“E poi cosa?!”
“BASTA!”
I due smisero subito di urlare e si voltarono a guardarlo all’unisono, stupefatti. John digrignò i denti e prese un lungo respiro.
“Scannatevi pure quanto vi pare, non mi interessa. Voglio soltanto parlare con lei un secondo” indicò sbrigativamente Maggie con un dito accusatore, occhieggiandoli entrambi con il suo miglior cipiglio genitoriale, “e poi tolgo il disturbo.”
“Okay” disse piano Stewart, facendo quel che sapeva fare meglio: arrossire.
“Okay” disse nella sua vocetta acuta Maggie, facendo quel che sapeva fare meglio: alzare gli occhi al cielo.
“Bene.” Rivolse uno sguardo più dolce a Stewart, che era paonazzo. “Tu e il pappagallo potete ascoltare, se volete.”
“No, fa niente.” sussurrò in risposta lui evitando di guardarlo negli occhi. Sollevò con cautela la gabbia fra le braccia e si diresse verso la porta. “Sono al piano di sotto. Con tua madre.” disse a Maggie in tono forzatamente neutro.
“Buona fortuna,” rispose sarcastica lei.
John lo osservò uscire con le spalle tristemente piegate all’ingiù, come se la voliera fra le sue mani pesasse cento chili.
Maggie si accese una sigaretta. Oltre al colore dei capelli, aveva cambiato anche quello delle unghie: ora erano viola melanzana.
“Idiota,” mormorò a mezza voce, scagliando l’accendino sul letto. Alzò uno sguardo scocciato sul dottore: “Non dicevo a lei, ovviamente.”
John le lanciò un’occhiata penetrante. La ragazza fissava il copriletto come se volesse incenerirlo con la sola forza delle iridi castane.
“Ovviamente” ripetè, cercando di rimanere conciliante. “Mi spiace aver disturbato la tua… la vostra…” gesticolò indeciso, “insomma, Sherlock ha bisogno di altre informazioni e mi ha mandato a chiedertele.”
Magdalena sogghignò.
“Sì, molto comodo mandare il proprio galoppino a sbrigare la bassa manovalanza. D’altronde, è un uomo così impegnato…” Spense la sigaretta in una tazza che sembrava essere sul quel comodino da giorni. “Tra una crisi d’astinenza e l’altra non deve riuscire neanche a ritagliarsi un buco nell’agenda. Ha!” Sorrise, ma non era affatto un sorriso. Era qualcosa di vagamente spaventoso. “Buco. Interessante scelta lessicale.”
John Watson era un dottore: aveva la pazienza e il distacco emotivo nel sangue. Ma, come aveva già ricordato a qualcun altro, aveva le sue giornate no.
“Sentimi bene, ragazzina,” sibilò avvicinandosi di un passo al letto, “se sei incazzata perché hai litigato con il tuo fidanzatino e hai bisogno di qualcuno contro cui sfogarti, hai sbagliato persona. Segui il suo consiglio e vai a correre, perché non tollererò un’altra mancanza di rispetto da parte tua, né nei miei confronti, né in quelli di Sherlock.” Le puntò un dito contro e si sorprese nel vedere che stava tremando: era veramente fuori di sé. Sentiva il sangue rombargli nelle orecchie. “È chiaro?”
Magdalena irrigidì le spalle e si strinse le mani in grembo. La sua faccia rimase senza espressione, un viso immobile di bambola che sembrava vecchio di cent’anni a causa del colore dei capelli e della fissità dello sguardo; ma John era diventato un esperto a leggere oltre quelle che sembravano dimostrazioni di spassionata indifferenza.
“Mi può ripetere, cortesemente, il suo ruolo nella vita di Sherlock Holmes?” chiese, la voce ferma ma stranamente meccanica, iper-controllata. John abbassò il dito e strinse le mani a pugno lungo i fianchi.
“Collega.” E piantala, Watson. “Amico,” aggiunse, e c’era una spiccata fierezza nella sua voce.
Magdalena annuì sovrappensiero.
“Capisco,” disse fra sé e sé. “Beh, siete una coppia bene assortita.”
“Grazie,” rispose automaticamente John. Sembrò accorgersene a scoppio ritardato. “Un momento, noi non siamo-”
Magdalena lo interruppe con un gesto svelto della mano.
“Diceva di ulteriori informazioni. Vada avanti. La ascolto,” disse, e sorrise.
Un sorriso piccolo, incerto, quasi timido, come se non fosse sicura al cento per cento di starlo facendo nel modo giusto. Un sorriso che a John ricordava qualcuno.
Forse fu proprio il pensiero di Sherlock a spingerlo a sorriderle a sua volta.
 
*
 
Maggie spense la sua decima sigaretta della giornata nell’esatto momento in cui John Watson ebbe finito di spiegarle gli sviluppi della situazione.
“Il suo amico è sulla pista giusta,” asserì, lasciandosi andare contro il cuscino. Lanciò uno sguardo distratto a John, ma pochi secondo dopo sembrò metterlo bene a fuoco e scosse la testa. “Ma si sieda, prego. Sposti pure quello che trova d’ingombro.”
Il dottore sollevo cautamente una pila di libri che occupava una sedia munita di rotelle e la appoggiò a terra. Notò il titolo del primo volume del mucchio: “Anime morte”, di Gogol.
Nientemeno, si disse sorridendo fra sé e sé. Magdalena intercettò la sua espressione.
“Le piace la letteratura russa?” chiese, evidentemente sforzandosi di fare della normale conversazione, cioè una che esulasse da tenniste pugnalate e pappagalli sotto l’effetto di droghe illegali.
John si sedette.
“Dammi del tu, per favore.” Le sorrise, mostrandole che apprezzava il tentativo. “Ho letto qualcosa a scuola, ma non posso dire di considerarmi un appassionato.” Accavallò le gambe. “Quindi sei d’accordo con l’ipotesi di Sherlock?”
Lei si tirò le gambe al petto e appoggiò il mento sulle ginocchia.
“Penso che la mancanza della richiesta di un qualsiasi tipo di riscatto sia abbastanza indicativa” rispose, pensierosa. “E, considerando la scarsa vita sociale della Howard, trovo appropriato battere la pista delle sue rivali in campo. Sono gli unici rapporti personali che possono aver creato delle inimicizie.”
John annuì.
“Chi suggeriresti?”
Magdalena si morse l’unghia del pollice.
“La Howard ha sempre dimostrato un’indole timida e remissiva, completamente opposta al suo atteggiamento di gioco. Non mi ricordo nessun plateale sgarbo nei confronti di chicchessia.” Una pausa. “Certo che però…”
John aggrottò un sopracciglio, incuriosito.
“Però cosa?”
Magdalena scese dal letto e accese il computer che teneva sulla scrivania. Il dottore le si avvicinò trascinandosi sulle rotelle.
“Ricordi chi era l’avversaria che la Howard ha incontrato in finale a Wimbledon? Quella finale che poi ha vinto?” chiese la ragazza, aprendo una cartella che sembrava contenere scan di articoli di giornale.
“Certo. Era Gabriela Sánchez, la numero uno del mondo. Tutti la davano per favorita.”
Magdalena gli lanciò un veloce sguardo di apprezzamento per la risposta. Evidentemente, non si aspettava che John lo sapesse.
“Esatto.” Cliccò su uno dei tanti articoli che aveva selezionato. “Vincitrice di nove slam, due coppe Davis e una medaglia d’oro olimpica. La migliore tennista a livello mondiale dai tempi della Navratilova, prima ovviamente dell’avvento delle sorelle Williams. Ha trentatrè anni ed è tuttora una giocatrice formidabile – beh, è la numero uno, semplicemente.” Scorse con il mouse una testata giornalistica dopo l’altra. I titoli recitavano cose come La tigre argentina ruggisce ancora, Gabriela d’oro, Settebello della Sánchez: è il suo terzo Roland Garros. “Carattere infernale: la chiamano la McEnroe in gonnella. Ha sempre unito un talento incredibile ad un comportamento un po’…  sopra le righe.” Magdalena fece un sorrisetto e gli mostrò tutt’altro genere di articoli: svariati arresti per consumo di droga, tre fermi per percosse ai danni dei paparazzi, diverse resistenze a pubblico ufficiale, guida in stato di ebbrezza. “In sede di divorzio ha tirato un pesante fermacarte d’argento contro il suo terzo ex-marito. La stampa è impazzita. Cose del tipo: ‘Il celeberrimo servizio della  Sánchez funziona davvero su ogni tipo di superficie’ e sotto una foto del sangue sulle piastrelle del tribunale, con il giudice, gli avvocati e tutti i testimoni attorno al poveretto con in mano dei fazzolettini di carta. Gli ha pagato migliaia di sterline di danni – sette punti sullo zigomo destro – e ancora oggi dice che se ne avesse la possibilità glielo lancerebbe di nuovo, e più forte. Un tipo spumeggiante.”
John fece un fischio.
“Hai capito.” Rivolse uno sguardo perplesso alla ragazza, che continuava a smanettare sul pc. “Ma non possiamo metterla fra la lista dei sospettati solo perché ha, diciamo… Una tendenza all’aggressività.”
“Sai quanta gente finirebbe indagata, altrimenti. La polizia non saprebbe più che pesci pigliare.”
“Qualcuno ti direbbe che la polizia non saprebbe in ogni caso che pesci pigliare.”
“Sherlock sarebbe il primo a essere sbattuto dentro. E il secondino di turno nel chiudere la sua cella canterebbe di gioia, e subito dopo butterebbe la chiave nel proverbiale pozzo.”
John ridacchiò. Era uno scenario sin troppo facile a immaginarsi.
“Sì, penso anch’io.” Gettò una breve occhiata al cellulare: nessun messaggio. A Sherlock evidentemente non erano fischiate le orecchie. Si schiarì la voce. “Tornando a noi.”
“Il terzo ex-marito della Sánchez è inglese. Un filosofo.” Magdalena arricciò il naso, vagamente schifata. “Come la maggior parte dei cosiddetti intellettuali, è straordinariamente stupido.”
John ricordò un pomeriggio in cui Sherlock aveva tirato giù da uno scaffale l’Enciclopedia Britannica e si era messo sistematicamente ad insultare tutte le più eminenti personalità culturali dalla C in poi.
“Beh, immagino che-”
“No no. È veramente senza speranza.” Magdalena si accese l’ennesima sigaretta. “Tre anni fa ha scritto un pretenzioso pamphlet sulla fusione fredda approcciata dal punto di vista filosofico. Gliel’ho distrutto da cima a fondo, e avevo ancora l’acne diffusa.”
“Beh, sei tu ad essere molto brillante. Il poveretto è nella media, o solo un filo più in alto. Non è mica colpa sua se non è al tuo livello. C’ha provato,” disse quasi affettuosamente John, appoggiandosi con la schiena alla sedia.
Magdalena gli lanciò uno sguardo tra lo stupito e il perplesso. Il dottore le sorrise.
“Neanch’io sono un genio. Difendo la mia categoria.”
“Hai la straordinaria capacità di trovarti sempre dalla parte del giusto. E con estrema spontaneità,” commentò la ragazza con aria pensierosa. John arrossì.
“Beh, grazie-”
“Ad ogni modo, il nostro paese è talmente assetato di gloria nazionale da essere andato letteralmente in visibilio alla prospettiva di guadagnarsi un’atleta con un palmarès così.” Magdalena sogghignò. “Sposando un inglese avrebbe potuto avere la doppia cittadinanza, e le nostre autorità speravano che, al momento di dover scegliere fra l’una e l’altra durante le competizioni internazionali, la Sánchez sarebbe passata sotto la nostra bandiera.” Fece una risatina maligna e aprì un altro articolo, di cui persino il titolo aveva toni molto accesi. “Spettacolare sbaglio.”
Ah sì. John ricordava. Lo scandalo diplomatico della Sánchez, che era numero uno anche allora, e che aveva ardentemente rifiutato di giocare anche solo cose come le partite dell’oratorio con i colori inglesi.
“‘Non mi farò annettere come un territorio conquistato’ è stata la cosa più civile che ha detto. Il resto sono insulti spagnoli per la maggior parte incomprensibili” proseguì Magdalena, scrollando sempre più giù con il mouse. John era allibito: aveva un database di informazioni che la CIA se lo sognava. “Fatto sta che il Regno Unito ha il dente avvelenato con lei da allora. Funzionari del corpo medico sportivo la sommergono di controlli anti-doping ogni volta che mette piede nella sua residenza qui, la polizia la trattiene ore negli aereoporti, l’anti-droga le piomba in casa ad orari assurdi per vedere se si fuma ancora gli spinelli. Dispettucci del genere.”
John rise, allibito. Irruzioni nel bel mezzo della notte alla ricerca di droga che si sapeva non si sarebbe mai trovata? La cosa gli suonava famigliare. “Mi sembra tutto francamente patetico.”
“Lo è. L’Inghilterra non ha preso bene il rifiuto e lei non fa niente per smussare gli angoli. Rilascia conferenze stampa di fuoco.”
“Ok, va bene, ma ancora non capisco.”
“La Sánchez non ha perso solo una finale di Wimbledon – che già è pesante, come sconfitta. Un mese fa era reduce dall’anno migliore della sua carriera: oro alle Olimpiadi, US Open, Roland Garros, Australian Open…” Rivolse uno sguardo eloquente al dottore. “Adesso capisci?”
Gli ingranaggi nel cervello di John presero a girare a più non posso. Quando ci arrivò, gli parve che i suoi neuroni si fossero messi a rintoccare come il Big Ben.
Si passò una mano fra i capelli ancora militarmente corti. “Oh, cazzo.”
“Eh sì. Oh, cazzo.” Magdalena allargò a schermo intero l’articolo pubblicato il giorno dopo la finale. La notizia della scomparsa della Howard non aveva ancora fatto in tempo a raggiungere la stampa e non se ne faceva parola; la prima pagina mostrava una foto di Christine in ginocchio sull’erba del campo che piangeva incredula, e accanto vi era un’altra foto di una donna dalla carnagione abbronzata e il fisico magro, ma atletico che esibiva con riluttanza la coppa della seconda classificata. “Il Golden Slam. I quattro slam e la medaglia d’oro olimpica: nessuno c’è mai riuscito, né uomo, né donna. Nessuno. La Sánchez era a un passo dall’entrare nella storia come la più grande tennista di tutti i tempi, e chi glielo impedisce? Una ragazzetta che non ha ancora finito la scuola ed è a Wimbledon solo grazie a una wild card. Inglese, per di più.” Cliccò su un primo piano della sconfitta. Gabriela Sánchez teneva il mento alto come una regina, ma aveva il sorriso amaro di chi avesse appena finito di succhiare un limone. “Ce n’è abbastanza per pensare all’omicidio, no?” commentò Magdalena, alzando un sopracciglio in maniera eloquente.
John si lasciò andare sullo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto.
“È un’accusa pesante,” disse, piano, due rughe di profonda concentrazione sulla fronte.
“È l’unica pista a cui io riesca a pensare.”
“La interrogheremo.”
“Beh, in bocca al lupo.” Magdalena si accese l’ennesima sigaretta. “L’ultimo giornalista che ha tentato di intervistarla si è preso un secchio d’acqua in testa. Portate un ombrello.”
John fece spallucce. “Siamo a Londra, ed è novembre. L’avremmo portato in ogni caso.”
Magdalena fece un sorrisetto, che non accennò a diminuire nei secondi successivi. John le rivolse un’occhiata interrogativa: la ragazza sembrava persa nei propri pensieri.
“Che c’è?” le chiese, incuriosito.
Magdalena scosse la testa con un’aria che sembrava quasi malinconica.
“Sai, John, è altamente improbabile che imprese sportive come il Golden Slam o anche semplicemente il Grande Slam siano possibili in futuro. Il tennis di adesso è profondamente diverso da quello di una volta. La concorrenza è spietata, il gioco molto più fisico, veloce, gli standard altissimi. I primi dieci del mondo sono tutti candidati plausibili alla vittoria in uno slam; e gli altri nove sono sempre dietro a mordere loro le calcagna. Un tempo c’erano Borg, McEnroe, Lendl, fine. Il resto era carne da macello – qualcuno più bravo di altri, sì, ma non c’era storia con le teste di serie.” Spense la sigaretta nel posacenere. “La Sánchez è l’ultima protagonista del tennis vecchio stampo. Avrebbe potuto compiere un’impresa epica, mai vista prima, e un’era si sarebbe chiusa con i fuochi d’artificio per far posto a una nuova generazione di tennisti molto precoci, tutti forti allo stesso livello, potenziatissimi a livello fisico ma decisamente poco creativi. Christine Howard ha un gioco completo, ma è una delle poche: fidati che le nuove promesse non sono niente a che vedere con il genio, il perfezionismo che si vedeva un tempo. Djokovic e la Sánchez erano gli ultimi con le carte in regola per sbaragliare ogni record e entrare nella leggenda. Tutti e due hanno avuto un anno straordinario, ma non ce l’hanno fatta.”
John sorrise fra sé e sé. Magdalena Murray, una nostalgica. Chi l’avrebbe mai detto.
“Lo sport va così. Si vince e si perde, no? Fa parte del gioco,” replicò, conciliante.
Magdalena annuì e chiuse il computer con uno scatto.
“Fa parte della vita, direi. A proposito, restando sul tema dello sport come metafora di qualcosa di più universale… Sai chi è stata l’unica altra tennista capace di arrivare così vicino al Golden Slam?”
John ci pensò una decina di secondi, poi scosse la testa con una smorfia incredula.
“Non mi dire- Steffi Graf, vero?”
A Magdalena si illuminarono gli occhi.
“Corretto. E indovina chi le mise i bastoni fra le ruote, strappandole le vittoria allo stesso identico torneo, ventidue anni fa?”
Questa volta John non ebbe alcun bisogno di rifletterci su.
“Monica Seles.”
Magdalena emise un versetto deliziato di fronte a tanta prontezza.
 “La storia si ripete.”
Il cellulare di John suonò. Il dottore riuscì quasi a percepire la rabbia del mittente dalla veemenza di quegli squilli.
“Sherlock?” disse, cauto. Magdalena alzò gli occhi al cielo.
“John, vieni a casa. Subito.” La voce del detective era quasi un ringhio.
Il dottore si sistemò meglio sulla sedia.
“Che è successo?”
“Mycroft.”
“Mycroft, cosa?”
Mycroft, punto. Ho bisogno di un tè. Vieni a farmi un tè.”
John sospirò.
“Come si dice?” tentò, in un tentativo in extremis di fare dell’ironia sui modi tirannici dell’amico.
“Sbrigati?”
“Risposta sbagliata!” esclamò in un finto tono entusiastico da presentatore televisivo. “Aspetterai.”
Allargò gli occhi, stupefatto. Era sicuro che Sherlock avesse appena nitrito di impazienza.
“Smettila di essere così puerile, John!”
“Ah ah. Io, puerile, detto da te. Divertente.”
John rialzò lo sguardo su Magdalena. Aveva l’aria mortalmente annoiata: mancava poco che si mettesse a limarsi le unghie.
Decise di tagliare corto.
“Senti, Sherlock-”
“Non aspetterò un minuto di più! È un secolo che ti chiedo di farmi un tè e tu ti ostini a non ascoltarmi. Rimedia subito e vieni qui.” John avvertì una potente ispirazione far sfrigolare la cornetta. “ORA.
Sentì le mani cominciare a prudergli.
“Sherlock, usa il tuo fenomenale intelletto e cerca di seguirmi: non sono a casa da stamattina.” Sillabò ogni lettera con cura, pollice e indice della mano destra uniti a cerchio a scandire le parole man mano che venivano pronunciate. Magdalena, nel mentre, aveva preso a ghignare come una iena. “Come accidenti avrei potuto ascoltarti se sono dall’altra parte di Londra, in un posto in cui oltretutto mi hai spedito tu?” Si accorse che formulata così la frase poteva suonare offensiva e fece un gesto di scuse in direzione della ragazza. Lei dismise la sua preoccupazione con uno svolazzo frivolo della mano.
La cornetta gracchiò di nuovo. La principessina stava sospirando.
“Come sei ostico, Dio, John.”
“Vuoi sapere cosa sei tu?” ribatté aggressivo, sentendo la pazienza abbandonarlo.
Magdalena gli mimò con il labiale qualcosa che somigliava a sei incazzato perché stai litigando con il tuo fidanzatino? e John le rivolse un’occhiata di fuoco. La ragazza rise con aria malefica.
“John-”
“No! John un tubo. Strozzatici con il tuo tè. Torno per cena.” E gli mise giù il telefono.
Sentì un lungo fischio proveniente dalla proprio destra.
“Allora, la bisbetica è stata domata?”
John voleva soltanto un minuto da solo per prendere a testate un muro – o Sherlock, se solo si fosse reso disponibile – e recuperare un po’ di pace.
“La smetti?”
“Perché mai? È divertente.”
Gli assomigliava in maniera terribile. Terribile.
“Bene,” disse, alzandosi in piedi. “Grazie dell’aiuto. Buona serata.” disse secco, tendendole una mano in segno di saluto.
Magdalena gliela strinse.
“Che fai? Corri da lui?”
“Fatti gli affari tuoi.”
Lei non accennava a voler allentare la stretta sulle sue dita.
Il cellulare emise quel singolo squillo che indicava l’arrivo di un messaggio. John lo cavò di nuovo fuori dalla tasca e digrignò i denti immaginandosi già lo stizzoso contenuto di quel che stava per leggere.
Che gran segno di carattere, sbattermi giù il telefono. Complimenti, John. SH
John imprecò ad alta voce.
“Che dice?” gli arrivò la voce velenosamente curiosa della ragazza.
“Cosa c’è di poco chiaro nella frase ‘fatti gli affari tuoi’?” replicò stizzito il dottore, digitando veloce una risposta.
Ti comporti da viziato e capriccioso e io agisco di conseguenza. E la tua amica, qui, è snervante quasi quanto te. Mi sta mandando ai matti. JW
“Nulla. Ho deciso di ignorare selettivamente quella frase.”
John le lanciò un’occhiataccia. Il cellulare vibrò ancora.
Non è una mia amica. SH
E ancora:
Vieni qui se lei ti dà tanto noia. SH
“Non dargli soddisfazione, John. Se non è capace di richiedere in modo esplicito la tua compagnia senza esimersi dal trattarti come uno sguattero, non merita che tu lo soddisfi. Non trovi?”
John si interruppe a metà della risposta che stava digitando, allibito. Magdalena lo guardava con un’espressione di falsissima innocenza in viso. Ci godeva, John riusciva a capirlo, nel tentare di mettere zizzania: gli sembrava di vederla sfregarsi interiormente le mani al solo pensiero.
“Sei tanto carina quando snoccioli tutta la tua cultura tennistica. Ti illumini, ridi, fai battute, vieni incontro alle persone. Poi, improvvisamente, torni nel mondo vero, quello fuori dalle linee tracciate di bianco, e ti metti a sfoggiare questa cattiveria leziosa come se fosse un bel vestito.” Il cellulare nella mano di John vibrò ancora, ma lui quasi non lo sentì; al momento lo interessava molto di più mantenere il contatto visivo con quella ragazzina annoiata che si divertiva a fare insinuazioni sulla sua vita all’unico scopo di distrarsi un po’. La cosa che più lo mandava in bestia era che, con quel che aveva detto, si era avvicinata pericolosamente alla verità.
E non era possibile. Sherlock deduceva, non si faceva dedurre. Da nessuno. Perché nessuno aveva mai osato, nessuno era mai riuscito ad avvicinarsi abbastanza. E improvvisamente spuntava fuori lei, millantando di avere certe carte in mano che nemmeno John stesso si era mai sognato di possedere.
“Chiedimelo.”
John aggrottò le sopracciglia, stringendo a pugno la mano che non reggeva il cellulare. Magdalena lo squadrava calma e perfettamente padrona di sé dalla sedia, con l’aria paziente e già vittoriosa di un pescatore che sappia di aver lanciato un’esca squisita.
“Cosa?” replicò John, lento, intimidatorio. La ragazza gli fece un antipatico sorrisetto.
“Chiedimi come faccio a sapere così tanto di lui.”
Sta cercando di mettere zizzania, si ripetè svelto John fra sé e sé. Odia Sherlock. Non sai perché, ma ti deve bastare. Non cascarci.
“No, non mi interessa,” rispose duro. Fece per alzarsi e andarsene una volta per tutte, ma la sua vocetta acuta e insinuante lo trattenne.
“Sì che ti interessa. Muori dalla voglia di saperlo. Sei incuriosito, un po’ inquieto, e molto geloso.” Si sporse verso di lui, acciambellandosi sulla sedia con l’aria goduriosa di una gatta al sole. “Il che, devo ammettere, quasi mi lusinga.”
John rimase in silenzio, inchiodato sul posto. Quelle sue analisi così esatte, al contrario di quelle di Sherlock, che lo mettevano in soggezione e gli davano piacere come l’osservare un’opera d’arte, avevano il potere di fargli passare un brivido sgradevole lungo la schiena. Come se il suo sguardo clinico l’avesse trapassato da una parte all’altra a mo’ di coltello.
Quella ragazza era potenzialmente pericolosa, per lui, per Sherlock, per lui e per Sherlock. Ma John non era mai riuscito a tirarsi indietro di fronte al pericolo. E d’altro canto, doveva sapere.
“Ti propongo un patto. Tu resti un’altra mezz’ora, e io ti dico tutto quello che so del tuo amico. Così quando uscirai di qua saprai se vale veramente la pena di tornare a casa a preparargli un bel tè caldo.” Gli lanciò una lunga occhiata penetrante, e John rabbrividì. Magdalena era così giovane, così fragile d’aspetto, e aveva il sorriso timido e raro di Sherlock: ma di Sherlock non aveva mai avuto paura. Di lei, ora, ne aveva. “O se invece è il caso di non tornare affatto.”
Il cellulare squillò per l’ennesima volta. John deglutì e lesse il messaggio, la mano che gli tremava impercettibilmente.
Ho tolto le unghie dal barattolo del tè. Non so perché io le abbia messe lì – il vasetto vuoto della marmellata che hai finito ieri era molto più adatto allo scopo. SH
La cosa più vicina a una scusa che Sherlock fosse capace di rivolgergli.
Sentì il cuore stringerglisi in un incommensurabile moto d’affetto per il proprio coinquilino. In quel momento voleva solo vederlo, litigare ancora un po’ per la storia del tè e delle unghie, imporgli l’ascolto di Rubber Soul mentre puliva i piatti per entrambi e poi guardarlo mettersi la vestaglia per stare più comodo durante i suoi esperimenti notturni. Il fatto che avesse tentato goffamente di scusarsi per guadagnarsi la sua benevolenza, poi, gli faceva sospettare che avesse un sincero bisogno di lui. Mycroft doveva avergli davvero sconvolto il suo già fragile equilibrio umorale.
La cosa più logica, la cosa che avrebbe voluto di più, la cosa più giusta da fare sarebbe stata andarsene da lì e tornare da lui. Tornare da lui: solo il modo in cui quella frase suonava nella sua mente era in grado di fargli battere forte il cuore.
“Allora?”
Magdalena sorrideva tutta fremente d’aspettativa e John non desiderava altro che levarle quel ghigno sbeffeggiatorio e arrogante dalla faccia. Massì, che gli raccontasse pure tutto quello che voleva. Niente avrebbe potuto sconvolgerlo. Era vero, non sapeva quasi nulla del passato di Sherlock, ma era certo di conoscerlo già intimamente, fin nella sua natura più profonda. Sì, lo conosceva al cento per cento. Ne era sicuro.
L’amore dà questo tipo di presunzione, di delirio di onnipotenza, di certezza matematica di fronte all’equazione dell’altro, per quanto complessa sia. John era innamorato e perciò non faceva eccezione.
Decise almeno di non darle la soddisfazione di un assenso a voce alta e si limitò ad annuire.
Dammi un’ora. Non ho ancora finito, qui. JW
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: mi scuso con le persone a cui del tennis non frega nulla per il capitolo traboccante di riferimenti, regole, nomi e altre noiosaggini. Spero che il tutto non sia risultato troppo monotematico – in ogni caso, da qui in poi la storia torna a spostarsi prevalentemente sul rapporto fra John e Sherlock e sul loro modus operandi nel seguire il caso. <3
WARNING! Qui sotto vi è una valanga di note alla storia, fastidiose come Google quando ti fa “forse cercavi…?”. Leggetele a vostro tedio e pericolo.
Alcune precisazioni, tennistiche e non solo, per quei santi che si sono sorbiti questa tirata e vogliono vederci più chiaro (vi apprezzo, vi amo dal profondo del cuore) (ma davvero):
1.      La canzone citata in corsivo è “Meat Is Murder” degli Smiths, gruppo che ascolto ossessivamente ogni volta che mi metto a scrivere questa storia. Secondo me Morrissey scrive dei testi molti sherlockiani (non me ne avere, Moz, è inteso come un complimento).
2.      Sì, ho ascoltato anche il Requiem di Mozart perché ero in lutto, sì, ovviamente potete ridere di me quanto volete, sì, non è normale, lo so, ma hanno posticipato la terza stagione, di nuovo, e io mi chiedo, è questo il modo di trattare i nostri poveri nervi, e ancora, non voglio che i miei figli assistano alla scena pietosa di me che piango durante il matrimonio di John (perché tanto so che c’è, me lo sento nelle ossa come i reumatismi – MOFFTISS! *scuote pugno*), perciò sbrigatevi, ecco, così posso smetterla di lagnarmi e tornare ad ascoltare la mia amata Geri Halliwell.
3.      Per gli appassionati di Doctor Who, il personaggio di Stewart è fisicamente ispirato al buon Rory. :D
4.      Gabriela Sánchez è un personaggio di fantasia, ispirato però a una tennista realmente esistente, Gabriela Sabatini. Ai tempi dell’aggressione di Monica Seles, si pensò, come gesto di sostegno, di congelare la classifica internazionale femminile fino al ritorno in lizza della poveretta; tutte le altre tenniste però votarono contro a questa mozione (compresa la Graf) ad eccezione della Sabatini, l’unica a supportare apertamente la collega.
5.      La coppa Davis è praticamente l’equivalente tennistico dei Mondiali di calcio. Il tifo è lo stesso, una roba pazzesca. La competizione è a squadre, composte da quattro giocatori, e sebbene sia forse il torneo più blasonato del mondo del tennis, si partecipa unicamente per la gloria. A vincerlo non ci si guadagna una cippa di niente. (A parte una coppa fighissima a forma di insalatiera). (Una cosa che non ho mai capito di questo sport è la predilezione per i trofei a forma di insalatiera: anche quello di Wimbledon è fatto così. Che ci troveranno mai? Boh). Se mai foste curiosi e voleste vedere com’è fatta una bella partita di tennis, guardatevi un match di coppa Davis (o di Fed Cup, che è la Davis per le donzelle). Vengono giù i muri, e, cosa che non guasta, l’Italia è straforte. :D
6.      Il termine “wild card” indica (mi riferisco al solo tennis) un giocatore o una squadra che vengono ammessi a un torneo senza dover passare per le qualificazioni. È un’iniziativa a mio parere molto figa, che permette a giocatori bravi e promettenti, ma che non si trovano nella parte alta della classifica, di accedere alle grandi competizioni: spesso è una cosa che concede il paese ospitante al proprio vivaio di giocatori, per farli emergere (è il caso di Christine, che è un’inglese a Wimbledon, e che nella storia è molto giovane, quindi professionista da pochissimo tempo). Ovviamente è molto raro che le wild card avanzino di molto nei tornei, ma ci sono state alcune clamorose eccezioni, e quando succede che uno di questi signori nessuno vinca, è veramente emozionante. Immagino sia come essere abituati a giocare nel campetto dietro casa e arrivare in un lasso brevissimo di tempo a segnare il goal della vittoria nella finale di Champions League contro, mettiamo, il Barcellona di Guardiola. O battere la Pellegrini nei 200 a stile quando fino al giorno prima nuotavi pigramente nella tua piscina comunale di fiducia.
7.      “Come la maggior parte dei cosiddetti intellettuali, è straordinariamente stupido” è una citazione dal film “Le relazioni pericolose”.
8.      Non sono sicura di come funzioni la prassi giuridica per l’acquisizione della doppia nazionalità nel caso ci si sposi un bel britanno. Penso non proprio così. Diciamo che ho inventato tutto di sana pianta, con buona pace del governo inglese, e cioè di Mycroft (scusa, Mycroft).
9.      Steffi Graf, in realtà, ce la fece a vincere il Golden Slam: è l’unica nella storia ad aver compiuto questa impresa. Nessun uomo invece finora ci è mai riuscito.
10.  Who’s who dei nomi citati a caso: Martina Navratilova è una delle giocatrici più forti di tutti i tempi, attiva negli anni ’70 e ‘80; Venus e Serena Williams giocano tuttora, e hanno stravinto di tutto dagli anni ’90 ad oggi, sia nel singolare sia nel doppio, che giocano spesso insieme; John McEnroe è una leggenda, qualcosa tipo il John Lennon del tennis. Era un talento straordinario, definito dagli ammiratori un ribelle, e dai detrattori uno stronzo viziato che se la prendeva a più riprese col pubblico e cogli arbitri - i quali sono stati maltrattati da lui in tutti i modi umanamente possibili (vi ricorda qualcuno?). Io lo amo a livelli folli, è il mio preferito da sempre, ma, per restare neutrali, diciamo che era una testa calda con un gran brutto carattere, e che Tom Hulce, l’attore che interpreta Mozart in Amadeus, si è ispirato a lui per costruire il suo personaggio. Non so se rendo l’idea; Ivan Lendl, Bjorn Borg e il già citato John McEnroe sono alcuni fra i giocatori più forti della storia, attivi fra i ’70 e gli ’80; Novak Djokovic è l’attuale numero uno al mondo del tennis maschile.
 
Ringrazio ancora tutti del calorosissimo benvenuto nel fandom che avete dato a questa storia. Grazie, grazie, grazie, significa moltissimo per me. :*

 

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Capitolo 8
*** Break ***


Note: menzione di un tentativo di suicidio, contenuti deprimenti, e Sherlock che fa il brillante filosofeggiando su morte e cadaveri.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Humber Bridge
Kingston upon Hull, North Lincolnshire, Inghilterra
 
 
 
 
 
Rabbrividì mentre si toglieva il cappotto. Faceva freddo, molto freddo.
Meglio. L’acqua gelida, sommata alla caduta da quell’altezza, avrebbe contribuito a renderla del tutto incosciente. Con un po’ di fortuna non avrebbe sentito nulla.
Si chinò ad aprire la zip dello zaino che aveva portato con sé e tirò fuori il necessario. Indossò sopra ai vestiti che già aveva una dolcevita, un maglia di cotone, un golf di lana e una felpa di pile. Passò una pesante sciarpa intorno al collo e si mise i guanti.
Tirò su col naso: il suo corpo non sentiva più la temperatura esterna. Era una notte nevosa di dicembre e lei si sentiva al caldo.
Sono i nervi, pensò. L’adrenalina. Incredibile.
Considerò con sguardo spento il panorama di fronte a lei. Diverse macchie di vegetazione ricoprivano le basi fangose del ponte; l’acqua sembrava un’immota lastra di marmo nero. Non c’era un filo di vento a incresparne la superficie. In lontananza, all’orizzonte, le luci della cittadina di Burton-upon-Humber rilucevano fisse e sfocate.
Che squallore, pensò. Una sensazione di soffocamento le si fece strada in gola.
Basta. Basta con tutto questo vuoto. Basta con il senso di disorientamento. Basta con la piattezza, l’inevitabilità triste di quel che sentiva da sedici anni. Basta.
Rovistò nello zaino e ne tirò fuori una decina di grosse pietre piatte, che aveva raccolto lungo la sponda del fiume il giorno prima. Se le ficcò in tasca, prese un lungo respiro, lasciò che il silenzio del ponte deserto le rimbombasse un’ultima volta nelle orecchie e si arrampicò sul muretto di protezione.
Una volta in piedi la sensazione di potere e libertà le diede le vertigini. Si sentiva il mondo in mano, si sentiva pienamente in controllo della propria libertà decisionale. Dio, si sentiva bene.
Sorrise amara. Chi amministrava la vita e la morte in terra aveva un pessimo senso dell’umorismo.
Allargò le braccia e chiuse gli occhi.
“Pietre nelle tasche. Che cosa digustosamente letteraria.”
Magdalena sobbalzò e per poco non perse l’equilibrio. Mulinò le braccia, cercando disperatamete di ribilanciarsi, il cuore che le batteva a mille nelle tempie.
“Chi è lei?” urlò, la paura che le sfondava il petto. Non si fidava a sufficienza delle proprie capacità motorie per provare a girarsi e fronteggiare lo sconosciuto.
Cristo, doveva darsi una calmata. Stava per uccidersi – che senso aveva agitarsi così?
“Sherlock Holmes,” rispose la voce, in tono monotono e indifferente. Come se parlare con un’aspirante suicida in bilico sul muro di protezione di un ponte fosse ordinaria routine per lui.
“Che cosa vuole?” urlò, sperando di suonare sufficientemente minacciosa anche con la voce che le tremava.
Questo non ci voleva. Gradiva solo consumare il proprio suicidio in perfetta solitudine, era chiedere troppo? Non aveva forse diritto a un ultimo desiderio o stronzate del genere?
“I soldi che tua madre ha promesso a chiunque ti riporti a casa. Perciò smettila con questa pagliacciata e scendi di lì.”
Magdalena rise secca, sentendo un’ondata di isteria invaderla tutta. Tutto il suo corpo tremava per la tensione nervosa. Non era possibile.
“Se li ficchi nel culo quei soldi! E ora se ne vada, mi sta distraendo!” ringhiò.
Sentì una risatina supponente risuonare dietro di sé.
“Se davvero volessi ucciderti, niente ti potrebbe distrarre; per cui, come ti dicevo prima, piantala di essere sciocca e scendi di lì. Hai decisamente più talento in altre cose che nel recitare la parte dell’eroina romantica distrutta dalla vita”.
“E lei che diavolo ne sa?” urlò Magdalena, tentando di sovrastare il boato del vento che aveva preso a soffiare fortissimo. I suoi denti battevano. Il rush di adrenalina era scomparso, sostituito da un senso di confusione mista a panico per come il suo piano era stato compromesso da quell’arrogante sconosciuto, e lei aveva di nuovo freddo.
“So molte cose di te.” Una pausa. “Per cominciare, rischi davvero di cadere ora che il vento si è alzato. Intendi andartene da questo mondo scivolando  giù per cento metri di altezza come un equilibrista goffo e ridicolo che abbia fatto male i suoi calcoli? Io non credo. Volevi una fine in grande stile. Una morte fuori dall’ordinario. Sarebbe stato così semplice soffocarti col gas o ingurgitare una dose eccessiva di anti-depressivi (so che il tuo medico te li ha prescritti: è un idiota, tu non sei depressa, e infatti non hai provato la tentazione di assumerli), ma no, trovavi questi metodi così disperatamente noiosi, banali, vuoti di senso. Meglio qualcosa di eclatante, in grado di strappare un applauso al tuo pubblico immaginario. Un salto. Un balzo ferino. Un gesto d’azione. Ma non da uno stupido palazzo: dal ponte più alto del Regno Unito. Aggiungiamo pure il fatto che il tuo amatissimo, defunto padre è nato qui vicino, a Kingston upon Hull, e non a Londra, come tua madre, cui sei molto meno legata. Ti sei scelta il palcoscenico più funzionale e maestoso a un tempo per celebrare la tua dipartita intrisa di simbolicità. Ben architettato. Torna tutto.”
Magdalena batté le palpebre. Quel monologo dai toni freddi e sentenziosi sembrava averle impedito di fare qualsiasi altro movimento. Era come se, con le sue parole, questo Sherlock Holmes le avesse sparato un narcotico. La sua mente sembrava barcollare come un ubriaco.
Non era possibile. Era rimasta stupita dal solo fatto che lui fosse riuscito a trovarla, a seguirla fin lì attraverso un percorso volutamente labirintico che lei aveva ideato per seminare le sue tracce, ma perfino quella sua abilità, che già le sembrava incredibile, non era nemmeno lontanamente paragonabile alla stupefacente esattezza di quelle deduzioni. Quel suo discorso era un’opera di genio e astrazione. Sembrava conoscerla intimamente e non erano mai entrati in contatto prima di quel momento.
“Chi è lei?” ripetè, e stavolta, non riuscì a impedire che la sua voce tremasse.
Udì un sospiro che sembrava trattenere a stento tutta l’impazienza del suo interlocutore.
“Girati. Lentamente,” ammonì in tono duro, “stai perdendo sensibilità al piede sinistro per il gelo. Tenere le scarpe e le calze ti avrebbe aiutato ad andare a fondo esattamente quanto le pietre nelle tasche, sai?” Si schiarì la voce. Il vento si era fatto fortissimo. “Ora, movimenti piccoli e misurati. Segui i miei esatti ordini e girati.”
Magdalena non riuscì a fare altro che obbedire. Non intendeva in ogni caso andare fino in fondo al suo piano in presenza di un estraneo. Tanto valeva assecondarlo e tentare di persuaderlo ad andarsene.
Compì con estrema cautela una rotazione di centottanta gradi. Nel suo campo visivo comparve prima la fila di pinnacoli di cemento che tenevano su il ponte, poi l’asfalto della strada, puntellato di segnali di lavori in corso, e, infine, un uomo alto e pallido avvolto in un pesante cappotto.
Magdalena sentì i meccanismi del suo cervello ricominciare lentamente a girare. Lo shock era passato: ora, i suoi neuroni dovevano assolutamente tornare a funzionare a pieno regime, o il suo obiettivo sarebbe andato in fumo.
L’uomo aveva un viso bianco e incavato che sembrava scolpito nel gesso. La pelle doveva essere estremamente sensibile alle temperature estreme perchè le labbra erano spaccate dal freddo, il naso e le guance erano rossi come se qualcuno li avesse violentemente sfregati con un straccio e il resto del colorito era livido. Nonostante il cappotto fosse ampio e tagliato su una persona di un’altezza superiore alla media, Magdalena riusciva a intuire un’estrema magrezza sotto i vestiti. Fisicamente debole? Atleticamente impreparato? Forse, ma se i suoi muscoli avevano la metà dei riflessi del suo cervello, allora era comunque fregata.
L’uomo aveva un’apparenza aliena. I lineamenti erano nel complesso piacevoli e i fitti ricci neri lo facevano sembrare un cherubino, ma vi era un che di tagliente, di inquietante nel modo in cui i suoi occhi azzurri la guardavano tale da non riuscire comunicarle un’impressione generale di bellezza.
Si sentiva una ferita aperta sotto l’occhio impietoso di un medico. Un medico interessato unicamente alla malattia e non alla persona.
“Bene,” fece l’uomo una volta che lei si fu completamente girata verso di lui, “ora scendi dal muro.”
“No,” ribattè decisa. Sherlock Holmes arricciò un labbro in un moto di fastidio e alzò gli occhi al cielo.
“Allora perlomeno siediti. Piedi per terra, in modo da non perdere l’equilibrio” sbottò.
Aveva senso. Magdalena ubbidì.
L’uomo incrociò le mani dietro la schiena e si mise a passeggiare per il ponte fissando il cielo sopra di lui con aria soddisfatta, come se quella situazione fosse del tutto normale e loro due stessero amabilmente discorrendo del tempo. Era snervante.
“Dunque, veniamo a noi. Sei una persona di un certo intelletto. Sono sicuro che il tutto si possa risolvere senza riprovevoli sbavature,” disse, tornando a rivolgere lo sguardo su di lei con un sorriso per niente amichevole.
Magdalena inarcò un sopracciglio.
“Definisca sbavature,” replicò diffidente.
“Tu ti ostini a non collaborare e io mi vedo costretto a usare le maniere forti,” rispose subito l’uomo, impassibile. Magdalena rise secca.
“Al suo minimo movimento superfluo io sbilancio il peso all’indietro e lei si può scordare i suoi soldi. Non è nella posizione di dare ordini.”
“Eppure poco fa ti ho ordinato di girarti e tu hai obbedito.”
“Trovavo maleducato darle le spalle. Tutto qui.”
L’uomo si lasciò sfuggire una breve risata.
“Capisco.” Frugò in una tasca senza distogliere lo sguardo dal suo. Magdalena seguì il movimento delle sue mani con occhi diffidenti.
“Cosa sta cercando?”
“Sigarette.”
“Fumare fa male,” disse in automatico. Per dargli fastidio – certamente non perché era preoccupata per il suo benessere.
Sherlock Holmes si accese una sigaretta con irritante flemma.
“Morire nel modo che ti sei scelta fa più male. Te lo assicuro.” Tirò una lunga boccata. “Immagino che fra le tue preoccupazioni vi fosse anche quella di venirne fuori come un cadavere dall’aspetto decente. Tu non vuoi morire, vuoi solo un sontuoso funerale pieno di persone che si strappino i capelli in lacrime rimpiangendo la tua indispensabile, preziosa, svalutata presenza su questa terra. Com’è ovvio, vuoi fare bella figura nella tua bara di legno di noce, sobria ma elegante. Beh, ti consiglio vivamente di rivedere i tuoi piani, perché i morti affogati sono gonfi e lividi e dall’aspetto repellente. Specie se il corpo viene tolto dall’acqua dopo un lasso di tempo prolungato  - e data l’efficienza pressochè nulla della polizia inglese, questo è altamente probabile.” Un breve, freddo sorriso. “La corrente in questo punto del fiume è molto forte. Verrai trascinata sul fondo, morta, se ti va bene, altrimenti è plausibile che tu riesca ad avvertire il dolore insopportabile di un qualche tuo osso che si frattura contro il pietrame prima che il tuo cuore si fermi per sempre. Perché fai quella faccia? I sassi che ricoprono i basamenti dei piloni per tenerli ancorati a terra non sono sott’acqua da abbastanza tempo per essersi smussati. Se le mie previsioni sono corrette, sbatterai a più riprese contro ogni superficie contundente e ne uscirai perlomeno sfregiata. Niente bel visino etereo da esibire nella tua comoda bara. La gente ti passerà accanto con una smorfia di ipocrita, pio rammarico in volto, mormorando afflitta “così intelligente, così giovane, tutta la vita davanti, perché perché perché”, ma dentro di sé tratterrà i conati di vomito davanti a quel pasticcio di sangue rappreso che sarà diventata la tua faccia.”
Magdalena sentì qualcosa di fastidiosamente appiccicoso pizzicarle le guance. Alzò una mano per controllare che cosa fosse: lacrime. Stava piangendo.
Sherlock Holmes sembrava trovarlo un ottimo segno, perché ora le stava apertamente sorridendo con quella che sembrava un’aria soddisfatta.
“La morte di cui si fa esperienza nella vita reale non è quella dei libri. Sai cosa succede quando un essere umano smette di vivere? Il cadavere entra in rigor mortis; il corpo assume posizioni grottesche e ridicole. La vescica si svuota. Ti ritrovi a riposare nel sonno eterno in un bagno di escrementi. Dopo appena pochi giorni cominci a emanare un fetore disgustoso. Se non viene scelta l’opzione della cremazione, finisci sottoterra, banchetto per i vermi. Piangi, piangi pure quanto vuoi: significa che finalmente ragioni, che hai smesso di trovare questa prospettiva così allettante. È positivo. Non c’è niente di peggio del morire nell’illusione che dopo si possa diventare qualcosa di migliore-”
“Basta,” gemette lei, la voce che l’aveva definitivamente tradita. La gola le sembrava un denso nodo di lacrime e dolore: non riusciva a deglutire. Aveva la vista appannata. Voleva soltanto che tutto finisse. Voleva smettere di respirare, di ascoltare, di pensare, maledizione!
“Basta, stia zitto, non mi importa! Se ne vada di qui e la smetta- io… Voglio solo stare da sola.” Si odiò per come stava piagnucolando, per come stava stringendo le proprie mani in una morsa, come una bambina piccola. “Voglio solo… Trovare un… Un termine, un punto d’ arrivo, qualcosa che abbia un senso, una… una conclusione, qualcosa che mi faccia sentire-”
“Non esiste,” la interruppe gelido lui. I suoi occhi erano diventati enormi, e sembravano incolori: la mano che reggeva la sigaretta tremava. “Si spende un’esistenza intera a cercare di crearsi questo qualcosa da soli e non ci si resce quasi mai. Ora scendi di lì e seguimi in macchina.”
Nella nebbia di sconforto e panico che riempiva la sua mente, Magdalena recuperò un brandello di lucidità.
“Lei…” Fissò le sue labbra: erano spaccate perché lui continuava a leccarsele. E il naso non era tutto rosso allo stesso modo. Le narici, in particolare, erano irritate al punto da sanguinare. “Lei… È in crisi d’astinenza-”
“Giù di lì e in macchina, ho detto!” urlò l’uomo. Sotto un’apparenza controllata si doveva effettivamente trovare al limite. Le pupille erano enormi, e lo facevano sembrare pazzo.
“Ecco perché vuole così tanto quei soldi. Ne ha bisogno… Per comprarsi la dose,” mormorò Magdalena fra sé e sé. Un moto violentissimo di rabbia la scosse da capo a piedi al punto da farla tremare. “Lei ha il coraggio di venire qui a seviziarmi e a farmi la sua lezioncina del cazzo quando non è altro che un tossico! È questo il senso che ha cercato di costruirsi da solo?! Ma si è guardato allo specchio? Io sarò una debole,” sibilò, il volto congestionato, la voce carica di disprezzo puro, “ma lei mi fa più pena di quanto me ne faccia io a me stessa. Chissà da quanto tempo lei non vive più. Chissà da quanto tempo sarebbe stato meglio che lei fosse morto. Le piace giocare a fare Dio con quelli che considera messi peggio di lei, vero? Quanta soddisfazione ne trae? Un inutile parassita, ecco quello che è! Sciacallo! Mi fa schifo!”
Urlò, urlò così tanto che le lacrime le bagnarono di nuovo le guance e la gola prese a bruciarle come se fosse arroventata, e dopo pochi secondi era tutto di nuovo silenzio e il suo cuore batteva forte e il suo respiro non era più sotto controllo.
Non si era nemmeno accorta di aver chiuso gli occhi nel tentativo di tornare in sé stessa. Quando li riaprì, Sherlock Holmes stava guardando di nuovo il cielo, e sembrava più magro e spettrale che mai.
“Sai, ragazzina,” disse in un sussurro basso, roco, gli angoli della bocca piegati in un sorriso amaro, “l’irrazionalità di questo mondo è insopportabile. So che la avverti in ogni cosa, come me. Ma il fatto che a uccidersi siano solo le persone che ne sono consapevoli, le uniche che potrebbero tentare di impostare le cose in una giusta direzione e magari riuscirvi, e che a restare in vita siano gli stupidi e quelli senza morale né emozioni, solo perché questi ultimi non soffrono e i primi sì…” Abbassò lo sguardo su di lei. Magdalena avvertì un colpo al cuore. I suoi occhi non erano più freddi e vuoti: sembravano contenere qualcosa di dolorosamente vivo, pulsante, che inglobava tutto, da quell’iride chiarissima alla pupilla alla lacrime mai piante. Dubitava che un uomo del genere fosse mai riuscito a piangere: era una sorta di lacrimazione asciutta, cerebrale ed efficiente, come lo era lui. “Beh, è ancora più irrazionale, no? Non ha senso. E andrà avanti così per sempre.”
Magdalena chiuse nuovamente gli occhi e abbassò la testa. Si sentiva molto stanca.
“Senta,” disse infine trascinando le parole, dopo che un silenzio pesante come un incudine fu calato fra di loro, “ho molti soldi con me.” Si frugò nelle tasche e tirò fuori un portafogli ben imbottito. “Sono tutti i miei risparmi. Le propongo un patto.”
Gli lanciò uno sguardo per vedere se la stesse seguendo. Sherlock Holmes annuì.
“Sto ascoltando.”
“Sono abbastanza, credo, per comprare una quantità sufficiente di qualsiasi droga lei stia assumendo. Quelli che mia madre le avrebbe dato non sono molti di più. La mia famiglia non è ricca. Li prenda.” Tirò fuori le banconote e le arrotolò in un fascio ordinato. Lui non reagì in alcun modo visibile. “Li prenda e mi lasci proseguire quello che stavo facendo, la prego.”
Sherlock Holmes la considerò con una lunga occhiata penetrante. Magdalena rabbrividì: non sentiva più le dita dei piedi.
“D’accordo. Ma li voglio controllare da vicino.”
“Non si fida?”
“No.”
Magdalena fece spallucce. L’uomo occhieggiava il denaro con occhi famelici: era uno spettacolo degradante. Era davvero stanca dello squallore di questa vita.
Sollevò un braccio e gli allungò le banconote.
Sherlock Holmes si avvicinò a passi lenti. Aveva gambe lunghissime, per cui in quattro falcate era già arrivato sinoda lei. Le sfilò il denaro di mano stando attento a non toccarle le dita.
Magdalena si lasciò sfuggire un singhiozzo e non osò guardarlo negli occhi. Aspettò immobile, paralizzata, esausta. Si sentiva così pesante da avere l’impressione di non aver più bisogno delle pietre nelle sue tasche per andare a fondo.
“Non sono falsi,” lo sentì dire in un sussurro. Era strano: per lui era evidentemente una buona notizia, ma il suo tono di voce era grave. Sembrava quasi rammaricato.
“No.”
Fu questione di un secondo. Non ebbe nemmeno il tempo di registrare il suo movimento fulmineo. Un attimo prima stava respirando l’aria gelida di quella notte di dicembre e l’attimo dopo qualcosa di morbido le veniva premuto sulla bocca. L’ultima cosa che fu in grado di ricordare fu un intenso odore dolciastro, come di zucchero a velo.
 
*
 
Si svegliò quando la macchina prese una curva in maniera particolarmente brusca e lei sbattè la testa contro la maniglia della portiera.
Gemette. Si sentiva confusa e una vaga sensazione di nausea le stringeva la bocca dello stomaco. Le ci volle qualche minuto per ricordare, per disporre nel giusto ordine i pensieri.
Tentò di mettersi seduta dalla posizione sdraiata, ma quando cercò di sostenersi al finestrino, scoprì che non poteva farlo. Aveva le mani legate con un una corda.
“Bentornata fra noi,” disse una voce sarcastica.
Magdalena battè piano le palpebre. Gli occhi di Sherlock Holmes la fissavano dallo specchietto retrovisore.
“Tu mi hai-” cominciò, senza fiato per la rabbia e l’umiliazione. “Tu mi hai drogata, figlio di puttana! Slegami subito!”
Sherlock accese il riscaldamento e girò a destra a un incrocio con malagrazia. Magdalena riconobbe il paesaggio notturno circostante: erano a pochi chilometri a nord di Londra.
“Così che tu possa saltarmi al collo e mandarci a sbattere contro un albero? Non credo proprio.”
Magdalena si divincolò con violenza, calciando con i piedi contro il sedile del guidatore. Sherlock strinse gli occhi, infastidito.
“Ferma. Questa macchina non è al titanio. Può essere danneggiata,” la ammonì minaccioso.
“Dirò a mia madre come mi hai trattato. Lo racconterò alla polizia. Finirai a marcire in galera, bastardo!”
“E io riferirò di averti trattenuto in extremis dal fare una scelta estremamente stupida. Sono certo che saranno d’accordo con la mia decisione di averti immobilizzato in modo da non permetterti di fare  ulteriori danni a te stessa.” Inserì la quarta. Il motore rombò. “I suicidi falliti possono essere molto inaffidabili e per nulla riconoscenti.” Incontrò nuovamente i suoi occhi nello specchietto. “Non è vero, ragazzina? Dovresti essermi grata. Ti ho salvato la vita.”
Magdalena tirò un altro calcio, furiosa.
“Vaffanculo! Vaffanculo, lasciami andare! Lasciami, ho detto!”
“Che linguaggio. Credi che il turpiloquio sia in grado di intimidirmi?”
“Beh, sai come si dice, pezzo di merda, “tentare non nuoce”. Ora fammi scendere da questa macchina del cazzo e-”
Si interruppe, esterrefatta.
Stava ridendo. Sherlock Holmes stava ridendo.
“Non rientri nel profilo psicologico della depressione. Decisamente no. Sei, come immaginavo, soltanto una adolescente vanitosa e annoiata, troppo intelligente per il tuo stesso bene, in disperata ricerca di attenzioni.”
Magdalena raggelò.
“Tu non sai un cazzo di me,” sibilò con voce collerica e tremante. “Nulla. Sei solo un tossico fallito e mentalmente disturbato. Dovrebbero legare te per impedirti di fare del male a te stesso, e soprattutto per impedirti di farne ad altri!”
“Mi sono sempre chiesto come non ci abbiano pensato prima, in effetti,” rispose mellifluo Sherlock Holmes.
Magdalena tirò l’ennesimo calcio e riprese ad agitarsi sul sedile posteriore, gemendo per la frustrazione.
“Sta’ ferma immobile, e zitta, possibilmente. Non costringermi a sedarti di nuovo.”
“Che cosa mi hai somministrato? Che razza di schifezza mi hai fatto inalare? Ha effetti a lungo termine?” chiese con improvviso spavento la ragazza, smettendo di colpo di muoversi.
“Un preparato chimico di mia invenzione, molto meno dannoso del cloroformio, ma estremamente più efficace. Non ti preoccupare: hai già espulso le tossine respirando. E insultandomi.”
Le sue parole le arrivavano lontanissime e confuse. Gli occhi le bruciavano.
Si rilassò contro il finestrino, abbandonando la testa contro il vetro. Pianse, il più silenziosamente possibile. Pianse e desiderò di essere morta come non l’aveva mai desiderato prima d’ora.
 
*
 
Si svegliò mezz’ora dopo, sentendo il morso delle corde sui suoi polsi farsi meno intenso.
Sherlock Holmes, ai suoi piedi, la guardava impassibile, un  ginocchio sul sedile posteriore. Fuori dal finestrino si scorgeva il panorama famigliare della strada di casa sua.
“Spero che lei muoia solo” mormorò in tono spento.
Sherlock Holmes ghignò, le labbra spaccate, gli occhi vuoti. Non le era mai sembrato più simile a un fantasma come in quel momento.
“E’ molto probabile che accadrà.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: sì, avete visto bene. Ho aggiornato. Dopo… *controlla* più di un anno. Dio mio, faccio schifo.
Non ho idea di quando posterò il prossimo capitolo, sarò sincera. Questo qui era quasi pronto da un bel po’ e… ma vi giuro che farò del mio meglio. Sono molto affezionata a questa storia, anche se a rileggere certi punti mi si accappona la pelle. Ero così gggiovane e inesperta quando ho cominciato a scriverla XDDD
Spero vi piaccia :***
 

 

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