don't wanna break your heart.

di 31luglio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** summer. ***
Capitolo 2: *** don't scream. ***
Capitolo 3: *** are you ready? ***
Capitolo 4: *** sorry. ***
Capitolo 5: *** trust. ***



Capitolo 1
*** summer. ***


   prologo / summer.

La campanella di fine lezioni suonò ed io mi precipitai fuori dalla classe di storia e, successivamente, dalla scuola. Un altro maledetto giorno era finito e si avvicinava sempre di più l'estate, o meglio, quella che sarebbe stata la mia estate. Non sapevo perché la definivo tale, solo... avevo un buon presentimento, una cosa molto strana dentro di me, poiché la mia vita non era mai stata rose e fiori.

Salii sulla mia macchina e misi in moto, per poi accendere una sigaretta. La portai alla bocca ed inspirai, lasciando che il fumo riempisse i miei polmoni, poi espirai. Scacciai indietro le lacrime, cercando di non pensare a tutti gli insulti, le offese e le spinte che mi ero presa anche quel giorno e partii, dirigendomi verso casa. Accesi lo stereo e, insieme a Katy Perry, iniziai a cantare Part of Me, con tutta la forza che avevo nel corpo.

Parcheggiai nel vialetto, come ogni pomeriggio, e mi avviai verso la porta principale della mia abitazione. Prima di entrare, però, notai che qualcuno stava traslocando nella villa di fianco alla mia. Per una frazione di secondo, sperai che in quella famiglia – perché doveva essere una famiglia – ci fosse un ragazzo della mia età, qualcuno che non conoscesse nulla della nostra città, del nostro quartiere. Qualcuno che non conoscesse me e che non avesse paura o disgusto ad avermi come amica, o che mi odiasse, come tutti gli altri.

Entrai in casa e mi diressi in camera senza salutare... salutare chi, poi? In casa mia non c'era mai nessuno. Mio padre aveva lasciato me e mio fratello con mamma quando avevamo solo 4 e 7 anni, senza un motivo, una lettera, un biglietto, nulla. Mia madre era sempre via per lavoro, come ogni hostess che si rispetti e mio fratello studiava ingegneria a Stanford. In pratica, vivevo sempre da sola. Ah no, c'erano i miei animali e il vario personale che mia madre aveva assunto, quali donne delle pulizie, cuochi, giardinieri e pulisci animali. Da questo punto di vista, avevo la vita facile.

Entrai in camera mia e lanciai il mio zaino da qualche parte, poi mi lasciai cadere sul letto e tutto quello che avevo subito a scuola si fece vivo nella mia mente.

«Sei sola, nessuno ti vuole».

«Sfigata, perché sei ancora tra noi? Devi morire».

«Una di queste volte ti sfondo, contro il muro, davanti a tutti».

Tutto questo era troppo per me. Non avevo un carattere debole, ma non ero nemmeno forte. Queste frasi andavano avanti dalla terza elementare, quando avevo fatto per la prima ed ultima volta nella mia vita l'errore di fidarmi di qualcuno. Avevo raccontato a Cheryl che mio padre ci aveva lasciati e, quando avevamo litigato, lei l'aveva spifferato a tutti e avevano cominciato a prendermi in giro e, man mano che crescevamo, le parole si facevano sempre più affilate e piene di odio.

Da allora, la mia scuola era divisa a metà: una metà mi odiava, mi picchiava e mi insultava e l'altra mi evitava, per paura di essere presa di mira. Non avevo nessuno, se non la musica. Musica vera, non la roba uscita da Disney Channel e cazzate varie. Io vivevo di rock, metal e sì, anche qualcosa di commerciale, ma davvero poco.

Era il sette di giugno e dopo due giorni sarebbe finita la scuola; dopo tre, sarebbe stato il mio compleanno, il sedicesimo. E da lì avrei potuto guidare senza la paura di essere arrestata perché ero troppo piccola. Finalmente.

Mi alzai dal letto e mi asciugai le lacrime, poi accesi lo stereo e feci partire l'album Thriller del re del pop. Invece di cantare, però, mi infilai sotto la doccia, lasciando che il getto caldo e forte d'acqua lavasse tutte le brutte frasi che mi ero sentita dire e, quando ne fui uscita, indossai un paio di skinny jeans azzurri, una canottiera bianca con l'immagine di un teschio sopra, un paio di Converse basse bianche e una collanina che aveva come ciondolo una croce. Quella sera sarei uscita, sì o sì. Per avere un assaggio della mia estate.
































buongiorno a tutti (?)
ho deciso di iniziare questa nuova fan fiction perché...
beh, perché mi sono sentita ispirata.
bene, fatemi sapere cosa ne pensate.
#note: questo capitolo è corto solo perché è il prologo.
gli altri saranno più lunghi.
bene, mi dileguo.
peace & love,
ands.

 

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Capitolo 2
*** don't scream. ***


   first chapter / don't scream.

Ero fuori da tre ore circa ed era ormai passata la mezzanotte. Non ero del tutto lucida, avevo bevuto un paio di drink... o forse tre o quattro. Ad ogni modo, lo ero abbastanza per rendermi conto che era tardi e che dovevo andare a casa, quindi mi alzai dalla sedia sulla quale ero comodamente seduta e uscii dal locale.

Mi diressi verso la mia villa, che si trovava ad una manciata di isolati dal locale, un po' barcollante. A circa metà strada, mi accorsi che un tizio mi stava seguendo, perciò accelerai il passo, cercando di non farmi prendere troppo dal panico. Quando, un paio di minuti più tardi, mi accorsi che ci separavano solo cinque metri, mi resi conto che era troppo tardi. Ma perché pensavo subito per il peggio? Magari non voleva nien...

Mi tappò la bocca, giusto per chiarire il mio brutto presentimento, e mi trascinò in un vicolo cieco buio. Per quanto provassi a dimenarmi e urlare, non ci riuscii. Lui era troppo forte, molto più di me. Guardai verso di lui e intravidi la persona: era Phil Davis, quello che mi aveva detto che mi avrebbe sfondata... aveva mantenuto la parola.

Serrai le gambe proprio mentre lui si abbassava i pantaloni. Strinsi i denti e mormorai un «per favore, no», ma questo lo fece solamente arrabbiare. Allora, arrivarono le lacrime. Iniziai a piangere in silenzio mentre, con le mie ultime forze, gli diedi un calcio alla cieca. Colpii una parte del suo corpo abbastanza debole, pur non sapendo quale, poiché lui lasciò la presa.

Continuando a piangere – non riuscivo a smettere, grandioso – corsi fuori dal vicolo e poi verso casa, finché non andai a sbattere contro qualcuno. Non avevo la forza di arrabbiarmi con me stessa o con lui, o di fare altro, perciò strinsi quella persona più forte che potei, come se potesse darmi un qualche conforto. Assorta nei miei pensieri, sentivo che quel ragazzo, uomo o quello che era, mi stava facendo domande, ma non risposi. Le sue parole sembravano così lontane...

Mi risvegliai sul divano di una casa che non era la mia. Forse Phil mi aveva portata da lui, o qualcuno aveva avuto pietà di me. Mi guardai attorno e, su una poltrona di fianco al divano sul quale ero sdraiata, intravidi una figura maschile. Mi stropicciai gli occhi e mi misi a sedere, poi guardai quel ragazzo, una volta... no, centinaia di volte.

«È impossibile», sussurrai, prima di intrecciare i miei occhi blu con quelli miele di colui che mi stava davanti: Justin Bieber. Il mio primo istinto fu quello di alzarmi e scappare a gambe levate da quella casa, ma mi imposi di stare seduta e fare finta di nulla. Io non sopportavo quel ragazzo. Non mi piaceva la sua musica, né la persona che era. Sì, forse aveva un bel faccino, ma quello non era importante. Importava il suo carattere, e quello non era proprio bello. Una volta, su un telegiornale per ragazzi, sul quale ero capitata del tutto casualmente, avevo sentito che aveva rifiutato di fare una foto con le fan perché stava aspettando la sua ragazza. Se fossi stata nelle fan, l'avrei preso a sprangate. Conoscevo la sua storia: lui doveva tutto alle sue fan. Senza di loro, non esisteva. E lo stava dimenticando.

«Buongiorno», disse lui, mostrando un sorriso che sembrava sincero. Si alzò dalla poltrona di pelle bianca e mi porse la mano. «Io sono Jus...»

«So benissimo chi sei», tagliai corto. «Dove sono?».

«A casa mia. Ieri sera, o meglio, notte, sei svenuta tra le mie braccia, poi ti sei svegliata ed infine sei crollata, quindi ti ho portato qui».

Annuii, irritata. «Bene, ora me ne vado. Che via è questa?».

«East Appian Way», rispose lui, pacato.

La mia stessa via, pensai. No, non era possibile che fosse lui il mio nuovo vicino. La possibilità che Justin Bieber diventasse il mio vicino era una su un milione, esattamente come quella di finire a dormire a casa sua. Eppure, a quanto pareva, era successo. Quale sarebbe stata la prossima possibilità su un milione che si sarebbe avverata? Magari mettermi con lui, no? Come no. Questo era troppo anche per il fato.

Feci per uscire, senza dire parola. Appena prima di aprire la porta d'ingresso mi ricordai che lui si era presentato, mentre io no. Ma chi se ne importava? Nessuno, esatto. Perché mi era venuto in mente?

«Hey», disse lui, per attirare la mia attenzione. Mi voltai ed incrociai, ancora, i suoi occhi color miele. «Non so il tuo nome», mi ricordò.

«Già», concordai, guardandolo con un sorriso sghembo. «Beh, peggio per te. Addio, Bieber». Uscii da quella casa prima che lui potesse dire qualcosa. Feci una ventina di metri per arrivare alla mia villa, che era effettivamente proprio di fianco alla sua, poi aprii la porta ed entrai. Neanche il tempo di sedermi sul divano, che qualcuno aveva già suonato. Andai ad aprire e mi trovai un'altra volta a guardare gli occhi di Justin.

«Non me ne vado finché non mi dici il tuo nome, ...», si fermò per guardare il campanello, «... Scott», annunciò, chiamandomi per cognome. Storsi il naso quando lo pronunciò, a causa di mio padre. Odiavo lui e anche il mio cognome, che era anche il suo.

«Non chiamarmi così», ringhiai.

Lui accennò un sorriso. «Scusa, ma non so come ti chiami».

«Perché ti importa tanto?».

«Sei carina. Non si sa mai, potrebbe scappare una nottata di fuoco...», ammiccò.

«Vaffanculo». Gli chiusi la porta in faccia e lo lasciai urlare scuse da fuori per una decina di minuti, poi riaprii.

«Scusa».

«Lo ripeti da dieci minuti».

«Lo so, ma io... non volevo ferirti. Seconda possibilità?».

«Te la dovrai guadagnare».

«Voglio sapere il tuo nome perché mi incuriosisci. Sei la mia vicina di casa. Vorrei fare amicizia con te, ecco. Per favore», sorrise ancora.

«Io non ho amici».

«Beh, non è il caso che cominci ad averli?».

Accennai un sorriso. «Bene, ti sei guadagnato il mio nome».

«Fantastico!», esclamò.

«Io sono Alison», dissi. «Vuoi entrare?».

«Altroché! Non aspettavo altra domanda».

Risi divertita. Possibile che gli interessasse così tanto conoscermi? Era il primo che si interessava a me da... Cheryl. E tra lei e Justin, beh, c'era differenza! Comunque, lui si sarebbe dovuto guadagnare la mia fiducia, dato che la prima volta che l'avevo data a qualcuno, questa mi aveva tradita.

Chiusi la porta alle sue spalle e lo guardai come per chiedergli cosa voleva fare. Lui mi guardò nello stesso modo. Restammo a fissarci per una manciata di minuti, poi scoppiammo a ridere. Forse avrei dovuto rivalutare il carattere di quel ragazzo.

«Vuoi qualcosa da bere?», gli chiesi, infine.

«No, ma qualcosa da mangiare, volentieri».

«Mh, dimmi cosa e io te lo farò apparire».

«Patatine?».

«Arrivo subito!», dissi, e così fu. Andai in cucina, presi un sacchetto di patatine dalla credenza e tornai da lui. Stava guardando le foto di famiglia. Io e mio fratello, io e mia madre, mia madre e mio fratello, noi tre insieme... Sapevo che mi avrebbe chiesto qualcosa su mio padre.

«E tuo padre?». Appunto. Scostai lo sguardo sul tavolino davanti al mio divano, imbarazzata. Non volevo parlarne. Mi faceva stare male e arrabbiare. «Scusa», si affrettò a dire, raggiungendomi. Fece per toccarmi una spalla, ma io mi scostai, irritata. «Scusa», ripeté. «Ho capito che non vuoi parlarne... mi dispiace». Annuii, poi gli porsi le patatine. Lui le aprì quasi delicatamente, come se avesse paura di fare qualcos'altro di sbagliato. «Ieri sera... perché stavi piangendo?».

«Perché ti interessa?».

«Non vuoi parlare nemmeno di questo?».

«No».

«Okay, allora...»

«Perché sei venuto ad abitare qui?».

«Vacanza».

«Senza la tua fidanzata?».

«Sì, siamo un po' in crisi, al momento».

«Se la ami, dovresti voler risolvere, non credi?».

Mi guardò. «Te ne intendi, di amore?».

«No, ma è quello che penso».

«Non sei mai stata innamorata?».

«Solo di Michael Jackson... finché non è morto».

«Già, è stato straziante anche per me. Era il mio idolo».

«Ma sei solo un... voglio dire... bleah».

«Stai per insultarmi, no?».

«Pensavo che avessi capito che non ti sopporto».

«Se ami qualcuno, dovresti voler risolvere, no?», disse, alludendo alla mia frase.

«Ma non mi conosci».

«È proprio per questo che mi piaci. Non ti conosco e non vuoi che lo faccia».

«Ti piaccio?», chiesi, arrossendo.

«Sì, come persona, intendo».

Annuii. «Bene, uhm, che vuoi fare?».

«Perché mi odi?», chiese, avvicinandosi ancora alle foto della mia famiglia.

Lo guardai. Questa risposta gliela dovevo. «Io non ti odio. Diciamo che non mi piace la tua musica, ecco».

«Quando ti sei svegliata, mi hai guardato come se ti avessi avvelenata».

«Non mi piace nemmeno la tua persona. Ultimamente tratti male le tue fan».

«Ma chi sei tu per dirmi quello che devo fare?».

«Nessuno, infatti. Ma tu hai fatto la domanda ed io ho risposto».

«Io non tratto male le mie fan. Io le amo. Sono tutto per me».

«Oh, sì. È per questo che hai negato loro un autografo per Selena che, peraltro, è arrivata mezzora dopo. Avevi tutto il tempo».

«Io... non volevo. Non la vedevo da tanto e...»

«Sì, ma quelle ragazze non ti vedranno mai più, invece lei sì!».

«Lo so, ho sbagliato».

«Eccome, se hai sbagliato! E non è la prima volta!», sbottai. «Ecco perché non ti sopporto: fai sempre gli stessi fottutissimi sbagli!».

«Alison, calmati, per favore... non mi piacciono gli urli. Quelli di gente arrabbiata, intendo», mi pregò. «Imparerò, lo giuro. Ma non urlare».

«Anche io non sopporto gli urli dei litigi», concordai. Poi mi misi a ridere, pensando che la mia coerenza equivaleva a zero. Lui mi seguì a ruota, probabilmente senza sapere perché ridevamo. Con quel ragazzo, mi sentivo un po' meno merda e un po' più ragazza. Ma avremmo dovuto fare parecchia strada, prima di essere davvero amici.






























ciao, bellezze!
intanto, volevo ringraziarvi per le cinque recensioni al primo capitolo.
grazie davvero. 
come vedete, Justin è il nuovo vicino della ragazza.
e la ragazza si chiama Alison. 
ma questo l'avete capito, lol.
comunque, ieri ho ascoltato tutto Believe per la prima volta.
lo so, sono scandalosa, ma mi è arrivato da poco l'album e volevo aspettare prima di ascoltarlo.
insomma, volevo ascoltarlo dal CD e non su YouTube.
ad ogni modo, amo Fall, Believe e Be Alright.
la vostra canzone preferita dell'album qual è? c:
ah, e cosa ne pensate del capitolo?
fatemi sapere con una recensione.
spero di averne tante (per me 5 sono tante, lol) come nel primo capitolo.
tanto amore per voi,
andrea c:

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Capitolo 3
*** are you ready? ***


  second chapter / are you ready?

Entrai a scuola giusto in tempo, appena prima che la campanella suonasse. Mi diressi verso la classe di fotografia e mi sedetti al mio posto, di fianco alla finestra, nell'ultima fila. Man mano che i miei compagni di corso entravano, mi accorsi che ognuno di loro mi guardava. Chi con un'espressione imbarazzata, chi ridendo sotto i baffi. Ma che volevano? Che avevo fatto, ora?

Lo scoprii solo un'ora più tardi, quando il corso di fotografia finì. Ero in corridoio, davanti al mio armadietto e Chace mi venne vicino, accompagnato da Phil e Cheryl. «Com'è stato essere quasi sverginata dal mio amico, eh?», mi chiese, alzando la voce, con un sorriso beffardo sul viso. «La prossima volta, quella ufficiale, non sarà più in privato. La scuola non vuole perdersi uno spettacolo tale, di nuovo».

«Già, non può perdersi Phil che si prende un altro calcio», replicai.

Phil mi venne vicino e mi appoggiò una mano sul sedere. Gli diedi uno schiaffo sul braccio, e lui mi sussurrò all'orecchio: «La prossima volta non mi darai nessun calcio, tesoro. Sarò più forte io, bella, credimi. Farai tutto quello che vorrò».

«Non credo proprio».

«Lo credo io, invece». Mi sorrise maliziosamente e se ne andò, lasciandomi con le risate di tutti quelli che stavano in corridoio e con le mie lacrime represse. Phil era un tipo attraente, e con lui il suo amico: entrambi avevano una carnagione scura ma, mentre il primo era moro con gli occhi grigi, il secondo era biondo con gli occhi scuri. Tutti e due muscolosi, membri della squadra di football della scuola. Cheryl era una cheerleader ed era la ragazza di Chace. Ma non potevo dire che fosse stupida, anzi: era fin troppo intelligente. Aveva un gran cervello, ma lo usava male.

 

Parcheggiai nel vialetto di casa, come il giorno precedente. Tuttavia, invece di entrare nella villa, uscii prima che il cancello si chiudesse e mi diressi verso l'abitazione di Justin. Suonai insistentemente al campanello e, quando aprì la porta, mi gettai tra le sue braccia e cominciai a piangere. Non era il mio intento, ma avevo ceduto. Di solito piangevo di nascosto, in camera mia. Quando poi uscivo di casa era tutto normale, come se non fosse successo nulla, ma ora non ce l'avevo fatta.

Il biondo indietreggiò, per farci entrare in casa, poi mi strinse. «Che è successo?».

Alzai il viso per guardarlo: se fosse stata un'altra persona, non gli avrei mai detto il motivo. Non mi fidavo di nessuno da quando mi ero accorta che quando la gente aveva la tua fiducia se ne andava e ti lasciava sola. E io avevo conosciuto Justin solo quella mattina, anche se... oh, lui mi aveva vista piangere anche la sera precedente. Gli dovevo quella risposta! Non potevo pretendere che continuasse a starmi vicino senza sapere nulla.

«Phil ha detto a tutta la scuola di ieri sera», sussurrai.

Mi guardò confuso. «Ieri sera?».

«Sì, lui... Ero in un locale, ma era tardi e ho deciso di andare a casa. Lui mi ha seguita, mi ha trascinata in un vicolo cieco e stava per...». Prima di riuscire a finire la frase, la voce mi si spezzò e le lacrime ricominciarono ad uscire.

Lui mi accarezzò una guancia con il pollice. «Violentare?». Annuii, sforzandomi di respirare con calma. «Devi denunciarlo».

«Non lo conosci. Le cose si metterebbero peggio di quanto già sono, per me».

«Se non lo fai, continuerà, Alison!».

«Lo so. È così che deve andare avanti, capisci? Non lo decido io. Il destino ha deciso per me, okay? Mi minacciano dalla prima media. Sono capaci di fare qualsiasi cosa».

«Dalla prima media?», sbottò. «E tu glielo lasci fare? Reagisci, cazzo!».

«Non è così facile, quando non hai nessuno!», gridai, tra le lacrime. «Tu non mi conosci, non sai niente di me!».

«Perché tu non mi permetti di farlo!».

«Non racconto la mia vita alle persone di cui non mi fido».

La mia frase sembrò colpirlo, perché non replicò. Abbassai lo sguardo, pentita di quello che avevo detto. Di cosa, poi? Era solo la verità. Il fatto che fosse famoso non significava che meritasse più fiducia degli altri. Però gli altri non volevano fiducia da me... volevano solo che soffrissi. No. Assolutamente no. Non era diverso da tutte le altre persone che mi circondavano, che volesse fiducia o meno.

«Me ne vado», annunciai. Stette ancora in silenzio, dirigendosi verso una stanza a me sconosciuta. Aprii la porta ed uscii, diretta verso casa mia. Non mi aveva nemmeno salutato, che stronzo. Forse, però, pensava lo stesso di me...

Alison, chi se ne frega di quello che pensa lui, mi dissi. Mi guardai intorno: di solito, nel mio isolato non c'era molta gente. C'erano solo le case di gente ricca e non erano tutte abitate. Non tutti erano Justin Bieber o avevano la madre che aveva fatto l'hostess per tutta la vita e il padre imprenditore. Tuttavia, quel pomeriggio, mi sembrava fin troppo abitato. Troppi adolescenti in giro per un isolato che non aveva nulla di pubblico.

Entrai velocemente in casa, chiusi a chiave la porta e mi diressi verso il bagno. Aprii il rubinetto della doccia e lasciai che l'acqua diventasse calda, mentre io mi spogliavo. Entrai nel box e mi bagnai i capelli, poi presi lo shampoo. Amavo fare la doccia, mi sembrava che tutte le cose negative che mi “sporcavano” scivolassero via. Stavo decine e decine di minuti sotto quel getto di acqua bollente. Quando uscii, mezzora dopo, mi avvolsi il corpo dentro un asciugamano enorme e scesi in salotto, per accendere la televisione su Fox. Adoravo i Simpsons e a quell'ora era certo che ci fossero.

Salii in camera per indossare la biancheria e quello che io definivo l'abbigliamento da casa – che consisteva in un paio di shorts della tuta neri e in una canottiera bianca non troppo larga né aderente – e presi l'asciugacapelli da un cassetto in bagno, poi tornai in sala e alzai il volume della televisione, cosicché sovrastasse il rumore del phon mentre mi asciugavo i capelli. Quando ebbi finito, li raccolsi in una coda di cavallo e cambiai canale alla TV, cercando qualche replica di Pretty Little Liars.

Era appena finita la prima puntata della terza stagione, quando mi squillò il telefono: era mia madre. Risposi. «Pronto, mamma?».

«Ciao, tesoro!». Sorrisi istintivamente. Non sentivo la sua allegra voce da un paio di settimane. Era a Londra e ci sarebbe rimasta per tutta l'estate. Mi mancava da morire. «Tutto bene?».

No, mamma. A scuola mi odiano tutti, vengo picchiata e minacciata. Sono quasi stata violentata e, tra qualche giorno, sono sicura che il 'quasi' non ci sarà più. Mi sento sola, non ho nessuno. «Sì», mentii. «Sì, okay. E a te? I viaggi che hai fatto sono andati bene?».

«Sì, tesoro. Hai conosciuto qualcuno, ultimamente?».

«Uhm, no, no. Non c'è nessuno di nuovo, qui intorno».

«Oh, capisco. Beh, ma tu non avrai problemi a divertirti quest'estate, giusto? Hai un sacco di compagnie, no?».

«Sì... Sì, quasi tornerò a casa solo per dormire. Non ti preoccupare per me, okay?».

«Okay, okay. Hai pagato le bollette di questo mese? Cioè, dello scorso... di maggio».

«Certo. A proposito, la bolletta del telefono si alza sempre di più».

«Sì?».

«Già».

«Quanto?».

«Quasi cento dollari».

«Cento? Ali, con quanta gente parli?!».

«Guarda che non sono io. È che paghiamo un sacco anche facendo una chiamata di tre secondi, con te. A proposito, Jonah mi ha chiesto la rata del prossimo anno di Stanford. Altri quarantamila dollari».

«Ah, tuo fratello», sospirò. «Mi farai spendere anche tu così tanti soldi?».

«Io farò la mantenuta, mammina», scherzai.

Lei rise. «Se solo ci fosse tuo padre...».

«Non cominciare. Noi stiamo bene, okay? Lui... non ci pensare».

«Mi manca così tanto, Alison».

«Ti... ti prego, mamma, non parliamone».

«Manca anche a te, non è vero?».

«Sì», ammisi. «Mi manca anche Jonah... era così rompipalle, ma mi proteggeva sempre».

«Sono sicura che anche tu gli manchi. E manchi anche a tuo padre».

«Mi piacerebbe che tornasse da noi, ma... non è possibile. Quindi dobbiamo andare avanti senza di lui. Staremo bene».

«Tesoro, torno al lavoro. Ti voglio bene».

«Anche io te ne voglio, mamma. A presto».

Riattaccai e mi sdraiai sul divano, con la testa appoggiata su un bracciolo. Mi mancava mio padre, era vero. Odiavo ricordarmelo, però, perché mi sentivo ancora più sola. Se ne era andato quando avevo solamente quattro anni e io non avevo nessun ricordo di lui. Mia madre aveva fatto sparire tutte le foto che aveva di lui. Probabilmente era arrabbiata e non voleva far pesare la sua assenza a me ed a mio fratello. Finché eravamo piccoli, non si sentiva più di tanto. Ora, però, decisamente sì. Avevo bisogno di una figura di riferimento maschile che non fosse mio nonno. Ogni volta che pensavo a lui, cercavo di convincermi che dovevo odiarlo perché ci aveva abbandonati, ma non ci riuscivo mai. Avrà avuto un motivo se se ne era andato, no? Ora, però, poteva cercarmi. Noi abitavamo ancora nella casa che i miei genitori avevano comprato non appena avevano potuto permettersela. Abitavano lì da prima che mio fratello nascesse. Con gli anni, l'arredamento era cambiato, ma la casa era sempre lì, sempre quella. E lui, dopo dodici anni che se ne era andato, non ci aveva ancora cercati. Forse non ci voleva più.

Il campanello suonò ed io corsi ad aprire: era Justin. Aveva un mazzo di peonie di diverse tonalità di rosa e bianco in mano e sorrideva imbarazzato. Conoscevo quei fiori: significavano perdono. Si stava scusando. Mi sentii in colpa, poiché ero io che mi sarei dovuta scusare, e non lui. Io lo avevo trattato male. Io gli avevo detto che non mi fidavo di lui. E lui viene a scusarsi?

Ricambiai il sorriso e mi feci da parte per farlo entrare. Mi porse il mazzo ed io lo afferrai. Mi portai i fiori vicino al naso ed inspirai: avevano un profumo stupendo. Mi diressi in cucina, riempii di acqua un vaso e ci infilai dentro le peonie, poi tornai dal ragazzo. Ancora una volta, stava guardando le foto di famiglia.

«Mio padre ci ha lasciati dodici anni fa», iniziai. Lo vidi sussultare, poiché non mi aveva sentita tornare in sala. Si girò verso di me, facendomi intuire che mi stava ascoltando. «Io avevo solo quattro anni e mio fratello sette. Non ho ricordi di lui. So solo che una sera c'era e la mattina dopo non più. Mia mamma l'ha chiamato per mesi, gli ha lasciato decine di messaggi in segreteria, ma lui non si è mai fatto vivo. Io e mio fratello la sentivamo piangere, di sera, mentre avremmo dovuto dormire. Verso le dieci e mezza, lei si sedeva sul loro letto matrimoniale e piangeva. Lo chiamava e ogni sera, alla segreteria, gli pregava di tornare. Era orribile. Poi, pian piano, smise di piangere e ricominciò ad essere prima tranquilla, poi serena ed infine contenta. So che non ha mai smesso di amarlo, ma ormai ci ha fatto l'abitudine. A me importa che lei sia felice».

«E a lei importa che tu lo sia», replicò lui, avvicinandosi a me. «Lei non conosce quella che è veramente la tua vita, giusto?».

Abbassai lo sguardo. «Come ho già detto, voglio che sia felice. Se le dicessi ogni cosa non lo sarebbe. È meglio che non sappia la merda che mi circonda».

«Potrebbe aiutarti ad uscirne, non credi?».

«Non voglio litigare, ti prego», gli dissi. Sapevo che, se fossimo andati avanti col discorso, saremmo finiti come prima. «È meglio così. È meglio che ci sia solo io dentro».

«Alison, ti ho vista piangere due volte. Ho capito che è molto peggio di quanto io possa immaginare. E ho deciso che voglio entrarci anche io, dentro questa merda».

«Perché vuoi farti questo?».

«Voglio proteggerti, che ti piaccia o meno».

«No, Justin, no... non mi conosci, non sai cos'è realmente. Ti prego».

«Che ti piaccia o meno», ripeté, scandendo le parole.

Sbuffai: non poteva immischiarsi. Era famoso. Si sarebbe solamente messo nei casini doppiamente. Purtroppo, però, era troppo determinato per essere fermato. Sperai solo che, arrivato ad un certo punto, si sarebbe ritirato dalla “guerra”.

«Dov'è il bagno?», mi chiese, pochi minuti più tardi.

«Percorri il corridoio e terza porta a destra».

«Grazie. Ci metto due secondi».

Per tutta risposta, gli sorrisi. Un paio di istanti più tardi, il campanello suonò. Sentii un lontano “Non aprire!” dal bagno, ma non gli diedi ascolto. Era seriamente convinto che alla porta ci fosse qualcuno di cattivo?

Aprii la porta con un sorriso stampato in faccia che, appena realizzai chi avevo davanti, scomparve. Che avesse avuto un presentimento o che avesse visto, Justin aveva ragione.

«Ciao, dolcezza», mi salutò Phil, con un sorrisetto in viso e un porta abiti nero in mano. «Sei pronta a dare spettacolo?».




























































hello, gurls!
scusate se non posto da undici giorni.
so di essere una brutta persona :c
ma so anche che voi recensirete lo stesso.
vero? vero? c:
per favore, una recensione piccina, anche di undici parole.
it's okay, ma recensite, altrimenti piango :c
anyway, vi ringrazio moltissimo per le cinque recensioni<3
love u sosososo much,
andrea c:

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Capitolo 4
*** sorry. ***


  third chapter / sorry.

Sbarrai gli occhi e cercai di inchiodarmi dove ero, ma lui mi prese per un braccio e mi trascinò via. Perché avevo aperto? Perché non avevo dato ascolto a quel biondino? Merda, stavo per essere violentata. La mia prima volta sarebbe andata a puttana nel giro di quanto, un quarto d'ora? Forse meno. Phil mi spinse nel sedile posteriore di un'auto nera e guidò per qualche minuto, poi si fermò davanti ad una casa abbandonata, mi ci trascinò dentro e mi porse il porta abiti che aveva in mano quando gli avevo aperto la porta.

«Tieni», disse, guardandomi negli occhi con fare duro. «Mettiti questo. Truccati, sistemati i capelli e torna giù. Hai dieci minuti».

«Non... non voglio farlo», ribattei, decisa.

Lui ridacchiò. «Alison, piccola Alison... Non sai ancora quello di cui sono capace. Muoviti, o non ho problemi a cambiarti io. Forza».

Afferrai il porta abiti tremando e mi diressi verso una stanza qualunque. Mi spogliai della mia divisa da casa ed estrassi un completino leopardato. Era serio? Dovevo mettermi quello? Che schifo. Mi infilai prima il corsetto, poi le culottes di pizzo nero ed infine il reggicalze, che sosteneva un paio di calze a rete nere. Presi dal porta abiti anche le décolleté tacco 17 e le indossai, poi passai al trucco: eyeliner e mascara, più marcati del solito. Snobbai il rossetto rosso che c'era nella trousse. Sciolsi i capelli e cercai di pettinarli un po', poi mi diresse nuovamente verso Phil, tremando.

Mentre guidava, io pensavo a quanto sembrassi una puttana. Forse lo ero, mi sarei fatta ripassare da quanti ragazzi, quella sera? Cinque, dieci, quindici? Tutti i ragazzi della scuola? Non che lo volessi, ovviamente, ma non avevo opposto alcuna resistenza. La verità era che, in qualsiasi caso, la paura mi avrebbe divorata. E difatti, ora sembrava che avessi il morbo di Parkinson.

Il mio unico sforzo fu quello di non piangere durante il tragitto. Sapevo che mi sarei presa già abbastanza schiaffi, pugni e calci senza fare nulla, non c'era bisogno di far sbavare il trucco per prendere altre botte.

«Mettiti il rossetto», ordinò Phil, improvvisamente.

«No».

«Scott, non vuoi peggiorare le cose, vero?».

«Bene», dissi, per poi afferrare il rossetto. Era un rosso accesso molto bello, effettivamente. Ma il fatto che mi piacesse il colore non mi avrebbe fatto venire voglia di metterlo. Comunque, lo passai tre volte sulle mie labbra, per fare contento quel... mostro.

Accostò l'auto poco dopo, vicino ad un vicolo cieco: lo stesso della sera precedente. Mi afferrò un braccio per farmi scendere e mi spinse in fondo, contro il muro, cosicché non potessi scappare. Pian piano, arrivarono decine e decine di persone, perfettamente consapevoli di quello che stava per succedere. Forse avevano pagato per accedere dentro quel vicolo e vedere una ragazza innocente che veniva stuprata.

Mio padre era contro la violenza sulle donne. Mamma aveva raccontato centinaia di volte, per educare me e mio fratello, che lui partecipava a parecchie petizioni per fermare i mostri che commettevano simili crimini. Una volta o due, aveva anche raccontato che una sera aveva fermato uno stupro. Ne era rimasto molto turbato: la mamma sapeva che lui continuava a vedere quelle immagini crude.

Mio fratello spesso diceva che avrebbe voluto anche lui fare cose eroiche, come quelle che aveva fatto papà. Ma lui ora non era a Long Beach con me. Era lontano quasi 340 miglia da dove ero io e non avrebbe nemmeno mai saputo quello che mi stava per succedere. Non avrei dato mai simili dispiaceri alla mia famiglia: si sarebbero sentiti in colpa, come se non fossero abbastanza presenti. Volevo che fossero sereni e dirgli che ero stata violentata non li avrebbe resi tali.

Phil si fece avanti e cominciò a prendermi a calci nelle gambe e, quando caddi a terra per il loro cedimento, iniziò a prendersela con il resto del mio corpo. All'inizio sentivo pulsare il mio ventre, le mie cosce ed anche il mio viso, poi vomitai sangue. Cosa avevo fatto per meritarmelo? Non ero mai stata un problema per loro. Ad un certo punto, però, avevano iniziato a minacciarmi più pesantemente e a picchiarmi.

Mai mi sarei immaginata di arrivare a questo punto.

Non sentivo più niente, né tanto meno ci vedevo. I miei occhi, oltre ad essere appannati dalle lacrime, erano coperti dalle mie braccia. Volevo proteggere almeno loro, l'unica cosa che amavo di me stessa. Non avevo nemmeno più la forza di urlare.

Quando qualcuno mi girò a pancia in su e mi aprì le gambe, non opposi resistenza. Non avevo forza, non avvertivo nessuna delle mie parti del corpo. L'unica cosa che sentivo erano i miei pensieri. E la mia testa che pulsava.

Cercavo mio padre, mio fratello, mia madre. Cercavo Justin, l'unico che, se avesse voluto, sarebbe potuto arrivare a salvarmi. Tuttavia, sapevo che, se avesse voluto, sarebbe arrivato prima che quei mostri mi rompessero tutte le ossa. Prima che riuscissero a strapparmi via la purezza di sedicenne che avevo.

Mi chiesi cosa avrebbero fatto dopo avermi violentata. Mi avrebbero lasciata lì a morire o... O cosa? Non c'era nessun'altra possibilità. Sarei morta, sicuramente. Che cosa orribile lasciare la vita a sedici anni e, per di più, dopo essere stata violentata. Non erano certo i miei progetti per la vita.

Volevo diplomarmi, laurearmi e trovare un lavoro che mi rendesse veramente felice. Volevo trasferirmi a Miami, costruire una famiglia e crescere i miei figli con tanto amore. Volevo trovare mio padre e chiedergli il motivo dell'abbandono. Volevo viaggiare per tutto il mondo, visitando soprattutto l'Italia e Londra. Volevo trovare degli amici di cui potermi fidare. Volevo tutto, ma non questo.

Però nessuno era venuto a salvarmi da quello che il destino aveva deciso per me. Nessuno aveva impedito che mi rompessero come una bambola di porcellana. Forse le cose dovevano andare così: qualcuno, in cielo, mi voleva accanto a sé. Ma perché farmi morire in un modo tanto crudo ed orribile?

No.

Io non dovevo, non potevo morire. Non volevo la felicità per la mia famiglia? Non appena si sarebbero sentiti soddisfatti di quello che mi avevano fatto, io mi sarei alzata e sarei andata a cercare aiuto. Dovevo resistere, essere forte. Tanto ora non sentivo nulla, no? Come se non mi stessero facendo nulla, come se stessi sdraiata in un prato ad occhi chiusi ad immaginare qualcosa. Dovevo trovare qualcosa da immaginare.

Ed immaginai la mia vita. Una vita differente da quella che stavo vivendo, una vita molto più felice. Immaginai di avere un ragazzo moro con gli occhi verdi, alto e magro. Immaginai di stare insieme a lui da quasi tre anni ed immaginai tutte le volte in cui sarebbe venuto a casa mia per cena. Immaginai che mio padre lo approvasse e che non fosse mai andato via. Immaginai che amasse mia madre tanto quanto lo amava lei e che mio fratello non fosse a Stanford ma con noi a Long Beach per le vacanze estive. Immaginai di diventare una scrittrice e di avere tre bambini dal mio ragazzo dall'adolescenza ed immaginai di crescerli. Immaginai di morire vecchia e serena.

Non sedicenne ed impaurita. Non in modo crudo, come stava succedendo a me. La morte non era mai una bella cosa, questo era quello che pensavo, soprattutto quando accadeva a persone con tutta la vita davanti, come neonati, bambini ed adolescenti. Non era giusto che stessi morendo per essere stata il divertimento di alcuni.

Avevo paura. Non sarei mai riuscita ad essere forte e a non abbandonare la vita. Era troppo per il mio fisico. Ero una ragazza magra, pesavo 50kg ed ero alta un metro e sessantatré. In più, sapevo di aver perso molto sangue, perciò sarei sicuramente morta dissanguata. Cosa c'era dopo la vita? Il vuoto? Un'altra vita? Il paradiso, l'inferno? Mi spaventava non stare più al mondo. Certo, me ne sarei andata da un tale posto di merda, ma sarei rimasta sola.

L'ultima cosa che sentii fu un colpo forte a qualche parte del mio corpo che non riuscii ad individuare, poi lasciai che le mie palpebre si abbassassero e mi preparai a dire addio alla mia vita.

Scusa mamma, scusa papà, scusa Jonah.

E scusa anche a te, Justin.

Non ce l'ho fatta.









































vorrei esprimere per me stessa un bel 'vaffanculo'.
ho cliccato 'codice sorgente' e, invece di fare ctrl+c per poi incollarlo nel box per pubblicare il capitolo, ho fatto ctrl+v.
brava scema, ora così mi devo riscrivere tutto il mio pensierino.
in breve: la gente che violenta le donne è spregevole.
in più, il 18 parto per due settimane.
forse riesco a pubblicare il capitolo nel mentre, ma non prometto.
im so sorrrrry.
fatemi sapere se questo capitolo vi piace :)
e grazie per le scorse recensioni <3 fjkdkgv
love u all,
ands.

ps. so che questo capitolo è corto, ma non potevo dire 8544593 cose in uno. :c

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Capitolo 5
*** trust. ***


  fourth chapter / trust.

Aprii gli occhi e mi ritrovai in una stanza dalle pareti bianche che odorava di farmaci. Quindi era questo che c'era dopo la vita? Mi guardai attorno: una finestra che permetteva ai raggi del sole di entrare, un tavolo con una sedia, un'altra sedia con qualcuno sedutocisi sopra. Mi stropicciai gli occhi per individuare la persona.

«Justin...», sussurrai, facendolo sussultare. No, questo decisamente non era oltre la vita: questa era la vita. Io non ero morta.

Lui alzò lo sguardo e sul suo viso si formò un sorriso. Si alzò dalla sedia e mi venne vicino. Ebbi l'impressione che volesse prendermi in braccio e farmi girare, ma si trattenne. Forse ero ancora troppo debole. «Alison!», gridò lui, «Mi sei mancata da morire!».

«Sì. Perché?». Gli ero mancata? Non ci conoscevamo neanche e poi avrò dormito sì e no dieci ore. Alzai un sopracciglio, guardandolo come se gli mancasse qualche rotella.

«Tu sei stata in... coma per sei settimane».

Mi alzai di colpo dal letto. «Cosa?», sbottai.

«Oh cazzo, non so nemmeno se potevo dirtelo», disse, più a se stesso che a me.

«No, non potevi, tu dovevi! E voglio sapere anche tutto il resto!».

«Non muoverti, Alison, sei molto debole. Devo chiamare un dottore e farti visitare».

«Debole? Ma se non mi sono mai sentita tanto in forma!», gli urlai dietro, mentre scompariva dietro una porta bianca.

Alzai le spalle e mi presi qualche minuto per controllare il mio corpo: avevo una gamba ingessata, dei punti nell'altra e in entrambe le braccia e sul ventre. Mi avevano ridotto proprio male, ma ce l'avevo fatta lo stesso. Ora volevo solo sapere tutto quello che mi era successo, ma, a quanto pareva, Justin non me lo poteva dire. Sì, okay che ero debole, ma era quello che era successo a me! Era mio diritto saperlo, cavolo!

Il biondo ricomparve poco dopo, dietro un medico. Lo guardai di sottecchi, come per intimidirlo, ma non funzionò. Accidenti. Mi visitò per una decina di minuti, poi mi disse che ero meno debole di quanto pensasse, perciò l'indomani sarei potuta tornare a casa, ma con me doveva starci qualcuno e dovevo prendere un po' di antibiotici, qualche pillola per i danni psicologici e degli antidolorifici e tornare all'ospedale circa due settimane dopo la mia dimissione. La cosa che mi interessò di più, fu che sarei stata pronta a sapere tutto per il fine settimana. Infine, il dottore mi lasciò sola con il ragazzo.

«Visto che sono quasi pronta a sapere?», dissi, con aria di superiorità.

«Quasi», ripeté lui. «Dovrai aspettare un altro po'».

«Ci sei solo tu qua con me?».

«Ora sì».

«E per le sei settimane di... beh, sì, hai capito. Qualcuno è venuto?».

«Tua mamma, che è a casa a darsi una rinfrescata e tuo fratello che si sta riposando. Poi sono venuti anche i tuoi nonni e qualcuno di scuola».

«E Phil? È in libertà?».

«Alison, ti ho detto che non sei pronta a saperlo».

«Ti prego, dimmelo!», lo implorai.

Lui sorrise. «Sei dolce».

«Ma cosa c'entra, voglio saperlo!».

«Sarà venerdì solo fra tre giorni, puoi aspettare».

«Bella merda, speravo che quest'estate sarebbe stata indimenticabile, ma non per questo», sbuffai. «Volevo trovare qualcuno con cui passare le mie giornate».

«Ce l'avrai, quel qualcuno».

«Non intendevo mamma o Jonah», dissi acida.

«Tua madre deve tornare al lavoro e sai meglio di me che nemmeno tuo fratello non può stare qui».

«Nemmeno passarle con te è la mia massima aspirazione».

«Vaffanculo». Fece per uscire, irritato, ma all'ultimò si girò e quasi mi urlò: «Se non fosse stato per me non saresti qui, e te ne esci così?», poi scomparve di nuovo dietro la porta, sbattendola. Così, ero di nuovo sola. No, aspetta: aveva detto che se non fosse stato per lui io non mi sarei trovata in ospedale? Oh, merda. Mi aveva salvata e io l'avevo trattato di merda. Okay, non era stata mia intenzione, stavo solo scherzando, ma... e poi io mica sapevo che mi avesse salvata lui!

Mi alzai dal letto ed uscii dalla stanza saltellando sulla gamba messa meglio, cercando quel ragazzo e trovandolo seduto su una sedia a due metri da me. Lui mi guardò sprezzante, facendomi sentire piccola e meschina. Gli feci un cenno con la testa, indicando la camera, sperando che capisse che volevo entrasse, poi tornai seduta a letto.

«Parla», sentii dire dalla sua voce. Era così freddo, mi faceva stare male.

«Io, Justin... non volevo offenderti. Non sapevo che mi avessi salvata e poi... e poi stavo scherzando, adoro la tua compagnia», confessai a testa bassa.

Lui mi sorrise. «Non so come io abbia fatto senza te e i nostri litigi per sei settimane. Ho una tale voglia di stritolarmi per ricordarmi che, grazie a Dio, sei ancora qua...».

«Permettimi di rimediare!», esclamai, allegra. Mi alzai dal letto stando attenta alla gamba rotta e mi fiondai tra le sue braccia, che mi accolsero dolcemente. Mi sentivo protetta, quando mi abbracciava, come se, per quei pochi secondi, nessuno potesse farmi nulla.

 

Era possibile che un ragazzo che conoscevo da un po' più di un mese, il quale avevo trascorso quasi tutto in coma, fosse diventato il mio migliore amico? Io ci avevo provato, a non affezionarmi troppo, ma lui mi aveva salvato da una morte certa, come faceva ad essermi indifferente? Non poteva, ecco cosa. Nei tre giorni successivi, non feci altro che raccontargli la mia vita per filo e per segno, dal primo ricordo che avevo all'ultimo, mentre lui mi stringeva a sé come per dirmi di stare tranquilla. Non ero sicura che gli facesse esattamente piacere sapere della mia vita, ma lui non contestava niente. Mi lasciava semplicemente parlare, parlare e parlare. Era un ottimo ascoltatore e, per la prima volta nella mia vita, sentii di importare a qualcuno che non faceva parte della mia famiglia.

Mia madre e mio fratello, dopo essersi assicurati che stessi bene e nelle mani di un buon infermiere – Justin – partirono, la prima per Londra e il secondo per Stanford. Mi fecero promettere che avrei chiamato almeno una volta ogni tre giorni e che gli avrei detto subito qualsiasi comunicazione da parte del dottore. Erano stati un po' insistenti, ma era capibile: erano preoccupati per me.

Era venerdì pomeriggio ed io ed il biondo eravamo a casa mia. Lui sapeva perfettamente che io volevo sapere tutto e per questo era visibilmente nervoso. Tuttavia, mi fece sistemare tra le sue braccia e mi strinse a sé, prima di iniziare a raccontare.

«Sei sicura di volerlo sapere?», mi chiese per l'ennesima volta.

Alzai gli occhi al cielo. «Te l'ho già detto, dimmi tutto. Non tralasciare nulla».

«Okay», cedette lui, facendo un respiro profondo. «Dopo che Phil ti aveva rapita, ho girato tutta la città per cercarti, ma non ti ho trovata. Quando mi sono ricordato di quello che mi avevi detto tu quella mattina – il quasi stupro nel vicolo – ho deciso di cercare quel vicolo cieco, tra il locale nel quale eri andata e casa tua. C'era un bel po' di gente lì dentro, ma sono riuscito ad arrivare a te». Fece una pausa, chiuse gli occhi e deglutì rumorosamente. «Avevo temuto il peggio che potessi immaginare, ma non era nemmeno un quarto di quello che ti avevano fatto. Eri stesa a terra, con le gambe aperte. Avevi tanti tagli per tutto il corpo, anche profondi, la faccia era gonfia, avevi gli occhi neri... e non era trucco sbavato. Davanti a te c'erano Phil, immagino, e un'altra decina di ragazzi, in fila. Il primo aveva i pantaloni abbassati e stava per venirti vicino e... Dio, Alison, non voglio nemmeno pensarci. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, ho spintonato tutti e ti sono venuto vicino. Ho rischiato di essere picchiato anche io, e qualche pugno l'ho persino preso, ma non è stato niente in confronto a te. Ti ho presa in braccio e ti ho sdraiata sul marciapiede appena lì fuori, sotto un lampione, mentre aspettavo che polizia ed ambulanza arrivassero». Un'altra pausa. Mi strinse ancora più forte, notando che mi ero irrigidita. Mi guardò, come per dire che, se non volevo ascoltare, poteva continuare un'altra volta, ma io annuii ed aspettai che riprendesse a parlare, con la testa poggiata al suo petto. «In quei minuti, che mi sono sembrati infiniti, ti ho guardata ed ho realmente capito che saresti morta nel giro di pochissimo, se non ti avessi portata io stesso all'ospedale. Non c'era tempo per l'ambulanza, davvero. Quindi ti ho adagiata sul sedile posteriore dell'auto, ho messo in moto ed ho guidato più velocemente che potevo. Ho fatto in meno di cinque minuti un tragitto di quasi un quarto d'ora. Ti ho portata dentro l'ospedale correndo, mentre dietro di me c'era una scia del tuo sangue. I medici ti hanno portata subito in sala operatoria ed hanno fatto tutto quello che potevano, ma non sono riusciti ad evitare il coma vascolare, causato da una brutta emorragia cerebrale. Mi hanno fatto tante, troppe domande. Domande su noi due, su di te, sulle compagnie che frequentavi, domande a cui non sapevo rispondere! Insomma, ti conoscevo da un giorno neanche, come potevo sapere tutte quelle cose su di te? Ma ho fatto il nome di Phil Davis ed ho detto loro che era uno dei tanti bulli che ti perseguitavano e lui l'ha ammesso, facendo il nome di tutti coloro che lo avevano aiutato. Sono in prigione, Ali, non ti faranno più del male, mai più. Sei al sicuro, ma da ora studierai a casa».

«Non posso studiare a casa... Voglio farmi degli amici, io...», provai a dire, prima di scoppiare a piangere, senza nemmeno sapere il motivo. Forse perché avevo saputo tutto quello che era successo, o forse ero felice che non potessero più darmi fastidio. Ero sicura che non fosse perché avrei studiato a casa, avevo sempre sognato di farlo, e poi gli amici si potevano fare anche per strada, no?

«Sssh, piccolina», sussurrò, cullandomi. «Va tutto bene, è finita, sei al sicuro».

«Ho avuto tanta paura», singhiozzai. «Mi hanno ridotta malissimo. Sono brutta e poi... e poi ora il mio corpo sarà pieno di cicatrici e non avrò una vera prima volta...».

«Sì che ce l'avrai», mi disse, accarezzandomi piano una spalla. «Non sono riusciti a farti nulla, in quel senso. Ti ho salvata prima che potessero sfiorare la tua purezza». Mi baciò delicatamente la fronte, quasi solo sfiorandomela.

«Grazie», dissi, con un filo di voce. Mi strinsi ancora di più a lui e lasciai che mi cullasse ancora un po'. Non l'avrei mai ringraziato abbastanza. Lui era il mio angelo, mi aveva salvata. Eppure, tutto era iniziato con soli litigi. Durante quel primo giorno di conoscenza, non avevamo fatto altro che litigare. Avevo pensato che non fossimo destinati, ed invece ora ero tra le sue braccia a farmi calmare.

«Ah, Alison?», mi chiamò lui, in un sussurro.

Alzai il viso per guardarlo negli occhi. «Sì?».

«Sei la ragazza più bella che abbia mai visto», disse. Era sincero, glielo vedevo in quelle iridi color miele.

Gli sorrisi. «La cosa è reciproca, diciamo».

Lui mi diede un altro bacio sulla fronte. «Ah, volevo chiederti una cosa».

«Tutto quello che vuoi, Bieber».

«Quella volta che abbiamo litigato hai detto che non racconti la tua vita alle persone di cui non ti fidi, no?».

«Sì, perciò?».

«Dato che me l'hai raccontata, io... io mi chiedevo: ti fidi di me o...», lasciò la frase in sospeso, guardando una delle numerose foto di famiglia.

Già, mi fidavo? L'avevo detto per anni che avrei raccontato la mia vita solo a chi avesse avuto la mia piena fiducia. E ora l'avevo spifferata ad un ragazzo che non conoscevo per niente bene, che era, oltretutto, una superstar. Un ragazzo che mi aveva letteralmente salvato la vita, ma non con la sua musica. Un ragazzo che mi aveva regalato un mazzo di peonie colorate per chiedermi di perdonarlo, quando sarebbe dovuto essere il contrario. Un ragazzo che, pur non conoscendomi, per le sei settimane nelle quali ero stata in coma per colpa di certe bestie che mi avevano picchiata fino quasi ad uccidermi, mi era stato vicino ogni giorno, ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette.

Mi fidavo?

Ma soprattutto, perché questa domanda?

Sapevo benissimo la risposta.

«Sì», risposi, guardandolo negli occhi color miele. «Mi fido di te».








































buongiorno!
vi posto oggi il capitolo per tre ragioni:
1. l'avevo già scritto (mi sentivo ispirata lol)
2. non so se posso aggiornare per due settimane
3. qualcuno (mariadele) ha insistito (vero mariadele? lol)
okay, io sono abbastanza soddisfatta di questo kvnhfvk
fatemi sapere se vi piace con una recensione :)
eee poi niente, grazie per le cinque recensioni che ho avuto quasi immediatamente.
siete stuppppende. <3
love,
andrea c:

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