Antiche radici

di Malvagiuo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il sussurro dell'estraneo ***
Capitolo 2: *** Una strana lettera ***
Capitolo 3: *** Lonefield Hall ***



Capitolo 1
*** Il sussurro dell'estraneo ***


Eric Chapman aprì gli occhi. Le palpebre sembravano pesare due tonnellate.
La sua mente non era mai stata così annebbiata. Il che voleva dir molto, considerando che Eric era uno dei pochi uomini di Chesterton in grado di rivaleggiare con Grande Bill nella gara di bevute del venerdì sera alla taverna dell’Oca Grassa.
Eric fece il gesto di portarsi la mano destra alla testa per massaggiarsi la fronte, in modo da lenire il dolore che la tormentava. Ma dovette limitarsi a quello, poiché si rese presto conto che il polso della mano era bloccato. Quando sentì il ruvido attrito della iuta sulla pelle, capì di essere legato al letto da una corda. D’istinto alzò la sinistra per sciogliere il nodo, ma anche questa volta poté limitarsi all’intenzione. Anche il polso sinistro era legato dallo stesso tipo di corda. Non gli ci volle molto per appurare che anche le caviglie avevano subito il medesimo trattamento.
Era immobilizzato.
La coscienza di questo fatto diede avvio alla scarica di adrenalina che lo liberò dalla morsa del torpore. Purtroppo, solo da quella. Dopo una serie di scatti frenetici e irosi, Eric comprese che non c’era niente da fare. Le corde erano spesse, legate strettamente ai suoi arti con una serie di nodi impossibili da sciogliere senza aiuto esterno.
Eric gridò. La voce, che suonò più rauca al solito alle orecchie, riecheggiò all’interno della stanza. Agitandosi, Eric si accorse di non essere sdraiato su un letto. Stava decisamente troppo scomodo. Era una tavola. Una lunga tavola di legno rossiccio, grande a sufficienza perché Eric, un omone di un metro e ottantacinque per novanta chili di peso, potesse starci sopra senza che mani e piedi, nonostante le braccia e le gambe disposte come se dovesse esser crocifisso da un momento all’altro, toccassero i bordi.
L’idea lo fulminò. E se davvero qualcuno avesse avuto in mente di crocifiggerlo? Un pensiero balzano che respinse subito. Un po’ per rifiuto di andare incontro a una morte così orrenda, un po’ perché quella su cui era intrappolato non era una croce. E lui era troppo mascalzone perché a qualcuno potesse venire in mente di paragonarlo al Creatore nel momento della morte.
Mentre questi ragionamenti assurdi e privi di senso gli imperversavano per la mente (Eric Chapman non aveva mai avuto una mente particolarmente raffinata), il rumore di una porta che si apriva cigolando riempì la camera.
Eric alzò la testa per quanto gli era possibile, non essendo bloccata. Il punto della stanza da cui era provenuto il suono era avvolto nel buio.
«Chi c’è?» sbraitò Eric.
Nessuno gli rispose. Ma qualcuno c’era. Eric udì dei passi sul pavimento di pietra. Non potendo muoversi, per vedere l’estraneo dovette attendere che entrasse nel cono di luce prodotto dal candelabro che pendeva a un metro e mezzo dal suo addome. Il che significava che avrebbe dovuto avvicinarsi molto. Il cono di luce illuminava appena la grande tavola su cui Eric era prigioniero.
Ma l’estraneo pareva non avere intenzione di avvicinarsi. Non lo vedeva, ma Eric era sicuro che lo stesse osservando.
«Chi diavolo sei?»
Silenzio.
«Lo so che sei lì, cazzo! Ti ho chiesto chi sei!»
Eric percepì che l’estraneo si era mosso. Un flebile frusciare di indumenti. Come se stesse indossando qualcosa. Poi i passi ripresero. Misurati, calmi, regolari. Gli stava girando intorno, cosa che non contribuì di certo a placare la sua ansia.
Improvvisamente, Eric capì quello che stava facendo. A mano a mano che l’estraneo procedeva in cerchio attorno al tavolo, deboli bagliori comparivano lungo le pareti a rischiarare la stanza. Candele. Stava accendendo candele rosse disposte in serie sui muri, a meno di sette passi dalla tavola. Quando tutte le candele furono accese, la camera assunse tutto un altro aspetto. Qualcosa che Eric Chapman non avrebbe mai voluto vedere. Qualcosa che Eric Chapman non avrebbe mai immaginato potesse esistere a Chesterton. Ammesso che si trovasse ancora a Chesterton.
Teste.
Teste umane.
Fottutissime teste umane. Appese per i capelli a ganci di cui non si vedeva l’attaccatura al soffitto. C’erano altre cose visibili nella stanza ora, ma per Eric fu difficile concentrarsi su di esse. Osservò sgomento quei resti umani con occhi ancora intatti che lo fissavano, che avevano continuato a fissarlo nel buio per tutto quel tempo. Il riflesso del vomito fu inarrestabile, ed Eric non riuscì a trattenerlo. Un fiotto di succhi gastrici verdastri che gli corrose la gola e per poco non lo soffocò. Tossì e sputacchiò. Poi cominciò a urlare maledizioni e a supplicare pietà. Ormai in preda al panico, non aveva notato che le teste erano intatte, per nulla putrefatte, il che spiegava perché il tanfo di morte non ammorbasse quel luogo.
Eric cominciò a supplicare. Dimenticò l’odio, la rabbia, la vendetta. Voleva solo andarsene. Non importava a che prezzo. Prendesse quello che voleva da lui, a patto che lo lasciasse vivo. Eric non voleva morire. Lo capì come mai prima di allora, come sempre avviene quando si avvicina la morte.
Il sussurro dell’estraneo richiamò la sua attenzione su di lui.
Un mormorio sommesso, incomprensibile, eppure scandito da una voce nitida. Cristallina. Una voce che aveva già sentito. Volgendosi verso di lui, Eric sussultò costatandone l’aspetto. Rivestito da una tunica rosso sangue, il volto era coperto da quella che pareva una maschera. Una maschera grottesca, di cui fin troppo presto Eric intuì la natura. A differenza delle teste sulle pareti, il volto dell’estraneo appariva in avanzato stato di decomposizione. Il fetore della morte, tuttavia, era ancora una volta assente. Ed Eric comprese che il processo di disfacimento era stato arrestato anche in quel caso, ma in ritardo.
Preso com’era dall’osservazione del volto e dalle suppliche, non notò immediatamente l’oggetto che l’individuo stringeva tra le mani ossute. Uno stiletto di metallo contorto, sottile e lucente. Non adatto a colpire né a tagliare. Ma a fare qualcos’altro, che la mente di Eric si rifiutò di concepire a lungo.
L’estraneo si avvicinò alla tavola, sollevando lo strumento con la mano destra. Si guardarono negli occhi, per la prima volta. Eric riconobbe quegli occhi. Riconobbe finalmente anche la voce che aveva udito. E l’uomo a cui appartenevano.
«Tu!» gridò in faccia all’uomo. «Brutto figlio di puttana!»
Fu l’ultima cosa che Eric Chapman disse, prima che lo stiletto penetrasse nel cranio passando per la narice.
 

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Capitolo 2
*** Una strana lettera ***


«Dottor Leyton?»
Harvey Leyton si voltò, fermandosi in mezzo al corridoio affollato, e trattenne uno sbuffo esasperato nel ritrovarsi di fronte il lentigginoso volto di Harold Kemper. Aveva ormai tale familiarità con le macchie rosse sulla pelle pallida dello studente che sarebbe stato in grado di tracciarne una mappa a occhi chiusi. Kemper lo importunava dal giorno in cui aveva assistito per la prima  volta a una sua lezione, e da allora non aveva mai smesso di perseguitarlo. Quel giorno, tuttavia, era sulla buona strada per battere il suo record di domande fuori lezione nell’arco di otto ore. Ed era anche sulla buona strada per infrangere la granitica diga della sopportazione che arginava la speciale serie di improperi che Harvey Leyton aveva elaborato apposta per lui nel corso degli anni.
«Signor Kemper» borbottò Leyton, nella sua miglior imitazione di un tono di voce indifferente. «Mi dica.»
«Scusi se la disturbo...»
“Ipocrita” pensò il professore. “Come se non sapessi che mi arrechi disturbo con ogni singolo respiro.”
«... ma mi è stato detto di consegnarle questa» Kemper estrasse una lettera dalla costosa giacca di tweed e gliela consegnò.
«Di solito, è il signor Johnson a consegnarmi la posta» disse Leyton, accigliato.
«L’ha detto anche a me, infatti, ma ha dovuto assentarsi per un impegno e ha incaricato me di portarvela.»
«E perché ha incaricato proprio te?»
«Il signor Johnson, vedendoci spesso insieme, ha pensato che lei mi avesse nominato suo assistente, e così ha ritenuto di potersi fidare di me per questa mansione.»
“Preferirei essere infilzato su uno spiedo e messo ad arrostire sulla graticola più rovente dell’inferno per mille anni piuttosto che nominarti mio assistente!” pensò Leyton, la cui irritazione aumentava a ogni secondo.
«Che grossolano errore. Povero signor Johnson, l’età comincia a farsi sentire» disse malignamente Leyton, sperando di suscitare delusione nell’animo del giovane seccatore.
Contrariamente alle sue aspettative, Kemper rimase impassibile. Se era rimasto affranto, era stato davvero abile a celarlo. Questo non contribuì a migliorare l’umore di Leyton. Il professore sapeva bene che il motivo principale per cui quel fastidioso pedante continuava a stargli alle calcagna era strappargli la nomina di assistente alla cattedra di medicina dell’Università di Cambridge. Il posto era vacante da ben nove mesi, e Leyton sapeva di non poter rimandare la scelta ancora a lungo. Man mano che il tempo passava, l’assedio di Kemper diventava sempre più pressante.
Se Harold Kemper fosse stato un signor nessuno, Leyton sarebbe stato deliziato come nessun altro nello sbriciolare ogni sua speranza di ottenere quel ruolo. Umiliarlo e deriderlo gli avrebbe arrecato lo stesso senso di trionfo di quando, diciotto anni prima, aveva ottenuto quella prestigiosa cattedra sbaragliando tutti gli altri candidati, eseguendo un rischioso intervento chirurgico che aveva salvato la vita di un paziente ormai dato per spacciato.
Ma Kemper non era affatto un signor nessuno. Suo padre era nientemeno che William Kemper III, barone di Summersford, membro del consiglio di amministrazione dell’Università. Il che significava che, presto o tardi, avrebbe ottenuto una cattedra. Ma perché proprio la sua?
Leyton aborriva l’idea di consegnare il suo amato regno a uno spocchioso imbecille come quello. Un macaco sarebbe stato più meritevole di sedere su quella poltrona. Purtroppo, il resto dei candidati non poteva competere con Kemper per blasone, capienza delle tasche e nemmeno per meriti intellettuali. Anche se detestava ammetterlo, Harold Kemper era brillante. Un vero idiota, ma con una mente eccelsa.
«Molto bene» disse Leyton. «Grazie mille, Harold.»
E scappò prima che l’altro potesse escogitare un qualsiasi stratagemma per proporre la propria candidatura.
 
Non appena si ritrovò al sicuro tra le mura del suo rifugio, Leyton chiuse la porta di legno massiccio a chiave. Il brusio della folla nei corridoi dell’Università giungeva soffocato, ma Harvey Leyton era abituato a quel sottofondo, e non ci badò.
Si fermò un istante per assicurarsi che i suoi libri fossero stati debitamente spolverati, e si concesse un minuto per osservare il cuoio delle rilegature dei voluminosi tomi scientifici e umanistici che occupavano gli scaffali, disposti a ogni parete.
Leyton sorrise. “Un buon lavoro anche stavolta. Potessi, nominerei Stan assistente alla cattedra. Altro che Harold Kemper!”
Con la busta della lettera ancora in mano, Leyton si sedette alla scrivania e afferrò il tagliacarte d’argento poggiato sul piano. Ruppe il sigillo di ceralacca rossa ed estrasse un foglio dalla busta giallastra. Prima di leggere il contenuto, andò a osservare la firma del mittente.
Sobbalzò.
Quincey T. Lonefield.
Lo stemma nobiliare accanto alla firma non lasciava ombra di dubbio. Il conte Quincey T. Lonefield.
“Che diavolo vuole da me quell’uomo?”
Aveva conosciuto il conte tre anni prima. Un’esperienza di cui avrebbe volentieri fatto a meno. L’opinione del conte su di lui non era certo elevata, a quei tempi. E non vedeva come avesse potuto migliorare, nel frattempo. Inquieto, Leyton cominciò a leggere.
 
Esimio dottor Leyton,
è mio piacere invitarVi a Chesterton perché possiate trascorrere un piacevole fine settimana come ospite a Lonefield Hall. Diversi ospiti, illustri quanto Voi, saranno presenti al ricevimento che la mia famiglia darà in onore del fidanzamento di mio figlio Robert.
Sono sicuro che accetterete l’invito.
Vi pregherei, inoltre, di mantenere riservata questa missiva e, naturalmente, il suo contenuto. So che lo farete.
 
Benché il messaggio consistesse di poche, semplici righe, Leyton lo rilesse più e più volte. Ogni volta che terminava la lettura, rimaneva più frastornato.
Il conte Quincey T. Lonefield – uno degli uomini più austeri e scontrosi che il regno di Sua Maestà conoscesse – che bandiva un evento mondano nella sua dimora e che – Leyton stentava ancora a crederlo – lo invitava a prendervi parte. Tutto questo suonava davvero assurdo. Per quale incomprensibile ragione il conte Lonefield avrebbe dovuto invitare alla festa di fidanzamento di suo figlio un individuo semisconosciuto e verso cui, in passato, aveva manifestato apertamente la propria antipatia?
Ma era la parte che veniva dopo a inquietarlo di più.
 
Sono sicuro che accetterete l’invito.
 
Era una minaccia, nemmeno troppo velata. Era chiaro che Lonefield intuiva che Leyton avrebbe rifiutato di recarsi a Chesterton, in mancanza di un valido motivo. In un certo senso, glielo aveva fornito. Venite, o ci saranno conseguenze. Lonefield non aveva potere all’interno dell’Università, ma il mondo non si limitava alle mura di Cambridge. Leyton preferì non soffermarsi sulla portata dell’influenza del conte.
 
Vi pregherei, inoltre, di mantenere riservata questa missiva e, naturalmente, il suo contenuto.
 
Il punto più strano della lettera.
Mantenere segreto un banale messaggio d’invito a un ricevimento. Perché?
Leyton sapeva che invitare taluni a scapito di altri avrebbe potuto suscitare risentimenti vari, per questo non era infrequente una richiesta di riservatezza. Ma perché Lonefield avrebbe dovuto richiederla a lui? Chi conosceva, che si sarebbe risentito per quell’invito? Inoltre, l’acido conte non era certo il tipo d’uomo che si preoccupava di ferire i sentimenti di qualcuno.
 
So che lo farete.
 
Altra minaccia. Guai a Voi se parlate di questo invito. Leyton capì che avrebbe adempiuto alla richiesta ben prima di elaborare il concetto.
Quella era la cosa più strana che gli fosse capitata da molti anni.
C’era qualcosa di davvero anomalo, dietro quella lettera. E Harvey Leyton sapeva che c’era un solo modo per andare fino in fondo a quella storia.

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Capitolo 3
*** Lonefield Hall ***


A causa di uno scossone imprevisto alla carrozza, Harvey Leyton si morse la lingua. Contenere la sequenza di fantasiosi improperi che gli suggeriva la mente, sempre arguta in questi casi, si rivelò un’impresa difficile. Ma il dottore seppe contenersi, anche se non c’era nessun altro passeggero che avrebbe potuto scandalizzarsi per la sua mancanza di contegno.
Non c’era molto da osservare fuori dal finestrino. Il grigio spettacolo della campagna inglese lo aveva stancato da diverse ore. Quel piattume generale lo annoiava quasi quanto le dissertazioni del professor Holville sui riti di accoppiamento delle tribù indigene nell’arcipelago di Palau. Un argomento che di per sé non aveva nulla di noioso, ma che l’incartapecorito luminare di antropologia di Cambridge sapeva rendere tedioso fino al taglio delle vene.
“Ancora mi chiedo perché ho accettato quel maledetto invito.”
In realtà, Leyton sapeva bene perché lo aveva fatto. Era qualcosa che non ammetteva nemmeno con se stesso. In cuor proprio si rendeva conto di temere le minacce velate assai più di quelle dirette. Un nemico allo scoperto è un nemico che puoi osservare e valutare, che puoi trovare il modo di combattere e sconfiggere. Un nemico che si atteggia ad amico e cela le sue vere intenzioni, è di solito quello che riesce a stiparti nella tomba.
“Quincey Lonefield... se c’è un uomo al mondo che vorrebbe avere questo piacere, è senz’altro lui.”
Il conte di Chesterton, tre anni prima, aveva inviato a Sua Maestà in persona una richiesta ufficiale, firmata da altri sette prestigiosi membri dell’aristocrazia britannica, affinché il dottor Leyton venisse sollevato dal suo incarico di professore a Cambridge e radiato dall’ordine dei medici. Erano stati dei brutti giorni, quelli. Leyton si era già preparato psicologicamente alla sconfitta. Sapeva che le sue ricerche avrebbero causato sgomento e malumori nella comunità scientifica – e non solo –, ma era altrettanto certo della fondatezza delle sue opinioni. Il rettore dell’università e diversi accademici reali, fortunatamente, avevano riconosciuto il valore degli studi che aveva intrapreso, e alla fine la questione si era risolta con un compromesso. Lonefield aveva rinunciato alla sua pretesa di annichilire Leyton e Leyton aveva rinunciato a proseguire le ricerche e a pubblicare qualunque novità inerente a esse. Sette anni di fatica ripagati con l’obbligo al silenzio. Un sacrificio accettabile, in cambio di una reputazione e di una poltrona intatte.
Che cos’altro poteva volere Lonefield, ora? Aveva rispettato la sua parte dell’accordo. Il conte intendeva forse attirarlo nella sua tana per distruggere la sua reputazione con qualche elaborata macchinazione? Improbabile. Un uomo di tale rango disponeva di ben altre risorse per annientarlo.
Leyton trascorse quasi tutto il viaggio ad arrovellarsi sui perché e sui per come di quella gita imprevista. Tanto che quando arrivò a destinazione, si sorprese che il tragitto fosse stato così breve. Lonefield Hall era magnifica. Fuori porta, ma magnifica. Questo, Harvey Leyton doveva concederlo al suo enigmatico anfitrione. Una sontuosa villa restaurata in perfetto stile vittoriano, dalla facciata bianca che appariva grigiastra per via del cielo plumbeo. Cipressi e platani adornavano il vialetto che conduceva all’entrata. Ettari di prati circondavano la magione, e Leyton non si sarebbe stupito se le centinaia di acri di brughiera incolta tutt’intorno fossero parte integrante dei domini di Lonefield. Una leggera brezza da sud trasportava un lieve aroma salmastro, sospinto fin lì dal mare che distava poche leghe.
Quando la carrozza entrò nel vialetto ricoperto di ghiaia, scricchiolando rumorosamente, Leyton si rese conto di non aver bisogno di essere annunciato al padrone di casa. Non appena sceso dal mezzo, un servo in livrea lo invitò a entrare, mentre altri due sopraggiungevano dalla casa per prendere i suoi bagagli.
«Sua signoria sarà lieto di ospitarvi sotto il suo tetto. Non vedeva l’ora che arrivaste.»
“Un po’ come il lupo che non vede l’ora che l’agnello si infili nella sua tana. Ma io non sono un agnello, Lonefield, e lo imparerai presto.”
Attraversando il maestoso ingresso, Leyton ancora non aveva deciso che atteggiamento tenere con il padrone di casa. Riservato? Cordiale? Apertamente sospettoso? Nessuna opzione lo convinceva pienamente. Si risolse ad affidarsi all’estro del momento.
L’illuminazione elettrica dava al corridoio un aspetto dorato, e il prezioso tappeto rosso srotolato sul pavimento di parquet elevava Lonefield Hall al rango di dimora da re più che da conti. I ritratti a olio degli avi e le costosissime modanature in ebano verniciato rafforzavano tale impressione. La ricchezza dei Lonefield trasudava da ogni angolo del passaggio. Il primo impatto con il regno della famiglia era stato accuratamente studiato per fornire a ogni visitatore un’impressione di potenza, maestosità, opulenza e superiorità. Perfino Harvey Leyton si sentì, per alcuni istanti, piccolo e insignificante di fronte a tanta grandezza.
Il salone era venti volte più ampio del corridoio, il che significava che il lusso era amplificato di venti volte. Candelabri d’argento, tavolini lucidati in legno di cedro, tappeti ricamati, arazzi, quadri con cornici d’oro, pavimento in marmo e due caminetti in pietra ai lati opposti della stanza arricchivano quello che, senza dubbio, era il più meraviglioso luogo della Cornovaglia. Dodici strette finestre a sesto acuto si aprivano sull’immensa parete di fronte al corridoio d’ingresso, offrendo un’ampia vista del paesaggio collinare vasto e privo di insediamenti umani, al momento ottenebrato dal crepuscolo. Una visione davvero stordente, persino per gli occhi di Harvey Leyton.
Il salone era vuoto.
Leyton ne fu convinto finché una voce non lo chiamò per nome. L’eco rimbombò per l’enorme salone, così che fu impossibile per il professore discernere il punto esatto dove il suono si era originato.
Fu il servo in livrea a districare l’enigma, conducendo Leyton dinanzi a uno dei focolari accesi. Una grande poltrona in pelle, dallo schienale altissimo, era rivolta verso le fiamme. Solo avvicinandosi Leyton comprese che qualcuno vi era seduto, la stessa persona che lo aveva chiamato. E ormai non aveva più dubbi su a chi appartenesse quella voce.
«Vostra grazia.»
«Dottor Leyton. Benvenuto a Chesterton.»
Quincey T. Lonefield si alzò con sussiego. In mano reggeva un calice dove ondeggiava un ultimo sorso di brandy. Il conte di Chesterton indossava una vestaglia di flanella squisitamente ricamata con filo dorato e intessuta di stoffa pregiata. Il volto era proprio come lo ricordava: duro e squadrato come una scultura nel legno, labbra talmente rigide che parevano non essersi mai increspate in un sorriso, occhi glaciali perennemente socchiusi.
«Non mi sembrate in tenuta da ricevimento, vostra grazia» fece notare Leyton.
«Già, è così. Forse dipende dal fatto che non ci sarà nessun ricevimento.»
Harvey Leyton lo fissò negli occhi. Colse un’ombra di divertimento nello sguardo glaciale del conte.
«Che significa questo?»
«Suvvia, non vi allarmate. Lasciate che vi spieghi con calma e comodamente. John, una sedia e un calice di brandy per il nostro ospite.»
John obbedì, e in men che non si dica Leyton si sedette su una comoda sedia imbottita e ricevette un bicchiere di liquore nella mano. Anche il conte tornò a sedersi.
«Spero che non stiate pensando che vi abbia giocato un brutto scherzo, facendovi venire fin qui da Cambridge per nulla. Sapete bene che gli scherzi non sono nella natura dei Lonefield» disse il conte, sorseggiando l’ultima goccia di brandy.
Leyton giocherellò con il proprio calice tra le mani. Non aveva sete. Attendeva il resto.
«Mi perdonerete, spero, la messinscena del ricevimento. Sono stato costretto a usare questa scusa perché dovevo esser certo di contare sulla vostra riservatezza. Se vi avessi semplicemente chiesto di venire, considerando i nostri precedenti rapporti, vi sareste insospettito e avreste potuto farne parola con qualcuno» disse, appoggiando il calice vuoto sul tavolino affianco. «Con la storia del ricevimento, la richiesta di riservatezza era giustificata e le probabilità che voi manteneste il silenzio erano ragionevolmente alte. Inoltre, se qualcuno avesse malauguratamente letto la lettera, non si sarebbe insospettito più di tanto. Siete pur sempre una personalità famosa, in Inghilterra, e ovunque vale la pena di invitarvi.»
«Come sapevate che avrei accettato di venire?»
Per un incredibile istante, le labbra di Lonefield quasi assunsero la forma di un mezzo sorriso.
«So che mi temete, Leyton. E a ragione. Non avreste osato offendermi rifiutando il mio invito.»
Con sommo malincuore, Leyton riconobbe che aveva ragione.
«Posso chiedervi perché sono qui, allora?»
Leyton cominciava a spazientirsi. Quel giochetto di superiorità lo irritava. L’inferiorità è una sensazione piuttosto sgradevole in generale, ma suscitarla in Harvey Leyton era il massimo affronto che il dottore potesse concepire.
L’ombra di mezzo sorriso si dissolse dal volto di Lonefield, più rapida di quando era apparsa.
«Mi rincresce ammetterlo, ma ho bisogno di voi. Necessito della vostra... esperienza.»
«La mia esperienza?» Leyton era francamente sorpreso. Stentava a credere che un uomo potente come Quincey T. Lonefield, tra tutti i luminari dell’impero di Sua Maestà, intendesse avvalersi proprio del suo aiuto.
«Non c’è altro uomo che io conosca che possa fornirmi un’assistenza valida quanto la vostra. E sapete bene quanto mi costi dir questo.»
In un istante, Leyton comprese. Ma la comprensione di ciò che Lonefield gli stava chiedendo non diminuiva il grado di assurdità di quella conversazione.
«Nella mia terra è in corso il focolaio di una strana epidemia. Un morbo orrendo che nessuno conosce meglio di voi.»
Leyton sgranò gli occhi. Non poteva dire sul serio.
«Quello che state suggerendo è impossibile» sussurrò il dottore.
«Vorrei che lo fosse, Leyton» ribatté Lonefield. «Ma non è così. Ho visto con i miei occhi ciò di cui voi parlavate tre anni fa. L’ho visto proprio qui, a pochi passi dalla mia casa».
Quincey T. Lonefield prese un lungo respiro, come se chiamasse a raccolta tutto il proprio coraggio per pronunciare una verità inconfessabile.
«Ho visto i morti che camminano.»
 

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