The lake's Deity

di I n o r i
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La luce del lago ***
Capitolo 3: *** Il solito -o no?- primo giorno di scuola ***
Capitolo 4: *** Pioggia ***
Capitolo 5: *** Di risate malefiche e tramonti ***
Capitolo 6: *** Imbarazzo di un momento ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Si narra ancora, tutt'oggi, la leggenda della Divinità del lago di Buldwick: un piccolo lago nascosto fra le rocce di un paese altrettanto piccolo ed estraniato dal resto del mondo.

La storia racconta che, ai tempi dei marchesi e dei conti, dei re e dei castelli, vi fosse un giovane nobile a governare Buldiwck, dall'alto della collina su cui giaceva il suo modesto palazzo.

Un ragazzo solo, che non aveva mai conosciuto l'amore e che si fidava solamente di se stesso.

Finché, in una notte d'estate, non vide una fata danzare leggiadra sulle acque del lago che tanto amava visitare. Una figura luminosa più della luna e delle stelle, una piccola donna che utilizzava la superficie del lago come una specie di sala da ballo, mentre faceva scorrere i suoi piedi sull'acqua come se stesse interpretando una danza.

Il giovane nobile poté bearsi di quella visione per un solo e breve attimo, ma ne rimase così affascinato che raggiunse il lago ogni sera per mesi e mesi, anche nelle notti più gelide e cupe, solamente per riuscire a rivederla, incapace di poter pensare che la sua fosse stata solo una vana illusione.

Ma una sera, quando ormai stava per rinunciare al suo sogno, la fata riapparve davanti ai suoi occhi, più bella e luminosa che mai. E lui, meravigliato e felice, non poté fare a meno d'innamorarsi perdutamente di lei. S'innamorò così tanto, che le disse che le avrebbe persino donato il proprio cuore, se lei gli avesse permesso di rivederla anche una terza volta.

La fata, pura e innocente com'era e non essendo mai stata amata da nessuno prima di allora, non poté acconsentire a quella dolce richiesta: la paura, quel sentimento vorace e avido, s'impossessò del suo animo. La paura di amare e di essere amati, una sentimento che tutt'ora governa sugli uomini.

Il giovane, ferito e privo di speranze, si lasciò così cadere nelle acque del lago e non ne riemerse mai più.

La fata, allora, piangendo tutte le sue lacrime e sentendosi sempre più in colpa per quella che era stata la morte dell'unica persona che l'avesse mai amata, decise di donare il suo cuore di Divinità allo spirito del giovane nobile, scomparendo e facendo divenire lui stesso, quindi, la Divinità del lago di Buldwick.

 

Ancora oggi, il giovane nobile -o meglio, la Divinità del lago di Buldwick- sta aspettando impaziente il ritorno del suo unico amore.

 

 

 

 

 

Judith, per la prima volta nella sua vita, poté giurare di averla vista davvero, la Divinità del lago di Buldwick.

 

 

 

 

 

 

-Angolo autrice-

Saaalve gente! Questa non è proprio la mia prima fic in “Originali” -avevo fatto un tentativo qualche tempo fa con un'altra storia, ma poi è andato tutto a farsi benedire dopo due soli capitoli per vari motivi che ora non starò qui a spiegare. Comunque, visto ciò che è successo, io reputo questa la mia prima fic in “Originali”. Quindi, ve ne prego, fatemi sapere cosa ne pensate nel bene o nel male e siate clementi!

Dal prologo non s'intuisce molto, ma dall'introduzione, forse, un'idea ve la sarete già fatta. Comunque, volevo precisare che questa storia non tratterà per niente temi sovrannaturali o roba simile, forse dalla leggenda si potrebbe intuire questo, ma non è così.

Detto ciò...boh, spero che mi seguirete in questa mia impresa e che non rimarrete delusi!

Un grazie a chiunque leggerà questa sciocchezzuola :)

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Capitolo 2
*** La luce del lago ***


Appena entrata in quella che sarebbe divenuta la sua nuova camera da letto -da quel momento in poi- Judith rabbrividì, leggermente sconcertata.

<< Allora? Ti piace? >> La voce bassa e profonda di suo padre le penetrò le orecchie e non poté fare a meno di deglutire, cominciando immediatamente a pensare a cosa avrebbe potuto dire per non farcelo rimanere male.

Guardò fugacemente le pareti dipinte di un rosa che più rosa di quello non l'aveva mai visto, ed il letto a baldacchino difronte al grande armadio bianco; per non parlare delle coperte argentate e del tappeto con disegnate sopra le sagome di qualcuna delle principesse Disney...

<< Sembra proprio la camera di una principessa. >> Gli rispose, spostando lo sguardo su di lui e notando il suo sorriso felice e soddisfatto.

Dopotutto, aveva solamente detto la verità. Senza specificare se la cosa fosse di suo gradimento o meno.

<< Bene, era questo il mio intento! >> Esclamò di rimando, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia e una mano a scompigliare i capelli di Judith.

Oh, perfetto. Sospirò e si allontanò quel tanto che bastava per far capire a Mark che non voleva far diventare la sua testa un ammasso informe di capelli. Se lo ricorderà che non ho più dodici anni?

L'uomo ritrasse la mano e ridacchiò imbarazzato, per poi spostare lo sguardo sull'orologio che teneva legato al polso. << Ormai è tardi, sarà meglio che vada a preparare la cena. >>

Judith annuì e si vide poggiare difronte ai piedi l'unica valigia che possedeva, ma che tanto le bastava e avanzava per contenere i suoi averi.

<< Tu intanto sistema la tua roba. >> Detto questo, suo padre scivolò via dalla sua visuale scendendo le scale in fretta e furia, desideroso di uscire fuori da quella situazione un po' tesa e imbarazzante per entrambi.

Judith, quindi, si tirò su le maniche della felpa e trascinò la valigia all'interno della stanza, chiudendosi poi la porta alle spalle.

La lasciò cadere a terra e si avvicinò alla finestra a grandi falcate: l'aria della sera era fresca e pulita, al contrario di quella che era solita respirare nella città in cui aveva vissuto i sedici lunghi anni della sua vita. Ed anche la visuale che aveva modo di vedere dalla finestra di quella camera era completamente differente: difronte ai suoi occhi, in quel momento, si espandeva un sacco di verde. Il verde degli alberi, delle foglie, dei prati. E, in lontananza, si poteva scorgere un lago non molto grande, contornato da tante rocce e tanti alberi.

Tutta un'altra cosa, rispetto alla città -questo doveva ammetterlo.

Se si fosse trovata affacciata alla finestra della sua vecchia camera, avrebbe sicuramente sentito la vecchia signora del piano di sotto brontolare suo marito per qualcosa di sciocco come al solito, oppure avrebbe percepito l'odore di fumo proveniente dal locale che stava proprio davanti al suo condominio.

Era tutto così strano, in quel momento. Tutto così diverso.

Sospirò e fece per riprendere la valigia che aveva bellamente mollato a terra, ma qualcosa la fermò: si sporse un po' di più dalla finestra e vide che, davanti al lago, c'era una luce. Più che una luce in sé, era un oggetto particolarmente luminoso. Non sembrava la luce di un fuoco, quella l'avrebbe riconosciuta, nonostante la lontananza. E dubitava anche del fatto che potesse provenire da un motorino o da una macchina: chi è che andrebbe in un posto simile a quell'ora della sera?

Ma lei non conosceva niente di Buldwick e della gente che popolava questo paese, indi per cui decise solamente di farti i fatti suoi e di scendere a mangiare non appena suo padre l'avesse chiamata.

 


 

<< Papà? >>

Mark, che ancora non si era abituato alla presenza di un'altra persona alla sua tavola -dopo tutti quegli anni trascorsi da solo-, distolse lo sguardo dal cibo e guardò sua figlia con un espressione curiosa sul volto.

<< Come si chiama il lago che si vede dalla finestra della mia camera? >> Gli chiese quest'ultima, versandosi un po' di succo d'arancia nel bicchiere.

La domanda era strana e lui non riuscì a capire il motivo per cui gli avesse chiesto qualcosa di simile. Ma, dopotutto, forse sua figlia si stava semplicemente comportando da sedicenne curiosa di sapere qualcosa in più sul posto in cui sarebbe stata costretta a vivere da quel momento in poi.

Storse il naso a tale pensiero. Costretta. Un termine esatto, dato che non era venuta a Buldwick di sua spontanea volontà.

<< Non credo abbia un nome. È piccolo e si trova in un posto sperduto, nessuno va mai a visitarlo, neanche la gente del paese -nonostante sia l'unico luogo in cui potersi fare un bel bagno nelle giornate afose d'estate, qui a Buldwick. >> Cercò di essere il più esauriente possibile e Judith assunse un'espressione decisamente pensierosa.

<< Davvero non ci va mai nessuno? Eppure, io ho visto qualcosa laggiù, prima di scendere a mangiare... >>

Mark non seppe interpretare il silenzio che seguì alla frase di sua figlia. Forse avrebbe dovuto rispondere qualcosa, ma era decisamente impreparato a tutto questo, quindi non seppe cosa dire e rimase semplicemente zitto.

Quei tre anni in cui erano stati lontani si stavano facendo sentire, alla fine: gli sembrava di non riconoscere neanche più la sua stessa bambina. Che bambina non era più, dopotutto.

La guardò di sottecchi e fu stranito nel constatare che, osservandola meglio, gli ricordava sempre di più Rachel. La donna che aveva abbandonato lui tre anni prima e, solamente due mesi prima, persino Judith, la figlia che lei stessa aveva cresciuto con tanto amore e devozione.

Si, le assomigliava sempre di più. Perfino nel più semplice dei gesti, tipo quello di portare la forchetta alla bocca, Judith gli ricordava la sua prima -ed unica- moglie: i capelli biondi e mossi erano gli stessi, come gli occhi azzurri -tendenti al grigio-, il naso a punta e le labbra piene e carnose.

Aveva perfino quelle poche lentiggini sparse qua e là che caratterizzavano il viso di sua madre.

<< Io ho finito. >> Alle parole di sua figlia Mark si destò dai suoi pensieri, e quando vide Judith alzarsi con il piatto in mano in direzione dell'acquaio la fermò, quasi allarmato. << Tranquilla, ci penso io qui! Tu vai a letto, sarai stanca dopo il viaggio. E poi domani inizia la scuola, devi riposare. >>

Judith annuì -sempre pronta a farsi da parte pur di non svolgere i lavori di casa, pigra com'era- e si stiracchiò, andando in direzione delle scale.

<< Buonanotte. >> La voce di suo padre era gentile, quasi dolce.

<< 'Notte. >> La sua, invece, apparve a dir poco seccata: non era più abituata a ricevere certi atteggiamenti affettuosi. Soprattutto da Mark.

 


 

Stesa sul suo letto, Judith guardava il soffitto. Riusciva a vedere tutto il rosa che invadeva la sua camera persino al buio.

Le sembrava di essere in un posto non suo, che non le apparteneva fino in fondo: era in vacanza, certo. E sarebbe tornata a casa sua e nella sua città prima che se lo immaginasse.

Sospirò, alzandosi a sedere e stropicciandosi gli occhi. Sogna Judith, sogna.

Guardò lo schermo del suo cellulare: c'erano così tante chiamate senza risposta che non aveva nemmeno il coraggio di contarle. Dopotutto, non aveva detto a nessuno dei suoi amici che sarebbe partita. Per sempre.

Era un'egoista, se ne rendeva conto anche da sola. Ma odiava gli addii.

In fondo, era identica alla madre che diceva di detestare.

Sospirò nuovamente, questa volta cercando di cacciare le lacrime che le stavano pizzicando gli occhi, e si avvicinò alla finestra: da lì le stelle si potevano vedere benissimo, al contrario della città. Forse perché l'aria era più pulita, dopotutto erano sempre in campagna.

Ridacchiò, malinconica: lei non sarebbe mai diventata una campagnola come suo padre.

Abbassò lo sguardo dal cielo e riguardò il lago, constatando che la luce che aveva visto prima era ancora presente. Ma questa volta era in movimento. Non avrebbe davvero saputo spiegarsi cosa fosse: era una luce debole, non molto intensa.

Se non avesse saputo che gli esseri umani non brillano, avrebbe pensato si trattasse di una persona: sembrava nuotare nelle acque del lago, aggraziata, delicata.

E lei si sentiva attirata, quasi incantata, tanto che non poté fare a meno di mettersi le scarpe e uscire di casa ancora in pigiama, solo per vederla da vicino e con i suoi occhi, quella luce.

Alla fine, avrebbe dovuto solamente camminare sempre dritto fra gli alberi finché non avesse trovato il lago.

Ed era impaziente, per cui cominciò a correre senza sapere precisamente dove fosse e perché stesse facendo qualcosa di simile a quell'ora di notte, quando sapeva che il giorno dopo si sarebbe dovuta svegliare alle otto del mattino per andare in quella stupida scuola per campagnoli.

Era un gesto totalmente irrazionale, lo sapeva benissimo anche lei.

Eppure, lei d'irrazionale non aveva un bel niente.

Quando si ritrovo all'interno del bosco, però, si rese conto che ciò che aveva fatto, oltre che irrazionale, era anche dannatamente stupido: non riusciva a vedere niente di niente, si era ritrovata in un posto di cui non conosceva assolutamente nulla e, quando fermò la sua corsa in preda al panico dopo aver sentito un rumore fra gli alberi, probabilmente provocato da un uccello o qualcosa di simile, capì che non sarebbe neanche riuscita a tornare indietro, dato che non riusciva a vedere ad un palmo dal proprio naso.

Stupida, stupida, stupida, pensò non appena sentì un altro rumore che lei stessa, nella sua mente contorta, reputò decisamente inquietante.

Era in una situazione in cui non si sarebbe mai voluta trovare e si maledisse fino allo sfinimento, accovacciata a terra e indecisa sul da farsi.

Tutto ciò che era in grado di vedere era il buio assoluto.

Dannazione!

Non era più in grado neanche di riconoscere la direzione in cui era diretta e verso cui stava correndo.

E, quando sentì un rumore di passi provenire dalla sua sinistra, non poté fare a meno di cacciare fuori dalla gola un urlo di puro terrore: ecco, morire a sedici anni per mano di un pericoloso assassino che vaga in un bosco nel cuore della notte in cerca di ragazze vergini da utilizzare nei suoi riti satanici. Questa sarebbe stata la sua fine.

Va bene, forse stava vagando un po' troppo con la fantasia, ma era comunque spaventata a morte e non ebbe neanche il coraggio di muovere un muscolo, quando sentì il rumore di passi divenire sempre più vicino.

Se magari fosse rimasta immobile così com'era, l'assassino satanico non l'avrebbe sentita e avrebbe continuato a camminare, così la sua vita sarebbe stata salva e suo padre, notando la sua assenza, sarebbe venuto a cercarla e l'avrebbe riportata a casa.

<< Ohi. >>

Judith spalancò gli occhi e le sembrò che il cuore le fosse uscito dal petto, non appena sentì quella voce fin troppo vicina e che si stava sicuramente riferendo a lei.

Ancora accovacciata a terra, iniziò ad urlare frasi e parole scollegate fra loro e prive di senso logico, della serie “Non sono vergine, non sono buona per i tuoi riti satanici!”

I passi si fecero più vicini e lei si rannicchiò ancora di più, senza avere il coraggio di riaprire gli occhi ormai pieni di lacrime.

<< E-ehi, ma che hai da urlare? >> Quella voce -che doveva appartenere ad un ragazzo, se l'udito non la stava ingannando- le apparve più vicina di quanto si potesse immaginare.

Così sussultò, e, quando rialzò lo sguardo ed incontrò i suoi occhi, avvertì la stessa sensazione che l'aveva spinta ad uscire di casa e a dirigersi verso il lago. La stessa attrazione magnetica che aveva provato alla vista di quella luce.

Quindi, improvvisamente, si rilassò. Come se la visione di quel ragazzo avesse avuto un effetto calmante su di lei.

<< Tutto apposto? >> Le chiese lui, accovacciandosi e accendendo la torcia che teneva in mano, per poi puntarla sul viso di Judith. Quest'ultima, impreparata, si coprì il viso e fu sorpresa di sentire le proprie guance umide e bagnate dalle sue stesse lacrime.

<< S-si. >> Rispose, con una voce più roca e decisamente meno pimpante del solito.

Sentì la mano di quel ragazzo poggiarsi sulla sua spalla e, questa volta, grazie alla luce della torcia, poté vederlo davvero: la prima cosa che notò furono i suoi capelli neri e ribelli, che gli contornavano il viso chiaro e fine; e gli occhi -verdi quasi quanto le foglie degli alberi all'interno del bosco, non troppo grandi ma fin troppo profondi, così tanto che le parve di poterci annegare dentro- la scrutavano intensamente, quasi impazienti.

E la sentì ancora, quella sensazione: la sensazione di un tuono che fende il corpo, il calore, la luce. Un misto di eccitazione e paura.

<< Forza, andiamo. >> Quando quelle parole la destarono dai suoi pensieri, vide che il ragazzo si era già alzato e che le stava porgendo una mano. Judith non esitò a prenderla e si alzò a sua volta, silenziosa. E, con sua grande sorpresa, anche quando iniziarono a camminare lui non mollò la presa.

Non capì cosa la portò a fidarsi di lui, a quel tempo. Quella persona avrebbe veramente potuto essere un assassino satanico desideroso di farla a pezzettini, eppure lo seguì con decisione fino a che non raggiunsero le fine del bosco. In mezzo a tutto quel buio, le bastò continuare a sentire il calore di quella mano, per sentirsi più tranquilla.

 

<< Siamo arrivati. >> Judith alzò lo sguardo, sentendo la mano del ragazzo lasciare la sua, e vide la casa di suo padre proprio davanti ai suoi occhi. Per quanto tempo avevano camminato? Le sembrava che fossero trascorsi solo pochi minuti da quando l'aveva trascinata fuori dal bosco.

Poi, cosa più importante, un'altra domanda le spuntò in testa.

<< Come facevi a sapere dove si trovava casa mia? >>

Lui, sentita la nota di disappunto nella sua voce, ridacchiò.

<< Sei la figlia di Mark Nichols, giusto? Ho sentito parlare di te da tuo padre. >>

Judith deglutì, imbarazzata. Chissà a quante altre persone suo padre aveva parlato di lei, a questo punto...

<< Comunque, perché strillavi come una pazza prima? >> Chiese l'altro, ridendosela bellamente sotto i baffi.

Il viso di Judith andò completamente in fiamme e lo guardò malamente. << Sei tu che mi hai spaventata! >>

Lui assunse un espressione stranita e poi alzò un sopracciglio. << Ma se ti ho perfino aiutata! Ti eri persa, ammettilo. >> Detto ciò, le puntò un dito sulla fronte e la spinse un poco all'indietro, per poi avvicinarsi pericolosamente al suo viso, non dandole neanche il tempo di rispondergli a tono.

<< Dovresti ringraziarmi. >>

Lei, sempre più rossa in viso, sbuffò contrariata: chi era quello sbruffone del cavolo?

Voltò la faccia dalla parte opposta e chiuse gli occhi. << Grazie. >> Sputò fuori dalla bocca, per niente sincera.

Doveva ammetterlo: aveva un orgoglio insormontabile.

Il ragazzo sorrise e indietreggiò di qualche passo.

<< Beh, adesso devo andare. Cerca di non perderti più nel bosco a quell'ora di notte, o potresti morire per mano di un assassino satanico! >> Esclamò, e Judith, se avesse potuto esprimere un desiderio, avrebbe chiesto sicuramente di potersi nascondere sotto terra in quel preciso istante.

Che idiota. Non la conosceva neanche e già la stava prendendo in giro?

<< Divertente. >> Rispose lei, sarcastica.

Il ragazzo sorrise nuovamente e la salutò con un “Ci si vede!” per poi iniziare a camminare nella direzione opposta alla casa di suo padre.

Notò con stupore che le sue spalle erano grandi, sembravano quasi quelle di un uomo, nonostante fosse anche lui un ragazzino di sedici anni o poco più.

A proposito, ma chi era quel ragazzo?

<< A-aspetta! >> Lui, al richiamo di Judith, si voltò e rimase in silenzio, in attesa di un continuo.

<< Come ti chiami? >> Gli chiese, quasi inconsapevolmente.

Lui inizialmente sembrò perplesso, ma infine l'unica espressione che si venne a creare sul suo volto fu un ghigno soddisfatto.

<< Johnny Depp! >> Le rispose ricominciando a correre, ma non prima di averle donato l'ennesimo sorriso strafottente.

Judith sospirò, sconsolata, e quando rialzò lo sguardo notò che era già parecchi metri lontano da lei.

<< Stupido! >> Gli gridò, sperando che la sentisse e che non tutti in quella città fossero così dannatamente stupidi.

Si lasciò trascinare dai suoi piedi ormai al limite delle forze fino alla porta di casa, e quando se la richiuse alle spalle e si guardò al piccolo specchio nel corridoio, fu decisamente poco felice di constatare che era davvero uscita con addosso il suo pigiama con gli orsacchiotti.

Se avesse rivisto quel ragazzo -e sicuramente l'avrebbe rivisto, dato che c'era solamente una scuola superiore, a Buldwick-, l'avrebbe presa in giro fino allo sfinimento.

Già lo detestava.

 

Eppure, sentiva ancora la strana sensazione di prima provocarle un certo fastidio proprio lì, all'altezza dello stomaco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-Angolo autrice-

Ed eccomi tornata con il primo capitolo :D

Adesso, finalmente, è iniziata la storia vera e sono comparsi tre personaggi: Judith, Mark e Johnny Depp. LOL no dai, volevo cercare di essere simpatica ma non mi riesce. Comunque, se avete anche letto l'introduzione della fic, penso avrete già capito chi sia questo ragazzo che ha salvato Judith dalle grinfie del suo assassino immaginario xD

Che dire, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Io non sono molto convinta dell'ultima parte, la trovo un po' confusionaria...ma è stato il meglio che ho saputo fare D:

Per adesso non abbiamo ancora scoperto il perché del trasferimento della nostra protagonista, anche se qualcosa ho accennato. Comunque, nei prossimi capitoli spiegherò tutto!

Ringrazio chiunque abbia letto sia il prologo sia questo capitolo, chi ha inserito la fic fra le seguite e chi addirittura fra le preferite *-* Davvero, non me l'aspettavo. Grazie!

E un ringraziamento speciale va alla mia compagna di sproloqui senza né capo né coda, che continua a leggere le cavolate che scrivo e che si è premurata di lasciarmi una recensione che mi ha reso estremamente felice.

Lo sai che ti adoro <3

Detto questo, a presto!

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Capitolo 3
*** Il solito -o no?- primo giorno di scuola ***


La mattina dopo, Judith si svegliò inaspettatamente di buon'umore: tanto che, non appena la sveglia suonò precisa alle otto in punto, la spense con un gesto tranquillo e non la scaraventò a terra come faceva solitamente.

Si mise a sedere sul suo letto e si stiracchiò, sbadigliando, per poi alzarsi e dirigersi verso il bagno.

Ma non fu in grado di raggiungere la sua meta, dato che, non appena aprì la porta della sua stanza, si ritrovò suo padre ancora in pigiama davanti agli occhi, il quale le sorrise amorevolmente.

Prima che Judith potesse pensare di dire qualcosa, Mark le mostrò quella che sarebbe stata la sua divisa scolastica.

<< Carina, vero? Ti starà benissimo! >> Esclamò gioioso, poggiandogliela fra le mani e sgattaiolando in direzione del bagno.

Judith, ancora assonnata, fece retro-front e stese gli indumenti sul letto, osservandoli dubbiosa: davvero, ma dove diavolo era capitata? Non pensava che a Buldwick utilizzassero ancora le divise scolastiche. Alla scuola pubblica che aveva frequentato a Bristol -la città in cui aveva sempre vissuto- le divise erano ormai passate di moda e non era mai stato obbligatorio indossarle, per quel che ne sapeva lei. Se le sue amiche l'avessero vista con indosso quella roba l'avrebbero presa in giro fino allo sfinimento!

Ma di questo non doveva di certo preoccuparsi: dopotutto, le sue amiche non c'erano. Non c'era nessuno, nessuno che lei conoscesse davvero, a Buldwick.

 

Dopo essersi fatta una bella doccia fredda ed essersi sistemata i capelli nel miglior modo possibile -una coda alta era già troppo, per i suoi canoni-, andò difronte allo specchio vicino all'armadio e si mise la divisa: calzettoni bianchi, gonna grigia e svolazzante, camicia bianca e cravatta nera. E in più un maglioncino bordeaux da indossare sopra la camicia nel caso facesse più freddo.

Judith pensò che non poteva di certo lamentarsi di tutto quello che c'era in quel cavolo di paese...ma dai, quella divisa faceva schifo.

Sospirò, sconsolata, ed uscì dalla stanza con lo zaino in spalla ed il suo buon'umore ormai da un'altra parte.

 


 

Mark parcheggiò la macchina proprio davanti all'entrata della scuola, così che Judith potesse avere modo di osservarla bene dal finestrino: non era molto grande, ma non era neanche un buco come si era immaginata. Certo, niente in confronto a quella che aveva frequentato a Bristol, ma in fondo della scuola non gliene era mai importato molto, nonostante fosse sempre stata una studentessa nella media e non avesse mai dovuto ripetere un anno scolastico.

L'edificio era contornato da un cortile abbastanza grande, mentre le mura erano di un colore giallognolo, spento. Dava l'idea di essere una scuola molto vecchia, e questo spiegava l'abbigliamento “tradizionale” degli studenti.

<< Esci da scuola alle 15.30, giusto? >> Suo padre la riportò alla realtà e lei annuì, presa alla sprovvista.

<< Bene, sarò qui per quell'ora. >>

Judith gli sorrise, intenerita dalla premura che Mark le stava dimostrando in quei giorni, e gli schioccò un bacio sulla guancia, per poi scivolare fuori dall'auto alla velocità della luce, rossa in viso.

Non avrebbe potuto dire di essere la persona più affettuosa del mondo, ma un cuore ce l'aveva persino lei. Un cuore un po' malconcio, ferito, ma che sapeva dare e ricevere amore, nonostante tutto.

E lui restò così, immobile, quasi shockato dal gesto affettuoso di Judith: un affetto che non sentiva più da molto tempo, sulla sua pelle. Ma la colpa, alla fine, era in gran parte sua.

Mise in moto, non prima di aver lanciato un'ultima occhiata a sua figlia -la quale stava già entrando dentro la scuola- e partì in direzione del negozio di fiori in cui lavorava, con un sorriso sulla faccia che, ne era sicuro, non sarebbe riuscito a far scomparire per tutto il giorno.

 


 

Judith, dopo aver ritirato l'orario delle lezioni, uscì dalla segreteria e s'immerse nel corridoio del primo piano della scuola, che, in quel preciso momento, straripava di persone intente a dirigersi verso le aule in cui avrebbero avuto la prima lezione della giornata.

Non l'avrebbe mai ammesso, ma era dannatamente nervosa. Per lei era tutto così nuovo, diverso. Tutte quelle facce che le passavano accanto...lei non ne riconosceva neanche una.

Sospirò e strinse forte il foglio che aveva in mano: alla prima ora aveva Letteratura inglese con la professoressa Collins. Una delle poche materie che non la disgustavano totalmente, almeno.

Arrivò all'aula 5 in qualche minuto e deglutì, prima di aprire silenziosamente la porta. E, fortunatamente, constatò di essere stata una delle prime persone ad arrivare. All'interno della stanza vide soltanto tre persone: un ragazzo grande e grosso che sonnecchiava spudoratamente su uno degli ultimi banchi, una biondina seduta al primo banco intenta ad armeggiare col cellulare, ed un altro ragazzo, un tipetto magro e occhialuto, seduto accanto alla finestra.

Fece un grande sospiro ed entrò, sperando di non attirare troppo l'attenzione su di sé.

Dov'è finita tutta la tua sicurezza, Judith?!, si rimproverò, sentendo la campanella che segnava l'inizio delle lezioni suonare.

<< B-buongiorno. >> Esclamò, forse a voce un po' troppo alta.

Le reazioni conseguenti al suo saluto non furono delle migliori: la ragazza sbuffò, irritata per essere stata interrotta nel suo complicato lavoro col cellulare, il grassone continuò a dormire beatamente senza scomporsi, e l'occhialuto agitò la mano con fare maniacale, come se Judith fosse stata la prima persona a rivolgergli un saluto in tutta la sua vita.

Sconsolata, si diresse verso l'ultimo banco dell'ultima fila: si, era decisamente convinta del fatto che meno si sarebbe fatta notare, più la sua vita da liceale sarebbe stata priva di problemi.

Chiedeva solo questo: un po' di tranquillità -cosa che, negli ultimi tempi, non aveva visto nemmeno da lontano.

Entro pochi secondi la classe si era già riempita di ragazzi e ragazze della sua stessa età: c'era chi parlottava fra loro sulla presenza di una tipa mai vista e conosciuta, lì a Buldwick, dove tutti conoscevano tutti, e chi solamente -e Judith li ringraziava dal profondo del suo cuore, per questo- si faceva i fatti suoi, non guardandola neanche.

Ma non appena entrò una donna alta e snella, che doveva avere si e no una quarantina d'anni, ogni persona presente si zittì e il silenzio regnò sovrano per qualche minuto, finché quella che doveva essere la professoressa Collins non cominciò a fare l'appello.

<< ...Nichols? >> Quando chiamò il suo cognome Judith alzò la mano, sussurrando un “presente” con un tono che più insicuro di così non avrebbe potuto essere.

La professoressa la guardò stupita qualche attimo, per poi riprendersi e sorriderle. << Sei la figlia di Mark Nichols, allora. >> Continuò.

Judith inarcò un sopracciglio: suo padre doveva essere davvero un tipo conosciuto, in quel piccolo paese.

Annuì, cercando di risultare il più simpatica possibile, e si risedette al suo posto.

Se la mattinata fosse trascorsa così, senza alcun intoppo, si sarebbe sentita serena e soddisfatta di se stessa per non aver creato qualche casino il primo giorno di scuola -anche se era solamente il suo primo giorno di scuola a Buldwick, dato che erano già a metà Ottobre e quindi l'anno scolastico era iniziato da più di un mese.

Questo fu ciò che si disse, prima che si sentisse poggiare una mano sulla spalla, quando uscì dall'aula una volta finita la lezione.

Si voltò sorpresa e si ritrovò davanti una ragazzina che a prima vista avrebbe potuto benissimo sembrare una dodicenne.

<< Ciao, io sono Norah! >> Esclamò pimpante, con un sorriso smagliante sul volto alla vista del quale Judith per poco non rimase accecata.

<< C-ciao. >> Rispose, con un sopracciglio alzato e una domanda fissa in testa: che voleva quella ragazzina da lei?

Norah sembrò restare delusa dalla risposta fredda e distaccata di Judith, per cui la guardò in attesa di qualcos'altro.

<< Allora? >> Chiese poi, spazientita.

<< Allora cosa? >> La voce di Judith apparve leggermente stupita: ma che diavolo di situazione era quella?!

<< Me lo vuoi dire il tuo nome o preferisci che ti chiami Nichols per il resto della tua vita? >>

Judith spalancò gli occhi. Le opzioni erano due: o quella era pazza...o era pazza, basta, eliminò la seconda opzione. Capì dal fatto che già conosceva il suo cognome, che Norah era stata alla lezione di Letteratura inglese insieme a lei. Ma poi: 1-perché sembrava così impaziente di conoscerla? E, 2-...resto della sua vita? Eh?!

<< Mi chiamo Judith. >> Rispose tutto d'un fiato, guardando il viso imbronciato di quella strana ragazza. Il quale, pochi istanti dopo aver sentito ciò che voleva sapere, si tramutò nel sorriso caloroso di poco prima.

<< Nichols mi piace di più. Ti chiamerò così ugualmente. >>

E Judith, a quel punto, per poco non cadde a terra preda di una crisi di nervi.

<< Tu però chiamami Norah, il mio cognome fa schifo. >> La ammonì l'altra, toccandosi i capelli lisci e mori. Judith, quindi, sospirò alla conclusione ovvia che avrebbe dovuto riparlare un'altra volta con quella ragazzina, in un futuro prossimo.

<< Beh...io devo andare alla lezione di Filosofia, Norah. >> Calcò il tono sul suo nome, come si parla ad uno scemo, e l'altra sorrise.

<< Allora ci vediamo a pranzo, Nichols! >> E così quel piccolo uragano volò via così com'era venuto, dal nulla. Sparì fra la folla di persone all'interno del corridoio senza che Judith potesse ribattere dicendole che avrebbe preferito mangiare per conto suo, invece che con una ragazzina petulante.

Sbuffò e camminò il più velocemente possibile per non far tardi alla lezione.

Tanto, Norah non sarebbe neanche riuscita a trovarla, all'ora di pranzo.

 

E invece, suo malgrado, Norah riuscì a trovarla eccome.

Judith si diresse alla mensa e, preso quel poco di cibo che aveva voglia d'ingurgitare, si sedette in un tavolo un po' in disparte, da sola. C'erano tantissime persone dentro quella mensa, eppure a lei sembrava che fosse vuota, visto il silenzio che regnava nell'angolino in cui si era posizionata.

Finché la cara e dolce Norah non le si mise a sedere di fianco, ovviamente.

Judith restò con una patatina fritta a mezz'aria e la bocca mezza aperta, nel vederla correre nella sua direzione: cercò di escogitare un piano per fuggire o qualcosa di simile, ma Norah l'aveva già vista e in meno di due secondi l'aveva raggiunta.

<< Mi stavi aspettando? >> Le chiese, con la sua simpatica vocina squillante.

Judith avrebbe solamente voluto risponderle un semplice “no”, ma la mora la interruppe prima ancora che potesse proferire parola.

<< Sei nuova qui, vero? >>

<< Si. >> Rispose lei, decidendo quindi di non essere polemica, per una volta nella sua vita, e di parlare con quella ragazza finché non l'avesse lasciata in pace.

Voleva solamente starsene da sola. Non era come le ragazzine dei film che aveva visto, le quali il primo giorno di scuola erano soltanto desiderose di farsi tanti amici e di trovare il principe azzurro.

Lei gli amici ce li aveva già, ed erano a Bristol. E il principe azzurro, beh, quello se ne sarebbe potuto restare lì dov'era.

<< E da dove vieni? >> Le chiese, quasi fosse un alieno proveniente da un'altra galassia.

<< Da Bristol. >>

Alle parole di Judith, Norah spalancò la bocca e si portò le mani a coprirsi le guance.

<< Wooow! >>

E Judith si stranì, per l'ennesima volta: quella ragazzina era un concentrato di eccitazione e euforia! << È lontanissimo! >> Commentò la piccoletta, fregandole una patatina dal vassoio.

Judith le pizzicò una mano e non poté fare a meno di trattenere una risatina, ma poi si maledisse immediatamente: se le avesse dato spago non l'avrebbe più lasciata andare.

<< Abbastanza... >> Rispose con finta indifferenza.

<< Quanto ci hai messo ad arrivare fin qui? E com'è Bristol? >>

<< Beh, circa due ore andando in macchina, ma...perché mi fai queste domande? >> Insomma, lei non ci trovava niente di eccezionale in Bristol, anche se non era sicuramente paragonabile a quel buco di paese che era Buldwick.

Norah si piegò sul tavolo e poggiò la testa fra le mani incrociate, con sguardo sognante.

<< Devi sapere che non sono mai uscita da Buldwick in tutta la mia vita, Nichols. >> Disse, e Judith, se il suo orgoglio non avesse preso il sopravvento come sempre, le avrebbe poggiato una mano sulla testa in segno di conforto e comprensione. << E odio questo posto. >> Continuò poi con amarezza, e l'altra annuì con vigore. << Anch'io! >> Esclamò senza riuscirsi a controllare, facendo scoppiare Norah in una dolce risata.

Anche lei, quindi, sorrise, cercando di nascondersi il viso con i capelli biondi e lunghi.

Doveva ammettere che quella ragazzina, forse, non era poi così male. Almeno avevano qualcosa in comune: l'odio -quello di Judith, però, incondizionato- nei confronti di Buldwick.

E quindi, spinta da un qualcosa che non avrebbe saputo riconoscere neanche lei stessa, iniziò un dibattito acceso elencando, insieme a Norah, tutte le cose negative di quello schifo di paese in cui si era ritrovata a vivere: a partire dal fatto che non c'era mai campo per il cellulare da nessuna parte, fino ad arrivare alla questione spinosa della gente che lo popolava: se tu facevi qualcosa, a Buldwick, entro pochi giorni, eri già conosciuta da tutti.

Tutto merito dei ragazzini maleducati e delle vecchiette pettegole.

<< E poi d'estate è un vero mortorio, non c'è neanche un posto in cui farsi un bel bagno e ci rifugiamo tutti nella piccola villetta della signora Harvey, che possiede una piscina grandissima! Ma tu forse ne avrai viste di più grandi e di più belle, dato che vieni da Bristol, e poi... >> Norah continuò a sproloquiare senza sosta, sembrava non sentisse neanche il bisogno di respirare.

Ma Judith si era già persa alle parole “posto in cui farsi il bagno”, che le avevano ricordato il discorso fatto la sera prima insieme a suo padre.

Anche lui le aveva già detto che mai nessuno andava a nuotare nel lago che si vedeva da casa sua, eppure lei ancora non era riuscita a capirne il motivo.

<< Ehi, Norah. >> La interruppe così nel suo parlottare fra sé e sé e l'altra la osservò sorridendo. << C'è un lago, proprio vicino a casa mia. Tu sai perché non ci va mai nessuno? >> Le chiese, inspiegabilmente curiosa.

Norah assunse un'espressione divertita e Judith deglutì, in attesa di una risposta: si sentì stranamente a disagio, in quel momento.

<< C'è una leggenda riguardante quel lago, Nichols. >> Affermò sussurrando, quasi non volesse farsi sentire dalle altre persone presenti all'interno della mensa.

Judith alzò un sopracciglio e si avvicinò al suo viso, facendogli segno di continuare.

<< Si dice che, in un tempo lontano, una persona si sia annegata nelle acque del lago di Buldwick. Era un principe, o un conte, o... >> Ci pensò su qualche attimo, interrompendo così l'atmosfera lugubre che si era creata. << Insomma, qualcuno di importante. >> Squittì, irritata dal fatto che non riuscisse a ricordarsi bene chi fosse questo tale.

Judith ridacchiò e si zittì all'improvviso, quando Norah le poggiò l'indice sulle labbra. << E sai perché si è ucciso? >> Le chiese, e la bionda non poté far altro che rimanere in silenzio.

<< Per amore! Si dice che si fosse innamorato di una Divinità che vigeva sul lago, ma che il loro amore fosse già destinato a non essere vissuto. Per questo si uccise. Ma non è finita qui! La Divinità, dopo essersi resa conto di ciò che aveva provocato rifiutando il ragazzo, gli donò il suo cuore, e quindi la sua vita. >> Spiegò brevemente e con occhi sognanti.

Judith, ormai completamente incantata dalle parole di Norah, aprì leggermente la bocca.

<< Lui diventò la Divinità del lago di Buldwick. E le Divinità non devono essere disturbate, per questo nessuno si azzarda ad andare al lago: per paura di risvegliarla. Anche se siamo nel XXI secolo, cavolo! Non la trovi una cosa stupida? >>

Judith poggiò la schiena alla sedia e la campanella suonò improvvisamente, facendola sussultare.

<< Oh, adesso ho lezione di Chimica. Quella zitella della professoressa Cornery mi uccide se arrivo qualche secondo in ritardo! >> Affermò Norah, alzandosi e rimettendosi il maglioncino della divisa in fretta e furia. << Ci vediamo domani, Nichols! >>

Alle parole della ragazza Judith si destò dai suoi pensieri e voltò lo sguardo verso di lei, che come un fulmine era già corsa fuori dalla porta senza neanche aspettare una risposta. Ma dove trovava tutte quelle energie?!

Sospirò e, prima di alzarsi a sua volta, si poggiò una mano sul petto.

Perché il suo cuore stava battendo così forte e veloce?

 


 

Judith si tuffò sul suo letto e chiuse gli occhi, sfinita. Per tutto il viaggio da scuola a casa Mark le aveva fatto domande su domande riguardanti il suo primo giorno di scuola, e lei non aveva potuto far altro che rispondere a monosillabi, dato che, da quanto era stanca, le mancavano perfino le forze per parlare.

Suo padre poi era dovuto tornare a lavoro e l'aveva lasciata a casa da sola, e Judith l'aveva presa come un'opportunità per farsi una bella dormita.

A malincuore, quindi, si alzò dal suo letto con l'intenzione di mettersi qualcosa di comodo per non stropicciare la divisa scolastica durante il sonno e chiuse la finestra, avvertendo l'aria farsi sempre più fredda. Nel mentre, dette un'occhiata fugace all'orizzonte.

Sapeva cosa stava cercando, ma non la trovò. La luce che aveva visto la sera prima non c'era.

E...e se quella luce fosse stata...

Ma quel pensiero non ebbe neanche il tempo di concepirlo, dato che il suo cellulare squillò all'improvviso, facendola sussultare.

Lo prese e se lo portò all'orecchio destro, avvertendo la voce di suo padre dall'altra parte.

<< Tornerò per l'ora di cena, va bene? Se dovessi tardare, ti ho lasciato un po' di pasta nel microonde, devi solo riscaldarla. Prima mi sono dimenticato di dirtelo. >>

<< Ah, va bene...a dopo allora. >>

<< A dopo tesoro. >>

La telefonata s'interruppe e Judith si sedette nuovamente sul letto, continuando a guardare la finestra.

La Divinità...

Ma poi scosse la testa, indignata dai suoi stessi pensieri: cos'è, era tornata all'asilo? Credeva ad una stupida storiella del genere? Che idiozia!

Si alzò sospirando e fece per togliersi la divisa, cercando di non prestare attenzione alla forza sconosciuta che le stava ordinando di spostare lo sguardo sulla finestra e a cui lei, poi, non poté che obbedire, troppo giovane e immatura per cercare di comportarsi da adulta.

E la vide.

Si portò le mani alla bocca e per poco non gridò, non appena rivide quel puntino di luce debole e bianco oscillare nelle acque del lago.

Il cielo era chiaro, il sole splendeva in tutta la sua bellezza.

Ma lei non riuscì a vedere altro che quel puntino luminoso, e prima che se ne accorgesse, si era già catapultata fuori di casa e aveva cominciato a correre fra gli alberi del piccolo bosco che doveva attraversare per arrivare al lago. Ovviamente in quel momento ci vedeva, al contrario della sera prima, dato che era ancora pieno giorno.

E, senza che se lo potesse spiegare, avvertì quella sensazione: era impaziente, non riusciva a controllare neanche le proprie gambe, mentre saltava i cespugli e spostava i rami degli alberi che le intralciavano il percorso.

Correva a più non posso, neanche fosse una questione di vita o di morte, soltanto per uno stupido presentimento, o sensazione, o quel che era.

Non si era mai sentiva più stupida in tutta la sua vita.

E dopo meno di una decina di minuti di corsa sfrenata, finalmente in mezzo agli alberi cominciò ad intravedere qualcosa: una distesa d'acqua chiara, pulita, quasi trasparente.

Salì su una piccola roccia e la scavalcò, per poi cadere prepotentemente a terra nel vano tentativo di saltare e restare in piedi, presa dall'eccitazione del momento.

La caduta provocò un forte tonfo -tralasciando le imprecazioni provenienti dalla povera malcapitata, che si lamentò per il dolore per una buona manciata di secondi-, e quando Judith si rialzò, il suo sguardo incontrò due occhi conosciuti, che si stavano pian piano avvicinando: gli occhi del colore degli alberi in cui era sprofondata la sera prima.

<< Guarda chi si rivede! >> Quella voce la fece indietreggiare di qualche passo, quando ormai lui fu vicino.

Era del tutto incapace di parlare, in quel momento. Qualunque cosa avesse potuto dire non sarebbe stata adeguata, le sarebbe sembrata stupida o priva di senso.

 

Perché fu in quel preciso istante, che Judith si accorse che la luce magnetica di cui era stata succube proveniva da quel ragazzo.

Ma non era una vera e propria luce, lo sapeva perfettamente anche lei. Nessun essere umano emana luce dal proprio corpo.

Era solo una specie di forza, era come se il suo corpo le stesse chiedendo di avvicinarsi sempre di più, ancora di più. E fu quello che fece: lentamente, con una mano sul cuore, si avvicinò a quel ragazzo e gli toccò il petto nudo e bagnato dall'acqua del lago.

<< Sei tu... >>

Lui la guardò stupito, non capendo dove quella ragazzina volesse andare a parare, e poggiò la sua mano su quella di Judith, che stava proprio nel punto in cui batteva il suo cuore.

<< Cosa? >>

Judith alzò lo sguardo e di nuovo incontrò quegli occhi, che per poco non le mozzarono le parole in gola.

<< La Divinità. >> Sussurrò tutto d'un fiato, prima che il ragazzo scoppiasse in una fragorosa risata.

La quale destò Judith dal suo stato di trance e la riportò alla realtà, facendola arrossire spudoratamente rendendosi conto di ciò che era appena uscito dalla sua bocca.

Ma era forse andata completamente fuori di testa?! Che diavolo si era messa a farneticare?

Si portò le mani a coprirsi la bocca e fece per correre via, prima che si sentisse tirare per la camicia della divisa scolastica.

Non voleva girarsi, non voleva proprio voltarsi verso colui che le aveva riso in faccia spudoratamente solo per prenderla in giro. Ma non poteva di certo biasimarlo, dopo le stupidaggini che si era messa a dire.

<< Aspetta. >> La fermò, parandosi davanti a lei. Le tolse le mani dalla faccia e Judith poté guardarlo meglio, accorgendosi finalmente che indossava solamente un costume da bagno.

<< Mi dispiace deluderti, ma non sono io la Divinità del lago. >> Ammise lui, tentando di non scoppiare a riderle in faccia per la seconda volta.

Judith si maledisse con ogni parolaccia conosciuta su questo mondo e deglutì, voltandosi di nuovo.

<< Lo so, cosa credi? Stavo solo scherzando! >> Ma il tentativo di rimediare a ciò che aveva fatto fu vano, dato che lo sentì ridacchiare di nuovo alle sue spalle.

Quello stupido. Divinità? Tsk, quell'idiota era solo un ragazzino immaturo cresciuto in campagna.

Ma lei non era di certo da meno.

Sospirò, sconsolata, e si sedette sulla riva del lago, stando ben attenta a coprirsi per bene con quella gonna fin troppo corta per una che era sempre stata abituata a portare jeans su jeans.

<< Hai finito? >> Esclamò poco dopo, quando lui le si sedette accanto e la guardò sogghignando.

<< Di far cosa? >> Chiese, con l'aria più innocente che avesse mai potuto avere.

<< Di prendermi in giro! Non sai neanche come mi chiamo e già ridi di me. >>

Il ragazzo sorrise e spostò lo sguardo verso il lago.

<< Io sono Nathan. E tu come ti chiami? >>

A quelle parole Judith lo guardò sorpresa e strinse le mani poggiate a terra in due pugni.

Nathan. Un nome così stava bene insieme a quel viso così bello.

<< Judith. >>

Nathan sogghignò e le poggiò una mano sulla spalla, alzandosi in piedi.

<< Bene, Jud. Adesso so il tuo nome e potrò prenderti in giro quanto voglio, no? >>

Lei lo guardò malamente e si alzò, confermando l'idea che si era fatta di lui, ma che avrebbe quasi fatto passare in secondo luogo, se non fosse stato per quella domanda stupida.

Una domanda stupida detta da una persona stupida, cosa c'era di più semplice?

E poi, come diavolo l'aveva chiamata?!

<< Ci vediamo domani a scuola. Adesso che so che ci sei anche tu, credo proprio che verrò... >> Esclamò, indicando la divisa indossata dalla ragazza. << ...ho il presentimento che mi farai divertire. >>

Dopo queste parole, s'infilò la maglietta e le diede un buffetto sulla fronte, al che lei sbuffò rassegnata.

<< Fai come ti pare, idiota. >> Gli rispose, voltandosi ed iniziando a camminare in direzione del bosco, desiderosa di lasciarsi alle spalle la stupida idea che aveva avuto di andare al lago, quel giorno.

Lui ridacchiò. << Anche io ti trovo simpatica, Jud! >>

E Judith, come risposta, gli mostrò il suo bellissimo dito medio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

-Angolo autrice-

Buonasera gente -sera ormai inoltrata, ma vabbé :D

Allora...boh, non so mai cosa dire in questo piccolo angolo, per cui alla fine finisco sempre per scrivere cavolate, ma stavolta cercherò di contenermi.

Bene, e siamo al secondo capitolo: è entrata in scena Norah e finalmente abbiamo scoperto che quel ragazzo non era, ahimé, il caro Johnny Depp -ma va?

Nathan è un ragazzo particolare, ma anche la nostra Judith lo è, indi per cui non aspettatevi cuoricini, fiorellini e sbrilluccichii, in questa storia.

Insomma, tornando a noi. Grazie come sempre a tutti quelli che hanno letto i capitoli precedenti, spero che anche questo vi sia piaciuto!

Un bacio e buonanotte <3

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Capitolo 4
*** Pioggia ***


Judith entrò ormai fradicia dentro l'appartamento in cui viveva, chiudendosi la porta alle spalle e sospirando pesantemente. Possibile che avesse iniziato a piovere proprio il giorno in cui aveva deciso di uscire con George? Possibile che fosse davvero una persona così sfigata?

Si levò il giubbotto bagnato e lo lanciò irritata contro il termosifone della cucina, poi si tolse le scarpe per non sporcare di terra e fango il pavimento -tanto sapeva che ci avrebbe dovuto pensare lei a ripulirlo, più tardi.

<< Mamma? >> La chiamò a gran voce, percependo uno strano silenzio. Sua madre non era solita uscire di casa, anzi, precisamente non si ricordava neanche quando fosse stata l'ultima volta che aveva lasciato il loro appartamento, se non per andare a pagare qualche bolletta o ritirare la posta.

Inarcando un sopracciglio aprì leggermente la porta della camera di Rachel. << Mamma, sei qui? >>

Judith entrò, ma sua madre non c'era.

Si lasciò cadere il braccio -ancora alzato per mantenere la presa sul pomello della porta- lungo i fianchi, credendo per un attimo di essere entrata nell'appartamento sbagliato: perché sua madre non c'era, in quella stanza. Effettivamente, non c'era proprio un bel niente, in quella stanza!

Spostò lo sguardo sull'armadio aperto e ormai vuoto, sul letto disfatto e sui comodini su cui solitamente stavano tutte le cianfrusaglie di sua madre, ma che in quel momento erano solo dei semplici comodini, vuoti come tutto il resto della stanza.

<< Ma che diavolo...? >> Non riusciva a capire. Judith, la ragazza che sapeva sempre cosa fare in qualsiasi situazione, in quel momento stava in una fase di stallo: indecisa sul da farsi, completamente ignara di ciò che la stava aspettando.

Entrò pian piano, come se fosse la prima volta: dopotutto, non la riconosceva affatto. Quella non era la camera di sua madre. Non lo era più.

Non c'era più niente, non un solo oggetto che le potesse dare la conferma che sua madre fosse veramente esistita. Niente. Come se Rachel non avesse mai dormito su quel letto, come se non avesse mai usufruito di quell'armadio e di quella stanza.

Praticamente ancora troppo sconvolta per capire cosa stesse accadendo, Judith uscì e si richiuse la porta alle spalle. Poggiò la schiena contro di essa e scosse la testa, in un vano tentativo di levarsi le immagini viste poco prima dalla mente.

Poi riaprì la porta, ma la situazione non cambiò.

Così, presa dal panico, corse in camera sua, ma la trovò identica al solito: piccola e un po' disordinata, ma tutte le sue cose erano al loro posto.

Che diavolo stava succedendo?!

Si stropicciò gli occhi: che fosse impazzita tutto d'un colpo? Aveva sempre saputo di non essere una persona molto normale per certi aspetti, ma che soffrisse persino di allucinazioni...questa le era nuova.

Chiuse la porta della sua camera e tornò verso la cucina, cercando di notare il più piccolo dettaglio diverso dal solito all'interno della sua piccola abitazione.

Ma non vi trovò niente.

Se non un biglietto con accanto qualche banconota sul tavolo della cucina.

Senza pensarci due volte ci si catapultò e prese i soldi in mano: erano circa 150 sterline. Li aveva messi lì sua madre? E dove diavolo aveva trovati quei soldi?!

Sempre più stranita, li poggiò nuovamente sul tavolo e prese in mano il biglietto. Aveva quasi paura di aprirlo. Aveva quasi paura di scoprire cosa fosse realmente accaduto.

Contò fino a tre nella sua mente e lo aprì con un gesto fulmineo.

 

Spero che questi soldi ti basteranno. Tornerò presto, te lo prometto.

Mamma.”

 

 

 

 

 

 

Gli occhi di Judith si spalancarono, quando il rumore forte di un tuono e la luce di un lampo interruppero il suo sonno.

Si alzò a sedere sul letto e si guardò intorno, confusa: era in camera sua. Quella di Buldwick, però.

Sospirando si lasciò cadere all'indietro, trovando il cuscino ad aspettare impaziente l'arrivo della sua testa. Poi si portò una mano sulla fronte, trovandola irrimediabilmente calda e bagnata dal sudore.

Era stato solo un sogno? Avrebbe tanto voluto che la risposta fosse un “si”.

Purtroppo, sogni del genere erano ricorrenti. Ma non erano sogni, erano ricordi.

Ricordi di una sera fresca e piovosa. Una sera d'inizio Settembre.

Sospirò per l'ennesima volta e si alzò, stiracchiandosi: tanto lo sapeva, che quando faceva sogni del genere poi non riusciva più ad addormentarsi, ogni cavolo di volta.

E guardando l'orologio constatò che, fortunatamente, si sarebbe comunque dovuta alzare mezz'ora più tardi per andare a scuola.

Così, prima di uscire dalla sua camera e dirigersi verso il bagno, dette un'occhiata fugace alla finestra: si era dimenticata si chiudere le persiane e fuori pioveva a dirotto, quindi il vetro si era bagnato completamente.

Già, fuori pioveva. E Judith detestava i giorni di pioggia.

 


 

Il cortile della scuola straripava di studenti che non aspettavano altro che le porte si aprissero per ripararsi dalla pioggia e dal freddo.

Judith, quella mattina, nonostante fosse ancora Ottobre, era stata costretta ad indossare il suo giubbotto grigio sopra la divisa. Ma purtroppo il freddo lo sentiva comunque, e poggiata ad un muretto in disparte non faceva altro che tirarsi su i calzettoni che le scendevano fino ai piedi. Non si era neanche depilata decentemente le gambe, ancora mezza assonnata com'era. Ed il suo ombrellino blu stava facendo i capricci grazie al vento che soffiava scontroso, quasi prepotente, scompigliandole i capelli che le andavano inevitabilmente sul viso.

Non aveva mai desiderato così ardentemente come in quel momento di entrare dentro una scuola.

<< Merda! >> Gridò ad un certo punto, quando l'ombrello le sfuggì di mano dopo un forte colpo di vento e cadde in una pozza di fango. Tentò di ritirarlo su ma, purtroppo, ebbe modo di vedere che si era perfino rotto. Gli diede un calcio in un impeto di rabbia e voltò lo sguardo al cielo per accogliere la pioggia sul viso, ormai rassegnata all'idea che qualcuno stesse ovviamente cospirando contro di lei e le stesse portando una sfiga pazzesca.

Ma l'acqua non arrivò, non sentì neanche una goccia di pioggia batterle sul viso. Perché, al posto del cielo grigio e nuvoloso, si presentò davanti ai suoi occhi un ombrello rosso.

Si voltò quindi sussultando e vide l'ultima persona che avrebbe voluto ritrovarsi davanti in quel momento. Ma si sa, le sfighe non vengono mai da sole.

Nathan stava lì, a pochi centimetri da lei, con il cappuccio alzato sulla testa a coprirgli i capelli scuri e il solito ghigno sempre presente sul quel viso che avrebbe tanto voluto prendere a schiaffi.

Teneva l'ombrello rosso alzato sopra le loro teste ed alzò un sopracciglio, notando che l'unica reazione che ricevette dopo il suo gesto carino fu un'occhiataccia.

<< Simpatica come al solito, eh? >> Le chiese, evidenziando la forte nota sarcastica che a Judith di certo non sfuggì.

<< Ed io che mi sono alzato presto per venire in questo schifo di posto solo per te. >> Affermò poi, con un finto tono affranto e addolorato, posandosi una mano sul cuore.

<< Oh, immagino. >> Rispose altrettanto sarcastica lei, spostando lo sguardo verso la scuola: stavano aprendo le porte, era il momento adatto per scappare da quella situazione.

<< Ma dico sul serio! >> A quelle parole Judith ripuntò gli occhi sul ragazzo, aprendo leggermente la bocca. Doveva smetterla di guardarla con quegli occhi così...così...

<< Solitamente non ci venivi a scuola? >> Gli chiese subito dopo, un po' per curiosità ed un po' per non farsi ulteriori seghe mentali pensando ai suoi fottutissimi occhi.

<< Mi ero preso una pausa. >>

Lei alzò un sopracciglio. Nathan aveva iniziato a camminare tirandola per la manica del giubbotto, probabilmente per farla restare sotto l'ombrello nel mentre si dirigevano verso il portone ormai aperto dell'edificio in cui avrebbero dovuto trascorrere la loro triste e noiosa mattinata.

<< Perché? >>

Ed ecco che si ritrovò nuovamente quegli occhi puntati su di lei, sul suo viso, che la scrutavano attenti. Sospirò. Ma è così difficile farti i fatti tuoi per una volta, Judith?

<< Non te lo dico. >> Detto ciò, le scompigliò i capelli e la sorpassò, immergendosi nella marea di persone che affollava il corridoio della scuola.

Judith lo guardò allontanarsi, riusciva a vederlo distintamente nonostante tutta quella gente.

Com'era successo la seconda volta che era corsa al lago, il giorno prima. Non aveva visto nient'altro che lui, dalla finestra della sua camera. Quella che lei aveva sempre riconosciuto come una luce misteriosa l'aveva trascinata da quel ragazzo per ben due volte.

Parlare con lui era facile, dopotutto. Ed anche se non sapeva niente di Nathan, anche se lo disprezzava per i suoi modi di fare stupidi e arroganti...in quel momento c'era solo lui. Tra tutte quelle persone, lei vedeva solo Nathan.

La luce di Nathan. La forza magnetica di Nathan che l'aveva spinta ad avvicinarsi a lui passo dopo passo.

L'attirava, proprio come una calamita.

Perfino in quel momento le fu difficile controllarsi, mentre lo vedeva camminare lontano da lei, noncurante dell'effetto che aveva avuto quell'ultimo suo strano e incomprensibile gesto. Lo guardava da dietro, e nonostante avesse il fisico di un ragazzino, magro e asciutto -come aveva avuto modo di notare il giorno prima, quando l'aveva visto praticamente mezzo nudo- a Judith la sua schiena sembrava davvero quella di un uomo.

Si portò le mani alla gola, tossendo. Ancora immobile davanti all'entrata della scuola, lo vide svoltare l'angolo alla fine del corridoio e sparire dalla sua vista.

Si sentiva soffocare.

 


 

Per sua sfortuna, alla terza ora se lo ritrovò perfino alla lezione di matematica. Lo vide entrare nell'aula mentre parlottava con un gruppetto di ragazzi di cui lei non conosceva neanche l'esistenza. Rideva fragorosamente, attirando l'attenzione di parecchie persone. Doveva essere abbastanza conosciuto e adorato da tutti, dato che la gente appollaiata sui banchi, appena lo vide, si catapultò direttamente al suo fianco.

E fu in quel momento che si sentì un po' meno stupida: allora, forse, non era l'unica succube della sua capacità di attirare a sé le persone.

<< Ehi, ti vuoi spostare o hai intenzione di restare qui impalata ancora per molto? >> Quelle parole scontrose la destarono dai suoi pensieri, e stupita si voltò in direzione della persona che le aveva pronunciate.

L'aveva già vista da qualche parte, quella biondina che in quel momento la fissava con sguardo astioso. Forse alla mensa, o prima in cortile, o...

Ma non era di certo il caso di riflettere sul luogo in cui l'avesse già vista, vista la situazione che si era creata. Ma che voleva quella smorfiosa da lei?

Aggrottando le sopracciglia fece un passo in avanti, pronta a rispondere a tono a quella che reputava una bella provocazione.

Aprì la bocca per parlare, ma le parole non ebbero modo di uscirne.

<< E tu vuoi smetterla di fare la rompipalle, Amanda? >>

Al fianco di Judith, con quella frase ad effetto, si parò Norah: mani sui fianchi ed occhi chiusi a due fessure puntati sul personaggio cattivo della situazione.

Judith la guardò divertita: sembrava una sorta di paladina della giustizia.

<< A te non ho chiesto niente, stupido microbo. >> Rispose con fare altezzoso Amanda, per poi superarle ed entrare nell'aula non appena suonò la campanella.

Norah, per tutta risposta, le diede un calcio sul sedere e l'altra per poco non cadde a terra, se non ci fosse stato il banco a fermare l'imminente figura di cacca che stava per fare.

La biondina si voltò digrignando i denti e fece per afferrarle i capelli, quando il professore entrò in classe e la trattenne parandosi davanti a Norah.

<< Ancora, ragazze? Quand'è che la smetterete di comportarvi da bambine?! >> Sbuffò irritato, facendo segno alle due di raggiungere i loro banchi.

Judith fu l'ultima ad entrare in classe, ancora sbalordita per ciò che era appena successo: insomma, si stava per scatenare una rissa fra ragazzine inferocite e nessuno aveva alzato un dito per fermarle!

Ma dalla reazione del professore quella non doveva essere la prima volta che capitava...però...

Lei non ci era abituata, cavolo.

Sospirò e si sedette di fianco alla moretta che qualche minuto prima l'aveva difesa, guardandola insistentemente.

Lei, evidentemente sentendosi osservata, ricambiò l'occhiata: sembrava ancora arrabbiata, era decisamente diversa da come si era mostrata il giorno prima.

<< Allora anche per te non è tutto rose e fiori. >> Le sussurrò all'orecchio, cercando di scappare all'occhio vigile dell'insegnante.

Norah ridacchiò. << Allora non mi detesti come pensavo, Nichols. >>

Judith si allontanò dal suo orecchio e la fissò stupita: pensava non si fosse resa conto di quanto il giorno prima fosse stata infastidita dalla sua presenza, inizialmente. Arrossì leggermente, spostando lo sguardo sulla lavagna, mentre l'altra continuava a guardarla sorridendo.

Che le avrebbe dovuto dire? “Si, invece ti detesto?”

Norah, in fin dei conti, aveva solamente cercato di essere gentile, anche se aveva dei modi di fare un po' strani ed eccentrici. Poteva sembrare invadente, ma a quanto pareva lei era risultata invece fin troppo scontrosa e diffidente, ai suoi occhi.

Sospirò. Non se lo meritava. E dopotutto, non la detestava di certo.

In fondo, ormai stava a Buldwick, no?

Già. Avrebbe dovuto rassegnarsi finalmente all'idea e abbandonare i suoi desideri irrealizzabili. È vero, gli amici ce li aveva già, a Bristol. E fino a quel giorno aveva sempre pensato che non avrebbe avuto bisogno di farsene di nuovi.

Ma questo non voleva dire dover fare l'antipatica con persone che si erano dimostrate gentili, nel suo caso Norah.

<< Già. >> Le rispose quindi, tornando a guardarla. Una semplice parolina, niente di speciale e affettuoso. Ma accompagnata da un sorriso intenerito, quasi dolce.

Se il suo orgoglio non le permetteva di esprimere a parole apertamente e senza limiti ciò che provava, poteva farlo con i gesti. L'aveva sempre pensata così.

E a Norah, fortunatamente, sembrò bastare.

Prima che avesse modo di rispondere, però, quest'ultima si sentì colpire alla testa da qualcosa di leggero, che poi realizzò essere un bigliettino, quando se lo vide cadere davanti agli occhi. Lo prese sospirando, già capendo chi fosse la persona che glielo aveva spedito. “A casa ti uccido”, così c'era scritto.

Scoppiò a ridere, voltando lo sguardo verso Amanda, la quale la guardava malamente. Judith le pizzicò un braccio, sussurrandole di fare più piano, ma quell'avvertimento non servì a niente, dato che il professore si voltò comunque indispettito verso di loro.

<< Cosa avete da ridere voi due?! >> Le sgridò, sbattendo le mani sulla cattedra.

Judith avrebbe voluto ribattere dicendo che lei non stava affatto ridendo, ma un po' per solidarietà -e un po' perché stava ancora cercando di far smettere Norah di ridere- non riuscì ad opporsi e l'uomo finì per buttarle fuori dalla classe entrambe, irritato.

<< Ma che diavolo ti è preso?! >> Sbottò nei confronti di Norah, la quale si asciugò una lacrimuccia scesa per il troppo ridere e la guardò, porgendole il bigliettino.

Judith lo lesse e non capì per niente cosa significasse quella frase. << Chi te l'ha mandato? >>

<< Amanda. >> La mora si sedette per terra, poggiando la schiena al muro, e Judith fece lo stesso, fissandola stranita.

<< È mia sorella. >> Spiegò.

L'altra spalancò gli occhi, decisamente sorpresa: dovevano avere davvero un bel rapporto allora, vista la litigata di prima!

<< In realtà è la mia sorellastra. >> Continuò Norah, appallottolando il bigliettino fra le mani. << È la figlia del marito di mia madre. Non andiamo molto d'accordo, ma penso tu l'abbia già capito. >> E a quel punto ridacchiò, ma era una risata un po'...malinconica. << Siamo conosciute da tutti per i nostri litigi parecchio frequenti! >>

Judith la osservò attentamente, notando un certo cambiamento in lei rispetto al giorno prima. La prima impressione che le aveva dato era stata quella di una ragazzina fastidiosa che non sa niente del mondo che la circonda, che non ha problemi e che sorride sempre. Ma, come si suol dire, non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina.

L'espressione di Norah, in quel momento, non era delle più felici. Non era l'espressione solare e gioiosa che le aveva mostrato il giorno prima.

Forse anche lei, alla fine, indossava una sua personale maschera, di tanto in tanto.

Proprio come tutti. Ed anche come lei.

<< Questa situazione ti fa star male? >>

Norah si voltò di scatto a quelle parole, sorpresa. Davvero Judith Nichols le aveva chiesto qualcosa di simile? E in un modo così...preoccupato?

Sorrise. << Te ne parlerò un'altra volta! >> Esclamò quando vide la testa del professore uscire dalla porta dell'aula per richiamarle all'interno, preoccupato che combinassero qualche casino nel corridoio.

E Judith ricambiò il sorriso.

Un po' più sinceramente, questa volta.

 


 

<< Puoi andare a casa se vuoi, non c'è bisogno che aspetti qui con me. >> Affermò Judith, sentendo l'ennesimo starnuto di Norah.

La pioggia cadeva ancora incessantemente su di loro, che erano rimaste le uniche davanti all'entrata della scuola.

<< Ti ho già detto che non ti posso lasciare da sola mentre aspetti tuo padre! >>

L'altra sospirò, rendendosi conto di quanto fosse grande la cocciutaggine di Norah. Va bene, quel giorno in confronto a quello precedente era stata più carina e gentile nei suoi riguardi, non si era neanche lamentata quando Norah si era seduta al suo tavolo nella pausa pranzo.

Ma così si sentiva decisamente oppressa, col fiato sul collo. Le doveva piacere davvero un sacco interpretare il ruolo della paladina della giustizia, eh? La guardò di sottecchi: piccola e minuta com'era non sarebbe riuscita ad alzare un dito per difenderla, nel caso fosse davvero arrivato qualcuno ad aggredirla in quel breve lasso di tempo in cui aspettava suo padre.

Poi sbuffò, contrariata nei confronti di se stessa.

Dopotutto, Norah stava solo cercando di mostrarsi amichevole...ma era un po' appiccicosa, solo un pochino. C'erano volte in cui sembrava quasi adorante nei confronti di Judith...ma cavolo, la conosceva da due giorni!

Il telefono squillò interrompendo i suoi pensieri e se lo portò all'orecchio, fiduciosa che fosse suo padre e che l'avrebbe avvertita che era solo in ritardo e sarebbe arrivato presto.

<< Tesoro, mi dispiace ma sono dovuto andare fuori città e sono rimasto bloccato nel traffico. C'è stato un'incidente, quindi tu avviati a casa, è inutile che stai ad aspettarmi con questo freddo. Te la ricordi la strada, no? >>

Le sue parole furono come un colpo dritto a quel poco di pazienza di cui disponeva.

<< Si, non preoccuparti. >>

Così chiuse la chiamata e spostò lo sguardo verso il cielo. Non aveva più l'ombrello, sarebbe arrivata a casa letteralmente zuppa.

Sospirò. << Mio padre non può venire, andrò a casa da sola. >>

<< Allora ti accompagno, sei senza ombrello! >> Le rispose pimpante l'altra, con un sorriso a trentadue denti stampato in volto. Sembrava che la notizia le facesse perfino piacere.

<< N-non ce n'è bisogno. >> Judith si voltò ed uscì da sotto la tettoia, accogliendo la forte pioggia sul proprio corpo.

Si tirò su il cappuccio del giubbotto e rabbrividì, cercando di non farlo vedere.

<< Ma ti prenderai un raffreddore! >> Obbiettò Norah, uscendo a sua volta e ricoprendola con l'ombrello.

Judith sbuffò: non la infastidiva la sua premura, solo che non voleva tutte quelle attenzioni. Lei non aveva niente in cambio da darle.

Così si voltò ed iniziò a camminare. << Ho un fisico forte, non mi ammalo così facilmente. Ci vediamo domani a scuola! >> Le gridò, sperando che non continuasse ad insistere. Poi, quando sentì il vuoto riecheggiare nei dintorni, voltò la testa per vedere dove fosse finita: la stava guardando in malo modo, come se la stesse rimproverando tacitamente.

<< Scema! >> Detto ciò, si voltò stizzita e corse lontano da Judith, la quale rimase completamente a corto di parole: che ci fosse davvero rimasta male?

Tutto sommato si sentì un po' in colpa, ma decise di non farci caso e tornò a camminare.

Erano tre giorni che era arrivata a Buldwick, ma non aveva ancora fatto un giro completo del paese. Gli unici posti che conosceva erano casa sua e dintorni, la scuola...e il lago.

Chissà se Nathan era andato al lago anche quel giorno.

Poi scosse la testa: no, non sembrava stupido fino a quel punto. Lo sarebbe stato davvero tanto se si fosse andato a fare il bagno con quel freddo e quella pioggia.

Si coprì le mani con le maniche del giubbotto e cercò di distinguere quale strada dovesse prendere, quando si ritrovò ad un incrocio.

Avrebbe davvero dovuto farsi mostrare il resto di Buldwick da qualcuno, solo che suo padre era sempre a lavoro, e quando tornava a casa sembrava più morto che vivo da quanto era stanco.

Nonostante tutto aveva già fatto abbastanza per lei, accogliendola in casa di punto in bianco e senza alcun preavviso. Certo, aveva fatto solo il suo dovere di padre, ma per un tipo come lui, che era stato assente nella sua vita per più di tre anni, doveva essere già abbastanza. E lei, dopotutto, non aveva bisogno dell'aiuto di nessuno.

Decise infine di svoltare verso destra, sperando di averci azzeccato e che non avrebbe finito per perdersi -per la seconda volta, se ricordiamo l'immensa stupidaggine che aveva commesso la prima sera che era arrivata a Buldwick.

Ma la sua camminata si dovette interrompere, quando vide difronte a lei, sull'angolo della via in cui si era addentrata, un ombrello rosso.

L'ombrello di Nathan.

Spinta da forze maggiori si avvicinò, curiosa: che ci faceva lui lì? Beh, forse era solamente andato da qualche parte e in quel momento stava tornando a casa esattamente come lei, o forse...

 

O forse si stava sbaciucchiando con una tipa.

Rimase totalmente immobile alla vista di due gambe infilate fra quelle di Nathan e di due braccia avvolte intorno al suo bacino, mentre due manine affusolate gli carezzavano la schiena.

Non vide la sua faccia, dato che era coperta da quella del ragazzo.

Trattenne il respiro. Lo sapeva che non era educato rimanere imbambolata a fissare due persone scambiarsi effusioni, ma in quel momento le sue gambe non volevano proprio saperne di muoversi.

Deglutì e scosse veloce la testa, chiudendo gli occhi. La pioggia cadeva ancora insistente su di lei e sentiva tanto, tanto freddo.

Sperò che appena riaperti gli occhi avrebbe sentito la stessa sensazione percepita quella mattina, quando Nathan l'aveva coperta con il suo ombrello per ripararla dall'acqua. Ci sperò sul serio, ma fu una speranza vana.

Perché quando riaprì gli occhi la pioggia la stava ancora bagnando e Nathan stava ancora appiccicato a quella ragazza.

Quella che doveva essere la sua fidanzata, evidentemente.

A meno che non fosse un tipo che si bacia o si porta a letto la prima che capita.

Ma lei che voleva saperne di lui, dopotutto? Si erano parlati...quanto? Tre volte?

Sospirò pesantemente -sperando che nessuno si accorgesse della sua presenza- e ricominciò a camminare, occhi puntati sulla strada e pugni chiusi dentro le tasche del giubbotto.

Si, quella era l'ennesima conferma che i giorni di pioggia facevano decisamente schifo!

 

 

 

 

 

-Angolo autrice-

Premetto che questo capitolo mi fa abbastanza schifo. È vero che non sono mai pienamente soddisfatta di ciò che scrivo, ma questo capitolo non mi piace proprio per niente, neanche una minima frase.

A partire dalla parte iniziale, che credo di aver scritto troppo frettolosamente, fino ad arrivare a tutto il resto: a parte che in questo capitolo non si dice molto, ho descritto solamente qualche leggero progresso nel rapporto fra Judith e Norah -accennando qualcosa in più sulla vita di quest'ultima- e poi c'è stata la scena finale, che forse vi avrà un po' spiazzato.

Beh, ve l'avevo detto che non sarebbe stato tutto rose e fiori fra Judith e Nathan xD

Cooomunque. Vabbé, io spero che a voi sia piaciuto.

Un bacio a chiunque segua la mia storia <3

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Capitolo 5
*** Di risate malefiche e tramonti ***


Lì, rannicchiata nel suo letto, sotto le calde coperte che l'avvolgevano proteggendola da ogni contatto col mondo esterno, Judith si malediceva con tutta se stessa per non aver accettato l'aiuto di Norah, qualche giorno prima.

La sua stupidità l'aveva solo portata a prendersi una bel febbrone, uno di quelli che ti tiene a casa una settimana, che non ti fa dormire la notte per il senso di nausea e che ti fa girare la testa ogni volta che provi ad alzarti. Anche in quel momento, poggiando i piedi sul pavimento e provando ad mettersi in piedi, sentì un forte capogiro e il corpo pesarle come un macigno.

Sarebbe stata più felice se fosse direttamente svenuta e se si fosse risvegliata in un altro posto, in un altro mondo. In un'altra vita.

Ricordava che, quando da piccola si ammalava in un modo simile, sua madre non le toglieva mai gli occhi di dosso, neanche per un secondo. Restava accanto a lei perfino tutta la notte, se necessario.

In effetti, sua madre era sempre stata una donna fuori dal comune: invece delle fiabe di principesse e streghe maligne, quando Judith non riusciva a dormire, le raccontata dei suoi amori passati o della sua gioventù.

La piccola Judith avrebbe tanto voluto diventare come la sua mamma, quando sarebbe stata più grande: una donna amorevole e felice, con il sorriso sempre stampato sulla faccia, una persona che non si faceva mai abbattere da niente e da nessuno, bellissima e corteggiata da molti uomini, ma che amava solamente il suo papà.

Questa era l'idea che la bambina più casinista e piagnucolona del quartiere in cui viveva insieme ai suoi genitori, si era fatta della donna che l'aveva messa al mondo.

Cazzate. Tutte cazzate.

 

Fu costretta ad alzarsi, a malincuore, quando sentì il campanello suonare insistente. Suo padre era a lavoro, come al solito, e sarebbe tornato entro l'ora di cena.

Sfortunatamente, erano ancora le quattro del pomeriggio e non avrebbe potuto fare affidamento su di lui neanche questa volta. Ma le andava bene così.

Si diresse alla porta trascinandosi lentamente lungo il corridoio, mettendo un piede difronte all'altro quasi a fatica. Dette un'occhiata fugace allo specchio appeso alla parete, prima di aprire la porta di casa: era orribile. Aveva un aspetto inguardabile, si sarebbe schifata se avesse visto in giro una persona messa come lei in quel momento: aveva una bella ragnatela di capelli arruffati sulla testa, un brufolo proprio in mezzo alla fronte e gli occhi arrossati, per non contare il pallore sconcertante della sua pelle.

Sospirò, tirandosi su il cappuccio della tuta da ginnastica che indossava per stare a casa, e quando aprì la porta fu accecata dalla luce del sole, così intensa e lucente che dovette coprirsi gli occhi con una mano per riuscire a vedere la persona difronte a lei.

Le si presentarono difronte dei lunghi capelli neri, lisci e lucenti, che contornavano un piccolo faccino e ricadevano su un corpicino minuto. Non le ci volle molto per collegare quelle fattezze all'unica persona che avrebbe potuto raggiungerla a casa, lì a Buldwick: Norah.

<< Chi era quella con il corpo forte, che non si ammala facilmente? >> Ironizzò quest'ultima, citando le parole dette da Judith pochi giorni prima.

Sul volto della bionda si disegnò un'espressione stupita, ma non infastidita come aveva creduto di vedere Norah. Sembrava solamente sorpresa della sua presenza, evidentemente inaspettata.

<< Nichols? >> La richiamò, passandogli una mano davanti al viso per attirare l'attenzione su di sé.

Judith le sorrise flebilmente, sospirando di rassegnazione: perché Norah era lì, in quel momento? Dopo il modo distaccato in cui l'aveva trattata, dopo l'evidente fastidio che le aveva dimostrato nel sentirla sempre interessata a stare in sua compagnia...cosa aveva di speciale, lei, per ricevere delle attenzioni da una persona così dolce?

<< Entra. >> Sussurrò, abbassando lo sguardo per non far notare il sincero sorriso che si era venuto a creare sul suo volto.

La piccoletta non se lo fece ripetere due volte ed entrò saltellando, osservando attentamente ogni più piccolo dettaglio del corridoio in cui si trovavano, curiosa e impicciona come era sempre stata.

Judith la prese per mano e la trascinò in quella che doveva essere la cucina, lasciandola basita a quel gesto: che la sua stupida Nichols si stesse pian piano lasciando andare, nei suoi confronti?

Perseverare, perseverare sempre!, si ripeté Norah nella sua testolina, sedendosi su una sedia del tavolo di legno posto in mezzo alla cucina.

<< Non hai un bell'aspetto. >> Esclamò, mentre la vedeva porgerle un bicchiere d'aranciata.

<< Lo so, lo so. Grazie per avermelo ricordato! >> Rispose Judith a tono, ridacchiando fra sé e sé. Quella ragazzina era incorreggibile!

L'altra ghignò e poggiò sulla superficie del tavolo una busta, che Judith aprì appena si mise a sedere a sua volta: conteneva un quaderno che, cominciando a sfgliarlo, constatò essere di letteratura inglese.

<< La Collins ha detto che qualcuno avrebbe dovuto farti avere gli appunti degli ultimi giorni, ed io mi sono offerta volontaria per portarteli. >> Precisò la mora, nel vedere lo sguardo confuso della compagna.

Judith tentò per un attimo d'immaginarsi la scena: la professoressa che diceva agli studenti che facevano letteratura inglese con lei, di portare a Judith Nichols gli appunti dei giorni in cui era stata assente, e loro -ovviamente, dato che era andata a scuola per soli due giorni- ignari perfino di chi potesse essere la ragazza in questione.

<< Grazie. >> Rispose all'unica che si era ricordata della sua esistenza, riservandole un sorriso appena accennato e stringendo il quaderno fra le mani.

Norah intanto era intenta a gustarsi il succo d'arancia, incurante di essersi macchiata la maglia con qualche goccia di liquido.

Che pasticcio di ragazza!, esclamò la bionda, dentro la sua testa.

L'altra le lanciò un'occhiata divertita. << Vedi cosa succede a non ascoltarmi? Ti sei ammalata e sei rimasta a casa per più di quattro giorni. Lo dicevo io, che sei una scema. >>

Judith, a quelle parole, spalancò la bocca e aggrottò le sopracciglia, per poi iniziare a ridere fragorosamente: era la febbre. Si, era sicuramente colpa della febbre se le parole di Norah le erano apparse divertenti.

Insomma, le stava dando della scema e lei era scoppiata a ridere?

In compenso, si dovette fermare per il dolore pulsante alla testa, e quando rialzò lo sguardo sulla persona seduta difronte a lei, la trovò con gli occhi spalancati e la mascella serrata.

<< Che c'è? >> Le chiese, asciugandosi qualche lacrimuccia scesa dai suoi occhi per il troppo ridere.

Norah deglutì ed esitò qualche secondo, prima di rispondere. << È la prima volta che ridi. Sei spaventosa, hai una risata malefica! >> Esclamò, puntandole un dito contro.

Judith inarcò un sopracciglio e per poco non le andrò di traverso quel poco di succo d'arancia che aveva bevuto dal bicchiere di Norah.

Va bene che non aveva un aspetto meraviglioso in quel momento, ma non che facesse addirittura paura!

Suo malgrado, però, non riuscì a trattenere un'altra risatina a quelle parole. Che situazione stupida, se fosse stata lucida non si sarebbe di certo divertita così tanto. Non se lo sarebbe permesso.

A Norah, comunque, non dispiaceva per niente vedere la sua Nichols così spontanea e sorridente quel giorno, quindi si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: se non fosse stata accolta in modo carino neanche quella volta, avrebbe cominciato a pensare davvero che Judith la detestasse veramente, anche se qualche giorno prima le era stato detto il contrario.

<< Ah! >> Attirò poi l'attenzione della bionda, come se si fosse ricordata di qualcosa di vitale importanza. << Sei invitata alla mia festa di compleanno, domani! Dopotutto è Domenica, credo che tu non abbia niente da fare, no? >> Esclamò pimpante ed esageratamente eccitata.

Judith tornò irrimediabilmente più seria e composta.

Parlando sinceramente, avrebbe tanto voluto evitare, lei non era portata per le feste e si sarebbe sentita sicuramente a disagio. Ma gli occhioni scuri di Norah, in quel momento, la stavano guardando in un modo così tenero e supplichevole che non poté fare a meno di farsi sfuggire un sorrisino, piccolo piccolo.

<< Ma non conosco nessuno... >> Sussurrò, tentando di dissuaderla.

Non era brava a fare amicizia e non li voleva neanche gli amici, lì a Buldwick.

Però, quei quattro giorni trascorsi in completa solitudine nella sua cameretta, non erano stati un granché. No, proprio per niente.

A Bristol sarebbe stato tutto più facile.

<< Appunto! Sarà un'occasione per conoscere un po' di gente, almeno qualche tuo compagno di scuola. >> Continuò la mora, facendo intendere che non avrebbe mollato la presa molto facilmente.

E Judith, quel giorno, non aveva proprio voglia di continuare a fare la sostenuta e la diffidente per i motivi illogici per cui aveva cominciato a comportarsi in quel modo, da quando era arrivata a Buldwick. Lei non era così, ed era stanca.

Per quanto potesse fingere che le andasse bene tutto questo, non era per niente vero.

Dentro di sé si sentiva scoppiare.

Avrebbe voluto urlare.

Sospirò e puntò nuovamente gli occhi in quelli di Norah, trovandovi soltanto la speranza che accettasse la sua proposta. Perché diavolo ci teneva così tanto?!

Improvvisamente, piombò nel silenzio che si era creato il rumore della suoneria di un telefono. Norah sussultò e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare nero, per poi portarselo all'orecchio dopo aver fatto una faccia stufata alla vista del nome comparso sulla schermo: Mamma.

<< Che vuoi? >> Chiese con un tono che Judith non aveva mai sentito da parte di Norah, neanche qualche giorno prima quando aveva bisticciato con Amanda.

Seguirono un paio di sbuffi e dopo qualche secondo riattaccò la chiamata.

<< Era mia madre, devo tornare a casa per badare a quello stupido di mio fratello mentre lei è a lavoro. Come se non potesse pensarci Amanda, una volta ogni tanto! >> Irritata, si alzò dalla sedia e si stiracchiò a dovere.

Judith si alzò a sua volta e annuì, per poi accompagnarla alla porta seguendo il passo veloce di Norah.

<< Beh, allora ti vengo a prendere domani alle 19.30! Non dimenticarlo, mi raccomando! >> E così, presa dall'euforia dei suoi stessi pensieri, si avviò correndo fuori dalla porta, non lasciando a Judith neanche il tempo di ribattere.

Quest'ultima gridò un “aspetta!”, tossendo per il mal di gola, ma l'altra non la sentì nemmeno, oppure fece solo finta di non sentirla.

Sospirando si richiuse la porta alle spalle, domandandosi se per il giorno dopo si sarebbe sentita almeno un pochino meglio, dato che era stata praticamente obbligata a partecipare a quella festa, e di certo non poteva andarci malaticcia com'era in quel momento.

Che palle.

Ma i suoi pensieri erano contrastanti rispetto alle sue azioni, dato che, guardando il quaderno che ancora stringeva fra le mani, un sorriso le si dipinse sulla faccia.

 


 

Mark uscì dal negozio e abbassò la saracinesca, dando un'occhiata al cielo che si estendeva sopra la sua testa: il sole era ormai calato ed entro poco sarebbe scomparso per dare spazio alla tonalità bluastra della sera, un colore che preannunciava l'arrivo della notte e sanciva la fine del giorno.

Adorava quel momento della giornata: era calmo e tranquillo, e lui era cosciente che fra non più di una decina di minuti si sarebbe ritrovato immerso nella sua vasca, intento a farsi un bel bagno caldo per scrollarsi dalla mente brutti pensieri e dal corpo le fatiche del lavoro.

Era anche preoccupato per la situazione di Judith: erano ben quattro giorni che se ne stava in camera sua, ne usciva solo per mangiare e per andare al bagno.

Nessuno era andata a trovarla, pur sapendo che fosse malata, dato che aveva avvertito lui stesso la scuola. Possibile che non si fosse fatta neanche un amico? Anche se aveva frequentato le lezioni solamente per pochi giorni, avrebbe dovuto fare la conoscenza almeno di qualcuno.

Ma, forse, si stava solamente preoccupando inutilmente.

Si avviò così verso la macchina, impaziente di raggiungere casa sua, ma qualcosa -o meglio, qualcuno- ostacolò i suoi piani di non pensare a lei, almeno per quel giorno.

Una chioma di capelli rossicci si confuse col cielo colorato dal tramonto, e degli occhi scuri come la pece si puntarono su quelli di Mark, che continuò a fissare rapito la figura della donna comparsa in quel momento difronte a lui.

<< Elisabeth... >>

Al suono del suo nome pronunciato da quella voce, la donna si avvicinò di qualche passo, piegando le labbra carnose in un grande sorriso.

<< È un po' che non ci vediamo, Mark. >> Disse lei, sentendolo avvicinarsi a sua volta.

<< Come stai? >> La voce di Mark era dolce, come lo era sempre stata. O almeno, con lei.

<< Me la cavo. >> Ridacchiò e cominciò ad avviarsi, seguendo l'uomo, verso la macchina di quest'ultimo. << E tu? >>

<< Non c'è male. Sai, da quando è arrivata mia figlia le cose sono più complicate, ma sono felice. >> Affermò, poggiandosi al cofano dell'auto, mentre lei rimaneva dritta, con la sua postura elegante e composta.

<< Oh, l'ho conosciuta! Frequenta le mie lezioni, è davvero molto bella. >>

Mark sostituì l'espressione leggermente stupita, nel ricordarsi che Elisabeth era davvero un'insegnante, con una un po' più soddisfatta.

<< Ha preso tutto dal padre. >> Ironizzò, sporgendosi un po' più avanti, più vicino al corpo della donna, illuminato dalla luce del tramonto.

Quella sorrise, lasciandosi sfuggire uno sbuffo divertito. << È vero. >> Rispose poi, alzando lo sguardo basso sul viso di lui, che in quel momento, invece, apparì quasi fiero di quel riconoscimento.

I loro occhi si soffermarono qualche attimo gli uni in quelli dell'altro, quasi pensando che, terminato quel contatto visivo, tutto quel dialogare normalmente e senza problemi sarebbe cessato, lasciando spazio ad argomenti più spinosi per i loro cuori e le loro menti.

Mark si chiese quanto tempo ci volesse, precisamente, per dimenticare una persona, per lasciarla andare e per ripulire il cuore dai segni lasciati da essa. A lui, in momento in cui avrebbe potuto affermare di essere riuscito in tale impresa, sembrava dannatamente lontano.

<< T-ti va se... >> Deglutì, indicando con un movimento del capo l'auto su cui era poggiato. << ...se andiamo a mangiare qualcosa? >>

Elisabeth tornò a guardarlo, mordendosi il labbro inferiore e tentennando sulla sua decisione. Infine sorrise, rassegnata: se fosse stata una persona più coraggiosa e più sincera con i suoi sentimenti, avrebbe sicuramente accettato.

<< Mi dispiace, ma stavo tornando a casa. Sai, sono stanca dopo una giornata di lavoro. Facciamo un'altra volta? >>

<< Oh, certo. Anche io sarei dovuto tornare a casa da Judith, comunque. >> Rispose senza esitare l'uomo, abbassando lo sguardo e strusciandosi le mani sudate contro i jeans vecchi e malridotti che portava quando era al negozio, impacciato.

Sapeva che sarebbe andata così, ma, purtroppo, era sempre stato un tipo testardo.

<< Allora...ci vediamo. >> Sentenziò, rivolgendole un ultimo sguardo amorevole e rifugiandosi all'interno della sua macchina, desideroso più che mai di uscire da quella situazione tremenda per entrambi.

Elisabeth, quando lui mise in moto e la macchina cominciò ad accelerare, facendosi sempre più lontana, si lasciò cadere le braccia, che teneva strette al petto, lungo i fianchi. Un sospirò riecheggiò nel vialetto in cui si trovava, prima che iniziasse a camminare verso il suo piccolo ma modesto appartamento.

L'unico rumore che si percepiva era il suono dei suoi tacchi -quelli più bassi che aveva- che toccavano il cemento della strada ad ogni suo passo, ognuno dei quali l'allontanava sempre di più da Mark, e la portava inevitabilmente alla sua solita noiosa e sciatta vita, che non aveva ancora il coraggio di cambiare una volta per tutte.

Era stufa di tutto: di sé stessa, soprattutto. Ma non abbastanza da lasciarsi andare in modo definitivo a quella che sarebbe potuta essere una buona occasione per essere davvero felice, dopo tanto tempo.

Tirò fuori le chiavi dalla borsa alla vista della sua abitazione, ma si fermò di scatto nel vedere qualcosa di decisamente più importante di tutto ciò a cui stava pensando.

<< Che ci fai qui?! >> Si avvicinò a passo spedito verso la fonte dei problemi che l'avevano investita in quell'ultimo periodo, e lui si fece a sua volta più vicino.

Le sembrava la stessa situazione vissuta con Mark qualche minuto prima. Ma lui non era Mark, decisamente non era l'uomo a cui non aveva il coraggio di donare il suo amore, come se fosse un bene prezioso che aveva riservato solo ad una persona, in tutti i suoi trentacinque anni di vita. Una persona che, oramai, non c'era più.

<< Voglio finire quello che avevamo cominciato qualche giorno fa, ma che tu hai interrotto bruscamente. Mi hai fatto soffrire quando mi hai allontanato da te, sai Elisabeth? >>

Lei, vedendolo avvicinarsi, schivò il suo viso e lo sorpassò, dirigendosi verso la porta di casa.

<< Io non sono Elisabeth, per te. Io sono la professoressa Collins, Nathan. >>

Ormai sul ciglio della porta, dopo quella frase, si sentì raggiungere dal ragazzo in questione, e quando voltò lo sguardo verso di lui, lo vide scuotere la testa e guardarla malamente.

<< Una semplice professoressa non si lascia baciare da un suo alunno! >> Gridò, irritato dal suo ennesimo rifiuto.

Lei sussultò e si guardò attorno spaventata, con la paura che qualcuno potesse aver sentito ciò che Nathan aveva appena detto.

Poi tornò con lo sguardo su di lui, incrociando le braccia al petto.

<< Ho sbagliato. Quello è stato un gravissimo errore. Hai ragione: una professoressa non dovrebbe lasciarsi baciare da un suo alunno. Ed è quello che ho fatto, dato che mi sono distaccata subito dopo aver capito cosa stava accadendo. >> Scandì quelle parole con una decisione che Nathan non fu in grado di accettare, visto il modo in cui poi afferrò il polso della donna, la quale con un gesto fulmineo si distaccò da quella presa.

<< Non farlo mai più. Non venire mai più fin qui e non provare ad avvicinarti nuovamente più del dovuto. Io sono la tua insegnate, Nathan. >> Ribadì, con uno sguardo che non ammetteva repliche, quasi arrabbiato. E lui si sentì sopraffare dalla frustrazione.

<< Tu volevi quel bacio, io lo so! >> Questa volta, nel gridare, cercò di risultare meno eccessivo, ma l'occhiataccia che gli lanciò Elisabeth non era delle migliori.

<< Non sai di cosa stai parlando. Per favore... >> Il suo tono era quasi supplichevole, amareggiato. Gli prese le mani fra le sue e e gli riservò uno sguardo rassegnato. << Non insistere ancora. >>

Nathan allentò la presa dalle sue mani, che aveva stretto non appena aveva percepito quel contatto, e si allontanò di un passo, scuotendo più volte la testa.

Non voleva vedere quello sguardo triste e abbattuto sul viso di Elisabeth, che era così bello e delicato. Non per colpa sua.

Così, senza dire una parola in più, si allontanò passo dopo passo, con lo sguardo basso e le mani in tasca.

Elisabeth, vedendolo sparire definitivamente dalla sua vista quando ebbe svoltato l'angolo del viale, si lasciò cadere sullo scalino di cemento davanti alla porta di casa, prendendosi la testa fra le mani e sospirando pesantemente.

Una donna della sua età, ormai matura, avrebbe dovuto comportarsi nel modo fermo e deciso che aveva utilizzato poco prima fin dall'inizio, invece di farsi imbambolare dalla dolcezza dimostratole da un ragazzino che aveva confuso la compassione che provava nei confronti della sua insegnante con dei presunti sentimenti d'amore.

Il tramonto si era ormai concluso e il cielo stava cominciando a scurirsi, si poteva osservare già qualche stella, piccola ma abbastanza luminosa.

Elisabeth si lasciò scappare un sorriso, alla vista di quel manto di un colore non troppo scuro ma neanche troppo chiaro, soffermando lo sguardo su un puntino in mezzo a quel cielo che tanto amava. Si chiese se suo marito la stesse osservando, in quel momento, e se le fosse ancora vicino come le aveva promesso che sarebbe stato, prima di andarsene per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

-Angolo autrice-

Bene, bene, bene.

Innanzitutto mi scuso per il ritardo con cui ho pubblicato questo quarto capitolo, ma l'ispirazione sembrava avermi momentaneamente abbandonato. Poi è tornata stanotte e mi ha fatto stare sveglia fino alle cinque di mattina, ma quella è un'altra storia :'D

Uhm, che dire su questo capitolo...non è che mi piaccia un granché, ma ormai mi rassegno all'idea che non sarò mai totalmente soddisfatta dei miei scritti.

Forse perché l'ho scritto con la fretta, soprattutto la parte finale. Beh, ormai è andata così.

Adesso non so se mi starete più odiando per quello che sto facendo capitare in questa storia o perché non ci avete capito un fico secco, visto il mio modo di scrivere alquanto confusionario, a parer mio.

Comunque, riassumendo: si, avete proprio capito bene, la persona che Judith ha visto mentre si baciava con Nathan nel capitolo scorso è la professoressa Collins.

Che, tra l'altro, ha anche a che fare con Mark, se lo avete notato.

Finalmente la storia si sta facendo un po' più movimentata, so che i capitoli precedenti sono stati un po' noiosetti D:

Anyway...spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere cosa ne pensate, ci terrei molto a leggere qualche vostra opinione.

Un bacio e alla prossima <3

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Capitolo 6
*** Imbarazzo di un momento ***


<< Non pensi che quello sarebbe più indicato? Secondo me faresti un figurone! >>

Judith voltò lo sguardo in direzione di suo padre, poggiato allo stipite della porta in tutto il suo splendore di uomo quarantaquattrenne, con una tazza di tè in mano e l'altra ad indicare il capo che stava adagiato sul letto: un vestitino color crema che arrivava si e no all'altezza del ginocchio, stretto nella parte che avrebbe dovuto coprire il petto e più largo in quella sottostante.

Rassegnata, dopo aver contemplato l'abito suggeritole per l'ennesima volta da Mark, tornò a guardarlo: era circa più di mezz'ora che se ne stava lì, in quel punto preciso, senza muovere un muscolo, a cercare di farle cambiare idea su ciò che avrebbe dovuto indossare quella stessa sera. La sera della festa di compleanno di Norah.

Parlava come se dovesse andare ad un colloquio di lavoro, come se dovesse essere messa alla prova dagli altri in base a come si sarebbe vestita, a come si sarebbe comportata. Doveva davvero superare qualche prova per essere “accettata” in quel misero paesino? Evidentemente, sì.

Ma non per questo era disposta ad indossare un qualcosa di simile! Non che non le piacesse farsi bella, ogni tanto: quando a Bristol usciva il Sabato sera -cosa che non accadeva poi molte volte, vista la preoccupazione che l'attanagliava ogni qual volta lasciasse sua madre a casa da sola- le piaceva mettersi in ghingheri e magari anche azzardarsi ad indossare qualche minigonna o un vestito un po' più corto del solito. Sempre restando nei limiti della decenza, comunque.

Ma a Bristol era tutto diverso. Le persone erano diverse, l'ambiente. Judith conosceva quella città come le sue tasche e sapeva in che modo comportarsi per non risultare “strana” agli occhi della gente.

Lì, a Buldwick...certo, non era su di un altro pianeta, ma si sentiva comunque a disagio. Fuori posto.

Sospirò: per quanto potesse ostinarsi ad auto-convincersi del contrario, era lei stessa la prima a sentirsi messa alla prova dagli altri. Poteva fare l'indifferente quanto voleva, ma alla fine aveva solamente una fifa pazzesca di poter essere derisa e non accettata.

Aveva deciso di smetterla di avere quell'atteggiamento arrogante e menefreghista che aveva iniziato a portare da quando era arrivata a Buldwick, dato che tutto questo la faceva sentire ancora più sola e patetica.

Però...era davvero pronta ad iniziare la sua nuova vita?

<< Penso sia un po' troppo, e poi non saprei che scarpe abbinarci. >> Rispose convinta della sua scelta, adocchiando all'interno dell'armadio un paio di pantaloni neri.

Con la coda dell'occhio, vide Mark abbassare lo sguardo, forse deluso dalla poca utilità che stava avendo in quel momento. Judith lo sapeva, che stava soltanto cercando di rendersi più partecipe e che era davvero contento che -finalmente- stesse iniziando a farsi degli amici...se così potevano essere chiamati. Insomma, sarebbe tutto dipeso da quella serata. Le persone sarebbero state accoglienti nei confronti della nuova arrivata che non le aveva degnate neanche di uno sguardo, nei pochi giorni in cui aveva frequentato la scuola?

Beh, non che nessuno fosse stato disposto ad aprire per primo un dialogo, ma...che avrebbe dovuto aspettarsi? Neanche lei l'avrebbe fatto, e poi mica tutti erano come Norah!

Già, Norah.

Si portò velocemente il cellulare all'altezza degli occhi: erano le 19.00. Mezz'ora. Aveva solo mezz'ora per scegliere cosa indossare, per asciugarsi i capelli appena lavati e per rendersi almeno un minimo presentabile.

Bene, era nella cacca.

<< Uhm, papà...adesso dovrei cambiarmi. >>

Il volto di Mark, a quell'affermazione, cambiò completamente tonalità. Non poteva dire di non essere rimasto leggermente spiazzato: dopotutto, ai tempi in cui ancora viveva con Rechel e Judith, quest'ultima non era mai stata restia a farsi guardare dal suo papà nel caso non fosse vestita. Ma, adesso che era cresciuta, avrebbe dovuto abituarsi a lasciarle i suoi spazi. Quindi, facendole un cenno con la mano in segno di approvazione, sorseggiò un altro po' di tè e sparì dietro la porta della camera di sua figlia, chiudendosela alle spalle.

Judith, a quel punto, lasciò cadere l'asciugamano che le copriva il corpo per terra, fissando il proprio riflesso nello specchio poggiato al muro.

Era nuda. Si passò una mano sul collo, passando poi per il petto e infine andò ad accarezzarsi il seno: il suo piccolo seno da ragazzina ancora non troppo cresciuta, una seconda che le andava abbastanza bene per il suo fisico e la sua corporatura. Anche se, fino a poco tempo prima, aveva sempre desiderato che quel suo piccolo davanzale crescesse e divenisse prosperoso come quello di sua madre.

Ma ripensandoci, in quel momento le andava benissimo così.

Cominciò ad infilarsi la biancheria intima, per poi provarsi i pantaloni neri che aveva preso poco prima dall'armadio. Forse con una maglietta un po' più lunga e carina e un paio di scarpe alte avrebbe potuto andar bene.

Si mise a cercare ovunque in quell'armadio un qualche capo decente da infilare sopra ai pantaloni e nel mentre si tamponò i capelli bagnati con l'asciugamano per farli smettere di gocciolare, quando sentì il campanello di casa iniziare a suonare insistente. Sussultando, prese con un gesto fulmineo il cellulare riposto sul letto: erano ancora le 19.10, possibile che Norah fosse in anticipo?

Sì, se la immaginava così dannatamente entusiasta da non essere riuscita a tenere i piedi per terra il tempo necessario fino a che non fosse arrivata l'ora stabilita.

Così, uscì di camera non facendo tanto caso al modo in cui ancora era conciata -Norah era pur sempre una ragazza, non le avrebbe fatto né caldo né freddo vederla in reggiseno- e si catapultò ad aprire la porta con l'intenzione di farle una bella ramanzina sul fatto che quando c'è un orario da rispettare non può fare come le pare e piace!

Ma le parole non riuscirono neanche ad uscirle di gola. Rimase difronte alla porta aperta con la mano sul pomello, l'altra ancora a tamponarsi i capelli con l'asciugamano -che cadde inevitabilmente a terra, una volta che ebbe modo di riconoscere la persona che le stava davanti- e la bocca spalancata.

Vide due occhioni verdi scrutarla sorpresi e fermarsi sulle sue curve messe maggiormente in evidenza, prima che lei si portasse le braccia al petto, ancora incapace di proferire una qualsiasi frase di senso compiuto.

Si sentì solamente andare il viso a fuoco e immaginò che le sue guance non dovessero aver più un colorito normale, in quel momento.

Ma poi si rese conto che neanche le sue, di guance, erano rimaste propriamente normali: vide un leggero rossore spuntare su quella parte di pelle, e nel mentre lo vide anche deglutire, evidentemente imbarazzato.

Non avrebbe mai creduto che in tutta la sua vita avrebbe visto sul volto di Nathan un'espressione simile. Sul volto di quel quel ragazzino pieno di sé e che non faceva altro che provocarla per soddisfare il suo piacere personale. La vista del suo seno coperto solo da un reggiseno l'aveva veramente imbarazzato? Senza che neanche se ne accorgesse, sul suo, di viso, spuntò un sorrisino ebete che subito sparì, quando sentì il ragazzo in questione tossicchiare forzatamente per farla riprendere da quello stato di trance.

In men che non si dica aveva già recuperato l'asciugamano caduto a terra e se l'era legato attorno alla parte di corpo che avrebbe dovuto restare coperta fin dall'inizio, continuando a guardare ovunque pur di non spostare lo sguardo su di lui.

<< Ehm... >> La sua voce la colpì come una freccia colpisce il bersaglio: veloce, potente...dolorosa. Si sentì in trappola, come se non avesse più via di scampo. C'era qualcosa che era veramente stato colpito, in lei.

<< Facciamo finta che non sia successo niente? >> Le chiese con discrezione, per la prima volta da quando si erano conosciuti il suo tono apparve meno arrogante e un po' più gentile.

Judith annuì velocemente: non chiedeva altro che quello, ma non si sarebbe mai aspettata che tale richiesta sarebbe provenuta proprio da lui -in realtà credeva che avrebbe dovuto implorarlo in ginocchio per convincerlo a non spiattellare ciò che era accaduto a tutto il paese.

<< Bene. >> Fece, dopo aver ricevuto l'approvazione della diretta interessata, e poggiò per terra, proprio in mezzo a loro, due casse contenenti delle bottiglie di latte.

Possibile che non le avesse neanche minimamente notate, fino a quel momento? Cavolo...ma dove aveva la testa?

Rialzò lo sguardo e di nuovo incontrò il suo viso, i suoi occhi.

Già, ecco dove aveva la testa!

<< Che...perché sei qui? >>

A quella domanda il viso di Nathan cambiò espressione e divenne pressapoco stupito. << Per portarvi queste, no? >>

E Judith di nuovo non capì. Cos'è, era l'addetto al latte? Andava di casa in casa a consegnare bottiglie di latte alla gente?

Non che fosse una cosa strana, avrebbe anche potuto essere, però...dai, non ce lo vedeva proprio a fare il fattorino per ricevere due miseri spiccioli, Nathan era più il tipo che pretendeva denaro in cambio di...niente? Sì, esatto.

<< Ah, forse Mark non te ne ha mai parlato. >> Esclamò poi d'un tratto, sogghignando. << Io abito con mio nonno e lui e tuo padre sono molto amici. Viviamo un po' più lontano da qui e abbiamo un alimentari, per questo vengo spesso a portare qualche pensiero a Mark da parte di mio nonno. Che sia il latte, o qualsiasi altra cosa...mi troverai alla porta di casa tua altre volte dopo di questa, quindi... >> a quel punto fece una breve pausa, nella quale andò a puntare un dito sulla fronte di Judith, spingendola leggermente all'indietro. << Sarei felice se evitassi di mostrarmi le tue tettine la prossima volta, Jud. >>

Il ghigno che si dipinse sul suo volto non aiutò per niente e la poca pazienza di lei si ridusse ad una quantità minima, quasi nulla.

Non si reputava di certo uno schianto, ma mai nessun ragazzo l'aveva derisa in quel modo! Era l'ennesima provocazione o davvero gli era dispiaciuto quel breve contatto visivo? Forse non aveva mai visto un paio di tette in vita sua, oppure era gay! Oppure...semplicemente le sue non erano abbastanza attraenti.

Ridacchiò sotto i baffi, lanciandogli uno sguardo provocatorio.

<< Eppure non sono io quella che è diventata tuuutta rossa alla vista di queste “tettine”. >> Calcò il tono sull'ultima parola, esprimendo il gesto delle virgolette con le mani alzate difronte a lui, facendo un passo avanti.

Nathan sembrò impreparato, forse non si aspettava che questa volta lei non avrebbe lasciato perdere e avrebbe deciso di scendere al suo livello di stupidità.

Si diede della stupida da sola, quando se ne rese conto: si stava veramente mettendo a bisticciare con quello scemo?

E poi, perché l'aveva così tanto infastidita il fatto che lui l'avesse presa in giro sul suo aspetto?

Abbassò lo sguardo. Voleva sentirsi apprezzata solo per soddisfare il suo stupido ego, giusto?

<< Non pensavo fossi così sicura di te! >> Esclamò di rimando, guardandola divertito con il sorriso che era solito usare in momenti come quello. Ma il fatto che la sorprese maggiormente fu che non cercò di negare l'evidenza, tentò solamente di spostare la sua attenzione su un argomento che avrebbe potuto mettere in difficoltà lei e non lui.

Quindi aveva fatto centro: Nathan, quel Nathan, era veramente arrossito!

Non seppe controllare il groppo che andò a crearsi nella sua gola, in quel momento. La prospettiva che Nathan si fosse davvero imbarazzato alla vita del suo corpo e che quindi non fosse affatto vero che la reputasse una tipa poco attraente, la intrigava particolarmente.

Si chiese se fosse davvero vanitosa fino a quel punto, o se fosse soltanto soddisfatta di essere riuscita a far avere una reazione del genere a quello sbruffone.

Ma forse nessuna delle due opzioni aveva centrato il punto.

<< Lasciamo perdere, Nathan. >> Tentò di concludere lì il battibecco appena cominciato quando si rese conto che il tempo stava scorrendo inesorabilmente e che doveva ancora finirsi di preparare, quindi aspettò paziente che lui capisse e se ne andasse. Ma, ovviamente, si stava aspettando un po' troppo da quella mente bacata. Perché, quando si voltò per chiudersi la porta alle spalle dopo averlo salutato con un cenno della mano, si sentì tirare una ciocca di capelli ancora bagnati. Voltò il viso irritata ma, anche quella volta, rimase così imbambolata che faticò persino a parlare per qualche attimo, alla vista di quel sorriso: un sorriso nuovo, diverso, non uno dei ghigni che rendevano il suo un viso da prendere direttamente a schiaffi.

Aveva modo di vedere i suoi denti e gli angoli delle sue labbra abbastanza carnose erano da una parte all'altra del volto. Persino i suoi occhi ridevano.

<< Ci sarai alla festa di Norah, stasera? >>

Judith si ricompose e voltò anche la parte restante del corpo, guardandolo dubbiosa: troppe domande le affollavano la mente. Ma una riecheggiava imponente dentro di lei e le rimbombava nella testa, cattiva, inutile come una sorta di speranza: Nathan voleva che lei andasse a quella festa?

<< Si. >>

I loro sguardi s'incrociarono per qualche attimo e per poco fu convinta di aver visto brillare i suoi occhi.

<< Perfetto! Allora continuerò a prenderti in giro più tardi, ci vediamo dopo Jud! >> Detto ciò, lasciandola basita e con la mascella praticamente per terra da quanto la sua bocca si era spalancata nel sentire quelle parole, corse via alla velocità della luce, scomparendo in lontananza in una manciata di secondi.

Judith sospirò, chiudendo lentamente la porta: cos'è, ora aveva anche delle aspettative? Cosa credeva, che le avrebbe detto che era felicissimo del fatto che avrebbe partecipato alla festa di Norah? E perché avrebbe dovuto?

Lui...lui non avrebbe avuto motivo d'interessarsi ad una tipa come lei, a maggior ragione visto ciò che era successo qualche giorno prima.

Chissà quante altre ragazze punzecchiava in quel modo, quando invece se la stava beatamente spassando con una di cui ancora Judith non conosceva l'identità.

Dopotutto era un tipo abbastanza conosciuto e adorato a scuola, da quel che aveva visto. E vista la sua bellezza, era ovvio che avesse molte ragazzine ai suoi piedi.

Lei, invece, la conosceva da poco appena più di una settimana e per quel poco che avevano parlato erano stati solo in grado di prendersi in giro e bisticciare. Quel ragazzo era veramente in grado di fare un discorso serio?

E se così fosse stato? Doveva ammettere che già la stava mandando in confusione con il suo comportamento da stupido, figuriamoci se avesse iniziato a comportarsi in modo più maturo! Sarebbe divenuta una delle sue tante adoratrici? Mai. Mai, mai e ancora mai!

Questo fu ciò che si disse, prima che una Norah esaltata irrompesse in casa sua e la trascinasse dritta verso la festa, ma non prima di averla convinta ad indossare il vestito color crema che giaceva ancora sul letto in attesa che qualcuno lo degnasse di una qualsiasi attenzione.

 


 

La casa di Norah non si trovava molto lontano dalla sua: avevano percorso la via che Judith percorreva ogni mattina per andare a scuola e si erano fermate poco più avanti, dietro al parco col laghetto difronte al negozio di fiori di suo padre. Norah abitava in una sorta di villetta, Judith era rimasta letteralmente a corto di parole alla vista del grande giardino che circondava l'abitazione. Il cancello si apriva perfino con un telecomando, era tutto troppo avanzato.

Norah le aveva detto che disponevano di un sacco di tempo per mangiare un boccone per cena e per finire di addobbare la casa. A quel pensiero Judith aveva visionato nella sua mente la classica festicciola di compleanno dei bambini di età inferiore agli otto anni: cappellini sulla testa, addobbi colorati e palloncini sparsi per la stanza. Deglutì a fatica, ma le sue speranze tornarono non appena mise piede nel seminterrato della grande casa di Norah: avrebbero festeggiato lì. Quel seminterrato era grande quanto il suo appartamento di Bristol. C'erano un divano in pelle e due poltrone, un grande stereo con tanto di casse gigantesche impiantate al muro e delle luci che davano un'aria confortante ed intima all'intero piano. Per non contare la vasta quantità di alcolici che Norah si era procurata e che aveva disposto su un bancone accanto a qualche pasticcino.

I suoi genitori le avevano permesso tutto questo? O forse non ne sapevano niente? Aveva notato che non erano in casa, dato che appena era entrata aveva visto solamente un Amanda in pigiama salire le scale che conducevano al secondo piano.

<< I tuoi dove sono? >>

Norah si voltò con aria indifferente verso la bionda, intenta a mangiarsi uno dei tanti stuzzichini.

<< Il padre di Amanda è in viaggio per lavoro, come sempre. Mia madre non lo so, ma entro poco arriverà. Forse ha solo accompagnato Henry dalla zia, dormirà lì per stanotte. Peccato, mi ha detto che aveva voglia di conoscerti, vuole trovarsi la ragazza! >>

<< Ma tuo fratello non ha dieci anni? >>

<< Si, ma è un tipo fin troppo sveglio. Potrebbe piacerti! >> Entrambe soffocarono una risata, iniziando a salire al piano di sopra.

Forse non avrebbe dovuto chiederle molto sulla sua famiglia, se Norah gliene avesse voluto parlare l'avrebbe fatto di sua spontanea volontà. Inoltre, anche se si comportava amichevolmente con lei, era certa che non avessero già raggiunto una certa intimità...lei si sarebbe sentita sicura nel confidarsi con Norah? Ancora non lo sapeva. L'unica cosa che sapeva per certo era che, se Norah avesse iniziato a farle domande sulla sua situazione familiare, la cosa non le sarebbe piaciuta per niente. Quindi non fece altro che rispettare uno dei più importanti principi che riteneva giusti e veritieri: non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te.

<< Ehi Nichols...ma tu ce l'hai il ragazzo? >>

L'improvviso cambio di argomento e la domanda scomoda fecero sì che Judith quasi non si affogasse con un pasticcino che aveva preso dal seminterrato poco prima e che si apprestava ad ingurgitare in quel momento.

<< No. Tu? >> Non era poi così curiosa di farsi i fatti altrui, ma dato che erano entrate nell'argomento non si fece scappare l'occasione di spettegolare un po' su qualche ragazzo prima che cominciasse la festa. Quindi le due entrarono in camera di Norah e mentre quest'ultima si affrettava a cambiarsi, parlarono solamente come due sedicenni dovrebbero fare: anche se non aveva intenzione di trovarsi un ragazzo, era sempre divertente discutere su quanto stupida fosse la specie maschile.

Judith si accorse solo in quel momento di quanto le mancassero conversazioni come quella. Di quanto le mancassero le sue amiche, quelle che conosceva da tutta la vita. Chissà come avrebbero reagito se lei le avesse richiamate così, di punto in bianco, dicendo qualcosa del tipo “Oh, mi dispiace per essere scappata senza dire una parola, ma sto bene, mi sono solo trasferita dall'altra parte del paese!”

In realtà lo sapeva, come avrebbero reagito: come avrebbe fatto lei nel caso sua madre fosse tornata dopo essere scappata lasciandole solamente un bigliettino e 150 sterline.

 

Un sospiro. Uno, due, tre. Tanti sospiri che contenevano il senso di tutte quelle parole che non riusciva a pronunciare, di tutte quelle urla di dolore, rassegnazione e rabbia che non riusciva ad esprimere.

 

 

 

 



 



 

 

-Angolo autrice-

'Seeeera! Sono stata assente molto, molto tempo, lo so. E sono tornata con questo capitolo un po' di passaggio che serve ad introdurre la festicciola a cui -adesso lo sapete- parteciperà anche Nate. Che accadrà? Judith finalmente s'integrerà e la finirà di farsi tutte queste pippe mentali -possono essere un po' noiose, ma mi sono basata su ciò che farei io in una situazione del genere...cavolo, altro che pippe mentali!- riuscendo a conoscere qualcuno di nuovo? E il nostro misterioso Nathan?

Ora che ci penso, questa fic si prospetta abbastanza lunga...spero di riuscire ad aggiornare più in fretta d'ora in poi!

Come sempre ringrazio chi ha inserito la storia fra le seguite e chi fra le preferite, chi recensisce e chi legge soltanto. Un bacio graaaaandissimo <3

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