Mareritt

di Narcis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fiende. ***
Capitolo 2: *** Søt. ***



Capitolo 1
*** Fiende. ***


Erano ormai passati sì e no tre giorni da quando le navi vichinghe erano approdate sulle coste di quella terra sconosciuta ed inospitale, che a quanto dicevano i racconti e le promesse di abbondanti territori da poter colonizzare sembrava essere una vera e propria isola, dalle medie dimensioni.

A Kristian1, quel posto, già non piaceva.




"Terra dei ghiacci", l'avevano rinominata, proprio a causa delle intemperie fredde e dure che s'abbattevano sul luogo, oltre al fatto che, già grazie ad una prima perlustrazione, si poteva subito notare essere coperta in gran parte da enormi strati di neve solidificata e acqua dalla temperatura talmente bassa da far rabbrividire perfino uno di quei grandi cetacei che non s'avvedono dal nuotare in qualsiasi tipo di mare e oceano, anche il più terribile.
Roba che, a confronto, la Norvegia era un posto caldo ed accogliente come la penisola iberica.
Senza contare che, proprio in quel periodo, era il mese di Thorri2, ergo era già un miracolo divino se i norvegesi erano arrivati fin lì; e dovevano ringraziare abbondantemente il grande Odino con sacrifici animali e ballate rallegranti per chissà quante notti prima di sentirsi in pace con sé stessi ed avere la consapevolezza d'aver ripagato il grande dio di tutte le buone mandate in terra.


La brughiera di quell'isola sperduta si estendeva per chissà ancora quante miglia. La neve che cadeva incessantemente copriva con un bianco velo ogni cosa, divorava quei rarissimi alberi con tutte le loro radici, rivestiva le colline e le montagne di eleganti vesti pregiate fatte solo del candore più puro, imbiancava l'atmosfera ed opacizzava la vista, già abbastanza difficoltosa in quelle lande dall'orizzonte infinito e la meta imprevedibile.
La poca erba che puntellava il terreno era ormai diventata un ricordo estivo, e la sua presenza era percepibile solo se si affondavano i piedi sotto le chiome spoglie degli alberi o tra quei piccoli rovi imbiancati, laddove la neve era arrivata con un bel po' di difficoltà, ricoprendo il tutto solo con qualche centimetro di manto niveo. L'impronta rimaneva impressa nella neve, e da sotto di essa sbucava trionfante e ingorda di luce la terra, aspra e scura, nera, che mostrava i residui dei fili erbacei ormai ingialliti e bagnati, morti, che non attendevano nient'altro se non le calendigiugno3 per decomporsi del tutto e lasciar posto alle successive generazioni erbose, sicuramente più lussureggianti e verdeggianti.
Il cielo plumbeo oscurava il sole fin da quando i norvegesi erano arrivati in quel luogo; o forse erano stati proprio loro a portare le nubi, chi lo sa. Enormi fazzoletti grigi carichi di fiocchi di neve bianchi rattoppavano il firmamento, eclissavano il sole, scrollavano vento e ghiaccio sulla terra, prepotenti e beffardi come bambini che fanno dispetti ad altri coetanei indifesi e incapaci di muoversi.



Era tutto bianco.
La terra era bianca.
Le colline erano bianche.
Il cielo era bianco.
L'aria era bianca.



Roba da far impazzire chiunque, facendo venire l'esaurimento nervoso, ritrovandosi così a gattonare disperatamente nella difficoltosa speranza di trovare al più presto terra buona, o almeno un riparo, nonostante la profonda consapevolezza di avventurarsi in un territorio disabitato.
Neve in basso, neve in alto; ovunque.



Gli esaurimenti nervosi erano roba da donnicciole d'occidente.
Non di certo da grandi, feroci, possenti vichinghi capaci di affrontare il più temibile dei draghi, scampare al Ragnarök4 apocalittico, cavalcare onde marine alte cinquemila piedi, solcare gli oceani più profondi e popolati dalle creature più mostruose e misteriose, assediare impropriamente terre per farne un proprio basamento.

Kristian era un tipo forte.
Un ragazzo solitario, silenzioso, calmo di norma; o almeno fino a quando non gli si dava in mano un'ascia o gli s'annunciava una guerra o una battaglia da affrontare, e allora sì che erano cavoli amari per tutti. Perfino alle gare di bevuta non voleva farsi sconfiggere, tanto che arrivava ad avere i conati di vomito per tutto il vino e la birra che ingeriva nel proprio corpo, che sebbene forzuto era talmente esile in apparenza da dare l'impressione che con un colpo troppo forte si sarebbe potuto spezzare come lo stelo d'un fiore piegato da una folata d'aria.


Il vento che tirava quel giorno, però, non riusciva nemmeno un po' a fermarlo.

Avanzava lentamente, affondando uno per volta i piedi coperti dalle calzature in pelle di alce e pelliccia di orso, legati da spaghi fatti di code di cavallo. Il suo passo era tremante a causa del gelo che lo avvolgeva completamente, ma comunque deciso a non fermarsi mai, nemmeno davanti ad un bivio.
Era leggermente chino in avanti, teneva un braccio piegato a sfiorar la propria fronte, nel tentativo di proteggersi almeno un po' il viso, in particolare gli occhi, simili a due tanzaniti splendenti, che teneva talmente socchiusi da sembrare due semplici striscioline color indaco, che nella purezza di quel luogo niveo si confondevano col restante biancore.
Di puro, però, quel luogo aveva ben poco, se non il suolo stesso, intoccato da stranieri dell'est almeno fino a pochi giorni prima.

Il vento ululava tra le montagne, cozzava contro il corpo del vichingo, smuovendogli le vesti, rendendogli ancora più difficoltosa la camminata.
Imprecava a bassa voce, lui, riguardandosi però dal pronunciare il nome di Odino in qualsiasi situazione, anche quando, per colpa d'una buca imprevista nascosta dall'enorme strato di neve, affondava un piede nel terreno, bagnandosi le calzature perfino nell'interno, da dove partivano copiose manciate di brividi di freddo che lo scuotevano tutto, arrossandogli la pelle già abbastanza colorita, soprattutto lì nel viso, sulle gote.

Doveva raggiungere gli altri, ovunque essi fossero.
Si malediceva da solo per essersi proposto come "avventuriero solitario" del posto, sperando in un viaggio per così dire semplice e silenzioso, ottenendo come risultato una batosta da parte delle intemperie e una baraonda inverosimile causata dal vento che soffiava e soffiava e soffiava.
Così l'unica cosa che poteva fare era camminare in avanti, pazientemente, nonostante i continui impeti di rabbia improvvisi che l'avrebbero portato a scattare faticosamente in avanti per cercare d'arrivare prima, appesantendosi troppo le gambe, fino a quando non sarebbe caduto e affondato sulla neve, morendo probabilmente di stanchezza e soprattutto gelo.
Avanzava incessantemente, passo dopo passo, con una lentezza premiabile in quella situazione davvero disperata.



Chiunque avrebbe avuto la visione d'un vichingo biondo e solitario in mezzo ad una bufera di neve che sembrava non voler finire mai.

Ma, a dispetto di qualunque convinzione già fatta e rifatta, così non era.



Di tanto in tanto, quel norvegese già snervato di suo ma senza alcuna intenzione di perdere le traveggole del tutto si girava all'indietro, assottigliando al massimo lo sguardo, cercando con gli occhi qualcosa in quella nube bianca causata dai grandi fiocchi di neve che cadevano incessantemente, veloci come vespe all'attacco in branco.
Cominciava a ringhiare, a sbraitare, ad emettere quelli che potevano essere visti come versi intimidatori, come se volesse allontanare qualcosa o qualcuno. Intorno a lui, però, c'era apparentemente solo del bianco, ergo agli occhi esterni di Odino poteva sembrare un perfetto pazzoide che ormai aveva abbandonato tutto, perfino la ragione, pur di tornarsene a casa, sebbene le prospettive per lui non fossero granché.
Poi, però, il biondo si rigirava, riprendendo il suo cammino normalmente.



Dopo non si sa quanto tempo che continuava in quel modo, il vichingo si arrestò definitivamente. I suoi capelli svolazzarono ovunque, bagnandosi sempre di più per colpa della neve, e le sue mani si strinsero in pungi, potenti e tirati, pronti a demolire una montagna intera con un colpo solo.

Si girò di scatto, rivolgendo ancora una volta gli occhi alla nube bianca che l'avvolgeva infinitamente in ogni dove, da sotto i piedi a sopra la testa, da destra a sinistra.
Digrignò i denti, il suo sguardo era aggressivo, talmente infuocato che, ironicamente parlando, avrebbe potuto sciogliere tutta quella neve intorno a lui.
Agitò le braccia, indicando varie direzioni opposte a quella che aveva intrapreso ormai da ore, facendo qualche passetto in avanti.
Gridava, gridava ad alta voce, si sgolava. Probabilmente il giorno dopo non sarebbe più stato in grado di parlare per un po' tanto poteva essere forte il mal di gola che l'avrebbe colpito.
Aveva perso la pazienza, o meglio qualcosa gliel'aveva fatta perdere; e non erano tutto quel biancore, il vento ululante, la neve incessante e le buche nascoste sotto il manto bianco.



- Smettila di seguirmi!
Vattene! -



Urla, le sue, che squarciarono l'atmosfera, ammortizzate dal vento, che sembrò fare a gara col vichingo a chi dei due fosse in grado di sgolarsi il più di tutti; e si sbracciò in avanti, innervosito, assolutamente irritato ed intransigente.
Cercò con lo sguardo a destra e a sinistra, rimanendo col capo immobile. Le sue pupille sbalzarono da un lato all'altro delle sue iridi, non sapendo da che parte farsi nella cortina bianca intorno, non riuscendo bene a trovare la direzione in cui rivolgere le attenzioni.


Sperava, in cuor suo, di non doversi più porre il problema, e che magari quel "qualcosa" se ne fosse andato di sua spontanea volontà, intimorito oppure dopo aver compreso che il suo pedinamento era una partita persa.

Ma si sbagliava.


I suoi occhi trovarono presto su che posarsi, puntando incessantemente in quella direzione, e se avessero avuto la possibilità avrebbero allontanato quel soggetto il più possibile.

Una figura piccola; un'ombra grigiastra, opacizzata dalla neve che continuava a cadere, si faceva sempre più vicina, molto più lentamente rispetto a come camminava prima il norvegese.
Non era facile distinguerla in mezzo a quella tempesta, si poteva appena percepire la sua presenza; e solo quando fu abbastanza vicina, facendosi spazio tra il muro bianco di nebbia e neve, si arrestò, e i suoi lineamenti e le sue fattezze furono riconoscibili.

Era un bambino.
Era piccolo, dagli splendidi occhietti violacei come ametiste, dai capelli argentei come il tronco di betulla coperto dalla rugiada al mattino, e dalla pelle pallida, chiara come il suolo sotto ai suoi piedini, coperti da misere calzature improvvisate. Anche le sue vesti erano veri e propri stracci: un vestitino fatto di panni bianchi ma sporchi, mezzi bagnati, ed era lungo quasi fino ai piedi. Le maniche gli coprivano metà mani. Era normale chiedersi come diavolo facesse a resistere in quel luogo così gelato con solo quei panni addosso. Forse era uno spirito, o magari un fantasma, chi lo sa.
Tanto sta che circa tre orette prima il vichingo se l'era ritrovato davanti, messo in piedi in mezzo alla strada che stava percorrendo, lì nella brughiera, e da allora non aveva smesso di seguirlo un istante.
Piccolo ma tenace, e soprattutto sconosciuto.
Che il popolo nascosto5 avesse mandato un messaggero? O semplicemente era una creatura di quella terra sconosciuta ai grandi norvegesi, abili esploratori e conoscitori di ogni essere speciale vivente sulle terre a loro familiari?
Oppure poteva anche essere un abitante del posto; però era un bambino, per di più solo, senza genitori: assolutamente strano.



Kristian, su tutte le furie, gli urlò addosso, sempre mantenendosi a debita distanza, cercando di spaventarlo in tutti i modi.
Gli infierì contro, gridò, ringhiò come un cane rabbioso ed aggressivo, ma quell'esserino non si mosse.
Rimase lì, immobile, a fissarlo coi suoi occhi violacei; la bocca semiaperta, il labbro inferiore tremante, di sicuro per il freddo, che faceva fare giacomo-giacomo alle sue gambine esili da bambino.

Il vichingo continuò a sbraitare come un forsennato, e solo quando si rese conto che le sue intimidazioni non funzionavano si zittì, rimanendo però a guardarlo lo stesso, pregando che se ne andasse da solo. Ma nulla.

Si passò una mano sul viso, chiudendo gli occhi, scrollandosi la faccia da quelle goccioline d'acqua che si erano formate per colpa dei fiocchi di neve, che a contatto con la sua pelle tiepida si erano sciolti, e inspirò profondamente.
Possibile che dovesse perdere tempo con un marmocchio come quello? Che poi, chissà se era davvero un bambino "vero" ed umano? O magari sì ma non conosceva la sua lingua; ecco perché non si decideva ad andarsene.



- Fjandinn! -



Una vocina, tremolante, acuta, come quella d'un gattino appena nato a cui è morta la madre, che miagola disperatamente al mondo e alla mano dell'uomo che tenta d'afferrarlo.
Il bambino aprì bocca, avvicinandosi di un altro misero passetto al norvegese, puntandogli un dito piccolo e paffuto contro; e continuò a ripetere quella parola, ritmicamente, alternando la sua voce insicura e stridula a piccole pause per riprendere fiato, affannoso a causa della fatica di tutta quella strada fatta in silenzio per seguire il biondo sconosciuto vestito con abiti di pelle e pellicce.



- Fjandinn! Fjandinn! Fjandinn! -



L'ululato del vento rese ancora più sconsolata la sua voce, distorcendola maggiormente, tanto che arrivò alle orecchie del vichingo come un sussurro; ma quello bastò per fargliele capire bene.
Per così dire, però, perché quella era una parola sconosciuta. La lingua di quel cosetto impertinente non l'aveva mai sentita, ma era più che sicuro che "fjandinn" non fosse un complimento, visto il modo in cui il piccolo si agitava e lo additava prepotentemente, corrugando la fronte e aggrottando le sopracciglia, a metà tra l'arrabbiato e lo spaventato.

Era piccolo, lui, e nonostante tutto indicava con fare accusatorio il vichingo dal basso, gridandogli con tutte le sue forze quella unica parola, cercando di darsi più tono possibile, provando a non mostrarsi in preda al panico e alla paura, che però lo facevano tremare insieme al freddo come una foglia.

Kristian non seppe se sbottargli a ridere in faccia o girarsi e riprendere il proprio cammino, cercando di far finta di nulla.
Ma, purtroppo per il piccolo sconosciuto, era arrabbiato. Molto, molto arrabbiato. Anzi, direi più irritato.

Quando una zanzara ti gira intorno, ronzandoti alle orecchie, cerchi di mandarla via; ma se questa è stupida e non ti dà retta, di certo non fai finta di niente. E allora cosa fai?
La schiacci.


Il vichingo, quindi, ringhiò di nuovo.
La sua espressione era simile a quella con la quale si coronava il volto quando combatteva, a differenza che quella volta non aveva un ghigno beffardo stampato in volto, e soprattutto non era affatto divertito.

Avanzò ancora nella neve, con passo stavolta veloce e pesante, facendo scricchiolare la neve rigida sotto i propri piedi.
Si avvicinò pericolosamente al bambino, che non appena vide il norvegese muoversi smise di vociare, in preda alla paura, e tentò di abbassare il braccio che ancora teneva puntato contro il biondo; ma quest'ultimo fu ovviamente più veloce, e con uno scatto fulmineo gli afferrò il piccolo e gracile polso, stringendoglielo prepotentemente, troppo forte per un esserino come quello.
Il bimbo allora gridò, ed il terrore lo avvolse tra le sue malfidate braccia, pietrificandolo da capo a piedi. Non fece in tempo ad alzare gli occhi, improvvisamente lucidi, sul viso del norvegese che questo gli tirò il braccio in avanti, tenendolo ancora ben saldo, e con la mano libera gli afferrò velocemente la testa, in parte, all'altezza della tempia; e, sempre talmente di scatto da rendere i propri movimenti imprevedibili, mollò la presa sul polso del più piccolo, premendogli fortemente il palmo sul capo, fino a scaraventarlo violentemente a terra.
Il piccolo, incapace di ribellarsi e troppo spaventato anche solo per protestare od implorare, cadde rovinosamente al suolo, a pancia in giù, affondando malamente viso, gambe e busto sulla neve gelida, come un peso morto affonda nell'abisso dell'oceano scuro e profondo.


Una smorfia disgustata, quella del norvegese, già più rilassato rispetto a poco prima; poi, con tutta la calma del mondo, proprio come non fosse successo nulla, si girò, voltando disprezzante le spalle al corpicino immobile del piccolo, che nemmeno il vento sembrava smuovere più minimamente.









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Capitolo 2
*** Søt. ***


Un lampo sfavillante squarciò il cielo oscuro fuori dalla finestra, rombando talmente rumorosamente da svegliare con molta probabilità tutto il vicinato. La luce che creò illuminò per un secondo l'intera stanza buia, donandole un aspetto tetro e sinistro, sebbene per pochissimi istanti.

Fu allora che il norvegese si svegliò di scatto, balzando a sedere sul materasso, con gli occhi acquosi per il sonno già sgranati. Il cuore gli batteva talmente forte da riuscire, da un momento all'altro, a sfondargli la cassa toracica e saltellare in giro, e la testa gli pesava e girava troppo vorticosamente per permettergli di restare col capo fermo puntato in una direzione.
Il biondo prese all'improvviso a guardarsi intorno, perlustrando con gli occhi la stanza, controllando che tutto fosse al proprio posto, e che niente fosse cambiato.


La pioggia fuori picchiettava incessantemente contro la finestra, producendo quel classico rumorio sordo che può essere al contempo fastidioso e ipnotico, fino a diventare addirittura rilassante come il ticchettio ritmico d'un metronomo.
Altri lampi, meno lucenti e rumorosi, illuminavano il cielo di tanto in tanto, facendo abbaiare qualche cane randagio nei dintorni, che protestava contro il tempo maledetto e avverso.


Kristian prese un lungo, profondo respiro.
Si passò una mano sul viso, catturando coi polpastrelli delle dita qualche piccola perla salata che gli stava scivolando dalla tempia. Era sudato, e anche un bel po', non di certo per il caldo. Nonostante fosse estate, in Norvegia il meteo non prometteva granché. Le temperature sfioravano sì e no i 18°C, ed era un miracolo trovare anche solo tre giorni di sole continui. Che fosse lo stato più piovoso d'Europa, quello, era ben evidente, perciò la popolazione era abituata e non si faceva troppi problemi.

Anzi, forse era stato un bene che quel tuono terribile avesse interrotto il sonno del biondo. Una sveglia naturale, quella, che l'aveva salvato da una mala dormita.


Buttò un occhiata alla sveglia elettronica sul comodino lì accanto. Segnava le tre e mezzo di notte coi suoi numeroni rossi e lampeggianti.

Riabbassò lo sguardo sul lenzuolo, ancora stanco ed affaticato dalla brutta nottata avuta, e cercò di respirare profondamente e in maniera regolare, giusto per stabilizzare il proprio battito cardiaco, assolutamente anomalo.

La sera prima si era ritrovato a casa propria con tutti gli altri nordici, e siccome era sabato si erano bevuti un bel po' di birre. Kristian non amava quelle troppo alcoliche (basti pensare che aveva bevuto tutte quelle inferiori ai quattro gradi), e soprattutto non reggeva l'alcool molto bene. Ma quell'idiota di Mathias6 aveva insistito per fargli assaggiare qualcosa di più, infilandogli praticamente in gola il collo d'una bottiglia di birra di quindici gradi; e quando il norvegese aveva cominciato già a perdere il senno, gli aveva fatto provare anche un vino rosso cui gradazione forse è meglio non dirla. Il caro norvegese, però, di vini in vita sua ne aveva visti ben pochi, e soprattutto di pessima qualità. Inutile dire, quindi, che si era ubriacato praticamente subito.
Per il resto, non si ricordava altro di quella fottuta serata, tranne il fatto che si erano fermati tutti a dormire da lui.



Promise a sé stesso di pestare a sangue quell'ottuso d'un danese non appena ne avrebbe avuta l'occasione.
Più che altro, sperò che nessuno si sarebbe più ricordato di quella sera, in cui non sapeva bene cosa aveva detto e fatto, e nemmeno ci teneva a saperlo.

Una cosa era certa: poteva dire addio al suo onore.
Ma forse, non era questa la cosa più importante.



Il batticuore non esitava minimamente a smettere, e sembrava produrre una brutta melodia col ticchettare della pioggia sul vetro.
La testa gli faceva male, e lo stomaco era ancora sottosopra, per nulla abituato a reggere un simile stress dovuto all'alcool.

La nottata era stata burrascosa, e non solo per quanto riguardava il tempo.


Incubi, sogni amari e semi-rimembranze l'avevano fatto agitare un bel po', ed era proprio a causa di ciò se si era ritrovato in quelle condizioni nel cuore della notte.

Cercò di ricordare il sogno appena fatto, sperando che, appena sveglio, la sua impresa potesse essere più facile, e i suoi ricordi più lucidi.



Il suo cuore perse un battito,e lui sobbalzò, scosso da un fremito che non aveva nulla a che fare con le buone intuizioni e le piacevoli sensazioni.


Islanda; il suo piccolo, adorato fratellino, era stato protagonista insieme a lui di quell'incubo tragico, che l'aveva agitato talmente tanto da avergli dato l'impressione di poter morire d'asfissia lì, su quel materasso, da solo, nel bel mezzo d'una notte piovosa.
Quel sogno era stato troppo dettagliato, lucido, realistico, per essere considerato tale.

Che fosse...
Che fosse stato reale?
Cioè, che magari fosse stata un'inconscia rimembranza d'un passato turbolento?

Kristian, ancora troppo addormentato e stanco per riuscire a distinguere pienamente la realtà dall'irrealtà, fu scosso ancora da altri brividi, copiosi e tutt'altro che piacevoli, che gli fecero aumentare il battito cardiaco.



No, un momento.
Islanda la sera prima era stato lì, a casa sua, insieme agli altri, ed aveva bevuto anche con lui. Perciò non poteva essere...
Non poteva non essere lì, ecco.
Anzi, a dirla tutta doveva essere nella stessa abitazione, visto che aveva invitato anche lui a rimanere a dormire lì, come tutti gli altri. La casa di Kristian non era enorme, ma abbastanza grande da poter lasciar dormire i suoi amici dove volevano (lui in camera sua, Islanda nella camera singola per gli ospiti, Svezia e Finlandia in quella matrimoniale e, ovviamente, Danimarca sul divano).
Quindi, non c'era da preoccuparsi.


Lui non aveva mai buttato Islanda nella neve, specialmente quando era piccolo.
Non l'aveva mai privato di attenzioni, scaraventandolo via da sé violentemente; e non aveva certamente mai e poi mai tentato di liberarsi di lui.
E il più piccolo, ovviamente, non aveva mai nemmeno osato chiamarlo in quel modo.


"Fjandinn".


Era una parola islandese, e Nor sapeva bene cosa volesse dire.
Il solo pensiero lo fece rabbrividire, lì, su quel letto, in cui la verità e la realtà facevano a cazzotti con la finzione e l'irrealtà, sconquassandogli la mente già abbastanza frastagliata.


Nemico.
Diavolo.
Demonio.


C'erano un bel po' di traduzioni per quella semplice parola di sette lettere; nessuna che potesse essere meno crudele delle altre, e che riuscisse a far emettere un sospiro di sollievo al norvegese.

Più ci pensava, e più si sentiva morire.
E forse la cosa peggiore era che non sapeva il perché.

Certo, aveva appena avuto un incubo in cui Islanda gli infieriva contro e lui, per tutta risposta, si sbarazzava di lui privandolo del respiro e del calore umano; ma, appunto, era solo un incubo. Qualcosa di irreale, insomma. Non era mai successo veramente.

...Ma forse...
Forse la paura di perderlo e di avergli anche solo fatto un brutto torto in vita sua era tale da farlo sobbalzare pesantemente e peggiorare il suo malessere fisico.
Il terrore di vederlo scomparire da un momento all'altro, che gli potesse succedere qualcosa, che non riuscisse più a muoversi con le sue gambe, era troppo grande per essere domato.
Sarà stata la notte, birbante ed oscura, che altera i sensi e distorce la realtà; tanto sta che doveva fare qualcosa, anche solo per calmarsi.


Il norvegese buttò le gambe giù dal materasso, alzandosi in piedi il più velocemente possibile, cercando di non perdersi nel buio della propria camera da letto, che diveniva spettrale ogni qualvolta un tuono, col suo amichetto lampo, squarciava il cielo tenebroso. Era incredibile come perfino quella stanza, a lui ben familiare e conosciuta, potesse diventare infinita ed estranea quando le tenebre incombevano su di essa e la notte divorava ogni cosa, ogni mobile, ogni punto di riferimento.
Si avviò verso quella che gli pareva essere la direzione della porta, scalzo, col pigiama bianco sgualcito per colpa di quella notte agitata, e poggiò una mano sulla maniglia, che ruotò il più lentamente possibile, cercando di non far rumore. La porta di legno cigolò appena, e lui sgattaiolò fuori, nel corridoio, che percorse ciondolando. Tutto intorno era buio, oscuro, nero; a differenza di quel sogno, in cui era tutto bianco, candido, puro, ma la macchia tenebrosa della morte l'aveva timbrato per sempre, imprimendolo nella mente del norvegese come il più tremendo dei ricordi guerriglieri.

Camminò qualche metro, appoggiando una mano su una delle due pareti ai lati, aiutandosi a reggersi in piedi e, soprattutto, a non perdere il contatto con la realtà nemmeno in tutto quel nero divoratore, malefico, che poteva celare dietro di sé qualsiasi cosa, dai rumori più tremendi alle figure più strane.
E lui in quel momento era come un bambino spaventato, che dopo un incubo cerca il coraggio per scendere dal proprio lettino ed andare dalla mamma, nella stanza accanto, dove è sicuro di trovare riparo, sebbene prima debba attraversare il corridoio tetro e silenzioso, che nasconde mostri cattivi e ombre terrificanti.


Raggiunse, finalmente, la porta della stanza in cui dormiva l'albino.
Kristian non esitò un istante. La aprì, con la solita premura che lo avvedeva dal fare anche il più piccolo rumore, ed entrò a piccoli passi, richiudendosi la porta alle spalle.
La pioggia picchiettava anche contro il vetro di quella stanza silenziosa, ove l'unico suono percepibile era il respiro profondo e leggermente affannoso dell'islandese dormiente.

Aiutato dalla luna che, in parte coperta dai nuvoloni pesanti carichi d'acqua, s'affacciava dalla finestra di quella camera illuminandola fiocamente, Kristian si avvicinò al letto, a ridosso d'un angolo della stanza. Il suo passo era lento e leggero, come la caduta d'un fiocco di neve, che scende dal cielo volteggiando in silenzio, fino a quando non tocca terra.


Eccolo lì, il suo caro fratellino dai capelli candidi e bianchi come le nuvole illuminati dalla flebile ed argentea luce lunare, e gli occhi simili a due splendidi ametiste, che in quel momento teneva chiusi.
Dormiva tranquillamente, a pancia in su, coricato sotto le proprie coperte nivee abbastanza pesanti per una stagione estiva come quella. Le lenzuola si muovevano appena in su e in giù, in corrispondenza del suo petto, che si alzava e si abbassava ad ogni suo più piccolo respiro.

Già era calmo di norma quando era sveglio, figuriamoci mentre era dormiente: sembrava un vero e proprio angioletto; un po' cresciutello per certe definizioni, forse, però per il norvegese lui rimaneva sempre il suo piccolo, ingenuo fratellino.


Kristian, a quel punto, fu ben lieto di emettere un lungo e profondo sospiro di sollevo, serrando le palpebre e privandosi così della vista per qualche istante.


Non avrebbe mai e poi mai potuto far del male a lui; al suo giovane fratello, che aveva trovato e protetto da secoli, aiutandolo a crescere e a diventare la nazione che tutti conoscevano per quello che era.
Si martoriò mentalmente, lanciandosi le offese più pesanti per aver anche solo pensato di avere il coraggio e la forza di schernirlo e farlo fuori con le proprie mani.
La realtà era la realtà; un sogno era un sogno; tra le due cose c'era assolutamente un alto e spesso muro, eretto dalla ragione al solo scopo di riuscire a distinguere entrambe le fazioni: una dettata dalla coscienza, l'altra più dall'incoscienza, o per meglio dire da un flusso di pensieri materializzato dalla mente in un momento di impotenza e mancata difesa.

Non sapeva però il perché di quell'incubo tanto macabro, e non era nemmeno sicuro di volersi dare una spiegazione plausibile.
Si autoconvinse pensando che al mondo ci sono cose che non si possono spiegare, e che delle volte la mente gioca brutti scherzi.


Riaprì gli occhi, lentamente, godendosi la bella vista di suo fratello dormiente, dalla bocca socchiusa e le palpebre ben chiuse. Probabilmente i suoi sogni erano più lieti di quello appena fatto dal norvegese. Chissà cosa stesse sognando... Magari un bel posto soleggiato, calmo e tranquillo, oppure una montagna di liquirizie salate, che a lui piacevano tanto.
Al tenero pensiero, Kristian incurvò un angolo della bocca all'insù in un lieve ma dolce sorriso, che rievocava alla mente tutti i bei ricordi passati di quando l'islandese, ancora piccolo, si svegliava e, subito arzillo ed entusiasta, gli raccontava dei sogni che aveva fatto. Alcune volte erano incubi, perciò la sua sveglia non era affatto beata e soave, tanto che correva dal norvegese piangendo, ma non capitava molto spesso.

Il biondo allungò una mano lì, sul viso dell'islandese, esitando qualche istante prima di sfiorargli la guancia, tiepida e morbida. Carezzò con la punta di due dita la sua pelle vellutata come quella d'una pesca e chiara e pallida come la neve, con molta delicatezza, facendo attenzione a non infastidirlo nemmeno un po' e a non svegliarlo.



- Dormi bene, min kjærlighet. -



Un sussurro, il suo, che andò subito a disperdersi nell'aria, coperto in maggior parte dal ticchettio delle gocce di pioggia, che puntellavano contro il vetro una dopo l'altra, sovrapponendosi tra di loro, come a voler sbirciare all'interno della stanza e vedere cosa stesse accadendo ai due fratelli nordici.
Un ultimo mezzo respiro, poi il norvegese si chinò lentamente in avanti, insicuro, quasi goffo nei movimenti; e, cauto e lesto come un lupo che si avvicina ad un suo simile senza alcuna intenzione di fargli del male, socchiuse gli occhi, avvicinando il proprio volto a quello dell'albino, lasciando che le loro labbra si incontrassero, in un piccolo bacio forse un po' ambiguo, ma tuttavia senza alcuna intenzione di intingerlo di malizia. Un po' come quelli che si davano entrambi, a vicenda, quando l'uno era piccolo e voglioso di coccole e l'altro grande e disposto a dargliele, sia per affetto, sia per tranquillizzarlo, e comunicargli senza parole che mai sarebbe rimasto solo.
Ma quella volta, chi doveva essere calmato dai brutti sogni e dai turbolenti pensieri, non era l'islandese; bensì suo fratello maggiore.

Un bacio a fior di labbra, forse a tradimento per il minore che dormiva, ma l'intento di Norvegia non era di certo quello di ingannarlo con gesti osceni e dichiarazioni a sua insaputa.
La madre che bacia teneramente il figlio mentre dorme non è di certo un'impurità.

Per evitare di giungere a fraintendimenti con l'islandese e soprattutto con la propria mente abbastanza confusa e poco lucida a quell'ora della notte, Kristian si staccò ben presto, raddrizzando la schiena e lasciando ricadere entrambe le braccia lungo i fianchi.

Un'ultima occhiata al suo angioletto dormiente, che sembrava non essersi mosso minimamente; poi, col solito passo silenzioso, s'avviò verso la porta, in sordina e più velocemente rispetto a prima però, come se non volesse farsi cogliere nel fatto. Nel profondo, si sentiva un ladro ad aver rubato un bacio a suo fratello. Anche se lui voleva intenderlo come gesto d'affetto e nulla di più, poteva essere fraintendibile vedere un ragazzo che baciava un altro, per di più se questo era dichiarato come suo fratello.



Mano sopra la maniglia, testa alta, espressione impassibile per crearsi un alibi che lo scagionasse dal misfatto, che in teoria l'avrebbe dovuto rendere un bel po' agitato ma che, invece, lo faceva essere apparentemente calmo.


Stava per aprire la porta, ma qualcosa lo fermò.
Qualcosa che lo fece sobbalzare e rabbrividire.
Qualcosa che lo fece sentire criminale tutto d'un botto.
Qualcosa che aveva sperato non percepire almeno fino al mattino dopo.






- Nore. -



Dopo quel mormorio sottile che però arrivò benissimo alle orecchie del norvegese, tutto si fermò.
Pregò ogni santo del paradiso che fosse stata solo un'allucinazione, e che quella voce se la fosse solamente immaginata. Per avere conferma, girò lentamente prima il capo in parte, poi si voltò del tutto, adocchiando il letto dove in teoria dormiva il fratello.
...In teoria.

Purtroppo, infatti, i suoi sospetti erano ben fondati, e la sua speranza di essersi immaginato nella testa quella semplice parola sfumò come polvere nel vento; e il suo cuore, per l'emozione e, diciamolo, anche il lieve spavento, perse un battito non appena vide l'islandese seduto sul materasso, con la schiena dritta, gli occhi semiaperti, le gambe ancora coperte dalle lenzuola, delle quali teneva il bordo vicino alla pancia con le mani.
La fioca luce della luna, alleggerita nel suo splendore dalle nubi che continuavano a scaricare pioggia sulla terra, illuminava ben poco il volto dell'albino, ma abbastanza da far notare al norvegese i suoi occhietti violacei e innacquati di stanchezza aperti, la sua boccuccia violata appena aperta, e la sua espressione seria e ancora non troppo lucida per il sonno stampata in volto; e lo guardava, a metà tra il severo e l'interrogativo, stringendo due lembi del bordo della coperta con le mani, senza dire una parola di più.

Al norvegese, allora, scappò un lieve sorriso. Ma non uno di quei sorrisi teneri, e nemmeno uno di quelli divertiti, bensì quello di un criminale che, colto con le mani nel sacco, non può fare a meno di rassegnarsi e riflettere sull'assurdità della situazione, vedendo la propria via di fuga svanire come se niente fosse.
Così, tolta la mano dalla maniglia della porta ed abbassata un po' la testa come farebbe un cane che, conscio d'aver appena fatto un guaio, aspetta la punizione del proprio padrone, il norvegese scrollò appena le spalle, sempre più convinto che se fosse rimasto fermo e buono sarebbe stato meglio, e avanzò molto lentamente in avanti, verso il letto dove il fratello minore l'aveva appena colto in fragrante.
Si sedette sul bordo del materasso, di fianco alle gambe dell'albino, infondo ai suoi piedi, come a voler stare il più lontano possibile da lui, in particolar modo dal suo viso, quasi per dimostrare che il suo gesto era stato più che impulsivo ma innocente. Ovviamente, in tutto questo, non gli rivolse nemmeno uno sguardo, ritenendo più interessante guardare le gocce di pioggia infrangersi contro il vetro della finestra sulla parete opposta della stanza.

L'islandese non aveva tolto un istante gli occhi da lui.
Fino a poco prima dormiva, ma poi aveva sentito nel sonno una voce sottile vicina, e si era svegliato. Ma, da bravo finto tonto e comportandosi da gatto sornione, aveva fatto comunque credere al fratello di stare dormendo, partecipando così ad occhi chiusi ma sensi all'erta alle sue parole, al suo atto e alla sua tentata fuga.
Certo, il bacio l'aveva fatto abbastanza rabbrividire, ma nulla di che. Non era stato poi tanto diverso da quando era piccolo e si scambiava con lui qualche bacetto a stampo tenero tenero, tra risatine divertite e versetti vari.
Solo che, quella volta, era stato... diverso.



- Hai avuto un incubo? -



Esordì così, il più giovane, facendo sussultare il norvegese, che tuttavia decise di non rivolgergli nemmeno in quel momento il proprio sguardo.
L'albino lo guardava con la solita serietà, unita però anche ad una punta velata di preoccupazione, tipica di chi sta bene ma capisce le pene degli altri, probabilmente perché già vissute e superate.

Il biondo scrollò di nuovo le spalle, sospirando a bassa voce, senza farsi sentire. Era serio anche lui, e s'era disfatto del sorrisetto di prima, trovandolo dopotutto inadeguato.



- Una specie. -



Rispose l'imputato indagato al giudice in sala, provando a mostrarsi disinvolto, mostrando così chiaramente la sua menzogna e, di conseguenza, la sua colpevolezza.



- Ti interessa tanto saperlo? -



Aggiunse poi, in un sussurro, atteggiandosi a strafottente, contando i lampi che vedeva fuori dalla finestra.

L'islandese esitò un istante, poi alzò le spalle, dopotutto una risposta non è che avrebbe avuto poi così tanta valenza per lui.
Inspirò profondamente, volgendo anche lui lo sguardo al vetro bagnato, senza però tener conto delle luci nel firmamento. Un tempo lo spaventavano, quando era bambino. Credeva che Thor fosse arrabbiato, a quei tempi, e che volesse far finire il mondo scaraventando tuoni, fulmini e saette sulla terra.



- Fuori c'è un brutto temporale. Non mi sorprenderei di vedere Dan svegliato da un tuono entrare qua da un momento all'altro. -



Osservò ironicamente l'islandese per alleggerire l'atmosfera, con lo sguardo perso al di là della finestra; ormai aveva detto addio al suo beneamato sonno.

Il norvegese gli lanciò un'occhiata di sbieco, notando il viso di profilo del fratello, e solo allora si decise a girare del tutto il capo verso di lui, delineando i suoi dolci lineamenti con gli occhi, abili osservatori.

Forse, e dico forse, nel profondo Norvegia sapeva che suo fratello si era svegliato non appena l'aveva sentito entrare nella stanza. Però, essendo questa l'opzione più scomoda, l'aveva scartata fin da subito; da quando aveva parlato, e si era sentito chiamare per nome da lui.
Ma probabilmente era il momento, quello, di ritirare fuori dai cassetti della mente questa aspra consapevolezza, cercando di spiegarla il più possibile.

Se era davvero così, voleva dire che il caro fratellino si stava comportando da finto ingenuo, come se niente fosse.
Questo pensiero, infastidì il norvegese.

Ma se era vero che a Kristian dava fastidio il comportamento da perfetto noncurante dell'islandese, allora era anche vero che, a differenza di quanto volesse far credere, al norvegese importava eccome di quel bacio rubato al minore.

E' come quando una persona si dichiara a te, tu la rifiuti, questa ti lascia in pace e tu, di conseguenza, ti impermalosisci perché non è più innamorata di te: o sei un ipocrita del cavolo, o sei innamorato a tua volta di lei; e nel momento in cui ti chiedi questo, sai già la risposta.

Così era per il norvegese, più o meno: l'aveva baciato, giustificando il suo gesto ambiguo come dimostrazione d'affetto, e nel momento in cui suo fratello aveva fatto finta di nulla il colpevole del misfatto si era amareggiato del fatto che l'altro non si fosse nemmeno domandato il motivo e soprattutto il senso di quel bacio rubato.

Fare tutti questi ragionamenti alle tre passate di notte non poté che far venire un gran capogiro al povero Kristian, già abbastanza frastornato di suo.
E la cosa peggiore non era il mal di testa, bensì il cuore, che inspiegabilmente aveva ripreso a battere velocemente.

Lui sudava freddo, l'islandese era la persona più calma su questo pianeta; e non doveva essere invece il contrario, visto che il norvegese sembrava sapere il motivo del bacio, mentre il più piccolo in teoria doveva essere confuso e pieno di domande?


Purtroppo per il nostro caro norvegese, chi sapeva come stavano le cose era proprio Jóhann7, mentre quello interrogativo e ignorante era niente meno che lui stesso.

L'ennesimo pensiero intricato, l'ennesimo giramento di testa, l'ennesimo tuffo al cuore.
Peggio di quando s'era svegliato dall'incubo.
In quel momento, era tutto reale.


Prima di sentirsi morire ulteriormente, il norvegese capì che doveva assolutamente inventarsi qualcosa.
Una spiegazione fasulla, una giustificazione,... qualunque cosa, pur di scagionarsi e sentirsi in pace con sé stesso.

Poteva, che so, mettere direttamente le cose in chiaro, dicendo che era stato un puro gesto d'affetto.
Ma... no, sarebbe sembrato troppo sospetto. Se fosse stato veramente così e l'islandese lo sapeva bene, non ci sarebbe stato bisogno di tutta quell'agitazione.
Magari poteva dirgli che l'aveva visto agitato nel sonno e che quindi, nel tentativo di tranquillizzarlo, aveva cercato di creare quel piccolo contatto col solo scopo di rievocare i vecchi tempi del passato.
...No, non avrebbe assolutamente retto. L'islandese era calmissimo, mentre dormiva, ergo di incubi, nei suoi sogni, nemmeno l'ombra.
Ammettere d'aver fatto un incubo e di aver avuto bisogno di calore umano?
Il suo orgoglio ne avrebbe risentito parecchio, oltre al fatto che avrebbe potuto carezzarlo solamente, senza necessariamente baciarlo.

E se...

E se avesse voluto farlo e basta?
Se avesse solo sentito il bisogno di baciarlo, di toccarlo, di sentirlo vicino come una volta?
...
No. Non come una volta.
Forse...
Forse qualcosa di più.

Così giovane; così ingenuo; così indifeso.
Così piccolo ai suoi occhi; così suo; così bello.

La rivendicazione d'un desiderio antico e ormai sepolto, ma non morto del tutto, come una pianta alla quale si toglie ogni cosa, tranne le radici, pronte a riemergere dal sottosuolo quando la terra è pronta ad ospitare di nuovo i loro frutti.

Quando si perde qualcosa che si ha vicino, che si vede tutti i giorni, e alla quale ormai non si dà più di tanta rilevanza...
E' in quel momento che si capisce quanto fosse importante per noi.
E quel sogno, quel maledetto sogno, in cui per mano incosciente e arrogante aveva visto svanire con facilità il tesoro della propria vita, aveva smosso qualcosa nel norvegese. Qualcosa forse di troppo pericoloso per essere rilevato così apertamente.


Ultima soluzione per il norvegese: scusarsi, ammettere d'aver agito d'impulso, alzarsi ed andarsene.
Forse, tra le tutte, era la più plausibile.
Di certo molto più di ammettere la scomoda verità.

Così, col cuore in mano, prese un lungo respiro, alzando gli occhi al cielo, per poi decidersi finalmente a parlare.



- Senti, lillebror, io-- -
- Vuoi dormire con me, Nore? -



Candida, pura, innocente, la vocina dell'islandese interruppe con un semplice sussurro quella più ridondante del norvegese, mai prima d'allora stato così irrequieto.

Entrambi volsero lo sguardo l'un l'altro: quello interdetto e sbalordito di Kristian, che tuttavia non si disfaceva della solita freddezza che lo caratterizzava; quello convinto e serio di Jóhann, che prima di suo fratello aveva compreso quello che era successo, affrontando il tutto con la più grande calma e diplomazia del mondo. Poi, generalmente parlando, sarebbe stato inutile discutere a quell'ora di notte, quindi perché non tranquillizzare il maggiore semplicemente?

In passato, era Norvegia che proponeva ad Islanda di dormire con lui quando quest'ultimo aveva gl'incubi.
Quella volta, i ruoli si erano invertiti, ed il più piccolo, dopo aver imparato dal fratellone, aiutava il più grande a superare la nottata, nel modo più calmo e saggio possibile.

Inutile dire la sorpresa del norvegese.
Più che della proposta di per sé, era allibito del fatto che fosse dovuto arrivare a farsi chiedere dal fratellino di dormire insieme a lui solo per tranquillizzarlo.
Lui era il maggiore, per diamine. Doveva essere lui a prendersi cura dell'altro.

E invece.

Credeva che l'altro avesse bisogno di lui; ma era lui ad avere bisogno dell'altro.

Per meglio dire, avevano la necessità di sostenersi a vicenda, di farsi scudo coi loro corpi, di aiutarsi reciprocamente nei momenti difficoltosi.
Forse per la prima volta dopo secoli, Norvegia lo aveva capito.



Fu con un sorriso sincero, visibile appena solo grazie alla flebile luce della luna, che il norvegese dette il suo assenso al fratello minore, che a sua volta incurvò timidamente un angolo della bocca, contento del mancato rifiuto del maggiore.

Pochi istanti, e finalmente furono sotto le coperte, al riparo dal freddo, dalle intemperie e dalle preoccupazioni. Stretti stretti, avvinghiati teneramente tra di loro, si lasciarono trasportare dalla stanchezza e da sogni candidi e felici, facendo riemergere così dall'abisso dei ricordi quei tempi in cui si addormentavano vicini, mano nella mano, scaldandosi a vicenda, sussurrando parole dolci mirate solo a confortare l'animo e sollevare il cuore.








- Lillebror... -

- Mh? -

- ...Tusen takk.























_________

♥Note dell’autrice♥



1Kristian = il nome che ho scelto per Norvegia

2Thorri = antico mese norreno invernale, attualmente riconducibile dalla seconda metà di gennaio alla prima metà di febbraio

3Calendigiugno = periodo di migrazione dei pascoli che va dalla fine di maggio all’inizio di giugno, paragonabile alla transumanza

4Ragnarök = nella mitologia norrena, i Ragnarök indicano la battaglia finale tra luce e tenebre, in seguito alla quale il mondo verrà distrutto e rigenerato

5Popolo nascosto = così erano chiamate le creature magiche che non si facevano mai vedere

6Mathias = il nome che ho scelto per Danimarca

7Jóhann = il nome che ho scelto per Islanda




…Ehm… che dire…
Ero in Norvegia quando ho scritto questa “cosa” e… Boh. Non ne sono per nulla soddisfatta, però mi andava lo stesso di pubblicarla in onore della storia norvegese che ho sentito quando ero nella cittadina di Åndalsnes, la quale mi ha appunto ispirata per scrivere queste due righe.
Si accettano pareri, critiche, scleri e qualsiasi altra cosa. SONO PRONTA. *Indossa armatura di ferro e sfodera ascia vichinga.*

Grazie lo stesso a chi è arrivato fin qui. çuç


Bless, bless,

A i s u ~

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