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Rea era una normalissima liceale
che doveva iniziare l’ultimo anno di superiori.
Non era tra le migliori della
classe, questo è certo, però riusciva a cavarsela grazie alla sua memoria, e, in
qualche modo, non aveva mai avuto problemi ad arrivare a fine
anno senza dover frequentare i corsi estivi. Il suo motto scolastico era
“se riesco a prendere la sufficienza andando a vela, chi me lo fa fare di
studiare?”. Così la si vedeva china sui libri quando proprio non era riuscita a
stare attenta in classe o non si ricordava nemmeno la materia di cui avrebbe
dovuto sapere il programma.
Non era molto alta, ed era anche
piuttosto in carne. Odiava completamente il suo corpo.
Le piacevano solo i capelli,
morbidi e di colore ramato, per il resto avrebbe volentieri fatto a cambio con
chiunque. Era piena di lentiggini ed era goffa e imbranata per colpa della sua
insicurezza.
Ogni volta che faceva qualcosa
finiva sempre per rendersi ridicola cadendo o dicendo cose senza senso, ed era
per questo che si vergognava di sé stessa.
Pensava di non essere brava in
niente, di non essere simpatica e di non essere bella, e questo le procurava un
grande dolore.
Aveva solo due grandi passioni, la
scrittura e il canto, ma in entrambe si sentiva sempre molto insicura. Teneva
nascoste le sue doti per paura di essere giudicata male o presa in giro, e si
premurava sempre di controllare di essere da sola quando provava una qualsiasi
canzone.
Avrebbe tanto
voluto uscire allo scoperto e farsi sentire da tutti, fare di quest’amore
per la musica il suo mestiere e vivere solo di quello, potersi scrivere i testi
e poi cantarli su un palco senza tremare come una foglia anche solo al
pensiero.
“Rea! Mi vieni ad aiutare un attimo?” la
chiamò sua sorella.
Spegnendo di mala voglia l’mp3, la
ragazza si alzò dal letto e uscì dalla sua camera.
“Che
succede?” domandò sbadigliando.
“Sono
sexy con questo vestito?” rispose l’altra. Lei alzò gli occhi al cielo e
scosse il capo.
“Sai che
sei un caso perso?” le fece presente. Con un sorriso smagliante, sua
sorella la fissò.
“Perché?” chiese ingenuamente.
“Lascia
perdere” disse.
Ecco, avere un fisico e
un’autostima come quella di sua sorella le avrebbe fatto comodo. Era alta e
slanciata, con lunghi capelli neri e lisci. Continuava a ripetere ad ogni ora
del giorno quanto fosse sexy e bellissima, facendo ridere tutti i suoi
familiari.
“Vuoi
un po’ di rossetto per uscire?” le propose, avvicinandosi minacciosa. Rea
spalancò gli occhi e arretrò spaventata.
“Ma
nemmeno per idea!” rispose. Odiava i trucchi. Per una nervosa come lei,
poi, che si strofinava gli occhi ogni poco, erano una tortura.
“Dai, solo un
pochino!” la implorò. Senza rendersene conto, indietreggiando si era
chiusa al muro, e non poteva più scappare.
“Ti
prego no!”
“Te ne
metto poco, promesso” sorrise l’altra. Rea strinse gli occhi e aspettò di
sentire il rossetto premerle sulle labbra, ma la porta fu spalancata e una
biondina piccolina entrò.
“Che
diavolo state facendo?” domandò incuriosita.
“Mi
vuole truccare!” piagnucolò la rossa, in direzione dell’altra sorella.
Questa si sedette sul letto.
“Se
non vuole, non insistere Emma” la sgridò bonariamente. Lei abbassò il
make up e la guardò tristemente.
“Perché?” chiese
depressa.
“Perché non la puoi costringere” rispose lei. Rea
approfittò del momento per sgusciare sotto al braccio della mora e nascondersi
dietro all’altra.
“Laura,
proteggimi” implorò.
“Comunque un po’ di trucco non ti farebbe male”
considerò.
“Ma come? Mi tradisci
anche tu? Sei crudele!” disse
la rossa. Emma rise.
“Te
l’avevo detto” gongolò.
“E poi
io non vengo con voi stasera!” fece presente. Le sue sorelle spalancarono
gli occhi.
“Che cosa?Perché?” chiesero insieme.
“Perché
non ho voglia” rispose lei con un’alzata di spalle.
“Ma non puoi non uscire! È sabato, dobbiamo divertirci!” s’infuriò Emma.
“Lo so,
e hai ragione, ma non sto molto bene e se uscissi sarei solo di peso”
spiegò.
“Certo che sei una palla” si lamentò Laura. Rea
sorrise e la guardò.
“Voi andate e divertitevi, ci vediamo quando
tornate. Vi aspetto
alzata e mi faccio raccontare tutto nei minimi dettagli per penitenza, va
bene?” propose. Le due si
fissarono e poi annuirono, un po’ deluse.
“Allora
a dopo” le salutò la ragazza, uscendo dalla stanza di sua sorella e
chiudendosi nella sua.
Quando fu rimasta sola, Rea uscì
da camera e sbirciò in giro. Fece il giro di tutte le stanze per essere sicura
che non ci fosse nessuno, poi tirò un sospiro di sollievo.
Amava quella famiglia allargata,
non avrebbe potuto considerarsi più fortunata di così.
Lei non era figlia genetica dei
coniugi Stevens: sua madre era la sorella della madre di Emma e Laura, ma fin da
piccole erano sempre state insieme.
Quando aveva più o meno quattro
anni, per colpa di un incidente d’auto i suoi genitori erano morti, e lei era
rimasta sola. Durante il funerale sua zia le era andata vicina e, con gli occhi
pieni di lacrime, le aveva spiegato gentilmente che sua
mamma aveva nominato suoi tutori lei e il marito. Alla sua fanciullesca
domanda “Che significa tuttori?”, la donna aveva riso e aveva risposto
dicendo che si sarebbero occupati di lei prendendola a vivere con sé.
Aveva continuato a chiamarli “zii”
per un po’, rimanendo sempre in disparte anche quando Emma e Laura la spronavano
a giocare con loro nonostante avessero passato insieme tutta la vita, poi si era
abituata a quel clima un po’ strano ed aveva iniziato a dire “mamma” e “papà”.
Dopo tredici anni, ormai, li considerava a tutti gli effetti suoi genitori,
anche perché non si ricordava quasi più quelli veri. Ne aveva sentito la
mancanza come tutti i bambini, ma era così piccola quando erano morti che il
dolore era passato senza lasciare traccia. Ogni tanto quasi si sentiva in colpa
nei confronti della loro memoria, poi, però, si ricordava di quanto sua madre
amasse la sorella e sorrideva pensando che, da qualche parte, lei la stesse osservando e fosse felice per lei.
Per quanto riguardava Emma e
Laura, invece, erano un caso molto particolare.
Avevano la stessa età, ma non
erano gemelle. Sua zia aveva avuto Laura a gennaio, felice di avere una bambina
in casa e convinta di volerne solo una. Nel giro di un paio di settimane, però,
aveva avuto una sorpresa un po’ improvvisa: era rimasta nuovamente incinta.
Non sapeva che potesse succedere,
per questo non si era protetta, e lì per lì lei e il marito erano stati un po’
titubanti: tenere o no il nuovo nascituro?
Solo quando aveva rischiato un
aborto spontaneo per colpa di una caduta dalle scale aveva deciso di volere con
tutta sé stessa il bambino, così si era fatta in quattro per stare dietro alla
neonata e alla gravidanza.
Con un mese di anticipo sulle
previsioni, Emma si era presentata in un soleggiato giorno di inizio
ottobre.
Tutte e tre, quindi, avevano ormai
diciotto anni (tranne la mora, che doveva compierli nel giro di due settimane),
e stavano per iniziare l’ultimo anno di liceo. Che cosa avrebbero fatto una
volta finito, era ignoto.
Persa in quei pensieri, Rea non si
era accorta di star sorridendo. Provava un profondo affetto per le sue sorelle,
così come lo provava per i suoi genitori, e si sentiva un po’ in colpa a tenere
loro nascosti i suoi manoscritti e le sue canzoni, ma non riusciva proprio a
cantare davanti ad altri.
Per evitare di pensarci, si mise a
preparare una crostata per le ragazze. Conoscendole, quando fossero tornate,
avrebbero sicuramente avuto fame.
“Non
mi diverto, Emma” si stava lamentando Laura, seduta su una panchina.
“Nemmeno io” ammise l’altra.
“Sapere che Rea non è uscita mi fa sentire in colpa, e per
questo non mi godo l’uscita. Forse
dovremmo rientrare” spiegò la bionda. Sua sorella sospirò.
“Hai
ragione, però non è giusto” si lamentò.
“Lei non vuole uscire e noi non ci godiamo la
serata. Che
palla!” continuò. L’altra
le dette un piccolo colpo su una spalla.
“Smettila, lo sai com’è fatta: è un tipo introverso e non
ama particolarmente uscire fino a tardi il sabato sera. Lei non è te” la sgridò.
“Lo
so, però…” provò a controbattere.
“Niente però, torniamo a casa” decise Laura.
Controvoglia, entrambe si alzarono
e cominciarono a camminare. Dopo pochi minuti, la bionda si ricordò di una
cosa.
“Ehi,
hai notato che Rea tiene una pila di quaderni nascosti in camera?” chiese
a Emma.
“Davvero?” si stupì lei.
“Hai
uno spirito di osservazione moooolto spiccato”
la prese in giro.
“Come potrei sapere una cosa simile? Sta chiusa in quella stanza per metà
della giornata e non dice mai cosa fa!”
ribatté.
“E’ vero, ma io sono entrata lì dentro l’altro giorno,
quando mi ha chiamata perché voleva che l’aiutassi a chiudere il vestito che la
mamma le ha comprato per il matrimonio di nostra cugina e che si stava
provando. Mentre si guardava allo
specchio ho notato che sopra la scrivania c’erano quattro quaderni aperti con
una penna in mezzo. Le parole erano scritte molto fitte. Conoscendola, non sono di sicuro i compiti per le vacanze” dedusse.
“Anche
perché quelli glie li ho fatti copiare io la settimana passata” ricordò
Emma.
“Esatto. Secondo te cosa nasconde?”
s’incuriosì Laura.
“Secondo me niente. Saranno stati appunti scolastici” minimizzò la mora, con un’alzata di
spalle.
“Mmmh…”
rifletté l’altra, poco convinta.
Quando giunsero in prossimità
della loro abitazione, entrambe si immobilizzarono.
“Cos’è questa musica?” domandò la bionda.
“Non
saprei, sembra che venga da casa nostra” rispose sua sorella. Videro
dalla finestra Rea che tirava fuori dal forno una crostata alla nutella e la
poggiava sul tavolo.
“Sta
cantando?” si stupirono.
“Io
non sapevo nemmeno che avesse il senso del ritmo!” aggiunse Emma.
Rimasero ferme a sentirla cantare
per un bel pezzo, rapite dalla sua voce, poi entrarono in casa.
Presa alla sprovvista e impaurita
dall’irruenza delle due, Rea rimase con la bocca spalancata e gli occhi
sgranati. Il cuore prese a batterle all’impazzata.
“C-che ci fate voi
qui?” domandò titubante.
“Stavamo tornando a casa e…”
“… ti
abbiamo sentita cantare!” dissero terminando l’una la frase dell’altra.
La rossa rimase un secondo
immobile, completamente pietrificata, poi corse a
nascondersi in camera sua, seguita dalle sorelle.
Si chiuse dentro a doppia mandata,
con la tachicardia, e le sentì battere i pugni alla porta.
Ringraziando tutti i santi
esistenti di avere la camera al piano terra e, quindi, di poter uscire dalla
finestra senza sfracellarsi al suolo, Rea aprì le persiane e si calò nel
giardino, andando a nascondersi dietro ad un cespuglio. Se fosse rimasta un
altro minuto nella sua stanza, sarebbe esplosa: Emma e Laura continuavano ancora
a cercare di farle aprire la porta e non erano intenzionate a desistere.
Sedendosi con le gambe strette al
petto, la ragazza cercò di fermare il panico che l’aveva assalita e di pensare
razionalmente: adesso che si faceva?
Avrebbe potuto dire che stava solo
canticchiando una canzoncina, ma era una bugia: quando era sola, tirava fuori
tutta la voce che aveva nei polmoni e non si fermava fin quando non si sentiva
stanca. Inoltre, sapeva che le sue sorelle non l’avrebbero bevuta.
Forse, allora, poteva inventarsi
che aveva lo stereo acceso. “Peccato che
noi non abbiamo lo stereo” si ricordò. L’unica soluzione possibile le pareva
che fosse espatriare, a questo punto.
Si mise a passeggiare sul
marciapiede che c’era subito fuori dal suo giardino, quando una moto arrivò a
tutta velocità e la superò. Le passò così vicino da spaventarla, facendole
lanciare un grido.
“Ma sei
pazzo?!” gridò in direzione del motociclista.
Non pensava che l’avrebbe sentita; non pensava che si sarebbe fermato; ma
soprattutto, non pensava che sarebbe tornato indietro.
Bloccandosi per la paura, Rea si
accorse della scemenza fatta. “Questa serata va di male in peggio” pensò.
Il centauro si stava avvicinando
pericolosamente e la ragazza si mise a fare i calcoli per capire quanto ci
avrebbe messo a rientrare in casa prima che lui arrivasse, ma le sue gambe erano
immobili e lei non riusciva quasi nemmeno a respirare. “Ora mi picchia, o
mi rapisce. O, peggio, mi ammazza” si disse in preda alla
paura. Si sentivano storie del genere ogni giorno al
telegiornale: ragazze violentate e poi uccise per una minima stupidaggine.
Stava per mettersi a urlare quando
il motociclista si tolse il casco, e lei spalancò la bocca dallo stupore: sotto
quell’affare c’erano un viso splendido e due occhi neri come il petrolio che la
fissavano.
“Chiedo
scusa per averti fatta spaventare” le disse, portandosi una mano dietro
la testa.
“Ehm…” Rea non sapeva nemmeno che dire. Aveva il cuore
che batteva forte.
“Tutto
ok?” le domandò, vedendola immobile. La ragazza si riscattò e si
allontanò.
“Se tu
fossi passato solo un centimetro più vicino al marciapiede, mi avresti tagliato
un polso!” lo sgridò arrabbiata.
“Mi dispiace, sul serio, non credevo di essere così stretto
con gli spazi. Puoi
perdonarmi?” le chiese, sfoderando un sorriso a
sessantaquattro denti. I suoi modi di fare la fecero, se
possibile, irritare ancora di più: ma da dove usciva fuori questo tipo?
“Gli
sciocchi come te non si perdonano, anzi dovrebbero sparire dalla faccia della
terra!” rispose. Non sapeva nemmeno lei da dove le uscisse tutta quella
sicurezza.
Il ragazzo rise di cuore e
appoggiò il casco alla moto.
“Hai la lingua che taglia, lentiggine. Sarà il caso che io stia attento” la prese in giro.
“Come mi
hai chiamata?” si arrabbiò Rea, diventando rossa da capo a piedi.
“Non
mordere, lentiggine, non voglio che
ti venga un infarto per colpa mia” le assicurò. La ragazza si avvicinò di
un passo e lo fissò.
“Potrei
benissimo chiamare i carabinieri e farti arrestare per tentato omicidio, lo
sai?” lo avvisò.
“Ma davvero? Io non ti
conosco, non so chi tu sia né dove vivi. Stavo solo passando con la mia moto per
strada. Se tu chiamassi i carabinieri, non solo io farei in
tempo a fuggire, ma tu passeresti per la visionaria che pensa che tutti ce
l’abbiano con lei” rispose lui, avvicinandosi a
sua volta. Rea lo studiò e poi scosse la testa.
“Mi stai
già antipatico, motociclista dei miei stivali”
decise. Fece per allontanarsi, ma lui la richiamò.
“Ehi, lentiggine, stai attenta a dove
cammini” si raccomandò ridendo.
“Va’ al
diavolo!” rispose lei. Che
tipo.
Rientrò in casa senza nemmeno
pensare al perché ne fosse uscita, e subito fu assalita dalle sorelle.
Maledicendo mentalmente quell’idiota per averla distratta, fu costretta a
mettersi a sedere davanti alla torta che lei stessa aveva preparato e a subire
le domande delle due.
“Allora? Da dove viene quella voce?” iniziò
Emma.
“Soprattutto, perché nasconderla?” continuò
Laura.
“Fatevi
gli affari vostri” rispose lei, arrossendo e abbassando lo sguardo.
“Ma
questa è una dote che devi tirare fuori!” s’infiammò la mora, battendo
una mano sul tavolo. Rea sobbalzò e la fissò.
“Ma quale dote e dote? Stavo cantando una canzone e basta” minimizzò.
“E basta? Stavi cantando in maniera divina!”
le fece presente. Ecco, lo sapeva: non era stupida, si
rendeva conto delle sue doti, però non voleva che altri sapessero (soprattutto
le sue sorelle) perché le conosceva e sapeva che avrebbero fatto di tutto per
tirare fuori la sua voce davanti ad un pubblico. Il solo pensiero le faceva
venire la nausea.
“Non è niente, sul serio! Cantate anche voi quando ascoltate
qualcosa che vi ispira, perché io vengo messa sotto accusa e voi no?” provò ad argomentare una debole
difesa.
“Io
sono stonata” rispose Laura.
“E io
non ho una bella voce” concluse Emma. Non poteva dar loro torto, avevano
ragione entrambe, però doveva trovare un appiglio per uscire da quella
situazione.
“E io non sono brava.
Discorso chiuso. Vi va una fetta di crostata?” disse velocemente, con un sorriso finto stampato in
volto.
“Discorso chiuso un cavolo!” si arrabbiarono le
ragazze. Rea sapeva che stava per cedere, lo sentiva dentro.
“Da
quand’è che sai di essere così brava?” le domandò Laura. Provò a
resistere, tentò con tutta sé stessa ma, alla fine, si arrese.
Evitò di fissarle mentre parlava,
soprattutto perché non sopportava quegli sguardi curiosi e affamati di
notizie.
“Avevo tre anni, credo, quando ho iniziato a imparare le
canzoni e a cantarle. Non ricordo un
periodo in cui io sia stata senza musica, anzi penso che sia stata più presente
di tante altre cose nella mia vita. Canto ogni tanto, quando
voi non ci siete, così, solo per sfogarmi”
spiegò con un’alzata di spalle.
“E
perché non ce l’hai mai detto?” chiesero all’unisono.
La ragazza strinse le labbra in
una smorfia contrariata.
“Io non
so cantare davanti a qualcuno. Mi viene l’ansia e mi sento come se avessi la
bocca impastata e le labbra secche. La voce si soffoca in gola e ho la
nausea”
“Che
schifo” commentò Emma. Rea rise.
“Adesso lo sapete, quindi finiamo qui il
discorso. Non mi va di
parlarne” disse poco
dopo.
“Ma…” provò a ribattere la mora, ma Laura la
fermò.
“Va
bene, basta così” accettò.
Mentre la ragazza si voltava per
prendere un coltello per tagliare la torta, la bionda fece l’occhiolino alla
sorella e sorrise, colpevole.
“Sono
già stanca il primo giorno di scuola” disse Rea, accasciandosi sul
banco.
“A chi lo dici.
Mi sono dovuta svegliare alle sette per essere pronta in
tempo” rispose Emma. Lei la
guardò male.
“Quello solo perché sei lenta a prepararti. Io mi sono alzata con mezz’ora di
ritardo rispetto a te ed ero pronta dieci minuti prima” la provocò.
“L’importante è che ce l’abbia fatta” ribatté la
mora.
“Come fate a prendervi in giro già di prima
mattina? Io non mi
ricordo nemmeno come mi chiamo!” domandò Laura,
con la testa appoggiata alle mani e gli occhi
semi-chiusi.
“Siamo
più sveglie di te” rispose Rea, ridendo.
In quel momento arrivò il
professore di fisica e matematica, che sbatté il registro sulla cattedra per
richiamare l’attenzione dei ragazzi.
“Buongiorno e buon inizio anno a tutti” li salutò,
sorridendo. Dal suo aspetto tutto si sarebbe potuto dire tranne che sembrasse un
insegnante di matematica: era alto e muscoloso, con i capelli castani e gli occhi verde-celeste. Qua e là aveva qualche ruga, ma non
gli si poteva negare il fascino evidente che emanava. Si era guadagnato la stima
dei ragazzi quando si era presentato solo come “Professor Jason”, senza cognomi
o formalità. Praticamente gli davano del tu e ci parlavano come se fosse uno
studente anche lui.
Emma ne era innamorata da due
anni, ma il fatto che lui fosse un professore la fermava ogni volta dal dire
qualcosa di più intraprendente che gli potesse far capire il suo interesse. Non
vedeva l’ora che arrivasse la fine della scuola per poterci parlare per bene e
vedere se riusciva a combinare qualcosa.
“Adesso
facciamo l’appello” annunciò, prendendo in mano il foglio con i nomi
degli alunni. Rea aveva notato subito che c’era un banco vuoto
proprio dietro di lei, ma non avrebbe saputo dire di chi era: tutti i
ragazzi che aveva in classe da quattro anni erano lì, si era ripetuta tutto
l’elenco in testa due volte per esserne sicura. Che ci fosse qualcuno di
nuovo?
“Stevens?” chiamò il professore. Tutte e tre alzarono
la mano e si fecero vedere.
“Com’è
sexy!” sussurrò Emma, seduta accanto a lei. Laura alzò lo sguardo al
cielo e le fece segno di smetterla. Erano tutte e tre nella stessa fila, messe
l’una vicina all’altra, e non facevano altro che parlottare quando i professori
spiegavano. Rea si era accaparrata il posto accanto alla finestra, così da poter
osservare la strada e farsi venire qualche idea per una storia. Era bloccata da
quasi un mese, e questo la faceva sentire costretta.
“Ah,
scusatemi, abituato all’elenco dell’anno scorso non avevo visto un nome nuovo:
c’è Fabio Daniels?” chiese Jason, scrutando la
classe. I ragazzi si guardarono attorno, e Rea fissò automaticamente il banco
vuoto dietro di sé.
“Dev’essere uno molto responsabile, se manca già il primogiorno” commentò Rea.
“Sono
qui!” disse una voce che proveniva dalla porta.
Sentire la voce, girarsi di scatto
e riconoscerlo fu tutt’uno, così come incrociare il suo
sguardo e sentire la tachicardia assalirla.
“Bene, allora direi che ci siamo tutti. Prendete i quaderni, quest’anno
cominciamo subito con le spiegazioni dei nuovi concetti” annunciò Jason.
Mentre il nuovo arrivato si
sedeva, Rea abbassò la testa e pregò chiunque fosse lassù che lui non l’avesse
riconosciuta. Quel gesto fece solamente in modo che lui la fissasse curioso e
sorridesse.
“Ma guarda chi c’è qui!
Buongiorno, lentiggine” la
salutò. Lei strinse i denti e lo ignorò.
“Cercare
di mimetizzarti con il banco non farà in modo che io non ti veda, lo
sai?” le fece presente, togliendosi il giacchetto di pelle.
“Non
voglio che tu non mi veda, ti sto solo ignorando” rispose.
“E perché mai? Abbiamo avuto un bellissimo momento l’altra sera” la prese in giro lui.
“Lascia
stare” rispose la ragazza. Fabio rise forte, attirando subito
l’attenzione della classe e facendo fermare la spiegazione del professore.
“Qualche problema, Daniels?” chiese, incuriosito.
“No, no,
mi scusi” rispose, trattenendo la risata. Jason tornò alla sua equazione
e lo ignorò, mentre Rea si mise a far finta di prendere appunti.
Emma e Laura, non capendo cosa
stesse succedendo, si scambiarono uno sguardo confuso.
Quando suonò la prima ora, Rea
cercò di pensare a un qualsiasi modo per far sì che il motociclista non la
torturasse, ma non ce ne fu bisogno: il gruppetto di galline che ogni classe che
si rispetti possiede fu intorno al ragazzo in tre secondi netti.
“Piacere, io sono Ginevra” si
presentò la prima.
“Io sono Matilde” continuò la
seconda.
“E io Maria” concluse la terza.
Rea alzò gli occhi al cielo e si
tranquillizzò: un ragazzo che piaceva a loro non sarebbe mai potuto piacere a
lei. E soprattutto, un ragazzo che si faceva incantare da loro non poteva
sicuramente innamorarsi di lei. Appreso questo, si godette la scena con Laura e
Emma al suo fianco che la fissavano male.
“Ehm,
ehm” si schiarirono entrambe la voce e lei si girò. Nel vedere il loro
sguardo, Rea rimase sorpresa.
“Che
c’è?” domandò, fissando le sopracciglia alzate delle sorelle.
“Lo
dovremmo chiedere noi a te” le rispose Laura.
“E
perché mai?” si stupì.
La bionda, semplicemente, indicò
il motociclista.
“Ah, per quello!
Niente, mi ha quasi ammazzata l’altra sera, quando voi mi stavate torturando per
sapere della musica. Ero scappata dalla finestra e lui mi ha superata in moto,
quasi staccandomi un braccio. Tutto qui” spiegò.
Tornò a fissare quelle tre che si
mangiavano Fabio con gli occhi.
Le dava leggermente noia che
esistesse qualcuno come loro, a cui piacevano solamente i bellissimi e
fichissimi. Se le immaginava già che discutevano su chi avrebbe dovuto farselo
per prima, e le venne la nausea.
Fortunatamente i suoi pensieri
furono interrotti dalla professoressa di inglese, e lei si concentrò sulla
spiegazione.
“Sentite, io ho
già bisogno di vacanze. Stasera si esce senza storie,
capito?” decise Emma.
“Decisamente” annuì Rea.
“Sicuramente” confermò Laura.
Si misero a parlottare sul
programma di sabato quando si avvicinò a loro Johan.
“Mi
posso aggregare?” domandò.
La bionda si zittì e arrossì
violentemente, mentre le altre due cercarono di trattenersi dal ridere.
Johan era loro amico da sempre,
più o meno. Rea lo ricordava da quando si era trasferita in casa Stevens e ci
aveva legato subito. Tra le tre sorelle era la più
maschiaccio e non aveva fatto fatica ad appassionarsi a videogiochi,
fumetti e arrampicate sugli alberi. Certo, anche Laura era fanatica di quelle
cose, però non si allontanava mai dai trucchi e dallo shopping, mentre lei non
riusciva a sopportarli. Sotto questo aspetto, stava meglio con i ragazzi che con
le ragazze.
“Sì,
certamente” rispose lei. La bionda era rimasta zitta e Emma si mise a
ridere, prendendosi una gomitata nelle costole.
“Che
fanno?” chiese Johan indicandole con il mento.
“Le
stupide” rispose Rea ridendo.
Laura si era innamorata del
ragazzo otto anni prima, quando lui l’aveva riportata a casa dopo che si era
fatta male cadendo dalla bicicletta. Si era sbucciata un ginocchio e si era
messa a piangere e lui, trovandola in quelle condizioni, se l’era caricata sulle
spalle e l’aveva accompagnata. Fondamentalmente lei non si era fatta nulla, però
in quel momento aveva avuto un batticuore forte e non voleva assolutamente
scendere da lì. Quando era arrivata a casa, Johan l’aveva salutata e se n’era
andato.
Solo dopo Rea e Emma si erano rese
conto che lei stranamente si zittiva quando il ragazzo era in giro e non avevano
impiegato molto a fare due più due.
“Ehi, a proposito, più tardi vado in libreria a comprare un
nuovo manuale per i videogame. So che tu volevi andarci per comprare qualcosa di qualcuno, andiamo
insieme?” le propose,
sorridendo.
“Qualcosa di
qualcuno è l’Amleto di Shakespeare,
idiota! Comunque vengo
volentieri, così mi fai vedere il manuale”
accettò.
Sentì Laura irrigidirsi al suo
fianco, ma, quando Johan fu andato via, si voltò con un gigantesco sorriso
stampato in faccia.
“Sono un
genio!” esultò. Entrambe la fissarono senza capire.
“Perché
quelle facce confuse?” domandò senza perdere il buonumore.
“Perché non abbiamo ben capito la tua genialità”
rispose Emma. Rea si sedette meglio e la fissò.
“Ok,
allora cerca di ragionare come ho ragionato io. Laura non riesce a parlare con
Johan perché si vergogna, giusto?”
“Sì”
“E
l’unica delle tre che sa fare un discorso serio con un ragazzo sono io, mi
segui?”
“Penso
di sì”
“Ecco.
Quando è con voi sicuramente non parlerebbe mai dei suoi problemi di cuore,
però…”
“Però
se voi foste soli sicuramente ti direbbe qualcosa!” esclamò Emma,
afferrando il punto.
“Esattamente!” confermò lei, soddisfatta.
“Io
non ho capito” sussurrò Laura, imbarazzata. Le altre due la guardarono
ridendo, divertite dalla sua ingenuità.
“Ho
intenzione di chiedere al tuo principe azzurro se per caso sta pensando a
qualcuna in questo momento” le spiegò Rea, continuando a ridere.
“Non
sono sicura di volerlo sapere” ammise la bionda, un po’ impaurita.
Vedendo la titubanza della
sorella, la ragazza le fece l’occhiolino.
“Fidati
di me: vi metterete insieme in quattro e quattr’otto” promise.
Quel pomeriggio, dopo aver
lasciato Emma e Laura a casa a prepararsi con il programma di tornare a
prenderle con Johan dopo essere stati in libreria, Rea uscì di casa felice e
sicura di sé. Niente poteva rovinarle il primo sabato libero dopo l’inizio della
scuola e, soprattutto, niente avrebbe dovuto rovinarle il piano perfetto ideato
per capire se al ragazzo piacesse sua sorella. O quasi.
“Tu
non stai bene” commentò Johan.
“Perché?” domandò Rea, fissandolo curiosa.
Lui, semplicemente, indicò la pila
enorme di libri che aveva in mano e la guardò alzando un sopracciglio.
“Che c’è? Sono solo un paio di volumi” si
giustificò lei, arrossendo.
“Un paio di
volumi? Sono
almeno otto!” esclamò
l’altro.
“Dettagli” minimizzò la ragazza, avvicinandosi alla
cassa.
Teneva gli acquisti in braccio e
non vedeva benissimo dove andava, così finì per inciampare su uno scatolone. Si
preparò allo schianto prima ancora di aver toccato terra e chiuse gli occhi,
aspettando l’impatto. Due secondi dopo, si rese conto che qualcuno l’aveva
fermata a mezz’aria e adesso la stava reggendo.
“Grazie
Johan che mi ha…” ma si bloccò, vedendo che l’amico le era davanti e non
dietro.
“Figurati, lentiggine” rispose una voce dietro di lei.
Rea s’irrigidì e alzò lentamente lo sguardo.
“Ciao” la salutò Fabio. La ragazza cercò di
divincolarsi, ma lui le tenne ferme le braccia.
“Si usa
dire grazie quando qualcuno ci salva
la vita” le fece presente. Lei quasi ringhiò.
“Non ho
intenzione di ringraziare uno come te” rispose.
“E io non
ti lascio” ribatté lui. Rea iniziò a muovere i piedi tentando di
pestarlo, con il solo risultato di farsi imprigionare una gamba tra le sue. Lui
si avvicinò al suo orecchio.
“Dimmi
grazie e puoi andare” ripeté. Sentì il suo respiro sul collo e le vennero
i brividi.
“Perché
vuoi sentirtelo dire?” domandò, rimanendo lucida a fatica.
“Perché è
buona educazione” disse semplicemente. La ragazza strinse i denti e
abbassò la testa.
“Grazie,
va bene?” urlò arrabbiata.
“Benissimo” rispose lui. La tirò su e le liberò braccia
e gamba, facendole ritrovare l’equilibrio.
“Sei uno
stronzo, posso dirtelo?” lo offese Rea, guardandolo in faccia. Fabio
rise.
“Puoi
dirmelo, ma non me ne curo. Personalmente, penso che tu mi abbia giudicato fin
troppo in fretta, lentiggine”
“E
smettila di chiamarmi con questo soprannome idiota!” gridò.
“Perché? A me piace!
E poi è simpatico” le
spiegò.
“A me, invece, non piace, e poi non è
simpatico. Anzi, TU
non sei simpatico!”
rispose.
Il ragazzo le si avvicinò ad un
orecchio.
“Prima o
poi cambierai idea su di me” le sussurrò. La sorpassò e se ne andò,
mettendosi le mani in tasca.
“N… Non
accadrà mai!” gli urlò dietro, sentendosi avvampare. Rimase a fissare il
punto dove lui era sparito fin quando Johan non le schioccò le dita davanti agli
occhi e la riportò alla realtà.
“Quello non era il nostro nuovo compagno di corso?”
domandò.
“Sì, era
lui” rispose la ragazza, recuperando i libri da terra.
“Oh. Siete intimi, vedo” commentò
lui. Rea lo guardò male.
“Nemmeno
per idea” negò.
“Io li
detesto i bellimbusti come quello là” gli fece presente. Poggiò i volumi
sul banco e tirò fuori il portafoglio.
“Quant’è?” chiese alla commessa. Lei sorrise.
“Niente, signorina” le disse.
“Che
cosa?” domandò la ragazza, pensando di aver capito male.
“Quel
ragazzo che se n’è appena andato ha lasciato detto di non farla pagare e che
tornerà più tardi per saldare il conto” le spiegò. Rea si sentì
morire.
“Sta
scherzando?”
“No di
certo. Mi ha detto di darle questo, se può servire” le passò un foglietto
scritto con grafia composta e elegante. “Accetta il regalo
in segno di scuse per l’altra sera. Buona lettura lentiggine!”
“Io lo
uccido” commentò, stropicciando il pezzo di carta.
Quella sera fu intrattabile per
tutto il tempo. Stette zitta quasi completamente, rispondendo male se qualcuno
le faceva qualche domanda. Emanava influssi negativi da tutti i pori.
“Ma le
è successo qualcosa?” chiese Emma a Johan.
“Il
suo ragazzo le ha pagato i libri e a lei non va giù” spiegò lui. Le sue
sorelle la fissarono.
“IL
SUO RAGAZZO?!” esclamarono sorprese. Rea strinse
i denti e lanciò a tutti e tre un’occhiata fulminante.
“NON.E’.IL.MIO.RAGAZZO!” rispose, scandendo bene ogni
parola.
“Ma
di chi stiamo parlando?” domandò Laura.
“Del
nuovo arrivato, Daniels” le disse l’amico.
“Ah, il motociclista! Ho visto la sua moto parcheggiata sotto scuola quando
siamo uscite. Dovevate vedere la faccia di Ginevra quando gli ha chiesto se
l’accompagnava a casa e lui, con sguardo di superiorità, le ha detto che sulla
sua moto ci sale solo lui. Credevo che l’avrebbe
accoltellato” rise Emma.
Rea, senza farlo notare a nessuno,
si sentì stranamente sollevata nel sapere ciò. Magari, per una volta, esisteva
un ragazzo abbastanza intelligente da non farsi abbindolare dai modi di fare di
quelle tre ochette.
“Comunque, se è stato così gentile da pagarti i libri,
perché non lo ringrazi, invece di comportarti da zitella inacidita quale
sei?” le domandò Laura, ridendo.
“Perché
pensa di poter comprare la mia simpatia”
“Ma
va’! secondo me si voleva scusare e basta”
“E di
cosa?!”
“L’hai
detto tu che ti ha quasi staccato un braccio l’altra sera!” le ricordò
Emma.
“Sì, ma
non bastava dirmi scusa se ho tentato di
ammazzarti?” chiese Rea, esasperata.
“Sai,
penso che tu sia troppo orgogliosa” commentò Johan.
“Io non
sono orgogliosa!” ribatté lei.
“E
permalosa” aggiunse Laura.
“Non è
vero, io…”
“E
acida!” rincarò Emma.
“Avete finito di insultarmi? Sono abbastanza arrabbiata già
così!” esclamò, stanca di
quell’interrogatorio. Rimasero tutti zitti per un minuto
intero, che sembrò interminabile.
“Senti, se proprio ti dà tutta questa noia che lui ti abbia
pagato i libri, un modo c’è perché tu ti metta in pari” le disse, sospirando, la mora.
“Cioè?” domandò lei, rincuorata.
“Restituiscigli i soldi, semplicemente. Glie li fai trovare sul banco lunedì
mattina e siamo tutti felici”
spiegò. Rea s’illuminò.
“Emma,
sei un genio!”
In camera sua, quella sera,
scrisse un biglietto e lo sigillò in una busta con i soldi.
“Non mi piace
accettare regali dagli sconosciuti. Ecco qua quello
che ti devo, non voglio avere debiti, con te soprattutto. Smettila di
torturarmi!
Il lunedì mattina, soddisfatta di
sé stessa, Rea arrivò in classe con cinque minuti di anticipo rispetto al solito
e mise la busta sul banco di Fabio.
Aspettò che arrivassero le sue
sorelle e poi si mise a parlottare conloro.
Come ogni lunedì, alla prim’ora
avevano matematica e Emma era completamente sconnessa. Era l’unica materia che
non riusciva a seguire perché fissava costantemente il sedere del
professore.
“Guarda
che stai sbavando” le sussurrò Rea. La ragazza si riscosse e la fissò
infastidita.
“Non
mi disturbare mentre m’immagino una possibile relazione con Jason” le
soffiò.
“Scusami” la prese in giro.
“Piuttosto, hai parlato con Johan, alla fine?”
s’informò la mora.
Anche Laura, sentendo il nome
dell’amico, si interessò alla discussione.
Rea si morse la lingua,
ricordandosi la promessa fatta a sua sorella, e le fissò entrambe con sguardo
colpevole. Emma roteò gli occhi.
“Te ne
sei dimenticata, vero?” le domandò.
“Forse
un pochino” ammise lei. Entrambe le ragazze sospirarono sconsolate.
“Mi
dispiace!” sussurrò.
“Ma mi
sono arrabbiata per la storia dei libri e non ci ho più pensato” si
scusò.
“A te
l’amore non fa bene” commentò Emma. Rea avvampò e la fissò con sguardo
truce.
“Non è
amore!” negò.
Con fare di superiorità, lei alzò
le spalle.
“Sì che lo è, e di quelli a prima vista. Credo che si chiami colpo di
fulmine” spiegò.
“Io ti
uccido” le promise.
“Rea, Emma, Laura, per favore! Fate attenzione a questo passaggio, è importante! Se lo perdete, dopo non riuscirete a capirci più nulla” le richiamò Jason. Tutte e tre
lo guardarono.
“Scusa” dissero all’unisono.
Abbassarono la testa e si misero a
prendere appunti per rimediare alla figuraccia fatta. O almeno, le due sorelle
lo fecero.
Rea, invece, quella mattina aveva
portato a scuola il suo quaderno di appunti per le storie che le venivano in
mente e, mentre tutti gli altri studiavano, iniziò a segnare le ultime idee per
il romanzo.
All’una, quando suonò la
campanella di uscita, la ragazza si alzò così in fretta dalla sedia che tirò un
calcio allo zaino, facendo finire tutto a terra: astuccio, diario, libri e
quaderni si riversarono sul pavimento.
Emma e Laura si misero a ridere e,
invece di aiutarla a recuperare il tutto, si diressero verso la porta.
“Questa è la punizione per esserti dimenticata la promessa
fatta” risposero.
Maledicendole in sei lingue
diverse, Rea iniziò a posare sul banco il materiale per poi aggiustarlo per bene
in cartella. Era un tipo spreciso, però ci teneva a
sapere che il diario e l’astuccio erano nella tasca piccola, i libri e i
quaderni in quella grande e le fotocopie nelle tasche laterali.
Quando ebbe finito di raccogliere
le cose, si alzò per infilarle nello zaino, ma si trovò faccia a faccia con due
occhi neri e intensi che la fecero spaventare.
“Oddio!” esclamò, indietreggiando. Fabio rise nel
vedere la sua espressione terrorizzata e si appoggiò con le mani al banco dietro
di sé.
“Mi hai
fatto paura!” lo sgridò.
“Se sei
una fifona non è colpa mia”
Lei lo ignorò e tornò ad
aggiustare il materiale in cartella, cercando di non fare caso al battito del
suo cuore.
Rimasero in silenzio per mezzo
minuto, nel quale la classe si svuotò completamente.
“Ehi, Fabio, ti aspettiamo qui
fuori, va bene?” cinguettò Ginevra. Lui la fissò con gli occhi freddi e fece un
gesto col mento, come a dirle “Fa’ un po’ cosa ti pare,
non mi interessa”.
Lei rimase immobile e strinse la
bocca. Rea avrebbe riso volentieri, se tutta quella situazione non l’avesse
fatta sentire a disagio.
Seppe di essere rimasta sola con
lui quando lo sentì scendere dal banco e avvicinarsi a lei.
“Credo
che questa sia tua” le disse, riconsegnandole la busta con i soldi.
“No, è quello che ti devo per i libri che ho comprato l’altro
giorno. Tieniteli” rispose. Fabio lanciò il denaro
sul suo banco e la fissò con aria di sfida.
“Non ho
intenzione di prenderli e, per quanto mi riguarda, rimarranno qui”
decise. Rea si voltò, trovandoselo a pochi centimetri. Nonostante sentisse le
gambe molli, resse il suo sguardo.
“Non
voglio avere debiti con te, te l’ho scritto nella lettera mi pare”
ringhiò. Il ragazzo le prese il mento tra le dita e le alzò la testa.
“Ti sto chiedendo scusa. Abbiamo iniziato col piede sbagliato e
voglio rimediare” le
spiegò. Sentiva chiaramente i battiti del cuore rimbombarle
nelle orecchie, e si chiese cosa sarebbe successo se si fosse avvicinata un po’
e l’avesse baciato. “Sì, brava,
bell’idea! Lui è bello, tu no, sicuramente si sta
solamente divertendo” disse una vocina nella sua
testa. A quell’ipotesi le salirono le lacrime agli
occhi e si scostò con prepotenza da lui.
“Smettila di prendermi in giro” sussurrò senza fiato.
Fabio rimase un attimo sconcertato da quella risposta, soprattutto perché Rea
aveva lo sguardo ferito.
“Ma
guarda che io…” provò a spiegarsi, ma lei lo superò e corse fuori dalla
classe con lo zaino aperto.
Il ragazzo, stupito, non si mosse
per qualche secondo, poi vide la busta con i soldi ancora sul banco e, accanto,
un quaderno un po’ malridotto.
“E
questo?” si chiese. Aprì la prima pagina per controllare il nome, ma non
c’era scritto niente nell’intestazione, così girò anche la seconda.
“Le insicurezze
dell’anatroccolo” lesse.
Dopo un paio di righe, il suo viso
s’illuminò.
Quando fu al sicuro in camera sua,
Rea si accasciò a terra e si mise a piangere. Nemmeno lei sapeva perché, ma era
il suo modo per combattere il groppo alla gola che le era salito quando si era
trovata così vicina a Fabio. Se ci ripensava, le veniva ancora il fiatone e le
gambe minacciavano di cederle.
“Calmati, calmati, calmati, calmati” si ripeteva come
un mantra.
Se le sue sorelle l’avessero vista
in quelle condizioni, sicuramente l’avrebbero torturata con domande e frasi
maliziose, finendo per farla confessare. Ma confessare cosa, poi?
Certo, il ragazzo era bello, e
questo poteva far venire la tachicardia a chiunque.
Va bene, era anche piuttosto
affascinante, con la voce profonda e sensuale.
Ok, ammettiamo anche che il fatto
che le desse più attenzioni di quante ne desse a quelle
tre oche la faceva stare bene. Ma questo non contava niente!
“Sì,
certo” disse ad alta voce. Non era brava nemmeno a mentire a sé
stessa.
Comunque, anche se era attraente e
non le era affatto indifferente, non poteva e non
doveva lasciarsi ammaliare dai suoi modi.
Lo sapeva come si comportavano
quelli come lui: prendono in giro le ragazzine che, come lei, sono bruttine e
insignificanti, cercando di intorpidire la loro mente con complimenti e
attenzioni e poi, una volta che se le sono fatte, le scaricano come fossero
sacchi di rifiuti. Se si ricordava di quanto i suoi compagni di classe l’avevano
presa in giro quand’era piccola e di quanto aveva pianto… NO! Non doveva
assolutamente caderci ancora.
Si alzò, decisa a scrivere un
altro po’, e si avvicinò alla sua cartella.
Aprì la cerniera e si mise a
cercare il quaderno rosso che usava come blocco notes, ma si accorse subito che
non c’era. Fu assalita dal panico: dov’era?
Uscì di corsa dalla sua stanza,
facendo irruzione in quella di Emma, che sobbalzò.
“Rea! Che diavolo, vuoi farmi morire giovane?” le chiese.
“Dimmi
che hai preso il mio quaderno rosso, ti prego, ti supplico, dimmi che ce l’hai
tu!” la implorò. La ragazza, notando il terrore della sorella, controllò
nello zaino, ma poi scosse la testa.
“Mi
dispiace, ma non ce l’ho io” rispose.
In prenda
al panico più completo, lei scappò in camera di Laura, aprendo la porta con un
colpo. La bionda, occupata a disegnare con la musica nelle orecchie, non se ne
accorse subito.
Rea le diede un colpo su una
spalla, e lei sbaffò sul foglio, lanciandole uno sguardo truce.
“Che
vuoi?” domandò arrabbiata.
“Per
caso, tra i tuoi quaderni vari, ce n’era un mio rosso?” s’informò. La
bionda si rimise le cuffie nelle orecchie e si piegò di nuovo sull’album da
disegno, cercando di cancellare l’errore.
“No, non c’è.
Ora vai al diavolo e lasciami disegnare” le intimò.
Buttata fuori dalla stanza, la
ragazza si accasciò a terra e si mise a piangere disperata. Se qualcuno avesse
trovato i suoi appunti sarebbe stata completamente finita.
Arrivò a scuola il mattino
seguente con le occhiaie. Aveva tolto ogni cosa dagli scaffali di camera sua,
aveva guardato sotto al letto, si era perfino messa a pulire nei cassetti della
scrivania, ma non aveva trovato nulla. L’ansia non le aveva permesso di dormire,
e si era ridotta a qualche minuto di dormi-veglia poco prima che la sveglia
suonasse.
“Hai
un aspetto terribile” considerò Emma, tirando fuori il correttore dalla
borsa.
“Che
vuoi fare con quel coso?” le domandò Rea, poco fiduciosa.
“Ti
rendo presentabile” le rispose l’altra. Dato che non aveva le forze per
opporsi, si fece mettere il trucco sotto agli occhi, nascondendo in qualche modo
i segni neri.
“Ecco,
va già meglio” disse soddisfatta sua sorella.
Laura non le parlava perché era
ancora arrabbiata per lo schizzo della sera prima. Era un angelo sotto molti
aspetti, ma se si trattava di disegni cambiava completamente personalità.
Se non fosse stata così stanca,
Rea si sarebbe scusata.
La professoressa di chimica entrò
in classe e si mise a sedere alla cattedra, iniziando a spiegare senza nemmeno
fare l’appello.
“L’anatroccolo,
anche quando diventa cigno, non acquista la sicurezza in sé stesso che avrebbe
avuto se fosse stato bello fin da piccolo. Essendo cresciuto
con la sicurezza di essere brutto e odiato da tutti, continuerà a portarsi
dietro questa convinzione anche da grande, sentendosi goffo e inutile, solo in
questo mondo.
I pulcini che erano
cresciuti con lui l’avevano preso in giro così tante volte che l’anatroccolo
aveva finito per accettare passivamente quelle cattiverie, convincendosi della
veridicità di quegli insulti. Non importa quanto un
anatroccolo diventi cigno, il suo carattere impaurito non cambierà con la
trasformazione” le sussurrò
una voce all’orecchio.
Sollievo. Nausea. Paura. Terrore.
Tutte queste emozioni colpirono Rea, che si girò lentamente.
“Ciao, lentiggine” la salutò Fabio.
“C-come sai… come
h-hai…” la sua domanda rimase a metà, incapace di terminarla.
Il ragazzo sorrise e si mise le
mani dietro la testa.
“Sono un
mago” rispose. Le mani della rossa iniziarono a tremare, rivelando il
nervosismo che si era impossessato di lei.
“Ti
prego… ti scongiuro, dimmi come….?”
“Penso,
ed è solo un’idea, che questo sia tuo” le disse, alzando il quaderno
rosso che aveva perso il giorno precedente.
Rimase impietrita a fissare il suo
blocco, stretto nelle mani del ragazzo, e si sentì morire.
Ecco, la cosa peggiore che poteva
capitarle era successa, adesso poteva anche andare a casa e suicidarsi.
“Dove
l’hai trovato?” sussurrò. Fabio sorrise e mise in cartella il
quaderno.
“E’ un
mio segreto, tu non te ne preoccupare” le rispose.
Rea avrebbe volentieri cancellato
dalla faccia del ragazzo quell’espressione soddisfatta lanciandogli contro
l’astuccio, ma capiva, anche in quel momento di panico, che non sarebbe stata
una mossa saggia.
“Restituiscimelo” ordinò, cercando di mostrare una
sicurezza che non aveva.
“No, per
il momento lo terrò io, poi si vedrà” decise lui. La rossa strinse i
denti e cercò di rimanere tranquilla, evitando di sputargli.
“Dimmi
cosa vuoi per ridarmelo e lo avrai” promise. Fabio sembrò quasi
considerare l’idea di avanzare una qualche richiesta, poi rise
sommessamente.
“Che ne
dici se ne parliamo dopo la scuola, magari a pranzo?” le propose.
“Eeeh?”
esclamò lei, dimenticandosi di dirlo a bassa voce. La professoressa la guardò
male.
“Stevens, qualche problema?”
domandò. Rea arrossì sotto gli occhi divertiti di tutti.
“N-no, semplicemente
sono riuscita a capire quel passaggio che non mi tornava” rispose
imbarazzata. La donna addolcì leggermente l’espressione sul viso e tornò a
concentrarsi sull’esercizio.
“Sai, lentiggine, se non ti controlli un po’ rischi che il tuo
segreto venga a galla. Fidati di me: è meglio se ne parliamo fuori di qui” le sussurrò Fabio, notando che Maria stava
ascoltando la loro conversazione. La ragazza strinse i
denti e cercò di arrivare indenne alla fine della giornata scolastica.
“Ho
fame, non vedo l’ora di arrivare a casa!” esclamò Laura, facendo lo
zaino.
“Mamma stamani mi ha detto che ci faceva trovare pronte le
lasagne. Buone!” la informò Emma.
Rea, che adorava la pasta al forno
della madre, rimase zitta. Nessuna delle sue sorelle aveva seguito lo scambio di
battute tra lei e Fabio perché entrambe stavano cercando di seguire la
spiegazione e, a parte per il
momento in cui lei aveva urlato, non le avevano minimamente prestato
attenzione.
“Andiamo, dai” la spronarono. Lei tergiversò un
secondo e guardò di sottecchi il ragazzo, che la stava aspettando pazientemente
appoggiato al muro. Strinse i denti e prese un bel respiro.
“Non
vengo con voi a casa, ho… ho… ho altro da fare” balbettò. Tutte e due la
fissarono con occhi sgranati: in quattro anni di scuola era la prima volta che
non tornava a casa con loro.
“E
dove vai?”
“Con
chi, soprattutto?!” le domandarono. Iniziò a
rigirarsi le mani con fare nervoso e le guardò supplicante.
“Sentite, poi vi racconto tutto, lo giuro, ma ora non fatemi
parlare” le implorò. Aveva notato che Maria, Ginevra e Matilde le stavano
ascoltando con fare molto interessato, nonostante cercassero di non essere
viste.
Laura si scambiò un’occhiata
confusa con la sorella e alzò le spalle.
“Ok,
come vuoi, ci vediamo dopo” la salutò.
“Che cosa?Ma io lo voglio sapere
ora!” si ribellò Emma. La
bionda la trascinò via e la fulminò con lo sguardo, zittendola.
Rea sospirò sollevata, ma si rese
subito conto della situazione instabile in cui si trovava e l’ansia l’assalì di
nuovo.
“Andiamo?” le chiese Fabio, avvicinandosi con calma.
Lei annuì, incapace di parlare. Sentiva il viso andarle a fuoco e la rabbia
possederla se pensava che la stava ricattando.
Mentre erano in corridoio, furono
fermati dalle tre ragazze che prima stavano origliando la conversazione.
“Ehi, guarda un
po’! Andate a pranzo insieme, oggi?” chiese
Matilde.
Lui rimase zitto e la fissò con un
sopracciglio alzato, mentre Rea scosse la testa e sorrise agitata.
“No, figurati! È che Fabio ha… degli appunti che mi servono di matematica e mi ha
proposto di passarmeli, solo che li ha a casa e sto andando a prenderli” inventò sul momento.
“Ma scusami, Emma non è bravissima in matematica? Non te li può dare lei?” fece presente Maria.
Lei si dette dell’idiota e deglutì
a vuoto, senza sapere cos’altro dire.
“Visto che li dai a lei, perché
non li presti anche a noi?” propose Ginevra.
“Già, così
magari ci dai anche altri appunti, visto che noi non siamo molto brave a
prenderli. Quelli che scrivevi oggi nell’ora di chimica
per esempio” la sostenne la prima.
Nel frattempo, Maria si era
avvicinata allo zaino che Fabio teneva sulla spalla destra e si era messa ad
armeggiare con la cerniera.
“Mi fai vedere cosa hai scritto,
così controllo per bene quali pagine mi mancano?” gli chiese.
Il ragazzo le lanciò uno sguardo
truce e si spostò bruscamente, facendole male alla mano con il movimento della
cartella piena di libri. Lei lanciò un gridolino e arretrò, poi si controllò il
dorso: era rosso.
“Ma sei scemo?!” gli chiese con la voce isterica. Entrambe le sue amiche
iniziarono a chiederle come stava, se aveva bisogno di ghiaccio… esagerarono
terribilmente quando le dissero che forse doveva andare al pronto soccorso.
“Tocca
ancora le mie cose senza chiedermelo e giuro che la prossima volta farò sul
serio” la minacciò. Prese Rea per un braccio e la trascinò fuori dalla
scuola, ignorando gli sguardi allibiti degli altri studenti.
Solo quando furono piuttosto
lontani la lasciò andare e la guardò sorridendo triste.
“Scusami,
non avrei voluto che tu assistessi” le disse. La ragazza rimase zitta.
Nel vedere la sua titubanza, lui si portò una mano alla testa e si scompigliò i
capelli, nervoso.
“Sul serio, mi dispiace. Mi sono arrabbiato e non ho
ragionato” si scusò ancora.
Gli venne il dubbio che lei volesse fuggire, invece scosse semplicemente la
testa.
“Se lo
sono meritate, tranquillo” lo rassicurò. Quando la guardò, lei aveva un
grosso sorriso soddisfatto stampato sul volto, e la prima cosa che il ragazzo
pensò fu che le donava.
“Non sei
arrabbiata?” le chiese.
“Arrabbiata? Perché
hai trattato male quelle tre? Figuriamoci! Io non le posso sopportare, mi
vengono i nervi se penso a quanto sfruttano il loro potenziale fisico per
raggirarsi tutti i ragazzi nel raggio di cinquanta chilometri! È una cosa spregevole e avvilente, soprattutto per chi appartiene al
genere femminile” rispose.
Non aggiunse di proposito il piccolo dettaglio che lei non avrebbe mai potuto
sfruttare i maschi solo perché era brutta. Non voleva umiliarsi fino a quel
punto.
Sospirando di sollievo, Fabio
ritrovò la sua faccia tosta.
“Perfetto, ora che abbiamo chiarito direi che dobbiamo
discutere del pagamento del tuo quaderno.
Magari davanti a una pizza”
disse. Solo al sentir nominare il suo blocco, Rea tornò
nervosa e tesa come una corda di violino. Solamente ora si ricordava come mai
era con lui.
“Non
potremmo, invece, parlarne subito e salutarci?” propose speranzosa. Il
ragazzo rise e le dette un piccolo colpo sul naso con l’indice.
“No, mia
cara lentiggine” negò. Poi si avvicinò un po’ di più.
“Per me è
una situazione troppo favorevole per non approfittarne” sussurrò. Rea non
sapeva se era più forte il desiderio di allungarsi e baciarlo o quello di dargli
un pugno sul naso.
Comunque, lo seguì, docile come un
cagnolino. Non sapeva nemmeno dove stavano andando, non stava minimamente
considerando la strada. Nella sua testa risuonava un allarme rosso, che le
intimava di stare lontana da lui qualsiasi cosa succedesse.
Era un ragazzo. Era bello. Era
affascinante. Non aveva nemmeno la più insignificante possibilità che si
interessasse a lei e che si innamorasse, per cui tanto valeva stringere i denti
e combattere contro il batticuore che le offuscava il cervello quando erano
insieme. Non era sicuramente la prima volta che cercava di soffocare i suoi
sentimenti prima ancora che nascessero, giusto? Ci aveva provato con Roberto
(anche se quella cotta era durata per mesi), poi ci era riuscita con Giacomo e,
infine, doveva esserne capace con Fabio.
“Siamo
arrivati” le annunciò lui, riportandola alla realtà. Si trovavano davanti
ad una piccola paninoteca, con l’insegna colorata e divertente. Trasmetteva
allegria.
Il ragazzo le fece strada, aprendo
la porta ed entrando.
“Mamma!” gridò, andando verso il bancone. Rea quasi
ebbe un infarto.
“Papà!” continuò a chiamare. Due signori sorridenti e
con l’aria stanca apparvero dalla cucina.
“Fabio, come mai
arrivi così tardi oggi? Ti aspettavamo almeno mezz’ora
fa” lo accolse la donna, abbracciandolo.
“Ho avuto
qualche problema con delle compagne di scuola, niente di importante”
minimizzò lui.
“Hai
fame? Ti cucino qualcosa al volo” gli chiese
l’uomo.
“Veramente siamo in due” fece notare il ragazzo,
indicando Rea. I suoi genitori la squadrarono, mettendola piuttosto in
imbarazzo.
“S-salve” balbettò lei in saluto.
“E’ la tua ragazza?” s’informò il
padre. Lei si sentì avvampare.
“No!” esclamò senza pensarci. Si rese conto solo dopo
della gaffe fatta e si zittì, fissando interessata il pavimento. Dal canto suo,
Fabio rise.
“No, figurati. È una
mia amica. Dobbiamo parlare di un progetto scolastico e l’ho portata qui a
pranzo. Per voi non è un problema, vero?” spiegò.
“No di certo! Mettiti pure comoda, cara, noi arriviamo subito!” le promise la madre, sorridendo
calorosa. Era così rassicurante che lei si sentì quasi a suo agio. Quasi.
Il ragazzo la raggiunse dopo aver
posato lo zaino dietro al bancone e si sedette accanto a lei.
“Allora,
cosa ti va di mangiare?” le chiese, facendo finta di consultare il
menù.
“N-non ho molta fame… in realtà vorrei che chiudessimo subito la
faccenda del quaderno. Ti prego,
restituiscimelo! Sono disposta a tutto per riaverlo” lo implorò. Sapeva di non
essere brava nelle trattative, ma era troppo preoccupata per avere un piano
serio in mente.
Fabio posò il menù sul tavolo e si
appoggiò con la testa sulle mani, incrociandole sotto al mento. Sorrise.
“Ma davvero? Senti, senti, dev’essere piuttosto
importante” iniziò a prenderla in
giro.
“Lo è,
ed è per questo che tu non avresti dovuto vederlo” confermò lei. No,
decisamente non aveva la faccia da poker.
“Quindi posso chiederti un prezzo alto per
restituirtelo. Interessante”
ragionò. Rea fu assalita dal panico, ma non ribatté perché
il padre del ragazzo andò da loro a portare una gigantesca pizza fumante.
“Ecco, questa
potrete dividerla. Penso che ne basti una sola, ma se
vi serve altro chiamateci” disse. Strizzò l’occhio alla rossa.
“So che non avete ordinato niente,
ma questa è la specialità della casa e ci siamo permessi di portarvela comunque”
si scusò. Lei rise.
“Si
figuri, anzi vi ringrazio” rispose.
L’uomo si allontanò e Fabio si
mise a tagliare il cibo.
“Che
buon odore” commentò Rea, annusando l’aria.
“Lo so. questa è la pizza migliore dei dintorni” la
avvertì.
“Lo dici
solo perché questo posto è tu…” non riuscì a finire la frase, perché lui
le aveva infilato un enorme pezzo di pizza calda in bocca. Quasi si strozzò per
la sorpresa, ma poi sgranò gli occhi.
“Cavolo,
è buonissima!” esclamò, cercando di non fare troppo danno con la
mozzarella fusa che le cadeva dalle mani.
“Te
l’avevo detto” le fece presente lui, soddisfatto.
Venti minuti dopo, entrambi si
erano più che saziati.
“Con lo
stomaco pieno posso pensare meglio ad una richiesta come pagamento per il tuo
quaderno” disse.
“Senti,
sul serio: dimmi ciò che vuoi e giuro che farò di tutto” lo implorò.
“Sai che
potresti essere sfruttata sessualmente, con una promessa simile?” le chiese malizioso, avvicinandosi pericolosamente. Rea
arrossì e indietreggiò con la sedia.
“Non…
non ho intenzione di scambiare con te favori sessuali!” esclamò. Fabio la
fermò, tirando a sé la seggiola e sussurrando.
“Perché
no?” domandò serio.
“F-Fabio… che diavolo
stai insinuando?” balbettò. “Allontanalo, allontanalo, allontanalo,
allontanalo…”
“Non so. Tu che dici?”
ribatté. Era sempre più vicino, ma fu solo quando sentì il
suo respiro sulle labbra che lei dette un colpo con le mani al tavolo per
spostarsi. Sorpreso, il ragazzo le lasciò andare la sedia, che si inclinò
pericolosamente all’indietro.
Presa alla sprovvista, Rea percepì
tutto il suo corpo ribaltarsi con la seggiola, ma, fortunatamente, qualcosa la
fermò. Sentì una specie di colpo sulla sua schiena, poi la caduta si
arrestò.
“Ma
che…?” aprì gli occhi e vide Fabio che, per evitare che lei si facesse
male, aveva allungato una mano, recuperando la sedia a pochi centimetri da
terra, ma facendola battere sul suo polso. Nonostante lo schianto, strinse i
denti e resse sia lei che il mobile, cercando di non farle sentire quanto
avrebbe volentieri urlato dal dolore.
La ragazza si alzò velocemente
quando capì cos’era successo, consapevole di non essere una piuma e che un colpo
del genere al braccio, per quanto forte uno potesse essere, doveva fare
male.
“Maledizione, potevi lasciarmi cadere!”. Si
inginocchiò accanto a lui e gli spostò un poco la
maglietta: dove aveva preso la botta era tutto livido e gonfio, e, quando provò
a muoverlo leggermente, lo sentì mugolare.
“Sei un
idiota” lo accusò. Fabio sorrise mentre lei andava dai suoi genitori a
prendergli un po’ di ghiaccio.
“Cos’è successo?” sentì chiedere
da sua madre. Rea spiegò a grandi linee l’accaduto, sorvolando sui loro discorsi
e sul perché si era spinta indietro.
Tutti e tre gli andarono intorno
poco dopo, controllandolo, ma fu solo la ragazza a rimanere lì per reggergli la
busta con i cubetti.
“Ti sei
fatta niente?” s’informò lui, cercando di non gemere dal dolore.
“Io?” chiese lei, senza capire.
“Sì” confermò. Rea arrossì e scosse la testa.
“No,
grazie” rispose.
“Meglio
così” commentò Fabio, sorridendo. La ragazza cercò di non badare a quello
che stava provando in quel momento, sperando con tutta sé stessa che fosse solo
l’agitazione del momento e non altro.
“Scusami” disse improvvisamente l’altro.
“Eh?” esclamò la rossa.
“Non volevo essere scortese, prima. Mi piace quando diventi rossa e volevo
vedere le tue guance infiammarsi sotto le lentiggini” ammise ridendo.
“Sei un
idiota” lo accusò, premendo apposta un po’ più forte sul livido per
togliergli dalla faccia quel sorriso ebete.
“Ngh, fai
piano!” gemette lui. Allentò un po’ la pressione e si mise a sedere
vicino a lui, tenendo il suo braccio sulle gambe.
“Comunque ero seria.
Favori sessuali esclusi, io sono disposta a qualsiasi cosa per
riavere il mio quaderno”
esordì.
“Perché?” le chiese Fabio. Rea distolse lo sguardo e
fissò il muro.
“Se qualcuno leggesse quel romanzo, diventerei lo zimbello
della scuola. Nemmeno Laura o Emma sanno
di questo, ed è bene che rimanga un segreto. Anche tu devi
stare zitto, ti scongiuro”
spiegò.
Il ragazzo lasciò cadere la testa
indietro e guardò il soffitto.
“Qualsiasi cosa?” domandò.
“Qualsiasi cosa” confermò lei. Abbassò gli occhi e la
fissò intensamente.
“Allora
dovrai essere la mia schiava personale per un’intera settimana”.
“Andiamo?” la chiamò Fabio, quando lei ebbe finito di
fare sia la propria che la sua cartella.
“Arrivo” rispose sospirando. Laura e Emma li fissarono
incuriosite, morendo dalla voglia di sapere come mai lei lo seguisse tanto
docilmente.
“Mi
aiuteresti a mettere la giacca? Ho dei problemi con il polso” le domandò,
mal celando un sorriso divertito. Rea si sentì in colpa per una frazione di
secondo, poi si ricordò che lui la stava ricattando e mise il broncio.
Dopo la sua richiesta assurda, sua
madre aveva insistito per portarlo al pronto soccorso, dato che il polso non
voleva sgonfiare e che lui non riusciva a muovere la mano. Aveva invitato anche
la ragazza ad andare con loro, ma lei aveva elegantemente rifiutato, dicendo che
non le piacevano gli ospedali. In realtà, sperava che Fabio cambiasse idea e le
chiedesse qualcos’altro, anche dei soldi, pur di non dover cedere a quel ricatto
stomachevole. Purtroppo, nonostante le sue richieste, lui l’aveva chiamata
quella sera sul cellulare (come avesse fatto a trovare il numero non l’aveva
ancora capito) per dirle che gli avevano fasciato il polso dicendogli che se lo
era slogato e che doveva tenerlo fermo per dieci giorni.
“Sembra
fatto apposta, vero?” domandò.
“In che
senso?” chiese lei, senza capire.
“Invece
di una settimana, starai con me per tutto il periodo in cui avrò le bende, così
che mi aiuterai. Sarai la mia infermiera personale” decise, usando di
proposito un tono sensuale e malizioso.
“Naturalmente, questo rimarrà un segreto solo tra me e te, non
dovrai dirlo nemmeno alle tue sorelle” le ricordò.
“Stai
tranquillo, io non ho assolutamente intenzione di far sapere a qualcuno del tuo
sporco ricatto” gli assicurò. Fabio rise.
“Non lo
chiamerei ricatto ma scambio di favori”
“Tu mi
hai rubato il quaderno! Non è uno scambio perché l’unico che ci guadagna sei
tu!” gli urlò Rea, arrabbiata.
“Dettagli” aveva minimizzato.
L’aveva salutata col dire che si
sarebbero vistil’indomani a scuola
per decidere per bene come strutturare le loro giornate.
Erano già passati quattro giorni,
nei quali la ragazza aveva più volte avuto l’istinto di strozzarlo con le sue
mani. Le aveva fatto svolgere i suoi impegni domestici, facendole pulire la sua
stanza (peraltro già splendente), lavare i piatti e fare il bucato. Rea non
pensava che anche i maschi facessero quelle cose, ma finché si trattava solo di
questo poteva farcela. Il suo problema era che non solo aveva dovuto fare uno
scambio di posto con Johan, che prima era accanto a Fabio e ora era accanto a
Emma, ma doveva stargli appiccicata per aiutarlo a scrivere e a fare la cartella
ogni santo giorno. Non vedeva l’ora che quella settimana finisse per potergli
stare alla larga almeno il sabato, e, dato che era venerdì, doveva aspettare
solo altre ventiquattro ore.
“Oggi non
ho niente da farti fare: le faccende domestiche le hai già finite ieri e non ci
hanno dato compiti di alcun genere” le disse il ragazzo mentre andavano
verso la paninoteca. Pranzavano lì insieme e poi andavano a casa sua.
“Quindi
posso andare via?” gli domandò speranzosa. Aveva bisogno di parlare con
Laura e Emma, che vedeva pochissimo: tornava così tardi la sera, che cenava e
andava direttamente a dormire, stremata. Tanto non doveva studiare, visto che
faceva i compiti nel pomeriggio con lui.
“No,
affatto. Ho bisogno che tu faccia una cosa per me, poi puoi andartene” le
rispose.
“Una
sola? È una sciocchezza! Dimmi tutto” disse felice.
Fabio sorrise e la fissò.
“Voglio
che tu mi prometta che sabato e domenica sarai solo mia” sussurrò,
facendola fermare. Come sempre quando la guardava con quegli occhi neri e
intensi, il cuore di Rea prese a battere all’impazzata.
“Ma
sabato sera volevo uscire, e domenica avevo promesso a Emma e Laura che
studiavamo insieme per il test di matematica di lunedì!” si ribellò
lei.
“E invece
farai esercizi con me e domani verrai a cena a casa mia” decise.
“C-cosa?” esclamò la ragazza. Fabio rise nel vederla
arrossire e le accarezzò una guancia.
“Esatto.
Consideralo un appuntamento vero e proprio, visto che saremo soli” le
consigliò ammiccante.
“E… e se
non volessi?” suggerì.
“Dovrei
rendere pubblico il tuo quaderno. E tu non vuoi che succeda, vero?”
domandò. Rea deglutì e si sentì costretta a fare qualcosa che non doveva
fare.
“Va
bene, verrò da te” accettò, abbassando la testa. Il ragazzo si chiese se
non stesse esagerando, ma la prospettiva di poter stare da solo con lei, senza
scocciatori o senza che fosse impegnata a fare le sue faccende era troppo
allettante.
La guardò andare via senza nemmeno
pranzare, sperando che andasse tutto per il meglio.
Rea rincasò distrutta. Aveva i
nervi a fior di pelle e un’enorme voglia di urlare. Laura e Emma quasi non le
parlavano più perché si erano arrabbiate quando l’avevano vista spostarsi di
banco dietro di loro, e lei non sapeva più che inventarsi per fare in modo di
scusare la sua assenza. Se avesse detto anche una sola parola sul ricatto,
avrebbero capito che aveva qualche segreto e questo avrebbe peggiorato ancor di
più la situazione.
Come richiamate dai suoi pensieri,
le sue sorelle apparvero nell’ingresso, stupite nel vederla rientrare così
presto.
“E tu
che ci fai qui? Credevamo fossi da Fabio” la accolsero. La ragazza
strinse i denti e si chiese come fare, poi si stampò un sorriso sulla faccia e
le guardò tranquilla.
“Oggi il
suo polso stava meglio e non aveva bisogno di me per dargli una mano nelle
faccende di casa, quindi sono venuta via” rispose. Tutte e due sorrisero
maliziose mentre lei si toglieva il giacchetto.
“Quindi oggi possiamo metterti sotto torchio esapere come mai, da martedì, non fai
altro che stargli appiccicata!” esultò Laura. Le era passata
l’arrabbiatura del disegno già dal giorno dopo che era successo e quasi non se
ne ricordava più.
“Preferirei di no” commentò storcendo la bocca. Sapeva
benissimo che non avrebbero mollato la presa finché non avesse cantato come un
fringuello, ma almeno ci stava provando.
“Invece sì!” decise Emma. La presero di peso e la
fecero sedere in cucina, mettendosi davanti a lei con le mani appoggiate sul
tavolo.
“Dicci
come…” “…quando…” “…dove…” “… e
perché…” “…tu e Fabio siete sempre
insieme!” le dissero all’unisono. La ragazza si morse l’interno della
guancia per evitare di confessare tutto.
“Quando
martedì sono andata a pranzo con lui si è fatto male per colpa mia e mi sento in
dovere di aiutarlo fin quando non potrà muovere il polso” rispose. Con le
bugie era pessima, ma così stava riuscendo a dire una mezza verità, quindi era
più semplice.
“E
come mai siete usciti insieme martedì?” fu la domanda successiva. Rea si
sentì avvampare, ma rimase zitta senza confessare.
“Allora?” la incalzarono. “Non parlare, non
parlare” ripeteva una voce dentro di lei.
“Guarda che se lo chiediamo a lui, sono sicura che
risponderà” la minacciò Emma.
“Non
credo proprio che lo farà, ma apprezzo l’impegno” rispose, ringraziando
il fatto che anche lui voleva tenere segreto il motivo dei loro incontri.
“Per
cui diccelo tu!” s’infiammò Laura. “Inventati
qualsiasi cavolata, ma non dire del quaderno!”
“Beh,
lui aveva… aveva gli appunti di chimica che io non riuscivo a seguire e si è
offerto di prestarmelo, ma siamo dovuti andare a prenderli a casa sua”
iniziò.
“Poi io
sono inciampata e lui, per recuperarmi, ha battuto il polso, slogandolo”
inventò.
“E
perché non chiedere a me gli esercizi? Ti deve interessare proprio tanto se
rifiuti i miei per i suoi” rise la mora.
“Lui non
mi piace! Non mi interessa per niente” negò la rossa, sentendo il cuore
accelerare i battiti.
“Certo, come no?” la prese in giro la bionda.
“Ehi,
potresti chiedergli se domani sera esce con noi!” propose Emma,
sorridendo. A quelle parole, lei si ricordò dell’appuntamento e abbassò la
testa.
“N-non
penso che uscirò… domani” balbettò.
“Perché?” le chiese Laura. “Ma porca
§@#%*”
“Perché…
perché… ecco, ho mal di gola e sapete che non posso assolutamente perdere la
voce dato che mi alleno a cantare ogni volta che posso. Essendo già poche, non
posso sprecarle perché sono fioca, quindi, onde evitare di prendere freddo,
preferisco rimanere a casa” spiegò. “Fa’ che
funzioni!”
“Oh.
Ma noi avevamo programmato già di andare in discoteca!” le disse
tristemente la più alta.
“Lo so e
non so dirti quanto mi spiace, ma voi andate e divertitevi comunque”
rispose.
“Sei
sicura? Se vuoi spostiamo la cosa alla prossima settimana e rimaniamo in casa
con te” propose l’altra, generosa.
“No, no,
figurati!” si affrettò a tranquillizzarla lei. Nel vedere gli sguardi
allibiti della sorella capì di essere stata anche troppo affrettata.
“Mi
sentirei in colpa se voi non vi godeste l’unico giorno libero che abbiamo a
disposizione per causa mia, quindi andate e non pensate a me, io starò
bene” rimediò.
Rimasero zitte tutte e due,
capendo che c’era qualcosa di più profondo che Rea non aveva confessato.
“Devi
darci una mano, Johan” esordì Emma, il mattino dopo, parlando col
ragazzo. Lui la fissò con gli occhi spalancati.
“A far
cosa?” domandò confuso.
“A
capire che diavolo sta combinando nostra sorella! Con te parla, si confessa,
magari ti dice anche che cosa succede” rispose. I suoi occhi si
rattristarono.
“Da
sabato passato ci siamo a mala pena detti ciao. Sembra talmente presa dal suo
nuovo amico che non considera più noi tre” le fece presente.
“Lo
so, ma tu sei quello che le è più vicino, le sei più intimo anche di noi, quindi
ti prego, almeno chiedile il vero motivo per cui non esce stasera!” lo
implorò. Johan sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“Posso
provarci, ma non assicuro niente. Laura, tu che ne pensi?” le chiese. La
ragazza, in tutto questo discorso, era stata zitta a fissare estasiata i suoi
capelli biondo cenere e i suoi occhi azzurrissimi, e non si era accorta che
luile stava parlando.
“Ehi,
bella addormentata, ci sei?” la chiamò, agitandole una mano davanti agli
occhi. Lei sobbalzò e arrossì.
“Eh?
Cioè, sì… cioè…” iniziò a balbettare frasi sconnesse e senza senso,
esasperando la sorella, che sospirò arrendendosi.
“Certo
che sei proprio strana” commentò Johan, fissandola.
“Scusami, stavo pensando ad altro” disse mesta.
I tre decisero che il ragazzo
avrebbe parlato a Rea durante la ricreazione. Tutti e tre sperarono vivamente di
riuscire a venire a capo di tutta quella faccenda.
Rea pensava e ripensava a
soluzioni possibili per evitare di dover fuggire, ma non ne trovava: ormai aveva
detto a Laura e Emma che stava a casa per motivi di salute, anche se non sapeva
proprio come loro avessero potuto berla visto che lei non aveva MAI il mal di
gola. O aveva avuto una fortuna sfacciata o loro non le avevano creduto e le
avevano detto di sì solo perché le volevano bene.
Era ancora sovrappensiero quando
Johan si sedette sul suo banco, facendola sobbalzare.
“Ehilà, come va?” le chiese sorridendo. Se
rifletteva su ciò che stava facendo su commissione delle sorelle Stevens gli
veniva il magone, quindi preferiva non farlo.
Rea sorrise stanca.
“Bene,
per il momento tutto ok. Tu?” rispose. Lui alzò le spalle.
“Come
al solito: scuola, casa, videogames… conosci benissimo i miei ritmi” le
ricordò.
“Già,
non hai una vita privata particolarmente proficua” lo prese in giro.
Johan le dette una piccola spinta.
“Tu,
invece, sei molto attiva sul piano sentimentale, ho notato” disse,
buttando l’esca. La ragazza arrossì.
“Fidati,
non è proprio vero” gli assicurò, guardando altrove. Lui notò che il suo
sguardo si era leggermente rattristato e la fece girare verso di sé.
“Ehi,
qual è il problema?” domandò. Rea fu tentata di dirglielo, ma vide Fabio
rientrare in classe in quel momento e cambiò idea.
“Nessun
problema, sono solo stanca. Ho un po’ di mal di testa, non mi sento troppo
bene” lo tranquillizzò. Sapeva di mentire e sapeva che lui lo aveva
capito, ma pregò dentro di sé che non dicesse niente.
“Va
bene, se ne vorrai parlare io ci sarò” le promise, tornando al suo
posto.
Jason entrò in classe e iniziò a
scrivere alla lavagna gli esercizi in preparazione al compito, ma lei non lo
ascoltava: si sentiva in colpa nei confronti del suo migliore amico.
Controllò che il suo compagno di
banco non le prestasse attenzione e scrisse un messaggio su un biglietto.
“Alle quattro,
tieniti il cellulare vicino. NON far leggere il messaggio a Emma e Laura o giuro
che ti prendo a calci nelle chiappe!”
“Qui parla la
segreteria telefonica del più bel ragazzo della città. Chi è?”
“Ma devi
avere una risposta sempre più deficiente ogni volta che ti chiamo?”
“Sono un ragazzo
creativo”
“Avrei
usato la parola pirla, ma come vuoi”
“Ah-ha,
simpatica. Allora?”
“Allora
cosa?”
“Mi hai detto
che mi avresti chiamato, quindi devi dirmi qualcosa,
no?”
“Ah, sì,
giusto. Prima, però, ho bisogno di fare un patto”
“Uff,il
solito?”
“Bravo,
sei perspicace”
“Va bene, un
segreto per un segreto: tu mi dici una cosa tua e io te ne dico una
mia”
“Perfetto, ora possiamo parlare senza problemi. Almeno credo.
Aspetta, guardo se le mie sorelle sono qui fuori ad ascoltare, è un discorso
problematico”
“Che è, un
segreto di stato?”
“Quasi!
No, non c’è nessuno, via libera. Anche se… sai una cosa? Sarebbe meglio parlarne
a voce!”
“Non me lo dire,
ti prego non…”
“Quanto
ci metti a venire qui e entrare dalla finestra?”
“Fai
piano, dannazione!”
“Rea,
non è così semplice! Mi sto infilando in camera tua di nascosto, già questo è
terribile. Perché non posso passare dalla porta come tutti?”
“Te lo
spiego tra un minuto, tu entra e stai zitto” la ragazza tirò Johan nella
sua stanza e poi socchiuse leggermente la porta per essere sicura che Emma e
Laura non fossero intorno.
“Tutto
bene, sono a prepararsi per uscire con te stasera” gli assicurò.
“Guarda che per me non ci sono problemi, io sarei entrato
dall’ingresso” le fece presente. Lei sbuffò e li chiuse dentro a
chiave.
“Loro
non devono sapere! Hanno già scoperto della musica, non posso farmi scoprire
un’altra volta” disse tristemente.
“Ok,
ora mi sono perso ufficialmente” esclamò il ragazzo, confuso.
Rea prese un enorme respiro e lo
fissò.
“Hai
promesso: un segreto per un segreto, ricordi?” chiese. Lui annuì.
“Beh, il
fatto è che…” la ragazza si mise a spiegare dall’inizio: canto, Fabio,
litigata, libri, soldi, quaderno e ricatto. Johan non disse una parola fino a
quando non fu sicuro che le avesse finito, poi aprì la bocca. Ma la richiuse un
attimo dopo.
“Dì
qualcosa!” lo spronò l’amica.
“Non
so, mi sembra una cosa stupida da nascondere” commentò.
“Scherzi? Sarebbe terribile se qualcuno ne venisse a
conoscenza” esclamò, tremando alla sola idea.
“E
perché?” le chiese.
“Perché
sono i miei segreti: nei romanzi che scrivo ci metto quello che sento
profondamente, le paure che ho e le mie insicurezze. Se si sapesse… oddio, non
voglio pensarci!”
“Vuoi
nasconderti per tutta la vita?”
“No,
solo fino a quando non sarò sul letto di morte”
“Ah,
certamente” la assecondò. Rimasero entrambi zitti, come succedeva spesso
quando c’era un problema che nessuno dei due sapeva come risolvere.
“Tocca a
te” esordì Rea a un certo punto.
“Cosa?”
“Segreto
per segreto. Cosa mi nascondi?” indagò. In realtà non pensava che lui
avesse qualcosa da nascondere sul serio, ma lo capì quando distolse lo sguardo e
arrossì.
“Oddio,
ma c’è davvero qualcosa che non mi hai detto? Parla, parla, parla!” lo
incalzò, sedendosi sul letto con le gambe incrociate.
“N-non
è niente, è solo un pensiero che mi ronza in testa ultimamente” minimizzò
Johan.
“Allora
esprimi il pensiero”
“Beh,
c’è… c’è una persona che negli ultimi mesi mi… insomma…” balbettò.
“Ti
interessa?” lo aiutò Rea. Il ragazzo annuì.
“E chi
è?”
“E’…” ma non le disse niente, perché qualcuno bussò
alla porta della sua camera e lei sobbalzò.
“Chi
è?” chiese, facendo cenno all’amico di stare zitto.
“Ma
che domande idiote fai? Siamo noi!” rispose Emma. Lei mimò un “Ma porca di quella…”
“Arrivo,
un attimo!” esclamò. In tutta fretta fece nascondere Johan sotto al
letto, cercando di fare meno rumore possibile.
“Oh,
ci sei?” la chiamò Laura.
“Sì, ero
sotto le lenzuola che mi riposavo, un secondo!” rispose. Mise le coperte
in modo che nascondessero la visuale del pavimento, poi aprì la porta.
“Eccomi!” disse, sorridendo e cercando di sembrare più
stanca possibile.
“Come
stai?” le chiese la mora, entrando.
“Meglio,
ma ho mal di testa e non riesco quasi a stare in piedi”
“Quindi stasera non verrai?”
“No, non
voglio rischiare di ammalarmi sul serio” spiegò, tossendo per finta.
“Peccato, la signorina qui voleva chiederti se parlavi con
Johan” rise Emma. Laura arrossì.
“Smettila! Lo sai che odio questi giochi stupidi!”
le ricordò.
“Quanto la fai lunga! Rea è la migliore amica del ragazzo
che ti piace, che male c’è se gli fa un paio di domande?” domandò
retoricamente.
La rossa, nel frattempo,si mordeva la lingua e cercava di
pensare a un modo per zittirle.
“Preferisco che le cose vadano avanti da sole. Se gli
piaccio la situazione si evolverà da sé” affermò soddisfatta la
bionda.
“Va
bene, poi ci parlerò. Non è che potreste lasciarmi da sola, adesso? Ho sonno e
sono stanca, mi sa che ho anche un po’ di febbre” le implorò, spingendole
verso la porta.
“Ok,
noi tra poco andiamo a chiamare il principe azzurro. Riposati, va bene? A
domani” la salutò Emma.
“Buon
riposo” le augurò Laura.
Rea chiuse a chiave la porta,
aspettando di sentire i passi sparire nel corridoio, poi si abbassò sotto al
letto e fece uscire Johan.
“Simpatiche le tue sorelle” commentò,
sorridendo.
“No,
senti tu devi far finta di niente…”
“Starai scherzando, spero!” la bloccò lui, sgranando
gli occhi. Lei gli prese la faccia tra le mani e lo costrinse a fissarla negli
occhi.
“Johan,
non ti azzardare a fare lo stronzo con mia sorella!” lo minacciò.
“Che
cosa? Ma non voglio fare…”
“Promettimelo: promettimi che non farai niente di male e che
non dirai niente di quello che hai sentito un minuto fa” ordinò.
“Perché dovrei?” le domandò spostandosi.
“Perché
lei se lo tiene dentro da anni e, se tu le dicessi che non è ricambiata,
morirebbe!” spiegò.
“Appunto, quindi fammi spiegare e…”
“Stalle
lontano!” esclamò.
“Rea,
tu dovresti ascoltarmi! Porca miseria, sto cercando di dirti che io sono
innamorato di Laura!” gridò.
“Shhhh!
Che diavolo urli?!” lo zittì, mettendogli una mano sulla bocca. Rimase
ferma ad ascoltare i suoni del corridoio.
“Ma sei
scemo? Sei qui come clandest… aspetta, aspetta, aspetta, ripeti!” disse,
guardandolo. Lui mugolò qualcosa, ancora bloccato dalla sua mano, che lei
prontamente tolse.
“Saresti la ragazza perfetta, se mi ascoltassi ed evitassi
di picchiarmi quando sbaglio qualcosa” ragionò Johan.
“A te
piace Laura?” gli chiese la ragazza, incredula.
“Beh,
non mi è indifferente, ecco” ammise lui. Rea gli si gettò al collo.
“Io ti
adoro” commentò, stringendolo felice.
Johan se ne andò mezz’ora dopo,
poco prima che anche Emma e Laura uscissero. Rea aspettò che in casa non ci
fosse nessuno, poi andò in camera a cambiarsi per la serata.
“Che mi
dovrei mettere? Sono costretta ad andare da Fabio anche se non voglio”
disse ad alta voce. Aprì l’armadio e prese una semplice camicia blu con un paio
di jeans.
“E gli
stivali bassi. Non vorrei cadere mettendomi i tacchi” parlava da sola
quando era nervosa. Ed ora era molto nervosa.
Aprì la porta di casa, poi si
fermò: se qualcuno l’avesse vista uscire di lì sarebbe stato un problema. Tornò
in camera e spalancò la finestra. Si sentì terribilmente in colpa mentre si
incamminava di soppiatto verso il luogo di incontro.
Rea stava a testa bassa e cercava
di non farsi notare dai passanti. Fabio le aveva detto che l’avrebbe aspettata
dove si erano incontrati la prima volta (“Dici dove mi
hai praticamente investita?” aveva chiesto lei), quindi ora stava
dirigendosi là.
Anche se cercava disperatamente di
mantenere la calma, tutta quella situazione le faceva tremare le mani, la
rendeva terribilmente nervosa. Perché lui voleva passare il sabato sera con lei?
Non era abbastanza ricattarla? Forse voleva far ingelosire una delle tre del
gruppetto delle oche. O forse, voleva solo prendersi gioco di lei. Quel pensiero
la colpì come un coltello, facendola fermare. Se fosse stato tutto un trucco per
umiliarla? Non sarebbe stata la prima volta, Rea se ne ricordava fin troppo
bene.
Effettivamente, l’unico motivo per
cui lui poteva volere un appuntamento era quello di umiliarla, e allora lei
promise a sé stessa che, qualsiasi cosa fosse successa, avrebbe mantenuto un
profilo freddo e distaccato. Era l’unico modo che aveva perché le persone non la
ferissero.
Vide Fabio appoggiato alla sua
moto che giocava col portachiavi e rimase senza fiato notando la sua
incontestabile bellezza: gel nei capelli per tirarli indietro; giacca di pelle
attillata; pantaloni di jeans strettissimi; guanti da motociclista; stivali neri
con qualche borchia. Temette di svenire sul colpo e si stupì di come il suo
corpo si stesse praticamente muovendo da solo, andando svelto verso di lui. Si
impose di rallentare il passo e si avvicinò con calma.
“Buonasera, lentiggine” la salutò il ragazzo, aprendosi
in uno smagliante sorriso.
“Non
iniziare subito con questo soprannome idiota” lo sgridò, incrociando le
braccia. Lui si alzò in tutto il suo metro e ottanta e la sovrastò.
“Come
desidera, principessa” rispose. Rea arrossì e sbuffò.
“Invece
di fare il broncio, mettiti questo. Ho visto passare Emma e Laura dieci minuti
fa, forse è meglio se ci muoviamo” la istruì, passandole un casco.
“Aspetta… andiamo in moto?!” gli chiese, sorpresa.
“Certo,
mica l’ho portata giusto per lasciarla qui a riposare”
“Ma tu
hai un polso che non funziona!” si ribellò lei, indicando il suo
braccio.
“E
allora? Posso tranquillamente guidare. E poi casa mia non è lontana, ci
metteremo solo un paio di minuti” minimizzò.
“Quindi
potevi anche venire a piedi”
“Certo,
ma non volevo togliermi il divertimento di vederti arrabbiata” la prese
in giro, fermandole il mento tra l’indice e il pollice.
“Ah-ha,
simpatico” ribatté lei, scansandosi.
Un po’ contrariato, Fabio salì
sulla moto e l’accese.
“Forza,
sali. Non abbiamo tutta la notte… o quasi” le ordinò. Lei ubbidì
docilmente, poi lo guardò male.
“Cosa
vorresti insinuare con quel quaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah!!!!!!” non le
aveva fatto finire la frase ed era partito dando gas fino in fondo.
“Ora
muoio, ora muoio, ora muoio!” ripeteva Rea, stringendosi con forza al suo
petto.
“Se stai
zitta rallento” le gridò Fabio da davanti.
“Non
aprirò più bocca finché non entriamo in casa, ma vai piano!” promise. Lui
rallentò, ridendo forte, fino quasi a fermarsi.
Una volta che furono arrivati, la
ragazza scese barcollando.
“Volevi
amm…” lui le mise un dito sulle labbra e sorrise.
“Hai
promesso, ricordi? Fino a che non saremo dentro non potrai parlare” le
fece presente. Provò a ribellarsi, ma la sua mano rimase ferma finché lei non si
calmò e incrociò le braccia al petto.
“Brava
bambina” si congratulò, dandole una leggera patta sulla testa.
Si mise ad armeggiare con le
chiavi, aprendo la porta e cercando di nascondere il sorriso ebete che aveva
sulla faccia al pensiero che lei sarebbe stata tutta sua per una sera.
“Fatto” annunciò, spalancando la porta. Quando vide che
Rea si era avviata verso l’entrata, si mise in mezzo per bloccarla.
“Non puoi
entrare” la fermò.
“Che
cosa? Perc…” la zittì di nuovo, avvicinando il proprio viso al suo.
“Devi
pagare pegno per farmi spostare” le disse. La ragazza sbuffò,
scocciata.
Rimasero in silenzio per un po’,
poi lei si spazientì e gli fece segno con la mano che il tempo stava passando e
non ce la faceva più ad aspettare.
“Voglio
un bacio” decise infine. Rea spalancò gli occhi e aprì la bocca per
controbattere, ma Fabio fu più veloce e le prese la faccia con le mani,
costringendola a guardarlo negli occhi.
“Se non
me lo dai tu me lo prenderò io” l’avvertì sussurrando, ma la ragazza era
immobile, paralizzata dalla situazione. Lo fissava terrorizzata, aveva paura sul
serio che la baciasse, e lui ebbe un attimo di esitazione.
“Sto
scherzando” disse poi, allontanandosi. La sentì respirare forte, come se
per tutto quel tempo fosse rimasta col fiato sospeso, e la vide rilassarsi
notevolmente. Cavolo, lo doveva odiare proprio tanto!
“Vieni,
la cena si fredderà” la invitò ad entrare, precedendola.
Quando furono in casa, Rea gli
dette un fortissimo pugno sulla spalla e lo fissò infuriata.
“Tu non
sei normale!” urlò, puntandogli un dito contro.
“Ehi, che
ho fatto ora?” le chiese, massaggiandosi il punto dove lo aveva
colpito.
“Non si
baciano le ragazze senza che lo vogliano!” lo sgridò, dandogli un’altra
botta.
“Ti ho
già detto che stavo scherzando, mi pare” le ricordò, scansando un
ulteriore colpo in partenza.
“E stai
fermo mentre ti picchio!” gli ordinò, facendolo ridere.
“Nemmeno
morto!” rispose lui. La ragazza si tranquillizzò solo quando sentì
nell’aria il profumo di cibo e il suo stomaco brontolò.
“Invece
di sprecare le tue forza per inutili capricci come quello di menarmi, potresti
apparecchiare mentre io finisco di cucinare” le suggerì Fabio, andando in
cucina.
“Tu mi
hai invitata e io devo apparecchiare?!” chiese stupita.
“Sei qui
come ospite, ma sei ancora sotto il mio controllo, quindi devi decisamente
apparecchiare” rispose il ragazzo.
“Grazie,
sei proprio un galantuomo” ribatté lei, iniziando a cercare tovaglia e
stoviglie per preparare la tavola.
Nel frattempo, Laura e Emma erano in pizzeria con un radioso
Johan, che non aveva fatto altro che sorridere da quando si erano
incontrati.
“Hai
parlato con Rea?” gli chiese la mora, addentando un pezzo di pizza. Lui
perse un po’ del suo sorriso, ripensando al discorso fatto quel pomeriggio.
“N-no,
non ne ho avuto l’occasione” rispose, un po’ incerto. La ragazza
sbuffò.
“Sono
curiosissima! Come mai non ci dice nulla su tutta questa storia? Eppure lei ci
ha sempre raccontato tutto!” si lamentò, appoggiando la testa su una
mano.
“Magari ce lo dirà quando si sentirà in grado di
farlo” suggerì sua sorella, timidamente.
“Esatto!” le dette manforte Johan, illuminandosi.
Lei arrossì e fissò il piatto.
“Sì,
però non è mica giusto! Siamo le sue sorelle, non si dovrebbe
vergognare!” continuò a dire l’altra.
“Dai,
Emma, lasciala respirare: se e quando vorrà, ci troverà pronte ad
ascoltarla” cercò di tranquillizzarla Laura. In quel momento il
campanello della porta tintinnò e si girarono tutti e tre verso l’ingresso.
“Oddio, ma quello è…”
“Ehi,
prof!” gridò Johan, sbracciandosi. Jason alzò gli occhi dal cartello del
menù e lo salutò con un grosso sorriso.
“Buonasera, ragazzi! Cosa fate di bello?” li salutò,
avvicinandosi a loro. La mora si stampò in faccia il miglior sorriso che sapeva
fare e lo fissò con occhi da pesce lesso, risultando piuttosto ridicola.
“Niente, ceniamo e poi andiamo in discoteca”
rispose Laura.
“Emma,
c’è qualcosa che non va?” si preoccupò lui, notando la sua espressione.
La ragazza, incantata, non rispose.
“Emma?” la richiamò. Sua sorella le dette una
gomitata nello stomaco per farla riprendere e lei sobbalzò, stringendosi le
costole.
“Ahia!” si lamentò.
“Lei,
invece, cosa fa qui?” chiese Johan, per tirare fuori da quella situazione
imbarazzante l’amica.
“Fuori
da scuola dammi pure del tu” rise l’altro.
“Ok,
mi sc… cioè, scusami”
“Comunque sono venuto a prendere la pizza, vado a mangiarla
a casa e poi preparerò i vostri compiti per lunedì” spiegò con un’alzata
di spalle.
“Perché non si mette qui con noi? Non c’è molta gente, se
ordina subito riuscirà ad essere servito prima che noi finiamo la nostra
cena” lo invitò il ragazzo. Jason lo fissò con un finto cipiglio
severo.
“Ti ho
detto di darmi del tu” lo sgridò bonariamente, per poi ridere di
gusto.
“A voi
va bene, ragazze, se mi siedo con voi?” domandò a Emma e Laura.
La mora rimase ferma immobile,
incredula di avere tanta fortuna, mentre l’altra si trattenne dal ridere.
“Certamente, sarà divertente” rispose per
entrambe.
“Wow,
certo che sei proprio bravo a cucinare, da te non me lo sarei mai
aspettato” commentò Rea a fine pasto. Con lo stomaco pieno e un po’ di
alcool nelle vene, era più rilassata e non si sentiva più a disagio come quando
era uscita di casa.
“Sono un
ragazzo pieno di sorprese” rispose Fabio, sorridendo soddisfatto. Le
versò un altro po’ di acqua nel bicchiere, poi si alzò a prendere il dolce.
“Gelato o
fragole?” le domandò. Si fissarono per un secondo.
“Entrambi” decisero insieme ridendo.
Tirò fuori la frutta e la
vaschetta al cioccolato e li mise in tavola, tornando, poi, a prendere le
coppette e i cucchiaini.
“Io
voglio tante fragole” esclamò Rea, guardando con occhi deliziati quelle
piccole cosine rosse. Sembrava una bambina davanti l’albero di natale.
“A me
piace di più il gelato, in verità” commentò Fabio. Lei sorrise
raggiante.
“Perfetto, no?” gli chiese. Quello era, probabilmente,
il primo vero sorriso che lei gli faceva da quando si erano conosciuti e questo
lo fece vacillare un pochino.
“Sì, è… è
perfetto” annuì, balbettando.
“Qualche
problema?” s’informò la ragazza, vedendolo incerto.
“No, è
solo che mi ci vuole un po’ di concentrazione per far scongelare il gelato.
Sembra di marmo” rispose lui, ritrovando la sua sicurezza. Rea lo fissò
incuriosita.
“Se lo
dici tu”
Passarono l’ora successiva
parlando un po’ di tutto, dalla scuola ai propri hobby, ma la ragazza cercò con
tutta sé stessa di evitare l’argomento “scrittura”.
Fu solo quando ebbero finito di
riporre le stoviglie che lui la fissò intensamente.
“Perché
scrivi se poi non vuoi che la gente lo sappia?” le domandò. “Eccoci” pensò lei, incupendosi subito.
“Non è
un argomento di cui mi piace parlare, in realtà” ammise in una muta
richiesta.
“Se non
ne parli non ti libererai mai da questo peso, però” le fece presente.
Aveva ragione, se continuava a
nascondere ciò che era sarebbe esplosa di lì a poco.E lui era lì ad ascoltarla: forse si
poteva confidare.
“Io…” voleva iniziare, lo voleva con tutta sé stessa,
ma si bloccò, colpita da un improvviso ricordo lontano nel tempo. “Hai promesso: non cederai” si ricordò.
“Io devo
andare, mi dispiace” si scusò, andando a prendere il giacchetto e
dirigendosi verso la porta.
“Cosa?
No!” si ribellò lui, seguendola.
“Davvero, non posso dire niente, non posso proprio”
continuava a ripetere.
“Rea?” la chiamò il ragazzo, sperando che si fermasse.
Lei aprì la porta, pronta ad andarsene, ma lui la fermò, abbracciandola da
dietro.
“Non
voglio che tu te ne vada in queste condizioni” le sussurrò all’orecchio.
Il cuore della ragazza si mise a battere velocemente, stordendola per un
attimo.
“Mi
dispiace, ma non posso rimanere. Fai cosa vuoi del mio quaderno, io non sono
brava a fingere e mentire” gli disse, cercando di divincolarsi. Se
possibile, lui se la strinse ancora di più al petto, bloccandole ogni possibile
mobilità.
“Non mi
lasciare arrabbiata” la supplicò.
“F-Fabio…” balbettò lei, incapace di dire altro. Il
ragazzo le posò un delicato bacio sul collo, facendola rabbrividire.
“Giura
che non ce l’hai con me e ti lascio andare” promise. La voltò verso di
sé, guardandola negli occhi.
“Fidati,
non sono arrabbiata con te” gli assicurò. “Ce
l’ho con me” aggiunse mentalmente.
“Ma è
meglio se torno a casa, adesso” terminò. Fabio fece scorrere le braccia
sulle sua, arrivando a prenderle le mani.
“Se non
te la senti, domani non venire a studiare qui. Sei liberata dall’accordo”
le disse, un po’ triste.
Rea, che aveva creduto fin
dall’inizio che a sentire quelle parole si sarebbe sentita libera, percepì un
senso di colpa ingiustificato pervaderla e quasi si pentì di essere stata tanto
ingiusta nei suoi confronti.
“Grazie” rispose, lasciando un bacio sulla sua
guancia. Corse verso casa col cuore in tumulto e il giacchetto tra le mani,
mettendosi a piangere senza un motivo serio.
Una volta che fu rientrata in
casa, si mise in pigiama e si coricò. Verso l’una le sue sorelle bussarono alla
sua porta, ma un cerchio gigantesco si era formato intorno alla sua testa, quasi
impedendole di muoversi.
“Rea?
Ci sei?” la chiamarono, eccitate. Lei le fece entrare barcollando, per
poi stendersi di nuovo sul letto.
“Hai
un aspetto terribile” considerò Emma, mettendole una mano sulla
fronte.
“Cavolo, ma tu scotti!” esclamò. Laura,
prontamente, andò a prenderle il termometro e una borsa col ghiaccio, per poi
posargliela sulla testa.
Capitolo 9 *** La storia si sposta: Emma e Laura ***
La
storia si sposta: Emma e Laura
La domenica pomeriggio, anche
volendo, Rea non sarebbe potuta andare da Fabio: il termometro segnava
implacabile trentotto e mezzo di febbre e non accennava a diminuire, così lei
era ferma a casa con mal di testa e nausea.
“Parleremo con Jason, domani, e gli diremo che hai
l’influenza” le assicurò Emma.
“Io non
sono come te, se anche perdo un paio di giorni di scuola non ne faccio un
dramma” ribatté lei flebilmente.
“Comunque sentiremo quando dovrai recuperare il compito,
noi adesso andiamo a studiare. Riposati” la salutò la mora,
chiudendosi la porta alle spalle.
“Allora? Come sta?” le chiese Laura, alzando
gli occhi dagli appunti di matematica che aveva
davanti.
“Male,
che domande fai?” rispose lei, sedendosi al tavolo.
“Di sicuro sta meglio di noi! Io non ce la faccio proprio a
studiare questa roba, mi fa venire l’orticaria!”
si lamentò la bionda, scompigliandosi i capelli.
“Anche a me, ma non ne possiamo fare un
dramma! Dobbiamo
passare con una media piuttosto alta, lo sai benissimo, altrimenti niente
università!” la sgridò. La
sorella si fece piccola, piccola sotto al suo sguardo.
“Lo
so, ma ho la testa altrove” si giustificò in un pigolio. Emma alzò gli
occhi dal libro e li puntò maliziosi su di lei.
“Tipo
a Johan?” le domandò. Arrossì.
“Lo sapevo! Sai,
ieri sera mi sembrava moooolto interessato a te! Magari è scoccata la scintilla anche per lui!” suppose, iniziando subito a parlare a
raffica.
“Secondo me dovresti subito agire, prima che l’attrazione
si spenga! Fossi in te ci parlerei
domani, dopo il compito, e gli chiederei se ha voglia di venire qui a studiare!
Io, tanto, mi chiuderei in camera e Rea è malata, per cui
rimarreste da soli!” le
consigliò. Le si erano illuminati
gli occhi e Laura rise.
Emma non era la persona più
romantica del mondo, anzi era una di quelle ragazze che non credono né
nell’amore eterno né nell’amore disinteressato: per lei amare qualcuno
significava in primis esserne attratti fisicamente. Nonostante questo, e
nonostante negasse qualsiasi collegamento con l’amore zuccheroso, era una
sognatrice e le piaceva fantasticare sugli amori degli altri piuttosto che sui
propri. Il fatto era che, se le piaceva qualcuno, agiva e basta e non aveva il
tempo di assaporare quell’emozione dell’attesa che, invece, distingueva le sue
sorelle, e così facendo cancellava a prescindere ogni possibile desiderio nato
durante il corteggiamento. Almeno fino a quando non aveva conosciuto Jason.
Non le erano mai piaciuti gli
uomini più grandi di così tanti anni, soprattutto perché non pensava che potesse
nascere qualsiasi sentimento tra due persone con tanta differenza di età, però
con lui era stato un colpo di fulmine, uno squarcio nel cielo, il cambiamento di
una vita. Si sentiva emozionata come una bambina ogni volta che lo vedeva e no,
non era uno di quegli amori per una figura irraggiungibile. Prima o poi lui
sarebbe stato suo. Nel senso buono del termine, s’intende.
Laura, invece, era completamente
l’opposto di Emma. Più grande parlando di mesi ma più piccola fisicamente, era
dolce e introversa. Si apriva solo nei suoi disegni manga, dove metteva tutta la
sua creatività, ma per il resto non riusciva mai a dire la sua senza pensarci
mille volte sopra.
Quando le piaceva qualcuno non lo
diceva mai fin quando non le tiravi fuori le parole di bocca con la forza, quasi
costringendola. Mai nemmeno una volta si era dichiarata, anche perché si
vergognava. Sotto questo aspetto era quasi peggio di Rea.
Le piaceva sognare l’amore, ma,
come Emma, non credeva in quello eterno e infinito, nonostante i loro genitori
fossero la prova che, anche dopo più di venti anni, si poteva continuare ad
amarsi indubbiamente. Johan era il suo ideale di principe azzurro: dolce, con
gli occhi azzurro mare, i capelli biondi e leggermente ritti grazie al gel, con
una capacità di aiutare gli amici incomparabile. Era
generoso e altruista e non esitava a venire da te quando necessitavi. In
segreto, era sempre stata gelosa del rapporti che aveva
con la sorella, ma si rendeva conto che, se fosse stato il suo migliore amico,
quel sentimento che le scaldava il cuore non sarebbe mai nato.
“Emma, vola più basso. Non mi è sembrato così diverso dal
solito, forse solo un po’ più… aperto?”
ragionò.
“Ma se
ti è stato attaccato come una cozza anche in discoteca!” ribatté la
mora.
“E tu
come te ne saresti accorta se continuavi a dire il mio Jason ha cenato con noi!?” la
fulminò.
“Io mi
accorgo di tutto, cara, e so che Johan ti mangiava con gli occhi!”
rispose l’altra, con fare superiore.
“Senti, rimettiamoci a studiare che forse è meglio”
suggerì la bionda, scuotendo la testa. Tanto, quando sua sorella faceva così,
era inutile qualsiasi tentativo di dissuaderla.
Il lunedì mattina, subito dopo
aver consegnato il compito di matematica, entrambe le ragazze Stevens si
accasciarono sul banco.
“Io
non ci voglio credere” si lamentò Emma.
“Non
dirlo a me” rispose Laura.
“Abbiamo studiato per quattro ore di fila, fatto esercizi su esercizi, ripetuto le formule almeno cento
volte e, nonostante questo, il compito è stato impossibile. Come minimo ho preso quattro” disse
sconsolata.
“Tu dici sempre così e poi riesci ad arrivare all’otto
senza problemi. Giuro, ti prenderei a pugni quando succede così” la bionda scosse la testa e tirò fuori dallo zaino i
libri di inglese per l’ora successiva.
“Comunque, hai notato che Johan è tornato accanto a
Fabio?” considerò Emma, fissando i due ragazzi.
“Sai,
ci avevo fatto caso, ma credevo fosse solo una coincidenza visto che Rea è a
casa malata” annuì l’altra, abbassando la voce.
“Mmh… no, il tuo
ragazzo non fa mai niente per sbaglio. Se ha un pregio, è proprio quello di
pensare bene prima di agire”
“Non
è il mio ragazzo, intanto, e poi, secondo me, la fai tanto lunga per niente.
E’ solo un posto a sedere, in fondo”
“Tu sei così ingenua! Ok, adesso fissali intensamente: non
noti un po’ di ostilità nei confronti di Fabio?”
le fece presente. Laura li osservò e sgranò gli occhi.
“In
effetti, Johan sembra intirizzito come una statua di marmo” notò, dando
ragione alla mora.
“Deve essere successo qualcosa che noi non
sappiamo! Ma perché ultimamente tutti
ci tengono nascoste le cose? Non lo sopporto!” si lamentò, sbattendo una mano sul banco e facendo
sussultare la sorella.
“Calmati! Se fai così ti vengono le rughe!” la
riprese.
“Non mi interessa! Rea, Fabio e Johan stanno tramando qualcosa e io odio
essere tenta fuori. Per cui, a ricreazione, parleremo col
nostro nuovo compagno di classe”
decise.
“Perché lo dici al plurale?” domandò, intimorita,
la bionda.
“Tu
verrai con me” le ordinò.
“Cosa? Ma
nemmeno morta! A me non importa di indagare sulle vite degli
altri, non sono una vecchia pettegola come te!”
si ribellò Laura.
“Si tratta di nostra sorella, quindi è una questione che ci
riguarda, indiscutibilmente. Non pensi anche tu?” le chiese,
sorridendo soddisfatta del proprio ragionamento.
L’altra, non sapendo che
rispondere, rimase zitta e si interessò inspiegabilmente alla lezione di
inglese.
Quando suonò la campanella,
entrambe andarono da Fabio, un po’ intimorite soprattutto perché non sapevano
cosa chiedergli di preciso.
“Po…
possiamo parlarti?” chiese Emma, un po’ incerta. Lui la fissò
curioso.
“Certo,
dimmi pure” rispose.
“Ecco,
ci chiedevamo… ultimamente giri molto intorno a Rea, però lei non ci dice niente
su cosa sta succedendo e… sì, insomma…”
“Vuoi
sapere se stiamo insieme?” la aiutò. Annuirono tutte e due. Le fece
avvicinare, facendo loro segno di essere caute, poi sussurrò al loro
orecchio.
“Non è un
problema vostro” disse. Si allontanò, lasciandole lì, basite e
incredule.
“Sei
un maleducato!” gridò la mora, arrabbiata. Il ragazzo si fermò.
“Se Rea non vi vuole dire niente, perché dovrei farlo io che a
mala pena vi conosco? Per quanto mi riguarda, avete la stessa fiducia di tutti gli altri
in questa classe, per cui direi che non ho intenzione di dirvi delle mie
situazioni sentimentali” spiegò con un’alzata di
spalle.
“Benissimo, ma non fare l’arrogante saccente”. Fabio
si avvicinò a loro a mise la mani sul proprio
banco.
“Sarò anche arrogante e presuntuoso, ma voi siete poco
intelligenti. Prima di fare una domanda
del genere a uno sconosciuto, avreste potuto parlare di qualsiasi altra cosa e
non essere così dirette. Mi stanno antipatiche le persone che ti fanno domande
sulla tua vita privata, soprattutto quando non sanno quasi come ti chiami. Arrivederci” le salutò, lasciandole
zitte a fissarlo.
“Stevens Emma” chiamò Jason, restituendo i compiti.
Tremante, la ragazza si alzò e andò a prendere il foglio, sotto lo sguardo
deluso del professore.
“Mi
aspettavo molto di più da te” le sussurrò, lasciandole il doppione in
mano. Lei spalancò la bocca, incredula.
“Q-q… qua…
quattro?” soffiò, in preda all’ansia.
“Poteva andarti peggio, no?” cercò di consolarla
Laura.
“Peggio? Cosa c’è peggio di un quattro a matematica in
quinta superiore?”
“Un
tre?” suggerì lei. La sorella la fulminò e si zittì.
“Come hai fatto tu a prendere sei? Domenica ci capivi meno di me negli appunti!”
chiese disperata. La bionda arrossì un po’ e lanciò uno
sguardo fugace a Johan.
“Beh…
sì, insomma…”
“Ti ha
suggerito?”
“Mi
ha proprio passato tutti gli esercizi” ammise.
“E
perché non me li hai passati?” la aggredì. Lei si fece piccola,
piccola.
“Ci ho provato!
Quando ti ho chiamato eri così impegnata a cancellare e rifare
il primo problema che mi hai liquidato dicendomi che dovevi fare il tuo compito
e non potevi aiutarmi!” le
ricordò.
“Dannazione, è vero!” ammise Emma.
“Comunque è recuperabile, no? Tanto Rea deve rifare il
compito lunedì prossimo, chiedi a Jason se puoi recuperarlo con lei” le
propose. La mora scosse la testa.
“In tre giorni non potrei mai farcela. Sentirò se ci sono i corsi di recupero
pomeridiani e seguirò quelli” disse
sconsolata.
“Come
vuoi” la assecondò Laura.
Passarono tutta l’ora successiva
in silenzio, ognuna persa nei propri pensieri.
La bionda continuava a
fantasticare su Johan, il quale non aveva fatto altro che sorriderle e
strizzarle l’occhio da quando erano usciti sabato sera.
Emma, invece, si dava
ininterrottamente della stupida per aver sbagliato quel compito in modo così
eclatante e, quando suonò la campanella, si avvicinò al professore.
“Jason, posso… posso parlarti un attimo?” lo
implorò. Lui annuì, già sapendo cosa la ragazza volesse chiedergli.
Uscirono di classe e si misero in
un angolo a parlare.
“Io…
uff, non avevo mai fatto un discorso del genere a un
professore, comunque ho bisogno di aiuto nello studio della matematica”
ammise con fatica.
“Sì, penso anche io che sia meglio. Mi sono stupito non poco del risultato
del tuo test, anche perché non avevi mai avuto problemi nella mia materia né in
nessun’altra e credo che sia solo questo argomento a darti qualche
difficoltà” ammise
l’uomo.
“Quindi cosa posso fare?” gli chiese disperata.
Aveva spalancato gli occhi tristi e si era quasi messa a piangere, e Jason,
incredibilmente, si ritrovò a pensare che erano proprio
di un bel colore. Rimase un attimo imbambolato a fissarla, senza sapere di preciso cosa rispondere, poi si schiarì la voce.
“Senti, ci sono dei corsi pomeridiani qui a scuola, pensati
apposta per chi ha problemi nelle varie materie. Se vuoi posso chiedere se me ne fanno
tenere uno per chi ha preso l’insufficienza nel compito e farti assistere per
chiarirti le idee” propose.
Emma si illuminò.
“Davvero? Faresti questo per me?” domandò
speranzosa. L’uomo si rese conto che la situazione poteva
prendere una brutta piega, ma sorrise dolcemente.
“Per
te… e per tutti gli altri” rispose.
Un po’ dell’allegria della ragazza
se ne andò, ma quando lo vide andare via il sorriso tornò più splendente che
mai.
Questa è Rea!! Ok, lei non vorrebbe che mettessi questo link, ma non resisto!! Ciao ciao!! Emma
http://www.youtube.com/watch?v=NeYGXUTKa7c&feature=plcp
Capitolo 10 *** I disastri delle sorelle Stevens 1: il primo appuntamento di Laura ***
I
disastri delle sorelle Stevens 1: il primo appuntamento di
Laura
Il sabato mattina Laura e Emma
erano sedute sul banco (no, non AL banco ma proprio Sul banco) con in mano la
colazione e stavano discutendo su cosa fare quella sera. Rea era ancora
costretta a casa e stavano pensando di rimanere con lei a guardare un bel
film.
In quel momento un nervosissimo
Johan le salutò, avvicinandosi a loro.
“Buongiorno!” disse la mora, sorridendo.
“Ciao” sussurrò la sorella, avvampando
improvvisamente.
“S…
ehm… salve a tutte e due! Che fate di bello?” s’informò, cercando di
dissimulare l’imbarazzo.
“Stavamo pensando a cosa fare stasera. Abbiamo lasciato
sola Rea così spesso che ci sentiamo in colpa e probabilmente rimarremo in casa
con lei. Tu? Che programmi hai?” rispose Emma, ben sapendo che Laura non
sarebbe stata capace di creare una frase così lunga in risposta al ragazzo.
“Oh,
niente io… cioè, in realtà avevo un’idea ma… sì, insomma… ehm…” lui
iniziò a balbettare, sentendosi piuttosto ridicolo. Fu solo grazie allo spirito
di osservazione della mora che si salvò.
“Ehi,
ma guarda, là c’è Roberto. Scusatemi, vi lascio soli un attimo!” disse,
strizzando l’occhio a Johan senza farsi vedere dalla sorella. Scomparve in
corridoio e non si rivide fino al suono della campanella.
A questo punto i due ragazzi erano
rimasti per la prima volta insieme senza qualcuna delle sorelle Stevens intorno,
e questo li fece agitare. Laura sentiva le guance in fiamme e le mani
sudate.
“Allora… stasera anche tu rimarrai con Rea a casa?”
le chiese lui, per rompere il silenzio.
“Penso… penso di sì, non ho altri programmi, almeno al
momento” rispose.
“Già” disse l’altro. Cadde di nuovo il silenzio tra
loro.
“Senti, pensavo… ti… ti va di venire a mangiare una pizza
con me?” sputò fuori lui tutto d’un fiato. La bionda rimase allibita,
senza sapere cosa rispondergli e lo fissò con gli occhi sgranati.
“Io?” domandò incredula. Johan rimase un secondo
perplesso.
“S-sì…
cioè, solo se vuoi” puntualizzò.
Laura si aprì in un enorme sorriso
che le passava da orecchio a orecchio, poi annuì.
“Molto volentieri!” esclamò. Anche il ragazzo
sorrise, sollevato.
“Benissimo, allora vengo a prenderti verso le…”
“Sette e mezzo?” propose lei.
“Perfetto!” confermò lui, scendendo dal banco. Vide
Emma che li spiava dalla porta e sorrise.
“A
dopo” la salutò, lasciandole un bacio sulla guancia.
In quel momento suonò la
campanella e la mora rientrò in classe, facendo finta di niente.
“Scusami, c’era Roberto in corridoio e sono andata a
salutarlo” disse, mascherando (male) un sorrisetto soddisfatto.
“Sei
una bugiarda e so che muori dalla voglia di chiedermi che ci siamo detti”
la riprese la bionda, sorridendo apertamente. Sua sorella crollò e si attaccò al
suo braccio.
“Ok, è
vero, quindi ti prego, ti scongiuro, dimmi che finalmente vi siete
mossi!” la implorò, disperata. L’altra voleva tenerla un po’ sulle spine
ma, non riusciva a contenere la felicità.
“Sì!
Ce l’abbiamo fatta!” sussurrò euforica, cercando di non farsi sentire da
Johan.
Jason entrò in classe in quel
momento, facendo zittire tutti.
“Dopo
voglio sapere tutti i particolari” mimò Emma con le labbra, strizzando
l’occhio a Laura.
“Io lo
sapevo già” stava dicendo Rea quel pomeriggio, mentre le sue sorelle
parlavano a raffica di questo appuntamento.
“Come
lo sapevi già? Che significa?” le chiese la più piccola, sorpresa.
“Diciamo
che avevo parlato con Johan, in un modo o nell’altro, e mi aveva chiesto di non
dire niente per fare una sorpresa a Laura” rispose, sorridendo. “O, comunque, qualcosa di simile” pensò.
“Quindi tu, brutta Giuda, sapevi già che lui voleva
chiederle un appuntamento… e non mi hai detto nulla? Sei una perfida!” la
accusò Emma, mettendo il broncio.
“Avevo
promesso! Lo sai che le nostre promesse sono sacre, anche tu sei stata tirata
dentro i nostri accordi una volta. Ricordi? Un segreto per un segreto! È così
che funziona con noi!” le fece presente la rossa, scrollando le
spalle.
“Sì,
lo so come fate voi due” confermò esasperata. Poi un lampo di genio.
“Però,
se la vostra formula è un segreto per un segreto, significa che anche tu gli hai
confessato qualcosa, giusto?” ragionò. Rea si sentì morire.
“Non
sono affari tuoi. Ora pensiamo ad aiutare Laura a prepararsi: se deve essere
pronta per le sette e mezzo, visto che sono già le tre e un quarto, dobbiamo
metterci subito al lavoro” esclamò, distogliendo l’attenzione da sé.
Odiava quando le persone indagavano su cose che lei non aveva detto, soprattutto
perché, sotto pressione, non era assolutamente in grado di stare zitta. Crollava
come un castello di carta e si malediceva per la settimana seguente di aver
raccontato qualcosa alle sue sorelle. La torturavano fino alla morte dopo aver
saputo.
Comunque, sia lei che Emma si
misero di buona lena e prepararono Laura minuziosamente: i capelli furono
piastrati e ci misero sopra dei brillantini argentati che risaltavano il suo
biondo naturale; le fecero mettere un vestito nero e bianco con la gonna larga,
che non accentuava la sua bassezza (quando Rea aveva fatto quel commento, la
bionda le era quasi saltata al collo); un paio di scarpe col tacco nero la
faceva più slanciata; la truccarono in modo leggero ma visibile, in modo che non
risultasse volgare ma dolce. Alla fine, dopo tre ore di preparazione, entrambe
la fissarono soddisfatte: era stato un lavoro coi fiocchi.
“Sei
perfetta” commentò Emma, sorridendo.
“Un
amore” confermò Rea. Lei fece un giro su sé stessa davanti allo specchio
e rimase piacevolmente stupita dal suo aspetto.
“Mi
piace!” affermò felice. A questo punto, la parte più semplice della
serata era stata superata. Ora non restava che aspettare Johan, ma mancava
un’ora al suo arrivo. Che fare per ammazzare il tempo?
“Vi va
obbligo o verità?” propose la mora.
“Decisamente no” rifiutò la rossa, scuotendo la testa.
Odiava quel gioco perché tanto ci rimaneva sempre fregata, in un modo o
nell’altro.
“Perché?” domandò triste.
“Perché
sei un killer, quando si tratta di questo gioco stupido, e non ho voglia di
farmi ammazzare da te” le rispose. Lei si zittì, incrociando le
braccia.
“Perché non parliamo di qualcosa? Vi prego, fatemi
distrarre, se penso che tra un’ora io… io… oddio, chiamo Johan e gli dico che
non esco!” esclamò Laura, entrando nel panico.
“Cosa?
No!” la fermarono le sorelle, togliendole di mano il cellulare.
“Ridatemelo! Non posso uscire con lui, non ce la
faccio!” si lamentava la bionda.
“Stai
aspettando questo momento da anni, ormai! Non puoi tirarti indietro
adesso!” la incoraggiò Emma.
“Esatto!
Inoltre lui mi ha detto che gli piaci proprio tanto e quindi non devi buttare a
monte tutto quanto per paura!” continuò Rea.
“Ma è
un disastro! Che succederebbe se l’appuntamento andasse male? Noi siamo tutti
amici, se litigassimo sarebbe imbarazzante! Preferisco mantenere
un’amicizia” decise, allungandosi per recuperare il telefonino.
“E noi
dovremmo stare ferme, per poi sentirti lagnare ogni giorno per i prossimi dieci
anni perché ti sei lasciata scappare quel ragazzo? Ma nemmeno morte!”
rispose la rossa, infilandosi il cellulare nella felpa gigantesca che aveva
indosso per tenersi al caldo.
“Restituiscimelo!” ordinò.
“No” disse lei. Laura si fermò e respirò un
paio di volte, cercando di calmare il respiro.
“Ok,
va bene, adesso sono tranquilla. Restituiscimi il cellulare e io giuro che non
chiamerò Johan” promise. Le sue sorelle si fissarono e poi scossero la
testa.
“Te lo
renderò quando il ragazzo sarà qui e tu non potrai disdire” decisero
insieme.
Johan, puntuale come un orologio
svizzero, si presentò a casa loro con una scatola di cioccolatini, che la
ragazza appoggiò sul tavolo.
“Grazie, non dovevi!” disse, sinceramente colpita,
lui sorrise imbarazzato.
“Non è
niente” rispose. Rimasero fermi a fissare il pavimento, entrambi agitati,
per un paio di minuti, poi le altre due, stanche del loro tergiversare, si
misero in mezzo.
“Ehi, è
tardi, vi conviene andare o non troverete posto!” esordì Rea.
“Sì, e
poi noi dobbiamo metterci in pigiama a guardare un bel film, quindi
andatevene!” ordinò Emma, spingendoli fuori.
“Divertitevi!” gridarono insieme, chiudendo la porta.
Laura fissò il suo
accompagnatore.
“Scusale, lo sai come sono fatte” disse scuotendo
la testa. Johan rise.
“Figurati, mi è sempre piaciuto il vostro rapporto. È
forte” la tranquillizzò. Poi le tese il braccio e la invitò a
prenderlo.
“Allora… come va?” le chiese, iniziando a sentirsi
imbarazzato.
“Come
al solito: scuola, sorelle rompiscatole… lo sai, no?” rise lei.
“Sì,
conosco la vostra famiglia” ammise il ragazzo, ridendo con lei.
Si misero a conversare delle cose
più stupide possibili, parlando senza problemi del più e del meno.
Durante la cena non fecero altro
che ridere e scherzare.
“E poi
avresti dovuto vedere come l’ha fissato! Lo avrebbe volentieri preso a
pugni” stava raccontando Johan.
“Ci
credo, Maria odia quando qualcuno, specialmente se è un ragazzo, la umilia. Ma
tu come mai lo sai?”
“Ero
alle macchinette a prendere da bere con Alberto quando tutto ciò è successo. Tua
sorella avrebbe voluto volentieri scomparire!” rispose.
“Beh,
dopo una cosa del genere, l’avrei voluto anche io” ammise Laura,
continuando a ridere come una matta. Mentre si asciugava le lacrime, dette per
sbaglio un colpo alla coca cola con la mano, e questa si versò tutta addosso al
ragazzo, sporcandogli i jeans e la camicia.
“Oddio, mi dispiace!” esclamò, rialzando il
bicchiere. Lui era rabbrividito a causa dei cubetti di ghiaccio contenuti nella
bevanda e si stava pulendo con un tovagliolo.
“Non
ti preoccupare. Sono cose che capitano” la tranquillizzò.
“Scusami, scusami, scusami!” ripeteva lei,
mortificata. Prese un pezzo di carta e iniziò ad asciugargli la maglietta,
tamponandolo.
“Ehi,
ehi, ehi, ferma! Non è così grave!” le assicurò, vedendola
dispiaciuta.
“Lo
so, ma voglio rimediare!” rispose, continuando a passargli il fazzoletto
sul petto. Solo in quell’istante si rese conto della vicinanza del suo corpo e
le mani iniziarono a tremargli leggermente. Alzò lo sguardo incrociando i suoi
bellissimi occhi azzurro cielo e rimanendone ipnotizzata.
Johan si avvicinò piano con le
labbra, ma, all’ultimo momento, per qualche strana ragione, Laura si scansò,
evitando il bacio. Aveva il cuore a mille, ma non sapeva dire come mai si fosse
spostata.
“F-forse… credo che sia meglio se torni a casa e ti cambi,
non puoi andare in giro in queste condizioni” suggerì, con la voce
tremante. Il ragazzo, ancora basito, annuì meccanicamente.
La lasciò sulla porta di casa
senza nemmeno dirle un semplice “ciao” e se ne andò, piuttosto cupo in viso. Lei
si mise a battere la testa alla porta, rimproverandosi per la sua stupidità.
“Complimenti, davvero brava” disse ad alta voce,
cercando le chiavi nella borsetta, senza trovarle.
“Bene, benissimo” esclamò irritata. Suono il
campanello, aspettando che le sue sorelle andassero ad aprirle. Ci volle un po’
prima che un’assonnata Rea spalancasse la porta, stupita.
“E tu
che ci fai a casa alle dieci e un quarto?” le chiese. Lei la
sorpassò.
“Non
mi va di parlarne, ho solo voglia di farmi un bagno lunghissimo e di dormire
fino a domani. Buonanotte” rispose scontrosa.
“Ehi,
è già finito l’appuntamento?” domandò Emma, arrivando nell’ingresso.
Capitolo 11 *** I disastri delle sorelle Stevens 2: ripetizioni di matematica ***
I
disastri delle sorelle Stevens 2: ripetizioni di
matematica
Laura si rifiutò di andare a
scuola il lunedì mattina, mentre Rea rientrò, felice di poter finalmente uscire
di casa dopo una settimana di reclusione. Fece attenzione a non incrociare Fabio
se non necessario e rimase tutto il tempo attaccata a Emma.
Questa, intanto, stava pensando a
come chiedere a Jason delle ripetizioni, ma si sentiva vagamente imbarazzata.
Lei non si sentiva mai imbarazzata e questo la faceva arrabbiare. Cosa gli
faceva quell’uomo per renderla così… così?
“Ehi, la
campanella è suonata! Sbrigati se vuoi parlare con il tuo amato!” la
richiamò sua sorella, dandogli un colpetto sulla spalla.
“Eh?
Dove?” chiese lei, sobbalzando. Si era fissata con lo sguardo al muro e
non aveva sentito la fine della lezione.
“In
corridoio” le rispose lei, indicandole la porta.
La mora si alzò e quasi corse
fuori dalla classe per raggiungere il professore.
“Jason!” lo chiamò col fiatone.
“Sì?” disse lui, fermandosi di botto. Fu sorpreso di
vedere proprio Emma Stevens andargli dietro e attese pazientemente che
riprendesse fiato per sentire cosa doveva dirgli.
“Ehi,
non è una grande corsa dalla classe a qui, non devi essere particolarmente
allenata se sei già così stanca” cercò di smorzare quell’attesa in
qualche modo, per non dover stare in silenzio a fissarla.
“Lo
so, ma… lasciamo perdere. Comunque, volevo sapere quando iniziano i corsi di
recupero” domandò.
“Quali
corsi di recupero?”
“Le
lezioni che avevi detto servivano per il compito di matematica” gli
ricordò.
“Ah…
ah, sì! Certo, scusami, ero un secondo andato con la testa. Comunque ho già
parlato con il preside, che mi ha autorizzato a farne uno mercoledì pomeriggio.
Se vuole, può venire anche tua sorella, che ha saltato l’ultimo test e che
stamani non ha potuto farlo perché era rimasta indietro con le lezioni”
le rispose.
“Bene,
glielo dirò” assicurò Emma.
“Allora
ci pensi tu ad avvertire tutti i tuoi compagni?”
“Certamente!”
“Allora siamo d’accordo?”
“Sì, ma
vai!”
“Oddio, forse avrei dovuto dirlo a qualcun
altro…”
“Ti
muovi? Se qualcuno dice qualcosa ci pensiamo noi!”
“Ma…”
“Senti,
è il nostro regalo per il tuo compleanno, adesso muovi quelle chiappe secche e
sode e vai da Jason!”
“Ok,
ok, ma non ti arrabbiare!”
Emma uscì di casa e si diresse
verso la scuola. Il corso ci sarebbe stato dalla tre alle cinque. Avrebbe dovuto
essere triste perché doveva fare due ore in più di lezione il giorno del suo
compleanno, invece, grazie a quei due geni di Laura e Rea, avevano escogitato un
modo meraviglioso per far sì che lei rimanesse sola con Jason: quando le aveva
avvertite dei corsi di recupero, subito la rossa aveva annuito dicendo
“Bene,
allora questa cosa non dovrà uscire da qui!”, spiegandole che, se non
avesse avvertito gli altri ragazzi, l’unica a presentarsi al corso sarebbe stata
lei.
“E, se
uno dei nostri compagni ribatte, noi diremo che tu lo avevi annunciato in classe
stamani, ma loro, troppo impegnati a fare altro, non avevano sentito”
“Certo, ma sarebbe normale che voi due mi deste ragione:
siete le mie sorelle!”
“Infatti
chiamerò Johan e Fabio e gli chiederò di reggerci il gioco” aveva subito
detto Rea, inventandosi una scusa al momento. Laura sussultò lievemente sentendo
pronunciare il nome del ragazzo.
“Per
essere una che odia le bugie, sei piuttosto brava” si era spaventata
Emma.
Lei le aveva fatto l’occhiolino e
le aveva esposto i dettagli del suo piano: essendo l’unica ad andare a
ripetizione ed essendo sola con Jason, entro un’ora si sarebbero entrambi
stancati di fare matematica ma, visto che l’aula era prenotata per due ore
intere, sarebbero rimasti lì a parlare del più e del meno.
“Da cosa
nasce cosa, poi sta tutto a te” le aveva sorriso. “Dico bene, Laura?” aveva chiamato la sorella. La
bionda era in stato catatonico dal sabato sera e loro non avevano ancora ben
capito cosa fosse successo. In realtà, Rea aveva provato a parlare anche con
Johan ma lui si era chiuso in un silenzio totale e non riusciva a fargli
confessare l’accaduto.
Adesso però, entrata in un’aula
completamente vuota, Emma si sentiva piuttosto piccola e insignificante. Come
poteva aver pensato anche solo per un attimo che quel piano avrebbe funzionato?
Non ce la poteva fare: lui era un professore e lei una studentessa, e le due
cose non andavano molto d’accordo.
“Buongiorno ragaz… oh!” Jason entrò in fretta e
furia, con qualche minuto di ritardo rispetto all’orario previsto, e si sorprese
non poco di vedersi davanti solo la Stevens più piccola.
“Buon
pomeriggio. Come mai ci sei solo tu?” le chiese. Un po’ imbarazzata, lei
alzò le spalle come per dire “Non lo so
proprio” e si sedette al primo banco davanti alla cattedra.
“Non
importa, vorrà dire che dimezzeremo l’orario di lezione ma sarà più intenso,
così potrai andare a casa prima. Va bene?” propose, stranamente
emozionato.
“Sì” rispose lei, sentendosi già mancare il respiro.
Lui le si sedette accanto e si mise direttamente a scriverle sul quaderno e lei
sentì la sua vicinanza riscaldarla. Anche quello le bastava: anche solo stare
lì, con Jason vicino che le spiegava passaggio per passaggio ciò che non aveva
capito andava bene. Non le importava più di provarci o vedere se ci sarebbe mai
potuto essere un futuro, l’importante era il qui e l’adesso. Tutto il resto
poteva anche andare al diavolo.
“Esatto, adesso hai capito!” si complimentò il
professore, vedendo che aveva completato l’esercizio alla perfezione. Si
allontanò da lei e si sedette alla cattedra, poi la fissò un secondo.
“Ok,
devo proprio chiedertelo: com’è possibile che tu abbia preso quattro al compito?
Conosci le regole a memoria e capisci al volo i passaggi. Non ha un
senso” le chiese, confuso.
Emma chiuse gli occhi,
stringendoli, poi li riaprì e sorrise.
“Probabilmente ero poco attenta durante la spiegazione in
classe e non ero stata bene dietro al procedimento, quindi non lo avevo capito
appieno” rispose, celando i suoi veri pensieri. “Ero così occupata a fissarti quel sedere perfetto che del
seno e del coseno me ne importava meno che della crisi finanziaria del
Madagascar”
“Allora
la prossima volta prestami più attenzione, così non dovrai sprecare un intero
pomeriggio qui a scuola” le consigliò. Lei rise.
“Sì,
forse hai ragione. Ma… in fondo non mi dispiace passare il compleanno
qui” ammise infine. “Ok, l’ho
detto”
“Oggi è
il tuo compleanno?” s’informò Jason.
“Sì.
Da oggi sono ufficialmente maggiorenne” rispose allegra. Lui sorrise.
“Allora
dovremmo festeggiare! Ti va se ti offro un dolce in pasticceria? Non sarà molto,
ma…”
“Sì!” esclamò Emma, senza farlo finire.
“Cioè,
insomma… molto volentieri” si corresse, arrossendo.
Jason era un professore modello:
aveva ottimi rapporti con gli studenti, si divertiva nel suo lavoro, cercava
sempre di spiegare per bene i passaggi meno chiari con tecniche sempre più
semplici, in modo che anche chi aveva difficoltà potesse arrivarci. Mai un
richiamo, mai un problema, mai un’assenza.
Ciononostante, adesso si rendeva
conto che, seduto in un bar con una tazza di cioccolata calda davanti e una
studentessa per la quale nutriva qualcosa più che semplice affetto, stava
mettendo in pericolo la sua integrità morale e professionale.
“E le
tue sorelle, Rea e Laura, cosa ti hanno regalato?” le chiese, iniziando a
bere la sua bevanda. Aveva fatto aggiungere panna extra perché venisse dolce
come piaceva a lui.
“Ancora non lo so, mi hanno detto che me lo daranno
stasera” rispose lei, pensandoci. Quando l’uomo allontanò dalle labbra la
tazza, lei rise forte vedendo che gli erano rimasti i “baffi” intorno alla
bocca.
“Che
c’è?” si preoccupò lui.
“Hai…
sei tutto sporco!” lo prese in giro, indicandolo.
“Ops” esclamò il professore, prendendo un tovagliolo.
Iniziò a pulirsi, facendo peggio e scatenando l’ilarità della ragazza.
“Fermo, fermo, fermo, lascia fare a me” suggerì
Emma, avvicinandosi. Non voleva essere un gesto malizioso, né una provocazione,
ma quando fu col fazzoletto a poca distanza dalle sue labbra e con il viso
vicinissimo al suo, non riuscì a trattenersi.
“Ecco,
la panna è tutta qui” disse, lasciando un bacio proprio sopra alla sua
bocca.
L’uomo rimase immobile, deglutendo
a fatica e sentendosi terribilmente attratto da quel gesto, ma si impose di
respingerla.
Rendendosi conto di cosa aveva
fatto, la ragazza arrossì e si sedette di nuovo al suo posto, con le mani in
grembo.
“I-io…
scusami, non volevo…” disse imbarazzata.
“Credo
che sia meglio se torniamo a casa” propose Jason, alzandosi. Lei annuì,
conscia di aver rovinato un bellissimo pomeriggio.
Quando ebbero pagato, entrambi si
avviarono nella stessa direzione.
Emma voleva dire qualcosa ma la
sua mente era come congelata e non riusciva a pensare. Come poteva fargli capire
che era dispiaciuta da morire?
“Senti, non…”
“Non
importa, può capitare” la fermò lui, sorridendo.
“Come?” domandò lei, incerta di aver capito
bene.
“Facciamo finta di niente, ok? Sono cose che
capitano” la tranquillizzò, continuando a camminare come se niente fosse.
La ragazza lo seguì, un po’ confusa, in silenzio.
Erano ormai quasi arrivati, quando
si mise a piovere. Non fece nemmeno quel piccolo accenno che di solito c’è prima
di un temporale, l’acqua iniziò a cadere subito a scroscio, facendoli bagnare in
pochissimo tempo.
“Cavolo, dobbiamo trovare un riparo!” esclamò Jason,
parandosi la testa con le mani.
“Casa
mia è a pochi passi, se corriamo riduciamo il danno al minimo!” gridò
Emma per sovrastare il rumore della pioggia. Entrambi si avviarono a passo
svelto verso l’abitazione degli Stevens.
“Rea,
Laura, sono a casa!” chiamò la ragazza, entrando. Era molle del tutto,
completamente fradicia, ma fortunatamente il bagno era contiguo all’ingresso.
L’uomo la seguì, scuotendosi sul tappeto d’ingresso.
“Permesso” disse educatamente, ma nessuno rispose. La
mora, insospettita, chiamò di nuovo, ma non rispose nessuno.
“Strano, non ricordavo che avessero detto di uscire”
pensò ad alta voce.
“Aspettami qui, vado un secondo a cambiarmi per non fare
bagnato a giro e poi torno. Intanto tu togliti almeno il giacchetto” lo
istruì, infilandosi nella toilette.
Rimasto solo, Jason riuscì
finalmente a respirare senza problemi. Aveva capito che quella ragazza era una
fonte di problemi quando l’aveva fissata negli occhi qualche mattina prima a
scuola. Oddio, se ci ripensava aveva ancora i brividi. Non poteva e non doveva
cedere a quella… cosa che stava
nascendo nel suo cuore verso di lei. Emma era zona proibita. Stop!
Tutti quei buoni propositi
andarono a farsi benedire quando lei uscì dal bagno con un asciugamano legato in
testa e il pigiama addosso.
“Mi
sono dovuta mettere la prima cosa che ho trovato, scusami per
l’abbigliamento” disse, indicandosi imbarazzata.
“N-niente” balbettò lui, un po’ a disagio. Lei si
spostò dall’entrata della stanza.
“Ecco,
ti lascio asciugare, intanto cerco qualcosa nella camera di papà per farti
cambiare mentre i tuoi vestiti asciugano” lo avvisò, andando verso la
fine del corridoio.
“Ma non
importa, mi bastano solo dieci minuti e un buon ombrello” cercò di
fermarla, ma ormai lei era andata.
Si chiuse la porta del bagno
dietro, ma non a chiave, e si tolse la maglietta. La strizzò dentro alla vasca e
poi si lavò la faccia per calmarsi un secondo.
Emma, intanto, era entrata nella
stanza dei suoi e stava cercando una felpa del padre. “Forse nell’armadio” pensò. Quando aprì il mobile,
vide Rea e Laura chiuse dentro che si nascondevano e lanciò un urlo, subito
soffocato dalla mano di una della due.
“Zitta,
vuoi che si preoccupi?” le chiese la rossa.
“Che
cavolo ci fate qui dentro?” domandò infuriata.
“Ci
siamo tolte dalla circolazione per non disturbare. Tieni questa e vai!”
le ordinò la bionda, passandole una maglietta.
“Ma…”
“VAI!” dissero all’unisono.
Un po’ scossa, lei tornò in
corridoio e sorrise. Certo che aveva proprio due sorelle idiote.
Bussò alla porta del bagno, ma non
ottenne risposta.
“Jason?” chiamò. Ancora silenzio. Aprì la porta e lo
vide a torso nudo davanti al lavandino che si asciugava il viso.
“Oh,
scusami, io ero venuta a portarti solo questo” disse mortificata,
allungandogli la felpa. Lui si voltò sorpreso.
“Figurati, nessun problema. Grazie” la tranquillizzò,
col suo solito sorriso dolce. Emma fece per avvicinarsi a lui e farlo rivestire,
ma scivolò sulla condensa dell’acqua calda che si era formata sul pavimento e
rischiò di finire a terra.
“Waaa!” gridò.
“Attenta!” esclamò l’uomo, recuperandola per un
braccio e tirandola verso di sé.
Lo sentì stringerla al petto e
tenerla ferma lì, anche quando ormai si era riequilibrata. “Troppo vicina a questi muscoli nudi” si disse.
“Ah-ehm… gr-grazie” disse, puntandosi con le mani
sugli addominali per allontanarsi. “Brutta mossa,
ragazza” pensò di nuovo. Le sue mani si mossero da sole, accarezzando
incantata quel corpo così bello e…
“Emma…
ferma” sussurrò Jason, riportandola alla realtà. Lei sobbalzò e si
staccò, arretrando.
“Mi
dispiace! Scusami” esclamò imbarazzata.
Attratto da quel suo sguardo dolce
e confuso, l’uomo le prese il viso tra le mani e la baciò, lasciandola
completamente ammutolita. Aveva ceduto, alla fine.
Lei ricambiò, stupita ma felice, e
si alzò sulle punte dei piedi per tirarselo contro. Fu solo a quel punto che il
professore si rese conto di ciò che succedeva e la allontanò.
“Questo
è sbagliato, non posso” le disse, lasciandola andare e rimettendosi la
sua maglietta. Emma non riuscì nemmeno a muoversi dal bagno mentre lui usciva e
sbatteva la porta di casa quasi fuggendo.
Rea e Laura entrarono molti minuti
dopo e si stupirono di vederla in piedi in lacrime.
“Emma!” esclamarono insieme, avvicinandosi.
Lei non disse niente, non ne aveva
quasi la forza. Semplicemente si lasciò abbracciare e, per la prima volta in
diciotto anni, pianse fino a sentirsi sfinita.
Capitolo 12 *** I disastri delle sorelle Stevens 3: il recupero del quaderno rosso ***
I
disastri delle sorelle Stevens 3: il recupero del quaderno
rosso
Rea aveva resistito una settimana
intera prima di decidere di andare a parlare con Fabio. Lui non le aveva mai
rivolto la parola e lei era in pena per il suo quaderno: che ne aveva fatto? Non
l’aveva mai nominato, né si era mai preoccupato di restituirglielo, e ora, dopo
sei estenuanti giorni di attesa da quando era rientrata a scuola, si era
costretta ad andare a casa sua per riprenderselo.
Si sentiva in ansia e
terribilmente stupida mentre marciava incerta verso la sua abitazione e aveva un
terribile presentimento. Sembrava che in quei giorni le sorelle Stevens fossero
affette da qualche terribile maledizione che le faceva comportare in maniera
assurda: prima Laura che rifiutava un bacio da Johan dopo avergli versato tutta
la bibita addosso (Rea era riuscita a far parlare l’amico dopo diversi ricatti e
scambi di favore) e poi Emma, che non solo tentava di sedurre il professore in
una pasticceria, ma poi lo baciava quando lui era mezzo nudo nel suo bagno.
Decisamente c’era qualcosa di terribilmente inquietante in tutto ciò. E dire che
lei non era una di quelle che credevano nella sfortuna.
Quando fu davanti alla porta di
casa di Fabio, ebbe un attimo di esitazione: non era più molto sicura di voler
entrare e affrontarlo. Si ricordò di come si erano salutati l’ultima volta e si
sentì in colpa. “Forza e coraggio, devi solo
riprenderti il blocco” s’incoraggiò. Suonò il campanello e attese.
“Chi
è?” domandò una voce dal citofono.
“S-sono
Rea” rispose, deglutendo. Ci furono trenta secondi di silenzio prima che
la porta si aprisse, poi un Fabio stranamente spento si affacciò.
“So già
perché sei qui” le disse sospirando. La fece entrare e quel posto le mise
addosso una certa tristezza, inspiegabile ai suoi occhi.
“Vado a
prendere il tuo quaderno in camera, aspetta un minuto” la avvertì,
scomparendo nel corridoio. Rea si portò le mani sopra al petto e cercò di
calmare i respiri. “Conta: uno… due… tre…”
“Ecco
qua, tieni” esordì il ragazzo, rientrando in stanza e passandole il
blocco. Evitò di guardarla negli occhi e questo le dette un po’ di fastidio.
“Grazie” rispose lei, irrigidendo inconsciamente il
tono della voce.
“Di
niente” ribatté lui. Nessuno dei due disse niente per i due minuti
successivi, poi fu lei a rompere quel silenzio rumoroso che la stava facendo
impazzire.
“Forse è
meglio se vado” ipotizzò, avviandosi verso la porta. Lui la seguì e
gliel’aprì.
“Scusa
per il disturbo” lo salutò. Era quasi uscita quando lui richiuse la porta
e rimase a testa bassa con una mano appoggiata sulla maniglia. Rea era
confusa.
“C’è
qualche problema?” gli chiese. Il ragazzo continuò a rimanere zitto, poi
si voltò a guardarla: i suoi occhi nerissimi erano spaesati, e i capelli, che
gli ricadevano sulla fronte, gli mettevano in ombra il viso, rendendolo quasi
spaventoso.
“Io l’ho
letto” esordì poi, allontanandosi dalla porta e avvicinandosi a lei. La
ragazza indietreggiò.
“Cosa?” domandò.
“Quel
quaderno. In queste due settimane dopo il nostro appuntamento l’ho letto tutto.
Prima non ne vedevo l’utilità, poi tu sei fuggita e mi sono chiesto se, per
capirti, non avrei potuto usare quegli appunti strani. Quella sei tu,
vero?” l’aggredì, continuando ad avvicinarsi.
“I-io?”
“Tu sei
l’anatroccolo della storia, sei la piccola indifesa che non riesce a stare
dietro agli altri” Rea andava sempre più indietro, spaventata da quello
sguardo. Temeva da tempo che prima o poi avrebbe fatto il collegamento, era il
suo incubo più grande.
“Ci può anche
provare: può correre per raggiungere i suoi fratelli, ma non ci riesce, inciampa
ogni volta che prova ad aumentare il passo. E piange. Piange tanto,
l’anatroccolo, implorando qualcuno perché l’aiuti, e rimane fermo, pietrificato,
ad aspettare. Solo un giorno, quando ormai il suo corpo si è trasformato, si
alza, ormai stanco di essere sempre solo, e cammina col suo passo, a testa
bassa, cercando di evitare gli sguardi altrui. È aggressivo per quanto riguarda
chi entra nel suo perimetro vitale, ma non lo fa apposta: ha così paura che il
suo precario equilibrio mentale venga sconvolto che è il suo solo modo per
reagire. Alla fine, non si è nemmeno accorto di essere diventato un bellissimo
cigno, gli basta solo continuare ad andare avanti nella vita, facendo meno
rumore possibile per non essere più ferito” recitò a memoria. Quelle
parole la fecero rabbrividire e salire le lacrime agli occhi.
“Fabio,
basta” lo implorò con voce tremante.
“Il cigno continua a
nascondersi e a stare a testa bassa per tutta la vita, purché senza soffrire. Si
annulla e tanto gli basta per convincersi di stare bene. Ed evita il
coinvolgimento emotivo con gli altri.
Fin da piccolo,
infatti, chi lo avvicinava lo faceva solo per prenderlo poi in giro. Lo
illudevano. Gli facevano credere di accettarlo nonostante la sua diversità per
poi distruggerlo pezzo dopo pezzo. E le sue lacrime non servivano a niente per
avere un po’ di pietà: è per questo che il suo cuore si è corazzato e adesso
rifiuta chiunque per qualunque motivo” continuò.
“Basta,
basta, basta!” gridò Rea, senza avere la forza per sentire altro.
“Quell’anatroccolo sei tu, vero?” le domandò
implacabile. Continuava a spingerla verso il muro, dove lei si bloccò poco
dopo.
“Tu hai
davvero così tanta paura? Sei davvero convinta di quello che scrivi?”
continuò. La ragazza si portò le mani alle orecchie, ormai piangendo
disperata.
“Dimmelo!
Dimmi che non sei tu e ti mando via, ma dimmelo!” le ordinò Fabio,
prendendola per i polsi. Lei scosse la testa e lo fissò con occhi disperati.
“SMETTILA, ADESSO BASTA!” gridò, col fiatone.
“Sono
io, sono io, SONO IO!” ammise, con soddisfazione dell’amico.
“Io sono
quell’anatroccolo e sì, ero convinta di ogni singolo, insignificante dettaglio
che ho descritto. E lo sono tutt’ora: un cigno, per quanto esteticamente bello,
cerca di allontanare tutti solo per frustrazione. E io, che non sono nemmeno
bella, cosa dovrei fare?” gli chiese retoricamente.
“Per le
persone come me, che non possono permettersi di sperare in qualcosa che non
troveranno mai, cosa rimane? Io non sono bella, né esteticamente né
interiormente, e soffro in maniera così esponenziale per questo che mi ritrovo a
chiedermi come possa sopportare questo dolore senza implodere. Passo ore a dirmi
che potrei farcela, che prima o poi troverò chi mi apprezza e mi ama per questa
cosa orrenda che sono, ma non ci riesco, non ho più la forza di sperare e poi
piangere di nuovo perché mi ho sognato tanto e i miei sogni si sono
infranti!” rispose. Fabio sbatté un pugno al muro e la fissò.
“Ma
allora sei del tutto idiota!” concluse.
“Sei
completamente deficiente!” continuò.
“Perché?” chiese lei furiosa.
“No,
perché devo chiedertelo io: perché sei fuggita quando abbiamo toccato
l’argomento scrittura? Come mai fuggi dal tuo essere te stessa, meravigliosa
come sei?”
“Io non
sono meravigliosa! Non lo sono mai stata! Ero un’impedita a scuola, sempre
quella diversa, sempre a sentirmi dire che non ero come gli altri. Ero brutta
quando siamo entrati alle medie, se possibile più di ora, e me lo sentivo
ripetere spesso e con insistenza. Ero e sono tuttora una ragazza che si è
stufata, che non riesce più ad alzarsi dal letto senza sentirsi pesante e
scoraggiata. Io sono questo, non sono meravigliosa!” gridò. Ormai le
lacrime non smettevano di scendere, erano come un fiume in piena e nessun argine
riusciva a fermarle.
“Quindi è
per questo che mi hai respinto? Che ti rifiuti di uscire dal tuo guscio? Hai
solo fottutamente paura!” la accusò.
“Sì. Sì
ne ho, e molta! E quelli come te, i bellissimi e impossibili che vengono
braccati dalle ochette come quelle tre idiote di classe nostra, per le persone
come me sono off limits!”
“Ma ti
ascolti? Li senti i tuoi discorsi deliranti?”
“Non
sono deliranti, sono sensatissimi” affermò convinta. Aveva abbassato il
tono di voce e ora stava guardando fisso a terra, debole e fragile.
“Io non
riesco a fidarmi di te perché tu sei un ragazzo bellissimo. L’ho fatto, una
volta, di dire ad una persona che scrivevo. Sai cos’è successo? Mi ha detto che
non dovrei farlo perché sono un’inutile incapace, e che non dovrei quasi nemmeno
esistere. Il giorno dopo, arrivata a scuola, tutti avevano letto una mia storia
e mi prendevano in giro. Era così umiliante e straziante che non ricordo nemmeno
come ho fatto per rialzarmi. Da lì in poi non mi sono più fidata nemmeno di Emma
e Laura. Ho il mio diario, nascosto in camera in un cassetto, ma non riesco
nemmeno a essere sincera con me stessa”
“E questo
cosa c’entra con me?”
“La
persona di cui mi sono fidata era il ragazzo di cui mi ero innamorata. Era
bellissimo e ricordo che era dolce e gentile con me. Io ero una studentessa
delle medie che credeva nel principe azzurro un po’ per tutte le donne e mi
sembrava così simile al mio ideale che non mi ero mai chiesta se fosse sincero o
no. Mi baciò, sai? Fu il mio primo bacio. Oggi posso ringraziare che si fermò al
bacio, ma per me era così importante e bellissimo che non passarono che un paio
di giorni e io gli avevo detto di tutti i miei segreti, dalla scrittura al
canto. La mattina dopo, quando arrivai a scuola, tutti ridevano e mi guardavano
e lui urlò in mezzo alla classe che ero una ragazzina stupida, che non sapevo
fare niente, che gli avevo creduto. Per me è un dolore anche solo ricordare, ma
ogni notte mi sogno il mio corpo e poi sogno quello di tutti gli altri e mi
chiedo come mai io non riesca ad essere come voi, a stare bene con me stessa.
Sarebbe così bello. Dopo sei arrivato tu, e sei stato prepotente e arrogante ma
io non voglio che tu mi entri nella vita più di quanto abbia già fatto! Se ti
facessi entrare poi mi faresti male!” continuò disperata. Nemmeno lei si
era resa conto di avere tutti quei pensieri, nemmeno lei si era accorta che la
sua sofferenza era tale, ma aveva parlato in modo automatico, senza freni. Era
qualcosa che doveva confessare, altrimenti sarebbe scoppiata. Alzò lo sguardo e
lo fissò, tra le lacrime, poi strinse gli occhi.
“Per
cui, ti prego, vattene prima che io soffra come ho già sofferto!” lo
implorò. Fabio rimase allibito di fronte a quest’ammissione di dolore, a questa
richiesta rumorosa, ma non si mosse e la strinse ancora un po’ di più al
muro.
“Se tu
fossi stata solo un capriccio non mi sarei sforzato tanto” disse infine,
senza guardarla.
“Se
avessi voluto prenderti in giro non avrei tenuto il quaderno per me”
continuò. Rea aprì gli occhi di colpo quando lui l’abbracciò, incredula.
“Se tu
non mi interessassi non sarei qui, confuso e triste, a chiederti una
possibilità” terminò, stringendola forte. La ragazza era stupita, e, in
cuor suo, pregava affinché tutto quello fosse vero, ma poi si dette della
stupida, e cercò di allontanarsi.
“Non
posso” lo respinse, più allibita di lui nel dire quelle parole.
“Se lo
facessi ti darei la possibilità di farmi male, di usarmi a tuo piacimento fin
quando non ti verrò a noia e mi butterai via come fossi un giocattolo vecchio.
Io non mi sono trasformata in cigno, purtroppo, sono rimasta un piccolissimo
anatroccolo, ma non voglio lo stesso che le persone abbiano il potere di
ferirmi” disse. Gli occhi del ragazzo si infuriarono e lui iniziò a dare
pugni al muro, impazzito, facendola gridare di paura.
“Perché.
Non. Ti. Fidi?!” urlò.
“Fabio,
tu sei pazzo! Fammi andare via!” esclamò Rea, impaurita, cercando di
uscire da quella posizione.
“No! Non
te ne vai, non posso farti scappare così!” negò lui, avvicinandosi. Messi
in quel modo, lui sembrava più alto del normale, quasi gigantesco rispetto alla
sua statura piccola.
“Ti
prego, fammi tornare a casa!” lo implorò la ragazza.
“NO!” gridò Fabio. La prese con le mani e la alzò di
qualche centimetro, baciandola. Era un bacio conteso tra la disperazione e la
voglia di farle passare la paura, di darle un po’ di speranza in qualche modo,
di aiutarla, di farla alzare.
Rea rimase ferma, immobile, in
silenzio, stupita, poi lo spintonò dandogli un colpo nello stomaco e facendolo
arretrare.
Lo fissò un attimo, senza sapere
che cosa dire o fare, poi strinse il quaderno al petto a scappò via, lontana da
lui e lontana da quella casa, lasciandolo fermo lì, tremante e senza fiato.
Perché era così cocciuta e
testarda? Perché non voleva credergli? E soprattutto, perché lui sentiva così
male nel pensarci? Non si conoscevano che da poche settimane, eppure la amava.
No, non gli piaceva, ne era innamorato profondamente. E, se anche era
irrazionale, non gli interessava.
Se n’era accorto quando lei
l’aveva fissato impaurita la prima volta che aveva provato a baciarla, in una
muta di richiesta di non farlo, e ne aveva avuto la sicurezza quando l’aveva
abbracciata implorandola di restare. Non serviva un genio per capire che era
sincero, ma lei non voleva vederlo. O proprio non ci riusciva.
Rimase fermo, con le mani
abbandonate lungo il corpo per un tempo indeterminabile, poi si mosse verso il
telefono. Fece il numero di casa Stevens e attese.
“Pronto?” rispose una voce allegra.
“Pronto,
buongiorno, avrei bisogno di parlare con Rea. Sono un suo compagno di
classe” disse.
“Mi dispiace, ma mia figlia non è ancora
tornata. Penso che rientrerà a breve, se mi lascia un nome la faccio
richiamare” spiegò la donna, ma lui aveva già attaccato. Poteva cercarla
solo in un altro posto.
Non sapeva dove era, né come ci
era arrivata, ma sapeva che aveva continuato a piangere fin quando la testa non
le era girata così forte da farla cadere a terra. Rimase inginocchiata sul prato
del parco, incapace di alzarsi, terribilmente debole. Non poteva rientrare in
quelle condizioni, tutti si sarebbero accorti che stava male, ma non poteva
nemmeno stare fuori casa tutta la notte.
In quel momento qualcuno le mise
una mano su una spalla.
“Vieni
con me, ti porto al caldo” disse.
Davanti a una tazza di tè fumante
e al fuoco scoppiettante del camino, Rea si sentì subito meglio. Almeno
fisicamente.
Aveva continuato a fissare un
punto indefinito sul tavolo, stringendo la coppa tra le mani e tremando
impercettibilmente, almeno finché lui non le schioccò le dita davanti.
“Penso
di essermi guadagnato delle spiegazioni” le fece presente.
“Ti ho
trovata al parco e ti ho adottata, quindi ripagami dicendo qualcosa”
chiese. Lei parve non sentirlo, e continuò a fissare la tovaglia con gli occhi
semi-aperti.
“Porca
miseria, REA! Riprenditi!” la sgridò. La ragazza alzò lo sguardo con gli
occhi in lacrime.
“Johan,
posso dormire da te stanotte? Non riesco a rimanere sola” lo implorò.
Capitolo 13 *** Che eri un’idiota lo sapevo, ma… ***
Che eri
un’idiota lo sapevo, ma…
Non era la prima volta che Rea
rimaneva a dormire da Johan. I loro genitori erano molto amici e sapevano che
tra i due non sarebbe mai potuto nascere niente, così erano tranquilli quando
succedeva. All’inizio capitava solo quando crollavano addormentati l’uno sul
divano dell’altro mentre guardavano un film, poi la cosa era diventata ufficiale
quando la ragazza aveva iniziato a passare nottate intere giocando alla
playstation e finendo per fare le quattro del mattino con l’amico.
Con l’andare del tempo entrambi
erano cambiati e, dati gli sviluppi fisici dell’adolescenza, non avevano più
dormito insieme di comune accordo, ma passare la notte da sola era una
prospettiva spaventosa per Rea, che si sentiva debole e svuotata. Rientrare
significava spiegare la situazione a Emma e Laura e non poteva farlo. Non capiva
nemmeno perché si sentisse così inerme, ma, stretta nel pigiama di Johan, con le
gambe al petto e le braccia intorno alle ginocchia, le sembrava di essere
tornata a quando, anni prima, era accaduto quell’episodio terribile.
La realtà era che si sentiva una
deficiente: non era la sola a cui era successo, lo sapeva benissimo. Lo aveva
sempre saputo. Così come aveva sempre saputo che non era giusto precludersi la
possibilità di felicità perché, sette anni prima, un bastardo si era comportato
in modo orrendo con lei. Di contro, però, sapeva che poteva risuccedere e si
ricordava, come se fosse accaduto in quel momento, la sensazione di nausea che
l’aveva colpita: era umiliazione allo stato puro, vergogna di essere sé stessi,
voglia di strapparsi di dosso quel corpo e quella personalità terribili. Odio
contro il proprio io.
Quando era tornata a casa dopo
aver sentito quelle cose si era messa a gridare con quanto fiato aveva in gola,
pregando di morire per non dover più essere Rea. Era così che aveva iniziato a
detestarsi, a voler essere qualcun altro, e così si era costruita, giorno per
giorno, quella personalità fredda e distaccata che le serviva da muro. Se era la
Rea forte ad essere presa in giro lei non lo sentiva perché non era altro che
una corazza protettiva. Era un modo per non soffrire.
Ma ogni tanto quell’armatura
veniva meno, lo sapevano benissimo Laura e Emma, che la vedevano fredda per la
maggior parte dei casi e poi capitava che si ritrovavano davanti una sorella
dolcissima con i bambini, pronta ad aiutarti se ne hai bisogno, capace di
piangere anche per un film idiota. Non capivano come potesse essere reale una
cosa del genere, ma non se lo chiedevano più.
L’unico che lo sapeva, benché non
avesse mai fatto domande, era Johan. Lui sì chec’era sempre stato e che aveva aspettato
il momento in cui tutte le difese dell’amica sarebbero venute meno.
“Sai,
io penso che tu sia un’idiota. Cioè, lo sapevo anche prima che lo sei, ma direi
che ne ho avuto la conferma” esordì, dopo aver chiamato gli Stevens per
avvertirli che la ragazza avrebbe dormito fuori. Lei non lo sentiva nemmeno,
continuava a piangere silenziosamente, senza sapere come smettere.
“Come
hai fatto a trovarmi?” gli chiese dopo un po’, sussurrando. Johan si
passò una mano tra i capelli e sospirò.
“La
verità è che mi ha chiamato Fabio, dicendomi una buona parte della storia, e
chiedendomi disperato di farti tornare a casa. Non sapevo di preciso dove tu
potessi essere, ma non abitiamo in un paese grande e trovarti non è stato così
difficile. È bastato seguire le lacrime a terra” provò a sdrammatizzare,
senza successo. Vederla in quelle condizioni era uno strazio anche per lui.
“Senti, ti scongiuro, almeno con me parlane!” la
implorò dopo un po’.
“Io non…
non ho niente di cui parlare” rispose con fatica. Anche pronunciare
qualche semplice parola la faceva soffrire. Sentiva un dolore al petto, come se
le avessero strappato il cuore a suon di frustate.
“No,
certo. Sei in stato semi-catatonico e stai piangendo da un’ora e mezza, ma va
tutto bene” si irritò Johan. Si mise a camminare su e giù per la stanza,
poi si avvicinò a lei e la scosse forte.
“Cazzo, Rea, riprenditi!” la chiamò. Lei non reagì,
ma i suoi occhi, già gonfi di lacrime, cominciarono a piangere ancora di
più.
“Johan,
aiutami!” gridò, gettandosi verso di lui e abbracciandolo. I singhiozzi
iniziarono a scuoterla fortemente, come se un’enorme scossa le stesse passando
attraverso la spina dorsale, e il ragazzo la strinse forte a sé.
“Shh,
tranquilla. Ci sono io per te” le assicurò, accarezzandole i capelli.
Quella notte non dormirono molto.
Per tranquillizzarla, il biondo le raccontò per filo e per segno com’era andato
l’appuntamento con Laura e le raccontò della sua frustrazione nell’essere stato
respinto. Rea, sdraiata sul materasso che avevano messo a terra, lo fissò.
“Io non
credo che volesse respingerti, sai?” disse.
“Ha
rifiutato di baciarmi. Cos’altro voleva fare? Bere tè e pasticcini?”
“No,
semplicemente ha avuto paura. Con lei capita spesso, anche se non capisco come
mai. È una specie di autodifesa: quando si trova davanti quello che vuole fa un
paio di passi indietro e rinuncia. È un modo perché questo un giorno non possa
lasciarla. Io lo faccio in maniera esagerata, ma sono convinta che, se tu le
dessi un’altra possibilità, non si tirerebbe indietro” gli assicurò.
“Sei
sicura? Non credo di reggere un altro rifiuto” ammise il ragazzo,
storcendo la bocca.
“Al
cento per cento. La conosco, e so che è innamorata di te, per cui penso che
fosse solo un po’ impaurita. Come tutti di fronte a qualcosa che non conosciamo,
in fondo” lo rassicurò. Rimasero zitti a fissare il soffitto, poi lui si
alzò.
“Senti, io mi annoio, ma non mi va di dormire”
esordì sorridendo. Lei ricambiò il sorriso.
“Stelle?” chiese.
“Stelle” annuì, prendendo due felpe dal
cassetto.
Rea si mise quella grigia e andò
ad aprire la finestra, cercando di fare più piano possibile.
“Avevamo sette anni la prima volta che l’abbiamo fatto,
ricordi?” le sussurrò Johan, seguendola mentre si arrampicava sull’albero
di fronte ai vetri.
“Certo
che me lo ricordo: ti sei quasi schiantato contro un ramo sporgente, rischiando
un occhio” lo prese in giro lei, continuando a salire. L’unica cosa in
cui non cadeva era l’arrampicata sugli alberi: aveva due anni quando iniziò ad
aggrapparsi alle piante a casa della nonna per recuperare le ciliegie mature e
aveva imparato i trucchi del mestiere dopo qualche ginocchio sbucciato e un paio
di ossa rotte.
“Sei
simpatica. No, sul serio, mi fai morire dalle risate” gli rispose il
ragazzo, sarcastico. Lei rise e saltò sull’enorme ramo che c’era sulla cima,
sedendosi e lasciando il posto a lui affinché la affiancasse.
Il ragazzo si sdraiò con i piedi
penzoloni e la testa sulle sue gambe e si mise a fissare il cielo.
“Sai,
me lo sono sempre chiesto” esordì dopo un po’.
“Cosa?” domandò Rea, beandosi del vento freddo sul
viso.
“Da
dove nasca la tua paura di aprirti davvero. Anche con me non sei mai stata del
tutto sincera. Mi hai nascosto per parecchi anni il tuo talento nello scrivere e
nel cantare”. Non era davvero arrabbiato, forse solo un po’ deluso.
“Non
l’ho fatto apposta. Non sai quante volte avrei voluto parlarne con te, Emma e
Laura. Dirvi tutto e smetterla di tenermi tutto dentro, anche solo per liberarmi
da questo peso, ma non ci riuscivo. Era scattato dentro di me un meccanismo di
autodifesa che non mi ero nemmeno accorta di aver installato e sono diventata
questo. Johan, ti giuro, tu non sai quanto mi odio per essere così
autocommiserativa” ammise, iniziando ad accarezzargli i capelli.
“Non
dovresti” le disse lui.
“Invece
si. Quando penso di aver trovato una sottospecie di equilibrio decente, succede
qualcosa che me lo distrugge e rimango con in mano un sacco di nulla. Poi mi do
della stupida e mi odio più di prima. C’è un rapporto di odio puro nei miei
confronti da parte mia, sai? È come se, inconsciamente, io sperassi che, usando
questo disprezzo, prima o poi riuscirò a venirne fuori. È un circolo vizioso
pericoloso” spiegò, fissando le stelle.
“Pensavo
che continuando a dirmi che non mi sopportavo, un giorno sarei cambiata perché
non riuscivo più a vivere con me. Invece ho solo chiuso gli occhi a qualcosa che
non volevo vedere, a una sofferenza che non pensavo di avere dentro. È
terribilmente difficile prendere coscienza di ciò” concluse. Johan si
sedette e la fissò, appoggiandosi con le mani al tronco.
“Se tu
non fossi un’idiota patentata, lo avresti capito anni fa che non va bene essere
così duri con sé stessi. Tu non usi l’autocritica per farti del bene, ma per
darti dolore. Sei un’emo delle emozioni!” disse. Rea rise.
“Cos’è,
un neologismo?”
“No, è
la verità. Invece di tagliarti fuori, ti tagli dentro ed è quasi peggio. Come
puoi sopportarlo? Come riesci a vivere sapendo che domani ci sarai di nuovo tu a
ferirti implacabilmente?” le domandò. La ragazza rimase sorpresa, senza
sapere che rispondere.
“Il
nemico peggiore di noi siamo noi e se non riusciamo a sconfiggerci finiamo col
distruggerci” disse. Rea si mise a piangere silenziosamente, poi rise
imbarazzata.
“Pensavo
di non avere più lacrime” ammise, asciugandosi le guance. Johan si
avvicinò a lei con la mano e le accarezzò il viso.
“Se tu
non ti accetti non potrai mai essere felice” le fece presente. Lei smise
di ridere e abbassò lo sguardo.
“Lo so.
Io so che hai ragione, so che dovrei amarmi un po’ di più, darmi la possibilità
di sperare in una me stessa migliore. Lo so, me lo ripeto ogni giorno. E, anche
se dirò una cosa terribile, io ho paura di non meritarmela, quella felicità. Per
voi è così facile, così naturale riuscire ad essere semplicemente voi stessi che
mi chiedo spesso come mai per me non funziona così, e mi sono fatta una teoria:
per me emo delle emozioni, come mi chiami tu, non esiste un modo per stare in
pace senza dolore un giorno intero. Solo per ventiquattro ore. Non me lo merito,
semplicemente” spiegò.
Le arrivò uno schiaffo in pieno
viso, stupendola.
“Ma
che…?”
“Se lo
pensi sul serio non sei solo un’idiota, ma sei anche del tutto
ritardata!” le gridò Johan, arrabbiato.
“Ognuno di noi ha dei problemi, fa parte della vita, ma
arrivare a dire che non meriti la felicità è da masochisti” disse. La
prese per le spalle.
“Guardami bene, Rea Stevens: tu sarai felice, devi esserlo!
E se non ce la farai da sola ti aiuterò io! Ma non dire più scemenze
simili!” ordinò. Lei rimase ferma e aspettò che quelle parole le
entrassero in testa, poi lo abbracciò.
“Johan,
ti prego… almeno tu non lasciarmi” lo implorò.
“Secondo
te nelle stelle c’è scritto sul serio il destino?” domandò la ragazza,
vedendo che in lontananza il sole iniziava a sorgere.
“Non
lo so proprio. Secondo te?” rispose l’amico, mezzo assonnato.
“Sì,
secondo me sì. Io posso vedere il mio, ogni tanto”
“Sul
serio? E per me che c’è scritto?” la prese in giro lui, chiudendo gli
occhi e rimanendo steso sulle sue gambe.
“C’è
scritto: Johan, brutto pigrone, non ti addormentare su un albero a sei metri di
altezza che sennò cadi e muori!” rise la rossa, dandogli un colpetto
sulla testa.
“Lo
so, ma sono stanco. Sono le sei del mattino, andiamo a dormire?” la
implorò.
“Sì,
forse è meglio rientrare” concesse Rea.
Scesero dall’albero e
attraversarono la finestra, tornando in camera. Si stesero sul materasso e
chiusero gli occhi, rannicchiandosi sotto le coperte.
“Eri
seria, prima?” chiese il biondo. Lei lo fissò.
“Riguardo a cosa?”
“Al
fatto che tu vedi il tuo destino guardando le stelle” le spiegò. La
ragazza scrollò le spalle.
“Non ci
leggo chissà cosa, ma le stelle mi aiutano. Insomma, se penso di non essere più
in grado di andare avanti semplicemente alzo gli occhi al cielo e le fisso. Sono
l’unica cosa che riesce a darmi una lieve speranza che, un domani, ci sia
qualcosa di buono anche per me” rispose.
“Ho
capito” sbadigliò Johan.
Si addormentò poco dopo, russando
e facendola ridere, mentre Rea rimase sveglia per parecchio tempo ancora.
“Magari
ci sarà davvero qualcosa di buono per me” sussurrò prima di chiudere gli
occhi e cadere in un sonno profondo.
Quando rientrò a casa, il
pomeriggio successivo, Rea si era già arresa all’idea di dover spiegare a Emma e
Laura tutto quanto. Glielo doveva, giusto?
Se le aspettava curiose, piene di
domande e quasi arrabbiate perché non aveva detto tutto subito, invece, quando
aprì la porta, le trovò sul divano in silenzio, una ancora in pigiama e l’altra
appena uscita dalla doccia.
“Sono
tornata!” annunciò. Loro si girarono a guardarla, fecero un sorriso
stanco e si rimisero nella stessa posizione di partenza.
“Che
succede?” chiede dopo essersi messa in ciabatte. Sembravano spente e
stanche. Era raro vederle poltrire così durante l’anno scolastico: Emma, di
solito, studiava come una matta mentre Laura disegnava per scaricare la
tensione. “Forse non poltriscono. Forse non riescono
ad alzarsi, semplicemente” pensò. Fece un enorme sorriso per rallegrarle
e si sedette vicino a loro.
“Forza,
raccontatemi qualcosa! Non volete sapere come mai ho dormito da Johan?”
domandò.
“No,
non mi interessa” rispose la bionda. Giusto, bella gaffe.
“Allora
vi racconto di Fabio” propose. Pur di vederle stare un po’ meglio, questo
e altro.
“Non
importa, sono affari tuoi” disse la mora. Rea spalancò la bocca,
incredula: Emma che rifiutava qualche scoop? Decisamente qualcosa non
andava.
“Che
cosa? Mi volete dire come mai siete in queste condizioni?” sbottò alla
fine. La più alta la guardò.
“Non
riusciamo a sopportare l’idea di aver perso l’occasione della nostra vita. Laura
con Johan e io con… con Jason” le confessò.
“Il
tuo amico non le parla da sabato e il
prof, invece, fa finta che non sia mai successo niente. Mi sento quasi usata,
terribilmente svuotata” spiegò. Era straziante vederle in quelle
condizioni, adesso capiva cosa aveva provato il suo amico la sera
precedente.
“Ma non
avete perso niente! Tu hai avuto la conferma che lui è attratto da te –ti ha
baciata!- e lei pure! Forza, abbiate un po’ di coraggio” le spronò
alzandosi.
“Non
è per questo, è che siamo state in grado di rovinare tutto nonostante la
situazione fosse favorevole. E adesso come possiamo fare? Ieri sera, per la
prima volta dopo mesi, siamo rimaste a casa a guardare un film d’amore. D’amore!
Ma ti rendi conto?” disse Laura, disperata.
“Inoltre, come se tutto ciò che abbiamo passato non
bastasse, tu hai trascorso la notte da Johan, probabilmente dormendo con
lui!” esplose di rabbia nei confronti della sorella.
Rea rimase zitta, ma i suoi occhi
si infiammarono.
“Sei una
stupida se pensi che te lo ruberei! Non mi interessa nulla di lui in quel senso,
so che è roba tua. Mi dai così poca fiducia? Benissimo! Sappi che io non ho
assolutamente intenzione di sentire le tue stupide idee su di noi”.
“E,
giusto per informazione, sono andata da lui perché stavo male come un
cane” concluse. Andò in camera sua a passo svelto, sbattendo la porta e
sedendosi in malo modo sulla sedia alla scrivania. Non era triste e nemmeno
depressa: stavolta era proprio arrabbiata.
Prese in mano una bic blu e si
mise a scrivere sul suo diario segreto tutto ciò che era successo nelle
ventiquattro ore precedenti. Piano, piano, la rabbia scemò, lasciandole solo un
senso d’impotenza di fronte al dolore delle sorelle addosso.
Ripensò a quello che le era venuto
in mente sulla maledizione delle Stevens, e prese una decisione: “Maledizione o
semplice sfortuna, finisce qui, adesso”.
Un’ora dopo rientrò in salotto.
Emma e Laura erano lì a guardare la televisione, ancora sedute nella stessa
posizione di prima. Si mise in piedi davanti allo schermo e bloccò loro la
visuale.
“Ehi!” protestarono. Lei spense tutto e le guardò,
cercando di mascherare un sorriso soddisfatto.
“Da oggi
basta piagnistei e affini. Ora si fa come dico io!” annunciò, prendendole
per un braccio.
“Ferma, ma che fai?” esclamò la mora, vedendo che le
spingeva verso le rispettive camere.
“Al
momento l’unica delle due che posso aiutare è Laura, ma poi penserò anche a te.
Solo che ho bisogno di una mano: dobbiamo vestirla, truccarla e profumarla. Vai
a cambiarti, tra venti minuti usciamo” le ordinò.
“Ma…”
“Va’!” la zittì. La chiuse nella sua stanza e poi si
girò verso la bionda, che era spettinata e in pigiama.
“Per te
mi servirà più tempo” osservò.
“Che
diavolo vuoi fare?” la aggredì lei, incrociando le braccia.
“Non ti
preoccupare, io sono esperta nel far stare meglio le persone. Sono qui per
aiutare entrambe ad essere felici!” annunciò, facendole l’occhiolino.
“Non
sono sicura di aver capito” ammise la ragazza, confusa. Rea la spinse in
bagno.
“Meglio
così” rise.
Si mise a pettinarla, lavarla,
cambiarla e truccarla, ignorando le lievi proteste che ogni tanto sua sorella
faceva.
“Hai
mai pensato che magari io non voglio uscire?” le fece presente.
“Ci ho
pensato e ho anche pensato che, se non vuoi, ti costringerò. Ti mostrerò che
Johan non ha occhi che per te” rispose, sicura di sé. Laura arrossì e
s’incupì.
“Non
mi parla dall’appuntamento, scommetto che mi odia” confessò.
“No che
non ti odia, stupida! Si è sentito respinto e ora è in imbarazzo nello starti
accanto, ma non potrebbe mai odiarti. È innamorato di te!” le assicurò
Rea, continuando a pettinarla.
“Innamorato?” esclamò la bionda, incredula. Lei
annuì.
“Me l’ha
detto lui ieri sera” confermò, sicura di sé.
“Io
sono pronta, che devo fare?” annunciò Emma. Si era messa un paio di jeans
e una maglietta e si era legata i lunghi capelli neri in una treccia. La rossa
sorrise.
“Scegli
un vestito carino per Laura. Deve uscire” la istruì.
“Perfetto, noi ti lasciamo qui. Adesso tocca a te”
disse Rea, allontanandosi dal vialetto di casa di Johan.
“E se
tu ti sbagliassi? Se mi odiasse davvero?” le chiese sua sorella più
grande, impaurita. Lei sorrise e fece segno di vittoria con la mano.
“Io non
mi sbaglio mai, ricordatelo. Vuoi che rimaniamo con te almeno fin quando non
aprirà la porta?” le propose. La bionda annuì, sentendosi microscopica
mentre lei suonava il campanello.
Johan aprì la porta sbadigliando e
con gli occhi gonfi (alla fine avevano dormito quattro ore sì e no) e si stupì
nel vedere le tre Stevens sull’uscio di casa.
“Salve” le salutò, incerto. Rea sorrise smagliante e
indicò Laura con gli occhi.
“Indovina cosa siamo venute a fare?” chiese, spingendo
la sorella verso di lui.
“Ehm…” balbettò il ragazzo in risposta. Lei si
attorcigliava le mani dal nervoso e fissava a terra, incapace di parlare. La
rossa le dette un piccolo colpo sulla testa.
“Forza,
parla!” le ordinò.
Emma voleva mettersi a ridere, ma
si trattenne: sua cugina… ops, sorella, era proprio testarda quando ci si
metteva.
“I-io
sono… sono qui per scusarmi… cioè, insomma, per quello che è successo sabato in
pizzeria” disse, arrossendo. Johan rimase immobile a fissarla, senza
sapere che dire, ma Rea lo guardò male da dietro le spalle della bionda,
battendo il piede in terra. La indicò con la testa, come per dire “Rispondi, brutto idiota!” e lui si schiarì la voce,
imbarazzato.
“Bene,
sono felice che tu sia venuta qui a dirmelo” ammise infine. Laura stava
già per disperarsi dopo quella risposta fredda, ma la rossa si avvicinò a lui e
lo prese per un orecchio.
“Dille
quello che hai detto a me stanotte” ordinò, avvicinandolo a lei.
“Ahia!
Mi fai male!” si ribellò, cercando di divincolarsi.
“Rea,
forse non ti dovresti impicciare così tanto…” provò a fermarla Emma, ma
lei la fulminò con lo sguardo.
“Sono
due testoni, quindi adesso vi mettete qui e giuro su me stessa che, se non
chiarite la questione, vi prendo a padellate in testa fin quando non sarete
diventati quadrati!” li minacciò. Entrambi si irritarono a quella frase,
ma ebbero troppa paura per ribattere qualsiasi cosa.
“Noi ce
ne andiamo a casa e vi lasciamo soli. Non voglio rivedere Laura per le prossime
due ore, siamo intesi?” chiese. I ragazzi rimasero zitti.
“Ho
detto: siamo intesi?” ripeté. Aveva uno sguardo che non ammetteva
repliche.
“Sì” risposero loro, controvoglia.
“Perfetto, allora a più tardi” li salutò.
Emma avrebbe tanto voluto dirle di
smettere, anche perché con quel tono faceva paura anche a lei, ma stette zitta:
magari sarebbe riuscita a dare una mano anche a lei.
Intanto, Laura e Johan erano
rimasti fermi a fissare le proprie scarpe, senza sapere cosa dire. Entrambi
volevano esprimere di tutto, ma avevano paura e non dicevano nulla. Alla fine fu
lui a rompere il silenzio.
“Ascolta, mi dispiace se non ti ho parlato per tutto questo
tempo, io mi sentivo… ecco…”
“Rifiutato?” gli suggerì lei.
“Beh,
sì, in effetti è così” ammise. La bionda rise amaramente e scosse la
testa.
“Lo
so, e ti chiedo scusa. Io non… io non volevo rifiutare nessuno, te lo giuro su
quanto ho di più caro. Anzi, erano anni che aspettavo il momento in cui tu ti
saresti deciso a baciarmi, ma poi ti ho… ti ho visto lì e mi è preso il panico:
se non fosse stato come avevo sempre sperato? Se fossi rimasta delusa? O se tu
ti fossi reso conto che non mi volevi? Non so, tutte queste domande mi hanno
bloccata” confessò, un po’ in imbarazzo. Johan sorrise.
“Senti, ti va di fare una cosa?” le chiese. Lei alzò
gli occhi e lo guardò.
“Del
tipo?”
“Allora, io adesso ti bacio, e tu mi dici che te ne pare,
poi mi baci tu e ti dico che me ne pare. Va bene?” propose. Laura rise, a
metà tra il divertito e il felice.
“Possiamo provarci” accettò, sorridendo.
Lui si avvicinò, prendendole il
viso tra le mani e portandoselo vicino, poi posò le labbra sulle sue.
Nessuno dei due avrebbe saputo
dire quanto tempo rimasero incollati, ma se fosse stato per loro non si
sarebbero staccati più.
“Allora? Che te ne pare, sono stato all’altezza?”
domandò poi, con un po’ di fiatone. Laura annuì.
“Ora
è il mio turno” annunciò, aggrappandosi al suo collo e unendo di nuovo le
loro bocche.
“Ce
l’avranno fatta?” domandò Emma, mentre si toglieva le scarpe. Rea
sorrise.
“Sì,
tranquilla. Avevano solo bisogno di una spinta” la rassicurò, mettendosi
comoda sul divano. Le fece segno di sedersi vicino a lei, e la sorella si
sedette.
“Adesso
sta a te” disse, con uno sguardo che piacque poco alla mora.
“Cosa?”
“E’
arrivato il momento che tu risolva col tuo professore” decise,
stringendosi un cuscino al petto.
“No, è
inutile. Come hai detto giustamente tu, è un professore e io una studentessa:
sono due categorie che non vanno d’accordo unite” le spiegò sconsolata.
Rea sbuffò.
“Sentir
dire da te che ti arrendi prima ancora di lottare è molto triste, sai? Non eri
tu che dicevi che, se c’è una possibilità da parte sua, non ti arrendi finché
non è tuo?” le ricordò.
“Sì,
ma…”
“E
allora non ti dare per vinta! Lui ha mostrato interesse, quindi non puoi
rifiutarti di provare almeno a parlarci. Non ti dico di violentarlo su due piedi
o di baciarlo davanti a tutti, ma cerca una scusa per rimanere sola con
Jason” la spronò.
“Se
lui non volesse? Se facesse di tutto per evitarmi?” chiese, impaurita.
Rea le prese le mani e la fissò
negli occhi.
“Emma,
io te lo prometto: se tu non ce la farai, io interverrò per te”
giurò.
“Mi sono
ripromessa che la maledizione che sembra gravare su di noi negli ultimi giorni
finirà qui: niente più lacrime per le sorelle Stevens! Quindi voglio che voi
siate felici e basta, non mi interessa come riuscirò ad aiutarvi, mi basta
farlo. Capito?” disse.
La mora annuì e la abbracciò,
senza sapere cosa dire.
Capitolo 15 *** Un professore duro da combattere ***
Un
professore duro da combattere
Proprio come aveva predetto Emma,
Jason si rivelò difficile da trovare. Ogni volta che cercava di parlarci lui
trovava una scusa per fuggire.
Rea si scervellava durante tutte
le ore di scuola per trovare una soluzione, cercando di fare in modo di non
insospettirlo. Se avesse capito che dietro a tutto c’era la rossa, avrebbe
evitato ogni rapporto anche con lei, e questo non andava bene. Se il piano con
sua sorella fosse fallito, sarebbe entrata in gioco al suo posto.
Laura, nel frattempo, non faceva
altro che amoreggiare col suo nuovo e bellissimo fidanzato, e non si preoccupava
troppo di star dietro ai problemi di cuore della mora, che non se la prendeva
piùdi tanto: nemmeno lei avrebbe voluto starci dietro se avesse potuto.
“Senti, è la sesta volta che cerco di parlarci ed è la
sesta volta che mi dice che deve andare in riunione, o a correggere i compiti, o
a parlare con un genitore. Io mi arrendo” annunciò Emma,
tornando in classe dopo la ricreazione.
“Cosa? No! Mi rifiuto di farti desistere!” si
ribellò Rea, battendo il pugno al banco.
“Perché te la prendi tanto a cuore? Se non vuole parlarmi
significa che non gli interesso, altrimenti si sarebbe già fatto sentire
lui”
“Non è vero, e tu lo sai. Mi hai detto che è stato lui a baciarti, quindi l’unica
cosa che cerca di fare è di evitare i suoi sentimenti, non te. Pensaci un
attimo: tu sei una studentessa, lui un professore. Se portaste
avanti una relazione probabilmente ne risentirebbe la sua carriera” spiegò.
“Sì,
ma non vedo perché devi fare qualcosa tu!”
“Perché
non voglio vederti stare male” rispose.
“E, se
per farti felice devo inimicarmi Jason, lo farò” le promise.
“Rea, sul serio, non importa. Mi basta quello che ho avuto” le assicurò.
“E’
stato il più bel compleanno della mia vita nonostante il modo in cui si è
concluso, quindi non devi preoccuparti per me” disse, mettendo una mano
sulla sua.
“Non è vero, e tu lo sai benissimo, quindi non continuare a
cercare di evitare il problema. Te l’ho
sempre detto, fin da quando eravamo piccole: evitare il problema e girare gli
occhi non lo fa sparire, ma solo ingrandire. Ti prometto che,
qualsiasi cosa accada, sarò pronta ad aiutarti”
giurò.
“Grazie” le sussurrò Emma. In quel momento suonò la
campanella e loro si misero sedute per bene, aspettando la professoressa di
inglese.
Rea sentiva dietro la testa lo
sguardo fisso di Fabio, che non aveva fatto altro che osservarla da quando erano
entrati in classe, ma cercò di evitarlo: prima le sue sorelle, poi si vedrà.
“Nel libro la
protagonista cerca di ricattare l’uomo solo per farsi ascoltare. Se non
lo facesse, lui non starebbe a sentirla e lei non riuscirebbe a parlarci. Non è cattiva, semplicemente cerca di urlare aiuto verso il suo
amato” spiegò mezz’ora dopo l’insegnante.
A narrativa inglese stavano
studiando i romanzi inglesi dell’ottocento e quella parte fece scattare qualcosa
dentro la ragazza, che alzò la testa dal banco e ascoltò. Parola dopo parola il
piano più assurdo che avesse mai architettato si formò nella sua mente e decise
di metterlo in pratica già dal mattino dopo.
“Buongiorno Jason” salutò, entrando in classe. Era la
prima e aveva saputo dai bidelli che l’uomo era solito stare alla cattedra a
leggere un libro dalle sette e mezzo fino a quando non
si aprivano i cancelli della scuola e i ragazzi erano autorizzati a entrare.
“Rea, buongiorno.
Come mai già qui? Credevo che gli studenti non potessero
venire in classe prima delle otto” la
salutò. Lei scrollò le spalle e si tolse lo zaino.
“Di solito è così, ma io sono amica dei
bidelli. Inoltre
stamani ho fatto presto e aspettare fuori al freddo di novembre non mi piaceva
come idea, quindi eccomi qui”
rispose.
Fece finta di niente, aprendo la
cartella e tirando fuori un quaderno. Si mise a “studiare”, poi sbuffò.
“Qualche problema?” le chiese Jason, alzando gli
occhi dal libro che stava leggendo.
“Sì, non
riesco a capire filosofia e domani ho
un’interrogazione. Lei sa qualcosa di questa materia?” domandò implorante. Il
professore si tolse gli occhiali, appoggiandoli sul registro, e si avvicinò a
lei.
“Dipende. Chi state studiando?”
rispose.
“Kierkegaard. Sa, tutta la questione delle scelte dell’uomo”
spiegò.
“Sì, mi ricordo qualcosa. Prova a leggermi un pezzo dei tuoi
appunti” la spronò.
Soddisfatta di quella reazione che
aveva programmato, Rea scelse una parte che aveva già deciso il giorno
precedente e la declamò.
“Le scelte degli uomini sono impossibili da
cambiare. Una volta che si è decisa una
cosa, non si può più tornare indietro e questo porta ad un’angoscia esistenziale
che caratterizza tutta la vita del soggetto. Le scelte davanti a cui ci troviamo
sono spesso o bianche o nere: sì o no? Cambiare idea a metà
della decisione può comportare della sofferenza, soprattutto se il soggetto
interagisce con un altro soggetto”
lesse.
“Non mi
sembra così complicato, giusto?” osservò Jason.
“Magari non è complicato da studiare, ma da capire
sì. Secondo me le
scelte sono più di una e, tra il bianco e il nero, ci sono duemila sfaccettature
di grigio che ci danno la possibilità di soffrire meno possibile, non
pensa?” chiese. L’uomo
iniziò a capire dove la ragazza stesse andando a parare e si irrigidì.
“Per cui
perché rovinarci l’esistenza chiedendoci se andrà bene o male? Magari andrà
benino o malino, ma non per forza sarà tutto in si o in no. E poi, la parte che
parla dei soggetti che interagiscono con gli altri soggetti, mi torna poco. Dato
che i filosofi parlavano del vivere civile, direi che dobbiamo sempre trovare la
soluzione che fa meno soffrire sia noi stessi che gli altri. Giusto?”
“Rea,
cosa stai cercando di dirmi?” domandò il professore senza mezze
misure.
“Lo sa
benissimo. Lei ha paura. Di cosa, lo sappiamo entrambi, ma se vuole lo dico io
ad alta voce”
“No,
non…”
“Teme di essersi innamorato di mia sorella. Anzi no, ho sbagliato, lei è sicuro di essersene
innamorato, è questo che la spaventa. Di conseguenza la evita da due settimane
intere. Questo perché non sa scegliere: lei o il suo
lavoro?” continuò.
“Ehi,
signorina Stevens, ferma con le parole” la minacciò. Lei si alzò e lo
fronteggiò.
“No,
deve capire che così le sta facendo male” rifiutò, scuotendo la
testa.
“Ascolta, quello che è successo non… non doveva succedere.
In realtà non avresti nemmeno dovuto saperlo. Però è un episodio che non sarebbe
mai dovuto avvenire: io sono un professore, lei…”
“E’ una studentessa.
E quindi? Potrebbe tranquillamente dirle che aspetterà giugno e che, una volta
che avrà finito l’esame e si sarà diplomata, potrete uscire insieme. E Emma smetterebbe di distruggersi l’esistenza pensandola” suggerì.
“Non è
quello il fatto, ma…”
“Altrimenti sia chiaro e le dica che non le importa
niente. Che l’ha
baciata solo per un capriccio momentaneo e non gliene frega niente di lei perché
è una ragazzina che ha la metà dei suoi anni”
ipotizzò poi. A quelle parole Jason si irrigidì.
“Aspetta, io non l’ho mai pensato questo” la
fermò.
“E allora dica quello che pensa! Mi aiuti a far stare meglio mia sorella! Non è il suo
lavoro? Stare vicino a noi studenti per capirci e farci
aiutare” lo implorò. L’uomo
si passò una mano tra i capelli e la guardò.
“Sul
serio sei convinta che non mi interessi nulla di lei?” le chiese.
“No, io so che lei le sta a cuore. Lo so e basta, non mi chieda come” rispose sicura.
“Appunto. Ma
pensaci un secondo: io ho lavorato tanto per fare questo lavoro. Ho trentotto
anni, un divorzio alle spalle, due figlie poco più piccole di voi e tutti i
problemi della mia età. Voi siete così giovani, così… così piene di vita e di
speranza. Da quando sono stato a casa vostra non faccio che chiedermi come mai
una studentessa come Emma, che potrebbe sul serio essere
mia figlia, mi abbia fatto un effetto così devastante. Come
un’esplosione. Non l’ho respinta perché non volevo baciarla, al contrario l’ho
respinta perché volevo baciarla. E questo non andava bene affatto. Io ti chiedo solo di capirmi e di non chiedermi di fare una scelta,
perché al momento non ne sono in grado” la
implorò.
“Ma Emma non è più in grado di sopportare questa
situazione. Lei non la vede quando è a
casa, non la vede nemmeno quando cerca di nascondere le lacrime dietro un
sorriso stanco. La prego, io la imploro, la smetta di
ignorarla!” disse
disperata.
“Non
posso!” esclamò Jason, irritato.
“Tu
cosa ne vuoi sapere? Cosa ne sai di cosa significhi avere quarant’anni ed essere
innamorato di una ragazzina appena maggiorenne? Io lo so da due anni che lei è
attratta da me, lo so senza che nessuno me l’abbia mai detto, ma ho evitato ogni
contatto con lei proprio perché sapevo che non avrei resistito. Non mi
interessano le tue preghiere perché non posso prendere una decisione
ora!”
“Lei è
solo un codardo!” lo accusò Rea, arrabbiata. Aveva gli occhi in fiamme e
il suo tempo stava scadendo: doveva agire in fretta.
“Io mi sono sempre fidata di lei, ho sempre avuto un enorme
rispetto per il suo lavoro e per come è, ma non avevo mai capito che era un
codardo. Uno
schifosissimo codardo e basta!”
gridò. Stava improvvisando, sperando che l’uomo non le
tirasse un ceffone.
“Non è così! Io so
che vorrei stringere Emma e che vorrei baciarla e abbracciarla, ma non posso
farle questo! Non posso lasciare che lei mi aspetti per mesi e
che poi si metta con un uomo che ha la mia età!”
esplose, allontanandosi e avviandosi all’uscita.
“Ma se a lei non interessasse? Se lei volesse solo stare con te? Non ha
importanza l’età, sono i sentimenti ciò che conta” gli ricordò Rea.
“Non mi
interessa, io non me la sento di farle questo” ripeté, aprendo la
porta.
“Non le interessa perché ha una fottutissima
paura. Ma la paura si supera. E se lei non lo fa ho ragione io: è solo un codardo” disse fredda. Jason non ribatté
e uscì, lasciandola sola.
La ragazza espirò: non si era
nemmeno accorta che aveva trattenuto il fiato durante la discussione. Si
accasciò su un banco e si portò le mani alle tempie, massaggiandosi la testa. Si
sentiva distrutta, e ora aveva cinque ore di lezione da sopportare.
Uno alla volta i suoi compagni di
classe arrivarono, prendendo posto ai propri tavoli, e i suoi pensieri furono
sostituiti dal rumore delle chiacchiere. Laura le si sedette accanto e la
avvertì che Emma non sarebbe venuto a scuola quella mattina.
“Come? Dopo tutto quello che ho rischiato non viene?” si stupì
lei.
“Ha detto di non sentirsi troppo bene, che ti devo
dire? Era uno
zombie stamani” le
spiegò.
Accasciandosi sul banco, Rea si
chiese se tutta quella fatica avrebbe portato a qualcosa.
Quando tornò a casa trovò la
sorella in pigiama sul divano con una tazza piena di panna e nutella in
mano.
“Stai
cercando di morire di diabete?” le chiese, togliendole il dolce di
mano.
“Ehi,
è mio!” si ribellò lei.
“Non più. Allora?
Come mai non sei venuta a scuola?” s’informò, passandole un fazzoletto per
pulirsi.
“Non me la sentivo. Non sono nemmeno sicura di voler
sapere com’è andata con Jason”
confessò.
“Ho lanciato l’esca.
Il discorso è degenerato, ma sono soddisfatta del
risultato” sorrise.
“Sicura?”
“Lui mi ha detto che gli piaci, ma ha fatto tante storie e
inventato tante scuse per giustificare il fatto che ti evita. Ha paura, ma credo che sia normale” osservò.
“Anche
se mi ha fatto patire le pene dell’inferno. Credevo che non sarei stata in grado
di parlarci per bene. Quando ho iniziato il discorso voleva scappare, ma si è
trattenuto”
“Per
cui dici che di me gli importa davvero?”
“Ne sono certa. Basta
aspettare. Pensa che tra meno di un mese abbiamo le vacanze di Natale e, se
tutto va bene, le passerai con il tuo Jason” le
suggerì.
“Che
fortuna” commentò Emma. Accese la televisione e si mise a guardare un
programma a caso, solo per riempire il silenzio che era calato.
“Va beh, io adesso vado a studiare. Domani ho davvero
l’interrogazione di filosofia e Laura è da Johan a prepararsi, quindi io devo
fare tutto da sola” annunciò, sparendo per il corridoio.
“Ok” rispose Emma.
Rea perse il segno già dopo due
righe, e si mise a sperare che qualcosa accadesse affinché sua sorella
ritrovasse un po’ di pace. Non l’aveva mai vista in queste condizioni.
Come se fosse stata ascoltata
dalla Dea bendata, qualcuno bussò alla porta.
“Vado
io!” esclamò, correndo alla porta. Quando aprì, un sorriso enorme
illuminò il suo volto e si scansò.
Dopo aver parlato con Rea, Jason
aveva parlato col preside chiedendo un permesso speciale per uscire prima ed era
letteralmente fuggito da scuola. Le parole della ragazza rimbombavano nella sua
testa, facendolo sentire uno schifo. “Lei è solo un
codardo!” aveva ripetuto prima che la lasciasse da sola in classe.
“Io non
sono un codardo… io non ho paura” cercava di convincersi, ma anche lui
sapeva che stava dicendo una bugia, che tutta quella situazione lo spaventava
terribilmente.
Si mise a camminare nel parco,
tirando calci ai sassi che si trovavano sul suo cammino e pensando.
Sul serio aveva fatto del male a
Emma col suo comportamento? Eppure lui aveva agito così solo per il suo
bene.
“Ma
perché è così difficile?” domandò ad alta voce, disperato.
“Se fosse
semplice non sarebbe divertente” rispose una voce dietro di lui. Si
voltò, spaventato, e vide Fabio Daniels seduto sul bordo della fontana, con
l’mp3 nelle orecchie e lo zaino a terra.
“Fabio,
non dovresti essere a scuola?” gli chiese, stupito più che
arrabbiato.
“Anche
lei, se è per questo. Stamani non me la sentivo di fare cinque ore di lezione e
sono venuto qui. Di solito i professori non entrano nel parco la mattina a
quest’ora, per cui ero tranquillo che non sarei stato trovato” rispose,
giocando con un legnetto e facendolo ruotare in acqua.
Jason si sedette vicino a lui e lo
osservò.
“Ti
vedo spento” commentò dopo un po’.
“Lo
sono” disse il ragazzo, togliendosi le cuffie e spegnendo l’mp3.
“Posso
chiederti come mai?”
“Me l’ha
già chiesto, prof” rise, prendendolo in giro.
“Comunque
niente di che, i soliti problemi adolescenziali che si vedono in televisione. Sa
come funziona, giusto? Cotte non ricambiate, ragazze problematiche… sempre la
stessa roba” spiegò. Jason sospirò.
“Provo
a tirare a indovinare? Parliamo di una delle Stevens?” indagò.
“Sì, e
immagino che lo sappia perché anche lei c’è dentro come me. Sono tre ragazze
piuttosto problematiche” osservò. L’uomo rise.
“Diciamo pure così, anche se, nel mio caso, il problema sono
io, non lei” ammise. Solo un secondo dopo ragionò per bene
sull’affermazione del ragazzo.
“Tu come
lo sai che sono dietro a una Stevens?” domandò preoccupato. Fabio scrollò
le spalle.
“Intuizione, credo. Diciamo che ho visto Emma, so come la
guarda e non sono uno stupido” rispose. il professore avvampò.
“Non
dovrebbe essere così evidente” ribatté.
“Per chi
non la guarda attentamente no, non lo è. Però, anche se credo che lei lo faccia
inconsciamente, si vede che le presta un po’ più attenzione che agli altri
ragazzi. Insomma, magari quando chiede ad alta voce se tutti abbiamo capito, fin
quando Emma non fa cenno di sì con la testa lei non prosegue. Non so se mi sono
spiegato” raccontò.
“Per
cui si nota molto, vero?” chiese, arrendendosi. Con sua sorpresa, Fabio
scosse la testa.
“No. Dura
tutto un secondo e i nostri compagni di classe non sono così interessati alle
Stevens come lo siamo noi. In realtà, da ciò che ho notato, non sono molto
integrate con i gruppetti più in, se
così vogliamo chiamarli”
“Stai
parlando di Maria, Ginevra, Matilde e il seguito?”
“Sì,
proprio di loro. Emma, Laura e Rea non sono particolarmente amanti di quello
stile di vita frivolo e stanno molto sulle loro. L’unico che è veramente loro
amico è Johan, gli altri sono un contorno per la loro vita così particolare. Non
penso che se ne curino molto, anzi, credo che stiano bene nella loro
diversità” commentò. Aveva parlato in maniera molto matura, osservò
Jason. Gli sembrava che quel ragazzino fosse più adulto della sua età. E gli
sembrava che soffrisse.
“Come
mai tu hai notato questo? E come mai ti interessi tanto alle Stevens?”
domandò. Fabio sospirò.
“Io,
proprio come loro, odio quella frivolezza che hanno i nostri compagni di classe
e non sopporto le galline che pensano di poter far fare alle persone ciò che
vogliono solo perché sbattono le ciglia. E sono stato gentile” rispose.
Il professore rise.
“Immagino ciò che pensi, tranquillo” disse. Anche
l’altro rise.
“Ecco,
quindi deduco che non sia un segreto nemmeno per voi insegnanti ciò a cui mirano
le ragazze come loro. Le Stevens sono… sono diverse, sono più pure, anche se
questo termine non è quello più azzeccato. Sono semplicemente un’altra
cosa” spiegò.
“E tu
sei innamorato di Rea, mi pare di capire”
“Purtroppo sì”
“Perché
purtroppo?” si stupì Jason. Fabio s’incupì e lanciò il bastone
nell’acqua.
“E’ una
storia complicata e devo dire che ci ho capito poco anche io”
rispose.
“Ti va
di parlarne?” propose il professore. Lui ci pensò su, poi scese dalla
fontana e si mise lo zaino in spalla.
“Se c’è
una cosa che ho imparato dal rapporto tra Rea e Johan è che, quando si rivela un
segreto, dobbiamo avere la sicurezza che l’altro non lo dica in giro. Quindi
facciamo un patto” decise. Jason aspettò che continuasse, senza
capire.
“Un
segreto per un segreto: io dico a lei di Rea…”
“…E io
dico a te di Emma” comprese, annuendo un po’ preoccupato.
“Va
bene, penso che farà bene a entrambi parlare di questa situazione. Ci
sto” accettò, tendendogli la mano. Fabio la strinse.
“Allora
andiamo” annunciò.
“Dove?”
“A
mangiare. Non ho fatto colazione e sono le dieci. È ora di
ricreazione”
Mezz’ora dopo, davanti a un caffè
fumante e a una brioche ripiena di crema, il ragazzo iniziò a raccontare tutta
la storia di Rea a Jason, da come si erano conosciuti a quando l’aveva baciata,
venendo respinto in malo modo. Anche se le aveva promesso che non avrebbe
rivelato niente del quaderno né del fatto che scriveva, quella mattina disse
tutto quanto, anche il particolare dell’anatroccolo. Non lo sapeva cos’era che
l’aveva spinto a confessare i suoi segreti a quel professore, ma gli infondeva
tranquillità e fiducia, e questo gli bastava per non farsi troppe domande.
Arrivato alla fine, Jason sospirò
e prese un sorso del succo di frutta che aveva davanti prima di parlare.
“Non
avrei mai creduto che Rea Stevens –la stessa che stamani mi ha dato uno di
quegli schiaffi morali che ti lasciano intontito per un bel pezzo- avesse un
carattere così debole e indifeso. Non è quello che lascia vedere, ecco”
ammise.
“Se lo
facesse vedere non le servirebbe una maschera per proteggersi” gli fece
presente Fabio.
“Giusta
osservazione. Quindi voi, in pratica, non vi parlate da sabato. Oggi è venerdì,
è una settimana”
“Esatto.
Mi evita, come se avesse paura, e non ha più provato a dirmi nulla. Si è ripresa
il quaderno ed è fuggita, lasciandomi in casa, tremante e confuso. Ho paura a
fare qualsiasi cosa: se ci parlo rischio che mi respinga di nuovo; se la ignoro,
temo che possa pensare che non la penso più, dandole ragione sulla sua teoria
che io la usavo solo come un capriccio; parlare con le sue sorelle non mi sembra
giusto, visto che devo risolvere con lei e lei sola. Che farebbe,
professore?” chiese. Jason ci pensò un po’, poi sospirò.
“Credo
che io ti debba raccontare di cosa ha fatto Rea stamani a me, prima di poterti
dare qualsiasi consiglio” disse.
Anche lui, proprio come aveva
fatto Fabio qualche minuto prima, si mise a raccontargli di tutta la storia con
Emma: partì da quando aveva capito che lei era innamorata di lui, per arrivare
all’attrazione crescente che provava per la ragazza, concludendo col racconto
della discussione avuta con la sorella. Più andava avanti col racconto, più si
rendeva conto che quella ragazzina impertinente aveva ragione e lui aveva una
fottuta paura.
“E
quindi, la tua dolcissima Rea mi ha schiaffeggiato come nessuno aveva mai fatto
prima d’ora. È stata una cosa assurda” terminò. Fabio era ammirato.
“Cavolo,
quella piccoletta è una bomba!” esclamò ridendo.
“Sì,
beh, diciamo che avrei evitato volentieri che mi si tirasse in faccia la verità
in modo così violento. Poteva usare qualche via di mezzo, ecco”
ammise.
“Non
sarebbe stato lo stesso, però. Insomma, se non fosse stata dura con lei non
avrebbe avuto tanto impatto” gli fece presente l’altro.
“Vero.
Comunque volevo dirti che non è tutto bianco o nero. È anche grigio. Ce ne sono
mille di sfumature di grigio, me l’ha detto Rea stamani. E forse… forse ha
ragione” disse sospirando.
Fabio rimase un secondo zitto, poi
guardò l’ora.
“Stamani
uscivano prima, giusto? Noi avevamo lei all’ultima ora, per cui a mezzogiorno
sono fuori. Vada da Emma” consigliò.
“Non
posso! Dannazione, ma perché non volete capire che è complicato? Se tu andassi
da Rea dicendole che la ami e che vuoi una storia con lei nessuno ti
giudicherebbe un pervertito malato. Lei non ha la metà dei tuoi anni, né è una
tua studentessa!”
“Si fidi,
se io dicessi a Rea una cosa del genere prima mi picchierebbe e poi se ne
andrebbe. E comunque, io non la giudico un pervertito, se può servire”
assicurò. L’uomo lo fissò stralunato.
“Come?”
“Io non
penso che lei sia un pervertito. Lei è una persona che si è innamorata di
un’altra persona. Non esiste il problema se non ce lo crea lei sopra. Se conosco
Emma, sono sicuro che la aspetterebbe fino a fine esami, pur di stare con
lei”
“Ma è
proprio per questo che non voglio. Lei ha diciotto anni, come potrei chiederle
di aspettare un quarantenne?”
“Da ciò
deduco che abbia ragione Rea a dire che è un codardo. Magari non ha utilizzato
uno dei metodi più convenzionali del mondo per dirlo, ma non aveva tutti i
torti. Cavolo, ma si guardi! Un altro uomo sarebbe già andato da lei a implorare
perdono per come è fuggito”
“Io non
sono fuggito”
“E come
lo chiama andarsene da casa sua in tutta fretta senza dare
spiegazioni?”
“Ehm…”
“Appunto.
Quindi deve alzare il culo e muoversi, perché Emma è una bella ragazza. Non ha
importanza l’età, oggi si accetta di tutto, ha importanza il sentimento. Lei la
ama?” domandò serio. Jason rimase zitto un secondo.
“Sì,
che la amo!”
“E allora
non importa altro. Fino a luglio potrete vedervi di nascosto, basterà essere
bravi, e noi tutti vi aiuteremo. Però, dato che lei ha una possibilità con la
sua amata, la sfrutti. Non la butti al vento” consigliò, rattristandosi.
Il professore si alzò e lo guardò pieno di gratitudine: aveva ragione, doveva
muoversi senza pensarci.
Prima di uscire dal bar gli mise
una mano sulla spalla.
“Fabio,
non devi scoraggiarti mai. Rea ha bisogno di vedere che qualcuno c’è anche per
lei, che non esistono solo le persone che hanno tanta cattiveria in corpo come
quei ragazzi che l’hanno trattata male anni fa, quindi devi solo avere pazienza.
Prima o poi capirà che sei sincero” gli assicurò.
“Spero
che lei abbia ragione, prof. Lo spero proprio”
Jason era corso fuori dal bar e si
era avviato a piedi verso casa Stevens. Era mezzogiorno e mezzo, sicuramente
qualcuno in casa lo trovava.
Vide Laura e Johan camminare mano
nella mano, segno che erano usciti da scuola, e accelerò l’andatura: non
riusciva più ad aspettare.
Quando arrivò davanti alla porta
dell’abitazione, si era fermato e aveva ripreso fiato, poi aveva suonato.
Rea gli aveva aperto, e poi aveva
sorriso, ricambiata.
“Allora,
tutto sommato, non è poi così codardo” lo aveva preso in giro,
spostandosi per farlo entrare.
“Oppure
qualcuno mi ha fatto aprire gli occhi” ammise. Lei rise, poi gli fece
segno di non fare rumore e gli strizzò l’occhio.
“Emma,
che stai guardando?” gridò.
“Un
programma di cucina, perché?”
“Niente” rispose. Se guardava qualcosa sul cibo
sicuramente non si sarebbe accorta di lui.
Gli fece cenno di seguirla e
gliela indicò.
“Mi
raccomando, faccia piano. Una sorpresa è sempre gradita” si assicurò,
salutandolo con la mano e chiudendosi in camera.
Jason si avvicinò con passo
felpato alla ragazza e le mise le mani sugli occhi. Lei sobbalzò dallo
stupore.
“Rea,
cavolo mi hai spaventata! Perché fai questi giochi stupidi alla tua età?”
la sgridò. Poi con le dita sfiorò le grandi mani che la stavano tenendo bendata
e il suo cuore iniziò a batterle forte in petto.
“Magari
sarò un po’ vecchietto, ma questi sono giochi che mi divertono sempre”
rispose Jason, a un soffio dal suo collo.
Capitolo 17 *** Finalmente una soluzione per Emma ***
Finalmente
una soluzione per Emma
Emma si sentì senza il fiato
mancare e i battiti del cuore accelerare, poi un leggero bacio sul collo la fece
quasi piangere.
“Ho
bisogno di parlarti” disse Jason, togliendole le mani da davanti agli
occhi. La ragazza le sentì scorrere sul collo fino ad arrivarle alle spalle, poi
percepì il calore del suo abbraccio, che la scaldò anche dentro.
Rimasero zitti per un po’: nessuno
dei due aveva il coraggio di rompere quel momento perfetto.
“Di
cosa hai bisogno?” chiese alla fine lei. Con suo grande dispiacere le sue
mani la lasciarono, e le mancò subito quel contatto con la sua pelle, ma se lo
ritrovò davanti un attimo dopo.
“I-io… io voglio
scusarmi con te” ammise. Lei spalancò gli occhi.
“Con
me?!Perché?”
“Per come mi sono comportato, per quello che ti ho fatto
passare. Per le
lacrime che hai versato per me, per il dolore che hai sofferto… per tutto” rispose.
Emma rimase allibita da quelle
parole, poi lo guardò.
“Ma
tu… cioè, come…” fu bloccata da un suo bacio arrivato inaspettato,
incredibilmente dolce e bellissimo.
“O-ok, aspetta un
secondo” provò a dire, ma Jason la fermò di nuovo, prendendole il viso
tra le mani e tenendola stretta a sé, fin quando non ebbe più fiato e dovette
staccarsi per respirare.
“Mi
stai togliendo il respiro” ammise la mora.
“Sì,
anche tu” rispose l’uomo, riprendendo a baciarla.
“N-no, fermo! Stavo parlando letteralmente” lo
bloccò, ridendo.
“Oh,
scusami” si ritirò lui, rimanendo però con una mano sulla sua
guancia.
“Non
dicevo che mi dispiaceva” s’imbronciò lei. Jason sorrise, poi la guardò
intensamente.
“Come
mai ti sei mosso per venire da me?” gli domandò, tornando seria.
“Iniziamo da principio: sono stato un idiota, e per questo
ti chiedo perdono. Non volevo farti del male, né volevo che tu pensassi che
non me ne importa niente di te, però non… non potevo
nemmeno starti accanto. Io sono un professore, tu…”
“Una studentessa.
Questa frase me l’ha ripetuta Rea seimila volte negli ultimi
giorni” sbuffò Emma. Lui
rise sommessamente e scosse la testa.
“Rea. Certo che tua sorella è proprio un tipino
testardo” commentò. Lei non
capì e lo fissò confuso.
“Non
ho capito” ammise.
“Credo
che tu sappia che stamani mi ha parlato, giusto?”
“Certo
che lo so, è uscita prima apposta”
“Esatto. Sai anche come mi ha parlato e cosa mi ha
detto?”
“No di
certo. Mi sono rifiutata di sapere qualsiasi cosa”
“Ecco. È una che ci
va giù pesante con le parole, mettiamola così. Mi ha fatto aprire gli occhi
dicendomi delle cose piuttosto forti, ma purtroppo reali. Ed
ora sono qui” spiegò. Emma
rimase un secondo pensierosa.
“Rea? Cioè no, aspetta… Rea ti ha convinto?” si stupì lei.
“Sì. E Fabio le ha dato una mano”
confessò.
“Ah,
perché si parlano di nuovo?” domandò.
“No,
non penso. Almeno non da quello che è venuto fuori dalla discussione con lui. Ma
torniamo a noi”
“Sì,
scusami, adesso sto zitta” promise.
“Comunque non devi credere che di te non mi interessi
niente. Non devi farlo mai, nemmeno se ti sembrerà così. Tu sei… tu sei la cosa
più importante che esista per me, qui e ora”
“Ma tu
hai detto che non possiamo!” ribatté lei.
“L’hai
detto tu, poco fa. Io sono una studentessa e tu un professore, e questo non
cambierà”
“E’ vero, ma non cambieranno nemmeno i miei sentimenti nei
tuoi confronti. Se tu mi dirai di non
essere pronta per avere una relazione con un uomo che ha il doppio della tua età
e che, per di più, non ti può assicurare niente fino a luglio io ti capirò. Io
capirò il tuo disagio e me ne farò una ragione. Al contrario, se vuoi rischiare,
vuoi provarci almeno, allora io ti starò accanto. Sarò qui
ogni qualvolta vorrai, ti stringerò, ti abbraccerò e farò di tutto per renderti
felice” le promise.
“Ma
devi scegliere tu” disse.
Emma non credeva alle proprie
orecchie, aveva paura di sbattere gli occhi perché temeva di svegliarsi. Non era
possibile che Jason (il suo Jason) fosse sul serio inginocchiato di fronte a lei
a chiederle amore. Non era plausibile.
Le vennero gli occhi lucidi per
l’emozione, ma non proferì parola: preferì prenderlo per la maglietta e
tirarselo contro.
Quando le loro labbra si
scontrarono entrambi iniziarono a baciarsi con foga, felici, impauriti,
innamorati, vogliosi… avevano bisogno l’uno dell’altro.
E, per quel momento, qualsiasi
altra cosa che fosse al di fuori di loro poteva anche andare al diavolo.
Rea li aveva spiati fino in fondo,
piangendo di felicità quando la sorella aveva preso la decisione migliore.
Certo, non sarebbe stato tutto rose e fiori, soprattutto all’inizio, ma lei
avrebbe fatto in modo che tutto andasse per il meglio. Sarebbe stata accanto a
Emma e Laura per aiutarle e dar loro manforte nei momenti difficili, le avrebbe
sostenute.
Decise di lasciarli soli e uscì di
casa silenziosamente, sorridendo al pensiero della loro felicità.
“Bene, e ora che faccio? Potrei andare da Johan… ah, no. È con
Laura” iniziò a ragionare.
Si mise a camminare stringendosi nel piumino. Il vento novembrino le sferzava il
viso facendola rabbrividire.
“In effetti, a pensarci bene, sono rimasta
sola. No, niente tristezze: Emma è
felice, Laura è felice, Johan è felice, Jason è felice… loro stanno bene, e devo
essere allegra. Devo mostrare che anche io sono felice per loro. Devo sorridere
e non… non essere egoista. Io devo… devo aiutarli, devo
portare gioia nelle loro vite… devo… devo…” ma
la frase fu rotta dal pianto sommesso della ragazza. Senza
nemmeno rendersene conto i suoi occhi avevano iniziato a lacrimare, e non
riusciva a fermarli. Non voleva piangere, davvero: avrebbe voluto semplicemente
proteggere da lontano quelli che amava.
Ma lì, in mezzo alla strada
grigia, in un freddo venerdì pomeriggio, si rese conto di essere rimasta
sola.
“Tutto sommato non volevo questo? Essere sola con me stessa.
Nessuno avrebbe mai potuto ferirmi o deludermi. E allora cos’è? Cos’è questo
terribile senso di oppressione che ho nel petto? Cos’è questo dolore lancinante
che provo vicino al cuore? Mi fa male…” si chiese, portandosi una mano all’altezza del cuore
e cercando di respirare con calma. Si sentiva oppressa, non
riuscivaa prendere fiato per bene.
Era come se qualcosa le ostruisse la gola, e iniziò a venirle il fiatone.
“Perché sono sola?
Perché non c’è nessuno qui per me? Dove sono tutti, ora che
hanno la loro felicità?” domandò ad alta voce,
appoggiandosi al muro. Sentiva che le gambe le stavano
cedendo, iniziava a vederci sfocato.
“Come
mai non ho qualcuno che mi protegge come faccio io con gli altri?”
continuò. Si accasciò a terra. Non si sentiva affatto bene.
“Ma non dovrei… non dovrei fare questi discorsi, non dovrei
essere egoista. Dovrei
rallegrarmi… sono allegra… io sono felice per loro… davvero…” disse, sempre più
flebilmente.
“E’ per
me stessa che non riesco ad essere felice” ammise.
La vista si fece sfocata e cadde a
terra, senza sapere come mai. Vide un’ombra che si avvicinava e cercò di
focalizzarla: era alta. Riusciva a vedere solo questo.
“Signore, mi può proteggere lei?” implorò, prima di
svenire.
“Rea? Rea, mi
senti?”
Chi è che la chiamava?
Dov’era?
“Rea, tesoro, apri gli occhi”
mamma? Come mai la mamma mi sveglia? Non lo fa da quando avevo sei anni.
“Secondo me dovremmo chiamare
un’ambulanza” per chi?
“No, per il momento no. È solo svenuta, lo ha detto quel ragazzo”
Lei gemette, e aprì gli occhi con
fatica. Vedeva tutto il mondo girarle intorno, ma piano, piano riuscì a
focalizzare almeno le persone intorno a sé: mamma, papà, Emma e Laura.
“C-che cosa… che cosa
è successo?” domandò, confusa.
“Stai giù, tesoro, va tutto bene”
la rassicurò la donna, posandole sulla fronte uno straccio bagnato.
“Dove
sono?”
“In camera
tua. Sei qui priva di coscienza da almeno un paio
d’ore” rispose l’uomo.
“Due
ore? Ma io sono uscita di casa per lasciare soli Emma e…”
“Ehm,
ehm!” la fermò sua sorella, schiarendosi la voce. Anche in quello stato
confusionale lei capì la minaccia velata e si zittì.
“Comunque che ore sono?”
“Le
quattro, più o meno” disse Laura, controllando l’orologio.
“Mamma,
papà, voi dovreste essere al lavoro!” protestò, fermando la donna che
continuava a passarle il panno sulla testa.
“Shh, non ti preoccupare, va tutto bene. Le tue sorelle ci hanno chiamate dicendo che ti avevano portata a
casa svenuta e ci siamo precipitati qui” la tranquillizzò.
“Svenuta? Portata a
casa? Ma che…?” vide le due
ragazze scambiarsi uno sguardo preoccupato, poi tornarono a
fissarla.
“Probabilmente hai avuto un malore quando sei uscita e devi aver perso i sensi senza nemmeno rendertene
conto. Non hai visto chi ti soccorreva, vero?” dedusse la mora.
“L’ultima cosa che ricordo siete tu e…” lei le lanciò
un’occhiataccia.
“Comunque non ricordo altro. Ho un buco totale, come se non avessi
vissuto i momenti successivi” ammise,
contrariata.
“Non ti
preoccupare, prima o poi ti tornerà tutto in mente. Adesso riposati, Emma
e Laura rimarranno con te per il momento. Se hai bisogno
chiedi a loro” le disse il padre, alzandosi e dandole un bacio sulla
fronte.
“Va
bene, grazie papà” rispose. Vide uscire lui e la madre dalla sua stanza e
poi posò lo sguardo sulle sorelle.
“Cos’è
successo davvero?” domandò senza mezzi termini. Loro si guardarono
preoccupate e poi scossero la testa.
“Noi
non possiamo dirtelo” confessò la bionda.
“Che
cosa?” esclamò lei, mettendosi a sedere e facendo cadere il panno.
“Abbiamo promesso. È stato un giuramento solenne, come quelli che fai tu:
un segreto per un segreto. È un patto di sangue, lo sai” le spiegò, impaurita dalla
sorella.
“Ma non potete nascondermi ciò che sapete! È una cosa che riguarda me” si ribellò arrabbiata.
“In realtà riguarda più noi che te, per cui
tranquillizzati. Sei svenuta per
strada e ti hanno riportata a casa. Fatti bastare questo
perché abbiamo le mani legate, stavolta” le
consigliò Emma.
“Non
dovrebbero esserci segreti tra di noi, lo sapete!” ribatté.
“Fossi
in te non lo direi, Rea, perché sei la prima a nascondere le cose” la
freddò la mora, con uno sguardo che non lasciava molto spazio all’immaginazione:
o stai zitta o è la volta buona che ti tiro un ceffone.
Lei chiuse la bocca e si rimise
sdraiata.
“Comunque, anche se non c’entra molto col discorso, ti faccio
i miei auguri” disse dopo un po’.
“A
chi?” chiese Laura.
“A lei. Finalmente
hai il tuo Jason, giusto? Per cui sarai felice adesso” dedusse. Il suo tono di voce
sembrava arrabbiato, ma, quando guardò la sorella, un enorme sorriso si era
dipinto sul suo volto.
“Chiedigli se ha voglia di mettere una buona parola per me
col prof di filosofia, visto che io oggi sono uscita per lasciarvi
spazio. E ora non me la sento di
studiare. Anzi, se mi potete lasciare sola, ve ne sarei grata. Non mi sento molto bene” chiese
gentilmente. Loro due annuirono.
“Se
hai bisogno di qualcosa chiama” “Non farti
scrupoli” si raccomandarono prima di uscire.
“State
tranquille, starò bene anche da sola” assicurò. Emma strinse le
labbra.
“Temevo che avresti detto
così” ammise criptica, uscendo dalla stanza e lasciandola da
sola.
Adesso si era ricordata come mai
era svenuta, ma non poteva spiegarlo a nessuno. Era stupido avere una crisi
respiratoria per una cosa stupida come quella. Se le tue sorelle si fidanzano
devi essere felice per loro e allegra. Devi sorridere e ascoltare i loro melensi
racconti. Devi farlo. O, almeno, dovresti.
Rea si chiese come mai stesse di
nuovo piangendo, e si tirò la coperta sulla testa per ripararsi dal mondo
esterno. Aveva bisogno di aiuto. Aveva bisogno di qualcuno che le stesse accanto nonostante le sue stramberie e la sua lunaticità. Ne aveva bisogno davvero.
Ma il suo problema, purtroppo, era
che non era in grado di dirlo ad alta voce. Non si chiede aiuto, mai. Chiedere
aiuto significa dare il peso della propria sofferenza aqualcun altro, farlo piegare per portare
con te un macigno che, con un po’ di sforzo, riesci a portare anche da sola. E
non è giusto farlo, non è giusto aggrapparsi ad altri. Nonostante questo, Rea
non ce la faceva più.
Strinse il cuscino al petto e si
addormentò, cadendo in un sonno senza sogni.
Rea passò la notte a guardare la
neve cadere, seduta sul davanzale della finestra in camera sua. Alla fine aveva
dovuto mettere per forza la stella di Natale in cima all’albero e questo l’aveva
un po’ rattristata: perché non riusciva a sentirlo? Perché non percepiva lo
spirito natalizio come solito?
“Com’era
quella canzoncina che mi cantava la mamma da piccola?” si chiese,
appoggiando il mento sulle ginocchia che aveva portato al petto.
“Non
ricordo più. Non ricordo niente” rispose, sospirando. Se c’era una cosa,
oltre a Fabio, a cui aveva pensato in modo costante da dopo il suo sfogo, erano
i suoi genitori veri. Sua madre in particolar modo. Le pareva di aver
dimenticato dettagli importanti di quella vita ormai così lontana da lei che le
potevano servire per capire. O almeno, anche solo per stare meno male.
Alla fine le venne l’idea per una
storia di una pagina sola. Anzi no, non era una storia: era una lettera. Nemmeno
lei avrebbe saputo dire da dove le venivano fuori le parole, fatto sta che poco
dopo erano sulla carta, bianco su nero. E, finalmente, poté andare a dormire per
la prima volta da giorni senza piangere.
Il mattino seguente la scuola
rimase chiusa a causa della bufera di neve. E anche quella successiva. E quella
dopo ancora.
Per un’intera settimana rimasero
tutti a casa, genitori compresi, e si misero a fare i preparativi per il solito
cenone di Natale che gli Stevens organizzavano ogni anno in casa. Venivano
invitati amici e parenti stretti, tra i quali anche Johan e i suoi genitori, e
tutti si divertivano sempre un sacco.
Dato che Rea era amorfa da un po’
di tempo, e dato che Laura e Emma non sopportavano più che facesse la emo delle
emozioni in modo così evidente, decisero di farle trovare una sorpresa anche
durante quella festa. Un pomeriggio andarono dalla mamma e si misero a parlare
della scuola.
“Sapevi che quest’anno abbiamo un nuovo compagno di
classe?” buttò là la mora con nonchalance.
“Sì, vostra sorella mi ha detto
qualcosa. Fabio Daniels, giusto?” rispose.
“Esatto, proprio lui. Pare che Rea sia molto amica con
lui, perché non invitiamo anche la sua famiglia?” chiese l’altra.
“Lei è d’accordo?” indagò la
donna, che stava intuendo già qualcosa. Le due sorelle si guardarono per una
frazione di secondo poi annuirono.
“Figurati se non le va bene” risposero all’unisono.
Lei si mise le mani sui fianchi e le guardò male.
“Signorine, che mi nascondete?” le
aggredì. Non era una stupida, non lo era mai stata, e non le potevi nascondere
mai nulla.
“Nulla” dissero in fretta. Troppo in fretta.
“Certo, come non mi nascondete il
fatto che vi siete fidanzate” ribatté. Entrambe si impietrirono.
“Da
quanto tempo lo sai?” chiese Emma, impaurita.
“Oh, andiamo tesoro! Non crederai
che abbia messo il professor Jason nella lista degli invitati perché volevo
offrirgli da bere” le rispose. Sorrise nel vedere la faccia basita della figlia
di fronte a quell’affermazione e scosse la testa.
“Benedette ragazze, davvero mi
credete così stupida?” domandò offesa.
“No,
ma…”
“Sentite, di certo non mi fa
piacere che mia figlia appena diciottenne si metta con il suo professore
quarantenne, ma se è felice a me sta bene. Inoltre devo ammettere che Jason è
anche un bell’uomo. Però ciò che mi dà noia e che mi ferisce è il fatto che
entrambe mi avete nascosto le vostre relazioni. Anche tu, Laura” spiegò.
“Io,
comunque, ve l’avrei detto” confessò Emma.
“E quando?”
“A
luglio, dopo l’esame. Solo quando non sarò più una studentessa potrò
ufficializzare la cosa, ora non posso, per cui non serviva a niente
dirlo” rispose. La madre prese per buona la spiegazione e si voltò verso
Laura.
“E tu che scusa hai?”
“Nessuna” ammise lei, abbassando lo sguardo.
“Appunto. E quindi, per tornare
alla vostra richiesta iniziale, ovvero se possiamo invitare i Daniels, io vi
rispondo chiedendovi: per quale ragione? E, soprattutto, che c’entra Rea?”indagò. Le sorelle si arresero e si
misero comode: era una storia piuttosto lunga.
Il pomeriggio della vigilia,
ovvero tre ore prima che iniziasse la festa, le tre Stevens erano davanti
all’armadio a scegliere i vestiti.
“Io mi
vesto di rosso” aveva deciso Emma, prendendo un vestito a maniche lunghe
scollato e cortissimo. Col fisico che si ritrovava, poteva permetterselo.
“Io
ho un tubino nero, credo che indosserò quello” aveva detto Laura,
mostrando un vestito lungo che la fasciava. Invece Rea…
“Io mi
infilo un paio di jeans e un maglione. Non vedo perché mettersi così in
ghingheri” aveva commentato. Le altre due l’avevano guardata
orripilate.
“Stai
scherzando, spero” aveva commentato la mora, aprendo i suoi cassetti per
cercare qualcosa di decente.
“Ehi,
non toccare la mia roba!” si era ribellata lei, tentando di fermarla.
“Non
ti permetterò di venire alla festa vestita come una stracciona. Quindi stai
ferma e fai decidere a me il tuo abbigliamento” le aveva ordinato.
E così adesso Rea era ferma su una
sedia con le sorelle intorno che le pettinavano i capelli, la truccavano e la
facevano vestire come se lei fosse una bambina di due anni e loro le madri.
“Io vi
odio” disse loro, con sguardo furente.
“Chiudi gli occhi, devo metterti l’ombretto”
“Non lo
voglio!” si ribellò lei. Laura le aveva dato un colpo sulla testa.
“Smettila di muoverti o ci rovini l’operato!” si
arrabbiò. Come una bella statuina, la ragazza rimase immobile a farsi
stropicciare come una bambola e, alla fine, con somma soddisfazione, Emma la
fece posizionare davanti a uno specchio.
“Ok,
pronta? Tre… due… uno… e voilà!” annunciò. Rea aprì gli occhi spaventata
e si stupì dell’effetto che le faceva vedersi per una volta vestita come una
femmina.
“Oddio!” commentò. Il vestito che le avevano scelto
era lungo fino al ginocchio, celeste, senza scollatura (cosa positiva per lei
che aveva un seno molto prosperoso). Era sobrio ed elegante, ma, abituata
com’era a sentirsi a disagio in qualsiasi vestito che non fossero i suoi vecchi
jeans, lei scosse la testa.
“Non
posso uscire da questa stanza in queste condizioni: quest’affare mette in mostra
tutta la mia ciccia” disse, avvicinandosi al letto per recuperare i
vestiti che aveva addosso prima del cambiamento.
“Oh,
no, tu non ti toglierai il vestito a meno che non siamo noi a deciderlo”
ordinò Emma, fermandola.
“Ci
siamo date da fare per renderti irresistibile, quindi non rompere le palle e
esci di qui” continuò Laura, aprendo la porta.
“Ma mi
vergogno!” protestò lei, cercando di nascondersi. I primi ospiti erano
già arrivati e non ce la faceva a uscire e farsi vedere. Se qualcuno l’avesse
giudicata male? Non aveva un bel fisico quindi nessuno l’avrebbe apprezzata.
“Ti
ci portiamo con la forza, allora” decisero le sorelle. La trascinarono in
salotto, dove la famiglia di Johan e Jason erano già arrivati.
“Non
voglio!” gridava lei, facendo pressione con i piedi per fermarsi. Emma e
Laura faticarono non poco per portarla dagli altri, e anche quando era lì, lei
cercava di tornare indietro a nascondersi.
“Ehi, ecco le Stevens al
completo!” commentò la madre del biondo, vedendole apparire.
“Fatemi
fuggire, lasciatemi andare” le implorava Rea, continuando a
ribellarsi.
“NO!” esclamarono insieme le altre due, ridendo. La
spinsero nella stanza, dove entrò con gran rumore, e dove si vide puntare
addosso gli occhi di tutti. Sentì le guance infiammarsi.
“B-buonasera” balbettò in salutò.
“Ehi, Rea, sei elegantissima! Stai
proprio bene con questo vestito” le disse il padre, abbracciandola.
“Uhm,
grazie” borbottò in risposta.
Per l’ora successiva loro tre
furono occupate a stare alla porta per accogliere gli invitati e prendere i loro
cappotti, dicendo in continuazione “Buona sera! Benvenuti” e “Buon Natale”.
“Sembriamo tre portiere” commentò Laura, un po’
annoiata.
“Ma lo
siamo!” rispose Emma, portando in camera l’ultimo giacchetto preso. Rea
si guardò intorno.
“Mi pare
che ci siamo tutti, giusto? Non ricordo se deve arrivare qualcun altro, ma credo
che gli invitati siano arrivati” commentò. Le sue sorelle fissarono la
sala e scrutarono.
“No,
sono convinta che qualcuno manchi” disse decisa la mora.
“Ah sì?
E chi deve venire?” chiese lei, innocentemente.
“Ehm…
già, suppongo che mamma non te l’abbia detto” dedusse la bionda,
imbarazzata. Erano rimaste d’accordo che la donna ci avrebbe parlato
inventandosi una scusa e l’avrebbe convinta a non fare scenate. Perché non
l’aveva fatto?
“Cosa
doveva dirmi?” s’informò lei. Quando quelle due le nascondevano qualcosa,
non era mai niente di buono.
“Ma
niente! Ora lo vedi” minimizzò la più alta, con un gesto della mano.
“Sentite, è già tanto che io non vi abbia uccise quando mi
avete addobbata come un albero di natale, con questo vestito ridicolo e i
trucchi, ma sono al limite della sopportazione, per cui ve lo chiederò una volta
soltanto: chi deve ancora arrivare?” ripeté. In quel momento suonarono
alla porta.
Emma andò ad aprire e fece un
gigantesco sorriso.
“Buonasera, signori Daniels, benvenuti. Date pure a me i
cappotti, la festa è in sala” li salutò.
Il cuore di Rea perse un battito e
lei strinse gli occhi prima di voltarsi.
“Ciao,
lentiggine” la salutò Fabio.
Lo fissò per un interminabile
secondo, nel quale lui le sorrise dolcemente, poi percorse il corridoio a
ritroso e si chiuse in camera sua, con il fiato corto. Si appoggiò alla porta e
scivolò lentamente verso il pavimento. “Questo èun incubo”
pensò.
Il tempo passa per tutti, anche
quando vivi la tua vita in modo molto addormentato. Magari ti scivola via dalle
mani e non te ne accorgi, però passa. E Rea si era resa conto di questo quando,
una mattina, si era svegliata e aveva trovato i cartoni con le decorazioni di
Natale nell’ingresso.
Sua mamma stava preparando la
colazione per lei e le sue sorelle e canticchiava Jingle Bells allegramente.
“Buongiorno, tesoro!” la salutò,
sorridendo.
“Buongiorno” rispose lei. Aveva passato le ultime
settimane dopo che era svenuta in uno stato semi-comatoso, continuando ad andare
a scuola, a scrivere, a cantare e a fare tutto ciò che faceva anche prima, però
adesso era spenta. Non aveva più voglia di svegliarsi la mattina, di sopportare
i professori, di vedere quanto Emma e Laura fossero felici con i loro nuovissimi
ragazzi. Era qualcosa che non sopportava, ma non per egoismo: era solo il dover
ammettere di essere sola a darle noia.
“Oggi pomeriggio tuo padre e io
rimarremo a casa per iniziare a montare l’albero, va bene?” le chiese. A sua
madre il Natale piaceva, era la sua festa preferita e, anche se adesso non
sembrava, anche quella di Rea. Le venne un po’ di tristezza nel pensare che una
volta, appena arrivava il primo dicembre, iniziava a chiedere insistentemente e
ripetutamente ai suoi di fare l’albero, mettere le luci, preparare la cioccolata
calda e vestirsi con maglioni pesanti che la facevano sentire protetta.
“Mamma,
mi dispiace, ma oggi devo andare in biblioteca. Ho un compito da fare prima
delle vacanze e devo sbrigarmi” rispose. La donna si rattristò, poi
sorrise.
“Allora possiamo farlo domani”
propose. La ragazza la guardò affettuosa.
“No,
figurati. Voi preparate tutto, io cercherò di essere pronta il prima
possibile” le assicurò, alzandosi e dandole un bacio sulla guancia.
“Sei sicura? A te è sempre
piaciuto mettere la stella sulla punta. Lo fai sempre tu, senza non sarebbe lo
stesso”
“Rientrerò per mettere la stella, te lo prometto”
giurò.
Mentre si chiudeva in camera e
cercava i vestiti per prepararsi ad uscire, si sentì un po’ in colpa. Non voleva
tornare per terminare l’albero, non ce la faceva. Si sentiva così svuotata che
non ci avrebbe messo il cuore nelle preparazioni per Natale e, quindi, non
sarebbe stato lo stesso.
Una volta sola, in strada, mentre
andava a scuola, si chiese se fosse giusto quel suo comportamento passivo. In
fin dei conti nessuno le aveva detto di essere così triste, se lo stava
imponendo da sola, no? Così come si imponeva da sola il fatto di non uscire più
il sabato sera dato che Emma e Laura uscivano con i loro ragazzi, o di non
camminare fino a scuola con loro perché non sopportava i loro racconti
dettagliati delle relazioni amorose che stavano vivendo. E, soprattutto, nessuno
le aveva imposto di allontanare Fabio in modo così brusco e duro.
Non si erano più parlati, né lei
lo aveva mai cercato. Vivevano due vite in parallelo, anche se Rea ogni tanto
notava che lui la fissava intensamente. E si sentiva una stupida.
Quel pomeriggio, quando fu
arrivata in biblioteca senza avere davvero qualcosa da fare, la ragazza prese il
primo libro che le capitò sotto mano e si sedette in terra a leggerlo. “The last
song… destino, non sei simpatico”
pensò, girando la prima pagina. L’aveva già letto almeno due volte, quel libro,
e tutte le volte piangeva. Era bello e commovente, e questo le piaceva,
soprattutto perché era una di quelle persone che amano quando un libro o un film
le coinvolgono al punto di provare empatia per i personaggi.
Ma stavolta era diverso. Rimase
immobile sul pavimento della biblioteca per quattro ore, e fu una pagina sola a
farla pensare. La 143, per la precisione. “La tua commedia
non funziona con me! Hai evitato che scoppiasse la rissa mentre gli altri
volevano sangue. Sei stata l’unica ad accorgerti del bambino che aveva
cominciato a piangere, e ho visto come sorridevi quando è andato via con la sua
mamma. Leggi Tolstoj nel tempo libero. E ti piacciono le testuggini!”
di per sé non voleva dire niente. Era solo Will che tentava di fermare Ronnie
prima che scappasse. Ma Rea capì cos’era che l’aveva colpita e ne rimase
allibita.
La protagonista rifiutava di
vedersi, si nascondeva dietro ad una specie di armatura ironica che non la
faceva ferire dagli altri. Proprio come lei. E il ragazzo, nonostante la
conoscesse da meno di due giorni, l’aveva capito subito da come si comportava
con gli altri. Proprio come Fabio. Ma Ronnie non voleva lasciarlo entrare nella
sua vita. E Will continuava a farlo nonostante i suoi rifiuti.
“Mi scusi, signorina, deve
andarsene. È scoppiata una bufera di neve e stiamo chiudendo per l’allarme
maltempo” la chiamò la bibliotecaria, facendola sobbalzare.
“Come?
Ah, sì, mi scusi, ora vado via” rispose. Rimise apposto il libro e corse
fuori dall’edificio, stupita: quel racconto era anche troppo simile alla sua
storia. O almeno, i due protagonisti lo erano.
Una volta in strada si mise i
guanti e la sciarpa e si avviò verso casa. Era molto tardi, saranno state le
sette, e, a causa della neve, non c’era nessuno in giro. “Che palle, casa è lontanissima. Mi prenderò una
polmonite” pensò, portandosi le mani alle guance per scaldarsi. Abbassò
la testa affinché la neve non le sferzasse il volto con troppa forza e camminò
così per un bel pezzo, prima di rendersi conto che ci stava mettendo troppo.
“Dove
sono?” si chiese, alzando gli occhi. Li spalancò, incredula.
“Come
diavolo ho fatto a finire al parco se stavo andando nell’altra
direzione?” esclamò, guardandosi intorno. Doveva proprio essere
sovrappensiero, non le capitava mai di sbagliare strada. Si voltò per tornare
indietro e sbatté il naso contro qualcuno.
“Mi
scusi, non vole… oh, no” disse. Fabio la stava guardando, sorpreso e
divertito.
“Buongiorno” la salutò. Per qualche ragione sentire di
nuovo quella voce parlarle le fece l’effetto di una stufa, la scaldò
terribilmente.
“Buongiorno. Arrivederci” rispose lei, superandolo. Le
era mancato, questo era certo, ma non poteva cedere all’emozione, doveva
riuscire a non pensarci.
“Ehi,
dove stai andando? Aspetta” la fermò il ragazzo, prendendola per un
polso.
“A casa.
Dovevo rientrare ore fa, mamma mi ammazza se non torno subito” spiegò,
cercando di divincolarsi.
“Lo
farei, giuro che lo farei molto volentieri, ma casa tua è dall’altra
parte” le fece presente. Rea fissò stupita la strada che stava per
imboccare e si rese conto che aveva ragione: stava per ritornare verso la
libreria.
“Oh.
Grazie, non me n’ero accorta” disse, stupita di sé stessa. Ma che le
prendeva?
“Figurati” minimizzò Fabio. Rimase ancora attaccato al
suo braccio e lei sbuffò.
“Guarda
che ora puoi lasciarmi andare”
“Sei
sicura? Non mi sembri molto attenta, oggi, e, con questa tormenta, rischi di
perderti. Se vuoi ti accompagno e poi vado via” le propose.
“Che?
No!”rispose punta
nell’orgoglio.
“Guarda
che non c’è niente di male nel chiedere una mano quando serve” la
riprese.
“E io lo
faccio sempre, ma so dov’è casa mia, non ho bisogno di te” ribatté la
ragazza, tirando via il braccio. Nel farlo si sbilanciò all’indietro e cadde in
un cumulo di neve fresca, sbattendo la testa contro un sasso.
“Ahia.
Che male” si lamentò, massaggiandosi il punto dove aveva battuto. C’era
un bernoccolo bello grosso.
Provò a rialzarsi, ma non aveva
molto equilibrio per colpa della botta, e cadde di nuovo.
Fabio sospirò, poi la guardò
sorridendo.
“Meno
male che non avevi bisogno di me” la prese in giro, tendendole una mano.
Rea si rifiutò di prenderla, ma lui non demorse.
“Te lo
chiedo per favore: fatti aiutare almeno a tornare a casa” la implorò. La
ragazza strinse i denti e guardò altrove, poi si aggrappò al suo braccio e si
fece tirare su.
“Brava la
mia lentiggine” si congratulò lui, facendola appoggiare a sé. Anche dopo
il colpo preso e con la testa che girava, la rossa si rese conto che non avrebbe
voluto essere altrove.
Erano passate più di quattro
settimane da quando erano usciti insieme; l’aveva maltrattato per poi non
parlargli più, si era nascosta ed era fuggita da quello che le faceva provare.
Eppure, nonostante ciò, lui la stava aiutando senza esitare, come se non avesse
aspettato altro, in quei giorni, come se fosse rimasto in attesa di un suo cenno
per tornare indietro ed esserle amico. Perché lo faceva?
“Comunque, mi piacerebbe dirti una cosa” esordì Fabio
dopo un po’. Ormai erano in prossimità della casa.
“Dimmi” lo incoraggiò Rea, stretta a lui. Non sentiva
nemmeno il freddo della neve sul volto, c’era lui a proteggerla.
“Io
volevo chiederti scusa” ammise. Lei lo fissò.
“Per
cosa?”
“Per
quello che è successo a casa mia. Tu non mi hai più rivolto la parola, ma ho
sperato che ci saremmo potuti parlare, prima o poi. Ciò che decidi della tua
vita è una questione che riguarda solo te e non avevo il diritto di venire a
farti la predica. Sono convinto che hai passato dei brutti momenti e che questi
ti abbiano segnato, per cui aspetterò” promise. Si fermò davanti alla
porta di casa Stevens.
“Aspetterai?” domandò Rea, senza capire.
“Sì,
aspetterò. E prima o poi te ne dovrai rendere conto” rispose.
“Ma di
cosa?” chiese lei, confusa. Davvero non ci arrivava? Fabio sorrise, e si
avvicinò a lei, posandole un dolcissimo bacio sulle labbra. Durò solo pochi
secondi, ma bastarono perché la ragazza spalancasse gli occhi e si irrigidisse
leggermente.
“Ciao,
lentiggine” la salutò, riprendendo a camminare.
Lei rimase ferma a guardarlo
scomparire nella tormenta di neve per parecchio tempo, prima di accorgersi che
non lo vedeva più.
“Rea, tesoro, finalmente sei
rientrata! Vieni, abbiamo aspettato a mettere la stella perché sapevamo che ci
tenevi. Ma non stare lì sotto la neve, prenderai qualcosa!” la chiamò sua madre,
uscendo sul pianerottolo. Lei sobbalzò e si voltò, poi sorrise per mascherare il
disagio.
“Arrivo,
grazie” rispose.
“Signore, mi può
proteggere lei?”
Fabio non se l’aspettava, non
immaginava che l’avrebbe trovata stesa a terra quasi priva di sensi.
“Signore, mi può
proteggere lei?”
Né si aspettava che avrebbe detto
una cosa tanto straziante. Cosa le era successo per ridurla così? Sembrava un
gattino, di quelli randagi che si fanno male e poi agonizzano sul ciglio della
strada.
Una volta che fu entrato in casa e
che si fu scaldato, pensò di nuovo a quella sera.
“Signore, mi può
proteggere lei?”
Era una richiesta assurda, se
ascoltata da qualcuno che non sapeva come stavano le cose, ma lui aveva capito
cosa stava domandando Rea, la sua Rea. Per la prima volta aveva chiesto aiuto ad
alta voce, ed era stato lui ad accogliere quella richiesta.
L’aveva raccolta come si fa con i
gatti e se l’era strinta al petto, poi era andato a casa Stevens. Quando Emma e
Laura avevano aperto la porta e lo avevano visto con la sorella svenuta in
braccio si erano subito spaventate, ma lui le aveva semplicemente sorpassate in
silenzio e aveva posato la ragazza sul divano.
“L’ho
trovata in strada, priva di sensi, e l’ho riportata qui” spiegò senza che
nessuno domandasse qualcosa.
“Com’è
successo?” aveva subito chiesto la mora. Le accarezzò i capelli e la
fissò intensamente.
“Non lo
so, era già a terra quando sono arrivato io. Quanto tempo è che è
uscita?” s’informò. Lei ci pensò su un attimo.
“Non
saprei. È rientrata da scuola a mezzogiorno e poco dopo è arrivato… ehm…
comunque, non so di preciso quando è andata via, me ne sono resa conto solo poco
fa, quando è tornata anche Laura” rispose.
“Allora è
fuori da più tempo del previsto. Io ho lasciato Jason che era più o meno
quell’ora lì e, se la conosco bene, direi che tua sorella è uscita per farvi
stare in pace” ragionò Fabio. Emma spalancò gli occhi.
“Tu…
tu sai…?”
“Sì,
stamani il professore era con me. Pensavo che lo sapessi” le spiegò.
“Non
saprei, forse l’ha detto, ma ero momentaneamente sconnessa” arrossì la
mora.
“Comunque ora che facciamo?” domandò l’altra,
coprendo Rea con una coperta di lana.
“Nulla,
chiamate i vostri genitori e fateli venire a casa. Io me ne vado, non voglio che
lei sappia che sono stato qui” rispose il ragazzo, alzandosi.
“Perché?” indagò Laura.
“Perché è
un tipo orgoglioso e non accetterebbe mai il fatto che abbia avuto bisogno di
aiuto. Voi non ditele niente, fate finta che sia stata riportata a casa da un
signore qualsiasi, ma non nominate me” ordinò.
“Sì,
ma…” provò a ribattere Emma.
“Ascoltatemi entrambe: vostra sorella non sta bene. Non lo è
mai stata, se volete saperlo, ma è troppo testarda per ammetterlo. Ha bisogno di
aiuto, e voi due siete le uniche persone che possono rimanerle vicine. Non la
abbandonate mai, capito? Nemmeno quando sarà lei stessa a dirvi di potercela
fare” le addestrò.
“Fabio, cosa sai che noi non sappiamo?” domandò
Laura.
“Quando
sarà pronta ve lo dirà Rea, ve lo prometto. Ma voi giurate di non lasciarla mai
da sola. E non la fate rimanere indietro perché ora siete fidanzate”
intimò. Il suo sguardo, o forse il suo tono serio le fece annuire.
“Bene, io
me ne vado. E non sono mai stato qui” ricordò loro.
A ripensarci, si chiese come
avesse fatto a sopportare la sua lontananza per tutto questo tempo. Era
innaturale.
“Signore, mi può
proteggere lei?” lo aveva chiesto a lui e, qualsiasi cosa fosse
successo, si era ripromesso di starle vicino da lontano. Non si sarebbe mai
fatta aiutare apertamente, così, da allora, ogni tanto la osservava e la
seguiva, cercando di assicurarsi che stesse bene.
Non poteva fare altrimenti: non si
abbandona la donna che si ama.
Capitolo 20 *** Vigilia di Natale con sorpresa ***
Vigilia di
Natale con sorpresa
Quando tornò in sala si era
stampata un sorriso finto sul viso e si era imposta di far finta di niente: non
c’era stato nessun bacio tra di loro, lui non le aveva detto di essere
innamorato e lei non era rimasta zitta ad aspettare chissà che. Nulla di questo
era successo
“Scusatemi tutti, dovevo controllare una cosa” disse,
quando le chiesero come mai fosse sparita. Si sedette a un capo del tavolo, dove
stavano tutti i ragazzi, e rimase zitta per gran parte della cena: Laura
amoreggiava con Johan, Emma si era messa vicina a Jason e si scambiavano
occhiate incantate, e lei… beh, lei era vicina a Fabio, che ogni tanto le
riempiva il bicchiere di spumante. Non si erano detti nulla, ma la colpa era
prevalentemente sua, e questo lo sapeva.
“Senti,
per quanto riguarda il bacio, volevo sapere se…” iniziò lui.
“Stai
tranquillo, l’ho rimosso. Farò finta di niente” gli sorrise la ragazza,
imbarazzata. L’altro scosse la testa e rise sommesso.
“No, non
volevo dire questo” la corresse. Rea lo fissò confusa.
“Ah,
no?” chiese.
“No di
certo. Io non voglio rimuovere le cose belle che mi accadono” confessò.
Lei arrossì e distolse lo sguardo.
“Volevo
solo chiederti se te l’eri presa a male”
“Che
cosa?! Ma no, figurati!” lo tranquillizzò lei. Si rese conto subito dopo
che così sembrava che le fosse piaciuto. “Ma ti è
piaciuto!” commentò la solita vocina in testa.
“Cioè, è
stato a sorpresa, ma… sì, insomma, non dico che… uff, lascia perdere” si
imbronciò, incrociando le braccia. Fabio rise di gusto e la fissò divertito.
“Certo
che sei un personaggio, Rea Stevens” ammise.
“Sì, lo
so. Me lo dicono tutti: son buffa, sono impacciata, sono un disastro ambulante,
sono divertente perché dico cose senza senso… lo so che sono diversa”
rispose, rattristendosi.
“Non
intendevo diversa. Cioè, non nel senso negativo del termine” la rassicurò
lui, mettendo una mano sulla sua. A quel contatto lei lo guardò e i loro occhi
rimasero incatenati per un momento infinito.
“Senti,
facciamo un patto, ci stai?” le propose il ragazzo, facendo terminare la
pressione. Lei si sentì come se le avessero tolto il calore del camino.
“Del
tipo?” chiese sospettosa.
“Stasera
è la vigilia di Natale, quindi non devi essere triste. E, dato che sono io a
rattristarti, per stasera io non sono Fabio e tu non sei Rea. Siamo solo due
amici che passano insieme le vacanze. Va bene?” spiegò sorridendo. Le
tese la mano, aspettando che la stringesse. La ragazza ci pensò su un attimo,
poi sorrise a sua volta e gli porse la sua.
“Affare
fatto!” decise.
La cena terminò alle undici, ma
tutti si trattennero per ancora molto tempo. Era tradizione brindare allo
scoccare della mezzanotte e poi rimanere tutti insieme fino a tarda notte per
festeggiare il Natale.
Rea, quando ci fu il brindisi,
bevve l’ennesimo bicchiere di spumante della serata e iniziò a sentire la testa
girare. Aveva passato tutta la sera con Fabio, ridendo e scherzando, e non si
era resa conto di aver bevuto così tanto.
“Non
sono sicura di stare troppo bene” ammise alla fine, sedendosi in
corridoio appoggiata alla parete. Il ragazzo si mise al suo fianco.
“Qualche
problema?” s’informò.
“La
stanza gira tutta e non mi piace. Anche tu giri!” rispose. Lui rise.
“Mi sa
che hai bevuto abbastanza, vero?” le chiese osservandola.
“Solo un
po’” ammise la ragazza, mimando il gesto con le dita. Da dove erano
seduti si vedeva la stella che lei stessa aveva posizionato in cima all’albero,
che brillava con la luce del lampadario.
“Quella
è mia, lo sai?” esordì dopo un po’, indicando il gioiello. Fabio seguì il
suo dito e fissò la punta.
“Lo so
che è tua” la assecondò. Anche da ubriaca, capì che le stava parlando
come si parla a un bambino e scosse la testa.
“No, non
hai capito. Quella è proprio mia, mia. È personale. È un regalo di mia
mamma” spiegò.
“Allora
sarà un regalo per te e per le tue sorelle” le fece presente il
ragazzo.
“No, io
non ho sorelle. O almeno, non le avevo” rispose confusa.
“Ma cosa
dici? Ci sono Emma e Laura” le ricordò.
“Sì,
adesso ci sono, ma prima non c’erano” asserì lei. Ormai non si rendeva
nemmeno conto di cosa diceva.
“Rea, ma
ti senti bene? Mi sembri piuttosto confusa” si preoccupò Fabio, facendola
voltare verso di sé.
“Sto
benissimo, sei tu che non mi ascolti” si arrabbiò, mettendo il
broncio.
“Ti
ascolto, ma i tuoi discorsi non hanno senso” la tranquillizzò alzandosi
da terra.
“Ma sì
che ce l’hanno, non è complicato: prima c’erano un papà e una mamma e ora ce ne
sono altri. Prima non c’erano sorelle, ora ce ne sono due. Cosa c’è di
difficile?” ripeté.
“Cosa
vuol dire che prima c’erano una mamma e un papà e ora ce ne sono altri?”
le domandò, guardandola dall’alto. Rea ci pensò un po’, con la testa pesante,
poi si appoggiò al muro e fissò il soffitto.
“Allora,
dovrebbe essere così: io avevo due genitori, una volta, che non sono quelli che
ho ora. No, questi sono i miei zii… ecco, sì, i miei zii. E poi i miei genitori,
non questi, gli altri, se ne sono andati via… o sono morti, non me lo ricordo… e
allora sono arrivati questi genitori che mi hanno adottata e Emma e Laura sono
diventate mie sorelle” spiegò, biasciando qualche parola per colpa
dell’alcool. Fabio rimase stupito da quel racconto: ma era vero?
“E cosa
c’entra la stella di Natale?” le chiese.
“La mia
vecchia mamma diceva che io ero una stellina. Che venivo da fuori, dall’universo
infinito, e che sono nata in una notte di stelle cadenti, così mi ha regalato
quel puntale, che però non era un vero puntale. Mia zia, che ora è mia mamma, me
lo spiegò quando avevo sette anni: quella era una stella di diamanti che i miei
genitori mi avevano regalato appena nata. Era il loro modo per dirmi che io sono
un dono dal cielo, che sono qualcosa di preziosissimo. Per evitare che fosse
sciupata i miei nuovi genitori l’hanno fatta diventare un puntale, così che io,
quando è Natale, possa vederla e ricordarmi di quanto gli altri genitori mi
volessero bene” rispose.
“Perché
proprio un puntale?” s’informò ancora il ragazzo. Rea rise.
“Certo
che sei proprio un curiosone, tu!” lo prese in giro. Tornò seria e ci
pensò.
“Comunque mi sembra di ricordare che mia zia mi avesse detto
che i mieiadoravano il Natale
perché è magico. Anche io amo il Natale, sai? Anche se non sembra, no,no, perché
quest’anno io sono triste. Perché io quest’anno sono stata spesso a
piangere” disse. Fabio si sedette di nuovo al suo fianco.
“E perché
sei triste?”
“Per
colpa tua. Tu sei il mio incubo… o sogno, non lo so ancora bene. E ti odio
perché mi piaci taaaanto, tanto e non so come dirtelo” ormai non era più
lei a parlare, ma tutto l’alcool che aveva nel sangue.
“E poi
perché mi sento a disagio. Lo sai, l’unica cosa che mi ricordo della mamma era
che mi chiamava stellina. Io ero brillante e calorosa come una bellissima
stella. Però lei non lo sapeva, ma io lo so” continuò. Fabio non comprese
e la fissò confuso.
“Che cosa
sai?” domandò. Rea si guardò intorno e lo fece avvicinare come se dovesse
dirgli un segreto.
“Le
stelle non sono cose buone. No, non lo sono affatto” rispose.
“Come
mai?”
“Le
stelle cadenti, che oggi sono belle perché si esprimono desideri, in realtà sono
cose brutte. Lo sapevi tu che gli antichi credevano che ad ogni stella cadente
si legava un avvenimento infausto? Le stelle sono le lacrime degli dei! E quindi
non dovrebbero esserci! E quindi io sono capitata qui per caso, io non dovrei
esserci” spiegò. Era soddisfatta del suo ragionamento e non ne pareva per
niente turbata, invece il ragazzo era basito: ma le credeva davvero, tutte
quelle cose, o stava parlando solo perché era ubriaca?
“Rea, sei
sicura di stare bene?” si preoccupò. Erano discorsi poco felici quelli
che aveva appena fatto. Lei annuì, la poi la testa le girò in modo più vorticoso
del solito e si accasciò su una sua spalla, iniziando a chiudere gli occhi.
“Hai un
odore buono” sussurrò. Lui sorrise, poi si alzò e la lasciò appoggiata
alla parete.
Rientrò in sala e cercò Emma, che
era a parlare con Jason sul divano.
“Qual è
la camera di tua sorella?” le chiese, a bassa voce. Lei lo fissò senza
capire e lui indicò la ragazza addormentata in corridoio. La mora rise.
“La
prima stanza sulla destra passata la cucina” rispose.
“Grazie.
Buon divertimento” la salutò. Tornando da Rea.
La fece alzare e, nonostante le
sue deboli proteste, riuscì a farla avvicinare al letto, dove la fece stendere.
Le tolse le scarpe e la coprì.
“Ma fa
caldo! Non voglio la coperta!” si ribellò lei, scalciando.
“Invece
sì, o ti prenderai un malanno. Non fare la bambina, forza” la sgridò
bonariamente lui.
“E
allora mi spoglio” decise la ragazza, iniziando a togliersi le calze.
“Cosa?
No, ferma!” la stoppò lui, arrossendo. Il suo sguardo ferito lo
colpì.
“Lo
sapevo che non ti piaccio. Lo vedi che avevo ragione io a non volermi innamorare
di te?” gli disse.
“Rea, non
è per quello…” cercò di spiegare lui, ma si sentiva impacciato.
“E
allora come mai non vuoi vedermi nuda? E poi ho caldo! Non posso rimanere con i
vestiti!” si arrabbiò la ragazza, togliendosi tutto e rimanendo in
mutande e reggiseno. Fabio distolse lo sguardo per pudore e fissò la stanza
intorno a sé mentre lei si copriva. C’era un foglio scritto fitto sulla
scrivania. Altre idee per il romanzo?
Si avvicinò e lo prese per vedere
cos’era.
“Quella
è una lettera alla mia mamma!” annunciò Rea, guardandolo con gli occhi
semichiusi.
“Per la
tua mamma?”
“Sì, per
la mia mamma vera. Quella morta” spiegò. Si stava addormentando, e questo
era un bene.
“E perché
le hai scritto?”
“Per
chiederle cosa devo fare. Io non lo so più, capisci? Mi sembra di essere qui
solo per qualche capriccio divino. Gli dei sono crudeli, soprattutto il dio che
fa piangere gli altri e crea le stelle cadenti” commentò.
Fabio le si avvicinò a si
inginocchiò vicino al suo viso, accarezzandolela testa.
“Tu sei
qui perché servi a me” le disse.
“Ma tu
non mi vuoi. Tu ti diverti con me, ma non mi ami. Io ti amo” ribatté Rea,
imbronciata. Aveva gli occhi lucidi e il ragazzo rimase stupito di fronte a
questa confessione. Poi sorrise.
“Lo pensi
tu che non ti amo, io non l’ho mai detto” le fece presente.
“Non
vuoi vedermi nuda!” protestò.
“Certo,
perché sennò domani mi uccidi”
“No, io
non ti ucciderei maaaai!” negò. Poi si mise a sedere.
“Allora,
se mi ami, ti fai dare il bacio della buona notte!” decise , prendendolo
per i lembi della camicia. Lo strinse forte alle sue labbra e lo tenne fermo per
un bel po’, prima di staccarsi sorridente.
“Ciao
Fabio!” lo salutò, cadendo con un dolce *puf* sul cuscino e chiudendo gli
occhi. Si addormentò subito, respirando piano e gentilmente.
Il ragazzo rimase fermo,
incredulo, con la lettera in mano, poi scosse la testa per riprendersi.
“Questa
ragazza è un uragano!” pensò, voltandosi per rimettere il foglio al suo
posto. Il suo sguardo cadde su alcune parole sparse e la curiosità si fece
strada in lui. “Non la leggere, è maleducazione”
si consigliò, ma aveva ormai già iniziato e non riuscì a fermarsi fino alla
fine.
come stai? E papà? È una domanda idiota da
fare a due persone morte, me ne rendo conto benissimo, ma non so come altro
iniziare questa lettera. Sinceramente non ho nemmeno ben capito come mai io vi
stia scrivendo, ma mi sembra l’unico modo che ho per trovare un po’ di sollievo
momentaneo.
Sai che non ho più il ricordo della vostra
voce? Ci stavo pensando proprio cinque minuti fa, mentre ero seduta sul
davanzale della finestra della stanza che una volta era degli ospiti, qui in
casa di zia e zio. Adesso è camera mia, sai? Sì, sono sicura che lo sai già,
sono convinta che per il primo periodo dopo la vostra scomparsa voi abbiate
vegliato su di me. Ormai tua sorella e tuo cognato sono diventati i miei
genitori effettivi, anche perché sono sempre stati tanto buoni con me, eppure mi
rendo conto che qualcosa che mi manca c’è. E ciò che mi fa soffrire è che non so
cosa sia.
Scrivendo questa lettera spero che io riesca
a capire cosa devo trovare per essere felice, perché mi rendo conto di non
esserlo affatto. E sai perché me ne rendo conto? Perché è Natale. Già, in questo
momento è proprio Natale, quella festa meravigliosa che tu e papà amavate con
tutto il cuore e che avete fatto adorare anche a me. Ma io non riesco ad essere
felice perché siamo ormai prossimi al venticinque e non riesco a capirne il
motivo.
So di essere stata una figlia orrenda, da
quando siete morti. Per non piangere, per evitare di ricordarmi di voi, ho
cercato di nonaccompagnare la zia
al cimitero ogni volta che veniva a trovarvi, così non avrei pianto. Ma, così
facendo, mi sono dimenticata tutto ciò che di importante in quei quattro anni di
vita che ho passato con voi mi avevate insegnato.
Ci sono pochissime cose che ricordo
nitidamente: una è la tua passione per il canto. Come mi piaceva ascoltarti
mentre mi cantavi la ninna nanna per farmi addormentare. Non volevo dormire solo
per sentire te che ne cominciavi un’altra e continuavi a stare con
me.
Ho continuato a cantare, sai? Lo faccio di
nascosto perché mi vergogno. Non sono brava e, anche se lo fossi, una cantante
deve essere bella ed essere una figura che sa stare sul palco, invece io sono
diventata una goffa diciottenne che a mala pena sa come si fa per non cadere
mentre cammina.
Un’altra cosa che ricordo è che papà leggeva
molto. Mi teneva sulle gambe mentre stava leggendo un libro e mi faceva vedere
le lettere, dicendomi che il modo in cui erano disposte sulla pagina era una
specie di disegno che crea un’immagine bellissima. E, infatti, io ora
scrivo.
Ma, anche se sembra che io scriva per
ricordarmi di lui, in realtà il motivo per cui lo faccio è più egoistico: lo
faccio solo perché non voglio parlare. Ok, detta così sembra che io sia una
ragazzina silenziosa che sta in disparte, e, in un certo senso, è vero, però io
sono un tipo molto logorroico. Parlo, parlo, parlo e parlo solo per non dover
dire ciò che mi fa stare male. Non saprei mai esprimere a parole il motivo per
cui ogni mattina mi alzo sempre più depressa, e non so nemmeno capirlo a pieno
pensandoci e ripensandoci, e l’unico modo che ho trovato per smorzare un po’ il
peso di non riuscire a parlarne è stato mettere su carta i miei problemi. Ma
anche questa è una cosa che nessuno sa e che nessuno deve
sapere.
Ho passato gli ultimi quattordici anni così,
sai mamma? Nascondendomi da me stessa. Almeno fino ad ora.
Da quando è finita l’estate e sono tornata a
scuola tutti quanti i miei segreti sono venuti fuori, uno dopo l’altro: prima
Emma e Laura hanno scoperto che io canto e mi hanno subissato di domande e
parole per dirmi quanto stupida io sia a nascondermi. Poi è arrivato
Fabio.
Oddio, Fabio. Solo a pensarlo mi vengono i
brividi. Lui è il classico tipo bello e impossibile. Ha quel fascino del
tenebroso, anche se poi tenebroso non è, e, da quando ci siamo conosciuti, non
ha fatto altro che entrare nella mia vita prepotentemente e dolorosamente. Prima
mi ha rubato il quaderno con gli appunti del mio romanzo, poi mi ha ricattato
per farmelo restituire, poi mi ha baciata a tradimento dopo avermi urlato contro
(sì, proprio urlato: sembrava un pazzo) e, infine, come se niente fosse
successo, l’altro giorno mi riporta a casa dopo che mi aveva trovata a giro per
le strade sotto la neve e mi bacia. Così, dal nulla, facendo discorsi insensati
sull’aspettarmi.
Mi fa imbestialire, sai? No, non lui, ma io.
Il fatto che non riesca, per qualche strana e contorta ragione, ad aprirmi e,
magari, fidarmi di lui. Io lo so che è sincero, l’ho letto nei suoi occhi mentre
batteva il pugno al muro e mi gridava implorante di dargli una possibilità.
Eppure non ce la faccio.
Cosa succederebbe se, un giorno, ci
lasciassimo? Se un giorno lui si rendesse conto che non mi sopporta più? Oddio,
è un dolore che ho già provato, che non voglio riprovare ancora. Mi ha
straziata, mi ha lacerata in due, lasciandomi a terra, senza fiato, incapace di
alzarmi ancora.
Sì, mamma, se tu te lo stessi chiedendo io
sono innamorata di Fabio. Nessuno può sapere quanto sto male a pensare che ho
una funzione nel cervello che mi impedisce di stare con lui. Eppure sono
convinta che vada meglio così, che un giorno, prima o poi, troverò la felicità.
E magari non con lui.
Emma e Laura, nel frattempo, si sono
fidanzate. Hanno trovato l’amore, quello vero e tangibile, e io sono felice per
loro. Lo sono, davvero. O forse no. Il problema è che mi sento sempre lasciata
indietro. Loro hanno quell’autostima meravigliosa che serve per essere felici.
Loro si vogliono bene. Perché io no? Perché io non riesco ad amarmi e accettarmi
senza dovermi distruggere pezzo per pezzo? Qual è il mio
problema?
Sai cosa vorrei, ora, mamma? Che tu e papà
foste qui. Per ricordarmi che, anche se ve ne siete andati, mi volete bene.
Anche se mi avete lasciata da sola, ci siete sempre con me.
Io so che zio e zia mi amano, e io amo loro
proprio come se fossero voi, ma non lo sono e mi rendo conto di questo ogni
giorno di più.
Te la ricordi la stella di diamanti che
avevate comprato per me quando sono nata? Quella bellissima, che brilla davvero
come una stella reale. Zia l’ha fatta diventare un puntale e la mettiamo ogni
anno in cima all’albero di Natale, così mi posso ricordare di voi e di quanto mi
volevate bene. E ogni anno è stato così: io la vedevo e sorridevo pensando che,
almeno in un giorno dell’anno, io potevo ricordarmi di voi ed essere felice.
Eppure quest’anno non ci riesco. Non riesco a fissarla senza sentire un
terribile vuoto nel petto, un dolore acuto che mi spezza le gambe. Come mai,
proprio adesso, io sento che voi non siete qui con me? Dove sei, mamma? Ho
bisogno di voi, ho bisogno di avervi qui, di abbracciarvi.
So che sono un’egoista e basta. Ho gli zii,
ho Emma e Laura, ho Johan, ho i nonni, ho tutti i miei amici, ma mi sembra che
mi manchi un pezzo. Tu mi raccontavi la storia della stella che riusciva a
risplendere, in un modo o nell’altro, anche attraverso l’oscurità dello spazio
infinito, eppure io non riesco a splendere. Io sono una lacrima, una piccola
goccia salata che cade dall’occhio degli dei. Sono una stella cadente che si
spegne lentamente giorno dopo giorno.
Ho paura, mamma, la verità è questa. Ed è il
motivo per cui ti sto scrivendo ora, per cui sto lanciando un grido di
disperazione a te che sei morta, che mi hai lasciata qui, su questa terra, come
un gattino dimenticato per strada. Magari viene adottato, gli viene dato amore,
una casa, del calore, ma non si fiderà mai perché sa cosa si prova a rimanere da
soli e preferisce deciderlo lui di vivere in solitudine piuttosto che
affezionarsi e essere abbandonato di nuovo.
Io ho paura, e ne ho così tanta da sentirmi
immobilizzata: ho paura dei sentimenti che provo per qualsiasi persona perché
temo che prima o poi io debba di nuovo affrontare una perdita terribile; ho
paura del fatto che non riesco ad essere felice e che è tutta colpa mia; ho
paura del fatto che sono stanca e che non c’è nessuno che mi dice che va tutto
bene, che posso farcela qualsiasi cosa capiti; ho paura di non riuscire più a
sentire il calore che tu e papà mi davate quando mi
abbracciavate.
In nottate come questa, in cui la neve cade
forte e il vento soffia creando un suono simile a un urlo di dolore, io vorrei
qualcuno a riscaldare anche me. Qualcuno il cui solo pensiero riesca a fare
l’effetto del termosifone quando rientri dopo essere stato tanto tempo al
freddo. Qualcuno che mi stringa forte e che mi rassicuri, dicendomi che non se
ne andrà, che rimarrà con me fino alla fine. È questo che vorrei, mamma. Non sai
quanto mi manchiate tu e papà, non sai quanto mi sento in colpa nei confronti di
zio, zia, Emma e Laura, che provano a darmi affetto e io lo rifiuto. Vorrei solo
riuscire ad essere una persona migliore.
Sta albeggiando, anchenella tormenta riesco a vedere che il
cielo si schiarisce. Devo andare. Tu dai un bacio a papà, ovunque voi siate, e
mi raccomando, non abbandonatemi anche voi. Con affetto,
Rea.
Fabio era rimasto un’ora a leggere
quella lettera, finché la madre della ragazza non era andato a cercarlo. Per
evitare di farsi vedere in camera della figlia, si era nascosto dietro la porta
e aveva aspettato che se ne andasse. La donna si era avvicinata a lei, le aveva
accarezzato i capelli e le aveva stampato un gigantesco bacio in fronte. “Dormi
bene” le aveva augurato, poi era tornata in salotto.
In quel momento la lettera che lui
aveva in mano era pesata otto quintali e non riusciva a capire come mai Rea
stesse tanto male nonostante tutto l’affetto che aveva intorno.
Si avvicinò a lei e la fissò.
“Quale è
il tuo problema?” le chiese piano. Come se l’avesse sentito, la ragazza
aprì un occhio e lo fissò confusa, poi gli prese una mano.
“Signore, mi può proteggere lei?” lo implorò. Di
nuovo. Fabio sentì i battiti del cuore accelerare mentre lei si riaddormentava e
si staccò lentamente dalla sua stretta.
Andò a cercare Emma e Laura con un
bisogno impellente di parlarci. Erano le uniche due che potevano farla
ragionare, di questo era sicuro.
Le trovò sedute sul divano con i
rispettivi ragazzi, e si avvicinò senza dire niente. Loro sobbalzarono quando
lui le prese per un braccio e le trascinò via.
“Ehi,
fermo!” protestò la mora.
“No, vi
devo parlare” si rifiutò il ragazzo, facendole entrare in cucina.
“E non
potevi chiedercelo?”
“No, non
mi avreste ascoltato. Ora sedetevi” ordinò, chiudendosi la porta alle
spalle. Anche se di motivi particolari per dargli ascolto non c’erano, il tono
di voce di Fabio fece capire alle due che non era il caso di controbattere e si
misero comode su una sedia.
“Forse è
bene se leggete questa” decise lui. Passò la lettera di Rea sul tavolo e
loro si misero a guardarla, prima fiduciose poi, via, via, sempre più
incuriosite.
“Lei
pensa questo?” esclamò Laura, incredula. Il ragazzo annuì gravemente.
“E non
solo. Ha bisogno di aiuto e tramite ciò che scrive ci manda una richiesta
rumorosa. Dobbiamo fare qualcosa” spiegò.
“E’
nostra sorella, quindi sono anche affari nostri” gli fece presente. Fabio
perse le staffe.
“Certo, è
vostra sorella quando vi torna comodo! Dove siete quando lei piange o quando si
distrugge l’autostima perché non si sente all’altezza? Non sapevate nemmeno che
scrive! E dire che vivete sotto lo stesso tetto. Belle sorelle, non stento a
credere che si senta sola” sbottò. Le ragazze rimasero in silenzio,
colpite da ciò, e si guardarono imbarazzate.
“D’accordo, qual è il tuo piano per farla stare
meglio?” domandò Laura.
“Dovete
prenderle i quaderni con i romanzi che ha scritto e portarli a me. Da lì in poi
studieremo un piano d’azione” le istruì.
Rea si svegliò con un mal di testa
assurdo il pomeriggio dopo. Sì, pomeriggio, visto che erano le due. Si alzò in
tutta fretta quando vide l’ora, convinta di essere l’ultima della famiglia, e
invece trovò i suoi genitori e le sue sorelle ancora mezzi addormentati. Come
ogni anno, sotto l’albero c’erano già i regali di tutti, così che si creava un
po’ di magia natalizia e di mistero.
Da piccolo lo chiami Babbo Natale,
a diciotto anni lo chiami “a mamma e papà non fa voglia di pensarci la mattina
dopo aver preso una sbornia colossale e ci pensano la sera mentre sono ancora
lucidi”.
Preparò la moka e mise su il caffè
per tutti, così, mentre aspettava, andò a svegliare tutta la famiglia. Come ogni
anno, tra parentesi.
Era sempre la prima ad alzarsi,
perché le piaceva annusare l’aria natalizia prima di tutti. E, nonostante tutto,
anche stavolta non fu diverso.
Si diresse prima dai suoi
genitori, che salutò con un gigantesco sorriso, poi andò da Emma. La ragazza
sembrava aver fatto esplodere una bomba in camera. I vestiti della sera prima
erano sparsi ovunque e non si riusciva a passare senza pestare qualcosa: le
calze, il maglioncino, gli scaldamuscoli per non avere freddo, la cravatta…
aspetta, come?
Rea prese in mano la cravatta e la
guardò trattenendosi dal ridere, poi la passò sul viso della sorella.
“Mmmmh, Jason…” sussurrò lei, allungando una mano
per prendere quell’affare dalle mani della rossa.
“Emma,
tesoro mio, se non ti svegli me la rimetto” si divertì lei, parlandole in
un orecchio.
“Come?” chiese la mora aprendo un occhio. Vide la
sorella in piedi di fronte a lei che faceva dondolare a destra e sinistra la
cravatta del professore e si tirò su con uno scatto.
“Ridammela!” esclamò, arrossendo. A quel punto Rea
rise forte.
“Oddio,
non voglio sapere cosa avete combinato voi due ieri sera” ammise.
“Disse
colei…” ribatté l’altra, stiracchiandosi.
“Non so
di che parli” ammise la rossa, guardandola confusa.
“Sei
scomparsa con Fabio per un tempo interminabile” le ricordò. Lei
arrossì.
“Io
cosa?” esclamò.
“Sì,
fai la finta tonta. Siete stati via per una cosa tipo due ore” spiegò.
Rea sentì il cuore battere
all’impazzata. “Oddio” pensò.
Emma capì che davvero non
ricordava e sviò il discorso.
“Gli
altri sono già svegli?” chiese.
“Solo
Laura dorme ancora. Sul serio io e Fabio siamo scomparsi?!”
“Non
pensarci, eri ubriaca, non vale ciò che è successo. Andiamo da Laura!”
decise, alzandosi e spingendola verso la stanza della bionda.
Entrò facendo rumore e chiamando a
gran voce il nome della sorella, che mugolò qualcosa e si coprì la testa con la
coperta.
“Giù
dal letto, principessa” la chiamò, scoprendola.
“Fammi dormire!” protestò lei, raggomitolandosi
come un cagnolino.
“No, è
Natale e voglio aprire i regali” le negò la mora.
Lei cercò con le mani una ciabatta
da terra e gliela lanciò nello stomaco.
“Mi
hai fatto male!” si lamentò Emma, massaggiandosi lo stomaco.
“Tu
mi disturbi!” si giustificò Laura, rimanendo con gli occhi chiusi.
“Ok,
smettetela. Forza, mamma e papà sono già in piedi, dobbiamo aprire i
regali” la chiamò Rea.
“Ma è
presto”
“Tesoro
mio, sono le due e mezzo del pomeriggio” le fece presente la rossa. Lei
spalancò gli occhi.
“Stai
scherzando?” le chiese.
“No” negò l’altra.
“Ma
porc…” scese dal letto con velocità supersonica e si diresse verso la
porta.
“Ehi!” esclamò Rea, sorpresa. Fece per seguirla, ma
Emma la fermò.
“Andiamo a cambiarci” le disse, sorridendo.
“E
lei?”
“Lascia perdere, lo sai che è strana. Tu non preoccuparti,
sarà andata a cercare il regalo di Johan, ieri sera ha detto che lo lasciava
davanti casa” spiegò.
“Oh, ok
allora”
“Questi sono da parte nostra per
voi” disse il padre, passando loro tre pacchetti rosa.
“Cosa
sono?” chiese, curiosa, la mora.
“Aprilo e lo scoprirai” le suggerì
la madre. Tutte e tre si misero a scartare il regalo, trovando all’interno un
cellulare per uno, di quelli ultima generazione.
“Oddio!” esclamarono all’unisono.
“Sono
bellissimi” sussurrò Rea, abbracciando i genitori. Si sentiva così grata
nei loro confronti che le vennero quasi le lacrime agli occhi.
Passarono i venti minuti dopo
aprendo i regali, e Laura e Emma, naturalmente, ne ebbero uno in più di lei da
parte dei loro ragazzi. Sì, naturale. Lei le fissò, sentendosi un po’
malinconica nell’essere sola, ma era una sua scelta. Non ci lamentiamo mai delle
scelte che facciamo, altrimenti passano da essere scelte a essere
imposizioni.
Sorrise mentre si metteva a
tavola, per la cena, ormai, visto che erano le cinque del pomeriggio, e continuò
a sorridere mentre le sue sorelle andavano in camera e lei rimaneva a pulire con
la madre. Se solo le avesse viste…
“Dove
ha detto che li tiene?” chiese Laura.
“Tu
cerca nella scrivania, io guardo nella libreria”
“Ma
perché dobbiamo fare da spie? Noi due?”
“Non
ti lamentare! Se ci sente ci ammazza”
In silenzio si misero a cercare i
quaderni dove Rea teneva i suoi appunti, svuotando i cassetti e gli scaffali. Ne
trovarono sette in tutto.
“Ma
quanto cacchio scrive questa ragazza?” si stupì la bionda.
“Adesso capisco come mai passa tanto tempo chiusa in camera
dicendo di studiare e poi prende voti più bassi dei miei”
“Ma
sta’ zitta! Andiamocene prima che ci scopra”
“Aspetta, il pacchetto?”
“Ah,
sì, giusto. Era fuori, proprio dove aveva promesso che l’avrebbe
messo”
“Allora lasciaglielo sul letto. Adesso possiamo anche
andare”
Rea rientrò in camera stanca.
Anche se erano solo le nove e si era alzata alle due, le sembrava di essere
rimasta sveglia per giorni e giorni. Si buttò sul letto e schiacciò qualcosa con
la schiena. Sobbalzò dalla paura e si alzò di scatto.
“Ma che
ca…” posato sul materasso c’era un piccolo pacchetto, con su scritto il
suo nome. “E questo?” si chiese. Lo prese in
mano e lo scartò. Un bigliettino cadde sulle sue gambe mentre un quaderno
celeste e una penna graziosa con intarsi complicati brillavano alla luce del
lampadario.
“Sorpresa! Usa
questo per i tuoi appunti e magari, se ti capita, pensami. Con
affetto” non c’erano firme né altro, ma lo capì da sola di chi era.
Si guardò intorno per vedere come potesse essere entrato in camera sua, ma la
finestra era chiusa. Che ce l’avesse messo la seraprima? No. Va bene che non si ricordava
cosa fosse successo, ma un regalo l’avrebbe ricordato, giusto?
Una volta rientrata a scuola
doveva parlare con Fabio, tassativamente.
Un paio di giorni dopo, mentre Rea
stava studiando (sul serio), Emma e Laura uscirono di nascosto da casa.
Controllarono che lei non le seguisse e poi corsero verso l’abitazione di Fabio,
con in mano una busta piena di quaderni e blocchi notes.
“Se
lo scopre ci ammazza” commentò la bionda, guardandosi alle spalle.
“Esatto, quindi muoviti!” annuì la mora, voltando
l’angolo. Si trovarono il ragazzo davanti senza preavviso e si inchiodarono.
“Eccovi,
finalmente!” esclamò lui, sbuffando.
“Non
potevamo uscire prima, Rea ci avrebbe viste. Dovevamo aspettare che fosse
occupata e non ci prestasse attenzione”
“Comunque
siete in ritardo di mezz’ora” fece presente.
“L’importante è che abbiamo questi” disse Laura,
mostrando la busta con tutto il materiale. Fabio sorrise soddisfatto.
“Bene,
venite da me, perché adesso dobbiamo lavorare un po’”
“Noi
dovremmo studiare, veramente” provò a ribattere Emma.
“E
dai, se anche per un giorno saltiamo non muore nessuno! Tu, poi, che hai il
fidanzato professore, figurati se ti devi fare di questi problemi” la
sgridò la sorella, esasperata.
“Ma ci
sono gli esami!”
“Sì,
va bene, ma abbiamo altri dieci giorni per fare i compiti. Quanto stai
lontano?”
“Cinque
minuti a piedi. E preparatevi ad avere qualche novità, perché sono sicuro che
Rea non vi ha raccontato tutto” sorrise. Le sorelle Stevens si guardarono
confuse e lo seguirono.
“Sul
serio lei ha detto ciò?”
“Giuro.
Mi ha implorato. Vostra sorella non sta bene, è distrutta emotivamente. Il fatto
che non si ami non le fa bene, non riesce più a vivere con sé stessa. E non sa
proteggersi, per questo l’ha chiesto a me. Dobbiamo aiutarla” spiegò,
portando a tavola un vassoio pieno di biscotti.
“Ma
perché non ci ha mai detto che è uscita con te?”
“Non
voleva. In realtà è colpa mia, io l’ho ricattata e l’ho costretta a venire qui,
poi non le ho restituito in quaderno apposta perché volevo che tornasse. Ci
credo che non voleva ricordare” ammise sentendosi un verme.
“Non
hai fatto male, anzi, una svolta è ciò di cui aveva bisogno” lo consolò
Emma.
“Magari un po’ meno brusca, ecco” commentò Laura.
Tirarono fuori tutti i quaderni e li sparsero sul tavolo.
“Temo che
ci vorrà un po’” fece presente il ragazzo, prendendo il primo blocco.
Tutti loro si divisero il lavoro e si misero a leggere. Ci impiegarono quasi tre
ore per finirli tutti e riuscire a mettere gli appunti importanti su un unico
quaderno.
“Questa ragazza ha il problema della scrittura compulsiva,
mi pare” rise la mora.
“Comunque
penso che ci siamo, no?” chiese Fabio, soddisfatto.
“Ci
siamo? Abbiamo solo appunti sparsi a destra e sinistra, recuperati come pezzi di
puzzle diversi!” esclamò la bionda.
“Certo
che voi due siete proprio cieche come le talpe!” si irritò Fabio,
mettendosi una mano sulla testa.
“Ogni
tanto mi chiedo se Rea non ti odi perché sei così rompi scatole” lo
punzecchiò Emma.
“No, mi
odia perché io le sto facendo venire fuori tutto ciò da cui è scappata. Per cui,
adesso, io farò in modo che lei ritrovi sé stessa. Iniziando dalla festa del
trentuno”
“Perché proprio da lì?”
“Per
questo” spiegò, facendo leggere loro una frase copiata da un quaderno.
Una volta compreso, loro sorrisero
e annuirono soddisfatte.
La difficoltà nel capire Rea stava
nella sua tendenza a dire il contrario di ciò che voleva. Era triste perché le
avevi tolto di bocca l’ultimo pezzo di torta? “Non
importa, va bene così”. Era gelosa marcia perché le piacevi ma non voleva
dirtelo? “Fai come vuoi, non sei mica il mio
ragazzo”.
Fabio aveva capito ciò leggendo in
contemporanea il suo diario segreto e il suo romanzo.
“Emma e Laura
festeggeranno il trentuno con Jason e Johan, eio rimarrò in casa con mamma e papà. Non
importa, andrà comunque bene. Mi hanno invitato con loro, ma non me la sento di
fare il quinto incomodo e di aprire lo spumante a mezzanotte con loro che si
sbaciucchiano e io da una parte a bere da sola. E poi, l’ultimo ha sempre troppa
importanza: perché si deve festeggiare la fine? Al massimo festeggi l’inizio,
quindi il primo, inoltre a me le feste in questo giorno mi mettono malinconia.
Sì, decisamente è meglio se sto a casa con mamma e
papà… meglio…”
Questo è ciò che lei aveva scritto
nel diario. Ma nel suo romanzo si contraddiceva.
“L’anatroccolo
cerca di sorridere perché non si vuol far vedere triste, e cerca di farsi andare
bene anche ciò che non gli va. Nega che vuole qualcos’altro per semplice paura
di disturbare. Più di una volta, infatti, i suoi fratelli, bellissimi pulcini color oro, hanno chiesto se gli serviva
altro, ma lui negava perché non voleva assolutamente dare disturbo a qualcuno. O
far pesare a loro la fortuna che hanno nell’essere meravigliosi pulcini, mentre lui è solo un insignificante
anatroccolo”
Quindi adesso doveva trovare il
modo per portarla via di casa e farle festeggiare l’ultimo dell’anno.
“Potremmo chiedere a mamma e papà se la fanno uscire
comunque, e tu poi la vai a prendere alla finestra, fingendo che stia uscendo di
nascosto” suggerì Emma.
“A
lei piacciono queste cose romantiche” aggiunse Laura schifata.
“Mi
sembra complicato” rifletté Fabio.
“Tu hai detto che la vuoi far felice,
giusto? Per cui questo è il modo
migliore. Fino alle undici e mezzo sta a casa e poi tu
la rapisci e la porti via. Una volta mi ha detto che la festa
che preferisce è quella in cui un ragazzo la va a prendere a casa senza dirle
nulla e la porta chissà dove” ricordò la
mora.
“Devo,
però, trovare qualcosa di davvero speciale”
“Sono sicura che ce la farai. Sei un genio” lo rassicurò la bionda.
Lui sospirò, poi sorrise sperando
che avesse ragione.
La mattina del trentuno, dopo che
era stato pensato un piano ben specifico e dopo che le due sorelle Stevens erano
riuscite a rientrare in casa senza che Rea se ne rendesse conto, i genitori
delle ragazze furono messi al corrente del piano.
“Non
deve sapere niente, è troppo importante che tutto rimanga un segreto” si
raccomandarono.
“Ma
quindi l’idea è che noi verso le undici usciamo, lasciandola qui
sola…”
“E
Fabio verrà a prenderla poco dopo, portandola a festeggiare” concluse la
più alta.
“Mi sembra una bella idea, ma
perché non volete dirglielo?” chiese la madre.
“Perché rifiuterebbe. Mamma, te l’abbiamo già spiegato: la situazione è
complicata e Rea anche di più. Non possiamo fare le cose
semplici, purtroppo” sbuffò
Laura.
“Ok, ok, era solo una domanda” si
scusò la donna.
“Quindi siamo state chiare? Alle undici
fuori di casa”
“Siete
proprio belle” commentò la rossa, ammirando le sorelle. Era vagamente
invidiosa della loro autostima e del loro riuscire a mettersi i vestiti e a
truccarsi senza sentirsi… sbagliate.
“Perché non ti metti qualcosa di carino anche tu?”
propose Emma.
“E a che mi serve? Io
festeggio con mamma e papà e basta, quindi non serve che indossi roba troppo
particolare. Inoltre lo sai che non mi sento a mio agio
vestita da donna” rispose
sorridendo. Nelle ultime settimane si era costretta a
sorridere, sorridere sempre nonostante tutto.
“Come
vuoi. Se cambi idea, sai dove si trova la roba, giusto?”
“Sì,
tranquilla” annuì ridendo.
Suonarono il campanello due volte
nei cinque minuti successivi: prima arrivò Johan con un mazzo di rose per Laura,
che si gettò tra le sue braccia, seguito subito dopo da Jason, vestito con lo
smoking e la cravatta (la stessa, le parve, che aveva trovato in camera della
sorella la settimana prima).
“Allora noi andiamo. Ciao a tutti!” salutarono le ragazze, ognuna stretta al proprio
fidanzato. Dato che Emma non poteva andare troppo in giro
con Jason, avrebbero festeggiato nell’appartamento del professore, così che
nessuno li avrebbe visti.
Rea mantenne un sorriso cordiale
stampato sul volto fino a che non le vide svoltare l’angolo, poi una solitaria
lacrima le passò sul viso. “Mi sono
imposta di non stare più male. Non posso
continuare così, sempre a piangere. Devo riuscire ad essere
forte nonostante sia sola” si sgridò,
asciugandosi gli occhi.
Per superare quella piccola crisi,
si mise a cucinare con la madre. Non ne era capace e rovinò l’impasto della
torta tre volte, ma non importava: fare quello significava non avere tempo di
pensare e non avere tempo di pensare significava non stare male.
“Buon
appetito!” annunciò verso le otto ai genitori, che si guardavano
sorridendo da quel pomeriggio presto. Mancavano solo tre ore…
“Rea, tesoro, noi dobbiamo uscire”
le disse il padre alle undici. Lei, che era seduta sul divano a leggere un
libro, guardò l’orologio.
“Perché?” chiese tristemente.
“Ci hanno
chiamati i genitori di Johan per chiederci se avevamo voglia di festeggiare con
loro. Hanno detto che là ci sono tutti i loro amici e che stanno giocando
a carte. Ti vuoi unire?” le propose. La ragazza scosse
la testa.
“No, non
mi divertirei e sarei solo di peso” rispose, sorridendo.
L’uomo andò in camera e rise
sottovoce.
“Se avesse detto di sì saremmo
stati fregati” lo sgridò la moglie.
“La conosci
anche tu, non avrebbe mai risposto affermativamente. Lo
sai che non sopporta di stare con le persone più grandi” le ricordò, dandole
unbacio sulla guancia.
“Non importa, è
comunque stato un terno al lotto. Forza, muoviamoci a
uscire, altrimenti quello arriva e noi siamo ancora tra i piedi” lo
affrettò. Lui si mise la giacca, poi guardò preoccupato la donna.
“Non è che stanotte… da soli in
casa…”
“Che ti
importa? Ha diciotto anni, lo sa come funziona” lo
prese in giro lei.
“Ma è la mia
bambina! Non voglio uscire sapendo che uno scapestrato
la… la… non riesco nemmeno a dirlo!” esclamò.
“Shhh! Ma che urli? Vuoi che ti senta? Tu non te ne interessare, andiamo via” ordinò sua moglie,
spingendolo verso la porta.
“Ciao amore, ci vediamo più tardi”
la salutarono.
“Ciao,
divertitevi” ricambiò lei. “Da quando se ne
vanno conta un minuto” si impose. Tese l’orecchio e ascoltò la macchina
andarsene, poi contò fino a sessanta nella sua testa.
Alla fine, arrivata al
cinquantanovesimo secondo, lasciò andare il libro sulle gambe e si mise le mani
a coprire gli occhi.
“Sola” pensò, semplicemente.
Probabilmente si era addormentata.
Sentiva gli occhi gonfi e la testa pesante, ma c’era un rumore rimbombante che
non le permetteva di riposarsi per bene.
Alzò la testa dal cuscino del
divano: quanto tempo era passato? Che ore erano? Il nuovo anno era già
arrivato?
Si guardò intorno e il rumore si
fece più forte. “Ma che diavolo è?” si chiese.
Spaventata ma anche curiosa, si mise in piedi e andò in cucina. Sapeva che la
mamma teneva il mattarello nella credenza vicino ai piatti, quindi aprì il
mobile e lo prese. La prudenza non è mai troppa.
Si avvicinò al corridoio e chiuse
gli occhi, ascoltando il rumore. Sapeva per esperienza che, per cercare la fonte
di un suono, si dovevano eliminare tutti gli altri sensi possibili e poi
muoversi solo con le orecchie. Fece un passo in avanti, si fermò. Altri due
passi in avanti e ora uno sulla destra. Quando fu certa che la causa di quel
rimbombo era davanti a lei rimase a occhi chiusi e respirò. “ORA!” ordinò a sé stessa. Strinse il mattarello e
aprì gli occhi, fissando la finestra che aveva di fronte. L’utensile le cadde di
mano dalla sorpresa.
“TU?!” esclamò. Un sorridente Fabio le faceva cenno di
aprirgli per farlo entrare.
“Cosa
vuoi?” domandò sospettosa. Il ragazzo si mise a parlare, ma non si
sentiva niente, quindi spalancò le persiane e lo guardò.
“Che
diavolo ci fai a casa mia a quest’ora di notte?” lo aggredì, impedendogli
l’entrata.
“Prima di risponderti mi faresti venire
dentro? Ho piuttosto
freddo e sono qui da almeno venti minuti” la
implorò. Aveva le labbra livide e le mani tremavano, e Rea
fu impietosita. Si spostò e lo aiutò a scavalcare la finestra.
“Tu non
sei molto normale, lo sai?” lo accusò una volta che lo ebbe tirato
dentro.
“Sì,
direi che l’avevo capito sette o otto anni fa” ammise lui, togliendosi il
cappotto congelato e i guanti intirizziti.
“Buona
educazione vorrebbe che io ti offrissi una tazza di tè o una coperta calda, ma
tu mi sei appena entrato dalla finestra, per cui mi scuserai se sono un po’
sospettosa e non ti accolgo con gli onori dovuti” gli disse stizzita.
“Nessun
problema, ci penso io a scaldarmi mentre tu ti cambi” le assicurò.
“Mentre
io faccio cosa?” chiese lei, alzando involontariamente il tono di
voce.
“Cambiati, e fai veloce che non ho tutta la notte”
ripeté Fabio. Controllò l’orologio.
“Per la precisione hai quindici minuti al massimo, poi
dobbiamo uscire. Forza,
non mi guardare con codesti occhi a cerbiatta e togliti il pigiama” ordinò. Rea incrociò le
braccia.
“Cerbiatta? Ma per te io sono uno zoo o una persona?” si irritò.
“Poco importa. Tic-tac, il tempo corre” la prese in
giro. Il ragazzo si sedette sul letto, ma lei rimase
ferma.
“Qualche
problema?” s’informò fissandola.
“Sì, un paio, ma hanno poca importanza. Quello che importa ora è che questa è camera mia e io devo
cambiarmi qui. Per cui esci dalla mia stanza se vuoi che mi
sbrighi!” gli urlò contro,
infuriata. Lui arrossì e poi rise.
“La sbornia ti è sicuramente passata, l’altra sera volevi
spogliarti davanti a me. Fai veloce, mi raccomando” la
salutò, chiudendosi la porta alle spalle.
“Cosa?!” gridò lei,
avvampando alle sue parole. Rimase da sola a fissare il punto in cui lui era
sparito, poi si voltò verso l’armadio. “E ora che
faccio?” si chiese in preda al panico. Non poteva uscire per l’ultimo
dell’anno con i suoi soliti vestiti indosso.
“Se cambi idea,
sai dove si trova la roba, giusto?” la voce di sua sorella le
rimbombò nella testa. Respirò a fondo e poi si affacciò in corridoio: Fabio non
era nei paraggi. Entrò in camera di Emma e sperò con tutta sé stessa di trovare
qualcosa che le stesse bene e che non la facesse
sentire una balena.
Il ragazzo controllava
febbrilmente l’orologio ogni minuto: avevano solo dieci minuti prima che
scoccasse la mezzanotte e dovevano arrivare a casa sua. Meno male che aveva la
moto.
“Ok,
sono pronta” affermò Rea, apparendo in salotto. Lui si voltò.
“Era
l’ora, sei in ri….” La voce gli morì in gola
quando la vide con lo sguardo rivolto verso il basso e le guance arrossate
dall’imbarazzo: aveva addosso un lungo vestito di lana grigia e un paio di
pantacollant neri, che la facevano quasi sembrare più magra. Si era truccata
leggermente, mettendo in risalto gli occhi e le labbra.
“Che c’è? Stomale, vero?” domandò lei, impaurita. Fabio
si schiarì la gola e scosse la testa.
“No, sei…
sei perfetta” balbettò. Rimase fermo a fissarla e la ragazza sbuffò.
“Mi hai detto che eravamo in ritardo,
giusto? Quindi muoviamoci! Mi disturba che tu mi guardi con insistenza, mi mette l’ansia!” esclamò. Camminava sugli
stivali con i tacchi con passo un po’ incerto, ma, tutto sommato, con
tranquillità.
Si mise la giacca a vento, prese
la borsa e le chiavi e poi si mise le mani sui fianchi.
“Forza,
andiamo a festeggiare la morte di quest’anno”
Anche se non nevicava più, l’aria era davvero fredda. Rea si strinse nella giacca a
vento e cercò di non pensare a come era vestita e al fatto che Fabio fosse
accanto a lei.
“Dove è casa mia lo sai, per cui non devo ripeterti la cartina
geografica. Sali in
moto e fai veloce, ti scongiuro, perché ci rimangono solo otto minuti” le disse il ragazzo, facendo accendere il
veicolo. Nonostante una vocina nella sua testa le stesse
sconsigliando vivamente di salirci, lei si mise a cavalcioni dietro e si strinse
forte al petto di lui, sentendone il calore.
“Siamo
pronti?” le chiese.
“Sì. Non farmi uccidere, ok?” lo implorò.
“Fidati
di me” le rispose. Si mise il casco e partì a tutta velocità ma, a
differenza dell’altra volta, Rea decise di non dire niente. Semplicemente
aumentò la stretta e rimase a testa bassa.
“Stai
bene?” le gridò Fabio per sovrastare il rumore del vento.
“Sì, ma
voglio arrivare prima possibile” ammise.
“Allora
stringimi di più” le suggerì, sorridendo.
“Guarda
che non sei simpatico” ribatté lei, alzando un po’ gli occhi per
guardarlo. Alle luci dei lampioni, a quella velocità e col casco sembrava
bellissimo. “No, in realtà lo è” prima o poi la
ragazza avrebbe accoppato la sua stupidissima vocina interiore.
“Me l’hai
già detto, quindi non c’è bisogno che tu me lo ripeta” le ricordò.
“Una
volta in più è meglio di una volta in meno” rise lei. Ci misero davvero
poco ad arrivare davanti casa, aprire la porta e scomparirci dentro.
“Muoviti” la spronò Fabio, tirandola per una mano e
trascinandola in casa.
“Ho i
tacchi, mi ammazzo se cado!”
“Sei tu
che te li sei messi, non te lo ha imposto nessuno” le fece presente. Rea
arrossì.
“Mi
sembrava carino mettermi qualcosa di elegante” ammise imbarazzata. Lui si
fermò di botto e si voltò a guardarla. Aveva le guance rosse e gli occhi bassi e
si torturava i capelli con le dita. Adorabile.
“A me
saresti piaciuta comunque” le assicurò. Lei alzò lo sguardo, colpita da
quelle parole, e lo fissò, divisa tra la gratitudine e la paura. Poi il ragazzo
si schiarì la voce.
“Spumante” si ricordò, lasciandole la mano e andando al
frigo. Lei si mise una mano sul cuore per cercare di fermare il battito
impazzito, ma fu inutile. Mentre Fabio cercava la bottiglia e i calici sentì
nitidamente QUELLA sensazione. La odiava: arrivava sempre quando lei si sentiva
emozionata e le troncava il fiato in gola. Era come quando hai un esame e non
sai niente, che lo stomaco si chiude e la gola si stringe.
“Ok, ecco qua. Abbiamo
venti secondi precisi, sei pronta?” le chiese il
ragazzo, passandole un bicchiere.
“Sì” rispose lei, leggermente tremante. Se lo sentiva
fino dentro alla pancia che qualcosa stava per succedere, e non sarebbe stato
niente di buono. Possibile che i problemi non facessero che inseguirla?
“Ok,
dieci… nove…” Fabio iniziò il conto alla rovescia, tenendo l’orologio
sott’occhio. “Ciao, ciao, vecchio anno” pensò
Rea, alzando il calice e aspettando lo scoccare della mezzanotte.
“…due…
uno…” non servì che lo dicesse lui che il minuto era scoccato, perché il
rumore festoso che si sentì fuori da casa fu un annuncio più che
sufficiente.
“Ecco qua, l’anno nuovo è arrivato. A noi”
disse il ragazzo, facendo scontrare i bicchieri e sorridendo mentre
beveva. Anche lei sorrise e si portò lo spumante alle
labbra, guardandolo.
“Buono” commentò lui, abbassando il suo.
“Già” annuì lei. Non riusciva a mettere insieme più di
due parole, si sentiva strana. Era una sensazione che, nonostante le avesse
creato un groppo in gola, la scaldava. Felicità, forse? Non la provava da così
tanto tempo che non avrebbe saputo riconoscerla.
Fabio finì lo spumante e appoggiò
il calice sul tavolo.
“Hai
altri programmi per la serata oppure io poi torno a casa?” domandò Rea,
riuscendo a creare una frase sensata.
“Dipende
da te” rispose il ragazzo, guardandola intensamente. Troppo intensamente.
Lei deglutì e distolse lo sguardo.
“Spiegati meglio, perché non ho capito cosa intendi”
disse. “Sì che lo hai capito!” ribatté la voce
in testa.
“Se vuoi fuggire come Cenerentola e rifugiarti nella tua
casetta dove la tua matrigna ti aspetta e le tue sorelle sono meglio di te, vai
pure. Significa che farò il principe
azzurro e verrò a prenderti domani con una scarpetta di cristallo. Altrimenti, se vuoi rimanere con me e, per una sola volta, rischiare
un po’, possiamo trovare qualcosa da fare” le
spiegò.
“Non…
non mi mettere davanti decisioni che sai che non posso prendere, Fabio”
lo implorò. Lui si avvicinò.
“Correggi
il verbo” le suggerì. Rea non capì.
“In che
senso?”
“Non è vero che non le puoi prendere. Tu non vuoi prenderle, è diverso. Così
come non vuoi stare con me, come non vuoi essere felice, come non vuoi vedere
quanto sei speciale” la sgridò
dolcemente. Lei arretrava a ogni suo passo, ma alla fine
rimase schiacciata al muro, senza avere la possibilità di muoversi. Eccolo lì,
il problema a cui pensava poco prima.
“Ogni tanto mi domando se tu non stia meglio
così. Se non ti piaccia, in fin dei
conti, piangerti addosso. È più facile, vero?” le domandò. Aiuto.
“No, non
è più facile. È solo…”
“Meno complicato? Il
fatto è che nascondendoti non ti esponi, e se non ti esponi non rischi di
soffrire. Giusto? Ma se non ti esponi non riuscirai nemmeno a
trovare la felicità” le
spiegò.
“Sei
semplicemente una codarda” commentò. Per Rea fu come uno schiaffo in
pieno viso. Si sentì malissimo.
“Non è
vero!” gridò arrabbiata.
“Sì, lo
è. Se non lo fosse, rischieresti un po’ nella tua vita”
“Ma tu chi sei per dirmi come vivere la mia
vita? Chi te lo ha
dato questo permesso?” gli chiese
infuriata.
“I miei
sentimenti per te” rispose semplicemente.
“Che sono ricambiati.
Lo so che sono ricambiati. Ma non vuoi ammetterlo per paura,
ergo sei una codarda”
ragionò. Gli occhi della ragazza mandavano lampi di odio
puro.
“Fabio
Daniels, stai giocando col fuoco” lo avvisò,
ponendo il suo viso a un centimetro dall’altro.
“Non mi
fai paura” la rimbeccò lui, guardandola fisso. Forse fu la sua
sfacciataggine a farla muovere, forse l’odio. O forse solo l’aver represso per
troppo tempo quello che il suo cuore cercava di far uscire da mesi. Fatto sta
che lo prese per il bavero della camicia e se lo tirò contro, baciandolo con
tale foga da togliergli il respiro. Lo strinse a sé, possessiva, e non lo lasciò
andare fino a che non fu a corto di ossigeno.
Si staccò col fiato corto e lo
guardò.
“Io. Non. Sono. Una.
Codarda”
specificò. Fabio era incredulo, ma felice, dentro di sé, di
aver avuto una qualche reazione da parte sua.
“Io
nemmeno” rispose, prendendole il viso e tornando a baciarla.
Le loro mani si accarezzavano il
volto, il collo, si cercavano. Il bicchiere che la ragazza aveva in mano si era
frantumato a terra ma non poteva interessargli di meno.
A un certo punto fu lui a prendere
l’iniziativa e a passarle la lingua sulle labbra, sul mento, giù fino sul collo,
facendole venire i brividi in tutto il corpo. Si fermò a morderle la base del
collo, e sentì il suo respiro farsi sempre più affannato.
“Sei
buona” le sussurrò, andando con le mani ad alzarle il vestito.
“Stai
attento al veleno” rispose lei, sorridendo. Lui sorrise a sua volta, poi
la premette di più alla parete.
“Se non mi vuoi, dillo ora e in qualche modo mi
fermerò. Con molta
fatica, lo ammetto, ma ci proverò” le disse
affannato. La ragazza non rispose, semplicemente lo spinse
leggermente per aver modo di passare e se lo tirò dietro in camera da letto.
“A che
pensi?”
“A una
filastrocca per bambini che mi diceva mia madre quand’ero
piccolissima”
“Per
bambini? Quanti anni avevi?”
“Tre o
quattro, non ricordo. Era la mia mamma vera”
“Conosco
la storia, me l’hai raccontata tu per Natale”
“Davvero?”
“Già”
“Basta
alcool per me, ho capito”
“Ahahahah, te lo
consiglio, sì. Parli a sproposito da ubriaca”
“Comunque non so perché mi è venuta in mente, è una di quelle
filastrocche sceme per festeggiare l’ultimodell’anno”
“Ti va di
dirmela?”
“Davvero
sei disposto ad ascoltare una filastrocca per bambini?”
“Perché
no? È molto lunga?”
“No”
“Allora
fammela sentire, dai”
Rea si sedette sul letto,
coprendosi pudicamente col lenzuolo, e chiuse gli occhi per concentrarsi.
“Il mio pupazzo di
neve si è sciolto,
c’era un bel sole e
io ho pianto molto.
Ora è sparito, può
darsi che dorma,
o è sempre qui ma
ha cambiato forma.
Anche il pupazzo
Anno Vecchio è passato,
col nuovo sole sarà
già squagliato.
Lascia ricordi,
qualche rimorso,
cambia la forma e
diventa Anno Scorso.
Ma c’è il bambino
Anno Nuovo che viene,
ha gli occhi allegri
e le tasche piene
di mesi, di giorni,
di ore e minuti
e questa notte
anche tu lo saluti”
“Carina” commentò Fabio, tirandola di nuovo verso di sé
e facendosela stendere sul petto. Lei chiuse gli occhi e iniziò lentamente ad
addormentarsi.
“Dovrei
chiamare a casa per dire che non torno” disse sbadigliando.
“Mando un
messaggio io alle tue sorelle, tanto ho il loro numero” la rassicurò lui,
baciandole la testa.
“Grazie” rispose.
“Di
niente” minimizzò il ragazzo, sorridendo. Rimase in silenzio ad
ascoltarla addormentarsi.
“Fabio?” sussurrò Rea a un certo punto.
“Mh?”
“Non
farmi male” lo implorò, cadendo finalmente tra le braccia di Morfeo.
Capitolo 25 *** I problemi ti attaccano alle spalle ***
I
problemi ti attaccano alle spalle
Quando aprì gli occhi non
ricordava dove fosse, né come c’era arrivata.
Si mise a sedere sul letto e il
lenzuolo le cadde lievemente da una parte, lasciandola scoperta e facendola
rabbrividire. “Ma sono nuda?” si chiese.
Sbadigliò e si stirò, poi si
guardò intorno alla ricerca di qualche segno per ricordarsi cosa fosse successo.
Quando vide Fabio appoggiato al cuscino che dormiva beatamente, tutte le
immagini della sera precedente si riversarono nella sua testa e lei arrossì,
portandosi le mani al viso. “Oddio!” esclamò
dentro di sé. In quell’istante il ragazzo fece un verso strano e poi aprì
assonnato un occhio.
“Che ore
sono, mamma?” domandò. La mise a fuoco un istante dopo.
“Rea? Ah, giusto” disse, stropicciandosi
gli occhi. La ragazza sentì il cuore accelerare.
“Buongiorno” la salutò sorridente, baciandola. Quel
contatto le fece dimenticare tutti i problemi che stavano nascendo nella sua
mente e la fece rilassare.
“Anche a
te” ricambiò. Lui si stirò, poi sbadigliò e infine si sedette sul
letto.
“Ho
fame” annunciò. Si tolse di dosso il lenzuolo, rimanendo nudo e facendo
girare Rea, che non voleva vederlo per semplice pudore.
“Ehi, non
devi mica vergognarti!” la prese in giro Fabio, ridendo. Si infilò i
boxer e il pigiama e poi la fissò divertito.
“Hai
intenzione di osservare le tende per molto tempo ancora?” domandò.
“Sei vestito?!”
“Certo
che si” la tranquillizzò. Rea sospirò sollevata e poi si voltò.
“Allora
mi faresti un favore?” lo implorò.
“Del
tipo?” chiese lui.
“Mi
passi i vestiti?” disse, indicando a terra l’abito che aveva la sera
prima. Il ragazzo scoppiò a ridere, poi le lanciò tutto sul letto.
“E
adesso girati” continuò lei, facendogli segno di voltarsi col dito.
“Sei seria?!” si
stupì lui, sgranando gli occhi.
“Certo
che lo sono!” rispose, continuando a muovere l’indice. Controvoglia, fece
come lei aveva detto, e la senti scendere e infilarsi i vestiti.
“Tutto
questo è ridicolo” commentò.
“No che
non lo è. È normalissimo” ribatté Rea,
mettendosi le calze.
“E invece no. Ti ho vista nuda, perché tutto questo pudore?” sbottò.
“Perché
mi vergogno, tutto qui” rispose semplicemente la
ragazza.
“Ieri
sera non ti vergognavi” le ricordò. Lei lo colpì con un cuscino.
“Maleducato!” lo aggredì. Fabio rise e la
abbracciò.
“Sei
adorabile quando ti arrabbi, te l’ho detto?” le sussurrò. Anche lei rise
e si appoggiò al suo petto.
“No, ma
se me lo ripeti cento volte forse ci crederò” disse. Rimasero fermi
qualche secondo, poi il ragazzo sospirò.
“Io ho
fame, andiamo a fare colazione?” la implorò, sciogliendo l’abbraccio.
“Colazione? Ma è mezzogiorno e mezzo!” rise
l’altra, aprendo la porta della camera.
“Va beh,
colazione pranzata”
“O
pranzo colazionato” suggerirono.
Quando entrarono in cucina
trovarono i genitori di Fabio seduti a tavola con un’enorme tazza di latte e
caffè davanti. Rea s’immobilizzò e arrossì violentemente.
“Oh, buongiorno” li salutò la
donna, stupita. Il ragazzo imprecò mentalmente e si stampò in faccia un sorriso
da poker.
“Buongiorno a voi.
Come è andata la festa ieri sera?” ricambiò, trascinandola su una sedia e facendocela
accomodare.
“Bene.
Come solito” rispose piatto l’uomo. “Mio caro Daniels, hai fatto una
cazzata” pensò lui.
Prese da mangiare sia per sé che
per la ragazza, poi si mise vicino e lei e iniziò a mangiare. Era sceso uno
strano clima glaciale nella stanza.
“Allora, Rea, come procede?”
chiese la madre, cercando di essere più gentile possibile. La nominata alzò lo
sguardo e tentò con tutte le sue forze di non sembrare più impacciata di come
già non era.
“Bene,
grazie” rispose sorridendo. Scese altro silenzio, rotto solo dal
tintinnare dei cucchiai nelle tazze.
Lei deglutì e sperò con tutta sé
stessa che i due signori non si arrabbiassero troppo.
Cazzo, non aveva pensato
all’eventualità che fossero in casa. Eppure avrebbe potuto: in fin dei conti era
loro, quell’appartamento.
Rimasero tutti zitti fino a che
non ebbero finito di mangiare, poi Fabio si schiarì la gola.
“Noi
andiamo” annunciò alzandosi e tirandosi dietro Rea. Lei lo seguì
docile.
“Ci
vediamo dopo” li salutò il ragazzo.
“Arrivederci, signori Daniels” disse la ragazza, agitando lievemente la
mano.
I due rimasero zitti a fissarli,
mettendole addosso una terribile sensazione.
“Ho i
brividi” commentò la rossa quando furono per strada, stringendosi nel
giaccone.
“Per il
freddo?” s’informò l’altro, guardandola. Lei scosse la testa.
“Per la
figuraccia fatta con i tuoi” spiegò. Arrossì solo a pensarci.
“Non è niente, tranquilla. Non sono abituati a ospiti improvvisi,
tutto qui” le assicurò.
“Comunque non è stato il modo migliore per presentarmi
stamani” commentò.
“Ma va’,
cosa vuoi che sia? In un modo o nell’altro se ne sarebbero comunque accorti,
giusto? Per cui non c’è niente di cui preoccuparsi”
“Sicuro?”
“Al cento
per cento” confermò. Rea sorrise, poi lo guardò.
“Da qui in poi posso proseguire da sola. Devo passare da dietro per rientrare,
non voglio farti nascondere”
disse. Ormai era quasi arrivata, in fin dei conti.
“Mi piacerebbe accompagnarti fino a casa,
invece. Cioè, sempre se
non ti dispiace” ribatté Fabio, arrossendo
leggermente.
“No che
non mi dispiace” lo rassicurò.
Camminavano vicini, ma le loro
mani non si sfioravano. Nella testa della ragazza c’erano mille mila domande:
sono la sua ragazza a questo punto? Ne vale la pena? E se fosse stata una cosa
da una notte e via? Sarà il tipo che si vanta con gli amici di aver fatto sesso
con le ragazze?
“A che
pensi?” le domandò lui a un certo punto, fermando quel flusso infinito di
problemi che stavano piano, piano prendendo possesso della sua mente.
“A
niente in particolare” mentì lei, arrotolando una ciocca di capelli con
le dita.
“Bugiarda” sorrise il moro, guardandola divertito.
“Chi? Io?” esclamò la rossa, continuando a
giocare con i capelli. Il ragazzo si fermò e la fece
voltare verso di sé.
“Quando
sei nervosa giochi con i tuoi capelli e distogli lo
sguardo, e quando dici una bugia diventi rossa” spiegò. Rea deglutì a
fatica: rischiava di perdersi in quegli occhi profondi.
“M-ma ero sincera. Non pensavo a nulla” cercò di
ribattere. Le prese il viso tra le mani e la baciò
lentamente. “Ora mi sciolgo” si disse lei,
sentendo le gambe cedere.
“Ok, farò
finta di crederci” decise Fabio, staccandosi.
Rea rimase con gli occhi chiusi e il fiato corto un paio di secondi, poi abbassò
lo sguardo.
“Direi
che questo è un saluto” dedusse. Ormai vedeva casa sua in fondo alla
strada.
“Penso che sia meglio, sì. Non vorrei far arrabbiare i signori
Stevens” rise il ragazzo, accarezzandole una
guancia.
“Ok” annuì lei. Rimasero fermi così, finché la rossa
non si decise a parlare.
“Mi
chiami?” domandò speranzosa.
“Non
avrai nemmeno il tempo di accorgerti che sono andato via” le assicurò,
sorridendo.
La baciò un’ultima volta sulla
fronte e poi la fissò scomparire nel giardino della sua abitazione.
Quando varcò la porta di casa,
con sul viso stampato uno di quei sorrisi ebeti che ti
danno un’aria più che mai stupida, Fabio non se l’aspettava. Né pensava che
sarebbe successo.
“Sono
tornato” annunciò, mettendo il giacchetto all’attaccapanni.
“Puoi venire qui un momento?” lo
chiamò la madre dalla cucina. Lui ubbidì tranquillo ed entrò nella stanza. Lo
schiaffo che lo prese in pieno viso lo fece barcollare.
“Ma
che…?” si portò una mano alla guancia e guardò il padre, stralunato.
“Scusami?” chiese lui, sperando di aver capito
male.
“Da quando in qua porti la prima
ragazza venuta a casa e la fai dormire qui?” lo aggredì. La moglie gli mise una
mano sulla spalla.
“Tesoro, calmati un secondo” gli
suggerì, ma lui non l’ascoltò.
“La prima ragazza venuta? Intanto quella è la MIA ragazza, e poi sai benissimo che
non l’ho mai fatto, per cui non vedo perché farne un dramma. Ieri sera abbiamo
festeggiato e si è addormentata qui. Qual è il tuo
problema?” domandò, iniziando anche lui ad
arrabbiarsi.
“Tu hai fatto venire qui Rea,
approfittando del fatto che noi non c’eravamo perché eravamo andati a
festeggiare l’ultimo dell’anno, e ci sei andato a letto!” lo accusò.
Ok, era ufficiale: Fabio ora non
capiva sul serio come mai tanta irritazione.
“E anche se fosse?
Cavolo, papà, ho diciotto anni, lei sta con me. Se l’ho fatta
dormire qui non dovresti prendertela tanto”
sbuffò.
“Ragazzino, questa è casa mia, e
qui ci entra solo chi dico io. Lei mi sta simpatica, non fraintendermi, ma il
tuo comportamento mi ha fatto imbestialire. Non posso fidarmi
di mio figlio”
“Ma
allora ti sei bevuto completamente il cervello! Non era una cosa programmata, è
capitato per sbaglio! Cosa avrei dovuto fare, stamani alle quattro? Rimandarla a
casa da sola con tutta la gentaglia che c’è in giro? Ma ti
ascolti quando parli?”
“Non mi
interessa! Dovevi prima chiedermelo!” continuava a
ripetere l’uomo.
“Sei un
testone” lo accusò Fabio, incrociando le braccia.
“E tu sei in punizione, caro mio.
Per un mese”
“Che
cosa?! Papà, questo non è giusto! L’ultima volta che mi
hai messo in punizione avevo cinque anni e avevo rotto il vaso di mamma! Non mi sembra altrettanto grave aver fatto rimanere qui Rea per la
notte” si ribellò lui,
infiammandosi.
“Impara una
cosa: questa è casa mia e qui non sei tu a comandare, ma io. Quindi noncontrobattere, o peggiori la situazione” rispose freddo il padre,
alzandosi e andando in camera.
“Ma certo: voi decidete cosa volete, invitate chi vi pare e va
tutto bene. Io faccio dormire qui la mia
ragazza e vengo punito. Logico, no?” chiese
retorico. La donna, che era rimasta zitta tutto il tempo, strinse le
labbra.
“Ha ragione lui,
mi dispiace dirlo. Sei stato un irresponsabile”
disse.
“E
perché?” si arrabbiò il ragazzo.
“Fabio, ti farò una domanda ben
precisa, ma tu rispondi sinceramente senza vergognarti, ok?” ordinò. Lui
annuì.
“Avete usato precauzioni? Perché io non ne ho trovate di usate in giro” gli chiese
gravemente.
Il moro strinse gli occhi e il suo
cuore perse un battito.
Capitolo 26 *** Brutte notizie il primo dell’anno ***
Brutte
notizie il primo dell’anno
Rea rientrò in casa camminando a
cinque centimetri da terra. Si chiuse la finestra alle spalle e si guardò allo
specchio: un gigantesco sorriso era stampato sul suo visino lentigginoso e la
faceva risplendere. Non si era mai sentita più a suo agio con sé stessa.
Si chiese se qualcuno avesse
notato la sua assenza, ma poi si rispose che no, probabilmente tutti stavano
ancora dormendo. Era tradizione fare le quattro del pomeriggio a letto il primo
gennaio.
Si spogliò e lasciò cadere a terra
il vestito e i pantacollant, poi si mise il pigiama e si scompigliò i capelli
per far vedere che si era appena alzata; infine uscì in corridoio cercando di
avere la faccia più assonnata possibile. Contro ogni previsione, trovò Emma e
Laura sedute a tavola con una tazza di cioccolata calda davanti e dei pasticcini
con la frutta messi su di un piatto. Con loro non doveva fingere, quindi smise
di sbadigliare e sorrise raggiante.
“Buongiorno raggi di sole!” le salutò. Loro si
voltarono a guardarla, sospettose.
“Scusa
come?” le chiese la mora.
“La vita
è proprio bella, vero?” disse sedendosi. Prese un po’ di latte scaldato
dal pentolino e lo mise in una tazza, aggiungendo la polvere di cacao.
“Per
caso ieri sera hai fumato qualcosa? Non so… Marijuana, Hashish… il tuo
cervello…”le domandò
l’altra, guardandola stralunata. Non capitava mai che Rea fosse così allegra. Di
buon umore, certo, ma felice mai!
“No,
ieri sera ero impegnata” rispose. Le ragazze adesso iniziarono a
capire.
“A far
che? Non sei stata in casa?” esclamarono all’unisono, finte sorprese.
“Fino a
mezzanotte meno un quarto sì, poi sono uscita” spiegò.
“Raccontaci!” le ordinò Emma, adesso davvero
curiosa. Lei si sistemò meglio sulla sedia e guardò che i genitori non
arrivassero, poi sorrise raggiante.
“Fabio
mi ha rapita” iniziò. Ci mise venti minuti a spiegare tutto, da quando le
aveva bussato alla finestra a quando, quella mattina, si erano fatti sorprendere
dai genitori di lui. E, per la prima volta, non nascose nessun dettaglio.
“Porca miseria, Rea! Hai fatto scintille stanotte!”
esclamò Laura. La mora, intanto, si era messa a ridere e aveva alzato il
cinque.
“Batti
qui, sorella! Non potrei essere più fiera di te” disse.
“Grazie,
grazie, troppo gentili” rispose lei, ridendo con loro. Il suo stomaco
brontolò un po’, e prese un pasticcino infilandolo in bocca
“Ma
quindi ora siete fidanzati?” le chiese la bionda. Lei si incupì
leggermente.
“Non lo
so. Non gliel’ho chiesto, quindi non saprei proprio che dirti. Credo di sì, ma
non ne sono sicura, ecco” spiegò, sospirando.
“Ma
come non ne sei sicura? Uff, ecco che torna la Rea di sempre” ribatté
Emma, sconsolata.
“Mi
sembrava brutto domandarglielo, scusami! Avrei rotto l’incanto che si era
creato”
“Ma
quale incanto! Non è che gli chiedevi chissà che, era solo una
precisazione” la sgridò. La rossa si fece piccola, piccola sotto lo
sguardo infuocato della sorella.
“Scusami. Lo farò più tardi, quando mi chiamerà. Così va
bene?”
“Direi
di sì” accettò la mora, tornando alla sua cioccolata.
“Comunque non ti facevo il tipo che fa sesso col primo
venuto” commentò Laura, innocentemente.
Rea quasi si strozzò con la
bevanda a quelle parole, tossendo imbarazzata.
“Ma
veramente io non ho fatto sesso col primo venuto!” ribatté.
“Sì
invece. Io non l’avrei fatto, ma va beh” disse la bionda. Perché aveva
sempre in faccia quell’espressione piatta ed era sempre così pessimista? Mai una
volta che la sorreggesse, cavoli!
“Scusami, tu e Johan non l’avete fatto?” s’informò.
Lei arrossì lievemente e si mise a bere.
“Laura?” la chiamò, cominciando a capire.
“Dimmi”
“Non hai
ancora fatto l’amore con il tuo ragazzo?” chiese, trattenendo una
risata.
“N-noi… beh, ecco, diciamo che… sì, non è una mancanza,
insomma… ehm…” sua sorella iniziò a impappinarsi con le parole e questo
significava che la rossa ci aveva azzeccato. Nel sentire ciò, Emma si
rianimò.
“Sul
serio? Cioè, state insieme da quanto? Tre mesi più o meno? E vi siete solo
baciati?” domandò stupita (e anche piuttosto schifata).
“Non
sono mica come te” si arrabbiò la bionda, mettendo il broncio.
“Ma
cavolo, abbiamo diciotto anni e gli ormoni a mille e tu lo baci e basta? Cosa
fai nel resto del tempo? Giochi a Indovina chi?”
“Fatevi gli affari vostri! Se non voglio fare l’amore con
Johan saranno problemi miei?”
“Ecco,
hai utilizzato la parola giusta: problemi. Perché i tuoi non possono
essere che problemi per rifiutare il sesso” ragionò la mora ad alta
voce.
“Che
palle! Potrò fare come voglio? Se stamani hai intenzione di fare della mia vita
sessuale una questione di stato io me ne vado. Siete proprio due
rompicoglioni” sbottò Laura, alzandosi e uscendo dalla cucina. Rea e Emma
si guardarono stupite.
“Ma c’è
qualche problema?” chiese la rossa.
“Non
che io sappia” rispose l’altra.
In quel momento entrarono i loro
genitori nella stanza e loro si zittirono.
“Pronto?”
“Ciao
lentiggine”
“Oh
mamma, ancora con questo soprannome? Come sei noioso”
“Che vuoi farci? A
me piace”
“A me
non troppo, ma sorvoliamo per questa volta”
“Gentile. Senti,
devo parlarti di una questione importante, non è che possiamo
vederci?”
“Certo,
quando?”
“Ti direi subito,
ma i miei mi hanno messo in punizione, quindi stasera verso le dieci. Io dirò
che vado a dormire e uscirò di nascosto, in qualche
modo”
“Ahahahah! Piccolo, lui, è in punizione come i
bambini”
“Non sfottere,
lentiggine”
“Un po’
per uno, scusa! Comunque va bene, dove ci troviamo?”
“Alle dieci e mezzo
a casa tua. Fammi entrare dalla finestra”
Toc-toc. Rea alzò gli occhi dal
libro che stava leggendo e si tolse gli occhiali da vista che portava ogni tanto
(giusto quelle poche volte che se ne ricordava).
Fabio le faceva cenno di aprirgli
e quella situazione le dette un senso di dèjà vu.
“Sai che
l’ultima volta che ho fatto entrare qualcuno dalla finestra, nascondendolo in
camera mia, non è finita molto bene?” gli chiese.
“Stai
parlando di ieri sera?”
“No, sto
parlando di quando ho chiamato Johan per venire da me ed è andata a finire con
lui sotto al letto nascosto da Emma e Laura”
“Che
bella prospettiva” commentò il ragazzo ridendo. Si chiuse alle spalle le
persiane e fissò la ragazza.
“Buonasera” la salutò, avvicinandosi a baciarla. Rea
rimase ferma e si godette quel momento problem free con gli occhi chiusi.
“Anche a
te” ricambiò sussurrando.
Fabio si sedette sul letto e si
irrigidì leggermente, nervoso tutto d’un tratto. Lei si rese conto di quel
cambiamento repentino e si avvicinò.
“C’è
qualche problema?” chiese preoccupata. Il ragazzo si schiarì la voce e
poi la guardò, imbarazzato.
“Forse
uno” rispose.
“Cioè?” s’informò, rimanendo per qualche motivo in
piedi.
“Ecco,
ieri… ieri sera, quando abbiamo… sì, insomma, quando è successo…”
“Quando
abbiamo fatto sesso” lo aiutò.
“Esatto.
C’è stato un piccolo, piccolissimo particolare a cui io, preso dal momento, non
ho fatto caso. Una scemenza che può rivelarsi pericolosa” iniziò. Rea
attese in silenzio.
“Praticamente non ragionavo e mi sono dimenticato di…
di…”
“Di?”
“Di fare
in modo che fossimo pro… pro… credevo sarebbe stato più facile dirtelo… uff, non
ho messo precauzioni” ammise tutto d’un fiato. La ragazza rimase a
fissarlo, poi chiuse gli occhi, fece un grosso respiro, li riaprì e deglutì.
“Forse
facevo meglio a sedermi” commentò, andando a prendere la sedia che teneva
alla scrivania. Rimase zitta, immobile, fino a che non fu riuscita a incanalare
l’informazione.
“Tu mi
stai dicendo che io potrei… oh cielo!” esclamò, mettendosi una mano sulla
bocca.
“Ecco
perché sono in punizione. Mia mamma ha svuotato il cestino in camera mia e non
ha trovato nulla”
“Intendi
dire nessun preservativo?”
“Esatto.
Immagino che tu non prenda la pillola, giusto?”
“Già”
“Appunto.
E i miei si sono arrabbiati. Erano disposti anche ad andare da un dottore, ma
oggi è festa e quindi non ce ne sono”
“Merda” commentò Rea. Entrambi rimasero in silenzio,
preoccupati e imbarazzati.
“E
quindi che si fa? Come ne usciamo?” chiese alla fine la ragazza. Fabio
scosse la testa.
“Non ne
ho idea, non saprei proprio che inventarmi. Da quanto abbiamo studiato l’anno
scorso, per sapere per certo se sei… incinta –questa parola praticamente
la sputò fuori- dobbiamo aspettare un paio di
settimane, o che ti venga il ciclo” ragionò.
“Se
stiamo qui ad aspettarele mie
mestruazioni ci diventiamo vecchi. Non sono mai stata puntuale, rischiamo di
farci venire paura per niente” lo contraddisse.
“Perfetto, aggiungiamo la beffa al danno. Mi sa che ho
combinato un casino” si disperò il ragazzo, abbandonandosi sul letto.
“Abbiamo” lo corresse lei, andandogli accanto. Si
stese e lo fissò.
“Siamo
in due, no?” gli chiese, sorridendo.
“Sì, ma è
colpa mia. Se non ti avessi portata da me e non ti avessi sfidata,
ora…”
“Non
avrei passato l’ultimo dell’anno migliore della mia vita, né avrei mai abbattuto
le mie difese. Quindi mi hai solo fatto del bene. E se ne è venuto fuori un
piccolo imprevisto, ci penseremo quando sarà il momento. Fino ad allora non ci
pensiamo” lo tranquillizzò, baciandolo dolcemente sulle labbra.
“Sai
benissimo che non riuscirò a non pensarci, vero?” le chiese, con un mezzo
sorriso sul viso.
“Sì, ma
credo che sia meglio. Se ci stiamo a rodere troppo il fegato probabilmente non
ne usciremo vivi. Sii felice e vivi la vita!” lo spronò.
“Tutta
questa positività da dove ti viene, scusami? Fino a ieri piangevi come una
matta” la punzecchiò. Si morse la lingua un attimo dopo.
“Scusa” disse.
“E per
cosa? Lo so che hai ragione. Ma ora è il mio turno di far star bene te, quindi
su con la vita e sorridi” gli ordinò. Fabio esitò.
“Andrà
tutto bene?” le chiese impaurito. Rea gli prese le mani e lo fissò
intensamente.
“Qualsiasi cosa succeda andrà tutto bene” promise.
Vi metto il link dell'ultima canzone di Rea che ho pubblicato ieri! Ma lei non deve saperlo!Tanto non ci viene mai a rivedere i capitoli...
http://www.youtube.com/watch?v=xRAAcxHs_KI&feature=plcp
Emma
Passarono dieci giorni, e Rea,
Laura, Emma, Fabio e Johan rientrarono a scuola. Di comune accordo i due avevano
deciso di non dire niente alle sorelle della possibile gravidanza, perché
avevano paura che si lasciassero sfuggire qualcosa e, al momento, era l’ultima
cosa che volevano.
“Bentornati a tutti!” li accolse Jason, strizzando
l’occhio alla mora quando entrò in classe.
“Com’è
bello?!” chiese lei retoricamente, perdendo
subito la testa. Non c’era niente da fare: più passava il tempo e più il suo
cervello friggeva quando pensava al suo “bellissimo,
sexyssimo, stupendissimo
ragazzo”. Ormai le sorelle avevano accettato l’idea di averla persa per
sempre. Ogni tre giorni ripeteva con voce sognante che non sarebbe riuscita ad
arrivare a luglio per esprimere i suoi sentimenti a tutto il mondo e per andare
a spasso in giro per le strade mano nella mano con lui. Quando faceva partire
quella lagna loro alzavano lo sguardo e cercavano di ignorarla.
Mentre Rea finiva, con sua somma
soddisfazione, l’ultima pagina abbozzata del primissimo romanzo che aveva
iniziato, e che aveva circa quattro anni, le sue orecchie captarono un pezzo di
discussione dalle file accanto. Ringraziò di aver fatto cambio posto con Laura
perché le aveva chiesto la finestra per poter disegnare il panorama, e allungò
un po’ il collo a destra per ascoltare.
“Sì, pare che
siano già un paio di mesi che va avanti questa cosa. Li
hanno visti passeggiare mano nella mano e si guardavano con quell’aria da
innamorati che hanno due ragazzini” disse Maria.
“Cioè, ma vi
rendete conto? Un professore e una studentessa. Ma siamo matti? Ci credo che i suoi voti siano così alzati negli ultimi tempi”
commentò Matilde.
“In effetti…
secondo me lei lo fa solo per un motivo scolastico. Uno
scambio di favori, se vogliamo chiamarlo così: lei ci va a letto e lui la
promuove” ragionò Ginevra.
Rea strinse i pugni e fece per
girarsi, ma una mano si posò sulla sua spalla e la bloccò. Da dietro anche Fabio
aveva ascoltato e le fece segno con la testa di rimanere ferma.
“Farai
peggio se ti muovi” sussurrò. La ragazza chiuse gli occhi e lo ascoltò,
trattenendo le lacrime.
“Quelle… quelle vipere! Che stronze che saranno! Non è possibile che esistano
persone simili. Emma non lo fa per sesso o per tornaconto personale, lei lo fa
per amore! Non ci credo che a quest’età siamo già così crudeli
da dire certe… certe cattiverie!” si sfogò
durante la ricreazione. Dalla rabbia si era messa a
piangere e Fabio la strinse forte a sé.
“Non pensarci. Devi essere superiore e non badare loro” le consigliò.
“Ma non posso! È mia
sorella, devo proteggerla! Non è vero che si comporta così, mi
fa male sapere che loro la pensano in quel modo”
ribatté, guardandolo.
“Io ti capisco, ma se intervieni peggiori la situazione e
basta. Invece se rimani
buona, buona da una parte non darai loro modo di pensare che ti arrabbi perché,
magari, ciò che hanno detto è vero” le spiegò,
asciugandole una lacrima. Rea rimase immobile e poi
sbuffò.
“Ti
odio” esclamò. Lui rise.
“Perché?”
“Perché so che hai ragione e che è meglio se sto
zitta. Anche se io,
zitta, non so starci!”
ammise. Il ragazzo la baciò e poi sorrise, divertito.
“Cambiando discorso, sappiamo niente su… sì, insomma… hai
capito, no?” le chiese, adesso più titubante.
“No,
niente per il momento” rispose, portando automaticamente una mano alla
pancia.
“Sei in
ritardo?” s’informò lui. La rossa scosse la testa.
“No, però non è detto. Ormai sono passate quasi due settimane,
quindi pensavo che magari potremmo… potremmo fare il test” suggerì. Fabio sospirò.
“Non posso andare in farmacia a chiedere un test di
gravidanza, e tu nemmeno. La farmacista ci conosce” le
ricordò.
“Lo so,
però avevo pensato a una cosa” confessò, nascondendo un sorriso
divertito. Lui alzò gli occhi al cielo e gemette.
“Quando
tu pensi a un piano, va sempre a finire con qualcuno che si fa male”
commentò.
“Scusa,
ripeti un po’!”
“Abbassa
la voce!”
“Porc… Rea, ma voi
avete diciotto anni, per l’amor del cielo!”
“Lo so,
siamo due deficienti e ce ne rendiamo conto, però abbiamo bisogno di prove. Non
penso di essere incinta –non lo spero- ma senza un test rimarremo col dubbio
altri dieci giorni. Non mi capita mai di avere un anticipo, semmai un ritardo,
quindi ti prego, portaci in città e noi andremo in farmacia”
“E se
ci vede qualcuno?”
“Ci metteremo poco, pochissimo. Dieci minuti, e tu rimarrai in macchina. Ti prego, Jason, sei
l’unico che può darci una mano!” lo
implorò. L’uomo si stropicciò gli occhi e poi la
guardò.
“Siete
comunque due idioti, sia che il risultato sia positivo che negativo”
commentò. La ragazza si illuminò.
“Significa che ci aiuterai?” chiese.
“Sì, lo
farò” accettò. Lei si gettò tra le sue braccia, stringendolo forte.
“Grazie, grazie, grazie, grazie, mille volte
grazie! Sei il cognato
migliore di questo mondo” esclamò
felice. Fabio, che in tutto il discorso era rimasto zitto,
si schiarì la voce.
“Quando
andiamo?” chiese.
L’appuntamento era stato fissato
per il mercoledì pomeriggio. I due ragazzi non dovevano studiare, e avrebbero
perso al massimo un’ora, non di più, per andare, comprare il test e
rientrare.
“Ma come
sei malato? Che significa?”
“Che ho la febbre
alta! Non ci vuole un genio per capirlo”
“Quindi
mi mandi da sola a comprarlo? Io? Che mi sento male al sol pensiero?”
“Perché, io
no?”
“Va
bene, dai, riposati e cerca di star meglio in tempi
brevi, ok? Ci sentiamo più tardi. Un bacio, a presto”
Attaccò il telefono e, nello
stesso istante, le arrivò il messaggio di Jason che le diceva di stare
aspettandola in macchina dietro l’angolo.
“Io devo
uscire, ci vediamo tra un po’!” annunciò, prendendo la borsa.
“E
dove vai?” chiese Emma.
“Ehm…
esco con Fabio” inventò sul momento. La mora la fissò un po’ confusa.
“Ma non aveva la febbre? Stamani a scuola stava da fare
schifo” ricordò. Rea imprecò dentro di sé.
“S-sì, ma vado da lui
e vedo… come sta!” balbettò. Non convinse la sorella, che continuò a
guardarla male, ma comunque aprì la porta.
“Ci
vediamo dopo!” salutò, fuggendo di casa.
Camminò a passo veloce e salì
sulla macchina di Jason col cuore in tumulto.
“Problemi a uscire?” chiese mettendo in moto.
“Sì, la tua ragazza mi ha fatto il terzo
grado. A parte questo,
tutto ok” rispose.
“Perché
non le hai detto la verità?”
“Figuriamoci. Escludendo che Emma è bambinofobica, non voglio allarmare lei e Laura”
“Quella
parola non esiste!”
“Dettagli. Tra quanto saremo arrivati?”
“Dieci
minuti”
Rea e Fabio erano seduti sul
tappeto di camera della ragazza e stavano aspettando. Aspettavano di trovare il
coraggio di fare, finalmente, quel benedetto test.
“Io non
ce l’ho la forza” ammise lei, alzandosi.
“Figurati
io” commentò l’altro, seguendola.
“Ti va un pezzo di torta? L’ha fatta mia mamma” gli
offrì, aprendo lo scaffale in cucina e prendendo il dolce.
“Sì, mi
piacciono le torte” accettò il ragazzo, sedendosi a tavola. In quel
momento arrivò Emma, che li vide e si bloccò.
“Torta?” le chiese la rossa, sorridendo. Lei la guardò
con gli occhi sgranati, sul punto di dire qualcosa, poi decise di stare zitta e
se ne andò, senza proferire parola. La sorella fissò la porta, confusa.
“Avete
litigato?” chiese Fabio.
“Non che
io sappia. Anche se, da quando sono uscita mercoledì per andare a comprare il
test, si comporta in modo strano. Più tardi, magari, vado a parlarle con una
tazza di cioccolato e una fetta di pane e nutella e vedo se riesco a tirarla su
di morale”
“Servirebbe a noi qualcosa che ci
tiri su di morale. Non abbiamo il coraggio di
affrontare il responso di quello stupidissimo affare” osservò il ragazzo.
“Senti,
facciamo così, finiamo di mangiare e poi controlliamo, ok?” propose
Rea.
“Ok” acconsentì lui. Ma il solo pensiero di quello che
il test avrebbe potuto dire lo spaventava, così si irrigidì. La ragazza se ne
accorse e sorrise.
“Ehi,
non è tutto questo gran problema, tranquillo” gli assicurò, andandogli
alle spalle.
“Che
fai?” le chiese preoccupato. Le sue mani gli
premettero le spalle, iniziando a massaggiarlo lentamente sulla cima della
schiena. Quel tocco lo rilassò.
“Cavolo, che bella sensazione. Sei brava” commentò, facendola ridere.
“Dove hai
imparato?” domandò lentamente. Le dita della ragazza premevano i punti
giusti, sciogliendo la sua ansia e lasciandogli addosso solo un benessere
dolce.
“Non ho mai imparato.
In verità non ho idea di cosa sto facendo” ammise lei.
“E come
fai a… a essere così… brava?” s’informò tra un sospiro e un altro.
“Da piccola facevo il pane e la pizza con mia nonna, così so
come si impastano gli ingredienti e come si spiana poi la base, massaggiandola
con forza fino a farla diventare morbida e elastica. Il principio, più o meno, è quello anche
qui” spiegò.
“Allora
sei una brava pizzaiola” decise Fabio, dimenticandosi per dieci minuti
del bambino.
“Quanto
manca?”
“Sessantacinque secondi”
“Ancora?”
“Smettila! Mi fai venire l’ansia”
Il ragazzo sbuffò e incrociò le
braccia, impaziente. Stavano aspettando il campanello che dicesse loro che il
tempo era finito e che il test era pronto per il responso, ma il timer del
cellulare sembrava non voler squillare mai.
“Hai
pensato a che succederebbe se il risultato fosse positivo?” gli chiese
Rea, appoggiandosi con la testa al letto.
“No,
perché, al momento, non mi rendo conto di poter essere padre, quindi non saprei
proprio come comportarmi. Tu?”
“Io sì.
In realtà è da quando ero piccolissima che sogno di avere una bambina bellissima
che chiamerò Emi”
“Emi?
Perché proprio Emi?”
“Non so. Perché è un nome dolce e simpatico, e sa di zolletta di
zucchero” spiegò
ridendo.
“Tu non
stai bene” osservò Fabio.
“Mai
stata, altrimenti non mi sarei messa con te” ribatté lei, con un’alzata
di spalle.
“Non sei
simpatica” la punzecchiò il ragazzo.
“Ehi,
quella battuta è mia!” si arrabbiò, lanciandogli contro un cuscino. Lui
rise.
“Lo so, ma il copyright non c’è, quindi posso
copiarti. Ha - ha” la prese in giro.
“Sbruffone” lo accusò,
scherzando.
Tornarono entrambi silenziosi e
aspettarono zitti che il tempo passasse. Quando il timer scattò, i loro cuori
persero un battito per uno.
“E
ora?” chiese lui, avvicinandosi al bastoncino di plastica bianco che
avevano messo in terra.
“E ora
guardiamo” rispose la rossa, prendendogli la mano.
In cuor suo nemmeno lei sapeva
cosa stava sperando.
Presero in mano il test e
controllarono la risposta…
“E’ molto bella,
ma papà ci sta aspettando, andiamo”
“Dobbiamo proprio?
Insomma, io non ho voglia di andare a una cena lavat… lavore… uff, a
quella!” la piccola mise il broncio, arrabbiata perché non sapeva
pronunciare una parola più difficile, e sua madre rise.
“Ma per papà è
importante. Tu vuoi bene a papà?”
“Certo!”
rispose prontamente lei. La donna si inginocchiò per essere alla sua stessa
altezza.
“E allora impara
che ogni tanto, per le persone a cui vogliamo bene, dobbiamo sopportare qualche
piccola noia. Se sarai brava stasera ti comprerò un gelato, ok?” le
propose, strizzando l’occhio. Emi si illuminò.
“Davvero?”
chiese estasiata. Lei tese il mignolo e la piccola lo strinse col
suo.
“Promesso”
Fabio sobbalzò e si ritrovò nella
sua camera, sudato e col respiro affannato. Si portò una mano alla fronte per
sentire se era caldo, magari gli era tornata la febbre, ma la sua temperatura
era normalissima. Erano già due giorni che sognava Emi, e non ce la faceva più.
Ogni mattino si svegliava sempre più stanco, terribilmente spossato dagli
incubi. Non poteva andare avanti così.
Si alzò e andò in cucina a
prendere un bicchiere d’acqua. “Certo che quel test mi
ha proprio messo K.O.” pensò, sedendosi a tavola.
Rea sembrava averla presa mille
volte meglio di lui, senza farsi particolari problemi, e aveva sorriso
rassicurante. “Visto? Tutto ok” aveva commentato. Ed era anche
quello che pensava lui, però non capiva comemai non riusciva a capacitarsi del fatto
che il risultato fosse stato quello. Forse si era talmente abituato, in quelle
due settimane, all’idea che la bambina ci sarebbe stata sul serio che ora ne
sentiva la mancanza. Ma poteva essere sul serio così? Cioè, non è che avesse
molto senso come ragionamento. Guardò l’ora: le tre e cinque. Sospirò
sconsolato. “Ho bisogno di sentire Rea” ammise a
sé stesso. Sorrise al pensiero di una canzone che aveva sentito qualche tempo
prima. Com’era?
“Perché sono qui sdraiata sveglia e ti penso?
Ho bisogno di dormire, domani ho da fare, ma tutte le volte che chiudo gli occhi
vedo la tua faccia. Magari leggo un libro, ma tutto ciò che ottengo è continuare
a pensarti […] Alla fine mi serviva solo chiamarti, so che sono le tre del
mattino e che ti ho visto poco fa, ma ho ancora bisogno di sentirti, di sapere
che sei qui. Non mi sembra di avere tante possibilità”
In quel momento squillò il suo
cellulare e lui lo fissò sorpreso.
“Pronto?”
“Sapevo che eri
sveglio”
“Ah sì? E
se fossi stato addormentato?”
“Ti saresti
svegliato. Ma io sapevo che così non era, quindi va
bene”
“E come
lo sapevi, di grazia?”
“Non sei nel tuo
letto” Fabio sgranò gli occhi e si guardò intorno.
“Che ne
sai tu di dove sono io?”
“Sono fuori dalla
tua finestra da dieci minuti che aspetto che tu rientri e mi apra” il
ragazzo schizzò in piedi e si precipitò in camera, dove Rea stava aspettando
pazientemente che la facesse entrare.
“Che
diavolo ci fai qui?” sussurrò per non svegliare i genitori.
“Sinceramente? Non lo so. Mi sono svegliata di soprassalto e
avevo bisogno di vederti, tutto qui” spiegò, togliendosi il cappotto.
“Tu sei
matta” commentò il ragazzo, scuotendo la testa.
“Sì, lo
so, ma che ci vuoi fare? E poi ho avuto gli incubi, quindi non volevo rimanere
sola, per il momento” ammise, arrossendo. “Anche
lei?”
“Che
genere di incubi?” s’informò lui, facendola sedere vicina a lui e
abbracciandola.
“Non mi
ricordo. Era come una visione del futuro, ma più sbiadita” raccontò.
Sbadigliò visibilmente.
“Tu stai
morendo di sonno” la prese in giro Fabio, sdraiandosi con la sua testa
sul petto.
“Per
forza, sono le tre e mezzo del mattino. Posso dormire qui per un po’?” lo
pregò.
“Se
rimetto la sveglia alle sei ce la fai a tornare a casa prima che qualcuno si
accorga che te ne sei andata?” le chiese. Lei annuì, chiudendo gli
occhi.
“Allora
dormi pure”
Qualche giorno dopo, Rea era con
Fabio al parco. Stavano camminando e parlando del più e del meno quando lei tirò
fuori dalla borsa un quaderno e glielo passò.
“Questo
è un regalo” disse sorridendo. Lui la fissò senza capire.
“Cos’è?” chiese aprendolo. In prima pagina, scritto in
bella calligrafia con un verde speranza, c’era scritto “Prendi le mie mani”
“E’ il
primo romanzo che ho mai scritto. Tu sei l’unico che sa di questa mia passione,
e quindi sei l’unico che può leggere il libro e dirmi se va bene. L’ho finito un
paio di settimane fa” spiegò imbarazzata. Il ragazzo sorrise e la
baciò.
“Grazie
per la fiducia” le disse.
“Non è
fiducia, semplicemente non so a chi altro rivolgermi” lo punzecchiò lei,
rossa come un peperone.
“Comunque
grazie” ripeté lui. La ragazza non seppe come controbattere e si
zittì.
Nel frattempo, Emma stava parlando
con Laura.
“Io li
ho visti con i miei occhi!”
“Senti, io glielo chiederei. Non posso credere che Rea sia
capace di fare una cosa simile, non ha senso! Lo sai quanto sia legata ai valori
di amicizia e fiducia, non ti ruberebbe mai il ragazzo”
“Però
è uscita con lui l’altro giorno. Cosa dovrei pensare secondo te?”
“Che
aveva bisogno di ripetizioni?”
“Certo, immagino. Ripetizioni private, per
caso?”
“Ascoltami, parla con lei. È nostra sorella, non farebbe
mai niente per ferirci, soprattutto dopo che ha fatto tanto per aiutarci ad
essere felici. Se è successo qualcosa ce lo dirà” le consigliò la bionda.
L’altra sospirò.
“Non
riesco quasi a guardarla, tanto sono triste. Ormai non parlo quasi nemmeno con
Jason, e questo mi fa stare male. Che devo fare?” chiese disperata.
“Parla con entrambi. È l’unica cosa che mi sento di
consigliarti”
Fabio lesse il quaderno in una
sola notte. Era fluido e scorrevole, e la trama piuttosto avvincente, e non
voleva smettere di andare avanti. Quando lo finì, aveva gli occhi rossi e un
sonno tremendo, però era felice di poterglielo riportare subito. Aveva fatto
qualche correzione qua e là, togliendo un paio di colloquialismi, per il resto
era perfetto. Lo sistemò in cartella, tra il libro di chimica e quello di
inglese, e poi si coricò.
Il mattino seguente, arrivato a
scuola, la aspettò seduto sul suo banco.
“Ehi,
avrei bisogno di posare la roba” lo sgridò bonariamente. Lui tirò fuori
il quaderno.
“Ecco a
te” le disse, scendendo elegantemente. La ragazza lo nascose prontamente,
imbarazzatissima.
“Ma vuoi
farlo vedere a tutti? È privato!” esclamò, mettendolo in cartella e
sigillandola.
“E’ un
semplice quaderno degli appunti, che vuoi che sia?” commentò Fabio,
scoccando un’occhiataccia in direzione di Maria, Matilde e Ginevra, che stavano
ascoltando la conversazione.
“Lascia
perdere. Come ti è sembrato, piuttosto?” gli domandò Rea, iniziando a
respirare più tranquillamente ora che il blocco era nascosto.
“Dipende” rispose lui, sorridendo furbo. La ragazza
sospirò e mise le mani sui fianchi, divertita.
“Cosa
vuoi per dirmelo?”
“Usciamo
insieme oggi pomeriggio?” le propose.
“Dobbiamo studiare, domani c’è compito” gli ricordò.
Il moro ci pensò su un attimo.
“Allora
vieni da me stasera” sussurrò nel suo orecchio. Rea rise.
“Va
bene, Dongiovanni, ma ora dimmi che ne pensi” accettò, tirandolo per un
braccio fuori dalla classe.
Lo zaino rimase sotto al banco,
incustodito.
Quando le sorelle Stevens
rientrarono a casa, Emma si decise, finalmente, a parlare con la rossa. Ci aveva
riflettuto bene e aveva capito che Laura aveva ragione a dire che, se non ci
chiariva subito, rischiava di star male per qualcosa che in realtà non esisteva,
così si era preparata il discorso in testa, aveva pensato alle possibili
risposte della ragazza e aveva cercato di seguire il piano alla lettera.
“Rea,
possiamo parlare?” le chiese, seduta a tavola. Sua sorella la guardò, poi
sorrise.
“Certamente, dimmi pure” accettò, mettendosi davanti a
lei e aspettando.
“Ecco,
hai presente quando l’altro giorno sei uscita di casa per… per andare da
Fabio?” le ricordò. La rossa ricollegò subito quel giorno al test, e
rabbrividì, innervosendosi.
“Sì,
perché?” s’informò, ora un po’ meno a suo agio.
“Tu mi
avevi detto che andavi dal tuo ragazzo, ma eri strana e io… io non ti ho
creduto” ammise. Una strana sensazione iniziò a farsi largo nella mente
di Rea, che si irrigidì. “Vuoi vedere che era così
strana solo perché…”
“E ti
ho seguita” confessò. Abbassò gli occhi un istante, poi li rialzò su di
lei, ferita.
“Che
ci facevi tu da sola con Jason?” le domandò gridando. La ragazza sospirò,
poi sorrise.
“Era
solo per questo che tu non mi hai praticamente rivolto la parola negli ultimi
giorni?” chiese sollevata. Emma la guardò stupita.
“Come?
Che intendi? Rispondi alla domanda!” esclamò confusa.
“Non
esco con il tuo fidanzato, se è questo che mi stavi dicendo” le assicurò
con la sua espressione più rassicurante.
“Che
cosa? E perché eri con lui, allora?” la aggredì. Lei rise nervosamente,
poi distolse lo sguardo.
“Mi ha
aiutata a fare una cosa” rispose criptica.
“E
cosa mai dovevi fare per chiedere aiuto a lui?” continuò a indagare. A
quel punto Rea strinse le labbra come faceva quando non voleva confessare una
cosa.
“Beh, in
realtà… mi serviva un… un…” non riusciva nemmeno a dirlo senza Fabio
vicino che la sosteneva. Arrossì violentemente e Emma si arrabbiò.
“Lo
vedi che il vostro era un appuntamento? Stai cercando una scusa per
mentire!” la accusò. Lei alzò lo sguardo.
“Che
cosa? No, non è vero! Chiedilo anche a Fabio, che sapeva che io dovevo andare
con Jason in città” ribatté. La mora si bloccò.
“In
città? Che diavolo dovevate fare in città?” chiese. La rossa rimase
zitta, e lei continuò a infierire.
“Siete
andati in un motel e avete consumato lì? O avete fatto un giro per le strade
mano nella mano? Io mi fidavo di te, non puoi avermi tradito così! Sei
meschina!” la accusò, sull’orlo delle lacrime. Non resistendo più, Rea si
alzò e batté una mano sul tavolino.
“Smettila! Non dovevo andare ad un appuntamento con Jason. È
tuo, è solo tuo, e io non te lo ruberei mai! Sei un’idiota selo credi sul serio. Io dovevo comprare
una cosa in farmacia” esclamò.
“Questa è la scusa più stupida che tu potessi trovare!
Anche qui c’è una farmacia, lo sai benissimo perché la farmacista è nostra
amica. Perché andare in città?” domandò. La sorella sospirò
sconsolata.
“Perché,
ovviamente, qui non potevo comprarlo o sarebbero andati a dirlo a mamma e papà.
La verità è che io ho rischiato di essere… di essere incinta” ammise a
denti stretti. La mora rimase allibita, in silenzio.
“Scusa
non ho capito bene” disse.
“Mi
serviva un test di gravidanza, ok? E l’unico che poteva portarmi a comprarlo era
Jason, perché non avrebbe parlato. Sarebbe dovuto venire anche Fabio con noi, ma
era malato e non si è potuto muovere di casa. Contenta ora? Io non ti toglierei
mai dalle braccia il fidanzato” le assicurò imbronciata. Emma sentì
sciogliersi il nodo che aveva avuto nello stomaco per tutto quel tempo e rise di
gusto.
“Meno
male, temevo che, per avere delle risposte, avrei dovuto guardare di nuovo il
tuo diario segreto” ammise. Un attimo dopo si maledisse, e Rea sgranò gli
occhi.
“Che
significa di nuovo?” le chiese. Lei agitò una mano per smorzare la
tensione.
“Niente, figurati” rispose minimizzando. Sua sorella
perse un battito quando comprese.
“Tu hai…
hai letto il mio diario segreto?” domandò con un tono di voce ferito.
“Ma
no! Cioè, forse un pochino lo abbiamo letto, ma solo per capire di cosa avevi
bisogno” si scusò.
“ABBIAMO?” gridò la rossa. Sentì le lacrime pungerle
agli occhi.
“N-no,
non abbiamo, ho… io…” Emma si mise a balbettare e cercò di inventare sul
momento una ragione per quello che aveva detto, ma non riuscì a dire niente che
convincesse l’altra.
“Siete…
siete entrate in camera mia e avete tolto il mio diario… i miei segreti… non è
possibile…” sussurrò distrutta.
“Dovevamo farlo! Tu non ci dicevi niente, Fabio era
disperato, io e Laura non sapevamo come aiutarti e questo era l’unico
modo” spiegò.
“Merda” pensò il secondo dopo, quando si accorse di
aver confessato anche per gli altri tre.
Era praticamente chiusa in camera
da tre giorni. Cellulare spento, porta chiusa, finestra sbarrata e mp4 sempre
nelle orecchie per evitare di sentire il mondo fuori. Usciva di lì solo per
mangiare e per andare a scuola. Non riusciva quasi nemmeno a parlare da quanto
stava male e si rifiutava di avere contatti con chiunque non fossero i suoi
genitori. Per qualche motivo si era categoricamente rifiutata di parlare anche
con Johan.
In classe stava taciturna da una
parte e non rispondeva se Emma, Laura o Fabio la chiamavano; faceva il suo e poi
tornava a casa. Era diventata una specie di ombra, un ricordo lontano di sé
stessa.
Tutti e quattro avevano provato,
in un modo o nell’altro, a parlarle, ma lei li fissava vuota e rimaneva in
silenzio, per poi andarsene quando avevano finito di inventare scuse senza
senso. Tanto a che serviva ascoltarli? Erano solo parole al vento.
Inoltre, come se tutto ciò non
bastasse, una mattina aveva scoperto che il quaderno che aveva prestato a Fabio,
quello con il suo romanzo finito, ce l’avevano Maria, Matilde e Ginevra.
Era in bagno, chiusa in un
cubicolo a cercare di calmarsi, a cercare di fermare le lacrime, quando le aveva
sentite parlare.
“Siamo sicure che non sia qui?”
aveva chiesto Maria.
“Sì, non ti preoccupare. L’ho
vista in classe cinque minuti fa a piangere” la rassicurò Ginevra.
“Comunque secondo me è stata una
bastardata togliere quel quaderno dalla sua cartella. Non penso che siano affari
nostri” provò a dire Matilde. A quelle parole Rea aveva allungato un orecchio ed
era rimasta immobile, cercando di non fare rumore.
“Ma via, non facciamo niente di
che! Stiamo solo curiosando. E poi, se devo essere sincera, a me i segreti non
piacciono. Comunque ce l’ho qui, vediamo che scrive nei suoi appunti” disse la seconda. Lei iniziò ad
avere dei dubbi, una specie di sensazione tremenda che partiva dalle viscere.
“No, no, no, ti prego…”
“Prendi le mie mani. Questo avrebbe voluto
urlare Chiara, fragile bambina che cadeva in un abisso infinito. Questo voleva
gridare ai suoi genitori, che non si accorgevano del dolore oscuro che l’aveva
completamente inglobata; questo voleva gridare ai suoi amici, che continuavano a
vivere la propria vita senza rendersi conto che lei si stava trasformando,
giorno dopo giorno, in un essere indefinito e silenzioso. Proprio questo voleva
diventare: un’ombra che cammina tra la gente, che si mimetizza e scompare senza
lasciare traccia sulla terra, che viene risucchiata nelle viscere più profonde
del mondo per farsi dimenticare, per non dare più fastidio a quelli che non la
sopportavano, per non dover più sentire tutto il rumore al di fuori di sé che
spesso la faceva stare male. E provava a estraniarlo, a non ascoltarlo, a non
udire l’urlo di dolore delle persone che le stavano attorno e che gridavano per
la rabbia, la tristezza, la gioia, facendo un chiasso assordante, rimbombante e
terribilmente doloroso. Prendete le mie mani e fatemi rialzare, vi prego. Questa
la sua minuscola ma rumorosa richiesta di aiuto” lesse Ginevra. Rea voleva
vomitare.
“A me non starà molto simpatica,
però devo ammettere che sono parole belle” disse Maria.
“Forse un po’ troppo sofferenti,
per i miei gusti. Ma andiamo! Chi è che vive una vita schifosa in questo modo,
al giorno d’oggi?” chiese Matilde.
“Io” rispose la rossa, prendendo tutto il coraggio che
aveva in corpo. Tutte e tre si immobilizzarono nel vederla uscire dal cubicolo
con gli occhi gonfi e le mani tremanti.
“E se ti
crea qualche problema il mio dolore, sono cavoli tuoi. Restituitemi. Il. Mio.
Quaderno” ordinò. Ginevra le passò il blocco.
“Senti, non volevamo frugare…”
“Nella
mia roba? Ah, scusa, allora questo è finito nelle vostre sudice manine solo per
sbaglio. O, magari, ci è volato da solo” la bloccò. I suoi occhi
mandavano fiamme, ma la sua voce era precisa e calcolata.
“Scusaci” dissero all’unisono. Rea
le sorpassò, poi si voltò a guardarle, ferita ma orgogliosa.
“Scusaci
un cazzo. Tre stronze come voi non dovrebbero leggere certe cose non perché sono
private, no, ma perché siete così oche e impegnate a far vedere quanto siete
belle e troie che sono parole scritte al vento per voi. E non lo potete capire
che significa star male perché le vostre teste sono talmente piene di voi che
non c’è spazio per altro. Avete la profondità emotiva di una forchetta da dolce.
Ma non ve ne importa niente, giusto? Dovevate frugare, farvi gli affari miei e
poi prendermi pure in giro. La sapete una cosa? Volete conoscere me? Benissimo:
il mio ragazzo è uno stronzo, le mie sorelle anche di più, sono rimasta sola e
devo affrontare i prossimi sei mesi di studio senza uno straccio di amico; mi
odio; non faccio che piangere e piangere, giorno dopo giorno, perché non ricordo
più né mia mamma né mio papà, e non sopporto di non riuscire a focalizzare i
loro visi nella mia mente; mi nascondo da tutta una vita da persone orrende come
voi e come i vostri stupidissimi amici e, come se non bastasse, non appena
decido di fidarmi di una persona, questa decide di farmi soffrire. Avete bisogno
di altro? Adesso sfottetemi quanto volete, non me ne importa un accidente delle
vostre stronzate” urlò.
Se ne andò dal bagno lasciandole
lì, basite e in silenzio, poi si mise a correre a più non posso fuori dalla
scuola con le lacrime agli occhi e le gambe tremanti. Voleva solo scomparire
dalla faccia della terra e non tornare più, farsi inglobare dalla strada e
morire lì.
Si chiuse la porta di casa alle
spalle e crollò sul pavimento, sfinita, piangente e tremendamente stanca. Era
scappata da scuola; si era appena tirata dietro l’ira delle tre peggiori vipere
del globo terrestre; non aveva nessuno con cui parlare per fare in modo di
sfogarsi.
“Fa
male… questa solitudine che sento nel cuore mi strazia… che devo fare? Non mi è
rimasto nemmeno un amico, nessuna persona da cui andare… provo una pena
tremenda” pensò. Si trascinò in camera, dove si chiuse, e rimase seduta
in terra in stato comatoso per delle ore prima che sua madre arrivasse a
bussare. Ormai era buio e lei non si era nemmeno resa conto che la stanza aveva
bisogno di luce.
“Rea, tesoro, stai bene? Mi hanno
chiamata da scuola per dirmi che sei scappata. Che cos’è successo?” le chiese
attraverso la porta. A quelle parole le lacrime, che pensava fossero ormai
finite, ripresero a cadere incessanti, facendola singhiozzare forte.
“Rea?” chiamò di nuovo la
donna.
“Vai
via, mamma, ti prego. Non voglio vedere nessuno” la implorò a bassa voce.
Probabilmente lei non la sentì, perché continuò a picchiare sulla porta cercando
di farla uscire di lì.
“Vattene!” gridò infine, distrutta.
“Va’ via
di qui e non mi chiamare più!” le ordinò in malo modo. Sua madre rimase
basita di fronte al suo tono.
“Ma tesoro, è ora di cena, dovrai
mangiare qualcosa…”
“Non ho
fame. Adesso lasciami stare” rispose. E, per la prima volta, la donna
comprese e se ne andò.
Se ne andò sentendo anche lei un
certo dolore al cuore per sua figlia, per quella bambina che aveva accolto in
casa sua. Non la poteva abbandonare, non poteva lasciarla sola di nuovo. Anche
se ammetterlo le faceva male, lei lo sapeva perché non riusciva a rapportarsi
con gli altri. Lo sapeva… e non poteva farci niente.
Probabilmente era notte fonda
quando Rea decise di alzarsi e andare a prendere da bere. La casa era
completamente in silenzio, e le luci erano tutte spente. Magari si erano
dimenticati di lei e tutti continuavano a vivere la propria vita senza pensarla…
e, magari, adesso poteva morire in pace. Era quello che voleva, decise infine:
sparire completamente. Forse così tutto quel dolore sarebbe scomparso. C’era una
canzone che lo diceva. “E l’occhio ride
ma ti piange il cuore... Sei così bella, ma vorresti morire... Sognavi di essere
trovata, su una spiaggia di corallo una mattina dal figlio di un pirata: chissà
perché ti sei svegliata? E il mondo ride se mi piange il cuore...Sei così bella, ma vorresti sparire, in
mezzo a tutte queste facce, come se con te sparisse anche il dolore, senza
lasciare tracce!”
Ma le piccole gocce salate che
bagnarono le sue mani le fecero capire che non era vero, non voleva quello. Non
voleva andarsene, voleva superare la sofferenza, riuscire a non essere sola
almeno per una volta. Avere la forza per perdonare quelli che la facevano star
male… ecco cosa voleva.
“Mamma…
papà… dove siete? Mi sento così sola… sto tanto male…” sussurrò. E non
parlava dei suoi zii, no… stava parlando con i suoi veri genitori, quei due che
l’avevano abbandonata per primi, che per primi se n’erano andati senza dirle
niente. Era sempre stata sola, in fin dei conti. Era sempre stata costretta a
farcela da sola, a contare sulle proprie forze senza chiedere niente a nessuno.
Ma era così stanca. Perché avevano dovuto frugare tra i suoi segreti e farle
questo? Perché rubarle i quaderni? Che idioti. Che stupidi.
Si sedette al tavolo e mise la
testa tra le mani, cercando un modo per stare meglio, qualcosa che riuscisse,
forse, a toglierle un po’ di dolore.
E poi capì. Capì che un posto dove
quella sofferenza poteva essere indebolita esisteva. Era l’unico che poteva
farla star meglio.
Si alzò e uscì di casa, prendendo
solo il giacchetto e infilandosi le scarpe con il pigiama.
La mattina dopo, la prima che si
alzò fu la signora Stevens, che mise la moka a scaldare e poi andò a svegliare
le figlie. Prima si diresse da Laura, che non voleva alzarsi. La donna vide le
matite e i pennarelli sparsi sulla scrivania e capì che aveva fatto le ore
piccole disegnando.
“Forza, devi andare a scuola.
Muoviti” la spronò sorridendo.
“Altri cinque minuti” la implorò la bionda,
coprendosi la testa.
“Se quando torno non ti sei ancora
alzata uso il secchio d’acqua” l’avvertì, aprendo le finestre e facendo entrare
il sole nella camera.
Poi andò da Emma, che aveva tenuto
la musica nelle orecchie tutta la notte. Sapeva che le figlie stavano facendo
del loro meglio per non pensare a quanto si sentivano in colpa nei confronti
della sorella, e quello era il loro modo di esternare il dolore, ma questo non
la faceva comunque stare meglio. Anzi, se possibile, era quasi peggio così.
“Tesoro, è mattino” la chiamò,
scuotendola lievemente.La ragazza
aprì un occhio e sbadigliò.
“Di
già?” chiese assonnata.
“Sì. Forza, devi prepararti” le
disse. Lei si sedette sul letto e si stirò, iniziando piano, piano a
svegliarsi.
“Rea e
Laura sono già in piedi?” s’informò.
“Più o meno sì” rispose sua
madre.
“Ok,
mi vesto e arrivo”
La signora Stevens uscì e si
diresse alla camera dell’ultima ragazza. Bussò un paio di volte alla porta, ma
era chiusa dall’interno e non rispondeva nessuno.
“Rea? Rispondi” le ordinò, ma non
ebbe nessun riscontro. Iniziò a preoccuparsi.
“Ehi, svegliati!” gridò, in preda
al panico.
“Mamma, qualche problema?” le chiese Laura,
arrivando in corridoio. Emma la seguì poco dopo.
“Non mi risponde!” esclamò.
“Starà dormendo. Aspetta, vado a vedere dal
giardino” la rassicurò la bionda, mettendosi un paio di ciabatte e
uscendo nel mattino freddo.
“Rea?
Su, è giorno fatto!” la chiamò col tono più solare che riusciva a fare.
Quando si affacciò alla finestra, però, si congelò: nella stanza non c’era
nessuno.
Rientrò di corsa, col cuore in
gola.
“Non
è in camera!” esclamò. Sua madre e sua sorella sgranarono gli occhi.
“Non è possibile” sussurrò la
donna, mettendosi a cercarla in tutta la casa.
Mezz’ora dopo la ragazza non era
stata trovata, e lei si accasciò a tavola.
“Non ci credo, se n’è andata”
disse, sull’orlo delle lacrime.
“Mamma, aspetta a preoccuparti, intanto chiamo Johan e
Fabio, poi vediamo che fare. Tu non farti prendere dal panico” la spronò
Emma. La donna annuì in silenzio e lasciò che fossero le figlie ad occuparsi di
tutto. Non aveva la forza di alzarsi da lì.
I signori Stevens passarono tutta
la mattina a fare telefonate a destra e manca per cercare la figlia, ma nessuno
sapeva niente. Laura, Johan, Fabio e Emma erano usciti e si erano divisi,
setacciando da cima a fondo tutto il paese, ma non ottennero risultati. Rea era
scomparsa.
A nessuno dei sei veniva in mente
un possibile posto in cui la ragazza potesse essere andata per rifugiarsi, e
nemmeno Jason, che li raggiunse appena poté, fu di qualche aiuto. Sembrava
scomparsa nel nulla.
“Cosa possiamo fare?” chiese la
madre, disperata, camminando per la cucina senza riuscire a
tranquillizzarsi.
“Per avvertire la polizia dobbiamo
aspettare ventiquattro ore, altrimenti non è considerata sparizione, quindi non
possiamo muoverci fino a domani mattina” ragionò suo marito, sospirando.
I ragazzi erano in stato
catatonico, non riuscivano a parlare. Se ne stavano seduti sul divano ad
aspettare una telefonata, colpevoli di averle causato tanto dolore. Non erano
nemmeno in grado di comprendere appieno la cosa e rendersi conto che lei era
scomparsa per causa loro.
“Dovevamo
dirle tutto subito” sospirò, sconsolato, Fabio.
“Secondo te sarebbe cambiato qualcosa? Quella testona, se
possibile, si sarebbe arrabbiata anche di più” commentò Laura. Teneva la
mano del suo fidanzato stretta nella sua e cercava un motivo per calmarsi.
“Ma forse
potevamo cambiare qualcosa, ammettendo subito la colpa! E poi, nonostante
sapessimo quanto stava male perché si sentiva abbandonata, ferita e delusa,
nella nostra arroganza abbiamo peggiorato la situazione. Penso che se ne sia
andata e con ragione” ragionò il ragazzo, prendendosi la testa tra le
mani. Emma, che era rimasta zitta fino a quel momento, sbottò.
“Certo, infatti! È colpa nostra se lei è un’idiota, vero?
E’ colpa nostra se le piace farsi del male! Dall’inizio non faccio che pensare a
quanto sia stupido che lei creda di essere stata sempre sola e abbandonata,
visto che ha noi, ma non fa altro che essere compatita e compresa! Peggio per
lei!” gridò.
Sua madre arrivò dalla cucina e le
dette uno schiaffo in pieno viso, con le lacrime agli occhi. La ragazza rimase
basita da quel gesto inaspettato, ma vide la rabbia negli occhi della donna e
non ribatté.
“La stupida sei tu, Emma” le
disse. Alzò lo sguardo per puntarlo nel suo.
“E’ normale che si senta
abbandonata! Non ci hai mai pensato, vero? Non hai mai riflettuto sul fatto che
lei è un’orfana, che i suoi genitori sono morti quando aveva quattro anni e che
è sola da allora! Non lo sai, vero, che significa perdere qualcuno di così
prossimo? Io me la ricordo la piccola Rea in lacrime che veniva da me durante la
notte e piangeva disperata perché mamma e papà l’avevano abbandonata. E io che
tentavo di non piangere, di farle vedere che andava tutto bene, e di
tranquillizzarla perché no, non era vero che loro l’avevano lasciata lì per
volontà, se n’erano andati perché l’aveva voluto qualcun altro. E come glie lo
spieghi, a una bambina di quattro anni, che i genitori sono morti? Lo sai cosa
significa? Io sento la mancanza di mia sorella ogni giorno, figurati lei” le
spiegò. Emma si toccò la guancia, poi si mise a piangere disperata, gettandosi
tra le braccia della madre.
“Lo
so!” ammise in lacrime.
“Lo so
che ha sempre sofferto, e non dovevo dire niente, dovevo stare zitta, così non
avrebbe provato più dolore di quanto non ne provi da sola, ma non sono riuscita
a pensare, non volevo! Non volevo che piangesse ancora, che pensasse di nuovo di
essere sola. È colpa mia” disse. La donna l’abbracciò, stringendola
forte.
“Si aggiusterà tutto” le promise.
Anche Laura si avvicinò a loro, tremando, e si unì a loro. Era un dolore comune,
quello di aver perso Rea, e insieme, forse, potevano sopportarlo meglio.
Mezz’ora dopo nessuno aveva ancora
dato notizie della ragazza. Fabio sapeva che c’era un dettaglio che gli
sfuggiva, qualcosa di evidente ma che non riusciva a vedere. Eppure era così
semplice.
Entrò in camera sua e si guardò
intorno: i vestiti erano sulla sedia; il letto era completamente fatto, segno
che non aveva assolutamente dormito; i suoi quaderni erano sparsi sulla
scrivania, come sempre, e un libro di poesie era aperto in terra, con il segno
su una pagina tutta piegata. Prese in mano il volume e lesse.
Non sto pensando a niente
Non sto pensando a niente, e questa cosa centrale,
che a sua volta non è niente, mi è gradita come l'aria notturna, fresca
in confronto all'estate calda del giorno.
Che bello, non sto pensando
a niente!
Non pensare a niente è
avere l'anima propria e intera. Non pensare a niente è vivere
intimamente il flusso e riflusso della vita... Non sto pensando a niente.
E' come se mi fossi appoggiato male. Un dolore nella schiena o sul
fianco, un sapore amaro nella bocca della mia anima: perché, in fin dei
conti, non sto pensando a niente, ma proprio a niente, a
niente...
- Fernando Pessoa
“Da
quando in qua leggi Pessoa?” le chiese, ipoteticamente. Rimise a posto il
libro, chiudendolo per bene e appoggiandolo sul letto, poi si sedette alla
scrivania e sfogliò distrattamente le pagine, senza leggerle sul serio. Non gli
importavano più i suoi segreti, ormai. Aveva solo peggiorato le cose nel voler
entrare a tutti i costi nella sua vita, lo sapeva benissimo. Vide una poesia
scritta a mano da lei sul diario.
“Dieci cose che
odio di te –dal film” era il titolo.
“Odio il modo in
cui mi parli. E il tuo taglio di capelli. Odio il modo in cui guidi la mia
macchina. Odio quando mi fissi. Odio I tuoi stupidi anfibi. E il modo in cui
leggi la mia mente. Ti odio talmente tanto che mi fa star male - E mi fa
anche scrivere poesie. Odio il modo in cui hai sempre ragione. Odio quando
menti. Odio quando mi fai ridere - ancora peggio quando mi fai
piangere. Odio quando non ci sei. E il fatto che tu non abbia chiamato. Ma
la cosa che odio di più è il fatto che io non riesca a odiarti - nemmeno
lontanmente, nemmeno un po', proprio per niente.”
E, subito accanto, un suo appunto.
“Stupido Fabio!” sorrise nel leggere ciò, e
rise di gusto nel pensarla che scriveva quella frase. Per un istante gli parve
che fosse lì. “Lo vedi, a fare di testa tua? Io ti
avevo avvertito di non ferirmi, idiota!” gli avrebbe detto col suo tono
arrogante e arrabbiato. Gli mancava. Gli mancava più di quanto avrebbe mai
potuto ammettere, più di quanto avrebbe mai potuto pensare. Lo sentiva nelle
ossa.
“Dove
sei?” le chiese. E poi, sfogliando il diario la trovò. Trovò quel
tassello mancante che aveva avuto davanti tutto il tempo. La prese e corse in
cucina.
“Non è possibile” disse la signora
Stevens, allontanando il foglio.
“Sì,
invece. Ecco dov’è, lei è qui” continuava ad affermare Fabio con
convinzione.
“Ma non ha senso! Non è mai voluta
venire con noi per non piangere” lo contraddisse il padre.
“Pensate
che potrebbe stare peggio di come sta già?” domandò retoricamente.
“No, però è comunque strano”
ammise la madre.
“Ascoltatemi, se ragioniamo come ragiona lei non è così
strano. Rea sta male, e tutti sappiamo che il suo dolore principale, anche se
non lo ammette, viene da qui. Viene da questo momento particolare della sua
vita, che lei ha vissuto come qualcosa che non le appartiene davvero. E, dato
che tutto parte da qui, da quest’avvenimento, è qui che lei è andata a ritrovare
le risposte. Qui l’ha riportata la sua vita” spiegò. Si guardarono tutti
confusi, poi la donna annuì.
“Ok, va bene, ammettiamo che sia
come dici tu. Come facciamo per riportarla a casa? Lei se n’è andata di sua
spontanea volontà, non credo che sia disposta a tornare così semplicemente,
altrimenti sarebbe già rientrata” domandò.
“Noi non
faremo proprio un bel niente. Siete voi a doverci parlare, signora Stevens. Lei
e suo marito, o anche solo uno dei due. Se c’è qualcuno che può capirla e
aiutarla, siete solo voi due” le rispose. I due si guardarono
preoccupati, ma sapevano che quel ragazzo aveva ragione.
Sospirò e si alzò.
“Va bene, ma se non la troviamo
nemmeno lì cosa possiamo fare? Dove possiamo cercare?” chiese. Fabio le mise una
mano sulla spalla.
“Ci
penseremo poi, ma io sono sicuro che lei è lì ad aspettare qualcosa. O qualcuno,
non so. Forse sta solo cercando le risposte che le servono per sorridere di
nuovo, o forse sta pensando a come fare per essere felice, ma io sento che lei è
lì. E l’unica che può aiutarla è lei” le assicurò. La donna lo abbracciò
forte.
“Sei un caro ragazzo, non importa
ciò che Rea pensa. E sono sicura che perdonerà tutti voi, una volta fatta
chiarezza nella sua vita” gli disse.
Lei e il marito si misero i
cappotti e uscirono di casa, infilandosi nel freddo di gennaio. Lanciarono la
macchina a tutta velocità sulla strada, per poi parcheggiare in malo modo
davanti al gigantesco cancello di ferro. L’uomo prese la mano alla moglie.
“Spero che stia bene” ammise. Lei
sorrise.
“Sono certa che sta bene, come
sono certa che tornerà a casa con noi” lo tranquillizzò.
“E se non volesse? Ha diciotto
anni e può decidere di andarsene” chiese preoccupato.
“Non lo farà. Sa di essere amata
come e più di Laura e Emma, sta solo passando un momento in cui non regge più il
dolore che ha in corpo. Ha bisogno di piangere fino allo sfinimento, stavolta
con qualcuno che l’ascolti e la conforti. È di questo che nostra figlia ha
bisogno” affermò convinta.
“Però lei non si considera nostra
figlia” ribatté l’uomo. La signora Stevens lo guardò dritto negli occhi.
“Non mi interessa ciò che pensa,
ciò che dice o ciò che fa, Rea è, è stata e sarà sempre mia figlia. L’ho
promesso a mia sorella, che mi sarei presa cura di lei fino alla morte, e non
intendo venir meno alla promessa fatta. Era il nostro patto di sangue: l’una per
l’altra, ora e per sempre. E so che ciò che vorrebbe Valeria non è che noi
lasciamo sola quella bambina che amava tanto” lo sgridò. Lui sospirò.
“Hai ragione, tesoro” ammise,
baciandola lievemente. Si strinsero le mani.
“Sei pronto?” gli chiese la donna,
sentendo il cuore battere forte. L’uomo annuì.
“Andiamo a riportare a casa nostra
figlia” le rispose, varcando il cancello.
I piedi di Rea si erano mossi da
soli, lei non si rendeva quasi conto di dove stava andando. Era notte fonda, ma
non aveva paura come al solito, perché, se anche le fosse successo qualcosa, non
le importava. Ormai non le importava più di nulla, voleva solo trovare un modo
per stare meglio.
Probabilmente era troppo presto,
perché i cancelli erano ancora chiusi e non c’era nessuno nei dintorni, così si
sedette sul muretto del marciapiede e attese. Faceva freddo e si strinse nel
pesante giacchetto che aveva addosso. Non era l’ideale avere solo quello e il
pigiama indosso a gennaio e, soprattutto, alle sei del mattino. Nemmeno il sole
era ancora uscito fuori, figuriamoci.
Rimase in attesa quasi un’ora,
sentendo le ossa congelarsi e la gola dolere. Forse non era stata una buona
idea, in fin dei conti.
Il guardiano arrivò intorno alle
sette, e sgranò gli occhi quando la vide.
“Non sei mai venuta” la salutò. Lo
conosceva, per caso?
“Come
scusi?” chiese confusa. L’uomo le prese il viso e la guardò.
“Sapevo che prima o poi saresti
arrivata. Lo avevo detto a tua zia” le spiegò. Pareva sapere chi lei fosse.
“Ma mi
conosce?” s’informò la ragazza, leggermente preoccupata. Il signore annuì
gravemente.
“Io mi ricordo di te” rispose,
lasciandola andare. Aprì un piccolo casotto e vi entrò, per poi uscirne con una
coperta in mano.
“Sei congelata, mettiti questa” le
disse, coprendole le spalle. Rea era stupita da tanto calore, ma non proferì
parola.
“So perché sei qui, quindi
seguimi” le ordinò. Non aveva senso, tutto questo non aveva nessun senso, ma la
ragazza era stanca e affaticata, e non ce la faceva a controbattere.
Le pietre, alla luce della
lanterna del guardiano, erano spettrali. “Bel gioco di parole” commentò la sua
testa. Le parole incise sopra di esse brillavano quando loro passavano, evocando
nomi di persone scomparse. C’era un senso tremendo di morte e nostalgia, lo si
poteva quasi toccare con mano.
“Le tombe sono quelle” le indicò
l’uomo, illuminando due lastre di marmo nero. Sopra c’erano le foto dei suoi
genitori, sorridenti e spensierati.
Vivi. Le venne da piangere a vederli lì, in quelle due piccole cornici
bianche un po’ consumate dalle intemperie.
Si inginocchiò di fronte alle
lapidi e lesse la scritta. Era la stessa per entrambi.
“Qui riposano
Valeria e Francesco. Amici validi, genitori stupendi e persone meravigliose. Con
tutto l’affetto di questo mondo” pronunciò Rea ad alta voce.
“Tua zia viene qui ogni settimana
a cambiare i fiori” la informò il guardiano, indicandole i due vasi di rose che
riposavano placidi vicino alle foto. Erano così belle che stonavano in quel
posto.
“Può
lasciarmi sola?” gli chiese la ragazza, guardandolo supplicante.
“Sei hai bisogno vieni pure a
cercarmi, io sono qui vicino” le rispose lui, andandosene.
Una volta rimasta sola, lei si
mise a piangere.
“Mamma…
papà…” sussurrò con voce tremante. Dio, quanto gli mancavano. Erano un
pezzo del suo cuore che si era staccato ed era rimasto lì, sepolto nel marmo.
Come mai loro per primi l’avevano abbandonata? Non era giusto che una bambina di
quattro anni rimanesse sola così, da un giorno all’altro.
Si sentì mancare il respiro e il
cuore iniziò a batterle forte in petto. Forse stava morendo. Era il posto
migliore, in fin dei conti, un cimitero. Ma non voleva. Nonostante pensasse di
voler far terminare quel dolore che la stava consumando dall’interno, non voleva
assolutamente morire. Doveva combattere contro sé stessa per riuscire ad
arrivare almeno dal guardiano, ma non riusciva ad alzarsi in piedi.
“Aiuto…” sussurrò. Strinse i denti e, con tutta la
forza che aveva in corpo, aprì la bocca.
“Aiutatemi!” esclamò, sperando che l’uomo la sentisse
e andasse da lei. Fu l’ultimo sforzo che riuscì a fare prima di accasciarsi
sulla tomba di sua madre.
Riconosceva il posto in cui si
trovava. Era la sua vecchia casa, quella in cui era stata per i primi anni della
sua vita. E lei era in camera sua, sdraiata nel piccolo letto rosa e bianco in
cui, tante volte, aveva ascoltato sua madre cantare le ninnananne per lei.
Strano però… si ricordava che fosse molto piccolo, adatto a una bambina di
quattro anni. Va bene, non era proprio enorme, a diciannove anni era piuttosto
piccina, ma non era possibile stare così larghi in una brandina per infanti.
Si mise a sedere e si guardò
intorno, per capire come mai tutto fosse esattamente della stessa misura di
allora, e gridò quando si vide riflessa nello specchio.
“Oddio mio!” esclamò. Si toccò i
capelli, lunghi e sottili, e si guardò le mani, piccole e affusolate. Che
diavolo, non aveva i capelli lunghi da decenni! Ormai li portava poco sotto alle
spalle, non più fino a fine schiena come allora.
“Ti sei svegliata” osservò una
voce dalla porta. Lei sobbalzò e si voltò spaventata.
“Ma…
mamma?!” chiese stupita. Era proprio lei: i capelli neri corti fino al
collo; gli occhiali celesti che contornavano le iridi color nocciola, più chiare
delle sue; il maglione azzurro che la faceva sembrare piccolissima al suo
interno e i pantaloni rossi che cozzavano tremendamente con la maglia, ma che a
Rea erano sempre piaciuti perché erano suoi, e profumavano di lei.
La donna annuì sorridendo, a aprì
le braccia per accoglierla quando Rea si precipitò ad abbracciarla.
“Mamma,
mamma, mamma…” continuava a ripetere. Le arrivava a mala pena alla
pancia, ma la stringeva forte anche se aveva solo quattro anni ed era minuscola.
Non voleva più lasciarla andare.
“Mamma,
ho fatto un sogno terribile! Ho fatto un incubo” le disse piangendo. La
donna la allontanò e si inginocchiò di fronte a lei.
“Come sei bella, tesoro mio” le
rispose. La ragazza non capì quella risposta.
“Immagino che tu veda una bambina
di quattro anni, vero?” le chiese sua madre, sorridendo. Lei annuì.
“Oh, piccola mia. Quanto mi sei
mancata” esclamò, abbracciandola ancora.
Rea non fece domande, ma pianse
aggrappata al suo collo, in silenzio.
“Ciao amore” disse un uomo,
arrivando dal corridoio. Lei sgranò gli occhi e si allontanò da Valeria, che si
asciugò una lacrima e la spinse verso di lui.
“Papà!” esclamò la rossa, stringendo anche Francesco.
Erano lì, c’erano sul serio: i suoi genitori erano vicini a lei e la stavano
abbracciando, le stavano sorridendo davvero. E lei piangeva, di felicità, perché
era stato tutto un sogno, lei non era un’orfana, ma aveva un padre e una madre
biologici, non li aveva perduti mai.
Dopo un tempo infinito in cui
tutti e tre erano rimasti in silenzio, la donna fissò il marito.
“Rea, tesoro, ci sei mancata
tanto” le disse, asciugandole le guance rosee.
“Ma non
mi sono mossa! Però ho avuto un incubo tremendo!” ribatté lei, tirando su
col naso. I due si guardarono un attimo, poi si inginocchiarono a terra per
essere alla sua altezza.
“No, amore, non è così” la
corresse il padre. La ragazza non capì.
“Sì, è
così. Io ho sognato che voi eravate morti, che io rimanevo sola e che zia e zio
mi adottavano. Però stavo tanto male e volevo morire…” spiegò, sentendo
formarsi un groppo in gola.
“Piccola mia, devi aver sofferto
così tanto” commentò sua madre. Qualche lacrima scese dai suoi occhi, ma se le
asciugò subito e tornò a sorridere.
“E ci dispiace davvero molto”
aggiunse il marito, abbracciandola di nuovo. Rea si allontanò bruscamente e li
guardò con gli occhi sgranati, scuotendo la testa.
“No, non
dovete dire così. Voi siete qui, era un incubo, non… non è successo sul
serio” balbettò in preda al panico.
“Questo è un sogno, amore. Solo un
sogno” le spiegò sua madre.
“No! No,
non lo è! Io non ho sofferto, voi non siete mai morti… io ho quattro
anni…” si mise a piangere, disperata e triste.
“Questo
non è un sogno” sussurrò, sperandoci sul serio.
“Ci dispiace, Rea. Ci dispiace che
tu abbia provato tanto dolore, e ci dispiace che tu sia rimasta sola così
giovane, siamo così tristi nel pensare che hai affrontato gli ultimi quindici
anni senza di noi” disse il padre. Lei si tappò le orecchie.
“Non
voglio sentire! Voglio che questa sia la realtà, che sia tutto vero!”
gridò. Però sapeva benissimo che non era così, che tutto ciò era solo una sua
fantasia. Loro erano stati strappati al suo abbraccio da un incidente, e non
poteva negarlo nemmeno volendo.
“Ma non
lo è, giusto?” sussurrò poi, abbassando le mani. Alzò gli occhi su di
loro, su suo padre e sua madre, e le lacrime le annebbiarono la vista quando
loro annuirono.
“Capisco” disse semplicemente. Rimase in silenzio a
fissare la sua immagine riflessa nello specchio, e si sentì morire: era tutto
come allora. Tutto quanto come quindici anni prima, dal suo corpo alla sua
stanza. Ma era tutto finto, era tutto solo una stupidissima immaginazione della
sua mente.
“Quindi
cos’è questo? C-come mai voi siete qui?” domandò, arrabbiata. Valeria le
mise una mano sulla spalla e la fece voltare verso di sé.
“Tesoro, sei stata tu a volerci.
Anche se non te ne sei resa conto, anche se hai rifiutato, in tutti questi anni,
di ammettere di soffrire per noi. Questa è tua, vero?” le passò la lettera che
aveva scritto il mese prima, e Rea la prese con le dita tremanti.
“Voi mi
avete abbandonata…” balbettò, ferita e triste. Lanciò il figlio in terra,
poi li fissò.
“Perché
ve ne siete andati? Perché mi avete lasciata sola? Non volevo questa vita, non
volevo che voi mi lasciaste, non volevo che zio e zia diventassero i miei
genitori. Io volevo voi, volevo solo voi! Ma non ci siete stati… e mi siete
mancati così tanto da stare male, da desiderare di raggiungervi in qualche modo.
Perché dobbiamo separarci ogni volta?” gridò isterica. Se quello era un
sogno avrebbe dovuto svegliarsi, lo sapeva, ma non voleva lasciarli ancora.
“Non è così” le assicurò il
padre.
“Noi non avremmo mai desiderato
lasciarti, e penso che tu lo sappia benissimo. Tu ci sei stata strappata via con
una tale forza che non ce ne siamo nemmeno accorti, ma non ti abbiamo mai
abbandonata, nemmeno una volta, nemmeno per un secondo. C’eravamo, sai? Quando
sei andata per la prima volta alle elementari… quando, di notte, canticchiavi le
ninnananne di quando eri bambina… quando scrivevi sul tuo quaderno i tuoi primi
romanzi, e anche quando hai incontrato Fabio. Ci siamo sempre stati” le
raccontò, con un sorriso malinconico sul viso immutato.
“Ma io
volevo abbracciarvi! Avrei voluto che tu, papà, mi stringessi quando tornavo a
casa con un brutto voto, e che la mamma mi assicurasse che sarebbe andato tutto
bene anche quando pensavo di non farcela… era questa la vita che volevo”
ammise tra le lacrime. Si sentiva piccola davvero, adesso.
“Però avevi mia sorella e suo
marito” le ricordò Valeria, sorridendo. Rea la fissò.
“Ma non
sono voi. Loro sono i miei zii, non sono voi. E Laura e Emma non sono mie
sorelle, sono le mie cugine. Questa è la verità, questa è la realtà dei fatti.
Io sono un ospite in quella casa” confessò.
“Non è vero” la rimproverò
Francesco.
“Loro ti hanno amata come se tu
fossi sul serio una Stevens. Come se tu fossi sul serio figlia loro, parte
integrante della famiglia. E anche quando pensavi di essere sola, si sono mossi
tutti per aiutarti, per non lasciarti cadere nel buio della tua disperazione.
Pensaci un secondo: per quanto sbagliato, Emma e Laura si sono esposte per
capire di cosa avevi bisogno per sorridere ancora” le fece presente. Ed era
vero, Rea lo sapeva, ma scosse comunque la testa.
“Io non
voglio tornare là” disse semplicemente. Entrambi i suoi genitori
sorrisero.
“Piccola mia, la vita non è
semplice, questo è vero. E lo so come ci si sente a sperare di morire, per non
soffrire più, per calmare quel vuoto che si ha nel petto. Non puoi capire quanto
io lo abbia chiesto quando avevo la tua età. Ma ora so che non è così che
funziona. Tu potresti tranquillamente toglierti la vita, questo lo sappiamo. Il
tuo grido di dolore ha raggiunto anche noi. Però non faresti altro che fare del
male a quelli che ti amano” la sgridò sua madre.
“Io non
ho qualcuno che mi ama. Le persone di cui mi sono fidata mi hanno tradita… Fabio
mi ha delusa… sono sola senza di voi!” ribatté.
“E mia sorella? Suo marito? Emma e
Laura ne soffrirebbero come pazze, lo sai. Se te lo diciamo noi che morire non è
la soluzione migliore, devi fidarti. Non sai quanto ci sentiamo male per averti
lasciata laggiù, Rea, non te ne rendi nemmeno conto. Tu eri la ragione della
nostra vita, il motivo per cui sorridevamo, la bambina che tanto avevamo cercato
e amato, e siamo stati portati via con violenza inaudita. Non sappiamo nemmeno
dove siamo, qui, ma possiamo starti accanto nonostante tutto, e tanto ci basta.
Ti abbiamo voluto così bene che non puoi nemmeno immaginare, e ti abbiamo donato
questa vita che tu adesso odi, ma non devi. La vita non si odia, non si deve
odiare mai, perché un giorno può capitare che ti venga tolta senza che tu abbia
finito di viverla, e non sai come rimediare. Io so che questo lo capisci, perché
sento che in cuor tuo sai che abbiamo ragione. Ti prego, ti imploro, non buttare
al vento la tua vita” le disse sua madre. Rea si sentì tanto meschina, tanto
cattiva nei confronti di tutti, che cadde a terra inginocchiata.
“Mi
dispiace” sussurrò, singhiozzando. Sentì il caldo abbraccio dei suoi
genitori e rimase ferma fino a quando le lacrime non furono asciugate, fino a
quando il pianto non lasciò spazio solo a una grande stanchezza.
“Mi
sento… strana…” ammise. Le forti braccia di suo padre la presero in
braccio e la fecero sdraiare sul letto, coprendola con la sua profumata coperta
rosa.
“Sai, sei diventata una ragazza
splendida. E ci manchi sempre. Ma ricordarti che siamo con te, sempre e
comunque. Non dimenticarlo mai” la salutò, scomparendo lentamente.
“No, non
andartene” sussurrò lei, allungando una mano.
“Siamo qui, tesoro. Non ti
abbandoniamo” le promise sua madre, lasciando un dolce bacio sulla fronte.
“Mamma…
papà…” li chiamò, ma gli occhi le si chiudevano, e la sua stanza stava
lentamente sparendo.
“Vi
voglio tanto bene….” li salutò, svenendo subito dopo.
Stavolta aprì gli occhi in un
luogo che non conosceva. Era una piccola catapecchia di legno, che puzzava di
muffa e di vecchio.
“Dove
sono?” chiese.
“Ben svegliata,
piccola Simons. Era l’ora che
tu riprendessi conoscenza” la salutò il guardiano del cimitero. Rea sentì
il cuore battere forte.
“Come mi
ha chiamata?” gli chiese. Erano secoli che non sentiva quel nome, l’aveva
quasi dimenticato.
“Tu sei la
figlia di Valeria e Francesco, giusto? La piccola Rea Simons. Mi ricordo di te, anche se non
posso dire che tu ti ricordi di me” rispose. Era vero, lei non aveva idea
di chi quell’uomo fosse e di come mai la conoscesse tanto bene, però, per
qualche ragione, non ne era spaventata.
Lo osservò per bene: i suoi
capelli radi erano bianchi, e il viso era stanco e rugoso. Aveva le mani
tremanti e la postura non del tutto dritta, e il respiro faticoso di chi fuma
molto ed ha, ormai, una certa età.
“L’ho
mai vista?” domandò la ragazza, cercando di focalizzarlo per bene. Lui
rise malinconico.
“Oh sì, tesoro
mio. Ma eri così piccina e indifesa che non mi stupisce
che tu non mi riconosca” le rispose, mettendo a bollire un pentolino.
“E quando? Come fa lei a sapere chi sono io?”
continuò a chiedere.
“Avevi quattro
anni ed eri così carina nel tuo vestito nero con il pizzo. Avevi i
capelli legati in due codini ai lati della testa e tenevi stretta la mano di tua
zia. Non piangevi nemmeno, mi ricordo che guardavi distrattamente la fossa in
cui due tombe di legno stavano per essere messe e tirasti la sua gonna,indicandole, e chiedesti a lei
come mai mamma e papà andavano via” raccontò. Rea sgranò gli occhi.
“Lei era
qui?” si stupì.
“Bambina, io
lavoro qui da trent’anni. Ho visto passare da queste parti persone di
ogni genere: famiglie distrutte dalla perdita di un figlio; uomini morti in
solitudine al cui funerale non viene nessuno; vecchi che, arrivati alla fine
della loro vita, se ne vanno in silenzio per non disturbare. Ma tu eri la prima
che vedevo che rimaneva senza entrambi i genitori, che nemmeno aveva l’età
giusta per capire cosa stesse succedendo. Mi sembravi così
alienata, in mezzo a tutti quegli adulti che non facevano che piangere, che ti
presi con me e ti portai qui” disse. La ragazza chiuse gli occhi e cercò
di ricordare quella mattina, ma non ci riusciva: aveva davanti solo il momento
in cui sua zia le aveva detto che l’avrebbe presa con sé.
“Ti detti un po’ di torta al
cioccolato, e ti feci rimanere qui fin quando gli invitati al funerale non se ne
furono andati. Sembravi non accorgerti di dove fossi e di cosa stesse
succedendo”
“Davvero
è successo tutto questo?” gli domandò Rea. L’uomo annuì.
“Sì, e tu mi dicesti una cosa
buffa. Mi dicesti certo che mamma e papà
sono strani. Martedì mi hanno detto che tornavano per cena e mia zia stamani
diceva che non torneranno più. Pensavo che la vacanza sarebbe
durata di meno” le raccontò,
ridendo. La ragazza ricordava quelle parole, non le erano
nuove.
“E’… è
vero… e lei mi rispose che non erano in vacanza, che semplicemente si erano
trasformati. Adesso, invece che starti
vicini e abbracciarti, ti seguiranno dall’alto, mi disse”
“Sì, proprio come due angeli
bellissimi” ammise il guardiano.
“E io le risposi che agli angeli non avevo mai
creduto. Non importa, loro saranno con te anche se
non li vedrai. E un giorno, forse, potrai rivederli, aveva ribattuto” si ricordò
infine.
“Esatto, piccola
Simons. Provavo una tale pena a pensare che tu,
così giovane, fossi rimasta orfana, e volli dirti qualcosa che ti aiutasse a non
stare male. Dopo non ti ho più vista. Tua zia è venuta ogni settimana a portare
i fiori sulla tomba della sorella, e ogni volta piangeva disperata. Quanto sente
la mancanza di Valeria. Ogni volta mi dice che, guardando te, vede la sua
sorellina, vede lo stesso sguardo dolce ma aggressivo che aveva lei. E dice che sei stata una benedizione, perché tu l’hai fatta andare
avanti dopo che lei è morta” spiegò. Spense il pentolino e mise in due
tazze l’acqua calda, aggiungendoci, poi, due bustine di tè.
“Prendi
questo. Non so quanto tu sia stata fuori casa al
freddo, ma mi sei sembrata piuttosto congelata” le disse. Rea prese la
bevanda e si scaldò, tenendola tra le dita infreddolite.
“Grazie” rispose. Rimasero in silenzio per un po’,
ognuno perso nei propri pensieri.
“La zia
stava male, per il fatto che io non l’accompagnassi?” chiese infine la
ragazza.
“Non le faceva
piacere che tu perdessi il ricordo dei tuoi veri genitori, ma sapeva che era la
cosa giusta per te. Tu sei sempre risultata molto matura per la tua età,
o almeno così mi dice lei, e tutti sanno che ciò che decidi per la tua vita è
ciò che è giusto per te. Lei ha sempre rispettato il tuo modo
di porti davanti al dolore” spiegò. Rea si sentì cattiva per aver pensato
di essere sola al mondo, e le veniva voglia di scappare da lì e tornare a casa.
Casa… cavolo, da quanto tempo mancava di casa?
“Devo
rientrare!” esclamò all’improvviso, scendendo dalla brandina. Il
guardiano la fissò.
“Scusa, non ho capito” ammise.
“Che ore
sono?” domandò la ragazza.
“Le quattro e mezzo, più o meno”
rispose. Lei sbiancò.
“Del… del
pomeriggio?” chiese. L’uomo annuì.
“Sono uscita di casa dodici ore fa! I miei si saranno preoccupati! Cavolo,
sono un’idiota” spiegò, infilandosi il
cappotto.
“Aspetta,
ragazzina. Fuori fa freddo, e presto sarà buio. Se hai
pazienza di aspettare un’ora ti ci riporto io” la fermò lui, prendendola per un
braccio. Rea s’immobilizzò, combattuta, però poi pensò che tanto ormai aveva fatto il danno, quindi tanto valeva
prendere la palla al balzo e non rimanere fuori a meno due gradi in pigiama.
“Ok, va
bene” accettò.
I signori Stevens cercarono la
ragazza in tutto il cimitero, ma non la trovarono. Si divisero, anche, per
riuscire ad avere una possibilità in più di ritrovarla, ma non ci riuscirono.
Alla fine, quando tornarono a casa, erano disperati e scoraggiati.
Laura e Emma li aspettavano
trepidanti, preoccupate e speranzose.
“Allora? Dov’è Rea?” chiesero non appena i
genitori furono in casa. Loro si guardarono e scossero
sconsolati la testa, guardandole affranti.
“Non è
possibile!” esclamò Fabio, arrabbiato.
“Noi abbiamo guardato ovunque, ma
lei non era lì” spiegò la madre, sedendosi sul divano, distrutta. Il ragazzo
s’infuriò.
“Sono certo che sia andata là! Me lo sento” ribatté.
“Probabilmente
ti sei sbagliato. Apprezziamo il tuo aiuto, ma,
purtroppo, anche questa traccia è svanita” gli disse il padre. Non era
plausibile, che Rea non fosse al cimitero.
“Scusatemi” salutò uscendo di casa. Si mise a correre e
nemmeno lui sapeva come mai. Semplicemente correva verso di lei, verso la sua ragazza.
“Comunque è stato molto gentile, sul serio. Grazie per avermi accudita” stava dicendo la rossa al guardiano mentre lui
chiudeva i cancelli.
“Figurati, piccola Simons” minimizzò lui. Lei strinse le labbra e ci pensò su
un attimo.
“Senta,
posso chiederle un favore?” domandò.
“Certo, dimmi”
“Io… io non sono una Simons da
quindici anni ormai. E, per quanto
questo mi faccia soffrire, devo lasciar andare quella me stessa. Per cui, se non le è troppo difficile, potrebbe chiamarmi piccola
Stevens o… o solo Rea?” lo pregò
imbarazzata. L’uomo rise e annuì.
“Non preoccuparti, me ne
ricorderò” le assicurò. L’ultimo lucchetto scattò, e il cimitero cadde nel più
profondo silenzio.
“Mette i
brividi” commentò la rossa, tremando. Il sole, ormai, era caduto oltre
l’orizzonte, e il vento le sferzava i capelli.
“Sa
quanti gradi sono?” s’informò, cercando di scaldarsi con le mani.
“Meno tre, meno
quattro, più o meno. Non preoccuparti, piccola Sim…
ehm, piccola Stevens, tra poco ti riporto a casa” le rispose
rassicurante. Lei sorrise e si strinse il cappotto addosso.
Salirono sul furgoncino bianco
dell’uomo e rimasero fermi per qualche minuto.
“Posso fartela io, ora, una
domanda?” le chiese il guardiano. La ragazza annuì.
“Perché sei
scappata di casa? Come mai sei venuta qui proprio
adesso?” s’informò. Rea si rabbuiò.
“Mi sono… mi sono successe delle cose, negli ultimi
giorni. Cose che mi hanno fatto perdere
completamente la bussola. Non vedevo più né chi ero né cosa volevo, così mi sono
interrogata e ho pensato che qui potevo trovare delle risposte. Loro… i miei
genitori io non li ricordavo più e avevo bisogno di vedere una volta ancora i
loro volti. Per cui sono uscita dalla mia stanza, mi sono messa le scarpe e il
giacchetto e sono corsa qui. Il resto lo sa” raccontò, sorridendo.
“E adesso hai trovato ciò che
cercavi?” indagò l’uomo. Rea sospirò.
“Non lo so. Ho capito
sicuramente che non posso vivere così. Ho bisogno di altro dalla mia vita e da
me stessa. Sa, può sembrarle strano, ma prima, quando ero
svenuta… io li ho visti, mamma e papà” confessò,
arrossendo. Si sentiva una scema a dire una cosa
simile.
“Erano preoccupati per me e per quello che sto
facendo. E avevano
ragione” ammise. Il
guardiano rimase zitto e aspettò sorridendo.
“Io non… non devo rimanere attaccata a
loro. Sono e rimarranno i miei genitori
e io li vorrò accanto per sempre, ma… ma non ci sono più. Lo so fin troppo bene.
E, anche se io, in questo momento, vorrei solo morire per tutto il dolore che
sto provando, io devo… devo vivere. Me l’hanno regalata loro,
la vita, e non posso sprecarla a piangere”
comprese. L’altro rise forte.
“Sai,
comprendere che devi tenere stretta con le unghie e con i denti la vita mentre
sei in un cimitero è una cosa piuttosto insolita, anche se non del tutto
incomprensibile. Sei una ragazza strana, piccola Stevens, ma mi piace il
tuo modo di pensare. Non tutti sarebbero fuggiti alle quattro
del mattino per andare a trovare delle tombe, in pigiama per giunta”
commentò. Anche lei fu contagiata da quella risata, e, tra le lacrime,
riuscì a sentire quel peso tremendo che la soffocava evaporare dal suo cuore e
dissolversi nell’aria.
In quel momento iniziò a piovere,
e il parabrezza fu appannato dalle gocce d’acqua.
“Strano, le previsioni del tempo
non davano temporali, in giornata” disse il
guardiano.
“A gennaio non è così strano, giusto? Anzi, è quasi assurdo che non
nevichi” rispose Rea.
Misero in moto i tergicristalli e liberarono il vetro dalla pioggia.
“Chi è quel matto?” esclamò
l’uomo, indicando qualcuno davanti al cancello. Stava gridando qualcosa, ma con
il rumore dell’acquazzone che rimbombava sulla macchina non sentivano.
“Ehi! Ehi, tu!” gridò il signore,
affacciandosi dal finestrino.
La figura si voltò e si
avvicinò.
“Deve
aprirmi il cancello, devo trovare una persona” disse. Rea sgranò gli
occhi.
“Fabio?” chiese stupita. Il ragazzo la mise a fuoco e
sospirò di sollievo. Fece il giro della macchina e aprì la portiera, tirandosi
la ragazza addosso e abbracciandola senza dire niente.
Quando aprì la porta di casa e la
varcò, zuppa e tremante, Rea fu circondata dalla sua famiglia, che l’abbracciò e
la coccolò per un po’.
Molto umilmente, lei si spostò
indietro e li guardò uno ad uno.
“Scusatemi, non volevo andarmene” disse imbarazzata.
Sua madre la strinse forte.
“Non mi interessa, quel che conta
è che tu sia tornata da noi” la tranquillizzò.
Vedere che c’erano tutti le fece
tremare il cuore: Laura, Emma, i suoi genitori, Johan, Jason e… e Fabio. Si era
autoinvitato in macchina del guardiano del cimitero e si era fatto portare lì,
per poi scortarla fino all’ingresso, quasi temesse che fuggisse di nuovo via.
L’aveva abbracciata e tenuta stretta a sé per un tempo indescrivibile, senza
parlare, senza quasi respirare. Si erano staccati solo quando l’uomo aveva fatto
loro presente che erano molli come pulcini e li aveva fatti salire al riparo. A
quel punto li aveva riportati a casa.
Adesso il ragazzo stava in
disparte, aspettando di poter salutare tutti e tornare dai suoi. Aveva
decisamente bisogno di dormire.
“Tu…” lo chiamò la signora
Stevens. Lui si spaventò e sobbalzò.
“Sì?” rispose.
“Tu me l’hai ritrovata” disse
tremante, abbracciandolo. Fabio rimase fermo mentre la donna lo stringeva, e
sorrise dentro di sé al pensiero che, forse, una giusta l’aveva fatta.
Un paio d’ore dopo Rea era
sdraiata nella vasca da bagno con l’acqua calda che le arrivava al collo. Sentì
il gelo nelle ossa sciogliersi e sospirò appagata. Meglio di così non c’era
niente, decisamente.
Qualcuno bussò alla porta, ma lei
era troppo impegnata a godersi il suo bagno per rispondere. Bussarono ancora,
stavolta più insistentemente, e lei gemette.
“Fatemi
dormire!” mugolò.
Dalla porta apparvero Laura e
Emma, entrambe con un’espressione piuttosto dispiaciuta sul viso. La ragazza
aprì un occhio, ma non si mosse.
“Possiamo… ti possiamo parlare?” le chiesero,
sedendosi a terra.
“Adesso?” ribatté lei, sentendo il relax scomparire
poco a poco.
“Prima
è, meglio è” commentò la mora. Rea si sedette più composta e sospirò
sconsolata. Addio bagno in pace.
“Ditemi
tutto” concesse. Si coprì pudicamente il corpo con la schiuma del sapone
per non far vedere le proprie rotondità e le fissò incuriosita.
“Noi…
noi volevamo chiederti scusa” iniziò la bionda, guardando altrove.
“Sì,
per tutto quello che è successo” continuò l’altra.
“Non
volevamo farti del male, non volevamo che tu soffrissi per causa nostra! Eravamo
in buona fede quando abbiamo preso i tuoi quaderni” giurò Laura.
“L’unica cosa che stavamo cercando di fare era darti una
mano per farti smettere di piangere. Stavi male e non sapevamo cosa fare per
aiutarti, così Fabio ha avuto l’idea di leggere ciò che scrivevi per vedere se
potevamo trovare qualche indizio e capire ciò che volevi. Non eravamo in cattiva
fede!” affermò Emma. Rea aspettò che entrambe avessero finito con le
scuse, poi trattenne una risata e immerse la testa nell’acqua. Le sue sorelle si
fissarono senza capire.
“Ehi,
tutto ok?” chiese la bionda.
Lei alzò all’improvviso il capo
schizzandole entrambe e riempiendole di schiuma e ridendo come una matta nel
vedere le loro facce attonite.
“Mamma
mi ammazzerà, però non potevo non farlo!” esclamò.
“Sei
diventata un po’ scema, per caso?” domandarono le due all’unisono.
“No, no,
lo sono sempre stata! È troppo divertente essere un po’ scemi”
rispose.
“Ok, è
ufficiale: ti sei bevuta il cervello” decise Emma. Rea sorrise, poi tornò
seria.
“Lo so
che non avete mai voluto ferirmi, l’ho capito, sapete? Ma ci sono dei momenti in
cui ho preferito non ammettere che mi volevate bene e mi è tornato più comodo
vedere solo quello che mi andava. Ho perdonato tutti voi, e sono riuscita, in
qualche modo, a perdonare anche me stessa” spiegò.
“In
che senso?”
“Sapere
che non volevate farmi male ma vedere solo il pianto che avevo sprecato a causa
vostra era semplice e ho pensato di essere sola al mondo. Voi mi avevate
tradito, Fabio mi aveva delusa, Johan lo sapeva… essere da sola è stato molto
semplice. Voi siete sempre state qui anche quando io non lo riconoscevo e anche
mamma e papà… io devo smetterla di comportarmi come se tutte le disgrazie
fossero mie, e forse, un giorno, accetterò tutta me stessa senza problemi. Anche
questa parte di me masochista e inconcludente ha il suo valore, e quando l’avrò
trovato non soffrirò più senza motivo” raccontò. E lo pensava davvero,
ciò che diceva. Pensava ad ogni singola parola che la sua bocca aveva
pronunciato. Infine, sorrise e si asciugò una lacrima.
“Quindi
sono io che devo chiedere scusa a voi per come mi sono comportata. Non ve lo
meritavate” concluse. Emma e Laura si guardarono per un secondo, poi si
buttarono su di lei e la infilarono con la testa sott’acqua.
“Troppa serietà non ti si addice!” risero,
prendendola in giro. E andava bene così, andava bene che loro non la prendessero
sul serio. Questo le andava bene.
Alla fine aveva capito come
avevano fatto a rintracciarla. Fabio, come suo solito, aveva frugato tra le sue
cose e aveva trovato la lettera per sua madre, così da ricollegare i tasselli e
capire che era al cimitero. Quell’idiota. Quante volte avrebbe dovuto dirgli che
non doveva mettersi a cercare nella sua roba? Probabilmente fino allo
sfinimento.
Ma era il suo bello, quello. Lui
fin dall’inizio era entrato nella sua vita senza che lei lo volesse, con
prepotenza, con forza, con violenza, fino a lasciarla senza fiato. Era questo il
motivo per cui l’amava. Ed era questo il motivo per cui, adesso, lei era a casa
sua, con una tazza di cioccolato davanti, a parlargli.
Aveva deciso di affrontare la
questione un paio di giorni prima, quando era tornata a scuola. Dopo la
ramanzina infinita di Jason, che si era preoccupato quanto le sue sorelle, aveva
capito che non poteva più continuare a comportarsi da bambina viziata ed
egoista, e aveva fatto una lista di cose da cambiare. La prima di tutte, il suo
rapporto con Fabio.
“Non
sarà una cosa semplice da dirti” lo avvertì, sorridendo mesta. Il ragazzo
rimase in silenzio ad aspettare.
“Ecco,
so di essermi comportata male. Anzi no, male è un eufemismo. Sono stata una
stronza, una perfetta idiota che non ha fatto altro che fuggire di fronte ai
suoi sentimenti per te. E ti ho fatto soffrire tanto, continuando a ferirti
anche quando tu non te lo meritavi. Per questo mi scuso, e ti chiedo di
perdonarmi, se puoi” iniziò.
“E poi
voglio anche ringraziarti per essermi venuto a cercare al cimitero. Hai
continuato a credere che io ero lì anche se gli altri non mi avevano trovata,
hai corso sotto la pioggia pur di raggiungermi, e ti sei quasi preso una
bronchite per me, quindi grazie, mille volte grazie per il tuo aiuto”
continuò. Si bloccò e si rigirò la tazza tra le mani, esitando.
“C’è
altro?” le chiese il ragazzo. Lei annuì.
“I-io…
io ho deciso di cambiare, Fabio. Di cambiare me stessa e questo mio carattere
tremendo che mi ritrovo. Questo volermi fare male sempre e comunque non ha fatto
altro che nuocere chi mi sta intorno e chi mi ama, la mia famiglia, i miei
amici… tu… e non voglio più ferire nessuno. Per questo ho parlato con i miei
genitori, e abbiamo deciso che è meglio per me se mi allontano per un po’ e vedo
se riesco ad essere più matura quando torno” rispose. Lui si sentì
morire.
“Che
significa? Te ne vai?” domandò.
“Sì. Mia
nonna si è offerta di ospitarmi, e starò da lei per i prossimi sei mesi, nei
quali studierò per prendere il diploma in città. Una volta che avrò terminato
gli esami, però, tornerò” spiegò. Sorrise, cercando di trasmettergli
quanto più calore poteva, e trattenne una lacrima che minacciava di
scendere.
“Devo
riuscire a capire ciò che di meglio c’è per me, e devo riuscire a farlo
nonostante tutto. Non mi sto allontanando da voi, ma devo vedere la mia
situazione con più obbiettività, e qui non posso farlo. Grazie a te ho capito
che io voglio scrivere, che voglio che questa diventi la ragione della mia vita,
quindi ho bisogno di riuscire a prendere coraggio e farmi avanti nella mia
vita”
“E non
puoi farlo qui?” le chiese.
“No. Se
non me ne andassi continuerei ad aggrapparmi a voi, e questo è sbagliato. Devo
riuscire a trovare la mia strada senza dipendere da nessuno, né dalla mia
famiglia né da te. Voglio essere felice nonostante tutto e tutti, per poi
tornare ed essere una Rea migliore, che sorride sempre ed è appagata da ciò che
ha. Ho perso fin troppo tempo a nascondermi dietro ad un dito, e questo non va
bene assolutamente” rispose. Fabio sentiva le sue parole, ma non ne
prendeva il senso.
“Quindi
sei qui per dirmi addio” comprese. La ragazza rise forte, poi scosse la
testa.
“Mi
dispiace, sono forte ma non fino a questo punto” disse.
“E allora
perché sei venuta?” la aggredì.
“Sono
qui per chiederti un favore” spiegò. Lui rimase basito e la fissò.
“Un
favore?” ripeté.
“Sì. Non
so se mi ci vorranno cinque mesi soli o qualcosa di più per tornare, ma
sicuramente entro settembre sarò di nuovo qui. L’ho promesso a me stessa, e non
mi tirerò indietro. Per cui, in questo lasso di tempo in cui saremo separati, ti
prego di… di aspettarmi” lo implorò. Sentiva le guance infiammate per
quella domanda, e aspettò col cuore che batteva forte una risposta da parte di
Fabio.
Ma lui rimase zitto a guardarla. I
loro occhi si incrociarono per un tempo infinito prima che si alzasse e la
andasse vicino.
“Tu. Sei.
Matta” esclamò, fissandola intensamente. Rea si sentì morire.
“O-ok,
scusami… non pensavo fosse una richiesta tanto assurda, mi dispiace”
disse. Sorrise per mascherare quella piccola fitta di dolore al cuore e si
alzò.
“Allora
non preoccuparti. Ci rivedremo presto, ok?” lo salutò. Fabio la fermò per
un polso e la abbracciò, tenendola stretta proprio come aveva fatto quando
l’aveva trovata al cimitero.
“Non me
lo dovevi nemmeno chiedere di aspettarti, l’avrei fatto comunque. Sarò qui,
proprio dove mi lasci” le promise. Alla ragazza caddero un paio di
lacrime di felicità, e lo strinse a sua volta, poi rise e tirò su col naso.
“Mi ero
ripromessa di non piangere, ma non ce l’ho fatta” ammise divertita. Si
allontanò da lui e lo fissò riconoscente.
“Giuro,
entro settembre sarò di nuovo a casa. Questi mesi passeranno prima che tu te ne
renda conto” promise.
“Senza di
te saranno eterni, ma, se ti serve per essere felice, non ti fermerò”
ribatté sorridendo.
Rea fece per uscire di casa, poi
si voltò allegra.
“Ah, mi
sono dimenticata una cosa” annunciò, tornando indietro.
“Cosa?” chiese lui, senza capire. La ragazza si sporse
sulle punte e gli dette un bacio, per poi staccarsi lentamente.
“Non mi
tradire ora, ok?” lo minacciò con gli occhi divertiti.
“E tu non
dimenticarti di me” la rimbeccò. Lei si mise il cappotto e poi gli
strizzò l’occhio prima di andarsene.
“Non
preoccuparti, non accadrà. Purtroppo io ti amo, e questo mi impedisce di
scordarti” gli assicurò, chiudendosi la porta alle spalle. Fabio ci mise
un po’ a interiorizzare quelle parole.
“Che
cosa?!” esclamò una volta capito. Corse in strada e si guardò intorno per
cercare di vederla, ma ormai era sparita e non poteva andarle dietro. Fece un
gigantesco respiro.
“Rea, ti
amo!” gridò in mezzo alla via. Una signora che passava di lì sobbalzò a
quell’urlo e lo fissò male, ma lui rideva come uno scemo e non se ne curò.
Tornò in casa e accese la tv.
Adesso doveva trovare qualcosa da
fare per i sei mesi successivi.
Rea si trasferì un paio di giorni
dopo. Uscì di casa sorridendo, cercando di nascondere le lacrime, e salì in
macchina della nonna senza guardarsi indietro.
“Quando
avrò il diploma tornerò e andremo insieme all’università” aveva promesso
alle sue sorelle. In realtà, Emma e Laura non avevano ben capito cosa fosse
successo o come mai lei stesse andando via, ma non avevano chiesto niente e
avevano deciso semplicemente di sostenerla.
E così, senza che se ne rendesse
conto nessuno, passarono tre mesi.
Le due Stevens avevano continuato
a studiare senza sosta per gli esami, una in un modo e una in un altro.
Emma faceva sessioni infinite di
ritiro in casa di Jason, alternando baci e amore a crisi isteriche.
“Non
so nulla, non so nulla, non so nulla, non so nulla!” ripeteva
ininterrottamente. L’uomo ringraziava di amarla e la sopportava, in qualche
modo, senza strozzarla.
“Posso
ripeterti un’altra volta il programma di chimica?” gli chiese un
pomeriggio, dopo tre ore di lettura del programma.
“Ancora? Ma lo sai a memoria” le rispose, disperato,
il professore. Era steso sul divano, arreso, ormai, alla sua furia isterica.
“No,
non so nulla!” ripeté la ragazza, disperata. Era sull’orlo di una crisi
nervosa, e si vedeva benissimo. Jason, allora, la tirò con sé sul divano e la
baciò profondamente.
“Tranquillizzati, amore” le disse. Emma mise il
broncio e si appoggiò con la testa al suo petto.
“Ho
paura. Manca un mese all’inizio degli esami e mi sembra di non aver studiato
abbastanza. Inoltre temo che le persone possano pensare che io sono
avvantaggiata perché sto con te” ammise. L’uomo sgranò gli occhi.
“Ma se
non lo sa nessuno!” esclamò. La mora sospirò.
“Siamo
bravi, ma non così bravi. C’è chi lo sa, purtroppo, anche se siamo stati
attentissimi” lo riprese, dandogli un buffetto sul naso.
“Bene,
la mia vita professionale è andata a farsi benedire” si auto compianse il
professore.
“Ma
va’! Nessuno vorrebbe danneggiarti, sei troppo amato tra gli studenti. Solo il
fatto che ti presenti col nome e non con il cognome ti fa amare” gli
assicurò.
“Speriamo” ribatté Jason.
La ragazza posò un dolce bacio sul
suo mento e poi sorrise.
“Ti
sei messo il dopobarba che ti ho regalato per Natale?” gli chiese.
“Forse” rispose lui, vago. Risero entrambi.
“Comunque i programmi li sai, i concetti pure. Quale è il
problema? Perché tanta ansia?” indagò il professore.
“Perché non mi posso permettere di sbagliare. Se c’è una
cosa di cui sono sicura e di cui sono sempre stata sicura è ciò che voglio fare
dopo il liceo, e io voglio diventare una dottoressa. Non posso assolutamente
passare la maturità con meno di ottanta punti su cento. Per cui devo essere
perfetta” spiegò sconsolata.
“Davvero vuoi entrare a medicina?” si stupì
l’uomo.
“Sì. È
l’unico sogno che ho da sempre. Sono una ragazza volubile, e cambio idea spesso,
ma questo è rimasto con me da quando ero piccola” confessò.
“Ho
capito”
Jason le baciò i capelli, poi
sorrise.
“Significa che mi fai fare gli straordinari,
quest’estate?” le domandò. Emma lo guardò senza capire.
“In
che senso?”
“Sa,
signorina Stevens, io sono un professore di matematica laureato in fisica e
chimica. Quindi posso aiutarla. Ma, naturalmente, il mio aiuto ha un
prezzo” spiegò malizioso. La mora si sedette a cavalcioni su di lui.
“E
quale è questo prezzo?” gli chiese.
“Non
saprei. Tu che mi offri?” s’informò lui, lasciandosi baciare.
Il libro di chimica cadde a terra
mentre Emma rispondeva a modo suo.
Laura e Johan, intanto, erano
impegnati a fare altro. Tipo passare interi pomeriggi a guardare i cartoni
animati giapponesi in televisione. Ogni tanto alla bionda veniva in mente che le
sue sorelle l’avrebbero uccisa se avessero saputo che non facevano niente di più
particolare, ma evitava di pensarci
per non sentirsi una stupida.
Un pomeriggio di inizio giugno
erano sui libri da un’ora quando il ragazzo sbuffò e si alzò.
“Basta, facciamo una pausa” disse. Lei non poteva
essere più d’accordo di così, e lo seguì il salotto, dove si sedettero
abbracciati a guardare la tv.
Rimasero in silenzio per un po’,
ridendo quando succedeva qualcosa di divertente. Laura si sentiva stranamente
nervosa. Era la prima volta che sentiva il cuore battere all’impazzata solo
stando vicina a Johan da quando si erano messi insieme otto mesi prima.
“Qualche problema?” le chiese lui, vedendo il suo
disagio.
“Eh?
No, no!” si affrettò a rispondere, ridendo isterica. Il ragazzo la fissò
senza farsi convincere.
“Davvero? Sembri preoccupata” notò.
“Nooo, figurati!” minimizzò. Lui rimase fermo e
guardarla con i suoi occhi azzurri come il mare, perforandola quasi. Erano
sempre stati così profondi?
“C-che c’è?” domandò la bionda, imbarazzata.
“Dimmi
che problema hai” le ordinò.
“Nessuno” assicurò, continuando a diventare sempre
più rossa. E fu quello a tradirla.
Vedendo che era imbarazzata, Johan
capì che c’era qualcosa che lei non aveva detto, e la bloccò con le mani dietro
la testa e il volto vicinissimo al suo. Laura, che non se l’aspettava, sentì il
cuore volarle in gola e sgranò gli occhi.
“Mi
dici che ti prende oggi?” ripeté il biondo per l’ennesima volta. Lei non
riusciva più a pensare, più nemmeno a respirare. Quello era il suo incubo:
quella era una posizione tremendamente sensuale e provocante. E non era sicura
di riuscire a controllare la situazione.
“Non
è nulla, ti dico!” ripeté sicura. Il ragazzo si avvicinò ancora e mise le
mani sui suoi fianchi per fermare qualsiasi suo tentativo di fuga.
“Sei
certa? Perché mi sembri terrorizzata da me” sussurrò Johan sulle sue
labbra. Lo era. Era terrorizzata davvero. Ma quanto era invitante quella
situazione, però!
“Al
cento per cento” assicurò, baciandolo. Il ragazzo si appoggiò sui palmi
per evitare di schiacciarla, ma non si mosse, anzi cercò di approfondire quel
contatto e passò le labbra sul suo collo. Laura rabbrividì.
“Fermo” disse. Lui alzò il viso e la guardò.
“S-scusa, se non vuoi…” rispose mesto. Si allontanò
da lei arrossendo e si irrigidì.
“No,
non volevo dire… non è che non… insomma, non è che non ti voglio!” cercò
di rimediare la ragazza.
“Non
importa, va bene così” le assicurò, sorridendo tristemente.
“No
che non va bene!” ribatté lei. Ecco il discorso che le faceva paura.
“Dai, puoi farcela” si spronò.
“L-la
verità è che… insomma, io ho un po’ di… di…” balbettò. Il respiro non era
più regolare da un pezzo, ormai, ma non importava.
“Non
hai mai fatto…?” le chiese. Lei scosse la testa.
“Ma
vorresti…?” domandò di nuovo. Stavolta lei annuì.
“Allora vieni con me” decise Johan, prendendola per
una mano. E Laura lo seguì senza dire una parola.
“Tu
cosa farai dopo il liceo?” le chiese il ragazzo, accarezzandole un
braccio.
“A me
piace disegnare” disse vaga. Il biondo le lanciò un’occhiataccia.
“Ti ho
chiesto cosa farai, non cosa ti piace fare ora” le fece presente.
“Farò
medicina, credo” rispose. Non ci credeva nemmeno lei in quello che
diceva, si vedeva lontano un chilometro.
“Sei
sicura?” insistette.
“Sì.
Perché?” s’informò lei.
Da dove partire? A scuola non era
una cima, intanto. Poi lei odiava tutte le materie scientifiche. Inoltre tutti
sapevano che lei avrebbe voluto fare la mangaka, era risaputo. Infine nessuno, e
non lo pensava per cattiveria, sarebbe mai andato da un dottore come lei. Quando
parlava sembrava un po’ sciocca, non dava molta sicurezza alle persone per
quanto riguardava la sua affidabilità.
“Niente, così” minimizzò Johan, lasciando cadere il
discorso.
“E se
non entrassi vorrei fare la veterinaria” continuò Laura. Pure?
“Qualcosa di non scientifico?” domandò il
ragazzo.
“No,
niente” negò lei. Però sospirò nel dire questa frase, segno che non era
assolutamente vero. Come mai non diceva la verità? Perché non ammetteva di non
voler fare scienze all’università?
“Se tu
dovessi decidere così, su due piedi?” s’informò. La bionda ci pensò un
attimo.
“Forse disegnerei. Mi piacerebbe tanto, mi ci
diverto” rispose.
“E
perché non lo fai comunque?”
“Perché non dà un lavoro. Cioè, se disegno nessuno mi
assicura che troverò lavoro, per cui tanto vale buttarsi nella medicina”
spiegò.
“Ah”
“E
tu? Che farai?” indagò, ora, lei.
“Probabilmente studierò letteratura o filosofia. Mi
piacerebbe tanto diventare professore” rispose sorridendo.
“Davvero? Non pensavo che ti piacesse l’italiano”
esclamò Laura.
“Già,
infatti i miei nove sono regalati” la rimbeccò lui. La ragazza rise.
“Scusa, è vero” ammise. Rimasero abbracciati ancora
un po’ prima di decidere di rivestirsi e tornare in cucina per studiare.
Una volta di nuovo sui libri,
però, Johan non riuscì a concentrarsi. Continuava a pensare alle sue parole e al
fatto che era una cosa triste che non seguisse i suoi sogni per puro interesse
finanziario. Era squallido.
Quando la salutò e si chiuse la
porta alle spalle si rese conto che l’unica persona che avrebbe voluto sentire
al momento era Rea. Aveva bisogno di sentire le sue parole di conforto e qualche
consiglio per aiutare Laura. Ma lei non c’era ormai da più di tre mesi, e ne
sentiva tremendamente la mancanza. Però non ce la faceva a resistere, voleva un
po’ di conforto. In fin dei conti aveva rispettato il suo volere fin troppo, ora
era il momento di infrangere la promessa e chiamarla.
Non era mai stato uno che
rispettava le decisioni degli altri, tutto sommato, pensò sorridendo.
“Johan? Perché mi
hai chiamato con lo sconosciuto?”
“Non
sapevo se mi avresti risposto, così ho preferito non rischiare”
“Vedo con piacere
che ti fidi di me. A te avrei risposto, sei il mio migliore amico, non ti
chiuderei mai il telefono in faccia, razza di idiota”
“Ahahahah, meglio così. Allora? Come te la
passi?”
“Bene. Gli esami
sono alle porte e studio parecchio”
“Stai
parlando con me, non con tua madre”
“Ok, sinceramente?
Mi sono impegnata a scrivere e ho finito il mio libro. Praticamente non ho
nemmeno ricontrollato il programma scolastico e tra venti giorni abbiamo la
prima prova. Sono nel panico più totale e non so come
fare”
“A
questo credo di più. Quindi tra poco torni?”
“Entro un mese e
mezzo. Però non dirlo a nessuno, voglio fare una
sorpresa”
“Bocca
cucita. Lo sai che non dico mai niente di ciò che mi dici tu”
“Hai ragione, però
per sicurezza facciamo come solito, ok? Un segreto…”
“Va
bene, lo so. E, infatti, ti avevo chiamata per un’altra ragione”
“Sul serio?
Raccontami”
“Si
tratta di Laura, e temo che ci vorrà un po’”
“Mi metto
comoda”
“Cosa
posso fare per aiutarla?”
“Niente”
“Come
niente?”
“Il punto è
questo: lei è una testona. Io l’ho sempre vista disegnare, fin da quando era
bambina, e non credo che vorrebbe mai fare altro. Però teme di non essere
all’altezza delle aspettative di mamma e papà se non fa qualcosa che lei
considera, forse, più dignitoso. La realtà è che ha solo paura di inseguire il
suo sogno perché teme di non farcela. Come me. Però io ce la sto mettendo tutta
perché non voglio diventare, un giorno, uno di quegli adulti frustrati che hanno
fatto qualcosa perché era più comodo. Non è mai sicuro inseguire un sogno, lo so
da sola, e se lo capisse sarebbe più felice. È un terno al lotto ammettere di
voler fare qualcosa che ci sembra impossibile e lei, semplicemente, non vuole
rischiare. E questo mi ha sempre resa triste perché mi dispiace vedere che non
si sente all’altezza di un’aspettativa che non esiste. Nessuno ha mai voluto che
lei fosse diversa da come è di solito, però vuole dimostrare qualcosa, più a sé
stessa, temo, che agli altri”
“Ma
dovrà capire prima o poi che non c’è bisogno di essere diversi da sé stessi per
essere accettati!”
“Sì, quando si
renderà conto che ha sprecato tanti anni a cercare di diventare qualcosa che non
è”
“Devo
aiutarla, Rea! Devo riuscire a starle vicino e a farle inseguire il suo
sogno”
“Lo pensavo anche
io, una volta, ma poi ho capito che non ha bisogno di questo. Ha bisogno di
sapere che la sosteniamo, per cui non fare niente che possa farla arrabbiare,
capito Johan?”
“……”
“Johan…”
“Va
bene! Non le imporrò niente!”
“Bravo. Faresti
solo peggio”
“Sei
cambiata. Ma non sono sicuro che sia in meglio”
“Ahahahah, è
sicuramente in meglio. Ora ti saluto, domani abbiamo ripasso generale del
programma e devo almeno fare finta di studiare. Temo che mia nonna si sia resa
conto che non mi sono impegnata molto ultimamente, e non vorrei che si
arrabbiasse. Se hai bisogno non ti fare scrupoli a chiamarmi. Magari senza lo
sconosciuto”
“Ti
tartasserò di messaggi, tranquilla”
“Perfetto. Ah,
Johan?”
“Sì?”
“Mi sei mancato. È
stato bello risentirti”
Nonostante quello che gli aveva
consigliato Rea, però, il biondo decise di parlare con Laura. L’aveva invitata a
casa per studiare e si era preparato il discorso da farle. Si sentiva in dovere
di dirle che sbagliava a non inseguire il suo sogno, ecco tutto.
“Ehilà, sono arrivata” si annunciò la ragazza,
entrando in cucina. Aveva trovato la porta aperta e non aveva chiesto permesso.
Come sempre.
“Salve” la salutò, dandole un veloce bacio sulle
labbra. La fece sedere e le servì dei biscotti al cioccolato, sapendo che lei ne
andava matta, poi si mise vicino a lei. Rimase rigido a fissarla, e la bionda si
rese conto che c’era qualcosa che non andava. Lo vedeva imbarazzato e si sentiva
imbarazzata a sua volta.
“Qualche problema?” chiese alla fine. Johan si
schiarì la voce.
“N-no,
figurati. Ho solo una domanda… insignificante” rispose lui.
“Dimmi, ti ascolto” lo spronò Laura. Il ragazzo
esitò, poi sospirò.
“Senti, te lo ricordi il discorso dell’altro giorno? Quando
parlavamo dell’università?”
“Sì,
certo che me lo ricordo”
“Ok,
la domanda è questa: tu sei sicura di voler avere una carriera in
medicina?” sputò fuori alla fine. Lei si bloccò.
“C-certo” balbettò in risposta. Gli occhi azzurri
del ragazzo si piantarono nei suoi e la fecero rabbrividire.
“Sul
serio? Insomma, sei certa di voler fare una vita in cui non farai che studiare
scienze, chimica, matematica, fisica, anatomia, numeri, formule…” iniziò
a torturarla, dicendo le parole a raffica. La bionda strinse i denti e lo
ascoltò solo fino a un certo punto, poi batté il pugno sul tavolo.
“Fermo!” esclamò. Johan rimase con la bocca aperta
a fissarla, aspettando.
“Cosa
vuoi che ti dica?” lo aggredì, infuriata.
“Non
saprei. La verità?”
“La
verità? E cioè? Sentiamo, illuminami su qual è la verità”
“Che
tu non la vuoi quella vita. Dimmi se sbaglio: tu sei un’artista, ami disegnare,
sei sempre con la testa tra le nuvole, ti piacciono le cose irrazionali e
incomprensibili. Secondo quale strano ragionamento dovresti voler fare
medicina?” domandò. Laura strinse i pugni.
“Perché i miei vogliono questo. Vogliono che io sia brava
e che io non li deluda. Quindi non posso fare altro!” rispose. E quella
verità fece male anche a lei perché ad alta voce non se l’era mai detta.
“Te
l’hanno detto loro?” chiese Johan. La ragazza rimase ferma,
immobilizzata. Gliel’avevano mai detto?
“Per
quanto ne so io loro non ti costringono, giusto? Insomma, sarebbe insensato che
facessero fare a Rea ciò che vogliono e a te no, sbaglio forse? Quindi cosa vuoi
dimostrare?”
“Niente, io non voglio dimostrare niente!”
“Sicura? Perché sembra che tu voglia far vedere di
potercela fare anche se nessuno te l’ha chiesto!”
“Smettila, dannazione! Chi sei tu per giudicarmi? Tu non
lo sai che significa essere me!” urlò, al limite di sopportazione. Forse
era questa la reazione che Rea temeva.
“Io
non sono intelligente come Emma. O coraggiosa come Rea. Non ho mai studiato
disegno o arte in generale. Come posso anche solo pensare di andare dietro a un
sogno come questo se non ho né la preparazione né la forza per farlo? Fare
un’università come medicina e diventare un chirurgo mi dà più sicurezza nella
vita e nel mio futuro” spiegò. Johan scosse la testa, orripilato.
“Credevo che tu fossi diversa, sai? Credevo che tu amassi
inseguire il tuo sogno. Perché io lo so che tu vuoi solo disegnare. Però no, hai
troppa paura vero e allora nasconditi e diventa un’adulta frustrata e delusa
dalla vita. Io ci ho provato a farti ragionare” disse sconsolato. Laura
tremò lievemente, poi lo guardò.
“Tu
non capisci, vero? Se non ce la faccio rischio di inseguire qualcosa e farmela
poi sfuggire dalle mani. No, non penso di volere questo” ribatté.
“E
cosa vuoi? Far finta di amare la medicina e diventare una dottoressa
malfidata?” l’aggredì.
“NO!
Io voglio disegnare, ho sempre voluto quello, ma le persone pensano che io sia
una buona a nulla e non posso…”
“Chi?
Chi è che lo pensa?” la interruppe lui. La ragazza si bloccò, senza
sapere che rispondere.
“C-chi? B-beh…” balbettò. Non le veniva in mente
nessuno.
“Noi
non lo pensiamo, non l’abbiamo mai pensato. I tuoi nemmeno. I professori non
credo. Quindi chi è che ti considera una buona a nulla?” chiese di nuovo.
Lei abbassò gli occhi e trattenne le lacrime.
“Io” rispose infine.
“Cosa?”
“Io
mi considero una buona a nulla, capito? Io odio il fatto che non sono brava a
scuola, non sono coraggiosa e non sono in grado di ammettere che questa vita non
la voglio! Sei contento adesso?” domandò. Alla fine il pianto era venuto
da solo, senza che lo avesse sentito prima.
Johan l’abbracciò, e la fece
piangere.
“Non
potrei mai essere contento se tu sei infelice. Ed è per questo che voglio starti
accanto. Sono sicuro che nessuno ti considererà una buona a nulla, noi ti
sosterremo tutti. Fidati di me, non ti mentirei mai” assicurò. La baciò e
Laura penso che forse sì, aveva ragione. Che magari poteva farcela. Che
probabilmente si sarebbe dimostrata capace di qualcosa se avesse inseguito quel
desiderio, piuttosto che costringendosi a fare qualcosa che non voleva, anzi che
odiava.
“Se
non ci riesco?” domandò tristemente.
“Io ti
sosterrò, ora e fino in fondo. E anche Emma e Rea, ne sono certa. Per cui non
avere paura di ammettere che vuoi fare qualcos’altro, nessuno ti giudicherà mai
male se inseguirai il tuo sogno” rispose.
Il mese di giugno fu un mese
assurdo per tutti quanti. Le tre Stevens, chi in un modo, chi in un altro,
studiarono e si impegnarono al massimo per l’esame, così come Johan e Fabio.
Nessuno dei cinque ebbe molte occasioni di sentirsi e vedersi, soprattutto
perché Emma voleva prendere il massimo possibile, Laura era distratta da tutto e
stava china sui libri per poche ore al giorno, Rea scriveva per la maggior parte
del tempo, Johan pensava alle vacanze e Fabio a Rea. Ormai mancava poco al suo
ritorno, i cinque mesi erano passati.
Nonostante questo, la maturità
arrivò e passò per tutti con velocità impressionante e di lei nessuna traccia.
Aveva chiesto anche alle sorelle, ma nessuna pareva sapere niente. Era
semplicemente scomparsa.
Aveva saputo che era passata con
70/100, mentre le altre due con 85/100 (con non poca delusione, Emma) e 60/100
(la più grande), e che aveva in atto un qualche piano per il futuro. Si era
informato anche con Johan, ma a metà luglio tutti andarono a godersi le meritate
vacanze e lui si ritrovò solo, in casa, mentre i suoi erano al lavoro, ad
aspettare una qualche notizia. Non che si sarebbe mosso, non poteva perché il
ristorante rimaneva aperto fino a ottobre, però gli dava noia che lei non desse
sue notizie.
E così luglio terminò, portandosi
dietro anche il mese successivo.
Ormai le speranze di rivederla si
erano ridotte ai minimi storici.
Fu solo una mattina di fine agosto
che Fabio ebbe di nuovo delle notizie da Rea. E furono proprio le sue sorelle a
portargliele.
Arrivarono Emma e Laura poco prima
che lui uscisse per andare a pranzo a portargli un pacchetto.
“Questo è per te” gli sorrise la mora.
“E
anche questo” concluse la bionda, passandogli una lettera.
“Che roba
è?” domandò lui, confuso. Loro si sorrisero e si misero un dito sulle
labbra.
“Come?
Ehi, ferme!” esclamò il ragazzo, non capendo. Rientrò in casa e aprì il
pacchetto. Un grosso volume rosso con un disegno giallo sopra apparve dalla
carta marrone che lui aveva appena strappato e il suo cuore fece un balzo. Non
lesse nemmeno una riga della lettera: s’infilò le scarpe e corse via.
Capitolo 36 *** Le insicurezze dell’anatroccolo ***
Le insicurezze dell’anatroccolo
Le
insicurezze dell’anatroccolo
“Ci hai messo più del previsto: sette minuti e quarantacinque
secondi. Ti sei un po’
impigrito?” lo accolse Rea, aprendo la porta
prima che lui bussasse. Aveva un enorme sorriso stampato in
faccia e si vedeva che stava bene, adesso. Era completamente diversa.
“Allora? Non mi dici niente?” lo prese in
giro. Fabio aprì la bocca, poi la
richiuse.
“Non
credevo che il mio regalo ti avrebbe fatto quest’effetto” rise la
ragazza, prendendolo per mano e facendolo entrare in casa. Non fece in tempo a
chiudersi la porta alle spalle che lui l’aveva baciata con foga, passione e così
tanta necessità da farle girare leggermente la testa. Gli passò le braccia
intorno al collo e se lo tirò contro, sentendosi davvero a casa adesso.
“Sei in
ritardo” le disse, quando riuscì a staccarsi.
“No, sono puntualissima: entro settembre sono
tornata. Ricordi? Oggi
è il trenta agosto e io… io volevo farmi un bel regalo di compleanno” ammise. Lo allontanò
leggermente, divertita nel vedere la sua espressione confusa, e sorrise.
“Cosa?”
“Sì, mio caro. Oggi
io compio gli anni. Ecco perché solo oggi ti ho fatto arrivare
quel libro, volevo farti una sorpresa”
spiegò. Si sedette sul divano e gli fece segno di
raggiungerla.
“Però, se
l’avessi saputo, ti avrei comprato qualcosa” ribatté il ragazzo,
contrariato.
“Non volevo che tu mi comprassi niente. Mi offendi se mi ritieni tanto materialista. Sapevo che, se tu avessi ricevuto oggi il pacchetto, saresti corso
qui da me, così ho deciso di fartelo portare solo stamani, almeno saresti stato
il mio regalo a me per il mio compleanno” disse
felice. Fabio si sedette vicino a lei e le passò un braccio intorno alle spalle per stringerla: era
davvero lì, era davvero la sua Rea. Quasi non ci credeva.
“Allora
come sono andati questi mesi da sola?” le domandò. Lei sorrise.
“Direi bene. Posso
ufficialmente annunciare che ho ritrovato me stessa. Ho lavorato
ininterrottamente sul mio libro e su me stessa, andando avanti col primo e
correggendo l’altra, così che, una volta arrivata agli esami, già ero un’altra
persona. Non solo sorridevo quasi sempre, ma vivevo la vita in modo più leggero,
più divertente. Sarei potuta rientrare già a luglio, sai?” lo informò.
“E perché
non sei tornata?” chiese lui, arrabbiato. Rea si accoccolò sul suo petto
e sospirò.
“Perché
avevo fatto un salto nel buio e dovevo aspettare una risposta. Intorno a aprile,
quindi per Pasqua, mia nonna mi ha portata in libreria per farmi scegliere
qualcosa da comprarmi come regalo. Stavo girando per gli scaffali enormi,
altissimi, e guardavo tutti quei nomi, tutte quelle parole, e volevo che
qualcuno passasse tra i mobili, come facevo io, a cercare un libro scritto da
me. Poco dopo, parlando con una delle commesse del negozio che aveva visto il
mio interessamento per più di un articolo, è venuto fuori che la casa editrice
che li forniva stava cercando nuovi autori da pubblicare. Se vuoi, mi porti un tuo operato e io lo do al direttore, mi ha detto. E io l’ho fatto. Siamo
andate con mia nonna a parlare direttamente con il capo e lui mi ha assicurato
che avrei avuto una risposta entro poco”
“E quindi
perché ci hai messo tanto?”
“Perché i risultati sono arrivati venti giorni
fa. Alla casa editrice era piaciuto il
mio manoscritto e volevano pubblicarlo. Inizialmente sono quasi svenuta, poi ho
cercato di non vomitare, infine ho pianto dalla gioia. La prima stampa, che è
stata di poco più di centomila copie, è finita solo ieri l’altro, e io ho avuto
qualche pezzo omaggio. Uno è quello che ho portato a te” rispose. Fabio ragionò su
quelle informazioni, poi la guardò.
“Quindi
adesso sei una scrittrice affermata?” la prese in giro. Rea rise.
“Ci provo. Ho anche
trovato una buona scuola per studiare i metodi di scrittura, così che possa
migliorare sempre. E la buona notizia è che è a soli venti
minuti di macchina da qui”
spiegò.
“E tu ci
andrai in pullman?” domandò il ragazzo. Lei si batté una mano sulla
fronte.
“Che stupida, mi sono dimenticata di
dirtelo! Indovina chi
ha preso la patente e, da oggi, ha la macchina?”
disse soddisfatta. Tirò fuori di tasca un mazzo di chiavi e
glielo fece tintinnare davanti. Lui sgranò gli occhi.
“Sul
serio?!” esclamò incredulo.
“Già. Mamma e papà mi
hanno regalato un’auto per il compleanno. E, a proposito, che
ore sono?” gli chiese,
alzandosi.
“Le due e
un quarto, perché?” Rea lo prese per un braccio.
“Muoviti, dobbiamo andare” ordinò, facendolo uscire da
casa.
“Dove?!”
“Alla
mia festa. Siamo in un ritardo tremendo!”
Mezz’ora dopo erano al ristorante,
con più di un’ora di ritardo sul programma. Emma e Laura la guardarono male, poi
risero e l’abbracciarono.
“Scusate
per l’orario, ho avuto un paio di problemi e non ho fatto in tempo!”
disse la ragazza ai presenti. Tutti annuirono e poi tornarono ai propri impegni.
Non erano molti, giusto una decina, però erano le persone più importanti per
lei: i suoi genitori; le sue sorelle; Johan; Jason; i genitori di Johan;
Fabio.
Non fu un compleanno sfarzoso,
anche perché lei odiava le cose troppo pompose, e tutti si divertirono. I grandi
stavano da un lato del tavolo, parlando di cose loro, e i ragazzi (con Jason
annesso) stavano dall’altro lato. Rea si sentiva al centro dell’attenzione e
questo le piaceva. Era una sensazione splendida, avvertire l’affetto che
provavano per lei, e quello era il regalo più bello di tutti.
Alla fine della festa, prima della
torta, la ragazza si alzò e li fissò ad uno ad uno.
“Ciao a tutti!
Intanto voglio ringraziarvi per essere qui e per avermi fatto questa festa, sia
di bentornata che di compleanno. È davvero una cosa stupenda”
iniziò. Alzò il bicchiere in segno di brindisi e tutti
bevvero.
“Poi volevo annunciarvi un paio di buone notizie che, spero,
vi faranno piacere. Intanto voglio fare
un brindisi e Emma e Laura, che sono entrati all’università! Emma, finalmente, è
immatricolata a medicina e Laura, invece, è entrata all’accademia delle belle
arti, dove studierà disegno. In bocca al lupo a entrambe!” annunciò, sorridendo. Tutti gli
invitati applaudirono e alzarono i bicchieri.
“Inoltre anche io, che in questi mesi sono scomparsa, ho
trovato la mia strada. Mentre ero da mia
nonna ho fatto leggere i miei manoscritti a una casa editrice, la quale ha
deciso di pubblicarmi. Questo è il prossimo libro che vedrete
sugli scaffali delle librerie!” esclamò, tirando
fuori dalla borsa il volume. Rosso con il disegno di un
pulcino giallo sopra, i caratteri luccicanti spiccavano sulla copertina: Le insicurezze dell’anatroccolo.
“La verità è che ci sto lavorando da mesi e mesi, per non
dire anni, ma solo ora ho trovato il coraggio di uscire allo scoperto e farlo
leggere a qualcuno. Sono così felice di
questo che non potevo aspettare altro a
dirvelo!” ammise, ridendo. Tutti quanti si complimentarono con lei,
abbracciandola e baciandola, e Rea sorrise.
La torta arrivò poco dopo, e sua
madre mise le candeline sulla panna.
“Esprimi
un desiderio” le disse Fabio, stringendole la mano. Lei lo fissò, così
bello e dolce, e si chiese se avesse sul serio altri desideri. Guardò tutte le
persone che aveva intorno, dalle sue sorelle a Jason; i suoi genitori, che
l’avevano sempre sostenuta anche se lei non lo aveva mai ammesso; Johan, che era
da sempre il suo migliore amico e le aveva dato qualche schiaffo morale quando
le serviva; Emma e Laura, che avevano iniziato il percorso per raggiungere i
propri sogni con due meravigliosi uomini al loro fianco; e poi fissò le sue dita
intrecciate con quelle del ragazzo che amava, vedendosi con occhi diversi, più
belli, più sicuri. Sorrise e spense le candeline.
“Cosa hai
chiesto?” le domandò subito lui.
“E’ un
segreto” rispose Rea, sorridendo. E la verità è che lo era davvero, un
segreto. Il suo. E non aveva desiderato niente, alla fine, perché non ne aveva
bisogno. Si era persa. Si era lasciata. Aveva abbandonato quelli che amava. Era
caduta. Aveva voluto morire, in più di un’occasione. Si
era nascosta. Aveva pianto. E poi si era risvegliata, dandosi uno schiaffo,
spronandosi, accettandosi e, infine, amandosi. Ce l’aveva fatta senza desideri,
senza chiedere niente a nessuno. Ce l’aveva fatta perché sapeva che esistevano
persone disposte a credere in lei e in ciò che sapeva fare, e, forte di questo,
lei era riuscita ad alzarsi e affrontare la vita senza più piangere, senza più
farsi male. Questo era il desiderio più grande che avrebbe mai potuto
esprimere.
Scommetto che non
leggerai mai questa lettera. Se ti conosco bene, prima aprirai il pacchetto e
poi correrai via, lasciando la busta sigillata sopra il tavolo. In caso
contrario, ciao Fabio! Sono proprio io, Rea. E, finalmente, sono
rientrata.
In realtà sono a
casa da ieri, ma non ho avuto il tempo di venire da te perché sono stata
sommersa di domande dai miei, e mi sembrava brutto scappare così, subito il
primo giorno, quindi eccomi qui, con circa venti ore di ritardo dal mio
rientro.
So già che il tuo
esame è andato bene e che frequenterai economia. Mi sono tenuta informata
tramite Johan e Jason, anche se li sentivo molto poco.
Tu, invece, non hai notizie di me da mesi, quindi ecco qua le ultime
novità:
intanto sono passata
benissimo all’esame, e ora non metterò mai più piede in un liceo. Ciò mi rende
felice in maniera vergognosae
indecente (quando sono tornata a casa dopo l’orale, mi
sono messa a saltare per il salotto e sono scivolata, finendo sul gatto di mia
nonna, che mi ha graffiato un braccio. Lasciamo perdere gli insulti di nonna nei
miei confronti, non sei ancora pronto ad affrontare questo discorso), e questo mi porta al secondo punto, cioè la mia nuova
scuola. Ho trovato un’accademia di scrittura che mi permette sia di studiare
letteratura che di migliorarmi a scrivere, e questo solo grazie a te che mi hai
spronato a uscire allo scoperto. Infatti, forte della fiducia che hai in me, ho
proposto il mio libro, “Le insicurezze dell’anatroccolo” a una casa editrice e,
indovina un po’? L’hanno accettato! Ti racconterò meglio quando verrai da me,
però sappi che nel pacchetto c’è una copia del volume già stampata e con la
dedica (con tutto il mio amore!). Già sai chi è l’anatroccolo e come si
comporta. Hai letto più di metà romanzo prima ancora che io lo avessi finito,
quindi sarai curioso di sapere come l’ho concluso. Beh, non sarà un’idea
particolarmente geniale, ma alla fine l’anatroccolo si trasforma in cigno. Lo so
che detta così e molto monotona come cosa, però fammi spiegare: da pulcino, si
era sempre visto come una specie di errore di madre natura, ricordi? E, anche
quando la sua forma fisica era mutata, dentro si sentiva sempre bruttissimo. Non
importava quanto i suoi fratelli gli ripetessero che era bellissimo, la sua
autostima era tremendamente distrutta. Ecco come
finisce:
“Succede tutto
così, per caso, quando una mattina l’anatroccolo si sveglia e si rende conto che
ha di nuovo gli occhi gonfi. Gonfi di
lacrime,gonfi di tristezza, gonfi di disperazione… e
non ce la fa più. Con quanto fiato ha in gola si mette a gridare, a implorare il
cielo di ucciderlo, di far finire questa tortura che è la sua vita, ma il cielo
gli risponde in modo inaspettato, assurdo, terribilmente doloroso. Lo fa vivere.
Gli apre gli occhi e gli fa vedere che la vita c’è anche per lui, anche per quel
piccolo anatroccolo che crede di essere. E sono proprio gli altri pulcini che
glielo dicono. Stanchi di sentirlo piangere, pieni di rabbia per non riuscire a
farlo stare meglio, si mettono lì e lo confortano, gli ricordano che esiste
ancora quell’amore che non pensava di meritare per colpa della sua natura di
errore. Però non è un errore, non lo è mai stato, e lo capisce. E poi piange, di
nuovo, ma stavolta di sollievo, di gratitudine. Diventa cigno internamente. Si
fissa nello specchio dell’acqua e vede un nuovo anatroccolo, più bello, più
sicuro, più tutto! Si ama, per la prima volta, e ama gli altri, ama i suoi
fratelli, ama i suoi genitori, ama questa vita che fino a poco prima
disprezzava. E la ama perché non gli serviva un bell’aspetto per essere felice,
non gli era mai servito. Ciò che davvero serve per vedersi cigni è fissarsi allo
specchio e riuscire ad accettarci per come siamo, a vedere che persone stupende
possiamo essere. E questo, il piccolo anatroccolo, alla fine l’aveva capito”
Ti piace? Che
dici, troppo scontato? Però è vero, io l’ho capito grazie a voi, e ve ne sono
talmente grata che non posso esprimerlo a parole. Quindi ti dico arrivederci,
perché tanto tra poco sei qui da me e potrò stringerti dopo tutti questi mesi.
Quanto mi sei mancato, Fabio! Ho bisogno di vederti!
Tua, ora e per
sempre (spero),
Rea
P.S.: dimenticavo!
Muoviti ad arrivare, c’è la mia festa di compleanno tra mezz’ora e se facciamo
tardi Emma esce di testa. Vuole mangiare la torta! A
tra poco!
Allora,
prima di tutto devo ammettere che è stato un dramma concludere questa storia,
soprattutto perché mi sono affezionata ai personaggi e perché, in più di
un'occasione, le situazioni descritte erano reali!
Ringrazio
tutti sul serio, siete stati così tanti a preferire/recensire/seguire/ricordare
la mia storia che mi sono commossa... Il grazie più
grande va a Emma, che oramai è la mia fan/amica/manager numero1... Senza di lei
non sarebbe stato lo stesso...
Subito
dopo ringrazio la piccola Laura, che, anche se ora è impegnata, mi sostiene
sempre...