La rosa di ghiaccio di FloEvans (/viewuser.php?uid=79152)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Chiave ***
Capitolo 3: *** Destino ***
Capitolo 4: *** La storia di Emiliana ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
1,Prologo
Prologo
-
- La
notte correva impetuosa e buia sulle colline di Ginosa. Quella sera
sembravano gridare vendetta al vento che noncurante le frustava e gli
alberi dalle alte fronde si muovevano in una convulsa danza. Le
nuvole dense rendevano lo scenario ancor più buio rilasciando la
violenta pioggia che con eleganza si precipitava sul terreno. Tutto
taceva meno che un leggero rumore di passi di una donna correva
nell’oscurità. Un mantello le copriva il volto e lasciava
intravedere solo due candide ciocche bionde.
- “E’
troppo veloce” pensò disperata la donna. Il suo petto danzava su e
giù per l’affanno e il cuore le batteva forte, quasi a voler
scappar via. Si guardò indietro e impulsivamente accarezzò il
pugnale sotto il mantello. Lui
era sparito, ma riusciva ad avvertire la sua presenza. Il silenzio
avvolse la donna che aveva tutti i sensi allerta: un passo a tradire
il suo nemico e la donna si ritrovò faccia a faccia con una sagoma
in ombra. Con rapidità estrasse il pugnale, ma la sagoma
incappucciata fu più veloce di lei. Alzò il braccio con forza e
trafisse la donna con una lama insolitamente luminosa. La donna
gemette di dolore e si gettò in ginocchio.
- La
sagoma dell’assassino si chinò su di lei bisbigliando: “Posso
salvarti, renderti immortale!” la sua voce maschile era fredda e
solo ad udirla incuteva una paura paralizzante.
- “Pensa,
sconfiggere la morte, essere padrona del tempo, immortale!”
continuò la sagoma “devi solo unirti a me” concluse offrendo una
mano alla donna. Lei alzò il volto con le ultime forze rimaste.
Avvertiva un dolore mai provato e il freddo si allacciò al suo corpo
privandola lentamente della vita. La ferita provocata dal pugnale
bruciava come mille lame roventi. A quel punto, il cappuccio cadde
dal capo della donna rivelandone il bel viso. Due occhi verdi
guardavano la morte con coraggio mentre le labbra piene si aprirono
“Mai mi unirò a te! Bastardo!” gridò la donna accogliendo il
suo destino con orgoglio e coraggio.
- Sul
volto semicoperto dell’aggressore si dipinse la rabbia e con
velocità piantò il coltello nel cuore della donna che si
accasciò con il viso rigato dalle sue ultime lacrime. L’assassino
guardò per due minuti la sagoma priva di vita di lei e poi, con
noncuranza, estrasse il pugnale dal suo petto. Lo guardò
affascinato, come se fosse un oggetto raro e assai interessante. Poi
notò il sangue che imbrattava il pugnale e disgustato pulì la lama
con l’orlo del suo abito.
- “Povera
sciocca” guardò ancora il volto della donna scuotendo il capo
“quale spreco” sospirò ancora guardandola con intenso desiderio
“Sarebbe stata una guerriera ideale per il mio mondo” parlò
ancora tra se con voce fredda.
- Quella
voce fredda di chi non ama e non è amato.
- “Peccato”
concluse camminando sul corpo senza vita della donna e poi sparì tra
gli alberi. Di nuovo tutto taceva e solo un tuono gridò al cielo la
sua dannata rabbia. Quella rabbia che solo una vita volata via può
provocare. Quel dolore che nessuno colmerà mai.
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Capitolo 2 *** Chiave ***
2chiave
-
Chiave
- Null’altro
siamo che non parte del gioco,
- muoviamo
su una scacchiera di giorni e notti;
- ad
ogni mossa un pezzo cade preso,
- la
partita continua mentre noi veniamo riposti.
- Omar
Khayam
- Due
mesi dopo…
- La
mattina illuminò prepotente la mia stanza buia e la luce del sole
accarezzò leggera i miei occhi chiusi. Gli aprii leggermente per
cercare di ritornare alla realtà. Erano due mesi che facevo lo
stesso sogno, volevo liberarmene, ma lui continuava prepotente a
tornare. Mi alzai dal letto infilando le pantofole e avvolgendomi nel
piumone depositato in un angolo della mia stanza. Respirai il suo
profumo denso di ricordi e cercai di cacciar dentro le lacrime.
Chissà quando mi sarebbe passata la nostalgia di lei. Guardai fuori
la finestra pensierosa.
- L’alba
nasceva tranquilla dopo un'altra notte tempestosa illuminando ogni
cosa. La cittadina fatta di vecchie case e prati ricchi d’erba e
grano si svegliò lasciando intravedere già le prime anziane signore
che, dopo una notte d’insonnia, uscivano fuori i balconi per
innaffiare le piante con cura. I vecchietti seduti alle verdi
panchine confabulavano tra loro osservando ogni macchina
passare ed ogni persona mentre le prime saracinesche si aprivano
rumorose e la città prendeva vita sotto i miei occhi.
- Mentre
andavo in cucina a prepararmi il caffè, pensai che la casa in cui
abitavo era vecchia e piccola, ma in fin dei conti accogliente.
L’avevo fittata dopo la morte di mia madre e abitavo lì da due
mesi. Da mia madre avevo ereditato la casa, oggetti personali
vari e una scatola. Su di essa aveva scritto il mio nome, ma da
quando seppi del suo omicidio non avevo più messo piede in quella
casa e né mai aperto la scatola da lei lasciatami. Non capivo ancora
come una donna di appena cinquant’anni, che amava la vita come lei,
avesse potuto preparare il testamento. Insomma, nessuno si sveglia la
mattina con la voglia di scrivere le proprie ultime volontà se sta
bene! E mia madre era sana come un pesce.
- La
polizia stava ancora indagando su chi fosse l’assassino, ma lui non
aveva lasciato tracce. “L’omicidio perfetto” l’avevano
soprannominato i giornali.
- La
memoria mi riportò a quella mattina tempestosa.
- Dormivo
tranquilla nel letto assaporando già mentalmente il buon caffè che
mi aspettava. Ero li, al calduccio, quando il telefono squillò. Il
cuore fece un salto ed io sentii dentro me che qualcosa era andato
storto. Smisi di ripensarci, invasa dalla rabbia e dal dolore per una
morte rubata.
- Due
pugnalate. Mia madre era
stata assassinata con due pugnalate. E i margini delle ferite
lasciate dalla lama erano bruciate, quasi come se il pugnale fosse
rovente.
- Da
quel giorno tutto era cambiato. Io ero cambiata. Non vivevo più.
Passavo i giorni tra caffè e televisione, ignorando costantemente il
pacco contenente i lasciti di mia madre che giaceva sul pavimento.
- Afferrai
la tazza di caffè bollente e mi strinsi ancora nel piumone,
domandandomi da cosa dipendesse quella voglia di tenermi a debita
distanza da quello scatolone. Era forse la paura di rivivere mia
madre? Mi ero rifugiata nell’apatia, nel desolante nulla e ogni
emozione era un colpo basso per la mia bolla di calma apparente ma
non potevo rimanere così, sospesa nell’oblio. Così presi coraggio
e mi avvicinai alla scatola. Quel pacco era stato preparato da
mia madre con mesi di anticipo, quasi come se sapesse cosa le sarebbe
successo. L’avevo custodito riparandolo dagli occhi della polizia,
che aveva profanato con le indagini e assurde insinuazioni le ultime
volontà di mia madre. Mi inginocchiai dinanzi alla scatola
tastandone la superficie, feci scivolar via la polvere finché non
riemerse la calligrafia di mia madre:
- Per
Debora – IMPORTANTE
- Sorrisi
nel riconoscerla, una prova indelebile dell’esistenza della mamma.
Una lacrima bagnò il mio viso ed io non mi sforzai di ripulirla. Mi
morsi il labbro per l’agitazione e con mano tremante afferrai il
pezzo di nastro adesivo mezzo sollevato che chiudeva lo scatolone.
Con il cuore che aveva la chiara intenzione di volar via sollevai di
poco il nastro, ma qualcuno bussò alla porta. Mi guardai attorno
furtiva come se mi avessero appena scoperta a rapinare una banca.
- “Chi
è?” domandai guardando la porta.
- “Sono
Alba, dai aprimi!” rispose una voce familiare dietro la
porta.
- Notevolmente
seccata mi diressi verso la porta ben consapevole di non essere
presentabile. Chissà, magari si sarebbe spaventata del mio aspetto
da cavernicola e sarebbe andata via! Aprii la porta e guardai in
faccia la mia collega e migliore amica. Nei suoi occhi da cerbiatta
si dipinse quello sguardo compassionevole che picchiettava sempre sui
miei nervi.
- “Ciao,
entra” dissi senza entusiasmo.
- “Da
quanto non metti un po’ d’ordine?” mi chiese guardandosi
attorno. Mi voltai di scatto a guardare Alba con profonda
indignazione, ma lei stava già prendendo la roba depositata da
giorni sul divano. La osservai mentre scorrazzava da un lato e
l’altro del salotto: Alba era bella, alta e aveva lunghi capelli
neri e due occhi marroni incantevoli.
- “Che
ci fai qua?” domandai porgendole un po’ di caffè mentre si
voltava a guardarmi e afferrava la tazza.
- “Sono
venuta a salvarti, ragazza mia!” rispose bevendo e scrutandomi
dalla testa ai piedi.
- “Non
ho bisogno di essere salvata” le feci notare mentre con il piede
spostai in un angolo la scatola di mia madre in modo che Alba non la
vedesse.
- “A
me non sembra, insomma: guardati!” esclamò indicandomi “Sei
messa malissimo!”
- “Grazie
dell’incoraggiamento! Perché, visto che ci sei, non mi pianti un
coltello nel cuore?” domandai sarcastica mentre lei mi guardava con
aria imbronciata.
- “Come
puoi sostenere che stai bene? Non esci da mesi, non fai altro che
rotolarti nella tua disperazione! Hai lasciato persino il lavoro!”
- La
guardai, aveva ragione e non potevo negarlo. Avevo un bel
lavoro da bancaria, ma mancavo ormai da due mesi e senza nessuna
giustificazione precisa, non mi avrebbero mai ripresa.
- Alba
colse al volo il mio momento di riflessione e disse
- “Devi
tornare la Debora di sempre” mi prese per mano e mi portò allo
specchio: la mia immagine mi colpì come una frustata. I miei capelli
color cioccolata ricadevano lungo la schiena scompigliati e privi di
una forma precisa, i miei occhi, arrossati e impauriti, mi fissavano
dal loro blu mare e la mia figura alta e formosa si perdeva
nell’ampio pigiama macchiato. Dove ero finita?
- “Tua
madre non avrebbe mai voluto vederti così” continuò asciugandomi
una lacrima dal volto. Aveva maledettamente ragione! Mi voltai verso
di lei e l’abbracciai. Il mio cuore batté più veloce nel
riconoscere il fatto che forse potevo riavere la mia vita. Mi staccai
da Alba che sorrideva compiaciuta.
- “Ok,
proverò a riprendermi” ammisi dandole una pacca sulla spalla.
- “No,
non ci proverai! Tu ci riuscirai!” mi incoraggiò ancora. Annuii
con il capo, ancora poco convinta, ma con un piccolo barlume di
speranza.
- “Oggi
tu vieni con me!” esclamò all’improvviso facendomi sobbalzare.
- “Dove?”
domandai sentendo la pigrizia impadronirsi del mio corpo.
- “A
riaverti!” esclamò come se fosse una cosa ovvia.
- “Non
ho alcuna intenzione di uscire oggi” risposi allontanandomi da lei
per gettarmi sul divano. Sì, era giunta l’ora di riprendere
possesso della mia vita, ma quella non era la giornata ideale per
farlo.
- “Dai,
ti prego!” disse Alba sfoderando a tradimento il suo sguardo più
dolce e supplichevole.
- “No,
no, no! Non se ne parla, Alba. Ho bisogno di altro tempo! Non dico
mesi, ma almeno un giorno!” risposi incrociando le braccia con
forza. Ero decisa a rimanere più che mai sul divano e né Alba, né
le sue grandiose idee mi avrebbero mai staccata da casa mia!
- Trenta
minuti dopo ero nella sua macchina.
- “Ci
divertiremo sta’ tranquilla!”
- Alba
guidava con aria divertita mentre io guardavo contrariata Ginosa
andar via e la mia casa allontanarsi. Mi ero pettinata decentemente e
avevo indossato una comoda tuta: in confronto al mio precedente
abbigliamento, mi sentivo in abito da sera!
- Alba
mi portò a Taranto e nel tragitto non facevo altro che pensare a
quel che avevo lasciato a casa. L’idea di aprire lo scatolone
impolverato diventava stranamente –dopo tutto il tempo per cui
l’avevo ignorato- sempre più attraente e quindi neanche una bella
passeggiata tra negozi poteva distrarmi dall’idea. Per tutto il
giorno girai per le strade fingendomi interessata, comprai
addirittura una maglietta per tenere contenta Alba, che non si
arrendeva all’idea che in quel momento lo shopping non era una
delle mie priorità.
- “Prendiamo
due caffè e due cornetti al cioccolato!” esclamò Alba ad un
cameriere, seduta con me al tavolo di un bar, mentre io rimuginavo
sullo scatolone: avevo bisogno di parlarne con qualcuno, ma non
sapevo se confidarmi con lei. Alba non aveva mai tradito la mia
fiducia, ma era giusto raccontarle di questo? La osservai ancora
mentre guardava felice come una pasqua le buste contenenti i suoi
numerosi acquisti. La conoscevo da anni ormai e per quanto a volte
potesse sembrare superficiale lei non lo era affatto, forse
confidarsi poteva essere la cosa migliore. Stavo per parlare ma lei
mi precedette
- “Guarda
là” parlò elettrizzata mentre nei suoi occhi una scintilla si
accese.
- “Cosa?”
chiesi guardandomi attorno.
- “Il
tipo con la maglia nera!” fece Alba dondolando felice sul posto. Mi
guardai attorno cercando il tipo con la maglia nera. Un uomo con la
maglia nera, che poteva pesare più di cento kili, mangiava un crafen
leccandosi le dita.
- “Direi
che i tuoi standard sono caduti un po’ troppo in basso” commentai
mentre l’uomo si soffiava rumorosamente il naso. Alba si voltò in
direzione del mio sguardo.
- “Non
lui!” disse concisa “Lui!”
aggiunse indicando con il pollice un punto dietro la sua spalla
destra. Alzai leggermente lo sguardo sul punto da lei indicato: un
ragazzo alto si poggiava sul piano bar con aria disinvolta. Aveva
l’aspetto tipico di quei ragazzi che se sei intelligente, eviti, ma
era obiettivamente molto bello. I capelli neri erano folti e alcune
ciocche ricadevano sulla fronte coprendo i due occhi di un colore tra
il marrone e il rosso. Si passava una mano tra i capelli e persino da
dove ero seduta riuscii a notare che i muscoli scolpiti adeguatamente
erano ben visibili anche da sotto la maglietta.
- “Allora?”
domandò Alba in attesa di un mio commento.
- “Decisamente
meglio del tipo con il crafen!” le dissi e lei sorrise maliziosa.
- “Oh
si! E’ proprio uno di quei ragazzi capaci di far svenire una
centinaia di donne con un solo sguardo!” affermò mentre il
cameriere ci serviva i nostri caffè e cornetti.
- “Beh,
vacci a parlare!” le dissi dando un morso al mio cornetto. Le mie
papille gustative iniziarono a ballare la samba, erano mesi che non
mangiavo niente di così buono. Ultimamente mi nutrivo di patatine e
cibi precotti.
- “No!
Vacci tu!”
- Quasi
mi cadde la bocca per lo stupore. Assurdo, l’uomo interessava a lei
ma dovevo essere io ad avvicinarlo?
- “E
cosa dovrei dire se interessa a te?” domandai curiosa e già
consapevole delle eresie che avrebbe detto
- “Beh,
mi vergogno! Indaga un po’ per me!” rispose con aria innocente.
Alzai un sopracciglio scettica, era una delle tante stupidaggini che
Alba amava fare.
- “Beh
te lo scordi! Alza quel tuo bel culetto e vacci tu!” conclusi prima
che Alba dicesse qualcos’altro. Spiai di nuovo il tipo che ora si
era seduto vicino al bancone. I capelli neri brillavano sotto la luce
della lampada, mentre i suoi occhi guardavano annoiati attorno,
finché con un guizzo improvviso balenarono su di me. Mi sentii
arrossire nell’essere stata scoperta a fissarlo. Diedi un altro
morso al mio cornetto contemplandolo come se fosse un opera d’arte.
Alba mi tenne il broncio per tutto il tempo che restammo al bar e
solo dopo essere entrate nella sua macchina ricominciò con il suo
solito ciarlare.
- Viaggiavamo
sulla strada e il mondo scorreva fuori dai nostri finestrini: tutte
le macchine che correvano con noi, contenevano delle vite. Magari
l’uomo dell’auto davanti a noi, che aveva appena fatto un
sorpasso troppo azzardato, stava correndo in ospedale per assistere
alla nascita di suo figlio. Oppure la donna dell’auto dietro la
nostra era stata appena lasciata dal suo ragazzo o magari si stava
per recare all’appuntamento più importante della sua esistenza.
- La
vita andava avanti, pensai, non si era fermata ad attendere la mia
guarigione. La vita non aspetta nessuno, sta’ solo a te saperla
vivere. Mi appoggia sul finestrino ignorando Alba. No, la vita non si
era fermata affatto, ero io quella ferma. Ferma nell’ultimo ricordo
di mia madre, nell’ultimo attimo di felicità, nell’ultimo attimo
vissuto, ma non di vita. La vita non ciondolava appesa a quello
scatolone, la vita era li ed io me la stavo perdendo.
- Guardai
Alba parlare di una canzone e sorrisi. Si, sorrisi! Sorrisi ad Alba,
alla sua folle allegria, alla voglia di vivere che aveva e che,
contagiosa, era giunta anche a me. Sorrisi alla vita che non si era
fermata e sorrisi a me stessa che avevo deciso di raggiungerla.
Quando Alba si fermò dinanzi casa mia l’abbracciai forte.
- “Grazie”
bisbigliai. Lei si scostò leggermente in modo da guardarmi e sorrise
amorevole.
- “Di
niente, sono qui per questo!”
- Le
sorrisi ed entrai in casa sicura che da li sarebbe stato tutto
migliore.
- Appena
varcai la soglia, comunque, mi diressi sicura dal mio caro scatolone.
Mi ci inginocchiai davanti e il mio cuore riprendeva a volava
veloce, più del vento, consapevole dell’importanza di ciò che i
miei occhi stavano per vedere.
- Le
ultime volontà di mia madre erano chiuse li e gridavano da due mesi
di uscire fuori.
- Mi
preparai a rivivere ricordi legati a quegli oggetti che,
probabilmente, mi avrebbero fatto male. Afferrai il nastro
adesivo e con un colpo secco lo strappai via. Alzai lievemente il
coperchio mentre la mano tremava più che mai piano, lo tolsi e lo
scatolo rimase nudo ai miei occhi.
- Il
buio offuscava il contenuto quindi pescai un oggetto a caso: la mia
mano toccò qualcosa di duro e liscio. Estrassi l’oggetto e lo
guardai con attenzione. Uno specchio dalla cornice d’oro e il
manico tempestato di diamanti si presentò dinanzi ai miei occhi.
Quello specchio in cui tante volte avevo visto specchiarsi mia madre,
questa volta rifletteva il mio viso rigato di lacrime. Quell’oggetto
era sempre nella sua borsa quando usciva e non lo abbandonava mai.
Aveva per lei un valore affettivo, erano generazioni che la mia
famiglia si tramandava quel piccolo cimelio, e mia madre aveva scelto
me per conservarlo. Lo strinsi tra le dita ricordando tutte le volte
in cui si era specchiata in quel piccolo pezzetto di ricordo. Posai
con cura lo specchio sul pavimento e decisi di prendere un altro
oggetto. Questo era notevolmente più piccolo e soprattutto di meno
valore. Una chiave dall’aria antica brillava sulle mie mani: la
guardai incuriosita. Cosa apriva quella chiave?
- La
guardai attentamente alla ricerca di qualche indizio che mi dicesse a
quale porta era destinata, ma nulla mi fu rivelato. Decisi di
rovistare ancora nella scatola e trovai un vaso di creta rosso con su
inciso: L’arte del fare “1913”. Quel vaso aveva abitato il
salotto di casa mia per anni, ma non avevo mai notato quell’incisione
sulla sua superficie.
- L’ultimo
oggetto era un modellino di una nave molto antica. Non avevo mai
visto quel modellino in casa. Lo guardai meglio voltandolo tra le
mani: le vele bianche, il timone, l’albero maestro, erano fatti con
estrema precisione. Sul fianco della nave era scritto: Aurora
(Taranto)
- Rimasi
perplessa dagli oggetti che mia madre mi aveva lasciato. Escludendo
il vaso e lo specchio gli altri due oggetti erano totalmente
sconosciuti. Ero più che sicura che mia madre mi avesse regalato
oggetti che mi ricordassero lei, non che non avevo mai visto in vita
mia. E poi, la chiave cosa apriva? Presi lo scatolone in cerca di
risposte. Magari mia madre aveva lasciato una lettera che spiegava il
senso di lasciarmi una chiave senza dirmi cosa apriva. Infilai la
testa nello scatolone e intravidi un pezzetto di carta che giaceva
sul fondo. Lo afferrai sicura di aver trovato la risposta alle mie
domande, ma quel pezzo di carta non fece altro che moltiplicarle. La
grafia di mia madre aveva scritto sul quel pezzetto un nome: Emiliana
Serrante.
- Solo
un nome, nient’altro. Guardai la chiave e il pezzetto di carta.
Cosa voleva dirmi mia madre? E perché pormi questo enigma invece che
spiegarmi chiaramente cosa apriva quella chiave?! Sentii un moto di
rabbia e disperazione e con forza mi alzai dal pavimento. Iniziai a
camminare su e giù per la stanza. Mia madre era sempre stata una
donna comune, non aveva mai celato alcun mistero nella sua vita,
perché pormene uno alla sua morte?
- Quella
chiave apriva qualcosa, e qualunque cosa fosse doveva essere
importante. E poi chi era Emiliana Serrante? Non ne avevo mai sentito
parlare e il suo nome quindi non evocava nulla in me. Afferrai il
pezzetto di carta cercando qualcos’altro oltre a un nome, ma nulla
vi era tranne che esso. Presi gli oggetti che avevo trovato nello
scatolone e gli misi sul tavolo della mia stanzetta, poi infilai il
pigiama e strisciai sotto le coperte con il cervello che ancora
ronzava cercando un nesso tra la chiave e quel nome.
- Emiliana
Serrante.
- Quella
notte mi girai e rigirai nel mio letto, ma prendere sonno fu
difficile, solo dopo alcune ore scivolai agitata tra le braccia
delicate di Morfeo che mi avvolse in sogni agitati e senza senso.
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Capitolo 3 *** Destino ***
Destino
-
Destino
-
- Correvo
nella notte mentre il cielo di nuovo imprecava tuonando e lanciando
con violenza la pioggia. Non sapevo esattamente dov’ero, ma sapevo
solo che il terreno era instabile sotto ai miei piedi. Correvo e
sentivo il mio cuore schizzare fuori dal mio corpo. Mi stavano per
raggiungere, ma non dovevano assolutamente prendermi. Una sagoma
incappucciata continuava a inseguirmi e io avvertivo forti fitte di
panico, ma continuavo la mia corsa contro il tempo, contro la vita
stessa. Ad un certo punto inciampai in qualcosa e caddi per terra.
Non riuscivo ad alzarmi e le gambe facevano male. Mi guardai intorno
senza capire bene dov’ero, tutto era avvolto nell’ombra. Uno
squarcio di luce illuminò improvvisamente il cielo e la persona che
mi era dinanzi: la sagoma incappucciata mi aveva raggiunta e i suoi
occhi brillavano di un rosso intenso. Con violenza mi afferrò il
gomito e…
- “AAAHHH!”
gridai svegliandomi sentendo il cuore battere forte. Sudavo e solo
dopo una manciata di minuti capii di essere ancora nel mio letto.
- Tirai
un sospiro e mi sedetti sul letto. Mi tenni il capo con le mani
cercando di riavermi, ma quel sogno era stato così reale che
ritornare alla realtà era difficile. Piano andai in cucina e
preparai il caffè. Quel sogno mi tormentava da mesi da quando mia
madre era morta, ma mai il mio inseguitore mi aveva raggiunta. Decisi
di mettere da parte il sogno e di prepararmi, avevo intenzione di
chiedere al mio datore di lavoro di riassumermi, cosa alquanto
impossibile. Dopo la doccia infilai un paio di jeans e una camicia,
indossai il mio cappotto e mi guardai allo specchio. Avevo
finalmente messo in ordine i miei capelli, che avevo accuratamente
stirato. Non ero certo in tiro, ma sicuramente migliore ai giorni che
avevo passato in precedenza. Presi le chiavi della macchina e uscii
fuori dal piccolo appartamento con l’intento di pulirlo in seguito.
Attraversai il paese con l’auto mentre fuori dal finestrino la
giornata dei miei compaesani si avviava.
- Arrivai
alla banca e parcheggiai lì di fronte, diedi un occhiata al mio
volto dallo specchietto retrovisore: una maschera serena celava il
mio animo irrequieto.
- Uscii
dall’auto e sbattei la portella, poi con un click dal pulsante
delle mie chiavi la chiusi ed entrai in banca. Le ordinate sedie
erano disposte dinanzi ai banconi ove erano disposte alcune delle mie
colleghe che mi salutarono con un cenno del capo mentre le persone
aspettavano il proprio turno in fila. Appena la folla si accorse
della mia presenza si alzò nella stanza un vociferare fitto. La
gente, nei piccoli paesi come Ginosa, fa del pettegolezzo una
professione. Ovviamente ero l’argomento del momento! Un omicidio
così misterioso, reso famoso anche dai media, e la mia totale
scomparsa dalla vita di paese era un fatto abbastanza succoso per le
bocche dei miei compaesani. Mi guardai attorno e notai alcuni sguardi
compassionevoli, altri indignati, altri ancora diffidenti. Sbuffai
sonoramente incrociando le braccia, come a rifiutare tutto quel
vociferare che mi infastidiva.
- Finalmente
un volto mi guardò sorridendo: Alba mi stava raggiungendo. Aveva
lasciato il suo sportello per raggiungermi, dove un anziano signore
si lamentava già della sua assenza.
- “Sei
qui per chiedere di riassumerti, vero?” bisbigliò inutilmente;
tutti erano in un innaturale silenzio.
- “Sì,
dov’è Domenico?” chiesi.
- “Nel
suo ufficio, va’ prima che sia troppo impegnato per le tue
suppliche”.
- Le
sorrisi nervosa e mi diressi lungo lo stretto corridoio che portava
all’ufficio del mio direttore. Alba non riuscì ad accompagnarmi,
aveva lasciato una fila enorme davanti il suo sportello per venirmi
a salutare. Arrivai dinanzi la porta in mogano con su la targa d’oro
con su scritto: Direttore Domenico Avantagia.
- Bussai
ed attesi la risposta del mio direttore che non tardò ad arrivare.
- “Avanti!”
- La
voce profonda arrivò alle mio orecchie il mio cuore saltò. Era
praticamente impossibile essere riammessa dopo la scomparsa
improvvisa. Mi armai di sfacciataggine ed aprii la porta. Domenico
Avantagia era seduto dietro la scrivania e mi fissava attraverso i
suoi occhiali bizzarri.
- “Oh,
prego, si sieda!” mi disse alzandosi per stringermi la mano.
Obbedii e mi sedetti sulla sedia dinanzi alla scrivania.
- “Buongiorno”
salutai. Lui continuava a fissarmi con i suoi occhi neri. Domenico
Avantagia era un uomo sulla cinquantina dalla calvizie incipiente,
corretto e con un pessimo gusto per l’abbigliamento. Avevo avuto
molti richiami dopo la mia totale scomparsa da parte sua, ma gli
avevo sempre ignorati.
- “Vorrei
chiederle…” iniziai cercando di distogliere lo sguardo
dall’assurda cravatta con i pini ricamati.
- “Di
essere riassunta, giusto Debora?” completò lui facendo un sorriso
lurido.
- “Si”
risposi a fil di voce.
- “Beh,
ha svolto sempre un ottimo lavoro per noi, ed io capisco il motivo
della sua assenza. Sua madre, è stato un grande dispiacere per me,
ma non avrebbe dovuto mollare tutto così improvvisamente come ha
fatto”.
- “Non
accadrà più” dissi piano comprendendo l’evidente intenzione di
quelle parole.
- “Certo,
non ne dubito, ma non sarebbe giusto riassumerla. Ho già assunto un
altro dipendete per colmare la sua assenza e non è giusto
licenziarlo solo perché ora lei è tornata.”.
- Abbassai
lo sguardo, aveva ragione da vendere purtroppo.
- “Quindi,
non posso accettare” concluse con un velo di dispiacere nel suo
tono di voce.
- “Certo,
certo. Comprendo” annuii ancora guardando i suoi bizzarri occhiali.
Rimanemmo per un attimo in silenzio, avevo avuto la conferma a ciò
che già pensavo, ma ora come avrei fatto? Dovevo trovare un lavoro
ad ogni costo o mi sarei trovata in guai seri.
- “Bene,
allora arrivederci” mi salutò il direttore alzandosi e offrendo la
sua mano. Dopo averla stretta lievemente e risposto al saluto,
percorsi lentamente il corridoio e sentendomi terribilmente
frustata lanciai un saluto veloce ad Alba ed uscii dalla banca.
- Entrai
svelta in macchina e poggia la testa sul volante. Ed ora? Cosa
m’inventavo? Dove andavo a trovarlo un altro lavoro così ben
pagato? Ero stata una vera stupida. Irritata accesi il motore e
partii.
- Vagavo
per il paese senza alcuna meta quando ricordai il biglietto di mia
madre. Emiliana Serrante. Sbuffai forte, dovevo scoprire chi fosse,
ma come? Non potevo mica andare in giro chiedendo alla gente dove
abitava una certa Emiliana Serrante! Come avrei fatto a trovarla?
Vagavo ancora per il paese, ero in una stradina tutta in salita e
completamente isolata quando un sonoro rumore mi fece spaventare. La
mia macchina iniziò a fare dei salti e con un rumore assordante si
spense. Spaventata cercai di riaccenderla, ma dopo diversi sfiati il
motore non diede più segni di vita.
- “Maledizione!”
imprecai uscendo dall’auto! Il vento freddo di Novembre frustò il
mio viso mentre aprivo il cofano che copriva il motore. Un fumo
inondò il mio viso e una puzza di bruciato mi allarmò. Mossi un po’
le mani per scacciare il fumo e rendere più visibile il motore. Lo
guardai con attenzione, ma per me era come leggere un libro in
aramaico antico. Probabilmente si era bruciato qualcosa, a giudicare
dall’odore. Mi morsi il labbro cercando di capire cosa fosse
successo, ma sapevo che era già tanto se mettevo la benzina al self
service, figuriamoci aggiustare un motore. Guardai la strada davanti
a me: era tutta in salita e assurdamente lontana da casa mia. Guardai
la mia piccola auto con compassione, l’unica soluzione era
raggiungere il meccanico più vicino per far aggiustare il motore.
Percorsi tutta la salita e dopo circa quindici minuti trovai un
meccanico. Vederlo fu come vedere un frigo bar nel deserto. Entrai
nel locale dove una decina di auto erano parcheggiate e con lo
sguardo cercai qualcuno che mi potesse aiutare. Finalmente vidi un
paio di gambe spuntare da sotto un auto e dissi
- “Scusi”
- L’uomo
non rispose. Forse non mi aveva sentito, provai ad alzare la voce
- “MI
SCUSI!”
- “Salve”
disse una voce alle mie spalle. Mi voltai, un uomo dalla tuta da
lavoro blu con il viso tutto sporco mi salutò.
- “Ho
avuto un guasto alla mia auto, è a quindici minuti da qui. Magari
potreste, per favore, darle un occhiata”.
- L’uomo
arricciò il naso come se fosse seccato e poi diede un pugno sul
cofano dell’auto dove si nascondeva il suo collaboratore che mi
aveva ignorata.
- Il
collaboratore uscì da sotto l’auto e togliendosi le auricolari si
alzò
- “Quei
dannati aggeggi!” imprecò l’uomo mentre il ragazzo con uno
straccio si puliva il volto.
- Il
ragazzo dai capelli neri e occhi di un unico marrone che avevo visto
il giorno prima a Taranto si presentò dinanzi a me. La tuta da
lavoro slacciata e la maglia dalle maniche arrotolate mostravano due
braccia ben muscolose.
- “Cosa
c’è?” domandò lui all’uomo.
- “C’è
una cliente” rispose indicandomi “devi andare ad aggiustarle
l’auto”.
- Il
ragazzo mi guardò e inclinando leggermente la testa chiese “Dov’è
l’auto?”
- “Mi
segua” risposi semplicemente.
- Lui
prese la cassetta degli attrezzi e mi seguì. Per metà del tragitto
entrambi rimanemmo in silenzio poi, a pochi metri dall’auto, mi
chiese “Cos’è successo all’auto?”.
- “Beh,
camminavo e ad un certo punto ha fatto un brutto rumore e si è
spenta!” spiegai velocemente guardando dritto dinanzi a me.
- Ancora
il silenzio regnava durante il tragitto fino alla mia auto ferma.
- “Qui,
sembra che sia tutto nella norma!” esclamò il meccanico guardando
il motore
- “Non
è possibile, la macchina non parte più e poi puzzava di bruciato
e…” risposi io
- “Prova
ad accendere il motore” mi disse. Entrai in macchina borbottando,
se non si accendeva prima perché doveva accendersi ora, ma appena
girai la chiave l’auto si accese come se niente fosse. Rimasi a
bocca aperta.
- “Come…”
- “Ha
visto signorina? Nulla è rotto!” parlò il meccanico avvicinandosi
al finestrino.
- “Ma…
si è spenta all’improvviso e… il fumo…” balbettai
imbarazzata. Il meccanico mi guardò scettico e si allontanò
per mettersi di fronte l’auto e chiudere il cofano.
- “Saranno
i folletti del motore!” bisbigliò divertito.
- Mi
prendeva in giro, era lampante. Lo guardai torva e fui tentata di
premere l’acceleratore e investirlo, ma un soggiorno in carcere non
era il massimo.
- “Mi
riporti all’officina, ho altro lavoro da svolgere” disse entrando
nella macchina. Un altro moto di rabbia per la sua arroganza e
goffamente feci partire l’auto.
- “Era
rotta! Dal motore usciva fumo, ne sono più che certa!” dissi più
a me che a lui.
- “Certo,
come no!” rispose.
- “Lei
non mi crede, ma era così!”
- Il
ragazzo rise come se avessi appena detto una barzelletta. Arrivati
all’officina mi fermai e il meccanico andò via.
- “Grazie
comunque, arrivederci” lo salutai
- “Arrivederci,
Debora”
- Mi
voltai di scatto verso lui, ma era già andato via. Non avevo mai
detto come mi chiamavo, come faceva a saperlo? Guardai l’officina
sospettosa, mentre nella mia mente si affollavano domande su domande.
Come faceva a sapere come mi chiamavo? Cos’altro sapeva? Guardai
meglio l’officina e quasi mi venne un colpo, accanto all’officina
si ergeva un altro edificio, una libreria:
-
Libreria
Serrante: dal 1950
- Cercai
di rallentare la caduta della mia mascella per lo stupore e uscii
subito dall’auto.
- Entrai
nella libreria composta da alti scaffali in legno, avrei quasi
apprezzato il calore che emanava quel locale ma in quel momento non
era possibile,il gelo avvolgeva le mie vene. Attenta ad ogni
movimento mi guardai attorno. Dietro il bancone soggiornava un uomo
di media altezza e dai capelli brizzolati che mi guardava cortese.
- “Le
serve qualcosa?” mi domandò sorridendomi. Lo osservai
attentamente.
- “Cerco
Emiliana Serrante” risposi e nel pronunciare quelle parole avvertii
una lieve scossa. L’uomo mi guardò meglio e si soffermò sui miei
occhi, il suo sorriso svanì lentamente.
- “Eccoti
qui, Debora” disse mentre sul suo viso si allargava un altro tipo
di sorriso più curioso. Nell'avvertire il mio nome il cuore fece
un salto mentre la paura diveniva sempre più antagonista della mia
curiosità.
- “Percorri
quelle scale e prendi la prima porta a destra. Emiliana ti sta
aspettando”
- Aspettando?
Qualcosa nel suo tono mi fece rabbrividire, ma decisi di fidarmi
delle sue indicazioni. Percorsi la scala a chiocciola sentendo il mio
cuore martellare, forse uno dei misteri della morte di mia madre
stava per essere svelato. I gradini cigolavano sotto i miei piedi
mentre il mio respiro si affannava per il panico. Giunsi in un
corridoio dai mobili antichi che emanavano lo stesso calore
dell'atrio e poi, con mano incerta, avvicinai il pugno alla porta
che mi aveva indicato. Ero davvero pronta a scoprire ciò che era
accaduto quella maledetta notte? Qualsiasi cosa fosse successa in
quella stanza,ero consapevole, avrebbe cambiato la mia vita. Deglutii
e bussai forte su quella porta scura.
- “Chi
è?” domandò una voce dall’interno della stanza. Silenziosa
entrai ritrovandomi dinanzi ad una signora anziana che sedeva su una
sedia a dondolo.
- “Sei
tu, Debora” disse sorridendomi lievemente.
- “Come…?”
balbettai.
- “I
tuoi occhi, come quelli di Amanda”.
- “Sei…”
iniziai.
- “Emiliana”
rispose. Era una donna di media altezza e poteva avere all’incirca
sessant’anni. I capelli grigi erano raccolti in una morbida treccia
e nascondevano alcune ciocche nere.
- “Sei
così cresciuta, bambina mia. Che orrenda cosa, la morte di tua
madre, ma d'altronde, era inevitabile.” Rimasi immobile senza
cogliere il senso delle sue parole. Si alzò a fatica dalla sedia e
rimasi ad osservarla mentre cercava qualcosa, alla fine la trovò ed
estrasse, dalla libreria a muro, un libro dall’aria molto antica.
-
“Sto
per rivelarti una cosa che sconvolgerà la tua vita per sempre, cara
mia. Sei pronta a sapere la verità sul mondo che ti circonda, su tua
madre, sulla tua identità?” Il mio cuore tremò e non risposi.
Emiliana aprì il libro ed io mi avvicinai incuriosita ad essa ignara
del fatto che da quel momento in poi il mio destino sarebbe cambiato
per sempre. Emiliana si sedette mostrandomi il libro ingiallito e
pieno d’immagini accompagnate da didascalie lunghissime e scritte a
mano. La prima immagine era un ritratto di una donna bruna e, a
giudicare dall’aspetto, poteva esser vissuta nell’antico Egitto.
Non riuscii a leggere nulla della didascalia accanto, perché
Emiliana prese a sfogliare il libro e, per ogni pagina, vi era una
foto diversa. Era come un viaggio nel tempo, attraverso dei volti.
- “Tutto
iniziò nell’antico Egitto.” parlò Emiliana guardandomi negli
occhi, non ricambiai lo sguardo, ero troppo presa dal susseguirsi
delle immagini del libro.
-
“ Ghasan
era un sacerdote all’epoca egizia. Aveva sette figli tutti dalla
stessa moglie, alla quale era devoto. Nulla sembrava poter spezzare
la loro unione tranne che Amore stesso. Quell'amore irrazionale,
folle, che coglie all'improvviso e che Ghasan trovò negli occhi di
una umile contadina. La donna si chiamava Anbar ed egli l'amo come
non aveva mai fatto, ma quell'amore così bello quanto maledetto era
destinato a morire.” Emiliana socchiuse gli occhi presa dal
racconto che per me non aveva alcun senso.
-
“Anbar,
si ammalò gravemente e morì giovane. Quando, il sacerdote Ghasan
,seppe della sua morte perse il senno e decise di riportare Anbar nel
regno dei vivi. Ma, nel fare questo il Dio della morte, Anubi,
adirato dall’ avaro desiderio di Ghasan , inviò trenta demoni per
sterminare la sua stirpe. Ghasan, cercò inutilmente di nascondere la
sua famiglia, ma tutto ciò che aveva di più caro morì. Così anche
lui si tolse la vita, in una notte di pioggia, sperando di
raggiungere la sua amata Anbar. L'amore di Anbar e Ghasan aveva
donato vita ad una bambina,Hadiya.
-
Della
sua nascita il sacerdote Ghasan non seppe mai nulla e ciò permise
alla bambina di nascondersi dai demoni rimasti sulla terra per
terminare il loro compito, ed eliminare la stirpe di Ghasan per
sempre. La bambina venne cresciuta dalla sorella della madre, che
scoprì l’amore segreto tra sua sorella e il sacerdote e la
maledizione che aveva ereditato la piccola. Così Hadiya venne
educata come una guerriera, una cacciatrice!”
-
-
“Cacciatrice?”
domandai perplessa.
-
“Sì,
cacciatrice di Demoni” rispose. La guardai scettica, ma paziente
continuai ad ascoltarla.
-
“Finché
tutti i demoni non saranno riportati nel mondo degli inferi, la
stirpe di Ghasan non avrà mai pace !” Terminò Emiliana posando lo
sguardo sul libro che ora ritraeva un uomo degli anni 60’.
-
“E
con questo cosa vorresti dire?” domandai guardando il libro.
-
“Da
Hadiya il compito di cacciare i demoni si tramanda di generazione in
generazione, fino ai giorni nostri” rispose Emiliana girando la
pagina del libro e guardandomi dritta negli occhi. Guardai la pagina
ed il cuore si fermò per un istante nel vedere la foto nel libro.
Una donna bionda mi guardava con i miei stessi occhi, mia madre
sorrideva dalla foto. Guardai Emiliana spaventata, il mio cervello
stava automaticamente collegando tutti i punti e il mistero si stava
rapidamente svelando sotto i miei occhi. Ecco perché tutti quei
sogni , quella sensazione che spesso avevo di essere osservata, ma
tutto ciò non poteva essere possibile.
-
“Mi
stai dicendo che …” iniziai ma Emiliana mi interruppe annuendo
con il capo.
-
“Sei
tu l’ultima erede di Ghasan, tu sei una cacciatrice di demoni”
-
La
guardai ed automaticamente indietreggiai spaventata dalle sue parole.
-
“Non
è possibile!” dissi.
-
“Fidati,
non sono pazza, credimi.”
-
“No
no, lo sei!” risposi sconvolta allontanandomi un po' da Emiliana
-
“Tua
madre è stata uccisa da un demone, per questo i margini della sua
ferita sono bruciati, per questo lei mancava per settimane, cacciava
demoni!” parlò Emiliana alzandosi dalla sedia per raggiungermi.
-
“No!”
esclamai io.
-
“Credimi,
hai anche tu la traccia.” continuò a parlare Emiliana
-
“La
traccia?” domandai mentre lei si avvicinava a me.
-
“La
traccia!” esclamò sfilandomi la sciarpa e toccandomi una piccola
voglia che avevo sulla nuca.
-
“No,
non è vero!” gridai e scappai via da quella stanza, lasciando
Emiliana sola a gridarmi:
-
“Tornerai,
ben presto! Non puoi scappare al tuo destino, lui ti prenderà!”
-
Percorsi
le scale e mi precipitai alla porta del negozio correndo via. Entrai
in macchina e accesi il motore velocemente, per poi partire a tutta
velocità.
-
No,
non può essere vero! Era solo una maniaca che collezionava foto!
-
E
allora come poteva sapere di mia madre? O della mia voglia sul collo?
E del mio nome!
-
Non
ne ho idea, ma di certo non sono una cacciatrice di demoni e neanche
mia madre lo era mai stata!
-
Interruppi
il mio monologo interiore per cercare nella borsa le chiavi di casa
di mia madre: avevo bisogno di risposte e quale posto migliore?
Rovistai un po’ nella borsa ed entusiasta le tirai fuori
mostrandole come un trofeo, ma la ricerca delle chiavi aveva rubato
troppa concentrazione alla guida. Infatti appena tornai con gli occhi
sulla strada mi accorsi troppo tardi che dinanzi a me c’era un
uomo. Cercai di frenare, ma la mia macchina non fu agile come speravo
e lo travolse in pieno. Urlai con tutte la voce che avevo quando vidi
il suo corpo spiaccicarsi sul mio vetro fracassandolo. Fermai l’auto
e spaventata scesi non sapendo cosa fare. Il corpo sul mio vetro non
dava segni di essere ancora vivo e il mio cuore batteva così forte
da fare male. Mi guardai attorno cercando qualcuno che mi potesse
aiutare, ma non c’era nessuno. Mi accorsi che stavo sanguinando
quando, asciugandomi gli occhi, la mia mano si sporcò di sangue.
-
“Aiuto!”
gridai senza riuscire a riflettere, volevo solo che l’uomo sulla
mia auto si alzasse. Cercai di pensare e ricordai di avere un
cellulare. Spaventata corsi verso l’auto ed afferrai la borsa.
Cercai il mio cellulare senza alcun successo per poi ricordarmi di
averlo in tasca. Lo afferrai e composi il numero 118, stavo per
chiamare quando notai che il corpo dell’uomo era sparito. Mi
guardai attorno, ma non vi era nessuno tranne me in quella strada
buia. La paura si fece strada in me, avevo appena investito un uomo
che ora era sparito. Continuai a guardarmi intorno quando una mano
fredda mi afferrò per il collo sollevandomi da terra. Guardai in
faccia il mio aggressore dagli occhi rossi, il volto bianco e la
bocca spalancata in un sorriso maligno. Cercai di gridare, ma la
paura era tale da riuscire ad immobilizzare anche le mie corde
vocali.
-
“L'ultima
Ghasan!” esclamò una voce profonda e maligna.
-
Ghasan?
No, non poteva essere!
-
Guardai
ancora il volto dell’aggressore, che perdeva sempre più i suoi
tratti umani, e capii che ero spacciata. Cercai di divincolarmi, ma
possedeva una tale forza da fermare ogni mio movimento. Strinse
forte la presa sul mio collo e l’aria iniziò a mancare. Più
stringeva la mano e più diventava rovente. Rideva compiaciuto ed io
cercavo di divincolarmi sempre più, quando un rumore mi salvò la
vita. Appena l’essere lo udì smise di stringere la mia gola e si
voltò lasciandomi e scappò via ringhiando e scomparendo nel nulla
pochi metri lontani da me. Mi guardai attorno cercando la fonte del
rumore, ma non vi era più nessuno. Corsi nella macchina e scappai da
quel posto.
-
Giunsi
a casa di mia madre ansimando e piangendo. Non capivo cosa succedeva,
prima Emiliana Serrante, poi l’aggressione. Poggiai la testa sul
volante lasciandomi travolgere dalle lacrime di paura mentre il vento
freddo di Novembre entrava nell’auto dal grosso buco che il corpo
di quell’ essere
aveva creato sul mio vetro. Cercai di calmare il mio respiro e uscii
dall’auto correndo verso la porta di casa di mia madre. Era una
casa molto grande e antica, nell’ingresso i ritratti e i vecchi
mobili erano impolverati e nel salone il caminetto spento dava un
aria morta ad ogni cosa. Nulla era cambiato, i tappeti, i mobili,
l’odore erano sempre gli stessi, eppure tutto non era più come
prima, ero io ad essere cambiata. Mi sedetti sul divanetto del
salotto osservando il grosso tappeto dinanzi il caminetto, quante ore
di fantasia e gioco avevo passato da piccola in quel esatto punto.
Socchiusi gli occhi e quasi riuscii a sentire l’odore dei biscotti
proveniente dalla cucina di mia madre mentre io studiavo sdraiata su
quel caldo tappeto. Non riuscii a capire cosa provavo davvero ad
essere di nuovo li, tutto era impolverato e buio, ma era pur sempre
casa mia. Ero triste, spaventata, felice, rabbiosa ma soprattutto
nostalgica. Mi ricordai di sanguinare e guardai la mia mano percorsa
da un profondo taglio da sinistra verso destra. Uscii dal salotto e
mi recai nel bagno dove erano ancora depositate le asciugamani. Ne
presi una nella quale avvolsi la mia mano sanguinante. Rimasi seduta
ad osservare il nulla cercando di trovare il coraggio di entrare
nella stanza accanto al bagno. Ero consapevole dei ricordi che
avrebbero inevitabilmente aggredito la mia mente, ma era
fondamentale. Così sospirai ed entrai nella stanza di mia madre. Mi
recai alla finestra ed aprii le persiane facendo si che un po’ di
luce toccasse le pareti di quelle mura, mi voltai e vidi il grande
letto in cui mia madre ogni notte dormiva sola. Avevo perso mio padre
quando avevo solo due anni, e i miei ricordi di lui erano pochissimi
e molto vaghi. Ricordavo i giochi che facevo con lui e la felicità
nel vederlo ritornare dal lavoro la sera. Quel pensiero mi fece
sentire ancora peggio, ero sola. Guardai il comodino di mia madre che
era pieno di gioielli, foto e lampade. Presi una foto dal comodino
che ritraeva lei e una bambina di circa cinque anni abbracciate.
Sorrisi a me stessa da piccola e a mia madre che giovane mi baciava
sulla guancia. Mi guardai attorno e notai che il vecchio armadio di
mia madre aveva un anta aperta. L’anta che era sempre stata
bloccata, misteriosamente, questa volta lasciava mostrare il suo
contenuto. Mi avvicinai cauta all’armadio in cui un grosso specchio
splendeva dinanzi a me. Non vi erano ripiani o oggetti in quella
parte dell’armadio, solo un grandissimo specchio animato dal mio
riflesso. Notai che infilata nella toppa dell’anta vi era una
chiave e capii. L’anta era perfettamente funzionante,non era mai
stata bloccata, mia madre aveva nascosto la chiave, ma a quale scopo?
Mi avvicinai allo specchio e lo esaminai meglio, non era
completamente attaccato al muro, ma sul lato destro vi era una
cerniera come se quello specchio fosse una porta. Afferrai il bordo e
curiosa tirai un po’, lo specchio si mosse di poco, ma non si aprì.
Ero più che convinta che dietro quello specchio ci fosse qualcosa
d’importante, che mia madre mi aveva nascosto. Continuai a tirare
lo specchio cercando di rimuoverlo dal fondo dell’armadio, ma fu
quasi inutile. Guardai meglio lo specchio e notai che nell’angolo
superiore vi era un piccolo segno quadrato. Mi allungai per toccarlo
e notai che quel pezzo di specchio era leggermente rialzato.
Tastandolo arrivai all’angolo superiore del quadratino e lo
afferrai tirandolo via. Quel quadratino di specchio si aprì e mi
mostrò una serratura dall’aria molto antica. Il mio cuore fece un
balzo ed io arretrai, come sospettavo quello specchio era una porta.
D'improvviso tutto fu chiaro e corsi nella macchina e per arrivare a
casa mia, quindici minuti dopo ero tornato davanti allo specchio, con
la chiave che mia madre mi aveva lasciato, pronta a scoprirne i suoi
segreti. Infilai nella toppa la chiave e la girai sicura di ciò che
stavo facendo, meritavo delle risposte. Si udì uno scatto e lo
specchio si aprì. Dietro quello specchio vi era una stanza buia di
cui non sapevo neanche l'esistenza. Entrai, la curiosità aveva vinto
la paura già da un po', in quel buio opprimente. L'aria puzzava di
polvere e il silenzio regnava imperterrito e misterioso. Ogni passo
che facevo in quella stanza era un passo in più verso la verità,
non sulla morte di mia madre, ma sulla sua vera identità. Ad un
certo punto un dubbio atroce risalì alla mia coscienza, era
l'identità di mia madre che stavo per scoprire o la mia? La risposta
giunse da sé quando finalmente trovai un interruttore e accesi la
luce. Nel silenzio i miei battiti erano udibili, forti e ben
scanditi. Dinanzi a me vi era una scrivania, dove giaceva un
pezzetto di carta. Raggiunsi di corsa il tavolo dall'aria instabile e
afferrai la carta riconoscendo subito la grafia con cui era stata
riempita.
-
Per
Debora
-
Sotto
il foglio vi era una pietra smeraldo incorniciata da oro. Era grande
circa sette centimetri e dall'aria preziosa. Mi sedetti sulla sedia
che era accanto al tavolo e contemplai la pietra. Non riuscii a
capire perché mia madre l'avesse lasciata a me e non l'avesse messa
nello scatolone. La pepita brillava sotto la flebile lampada e mi
abbagliava con la sua verde lucentezza. Nella pietra distinsi il
riflesso del mio viso confuso. Alzai il capo guardandomi intorno, ma
la stanza sembrava non custodire altro. Poi improvvisamente mi sentii
osservata e strinsi più forte la pietra nella mano. Mi voltai di
scatto e gridai dalla paura nel ritrovare un volto barbuto e bianco
come il latte che mi fissava vuoto. Dopo pochi istanti capii che era
una bizzarra statua a mezzo busto. Mi avvicinai contemplandola,
doveva essere Ghasan, il responsabile di quel che stava accadendo.
Lui, la persona che forse aveva rovinato la mia vita, che aveva
causato la morta di mia madre... La rabbia prese il sopravvento
sferrai un pugno, con la mano che non sanguinava,dritto sul suo
volto.
-
“Cazzo!”
gemetti stringendomi la mano dolorante, che stupida, avevo davvero
intenzione di ferire una statua?!
-
Sentii
un rumore e scattai subito. La testa di Ghasan si era voltata
all'indietro e all'improvviso le pareti si voltarono come una scena
di un film. Le nude pareti vennero rimpiazzate da librerie colme di
libri, scaffali pieni di …
-
“Armi?!”
esclamai mentre la mia mascella inferiore raggiungeva il pavimento.
-
Li
scaffali erano colmi di armi di ogni genere: balestre, pistole,
pugnali, fucili...
-
Mi
avvicinai sentendomi come in casa di un killer e afferrai la
balestra. Alla punta della grande freccia,che era caricata sull'arco
di legno,vi era una fialette di liquido incolore. Tutte le armi erano
caricate allo stesso modo da fialette dello stesso liquido. Estrassi
una fialetta dalla pistola e togliendone il tappo respirai il suo
aroma. Era nient'altro che acqua. Ma perché caricare armi così
letali di acqua? Non riuscivo a capire, eppure sentivo la soluzione
alla mia domanda ciondolare sulla mia testa e all'improvviso la
consapevolezza di quel che era accaduto mi cadde addosso. La
fialetta sfuggì alle mie mani e cadde a terra infrangendosi in mille
pezzi.
-
Contro
un demone quale arma migliore dell'acqua santa?
-
Era
tutto vero. Mia madre era una cacciatrice di demoni e io lo ero
appena diventata! Mi appoggia alla parete e scivolai lentamente lungo
di questa fino a ritrovarmi seduta per terra. Sentii una morsa allo
stomaco e un senso di rabbia nei confronti di mia madre o
semplicemente verso il destino. Era quindi quello il mio disegno? Il
progetto che Dio aveva fatto per me? Rendermi un mezzo per
distruggere il male dal mondo? Ripensai alla mia vita prima della
morte di mia madre, ero una ragazza comune, che amava la compagnia ed
era felice di essere se stessa. E ora? Sentivo solo che il mondo si
era opposto a me e alla mia felicità. Il destino mi aveva appena
imposto la sua folle danza. Potevo scappare , ma il destino è
egoista e ciò che vuole prende senza chiedere. Oppure potevo
sfidarlo sfacciatamente e lanciarmi nella sua danza. La paura si
sostituì ad un emozione molto simile alla grinta e alzandomi per
terra accettai la sfida. Debora, la cacciatrice di demoni!
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Capitolo 4 *** La storia di Emiliana ***
La storia di Emiliana
-
La
storia di Emiliana
-
La
mattina arrivò in un attimo ed io non avevo chiuso occhio. C'era
così tanto da scoprire. Dovevo sapere il più possibile sui demoni,
non potevo liberare il mondo da una cosa che non conoscevo affatto.
Perciò passai tutta la nottata a leggere tutti i libri che mia madre
aveva nascosto dove non si parlava altro che di demoni, della loro
origine, dei loro poteri e, soprattutto, di come eliminarli.
-
Un
altro motivo che rese la mia notte priva di sonno era il senso di
rabbia che provavo verso mia madre. Mi aveva lasciata con una
missione quasi impossibile da terminare e neanche uno straccio di
indizio. La grinta della sera prima aveva velocemente lasciato il
posto alla confusione. Non sapevo neanche da dove iniziare la mia
ricerca, ma sapevo che, se mia madre mi aveva lasciato determinati
oggetti, voleva solo significare che essi celavano un indizio. Il
puzzle della mia identità era quasi terminato, ma quello della mia
missione no.
-
Novembre
passava, ma io ero ad un punto morto nelle mie ricerche così come lo
ero nel trovare un lavoro. Avevo consultato giornali, cercato su siti
internet, chiesto ad amici, ma non trovavo nessuna occupazione. Ero
stata stupida a lasciare il mio lavoro alla banca.
-
Una
mattina particolarmente fredda gironzolavo tra le stradine con le
buste della spesa quando mi imbattei nella libreria Serrante. Non
avevo più messo piede in quel negozio accogliente, magari avrei
dovuto dare delle scuse ad Emiliana. In fin dei conti ero scappata
via come se fosse pazza. Rimasi immobile a fissare il negozietto per
un po', finché non avvertii la strana sensazione di essere
osservata. Mi voltai e vidi un paio d'occhi di uno strano punto di
marrone che mi fissavano ardenti. Il ragazzo che mi aveva
accompagnata alla mia auto quando essa sembrava rotta poggiava sul
muro accanto. Aveva le braccia scoperte nonostante il freddo di
quella mattina e uno strofinaccio poggiato sulle spalle muscolose.
L'avrei anche valutato attraente se non fosse per quel ghigno
insopportabile che aveva stampato in faccia. Sbuffai vistosamente,
odiavo essere osservata! Continuai a contemplare il negozietto
indecisa se entrare o meno, quando il ragazzo parlò.
-
“Sì,
dovresti entrare!”
-
Sgranai
gli occhi e mi voltai stupita. Come faceva a sapere …
-
“C-cosa?”
balbettai voltandomi così velocemente da farmi male il collo.
-
“Bé,
prima di tutto temo che tu diventi un ghiacciolo” rispose senza
abbandonare il suo stupido ghigno e avvicinandosi a me di qualche
passo “e poi cercano una commessa”.
-
Di
nuovo i miei occhi uscirono dalle orbite.
-
“Non
cerco un lavoro” mentii spudoratamente. Lui alzò un sopracciglio e
rise. La sua risata era melodiosa e irritante nello stesso tempo.
Come diavolo faceva a sapere che cercavo un lavoro? Si vedeva così
tanto che non avevo decisamente nulla da fare?! Stavo cercando
qualcosa da dire, ma un altra voce giunse alle mie spalle
-
“Deb!”
-
Mi
voltai lentamente, stranamente voltare le spalle a quel ragazzo era
difficile. Alba mi correva incontro affannata, con il viso rosso e
frustato dal vento.
-
“Ciao”
la salutai abbracciandola.
-
“Sei
sparita, non ti vedo da una vita!” mi rimproverò lei perforandomi
con i suoi occhi indagatori.
-
“Bé,
ho avuto da fare” risposi a mo di scusa, ma qualcosa mi fece
pensare che Alba sapeva che mentivo. Era proprio quello il problema,
avevo bisogno di un impiego, mi avrebbe distratta dal fallimento
della mia vita.
-
“Cosa?”
mi chiese impertinente Alba.
-
“Ehm...
si, pulire casa, cercare un lavoro, sai quel genere di cose ...”
balbettai, ma Alba non mi ascoltava più. Guardava un punto alle mie
spalle mordicchiandosi il labbro maliziosa. Guardai la direzione del
suo sguardo e capii esattamente cosa attraeva l'attenzione di Alba.
Il ragazzo dell'officina sembrava compiaciuto delle sue attenzioni,
così tanto da avvicinarsi a lei a presentarsi.
-
“Alexander”
disse porgendo la mano, appena ripulita con il suo strofinaccio, ad
Alba.
-
Lei
sorrise e afferrò la sua mano.
-
“Alba”
rispose con una risatina degna di una quattordicenne. Alzai gli occhi
al cielo mentre Alexander baciava la mano di Alba. Lei arrossì
confusa da quel gesto di estrema,ECCESSIVA, galanteria.
-
“Che
nome insolito” commentò Alba senza smettere di sorridere.
-
Lui
inclinò la testa e regalò ad Alba un sorriso che le mozzò il
respiro.
-
“Ho
origini Egiziane” rispose “mia madre è egiziana”
-
“Interessante”
commentò Alba sorridendo smielata. Non potevo restare tra quei due,
lei era troppo dolce e lui era un gran mascalzone. Non c'era un
motivo preciso per la mia definizione, ma tutto di lui mi gridava che
non sbagliavo sul suo conto.
-
“Bene,
io entro un attimo in quella libreria” annunciai ad Alba senza
guardare Alexander.
-
“Certo,
certo” rispose Alba distratta mentre io entravo nella libreria.
-
Era
esattamente come l'ultima volta che ero entrata, ma io ero una
persona diversa. Più consapevole del mio destino e meno sicura di me
stessa. Quando entrai uno scaccia pensieri vibrò suonando ed
annunciando il mio ingresso. L'uomo brizzolato dietro la cassa mi
guardò e sorrise gentile senza smettere di digitare sulla cassa.
Rimasi ferma a guardarlo in silenzio, non sapevo cosa dire
esattamente. Mentre meditavo sul da fare un anziana signora dai
capelli grigi raccolti in una treccia morbida fece il suo ingresso
dalle scale a chiocciola dietro il bancone. Aveva l'aria stanca, ma
quando si accorse di me le sue labbra si aprirono in un sorriso
dolce.
-
“Mia
cara ragazza” disse alzando un braccio per afferrarmi la mano
mentre mi raggiungeva. La strinsi nella mia e dissi tremante
-
“Mi
dispiace per il mio comportamento dell'altra sera. Avrei dovuto
crederti ...”
-
“Non
preoccuparti, è stata una reazione normalissima” mi interruppe
indicandomi una sedia. Io mi sedetti e guardai gli occhi grigi di
Emiliana. Il suo volto era segnato da rughe ma celavano un volto
bello e regolare. Doveva essere stata una ragazza bellissima da
giovane. Mi offrì dei biscotti ed io mi chiesi come mai mia madre
non mi aveva mai parlato di lei.
-
“Come
mai sai tutte queste cose sui demoni?” chiesi senza neanche darle
il tempo di sedersi. Lei sorrise ancora e si sedette accanto a me.
-
“Bé,
è una storia lunga da raccontare, ma se hai tempo...”
-
Annuii
curiosa e lei socchiuse gli occhi tuffandosi in chissà quali
ricordi.
-
“Era
l'anno 1965, avevo diciott'anni, ero poco più di una bambina, ma mi
sentivo già una donna” iniziò a raccontarmi “quell'anno passai
l'estate più bella della mia vita, ma tutto ciò che è bello
purtroppo ha un brutto vizio: termina.
-
Andai
a stare un po' con la mia vecchia zia acquisita, con lei non vi erano
regole, amava la libertà e non la negava neanche a me. Fu un estate
afosa, e il mio cuore non ha mai battuto tanto come in quei momenti.
Conobbi un ragazzo bellissimo, Roberto. Me ne innamorai subito, ma
lui ostentava indifferenza verso di me. Non capivo, ero giovane e,
detto tra noi, anche un po' stupida. Ero una ragazza bellissima e
nella mia vanità era inaccettabile rimanere indifferente ad un
ragazzo.
-
Quella
sua indifferenza riuscì tuttavia ad attrarmi più di quanto faceva
il suo sguardo e la sua travolgente bellezza. Così lottai, finché
non ottenni ciò che volevo. Io e lui vivemmo un amore segreto, ma
esso bruciava più veloce di noi.” mentre raccontava
improvvisamente ebbi l'immagine chiara di una giovane ragazza bella e
spensierata. Quanto l'aveva cambiata il tempo. Ora le rughe celavano
la sua storia tormentata, e la spensieratezza era appassita come una
bella rosa.
-
“Eravamo
totalmente persi l'un dell'altro, ma c'era qualcosa che ci teneva
sempre distanti. Non sapevo nulla sul suo conto. Ogni volta che
chiedevo qualcosa in più sulla sua vita, lui si chiudeva in se
stesso, e parlare era quasi impossibile. Spesso spariva, e non lo
rivedevo per giorni, e quando ricompariva aveva sempre l'aria di
essere stanco, malato. Bé, la nostra storia correva così, tra alti
e bassi, era una tortura dolcissima per me. Alla fine dell'estate
però accadde una cosa che cambiò tutto per sempre.” Si interruppe
e lo sguardo nostalgico, che aveva avuto Emiliana mentre raccontava
la sua storia, lasciò posto ad uno sguardo di rabbia e di paura.
-
“Un
giorno ritornai a casa della mia zia dopo una serata con delle mie
amiche. Appena varcai la soglia di casa avvertii la sensazione che
qualcosa di grave era accaduto. Entrai nel salotto e trovai mia zia,
con un buco in petto, gli occhi sbarrati e vuoti e il volto sporco di
sangue.
-
Vicino
a lei c'era lui, Roberto. Aveva le mani sporche di sangue e gli occhi
che un tempo erano verdi in quel momento erano di un rosso intenso.”
-
Fece
una pausa e percepii tutto il suo dolore nel ricordare quel che era
accaduto. Con il pollice si asciugò una lacrima e ricomponendosi un
po' continuò
-
“Appena
mi vide non scappò via, cercò di giustificarsi. Mi raccontò che
non poteva sfuggire alla sua missione, che lui era un demone, che
doveva uccidere la cacciatrice e mi informò che mia zia lo era. Non
credetti ad una sola parola, quel mio affascinante angelo misterioso
era diventato un mostro ai miei occhi. Gli gridai addosso, cercai con
tutta me stessa di fargli del male, ma lui schivava ogni mio colpo.
Così dopo avermi implorato più volte di perdonarlo scappò via
devastato, lasciandomi al mio straziante dolore. Come ben sai, il
compito di uccidere i demoni si tramanda di padre in figlio, così
mio cugino ebbe questo incarico. Quando si confidò con me ebbi quasi
un colpo. Mi fece vedere la lettera che aveva lasciato mia zia a lui
in cui spiegava chi fosse realmente e chi era diventato lui e
credetti a tutto ciò che mi aveva detto Roberto.
-
Da
quel momento decisi di aiutarlo e iniziai a ricercare tutto ciò che
potevo sui demoni, il mio desiderio di vendetta bruciava come non
mai.
-
Quello
che allora non capivo era che ciò che volevo vendicare non era mia
zia, ma il mio amore spezzato così brutalmente.”
-
Rimasi
in silenzio per un po' stringendo i pugni.
-
“Lui
alla fine è mai tornato da te?” domandai con tutta la delicatezza
possibile. Emiliana non mi guardò e con il capo basso rispose
-
“Si,
dopo ben tredici anni. Io ero ormai una donna sposata e con due
meravigliosi figli.” Lanciò uno sguardo fiero all'uomo brizzolato
che si stava occupando della clientela.
-
“Tornò
da me e si dichiarò pentito. Ma io avevo raccolto così tante
informazioni sui demoni da sapere che non era nella loro natura il
pentimento. Lo odiavo con tutta me stessa, per il male che aveva
inflitto a me e ai miei cari, ma quando lo vidi non riuscii ad
impedire al mio cuore di tremare come quando ci incontravamo
segretamente in quella così strana estate. Ma resistetti ai bei
ricordi che rievocava quel viso, e negai il mio perdono. Mi disse che
aveva una dannazione, non quella di essere un demone, ma quella di
avermi perso. Così quella sera, sotto i miei occhi, Roberto si
uccise.”
-
“E
come?” chiesi stupita.
-
“Si
accoltellò con uno dei pugnali che la famiglia di mia zia custodiva
da generazioni. Questi pugnali avevano e hanno il potere di uccidere
i demoni. Sicuramente tua madre te l'avrà detto o lasciato per
scritto”
-
Mi
si formò un nodo in gola, no, mia madre non aveva scritto nulla per
me. Mi sentii estremamente sola, non sapevo nulla, come facevo a
essere pronta per una missione così importante. Emiliana strinse
ancora la mia mano e disse tornando la signora anziana e dall'aria
gentile di sempre.
-
“Non
sei sola, Emiliana. Ci sono io con te. Ti aiuterò come ho fatto con
tutte le cacciatrici dall'età di diciott'anni. Non temere.”
-
L'abbracciai
forte e finalmente mi sentii protetta come non mi sentivo più da
troppo tempo. Quell'abbraccio sembrò durare un eternità, e quando
ci staccammo sentii che tra me e Emiliana si era instaurato un forte
legame.
-
“Grazie,
di tutto! Davvero, non so come farei senza di te. Grazie” dissi
alzandomi e dirigendomi alla porta.
-
“Di
nulla ragazza mia, vieni qui quando vuoi. Considera questa vecchia
libreria una seconda casa. Se hai bisogno di qualsiasi cosa, basta
chiedere” disse con leggerezza. Le sorrisi mentre afferravo la
maniglia della porta d'uscita.
-
Su
di essa vi era un cartello con su scritto: CERCASI
COMMESSA.
Alexander aveva ragione, avrei potuto ottenere un lavoro per la
libreria.
-
“Bé,
effettivamente vorrei chiedere un altra cosa” dissi guardando
Emiliana che mi sorrideva cordiale
-
“Qualunque
cosa” rispose Emiliana.
-
Indicai
il cartello e lei sorrise comprendendo ciò che volevo dire.
-
“Considerati
assunta! Ci vediamo domani mattina alle otto qui!”
-
Sorrisi
sollevata. Finalmente un lavoro! Ringraziai ancora e uscii dal
negozio.
-
L'aria
fredda mi fece tremare e rimpiangere il caldo tepore della libreria
Serrante. Alba e Alexander erano ancora fuori a chiacchierare e
quando mi vide arrivare la prima esclamò
-
“Ehi
ci hai messo una vita!”
-
“Già”
ammisi aggiustandomi il mio cappello di lana.
-
“Cosa
hai fatto li dentro?” mi domandò Alba
-
“Sono
appena stata assunta come commessa nella libreria!” annunciai
felice e Alba mi abbracciò forte.
-
“Ma
davvero?!” fece sarcastico Alexander. Lo guardai torva mentre lui
ridacchiava. “Allora avevo ragione”
-
Non
sopportavo il fatto che avesse ragione, e perciò decisi di
ignorarlo.
-
“Io
devo proprio andare” annunciai ad Alba.
-
“Vengo
con te” cinguettò lei seguendomi senza smettere di guardare
Alexander.
-
“Allora
ci sentiamo, magari un giorno usciamo insieme” parlò quest'ultimo
rivolto ad Alba
-
“Ma
certo, chiamami quando vuoi!” rispose lei ammiccando. Io ebbi un
conato di vomito per tutta quelle smancerie gratuita. Entrando in
macchina Alba si voltò verso di me e fece ridacchiando
-
“Ho
il numero di Alexander!”
-
“Ho
un lavoro!” esclamai facendole il verso. Lei mi fece la linguaccia
sapendo quanto la odiavo quando si comportava come una
quattordicenne, ma cosa potevo farci, era la mia migliore amica!
- Sospirai
e partii con Alba al mio fianco, un nuovo lavoro, nuove informazioni
e una buona dose di autostima riconquistata.
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