The Love of the Elf.

di CamillaSilvi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione. ***
Capitolo 2: *** Introduzione. Come tutto ebbe inizio. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1. ***



Capitolo 1
*** Prefazione. ***


L’amore è incontenibile come l’acqua,
scalda i cuori come il fuoco.
È grande come la terra
ed è leggero come l’aria.

Ma non in questo racconto.
Qui l’amore è velato e celato dietro un velo di odio e vendetta duro come il metallo.
I cuori sono costantemente spenti. Non hanno ragione di battere se non per il patetico scopo di sopravvivere. Ma che senso ha sopravvivere quando non si ha nulla a cui aggrapparsi? Che senso ha morire se ci si trova sull’orlo di un burrone e nessuno è li a chiederti di non buttarti? Che senso ha la vita se nessuno è di nessuno, se ognuno cammina da solo cercando di far cadere gli altri? Che senso ha vivere senza un amico, senza un amore, senza una vita al di fuori di sé?

Ma non sempre il cuore è ricoperto da un velo nero come petrolio. A volte qualcuno si ribella, spezzando la catena e aggrappandosi a qualunque cosa, a chiunque, dovunque ...
A volte qualcuno tenta invano, a volte qualcuno ci riesce, ma comunque possono dire di aver visto una luce dietro tutto quel buio, una fiamma bianca che nemmeno l’acqua più pura può spegnere. Un fuoco che brucia la carne, ma che tocca lo spirito di ognuno di noi, se solo abbiamo il coraggio di farlo entrare.
Ora immaginate questo mondo, una terra buia, oscura; piena di segreti e rivalità. E immaginate due popoli.
Ovviamente uno sovrasta l’altro. Non potrebbe essere altrimenti in un posto così pieno di odio. Sono gli uomini.
Esseri strani, molto strani. Sono capaci di amare più di chiunque altro, ma rifiutano questo dono sempre più con violenza, dal giorno in cui il primo respiro di ognuno di loro ha conosciuto il mondo.
E infine ecco coloro che, da più di trecento anni, vengono sfruttati, torturati e cose ancora peggiori, cose che farebbero rabbrividire il più malvagio che possa esistere.
Vengono usati come schiavi, cavie, uccisi per il puro gusto di farlo, o per temprare i soldati ancora giovani e inesperti. Sono gli elfi.
La loro corporatura esile non permette loro di ribellarsi con successo agli umani.
Certo ci sono state rivolte molto tempo addietro, ma gli uomini e la loro crudeltà hanno eliminato ogni dubbio che si possano ripresentare sommosse del genere.
Poco tempo prima, re Igoblow Il Tiranno, padrone delle terre umane, aveva fatto uccidere i rivoltosi, e appendere i cadaveri ancora freschi davanti alle porte di ciascuna delle famiglie in lutto, così che queste ricordassero quanto era stato commesso dai loro padri, dai loro figli, dai loro mariti ... finché anche l’ultimo brandello di carne non diventò polvere e re Igoblow morì, liberando finalmente il popolo elfico da questa tortura che li opprimeva ogni volta che guardavano fuori dalla propria casa.
Non si ha memoria del come o del perché gli uomini abbiano sottomesso questa specie. Sta di fatto che il mondo elfico è crollato nel terrore da quando è comparso un generale.
Il suo nome è Gorian, un uomo spietato, senza pietà per nessuno. Da quando re Sarik è morto, da solo pochi anni, lasciando il suo posto al figlio Magnus appena quindicenne, Gorian ha preso il controllo di tutto l’esercito e di tutti gli affari militari del regno.
Nessuno si azzarda a dirlo ma, anche se non di diritto, il vero “re”, l’uomo più temuto e al contempo rispettato di Oriont, la capitale del regno, è proprio lui.
Dal suo arrivo al comando, Gorian ha distrutto e saccheggiato otto dei nove villaggi elfici, imprigionando e schiavizzando i fortunati sopravvissuti alle stragi dei suoi fedeli soldati.
Ed è proprio da qui che bisogna partire: dall’attacco dell’ultimo grande villaggio, Xargjx, dalla lingua elfica: "Speranza”.
Ed è proprio qui che vive una giovane elfa, colei che avrà il destino più duro e buio, ma al contempo il più puro e dolce che si possa mai desiderare.

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Capitolo 2
*** Introduzione. Come tutto ebbe inizio. ***


Le strade di Oriont erano più buie del solito.
Poche persone uscivano in notti come quelle; c’erano leggende antiche che parlavano di una strana creatura, una creatura antichissima, rinnegata dai morti e dai vivi, che si aggirava per questi vicoli nelle notti senza luna, proprio le notti come quella.
Ma l’uomo col mantello nero che camminava a passo di marcia per la via principale della capitale non aveva mai creduto a queste sciocchezze.
Dopo tutto avrebbe preferito incontrare dieci di queste creature mostruose piuttosto che affrontare la persona che stava per vedere ora.
Se ci pensava era davvero una visione terribile quella dell’uomo che nel cuore della notte lo aveva mandato a chiamare per chi sa quale ragione.
Era alto, spalle larghe, a cui erano attaccate braccia che avrebbero stritolato un tronco d’abete. I muscoli erano costantemente tesi, sempre pronti all’attacco; i segni dei continui allenamenti, fisici e mentali che l’uomo si infliggeva, erano ben visibili. Aveva capelli neri corvini e occhi altrettanto neri.
La differenza tra l’iride e la pupilla era talmente minima che a chiunque quelle due fessure avrebbero ricordato un buco nero.
Gli zigomi alti e il bel viso avrebbero fatto innamorare un’infinità di donne, se solo la sua espressione non fosse stata così dura è piena di odio verso qualunque cosa lo circondasse.
In complesso la sua figura era imponente e inquietante, due aggettivi che non piacevano per niente a coloro che vivevano a contatto con lui. Ma se a volte si dice che l’aspetto inganna, certo non era quello il caso.
Chi lo conosceva poteva dirlo: era un uomo che avrebbe dato filo da torcere al qualunque emissario del demonio in quelle terre.

L’uomo con il mantello continuò a camminare per un’altra decina di minuti, finché non raggiunse il magnificente palazzo Felidix, la residenza del sommo generale: l’uomo a cui aveva pensato con timore per tutto il suo tragitto attraverso la città.
Era una struttura imponente, la più grande della capitale.
Parte di essa era dedicata alle prigioni elfiche, ma quasi metà dell’edificio era a sua completa disposizione, insieme alla sua famiglia.
Si trovava nel lato nord di Oriont ed era di un nero indescrivibile a coloro che non avevano mai avuto la fortuna di mirarne le antiche mura.
Erano pareti in marmo nero, il materiale più resistente del ragno, e assolutamente il più bello e spettacolare.
Due torri si estendevano in alto nel cielo, in contrasto con i profili rocciosi delle montagne il lontananza, proprio dietro il palazzo.
Per il resto era una struttura squadrata molto imponente, come il suo proprietario, che in quel momento era davanti all’enorme portone di legno e metallo, seguito dalla sua scorta, due fidatissimi soldati in alta uniforme: armatura dorata e il singolare elmo che distingueva gli eserciti di sua maestà Re Magnus: era completamente dorato con una fiamma nera nella parte destra della testa, che partiva dalla nuca fino ad arrivare quasi alle tempie dei soldati.
Lunghe lance spuntavano da dietro la schiena, pronte a difendere il padrone.
Il generale aveva le braccia conserte, le gambe leggermente divaricate e gli occhi neri socchiusi per vedere meglio punti lontani.
Un brivido di terrore percosse la schiena dell’uomo con il mantello.
Il generale era indubbiamente arrabbiato e questo lo riempiva di insicurezza e gelida paura che per un attimo lo bloccò e gli diede l’istinto di correre a casa e mettersi sotto le soffici coperte del suo rassicurante letto.
Comunque si costrinse a proseguire, con i muscoli contratti e gli occhi sgranati dalla tensione.
In poco tempo, troppo poco tempo per calmarsi e ristabilire del tutto la tranquillità, fu davanti al generale, che lo guardava in un misto di odio e sorpresa, o forse era esasperazione.
– Legor, possibile che ogni singola volta che ti chiamo tu mi debba far aspettare qui fuori al freddo per più di mezz’ora, consapevole che la cosa mi metterebbe di pessimo umore. E ovviamente sai che questa possibilissima eventualità non farebbe bene a nessuno ... Inetto di un vice! E tu dovresti prendere il mio posto alla mia morte?! Sfiderò il diavolo in persona se diventerai generale, questo è poco ma sicuro. Ora entra, buon annulla di un soldato! -.
E così dicendo entrarono nell’ enorme palazzo che, se da fuori poteva sembrare spaventoso, da dentro dava tutta un’altra impressione.
Si vedeva distintamente una mano femminile in tutti quei drappi rossi che scendevano dalle finestre; sicuramente a cura della moglie del generale.
Le pareti nere erano finemente decorate con quadri e candelabri dorati, da cui spuntavano un’infinità di candele, rendendo l’ambiente un po’ più rassicurante.
Nell’ampia sala d’entrata non c’era nient’altro che un’enorme scalinata in marmo, che portava al piano di sopra.
Legor si rilassò un istante e cominciò a parlare, ancora, però, con un residuo di timore nella voce:
- Generale Gorian, ho fatto più in fretta che ho potuto. Ditemi, per quale motivo mi avete convocato a quest’ora della notte? C’è forse qualche spiacevole novità? -
- Voglio un’armata pronta per 2 settimane, andiamo all’assalto del nono villaggio- .
Legor dimenticò di respirare per qualche secondo, tanta era la sorpresa per l’affermazione che Gorian, con tono piatto e senza neanche guardarlo negli occhi, gli aveva quasi sussurrato.
– Ma, signore! Siamo tornati solo da pochi giorni dalla conquista dell’ottavo villaggio! I soldati sono stanchi, vogliono riposare. Non credo che in 2 setti... -.
– Silenzio! Stupido topo di fogna! Gli abitanti del nono villaggio sono distrutti dal dolore delle perdite, e non si aspettano un attacco così repentino! Dobbiamo assolutamente partire ora! – tuonò il generale Gorian, scandendo sillaba per sillaba l’ultima frase.
I suoi occhi ora fiammeggiavano di rabbia e Legor era sicuro di vedere del rosso in quei buchi neri così innaturali.
– Capisco si-signore .. m-ma almeno concedetemi tre settimane. È impossibile formare un esercito in così poco tempo. Per non contare che bisogna attrezzarlo, motivarlo, pagarlo. O, vi prego siate così magnanimo da conceder... - .
Il generale lo interruppe di nuovo sbuffando, più e più volte, contemplando delle cartine geografiche raffiguranti il ragno e i nove villaggi.
Per un tempo che sembrò infinito il solo rumore proveniente dall’ampia sala era il ticchettare di un antico e bellissimo orologio a pendolo, dall’altra parte della stanza. Poi alla fine, come se si fosse appena ripreso da un lungo ragionamento mentale, Gorian sussurrò, con non poca riluttanza, la sua decisione.
– E sia... tre settimane. Ma non un minuto di più!
Ho il bisogno di sapere che ogni elfo di queste terre è sotto il mio dominio! Quella feccia della terra capirà che nulla è possibile contro il generale Gorian, e tornerà dall’inferno da cui è stata sputata!
Tre settimane, Legor, tre settimane ... e tutto sarà finito.
Tre settimane e verrò ricordato nei libri di storia ...
Tre settimane, Legor ... Tre settimane ... -.
Fece segno al vice generale di andarsene, lasciandolo solo con la sua pazzia.


___La Storia Continua___

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Capitolo 3
*** Capitolo 1. ***


CAPITOLO 1.

Il cielo quella mattina era di un azzurro molto particolare: tendente al verde.
Giornate come quelle si ripetevano poche volte nella vita di un elfo, e molto spesso segnavano un evento davvero importante.
Keyla era sola nella stalla, intenta a spazzolare la morbida criniera di Raston, il suo splendido cavallo nero. I due erano cresciuti insieme, le era stato regalato dal padre per il suo settimo compleanno, e da allora la sua vita, già felice e gioiosa, era stata invasa da una luce ancor più potente di quella che risplendeva nel suo cuore.
Erano come fratelli. L’uno completava l’altra.
Può sembrare strano, ma anche la somiglianza era evidente. La criniera nera di Raston era della stessa sfumatura dei capelli di Keyla, tanto che quando lei lo cavalcava i lunghi boccoli che le ricadevano morbidi e setosi all’avanti, si mescolavano perfettamente al pelo dello splendido esemplare.
Avevano lo stesso sorriso quando correvano veloci per gli sconfinati prati di Xargix. E entrambi avevano occhi così intensi che avrebbero fatto abbassare lo sguardo perfino ad un re.
Keyla aveva un viso rotondo, con zigomi alti e pronunciati, e lunghe orecchie a punta che si intravedevano tra le ciocche disordinate di capelli.
Le sue labbra erano comuni a tutto il suo popolo, come un segno che distingueva la sua specie da tutte le altre. Erano nere come i suoi capelli, e racchiudevano dei denti talmente bianchi da far invidia alla cosa più limpida dell’intero mondo.
Gli occhi gialli, altrettanto comuni nel suo popolo, le risplendevano di sfumature multicolore di tanto in tanto; come se racchiudessero un arcobaleno al loro interno.

Aveva appena finito di lavare e coccolare il suo fedele amico quando qualcuno la chiamò a gran voce dalla casa poco lontana dalla stalla.
Keyla mise giù la spazzola e cominciò a correre verso la madre.
Probabilmente Kara, così si chiamava l'elfo, si era appena svegliata, d'altronde erano solo le sei del mattino, ma comunque la ragazza corse più veloce del solito verso casa, impaziente della sorpresa che la stava aspettando.
Arrivò dopo poco tempo davanti alla piccola casetta di mattoni dove vivevano lei e i suoi genitori.
Kara la stava aspettando proprio davanti alla porta di legno di noce. Aveva un sorriso radioso e i suoi occhi, dorati come quelli della figlia, risplendevano di gioia.
A parte qualche ciocca grigia e alcune rughe che cominciavano a comparirle in viso, somigliava moltissimo a Keyla.
Appena la vide, subito le corse incontro, abbracciandola davvero forte.
– Buon giorno madre!- fece Keyla altrettanto contenta, guardando Kara dritta negli occhi.
– Buon Giorno, cara! E buon compleanno tesoro mio!–. Subito dopo tirò fuori da dietro la schiena un pacchetto quadrato,ricoperto da una carta colorata di rosso.
Keyla, per quanto possibile, sorrise con ancora più entusiasmo, prendendo il pacchetto e aprendolo il più velocemente possibile.
Dentro, piegato accuratamente, c’era un vestito di raso rosso, stile impero, che fluiva leggero fino ai piedi.
Keyla lo tirò fuori e fece per provarlo, poi guardò la madre con occhi dolci e sinceri.
– O madre, non dovevate fare questo per me, io non lo merito! È bellissimo, davvero, non so come ringraziarvi ... –
- Per la mia bambina questo e altro! – non era stata la madre a parlare, ma un elfo alto e con una barba incolta, la pelle diafana come quella di Keyla, e le labbra nere che sorridevano beate.
– Padre, io vi adoro, non so come farei senza di voi. Siete la mia gioia! – e così dicendo Keyla corse ad abbracciare con altrettanta enfasi Ewar, suo padre, che la accolse a braccia aperte.
– I sedici anni non si scordano mai. Io lo so bene, è per il mio sedicesimo compleanno che vidi per la prima volta tua madre ... – mandò uno sguardo caldo e dolce a Kara, che era già avvampata di vergogna come se fosse ancora una ragazzina.
Keyla rimase per qualche istante ancora tra le braccia forti del padre.
Adorava quei momenti da quando era bambina, e sicuramente non avrebbe mai smesso di farlo. Il petto di Ewar era come un punto di riferimento, la roccia in cui sorreggersi e il fiume nel quale rilassarsi.
Keyla aveva un ottimo rapporto con suo padre. Lui riusciva a capirla perfettamente, forse anche meglio di sua madre.
Kara era un’elfa energica e piena di vita, amante dell’avventura e del rischio. Certo ora che aveva quasi quarant’anni queste sue caratteristiche si erano molto attenuate, ma la sua indole spericolata era rimasta chiusa dentro di lei, e a volte faticava a comprendere il carattere mite e riflessivo di Keyla e di suo padre.
Entrambi amavano leggere e scrivere storie di mondi lontani, in cui nessuno sottometteva nessuno, e gli umani non tormentavano la sua specie con orrende torture o uccidevano interi villaggi per il piacere di conoscere le brezza del potere.
Adorava passeggiare per i prati sconfinati del suo splendido paese, anche se, da quando era stato attaccato Coxiart, l’ottavo villaggio, le sue lunghe camminate erano visibilmente diminuite, a causa dei costanti avvertimenti dei genitori per quanto riguardava la sicurezza del villaggio.
A tal proposito molte vie di comunicazione erano state chiuse per paura di un attacco anche all’ultimo rimasto, dove viveva lei.
Da qualche settimana la certezza di un attacco da parte degli umani era sempre più una realtà.
Come sempre più una realtà era la disperazione dell’intera popolazione elfica della sua cittadina.
Keyla non comprendeva fino in fondo la preoccupazione degli adulti, cosa avrebbero potuto fare gli uomini di così terribile? In fondo non erano bestie senz’anima, “un po’ di pietà ci dovrà pur essere in loro”, pensava ...
ma d'altronde aveva solo sedici anni, e non aveva vissuto le innumerevoli umiliazioni, le miriadi di stragi e le sottomissioni che invece i più anziani ricordavano ancora nella pelle, come ricordavano le urla dei compagni ormai defunti.
– Forza Keyla, entriamo in casa, qui si gela! -.
Un brivido di freddo le attraversò la schiena e la scosse dai suoi pensieri. In effetti suo padre aveva ragione, quello era un febbraio davvero freddo.
– Bene, io intanto vado a prendere qualcosa in paese per festeggiare! – la madre si diresse verso il piccolo cancello di legno che divideva la loro casa dalle vie del villaggio.
– Madre, no! Fa troppo freddo per uscire nelle vostre condizioni. Il mio fratellino potrebbe prendere un malanno... -.
Istintivamente entrambe diressero lo sguardo verso il ventre di Kara.
Ormai da quasi sette mesi nel grembo della donna germogliava una splendida creatura, che non aspettava altro che conoscere il mondo.
– Tesoro, non sappiamo ancora se sia maschio o femmina ... -.
– Invece io lo so! Sarà un elfo furbo e sorridente, e si chiamerà Ian! -.
- Keyla ha ragione ... – intervenne il padre con un sorriso.
– Non è prudente per te uscire con questo freddo -.
– Potrei andare io -. Keyla si divincolò dall’abbraccio di Ewar, e andò a fermare la madre.
– Vi prego, fate andare me! Vi prometto che riporterò a cara la migliore selvaggina che i cacciatori del villaggio abbiano catturato -.
Un sorriso radioso accentuò le splendide fossette della giovane elfo, così che alla fine i due genitori non poterono che concederle questo incarico.
– Vi ringrazio! Cercherò di fare il più in fretta possibile -.
Andò in casa a prendere il suo mantello blu e si catapultò fuori alla velocità della luce, eccitata com’era dalla situazione.
Nella foga inciampò in un panno che disgraziatamente si trovava sul suo cammino, e nei pochi secondi che seguirono si trovò impegnata a urlare, spaventasi e borbottare ringraziamenti al padre che l’aveva ripresa giusto in tempo da una bruttissima caduta, tutto contemporaneamente.
– Tornerò presto madre, non preoccupatevi! -.
– Fa attenzione cara! -.
Si diresse velocemente lungo la piccola stradina che conduceva casa sua al centro del villaggio.
Intorno a lei un’immensità candida neve. Gli immensi prati erano completamente innevati, come se se si fossero addormentati, in attesa del respiro della primavera, che avrebbe dato loro calore e conforto.
Camminò per una ventina di minuti, finche non arrivò al cancello.
Bhè, non era proprio un cancello, ma veniva chiamato così dai giovani del villaggio.
Era una muraglia di legno, che divideva la cittadella dalle campagne. All'interno si trovavano le botteghe, i palazzi e tutte le famiglie che avevano troppa paura di un attacco al villaggio per vivere in mezzo al verde dei prati.
Anche sua madre, appena saputa la notizia dell'attacco di poche settimane prima all'ottavo villaggio, aveva insistito tanto per entrare nelle cancello, ma il padre era stato irremovibile.
Diceva che nulla gli avrebbe fatto abbandonare la sua casa!
Non aveva paura degli uomini, li riteneva dei vigliacchi. Diceva che qualunque protezione avrebbero potuto dare loro all'interno delle musa sarebbe stata inutile, ma avevano più possibilità di fuga se rimanevano nella loro casa, in mezzo ai prati e all'erba alta.
Questa muraglia era sempre controllata da un guardiano, munito di corno per avvisare al popolo qualunque minaccia.
- Chi è la? -. Il giovane soldato aveva intravisto il suo mantello blu, in contrasto con la neve candida tutt'intorno a lei.
- Sono Keyla, figlia di Ewar.
«La Speranza muore solo quando il dolore cessa». -
Questa era la parola d'ordine per entrare o uscire dal Cancello.
In sedici anni ancora non ne aveva capito il significato.
I suoi genitori le avevano insegnato che la speranza non doveva mai morire, che c'era sempre una soluzione.
- Oh, va bene ... Puoi entrare. Ragazzi aprite il Cancello! - strillò il soldato di guardia.
Dopo qualche secondo di attesa ecco che pian piano Keyla riuscì ad intravedere parte della cittadella, finché il cancello non si aprì del tutto, così da liberare la sua visuale, e rendere le immagini molto più nitide e precise.
L'elfo ringraziò il giovane milite e si diresse verso la bottega del macellaio. Ma molta fu la sua sorpresa nel vedere lo scenario che le si parò davanti.
Era passato quasi un mese da quando non rientrava più alla cittadella, ma ricordava quel luogo con estrema chiarezza: da ogni parte bambini che correvano, mamme che chiacchieravano tra loro. Anziani elfi che si raccontavano ricordi della vita vissuta passeggiando per le strette stradine.
Ora invece non vedeva nessun bimbo, nessuna madre, nessun elfo.
Le vie del centro erano completamente deserte.
Le finestre degli edifici, di solito spalancate, erano sbarrate come non aveva mai visto.
L'unica cosa che i suoi occhi riuscivano a focalizzare era un lieve strato di neve, e guardie. Tante guardie. Tutte armate fino ai denti.
Ogni dieci metri di cammino Keyla incontrava in soldato che, impugnando la sua lancia o il suo arco, passava il tempo facendo avanti e indietro per le stradine.
Il silenzio era rotto solo dallo stridio del metallo contro il metallo, e l'unica bottega da cui veniva rumore era quella del fabbro che, senza sosta, sfornava armi e armature per tutti colore che avrebbero dovuto, in futuro, formare la resistenza agli umani.
Donne e bambini erano nelle loro case, addolorati e piangenti per le perdite e la paura.
Keyla senti la tensione farsi più densa intorno a lei, ragion per cui affrettò il passo.
Arrivò alla bottega del macellaio molto più in fretta del solito, ma trovò anche questa porta sbarrata.
Ne chiese la ragione a un militare che proprio in quel momento le stava passando vicino.
- Scusi, signore -.
Doveva avere circa l'età di suo padre, la barba ben curata e lo sguardo caloroso non diedero dubbi a Keyla riguardo la sua gentilezza, quindi continuò.
- Sa dirmi perché questa bottega è chiusa? Non ne capisco il motivo -.
- Sciocca ragazzina, qui tutto è chiuso. Non vede che non c'è anima viva intorno a noi. Sono tutti rintanati nelle loro case, troppo spaventati per reagire. Hanno paura di un nuovo attacco da parte degli umani. E dovrebbe averne anche lei, che ci fa qui fuori tutta sola? Non è di queste parti, da dove viene? -
- No signore, sono dei prati ... ero venuta per comprare della carne. Sa, oggi è il mio compleanno ... - così sorridendo raccontò la sua storia al signore con cui stava parlando.
- Oh ... è il suo compleanno? Allora le darò un consiglio, lo segua, ve ne prego. Vada a casa, oggi non è giornata per girovagare per la cittadella.
Spettri si aggirano per queste vie. Creda a me, oggi qualcosa accadrà... Corra! Corra a casa il più in fretta possibile. -

In quel momento il corno del Guardiano del Cancello fece il suo ingresso nella scena, seguito da urla provenienti da ogni casa nei dintorni.
Keyla diventò di pietra, non sapeva cosa fare, cosa dire, dove andare. Aveva una sola cosa in mente.
... Arrivano ...

__La Storia Continua__


___Nota dell'autrice___
Spero che sa storia cominci a piacervi.
Vi prego, lasciate una recensione!!! Ve ne sarei grata!

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