l'eretica

di Antony_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 capitolo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 20 ***



Capitolo 1
*** 1 capitolo ***


L'eretica

Prefazione

19 febbraio 2015 Chiesa di San Vittore

 

Milano.

Sig.na Veronica Silvestri.

Attestato di morte.

 

La giovane è deceduta in data 8 aprile 2015, causa: rogo.

All'età di 19 anni.

Eretica. Condannata a bruciare tra le fiamme dell'in­ferno.

Non vi sarà alcuna cerimonia funebre in suo onore. Le ceneri verranno date alla Chiesa per onorare il Santo nostro Signore: Dio.

Gloria a Lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1

La mia storia inizia da una sfida.

Sfida che, stupidamente, ho accettato una noiosa mattinata di scuola.

Con la mia compagna di banco.

Ora che ci penso, quasi tornerei indietro. Quasi.

Avevo promesso qualcosa di pericoloso, estremamente pericoloso e avevo giurato che avrei combattuto per ciò in cui credevo, quello che propriamente, la maggior parte delle persone chiama il proprio ideale, comunque, avrei combattuto e, se fosse stato necessario, sarei morta.

Promessa da coglioni, vero? Me ne accorgo ora, ma ora è troppo tardi.

Appena ho visto il mio certificato di morte non ho potuto crederci... Credevate fossi morta davvero? Oh, non preoccupatevi, di momenti brutti ne ho passati, ma non ho incontrato la morte. Cioè, ufficialmente si, spiritualmente tanto tempo fa, corporalmente non ancora.

Perché c'è il mio certificato di morte se non sono morta? Questa è la domanda per la quale ho creato questo libro, se vi rispondessi ora sarebbe già tutto finito.

Lo scopo principale, in verità, sarebbe quello di propagare la mia storia per fare in modo che aiuti le prossime generazioni, ma se avessi scritto così voi non avreste nemmeno aperto il libro e la prova che avevo ragione la state avendo esattamente adesso: avete il volume fra le mani? L'avete trovato nelle librerie? Ne siete stati attratti oppure vi è stato consigliato?

Comunque sia andata, ho ragione io.

Bando alle ciance, so che desiderate sapere la risposta alla domanda sopra o che volete an­dare avanti con la storia.

E invece no, perché amo fare soffrire la gente, amo comandare.

Ah, scommetto che vi starete anche chiedendo come possa essere possibile che una 17enne sia stata condannata per eresia nel XXI secolo, anche questo fa parte della storia... Dài, non vi voglio far penare a lungo, ora inizio, ma prima (eh eh) dovete tenere a mente delle piccole regole iniziali:

  1. I bigotti sono altamente... sfottuti in questo libro.

  2. Sono stata condannata per eresia, non pensiate che sia una specie di Giovanna D'Arco, sono atea.

  3. Non ho nulla contro i cristiani.

  4. Se non sapete la differenza tra bigotti e cristiani, fate schifo, oppure siete molto ignoranti.

  5. Questa è anche una storia d'amore, tanto per coinvolgere anche i romantici.

  6. Il mio sarcasmo mi ha ficcata in guai seri.

  7. Finite le note.

Iniziamo.

 

 

 

 

 

 

Capitolo 2

Tutto iniziò in una mattinata di scuola... (non sembra uno dei libri di Geronimo Stilton?)...

Scendevo con la mia solita aria da superiore le scale della scuola avvolta nella felpa.

Quel giorno ci sarebbe stata la verifica di fisica, anche se era il primo giorno di scuola. Poco ma sicuro, quella materia mi uccideva dalla prima liceo, anche adesso che stavo per iniziare la quarta non avrebbe smesso.

Detestavo la scuola, l'unico punto forte erano gli amici e quel lui che mi perseguitava dagli stessi tempi della fisica e filosofia. In filosofia ero uscita con il 9 in terza. Forse per quello non ero stata rimandata.

Rischiavo ogni anno di venire bocciata, ma le materie letterarie mi aiutavano sempre. Per­ché mi ero iscritta ad un liceo scientifico rimane ancor oggi un mistero.

Mi levai la felpa scocciata da quel caldo insopportabile, avevo un nuovo zaino, chissà se lui l'avrebbe notato...

 

'Che bella...' pensava lui guardandola.

I capelli corvini quasi blu le scendevano lunghissimi e a onde leggere fino all'ombelico, se­guivano la linea morbida del piccolo seno e incorniciavano il viso ovale.

La pelle sempre abbronzata faceva risaltare gli occhi neri, tanto neri che potevano essere scambiati per il piumaggio di un corvo.

La maglietta azzurra e nera le arrivava appena sopra la vita e s'intravedeva una striscia di pelle prima dei jeans del classico colore che si annodavano sulle gambe lunghe e affusolate.

Il viso era senza un'ombra di trucco, solo gli occhi avevano matita e mascara nero.

Scendeva le scale con disinvoltura e sfacciataggine. Il carisma non l'aveva mai abbandona­ta da che la conosceva.

Quanti erano innamorati di lei? 'Ronny, ma quanto sei bella?'

 

-Ciao, Ronny!- mi girai infastidita, volevo arrivare presto in classe così da non perdere mi­nuti preziosi. Davanti a me c'era Cloe, la conoscevo da molto, dalle elementari, non mi era mai andata giù. Per un po' era stata la mia unica amica femmina, ma ora non mi serviva più.

Eravamo una l'opposto dell'altra: aveva sempre avuto un caschetto di capelli riccioli che sembravano paglia marroni chiaro e la pelle bitorzoluta, non credevo sarebbe finita così però...

Lei sì che era una vera bigotta, detto nel più spregevole senso della parola.

-Ciao, Cloe...-.

-Su, andiamo in classe, ci staranno aspettando- mi disse con un cenno del capo e un sorri­setto sornione, quanto era brutta, santo cielo.

Alzai gli occhi al cielo e chiesi: -Sai se c'è Guido?-.

Guido era uno dei miei migliori amici, ricordo ancora i tempi in cui io, bambinetta stupida e perfettina, l'avevo visto e notando i suoi vestiti mi ero subito fatta un'idea sbagliata, ma ora tutto era cambiato.

-L'ho visto giù alla fermata dell'autobus, ma lui arriverà sicuramente in ritardo, non possia­mo aspettarlo, anche lui mi ha vista e mi ha salutata.-.

Quest'ultimo era un dato superfluo, ma Cloe si doveva fare notare e, siccome Guido era “figo” e popolare, voleva essere sua amica. Lui, però, vanificava sempre i suoi tentativi: troppo brava a scuola, troppo poco donna, troppo scuola-chiesa-casa, troppo Chiesa, trop­po “amore platonico” per avvicinarla.

Io ero diversa, più ribelle, ma non cercavo di fare la “fighetta”, io ero io, questo era ciò che mi rendeva popolare, non cercavo di essere nessun altro e tutti mi rispettavano. Poi io e Guido avevamo dei legami speciali costituiti su cotte da adolescenti, concetto di artista e ri­bellione.

Cloe non trovava importanti cose come: libero arbitrio, amore, politica, arte (in tutte le sue forme), lei non parlava di temi importanti, il suo mondo girava attorno alla scuola e al suo gruppo dell'oratorio e, lasciatemelo dire, tutto questo mi faceva non poco girare le scatole.

-Io vado lo stesso. Tu vai in classe, non ti preoccupare, non ho bisogno della mamma- ecco, avevo tirato una delle mie frecciatine, pensate che è stato a causa di una di queste che il XXI secolo è diventato un secondo XVI secolo. E poi provate a dire che un singolo indivi­duo non può cambiare il mondo.

 

Lasciata a Cloe la mia felpa e accortami troppo tardi che, probabilmente, un attimo dopo che me n'ero andata ci aveva sputato sopra, corsi alla fermata dell'autobus con lo zaino del­la Eastpack nero su una spalla e le braccia che sudavano come prosciutti.

Meno male che mi ero messa il deodorante, che giornata torrida.

-Guido!- gli corsi incontro felice e saltai in braccio a quello spilungone che, una piccolina come me, la sapeva sorreggere bene.

Ah, com'era stata bella l'estate con lui, andare fuori città o stare a casa a bere una birra quando sua madre non guardava.

-Ronny! Sono già iniziate le lezioni?- mi domandò turbato.

-No, ma stanno per iniziare, sarà meglio andare-

Salutammo la sua ragazza, frutto della mia collaborazione in seconda liceo, e la sua miglio­re amica che ancora non si era levata dai... santissimi (per restare in tema).

Guardai divertita la cresta verde e viola di Guido ricordandomi bene la faccia che faceva prontamente tutti gli anni quando la vedeva la nostra insegnante di latino del biennio. Che peccato, aveva dei riccioli così belli e scuri, setosi non come la massa “rasta-naturale” di Cloe.

Giungemmo in classe stremati, i miei capelli dovevano essere bagnati e io dovevo sembrare una brutta Megan Fox dopo le sabbie del deserto di Transformers 2.

Lo trovai seduto ad un banco in fondo alla classe, gli sorrisi, lui fece lo stesso...

Cloe mi afferrò il braccio e mi buttò nel banco in fondo nell'angolo: esattamente dove non volevo stare, si sedette di fianco a me: esattamente quello che non volevo facesse. Guardai Guido con la faccia triste di chi aspettava qualcosa e ha avuto una tremenda delusione.

Passarono delle ore, fisica non ci fu, per fortuna, ma latino sì.

E qui si scatenò l'inferno, qui fu proclamata l'eterna promessa, quella che non avrei mai dovuto fare.

La prof era stanca e accaldata perciò ci permise di trovare un argomento importante e di­scutere di quello (solo alla nostra classe poteva succedere una simile sciagura).

Naturalmente la scelta cadde sulla religione, atei da una parte e credenti dall'altra, mentre un altro gruppo, quello che si può definire come dei miscredenti, si mise in mezzo. Finì che quelli davvero credenti erano tre e così anche gli atei.

Discutemmo tutto il tempo: io, Cloe, Guido e Pedro (altro credente accanito). Solo che io e Cloe sfociammo nella litigata del secolo, quasi interrotta dalla prof impauritasi dalla foga del momento, ma fatta continuare dalla sua copiosa cupidigia di pettegolezzi; fu in un mo­mento, uno solo, quello fatidico, che pronunciai le maledette (letteralmente) parole.

-La Chiesa è tutto ciò che abbiamo di più al mondo e tu devi cambiare questa diavolo d'idea che ti perseguita! Tu odi la religione!- starnazzò Cloe.

-Io non odio la religione, io odio il bigottismo!- sbottai io.

-E che differenza fa?- (!!!!!) scoppiai -I bigotti sono dei falsi religiosi, sono coloro che se­guono la dottrina della Chiesa, non i veri insegnamenti di Dio o Cristo, sono coloro che non vedono la ricchezza del Papa e fanno finta che sia un uomo caritatevole! Io non ho niente contro i religiosi, perché se hanno questa idea io li rispetto, ma i bigotti si fanno co­mandare e non hanno niente per cui farsi lodare!-

-Io sarei una bigotta?- Questa era una domanda retorica che pronunciò sussurrando... o meglio sibilando, intuendo la mia ira verso le persone opportuniste e false, ma io questo non riuscii a capirlo al momento, calda com'ero -Sì!- dissi tutto d'un fiato.

-Gli atei fanno schifo, siete senza cuore e senza onore, non sapete quali sono i veri insegna­menti e non capite la vera bontà, perché non la volete vedere, io non diventerei mai un'a­tea!-

Classica offesa da persona accecata dalla religione. M'impietrii, con la schiena dritta, la bocca sigillata, lo sguardo fiero pronto ad incenerirla, sussurrai:-Tu mi stai proponendo una guerra, perché se è così stai pronta a perdere-

-Atei contro religiosi, chi perde si converte, ci stai?- Merda, no!! -Sì.-.

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Capitolo 2
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Quel giorno uscimmo da scuola entrambe tranquille e serene. Un patto tra adolescenti che sarebbe andato presto sfumato, o così pensava la prof. Ma nessuno di noi, tantomeno io e Cloe avevamo preso alla larga quella sfida. Io dovevo vincere, nonostante fossi il capo della minoranza.

Negli animi più forti si nascondono i cuori più caldi.

Che vuol dire? Coloro che sono visti da tutti come delle rocce, come qualcuno che non può essere abbattuto con le parole sono coloro che hanno più a cuore le loro cause e che com­batterebbero fino alla morte per quelle.

Le persone che paiono deboli è, invece, perché dei loro pensieri non gli importa granché.

Io e Guido eravamo i cattivi, l'idea sarebbe cambiata.

 

Intanto una storia d'amore stava per nascere e niente l'avrebbe intralciata. Niente.

-Usciamo oggi? I compiti ancora non ce li hanno dati, fortunatamente- mi chiese Guido.

-Certo, senti secondo te gli potrei piacere?- chiesi io scrutandolo

-A chi?- Dovevo dirglielo? Avevo quella stupida cotta dai tempi della fine della prima su­periore e ora ero a inizio della quarta. Ero uscita con altri ragazzi, ma li lasciavo veloce­mente, ora però, sembrava che lui mi notasse finalmente. Sì, glielo dico.

-Parlo di Diego...-

Mi guardò come se avesse appena ingoiato un insetto.

-Fai un po' pena con quella faccia- dissi io alzando un sopracciglio.

-Cazzo... beh, sì che gli puoi piacere...- dalla sua espressione notai che sapeva qualcosa. Sono sempre stata molto brava nel cogliere anche i più piccoli particolari. Cosa che non mi dava eccessive soddisfazioni per via di tutti i film mentali che mi facevo su uno sguardo troppo lungo o un occhiolino troppo amichevole. Ma che mi avrebbe fatto molto comodo in futuro.

-Cosa sai?-

-Ma come...-

-Parla!-

-Non posso... ma ti prometto che presto saprai-

-Gli piaccio?!- domandai tutta eccitata.

-Non è sempre come la pensi tu, Ronny...-

-Guido!-

-Non ti dirò niente!- e scappò via. Probabilmente andava a prendere la sua ragazza dell'u­niversità, eh eh.

Vidi una cresta colorata allontanarsi e scomparire subito dopo l'altissimo e magrissimo cor­po.

Con la coda dell'occhio notai Diego.

Quanto era... affascinante. Incredibilmente. Quanto ero cotta. Il mio orgoglio non permet­teva simili sballate per un ragazzo che non mi filava da anni.

Mmm... alto, vestito con all star, un paio di jeans e una T-shirt, allenato come mai il corpo asciutto e quasi adulto era per me un'attrazione irresistibile.

I capelli scuri tenuti un po' su con il gel e gli occhi neri... ah quegli occhi, sembrava di esse­re catturati dalla notte guardandoli. E lui, sempre pronto a scherzare, a prendere in giro, a ribattere. Un carattere difficile, molto. Uno stronzo l'avrebbero definito molte. Uno che usa le ragazze. Mi ero irrimediabilmente innamorata di uno stronzo.

-Ronny!!- mi venne incontro con un sorriso. Le farfalle cominciarono a svolazzare nella mia pancia.

-Ciao, Diego, come va, sempre fidanzato o te la sei presa una pausa da quelle puttanelle?- (notare il mio marcato sarcasmo e il mio scattare sulla difensiva)

-Non sono puttanelle e Francesca era molto simpatica- ribatté.

Ah caspita, ma chi se ne frega di Francesca, io amo te, ma quando lo capirai?

-E tu? Quanti ragazzi hai trovato che svenivano per te quest'estate?- la sua era ironia, non sarcasmo e per mio eterno rimpianto sembrava seriamente interessato.

-Un po'... ma non me ne piaceva nessuno-

-Da quando ti sei lasciata con Fabio è sempre così- Stupido! O non capisci che di quello non ricordo nemmeno il cognome o sei stupido davvero.

-Perché ci siamo messi a parlare dei miei ex tutto d'un tratto? Com'è andata l'estate?-

-Niente di che e tu?-

-Niente di che-

Tutti e due volevamo dire 'perché non c'eri tu', ma nessuno dei due lo fece in quel momen­to.

-Oggi la classe esce, ti va di venire?-

-Dove andate?-

-Ai pontili, fuori città, è bellissimo-

Lo so, ci ho passato tutta l'estate con Guido...

-Allora vieni?- mi stava invitando? Oddio! Calma, Ronny, finto disinteresse.

Ma prima che aprissi bocca mi disse.

-E potremmo anche andare al parco e mangiarci una piadina, poi ci andiamo insieme con la mia moto... se vuoi!- si affrettò ad aggiungere.

Aveva tenuto gli occhi bassi per qualche secondo? Ero rimasta imbambolata. Mi riscossi.

-Sì, certo- stavo sorridendo troppo, coprii i denti con le labbra in un pudico sorriso.

Stavo finalmente uscendo da sola con lui, dopo 2 anni e un'estate!

Non mi ero mai sentita talmente felice, mai, con nessuno. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Mi avviai con lui alla sua moto. Quanto era bella. Desideravo guidarla da un bel po'.

-Non ho un altro casco- si scusò.

-Non c'è problema...- 'aspetta, cogli l'opportunità Ronny' -Aspetta, c'è il problema, se non hai il casco guido io-. Sfoderai il mio sorriso più seducente da ragazza ribelle.

Mi fece segno di salire, mi scortò come una principessa. Chissà perché tutti mi trattavano come una principessa, non lo sopportavo. E soprattutto non ne comprendevo il motivo.

Feci finta di niente e salii. Sapevo come guidare una moto, ma una da cross sarebbe stata un'esperienza unica.

Salì anche lui. Il ragazzo che avevo sempre desiderato era seduto proprio dietro di me e io pensavo alla moto.

-Ti faccio vedere come fare- mi disse, mi voltai, i nostri nasi si sfioravano -So come guidar­la- esclamai -Scusa padrona- abbozzò un sorriso.

Io rimasi scherzosamente seria e misi in moto.

Rombai via. Non percorsi la strada di Milano, sapevo dove andare per fare un bel viaggio.

Mentre le fronde degli alberi scorrevano intorno a noi, lui mi posò le mani sui fianchi, si avvicinò al mio orecchio e sussurrò -Sei bravissima-.

Non parlammo più immersi nel silenzio speciale del tuono del motore.

Arrivammo al parco a piedi dopo aver abbandonato la moto lì vicino.

La piadina era calda e fumante nelle nostre mani, avevo preso formaggio e prosciutto cru­do, niente di complicato e velocemente mangiabile, lui anche e ne fui molto felice.

Mangiammo per cinque minuti scarsi e poi iniziammo a parlare bevendo lui una coca-cola e io tè alla pesca.

-Allora, come va con questa scommessa?- la scommessa, già...

-Bene, diciamo... non ci ho ancora pensato molto, è appena stata fatta- scommetto che Cloe è a casa a pensarci, invece.

-Cloe si starà già dando da fare da brava secchiona- leggi nel pensiero?

-Vero... non voglio parlare di Cloe- ammisi.

-Ok, allora parliamo del fatto che è una scommessa inutile, sarà impossibile per te vincere- credeva molto nelle mie capacità.

-Lo conosci il libro Hunger Games? Ne hanno fatto anche il film...- dissi tutto d'un tratto. Annuì.

-La protagonista non ha delle possibilità, eppure gioca, si offre per salvare la sorella più piccola. Io sono la minoranza, io sono la cattiva, la non religiosa, io, però, non lo faccio per me, io lo faccio perché non rinuncerò mai in ciò in cui credo. Perché voglio cambiare qual­cosa in questo mondo, lo faccio per tutti.-

-Soprattutto per te- valutò lui. Aveva ragione, volevo propagare le mie idee. Mie. Feci un segno di resa.

-Però ho capito, quali sono le tue idee? Vorrei ascoltarle, devo ancora decidere da che par­te stare- rise, ma non sembrava uno scherzo, sembrava qualcosa di particolarmente impor­tante, per la prima volta capii che non combattevo solo per me, lottavo anche per coloro che credevano in me.

Parlai tutto d'un fiato, ogni mia parola ne trovava altre, come tasselli di un puzzle e faceva sorgere sentimenti diversi.

Stava attento a quello che dicevo. Il mio non era un blaterare, stavo parlando emozionata.

Io volevo davvero vedere le mie idee prevalere sulle altre, vincerle e urlarle al mondo.

-Sto dalla tua di parte- esclamò infine. -Devo ammettere, però, che sono un po' influenzato da te- disse con un sorriso.

Il mio sorriso, invece, si spense.

-Cosa c'è?- era facile? Era facile stare lì ad ascoltarmi e dirmi che sarebbe stato con me? Era facile prendere una piadina e conquistarmi? Che numero ero io?

Non potevo accettare di essere un numero, un'altra e basta, preferivo amarlo per sempre e rimanere single e soffrire per la vita, piuttosto che avere una storiella in cui tutte le mie fantasie sarebbero state smontate. Il primo giorno di scuola. Niente più puttanelle. Niente più Fabio.

Sapevo di non essere speciale, era un sogno troppo bello nel quale io non mi ero mai lascia­ta trasportare al contrario di tante adolescenti innamorate. Io ero diversa, non speciale.

Un animale sconosciuto, non una tigre delle nevi. Sarei andata avanti. Non riuscivo a spie­garmi come mi fossi lasciata ingannare. Me lo vedevo lì davanti con un'espressione interro­gativa dipinta sul volto e poi vedevo la nostra storia: due uscite al cinema, mille baci, una scopata e fine della storia d'amore.

Non dissi niente, di sicuro non una di quelle frasi tipo: “Scusa, non posso” e se ne andò via piangendo. Mi alzai da terra scrollandomi l'erba dal sedere e dalle gambe, presi lo zaino nero e andai via.

-Ronny! Ma dove vai?- mi corse incontro -Sei sempre stata strana, così mai, però-. Mi bloccai, mi cadde quasi addosso.

-Come scusa?!- strana? Ero strana, aveva ragione. Non aspettando una risposta sgambet­tai avanti.

-Non sono abbastanza per te Ronny?- chiese sprezzante. Per me sei tutto, volevo risponde­re e lo feci. -Allora perché te ne vai?-

-Per questo-.

Restò a fissarmi scappare dal mio amore, dai miei sentimenti. Avrei fatto così anche con la mia battaglia? Sarei scappata, perché con una simile vigliaccheria avrei dovuto correre al­l'istante a farmi suora. Osservavo le mie all star nere muoversi velocemente, fermai un pie­de e lasciai l'altro raggiungerlo. Non ero una vigliacca, strana forse, ma non vigliacca.

Mi voltai. -Ti ho appena detto che per me sei tutto, non è così?-

-L'hai detto- lo guardai correre dov'ero, fu lì in un microsecondo -E io contraccambio-.

Non è vero, abbassai gli occhi e sorrisi di amarezza. -Non ci credi?-

Scossi il capo sempre con la testa china, poi, spontaneamente, la rialzai e lo guardai negli occhi.

-Così mi piaci, sicura come sempre, orgogliosa come sempre e strana come solo tu- passa­rono dei minuti avvolti nel silenzio, un silenzio spaventoso che ti costringeva a riflettere e a fare mille supposizioni.

-Sai da quando mi sono innamorato di te? Ricordi in prima liceo, io ero vicino a Giacomo e tu a Cloe, eri dietro. Tu hai chiesto una cicca a Giacomo. Non mi rivolgevi nemmeno la pa­rola, sembravi una snob, ma sei cambiata in fretta. L'ho visto la prima volta che ho avuto il coraggio di provocarti...- mi ricordavo quella volta, era venuto vicino a me e aveva chiesto “scommetto che vuoi stare vicino a me di banco”, mi guardava negli occhi e pareva sicuro di sé al cento per cento.

Scoppiai a ridere. La tensione scivolò via e cominciò a piovere.

-Quando ridi sei bellissima e ridi sempre- scherzò.

-Ridere fa bene alla salute!- e risi più forte. La pioggia cadeva silenziosa, ma il temporale si prospettava nel cielo. Mi misi a ballare come una matta. In fondo lo ero, no? Ah no, ero... -Pensi ancora che sia strana?- chiesi piroettando.

-Assolutamente, ma forse strana non va bene, che ne dici di inimmaginabile?-

-Troppo lungo!- urlai.

-E pazza?-

-Ah ah, è perfetto- mi fermai barcollando. Camminai verso di lui, assaporando ogni passo, simile ad un ghepardo che prova a catturare la sua preda.

Mi gettai su di lui facendolo cadere. -E' bagnato!- rise.

-Shhh...-.

Le sue labbra... potevo sentire il sapore delle fragole che avevamo mangiato e della coca-cola mista al mio tè alla pesca. Così fruttato e buono. Le labbra morbide e calde che mi ba­ciavano l'anima. Le mani che mi accarezzavano la schiena.

Rotolammo sull'erba non smettendo di baciarci. Lo sentite il profumo di fragola? L'amore mi scoppiava nel cuore come un petardo. Non volevo fermarmi mai, sarei morta baciando­lo, non volevo altro. Solo lui e i lampi sopra di noi. Ecco un tuono, stava urlando il mio amore, la bocca era impegnata e i tuoni le davano voce. Durante quel fragore ci stringem­mo di più, più lo baciavo più lo volevo. Avevo sempre considerato il bacio come uno scam­bio si saliva, ora era la porta del mio amore. Il cuore palpitava fortissimo, come un martello che presto mi avrebbe rotto la cassa toracica. Bum. Bacio. Bum. Tuono. Stretta. Di più.

Il terreno tremava? C'era anche il terremoto? Non importa, voglio morirci qui con te.

-Vi divertite?-.

Fine del momento magico. Le nostre labbra si erano ormai staccate con uno schiocco. Era­vamo ancora distesi, mi girai, la schiena sul prato fradicio. Aveva smesso di piovere e tuo­nare, c'era soltanto uno schifoso grigino sciacquattoso. Grigio come la ragazza che ci aveva interrotti. No, lei era verde d'invidia. Giuro che avrei voluto darle un pugno in faccia.

Mi alzai d'impeto pronta a sferrarglielo, ma Diego fu più veloce di me e mi agguantò il braccio. Storsi le labbra.

-Cloe- disse lui.

-Sei sempre stata un'atea- sibilò in tono sprezzante -ma puttana credevo di no, tu non sei sua! Lui ha già un'altra ragazza!- Che?

-Francesca!- chi?

Ero pietrificata... non si era lasciato con Francesca...?

-Ma che dici? Io l'ho mollata Francesca!-

-Allora non sei una puttana- si rimangiò le parole.

-Cloe, tu sei suonata, grazie comunque per averci interrotti- uffa, proprio non la volevo lei.

-Ma guarda chi c'è là!- Esclamò lei senza far caso a me.

Seguì la traiettoria del suo braccio puntato, Don Franco. Spalancai gli occhi, dovevo filar­mela all'istante, lui mi voleva portare in un riformatorio come minimo dopo che avevo pre­so la sua Bibbia, dove ci stava spiegando l'immondo peccato del sesso, e l'avevo buttata a terra sul suolo polveroso dell'oratorio urlando che era un atto d'amore non un peccato e avevo anche aggiunto un piccolo aggettivo denigratorio...

-Veronica, fermati cara, non abbiamo mai modo di parlare-.

-Chi è?- mi domandò Diego.

-E' uno che mi mette nei casini- risposi.

-Veronica, per la Santa Chiesa, fermati!-. Mi fermai, non obbedendo al suo ordine, ma al mio istinto primordiale di spaccargli la faccia. Guardai verso il cielo e pensai: “Ma se pro­prio dovevi esistere, non potevi non farti conoscere, Dio?”. Tirai un respiro. Gli occhi del parroco mi disgustavano, erano cinici, come quelli del Papa, erano falsi con la loro finta bontà. Opportunisti e anche sadici in un certo senso.

-Veronica, ma da quanto? Ah, sì, dal piccolo incidente con la Bibbia-

-Mi chiami Ronny-

-Veronica- m'ignorò lui -ce n'era bisogno? Una così bella ragazza, come te, comportarsi da disertore dei Testi Sacri e disonorare i nostri amati modi?-

-Sì- risposi semplicemente.

-E tu, hai già compiuto quel peccato?- mi sta chiedendo se ho fatto sesso? Ah ah.

-Questo non la riguarda- dissi gelida.

-Sarebbe una vergogna, poi tu devi essere una femmina fedele-.

Mi montò la rabbia, ora la faccia gliel'avrei spaccata davvero, provai a contare fino a 10, ma niente, non mi trattenni.

-Io sono fedele solo a me stessa, parroco, e io sono una ragazza, non certo una femmina, non certo un animale, se ho fatto sesso o no, poi, sono problemi miei e non è peccato: è il più grande gesto d'amore che si possa fare! Voi categorizzate come peccato qualcosa che fa nascere una nuova vita- mi guardò come se avessi detto un'assurdità, figurarsi, parlare con un religioso è come dire ad una televisione impallata su Gambero Rosso di trasmettere la Champion's League.

-Vergognati, Veronica...-

-Basta, lei non mi può dire di vergognarmi, sono le mie idee e le tengo così, se voi non le volete ascoltare è un problema vostro-

-Voi chi?- chiese con una punta provocatoria. Stava cedendo.

-Voi, bigotti- sorrisi a Cloe -vale anche per te-.

Io le loro idee le avevo ascoltate mille volte ed era così che avevo capito che non mi ero de­dicata alla religione, ma i preti e altri bigotti non mi hanno mai ascoltata e continuano a dirmi che mi dovrei vergognare.

Non mi vergogno di ciò che sono.

-Ah, Don, spero vivamente che lei vada al Diavolo, se lo merita- risi -lo vede quel ragazzo?- indicai Diego, lui lo guardò con la faccia ancora scossa -lo amo da sempre e spe­ro vivamente di fare sesso con lui, prima del matrimonio e lo farò se me la sentirò, io non devo niente a nessuno, lo ricordi bene-.

Diego mi prese la mano e mi baciò, un bacio che mi fece svenire, ma che serviva soprattut­to a dimostrare il nostro amore.

-Vergognati, andrai tu al Diavolo, sei una figlia di Satana-

-Si risparmi le prediche, quelli esistono solo per chi ci crede- feci un sorrisetto furbo e girai i tacchi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Mi scusai con Diego per ciò che avevo detto, ma capì subito il perché di quella mia reazio­ne. Gli dissi che volevo andare a casa a cambiarmi e che ci saremmo visti alla fermata del tram per andare fuori con gli altri. Mi chiese di venire con me. Io elusi la risposta, o alme­no ci provai, tentavo in ogni modo che lui non vedesse mio padre, mai e poi mai.

Arrivai a casa mia, altra cosa di cui mi vergognavo non poco, era esattamente sopra l'orato­rio, ironia della sorte, era grande, imponente, ma soprattutto era lussuosa. E fredda.

Bianca. Mi sentivo male stando là dentro, aveva avuto ragione mia madre ad andarsene, se l'era procurato lei il cancro, fumando come un'ossessa. L'avevo persa per sempre, era una donna debole, in fondo, non aveva avuto la forza di sopportare mio padre e stare con me. Così a me ci badavo io e un po' di soldi di mio padre.

-Buongiorno, signorina- mi salutò il maggiordomo, mio padre non aveva mai voluto sapere il suo nome, per lui era solo servitù, quando io avevo provato a chiederglielo si era rifiutato di dirmelo. Debole anche lui. Siamo noi la causa dei nostri dolori. Feci un cenno con il capo nella sua direzione e rimasi a fissarlo, non avevo bisogno di parlare, mi avrebbe capi­ta. Scosse la testa sorridendo. Ero già più sollevata.

-Ronny, piccola mia, com'è andato il primo giorno di scuola? Non sei tornata a casa per mangiare- e allora? Tanto non t'importa. Lo ignorai, mi sentivo sempre terribilmente tesa in quella casa. L'odore della disperazione, del fumo, dell'alcol, del cinismo permeava tutto l'ambiente. Convivevo con il terrore di tornare da scuola e vedere mio padre in giacca e cravatta buttato sul divano ubriaco fradicio; era già successo, per questo mia madre si era uccisa a poco a poco, oltre le altre cose.

Le all star producevano un rumore fastidioso sul pavimento bianco immacolato. M'infilai in camera mia e chiusi la porta a chiave. La mia camera era accogliente, ma non ci stavo comunque bene, presto me ne sarei andata via per sempre, senza guardarmi indietro, senza piangere. Se avessi pianto mio padre avrebbe eretto delle barriere sulle mie rovine e sareb­be rimasto dell'idea di farmi tornare. M'infilai sotto la doccia. Quell'acqua aveva un che di falso, non era come l'acqua del cielo, che io chiamavo acqua santa, perché mi aveva fatto conoscere il vero primo bacio.

Rimasi nuda davanti allo specchio per guardarmi un po'. Quanto avevo combattuto in que­sta vita? E quanto ancora dovevo combattere? Ho 17 anni, ho imparato già moltissimo.

Il mio corpo è sempre stato molto magro, da piccola mi avevano presa in giro troppo, ave­vo versato troppe lacrime finché i rubinetti si erano chiusi ed ero cambiata. Tutte quelle che mi dicevano che ero troppo magra ora erano delle balene con la cellulite, io ero soda e bella, nonostante le mie forme non fossero tanto accentuate. Le gambe lunghe erano ciò che preferivo di me. M'infilai le mutandine, poi il reggiseno. Così andai al mio armadio e lo spalancai, c'erano decine di vestiti, ne mettevo molti di meno, gli altri me li aveva comprati mio padre, belli da svenire, ma sporchi dei suoi luridi soldi.

Trovai una maglietta a maniche a giro dei Linkin Park comprata su EMP e la indossai. Corsi per la camera finché non trovai i pantaloncini di jeans corti e gli stivali alti. Adoravo la combinazione stivali-shorts. I capelli non me li toccavo mai, erano perfetti così, lisci e neri. Mi misi il mascara waterproof e scappai da quella casa maledetta, senza scordarmi il mio taccuino.

-Dove vai Ronny?- chiese mio padre.

-Ad una festa, stasera andiamo tutti in discoteca, ti dispiace?- mentii.

-No, vai pure, credevo che la discoteca non ti piacesse... vai ad una festa vestita così?-

-Si, suonano delle band rock e ho pensato di mettermi la maglietta di una delle mie band preferite-

-Oh, in questo caso, ottima scelta, ciao tesoro-.

Non lo salutai. L'unico suo tesoro era il denaro e la vodka.

-Signorina?- domandò il maggiordomo in tono di chi ha compreso il senso della vita.

Abbassai le spalle -Da cosa ha capito che stavo mentendo?- gli chiesi, mentivo da sempre, dovevo continuare a farlo, per sopravvivere.

-Ho dedotto i suoi gusti- non potei fare a meno di sorridergli.

-Un giorno mi dirà i suoi, signor...-

-Aliviero- nome da maggiordomo.

-Chiamami Ronny-.

Me ne andai prima che potesse ribattere.

 

Ci rimasi abbastanza male quando non vidi nessuno alla fermata del tram, poi presi il mio Iphone e notai che c'era un messaggio:

Diego

Ehi piccola, io sono alla fermata

al bar davanti <3

 

Si era cambiato, i jeans ora erano tagliati al ginocchio e aveva messo la maglietta blu che amavo tanto. Appena mi vide, corse fuori. Si fermò a cinque passi da me.

Allargai le braccia come per chiedermi spiegazioni e lui, per risposta, mi prese in braccio baciandomi

-Ma sei proprio vera?- Lo baciai. -non ti avevo mai vista in pantaloncini- era vero, quando c'era lui io avevo sempre o i jeans lunghi o a pinocchietto.

-Perché non ti piaccio?-

-Scherzi?- e rise. Scossi la testa con finta aria rassegnata e contrariata. Poi lo presi per mano e lo portai dentro al bar. C'era quasi tutta la classe.

-Siamo noi?- chiesi.

-No, manca Cloe e alcuni nostri amici che arrivano subito- rispose Guido.

-Come ci andiamo al lago?-

-Prendiamo il treno!-

-Ci mettiamo poco... ma i biglietti?-

-Ho delle conoscenze- mi fece l'occhiolino.

Saltai e lo baciai su una guancia.

-Ehi ehi ehi...!!- fece Diego. Scoppiammo a ridere.

 

Gli altri arrivarono dopo un po'. La ragazza di Guido era bella, rossa di capelli, mi era sempre stata simpatica, ma non eravamo grandi amiche. Andava bene così. Io non volevo nient'altro dalla vita.

Fummo sul lago entro poco e ci divertimmo come matti, conoscevamo quel posto in modo perfetto, ci avevamo passato tutta l'estate, mille volte meglio di Milano. Lì le persone sem­bravano quasi felici. Pensai per un attimo di essere lontana da mio padre, tanto e sospirai. L'odore del lago era salubre. Se solo fossi rimasta lì per sempre. No, io non volevo essere come gli altri.

Trova un impiego. Vai al lavoro. Sposati. Fai dei figli. Segui la moda. Sii normale. Rimani coi piedi a terra. Guarda la TV. Obbedisci alla legge. Risparmia per la vecchiaia.

Ora ripeti dopo di me: IO SONO LIBERO.

Questo era un post di Facebook.

In fondo le cose a quei tempi erano già meglio di come sono diventate adesso. Dal tempo in cui scrivo. Io le ho fatte diventare in un solo anno molto più catastrofiche.

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Capitolo 5
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

Stetti abbracciata a Diego tutto il tempo. Il calore del suo corpo dietro di me. Lui che mi toccava i capelli per farmi le trecce.

Ma ben presto, al tramonto circa, le acque si agitarono.

Allora, bella figura hai fatto oggi con il Don– sogghignò Cloe.

Ho detto solo quello che pensavo–

Hai detto cose sciocche–

Ho espresso i miei pensieri–

Lo fai anche troppo–

Rimasi zitta, non volevo problemi, volevo dimenticarmi di quella stupida scommessa.

Quante persone hai trovato dalla tua parte? Io ho trovato tutti i Don– sì, e il Papa magari –ma tu, sei stata in giro a scopare, no?–

Io sono vergine, tu invece non lo sei. Ti sei scopata tutti i Don– ironizzai brutalmente.

Vergognati per...–

No! Non mi vergogno, ma ancora non l'avete capito?!–

Corsi attraverso la piazzetta e scalai una statua altissima, da lassù si sentivano leggeri spruzzi d'acqua.

Chi è ateo alzi la mano e non abbia paura!–

All'inizio tutti rimasero lì a fissarmi allibiti. Alcune anziane signore mi ritenevano una pul­zella svergognata in abiti succinti. Poi un gruppo di giovani gridò: “NOI” e restarono com­patti. Poi un signore anziano e in seguito una ragazza.

Una bambina mi guardava stranita. Allora dissi:

Chi è stanco che la Chiesa non ci faccia amare? Chi non vede i gay e le lesbiche diversi dagli altri? Chi ha dovuto rinunciare ad un amore per la stupida castità che il Papa impo­ne e che la sua famiglia segue? Chi si annoia ad andare a catechismo e non capisce il senso delle parole che gli fanno recitare?–

La bambina alzò il braccino, aveva fegato.

Si alzarono un coro di mani.

Chi non vuole vedere il Papa vestito d'oro e di seta insegnare i valori della semplicità a bambini dell'Africa che non hanno niente? Chi non pensa che il Papa non gli offra nemme­no la speranza, perché quella ce l'hanno già?–

La ricchezza della Chiesa mi disgusta! Il loro dire: “Siate forti” a persone che muoiono di fame o si suicidano perché hanno perso il lavoro mi fa schifo! Loro non sanno cos'è la po­vertà, loro non seguono i veri insegnamenti, con i loro soldi ci costruiscono chiese per otte­nerne altri! Io amo la libertà e io non sono libera perché sono atea, io sono atea perché sono libera!–.

Gli scrosci di applausi, le urla d'ammirazione mi facevano sentire vera, vera come non ero mai stata. Ora sapevo che il vero motivo per cui dovevo portare avanti questa battaglia erano tutti loro. Era una bambina di 7 anni che si era opposta alla madre per quello in cui credeva! Era la libertà. You are free!

Le lacrime stavano affiorando ai bordi dei miei occhi. Ero davvero qualcuno! Potevo dav­vero fare qualcosa!

Quanto siamo belli! Siamo belli perché siamo liberi e non ci faremo trascinare a fondo. Combatteremo per noi stessi, siamo qualcuno. Anche una piccola goccia può fare la diffe­renza! Se volete raccontarmi delle storie su di voi, siate liberi di farlo, IO ascolterò tutto quello che avete bisogno di dire. Non abbiamo bisogno di preti per parlare con Dio, abbia­mo bisogno del rispetto per noi stessi. La religione è una gruccia per coloro che non sono abbastanza forti da affrontare l'ignoto senza aiuto! La religione è l'oppio dei popoli!– mi brillavano gli occhi. Il lago e io eravamo uniti, presto cominciarono ad alzarsi onde e a spruzzare la vita. La vita che scorreva dentro di me.

Avrei vinto. Povera ingenua ragazza.

Siete dei barbari, il Papa porta la bontà e l'amore, porta i soldi ai bambini poveri. Pregare Dio ci garantirà un posto al sicuro in Paradiso, non importa un accidente come il Papa o i vescovi si vestano, l'importante è quello che fanno. Non te l'hanno mai detto che un libro non si giudica dalla copertina? La religione è la purezza dell'anima!–

Cloe stava ribattendo. La guerra stava iniziando.

Non lo voglio un posto in Paradiso se si tratta di sopprimere i miei pensieri! Non te l'ha mai raccontato nessuno che chi si mostra grande è solo un povero scemo?–

Tu ti stai mostrando grande, ragazzina?– aveva chiesto una signora anziana tutta perfet­tamente agghindata.

No, io sto dicendo che posso fare qualcosa di grande, ma indosso vestiti a caso. Io mostro agli altri i miei pensieri, non la mia ricchezza–.

Siete in minoranza, non vincerete mai!– Cloe: cinica e bigotta.

Non è questione di vincere, è questione di libertà di opinione. Di libertà di non essere ad­ditato per ciò in cui credi o non credi–

Siete in minoranza, comunque!–

Lo conosci Alessandro Magno? Ricordi che con pochi soldati ha sconfitto battaglioni di nemici?–

Chi è con me e non con questa eretica!?–.

Eretica, mi chiamò così perché ai suoi occhi io ero tale. Non ci feci caso. Osservai più che altro il suo modo disperato di arrampicarsi sugli specchi. Potevo vedere nella mia testa le sue unghie, conficcate nella superficie lucida dello specchio, che emettevano stridori.

Tanti alzarono le mani, ma erano anziani o donne e uomini di mezza età, c'erano anche gio­vani, però.

Scivolai giù dalla statua.

Raggiunsi Cloe. Ci squadrammo come, immagino, avrebbero fatto due capi di truppe ne­miche nelle guerre d'antichità.

Due eterne rivali si confrontavano in quell'arena. Due donne rivali che avrebbero sorpas­sato ogni dittatore e sarebbero entrate nella storia.

 

'Che giornata' pensavo mentre tornavo a “casa”.

Avevo preso il tram e stavo guardando il paesaggio della notte fuori dal finestrino.

Silvestri?– mi sentii chiamare e vagai con lo sguardo fino ad arrivare ad un uomo alto con l'impermeabile grigio. Era anziano, m'ispirava fiducia, ma non ne ero sicura. Come diavolo sapeva il mio nome? E chi era? Infilai una mano nella borsa e toccai il coltello che portavo con me da sempre. La lama mi dava sicurezza, feci scorrere le dita sulla superficie tagliente senza paura. Questo mi diede coraggio.

Chi è lei?–

Mi chiamo Mr. Cloud, sono uno scopritore di talenti– un che? Che talento dovrei avere io? Lo squadrai: pelle abbronzata, un reticolo fitto di rughe sulla faccia sottolineava che doveva aver riso molto da giovane, gli occhi erano verde acqua, quel verde spento che si trova ogni tanto, non mi era mai piaciuto, ma su di lui stava bene. Quell'uomo doveva esse­re molto affascinante alla mia età. Aveva un accento strano, non doveva essere di qui.

Di dov'è?–

Vengo dal Canada, ma vivo qui ormai da vent'anni– sul viso gli si accese un sorriso, avevo ragione. Quel sorriso mi trasmise subito simpatia e una certa dolcezza senile. Avevo sem­pre creduto che tra i giovani scapestrati e gli anziani ci doveva essere un rapporto unico. Gli anziani hanno bisogno di un giovane che ricordi loro che non devono solo essere tratta­ti come reperti e serviti di tutto punto.

Che talento dovrebbe aver trovato in me?– chiesi subito pentendomene. Magari ero la Sil­vestri sbagliata... non riuscivo a decifrare le sue espressioni, mi rendevo conto di guar­darlo come se fossi stata alla ricerca del codice di apertura di una scatola contenente il più ricco dei tesori. Che aurea misteriosa. Ricordai che, nei libri, i giovani trovano sempre un amico anziano fantasticamente intelligente e sapiente. I libri rispecchiano quasi sempre la realtà.

Signorina Ronny, devo ancora scoprirlo, altrimenti che scopritore sarei?– restai allibita.

Credevo che... aspetti, ma allora perché ha... come mi conosce?– balbettai.

Ti ho vista una volta ad una conferenza al liceo e ho voluto subito sapere chi eri. Poi oggi sono venuto a sapere da questo idolo chiamato Facebook che ti eri arrampicata su una sta­tua imponendo a tutti di ascoltarti– tacqui –come può una così non essere un talento?–.

Sei anche intelligente, tutta la compagnia ti voleva, ma io ho insistito per occuparmi per­sonalmente di te–. Ora non ci stavo capendo più niente.

Capirai tutto a tempo debito, comunque, sono felice che tu non proferisca parola, è segno di acutezza. Domani mattina alle sette all'antico Campari–.

Se ne andò lasciandomi sola nel buio intervallato dalla luminescenza dei lampioni. Una persona normale avrebbe creduto che fosse completamente pazzo e si sarebbe tenuta lonta­no dal Gran Bar Zucca. Io, però, credevo in quell'uomo, mi fidavo di lui ed ero pronta a presentarmi all'appuntamento.

Davvero una che sta in silenzio è intelligente? Avvolta nelle mie riflessioni non mi accorsi delle fermate che passavano, così chiamai subito la prossima che era quella immediatamen­te dopo la mia.

Mi feci un po' di strada a piedi e ne fui grata, potei riflettere sulle parole di Mr. Cloud e stamparmi in faccia la classica espressione “niente pensieri” che piaceva tanto a mio padre.

Entrai in un bar e comprai una bottiglia di birra per far finta di tornare ubriaca e non do­vermela vedere con le sue domande. Ne bevvi due sorsi e il resto lo buttai in una fontana.

Arrivai a casa. Aliviero non c'era. Mi preoccupai immediatamente e i pensieri svanirono come per magia. Corsi dentro con la furia di uno tsunami. Non poteva essere successo di nuovo.

Lo vidi steso sul divano bianco immacolato con la bottiglia di vodka stretta in mano. Mi guardava con aria stordita.

Ronny, come va?...– biascicò.

Mi salirono le lacrime. Digrignai i denti per cacciarle. Guardai la mia mano, la bottiglia marrone stretta fino allo spasimo. Le nocche sbiancate. Gettai la bottiglia a pochi centime­tri dalla testa di mio padre. Le schegge lo colpirono. Il mio petto si alzava e si abbassava troppo velocemente. Stavo piangendo. Furiosa mi avvicinai a lui, presi la cravatta, senza temere la sua reazione, tirai il nodo fino a strozzarlo, braccai il coltello e gliela tagliai. Ora sembrava un collare per cani. La sua faccia era blu e gridava rabbioso il mio nome. Scap­pai in camera prima che potesse anche sfiorarmi e piansi fino allo sfinimento.

Il mio problema in quella lotta con Cloe era che lei era sicura dell'esistenza di Dio e lo di­ceva, io dicevo di essere atea, ma in momenti come quello sapevo che Dio esisteva, solo lo ritenevo un essere atroce.

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Capitolo 6
*** Capitolo 7 ***


Non ho voglia di fare niente oggi, per cui, aggiungo un nuovo capitolo! 


Capitolo 7

La sveglia segnava le 6 in punto. Mi ero svegliata prima che suonasse. Mi buttai sotto la doccia. Non stetti ad asciugarmi i capelli, faceva molto caldo essendo ancora estate e si sa­rebbero asciugati da sé. M'infilai nell'armadio e presi una maglietta verde con stampato il fungo di super Mario, i jeans scuri scoloriti e le Superga bianche.

Lucidai alla perfezione il minuscolo piercing al naso, mi truccai e mi chiusi la porta della camera alle spalle.

Entrai nella camera di mio padre e rubai tutte le medicine che prendeva contro il mal di te­sta, accesi il caminetto e ce le buttai. Con il coltello sminuzzai la sua camicia di seta più co­stosa e scappai.

Ho visto quello che ha fatto, Ronny–

Perché, invece, non hai visto quello che ha fatto mio padre ieri, Aliviero?–

Guardi che non ho detto che non ha fatto bene–.

Grazie, pensai.

 

Trovai Mr. Cloud seduto placidamente su una sedia. Chiesi al cameriere un cappuccino e mi portò quello più bello che avessi mai visto: c'erano anche dei cuori disegnati con la pol­vere di cacao sulla schiuma.

E' opera sua?– chiesi divertita a Mr. Cloud.

Mi sembrava scortese non accoglierti nel migliore dei modi–

Io voglio solo delle risposte–

Sembri più adulta oggi– disse, invece, lui.

Abbassai la testa sulla maglietta di super Mario perplessa.

Il tuo viso è stanco, sa di più. Cos'è successo?–

Non mi sembra il caso di parlargliene, non sono affari suoi–

Ridacchiò.

Hai un carattere mica da tutti, bene, cosa vuoi sapere?–

Perché sono qui?–

Hai un talento–

Quale?–

Lo devi scoprire– sbuffai irritata, poi mi riscossi pronta –Ieri ha detto che lei doveva sco­prire il mio talento–

Io l'ho già scoperto, se fai questo lavoro non ci metti tanto a capirlo–

Allora me lo dica–

Il mio compito è quello di aiutarti a capirlo da te–

Nemmeno la conosco. Ci sono troppe persone nella mia vita che cercano di manovrarla, certe sono anche morte, non ho intenzione di parlare di me con lei–

Devi fidarti di me–

Io non devo niente a nessuno! Non la voglio nella mia vita, che abbia intenzione di aiutar­mi o no–

Non posso rivelarti niente di me, ti chiedo di avere fiducia–

Io le chiedo di non prendermi in giro. Comunque di lei non me ne frega niente e se volesse aiutarmi mi direbbe tutto–

Non posso–

Non vuole, secondo lei, io, potrei quasi soffocare mio padre con la sua stessa cravatta e spaccargli una bottiglia di birra a pochi centimetri dalla testa? No, però l'ho fatto. Quindi non dica “non posso” perché non esiste–

Detto questo mi sollevai dalla sedia pronta ad andarmene.

Vuoi sempre avere l'ultima parola, vero?– alzai le spalle –Vieni nella libreria “Discove­rers”–

Mai sentita–

La troverai se lo... vorrai– e i bordi delle sue labbra si sollevarono di poco.

 

Se lo vorrai. Cosa avrà voluto dire?

Stetti a pensarci andando a scuola, sull'autobus. Arrivò il controllore e scappai giù da una porta risalendo dall'altra.

Piccola!– Diego –Come va?– com'era bello vederlo sorridere. La mia bocca non ci riusci­va, invece.

Cos'hai?– mi chiese senza aspettare.

Niente che possa importare, interroga in latino oggi?– dirottai la conversazione

Scherzi? Sarebbe assurdo– disse ridendo –seriamente, cos'hai?– insisté.

Mi sono alzata presto e sono assonnata– mentii.

A questo c'è rimedio, io di solito mi faccio la doccia e poi mangio il pane con la Nutella e bevo del latte caldo, perfetti– risi con sincerità –che c'è?–

Anch'io faccio così– ammisi.

Parlammo e quasi mi dimenticai di mio padre.

Arrivata in classe trovai Guido che mi voleva assolutamente parlare e acconsentii. Più di­strazioni avrei trovato, meglio sarebbe stato.

Mi parlò della sua ragazza: l'aveva tradito, con il ragazzo che aveva quando era in quarta liceo. Non ne ero molto sorpresa.

Sapevi che sarebbe successo– dissi.

Non ci volevo credere–. Allargai le braccia e lo abbracciai. Avevo più bisogno io, che lui, di un abbraccio.

Mi sono dimenticato di dirti una cosa che non penso tu sappia. Ieri hai guardato Face­book o il telegiornale?– scossi la testa confusa –parlavano di te. Della tua scalata–.

Oh... Guido, ti devo raccontare quello che mi è successo. Prometti di non dirlo a nessuno?–

Neanche a Diego?– guardai Diego. Sapevo che non dicendoglielo avrei sbagliato. Presi in considerazione l'idea di confidargli cos'era mio padre, cos'era stata mia madre. Poi, però, rinunciai, mi sentivo molto più unita a Guido. Che avrei combinato?

No– risposi.

Promesso, dimmi–.

Gli parlai di mio padre e mia madre il meno possibile in modo secco e schietto. Non volevo rimandare la conversazione a dopo la lezione.

Perché non me ne hai mai parlato–

Lo sapeva solo Nicola–.

Nicola era stato il mio migliore amico, la nostra amicizia non era finita bene come si può im­maginare.

Annuì soddisfatto della risposta. –Va bene, lo denuncerai?– non sapevo che dire –non vuoi? Beh fai male–.

Smettila di parlarne. Era solo uno sfogo, inutile e stupido. Ciò che davvero voglio confi­darti è altro–

Gli dissi di Mr. Cloud. Mi chiese se ero sicura di non voler dir niente a Diego e io confer­mai.

Sentimmo un tuono sopra di noi e l'acqua scrosciò fuori dalle finestre. Volammo tutti a ve­dere, compresa la prof, e vedemmo che le fronde degli alberi si muovevano imbizzarrite e le foglie venivano quasi bucate dalle trafiggenti gocce di pioggia. Almeno, questo fu quello che vidi io prima che la luce, appena accesa, si spegnesse e noi rimanemmo con la sola lu­minescenza dei lampi nel cielo nero. Non era un temporale normale. Sembrava un tempo­rale da film, ma dal vivo.

Le ragazze urlarono impazzite andando ad abbracciare i ragazzi e quelli se la ridevano come matti. Guido era ipnotizzato, affascinato non levava gli occhi dalle ramificazioni biancastre dei fulmini. Anch'io le guardavo, le fissavo come se le volessi inglobare al mio interno, però, non ero affascinata, sì, in verità, ma l'emozione più sovrastante era la curiosi­tà. Curiosità mescolata a mistero. Come se avessi davanti Mr. Cloud. Mr. Cloud! Era colpa sua? Cosa nascondeva quell'uomo che, a suo tempo, doveva essere tremendamente affasci­nante per le giovani donne?

Non potei andare avanti con le mie innumerevoli domande perché Diego mi cinse con le braccia in un abbraccio indissolubile. Quella sua forza un po' mi spaventava, non avrei avuto neanche la minima chance contro di lui. Perché mi facevo simili problemi? 'Smettila Ronny' mi dissi.

Cosa non mi stai dicendo? Ti conosco fin troppo bene, quando stai zitta pensi e ora stai zitta quindi pensi troppo e quando pensi tanto c'è sempre qualcosa che va storto– risi, il punto era che pensavo sempre e parlavo mai. O meglio, soppesavo le parole. Se non hai niente da dire stai zitto.

Ancora taci? Dobbiamo rimediare...mmm...– si mise a farmi il solletico sulla pancia, dove lo soffro di più. Stavo per morire dal ridere così, per cercare di sgusciare via dalla morsa delle sue braccia, mi voltai di scatto ritrovandomi a pochi centimetri dal suo viso e dai suoi occhi di carbone.

Mi lasciai scivolare in quell'oro nero mentre le nostre labbra si posavano delicatamente l'u­na sull'altra e rimasero tranquille in un momento di assoluta intimità.

Dopo poco accoccolai la testa sulla sua spalla. Gli altri ancora urlavano e i tuoni sbraitava­no fuori. Fuori. Io mi sentivo protetta da una barriera. Ero in un altra dimensione. La terra non esisteva più.

Aprii gli occhi di scatto capendo immediatamente. Tornando nei miei mondi.

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Capitolo 7
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

I miei mondi. Certo, bastava un minimo di concentrazione per scovare le parti di mondi di­versi. Uno era quello di cui m'interessava, quello che mi racchiudeva, l'altro era il mondo a me circostante, quello che tutti chiamano a casa, quello in cui mio padre è uno schifoso al­colizzato e tutti lo ammirano estasiati.

Troverò la libreria se lo vorrò, se la farò entrare nel mio mondo, se farò entrare Mr. Cloud. Ormai ero completamente assorta da quell'uomo e mi piaceva talmente tanto come persona che avevo bisogno di lui quanto di un nuovo padre.

Hai ragione, nascondo qualcosa, che ti dirò adesso– dissi rivolta a Diego.

Mi piacerebbe piccola, ma adesso c'è lezione, il temporale si è calmato di botto, strano no?–

Buffo– assentii. Buffo davvero... tutti si stavano dirigendo confusi verso i propri banchi e io mi sedetti piano al mio.

Quel giorno il prof di filosofia disse che il giorno dopo avrebbe interrogato sul primo capi­tolo del nuovo libro. Così fece anche quella di latino e quello di fisica annunciò una verifi­ca.

S'iniziava. Sapevo già come sarebbe finita, sarei arrivata sull'orlo della bocciatura e bum, spinta dalla determinazione l'avrei spuntata, o forse no? Quell'anno non l'avrei neanche fi­nito, ma questo allora non lo sapevo.

Uscimmo dall'aula soffocante e ci crogiolammo al caldo e al sole.

Allora, cosa mi volevi dire?– chiese Diego. Gli sorrisi e lo baciai con tanta passione che, per un momento, tutti stettero a fissarci, io non ne avevo vergogna. Lui era mio, mio sol­tanto.

Gli raccontai ogni cosa. Passando velocemente su mio padre e soffermandomi maggior­mente su Mr. Cloud, come con Guido.

Tuo padre... vorrei picchiarlo e vuoi davvero conoscere meglio quel tizio? Sei sicura che non sarà pericoloso?–

No, mi fido di Mr. Cloud. E non andrò alla libreria da sola, vuoi venire con me e con Gui­do?–

Perché ci portiamo dietro Guido?– mi stupii di quella domanda, lui e Guido erano sempre andati molto d'accordo.

Non lo vuoi?–

No, è che... boh, va bene così– farfugliò lui.

Mi limitai a guardarlo alzando un sopracciglio (l'unico che sapevo alzare era quello destro).

Andiamo? È forte questo tipo?– chiese Guido riferendosi a Mr. Cloud.

Non so se ti piacerà, a me sì, sembra che provenga dal passato, è il mio idolo–

Hai detto che è uno scopritore di talenti, perché ha scelto te?–

Dice che sono speciale, lasciamo stare, risparmia le domande per lui–

Sempre che riusciamo a trovare questa libreria– ipotizzò Diego. Sapevo che lui in fondo in fondo non voleva trovarla. Io, invece, sì, sarebbe stato qualcosa che mi avrebbe risve­gliata da quello stato di torpore che mio padre mi provocava con il suo costante utilizzo dell'alcol.

Bene, siamo fuori dalla scuola, dove andiamo?– chiese Guido. Pensai che se era nel mio mondo sarebbe bastato andare in un posto che desideravo vedere. Ma poi capii che non poteva essere in un posto che avevo già visto, doveva essere un posto strano...speciale... misterioso... antico!

Guido?! Milano ha qualche borgo, tipo qualcosa che faccia sembrare di essere in un'altra epoca... come il tram?–

Ma che dici...?– iniziò Diego.

Sì... ce n'è uno in cui vado... andavo spesso con lei– lo ignorò Guido.

Qual è?–

Vieni–.

Camminammo per due ore buone sempre fermandoci a perlustrare. Finalmente arrivam­mo, ma quel luogo era grande e si diradava in diverse ramificazioni come nelle antiche cit­tà. Come a Siena.

E ora dove andiamo?– chiese Diego.

Feci vagare lo sguardo stanca e accaldata.

Beh, potremmo prenderci un gelato, tanto per riposarci un po'– risposi. Sembravano felici della pausa. Io non lo presi, nonostante lo volessi con tutta me stessa, preferivo la libreria e Mr. Cloud. Mi accasciai su una panchina in ferro battuto e mi resi conto che era l'unica non in legno. Guardai avanti e vidi un lampione senza luce artificiale, c'era lo spazio adibi­to al lume di candela. La testa scattò a destra fulminea e vidi subito una strada di ciottoli e un'insegna che diceva: Giovanna D'Arco al rogo. Giovanna D'Arco al rogo?

Non riuscii a non pensare che Giovanna D'Arco era un'eretica, diversa da me, ma pur sempre tale.

Percorsi la stradina ripida verso l'alto e notai una porta. Non c'erano finestre, solo la porta di legno spesso. Era spoglia, nuda e grezza. Accanto, abbandonato a terra, un libro. Mi chinai e lo raccolsi: Chi Vuole Può.

Era quella. Quella era la libreria. La porta pendeva, percorsi l'angolo di muro a cui era ad­dossata e trovai una finestrella sporca ai lati e pulita al centro. Si scorgevano cataste di libri con le copertine colorate ammucchiati. Mi appoggiai alla finestrella e si aprì cigolando, sbatté dietro contro il muro. Mi sporsi e, sotto di me, vidi una scrivania dello stesso legno della porta, sopra c'erano scartoffie sporche d'inchiostro umido, una penna e un calamaio. L'ambiente era estremamente luminoso, una scia di luce si alzava esattamente nel centro della libreria e placide le particelle di polvere vorticavano. Era magico. La libreria non fini­va lì, dall'altro lato della stanza una scala a chiocciola si attorcigliava. Com'era bella quella stanza, paradisiaca...

Mr. Cloud dov'era però?

Che hai trovato?– m'irrigidii, non era né la voce di Guido né quella di Diego, era la voce di Cloe. Quella ragazza passava tutta la sua vita a pedinarmi?

Interessante, una libreria antica, entriamo?–

No, stavo solo curiosando, vado a prendere un gelato–

Non ora, aspetta, perché non vuoi entrare? I libri di scuola non t'interessano, ma so che faresti follie per quelli lì dentro–

Sbagli, nemmeno mi conosci– mi prese un braccio e mi mise davanti alla faccia un cellula­re aperto sulla pagina di Facebook del... don? C'era scritto nell'ultimo link: “ragazza sver­gognata ci mostra com'è diventata la maggior parte degli adolescenti. Non ha rispetto per la religione e istiga giovani creature (con la foto della bambina di 7 anni che si era procla­mata atea difronte alla madre) a unirsi al suo depravato gruppo di atei.

Fortunatamente abbiamo dei giovani che s'interessano alla dottrina e all'amore per ciò che abbiamo di più caro al mondo: la Fede. Per cui invito ogni giovane dotato di una coscienza (e so che sarete la maggior parte) a mettere un semplice “mi piace” alla nostra pagina, così da sostenerci”. Ero ammutolita, e la voce se ne andò del tutto, ne fui certa, quando lessi i commenti e vidi il numero di “mi piace”: 340 000!

Vinceremo, tesoro– recitò la strega.

Non mi chiamare tesoro–

Ciao– disse lei e svanì. Cloe cominciava a inquietarmi seriamente.

 

Hai deciso di unirti a noi, eretica?– sobbalzai, credevo di avere difronte a me un qualche bigotto, invece, mi trovai davanti Mr. Cloud e mi rilassai subito. Vederlo mi metteva di buon umore, mi ricordava tanto un nonno, dolce, ma esigente e misterioso.

E' vero che non ami i libri di scuola?– chiese lui. Annuii.

Sei intelligente, te l'ho già detto– iniziò con un sorriso –prova ad impegnarti–

Io lo faccio, giuro, ma fatico– parlai, trovando una scusa.

Ti aiuterò io, vedrai che ce la farai, sei determinata, non ho dubbi– nemmeno io ne avevo, basta volerlo...

Entri?– mi girai cercando Guido e Diego e facendo cenno con la testa nella loro direzio­ne.

Rimase in silenzio e senza aspettare corsi da loro.

Ciao...– salutò ben poco conciliante Diego.

Forte! Ma guarda che posto! Ah, dovresti vendere vinile qua dentro, sembra fatto appo­sta!...– disse Guido.

Vinile eh? Quanti segreti nascondeva quel pazzoide? In confronto con Mr. Cloud, Guido era completamente diverso: il completo gessato contro il giubbotto di pelle e i jeans strap­pati tutti pieni di borchie; i capelli argentati e impomatatati contro la cresta colorata; il pro­fumo di fiori contro l'odore di fumo. Però il mio affetto per loro era uguale. E Diego? Die­go era la mia vita, nonostante non sembrasse il mio cuore batteva più forte ad ogni passo in più che lui faceva verso di me.

Non me li presenti, Ronny, questi bei giovanotti?– classico vocabolario di un anziano, quanto mi piaceva quel modo di parlare, mi piaceva perché in fondo io ero nata negli anni novanta e noi del '90 ci sentiamo un po' come dei giovani vecchi. Ricordiamo le lire (che rimpiangiamo tanto), le videocassette che si rompevano e gracchiavano a furia del nastro che girava e girava mille volte nel registratore, ma noi le guardavamo lo stesso perché ma­gari c'era il re leone o la sirenetta o Bambi. Noi che urlavamo di felicità per una nuova macchinina o un animale di plastica. Noi che conosciamo la vita alta nei pantaloni e la di­sprezziamo altamente. Noi giovani vecchi.

Ronny?–

Oh sì, ehm, lui è Diego– mi vergognavo di dire a Mr. Cloud che era il mio ragazzo perché di fronte a lui sarebbe stata un'esclamazione quasi bambinesca e subito riconsiderai quelle parole.

Si strinsero la mano con rispetto.

E lui è Guido– loro due sembravano capirsi, fondere i loro mondi diversi.

Li guardai, affascinata dalla subitanea amicizia.

In questa catapecchia ci sono libri forti?–

Scommetto che se tu gli tirassi un pugno, la copertina ti farebbe male–. Guido aggrottò la fronte mentre notai che le labbra (quelle bellissime labbra) di Diego si stavano pie­gando dolcemente.

Mr. Cloud, ora che mi ha fatto scoprire la libreria cosa mi vuole dire?–

Devo conoscerti e qui avrò modo di conoscere ciascuno di voi. Ne sono molto curioso– ammise Mr. Cloud scrutando Diego.

Mentre entravamo fui pervasa da un profumo di carta e di pulito. La luce mi colpiva, ma non mi dava fastidio.

Bene vediamo, io so che Ronny è atea, come la pensate voi?– cominciò Mr. Cloud.

Io anche lo sono, gliel'ha detto Ronny di quello che stiamo facendo contro i bigotti di... ehm contro i bigotti?–

Non me l'ha detto, l'ho visto su Facebook– fui stranita da come pronunciò Facebook, di solito quando gli adulti lo dicevano sembrava fuori luogo, lui invece lo pronunciava con di­sinvoltura. Rimembrai che l'aveva nominato pure sul tram, ma non ci avevo fatto caso.

Ho visto anche quanti “mi piace” ha la pagina–

Sono tanti indubbiamente– dissi.

Non è un problema, dovete superarli– io, Guido e Diego spalancammo gli occhi: superare 340 000 “mi piace”? Sarebbe stato impossibile!

Io non ho dimestichezza con Facebook, il mio profilo fa pietà e nemmeno mi piace– dissi. Ed era vero, lo detestavo, lo avevo perché lo avevano tutti e per parlare con alcune perso­ne, ma niente di che. Potevamo trovare una soluzione...

Non esiste solo Facebook– valutò Diego.

Hai ragione,– intervenne Mr. Cloud –dobbiamo trovare qualcos'altro di altrettanto...–

fico– suggerì Guido –Twitter? Netlog? Myspace?–

No... blogger!– tutti guardammo Mr. Cloud con aria interrogatoria.

Non sapete cos'è un blog? Una pagina tutta vostra che viene seguita, credetemi, con quel­lo farete una fortuna ed è meglio di qualsiasi social network, potete creare ciò che volete, vi verrà bene, io vi aiuterò, ma in quel caso si tratterà solo di avere creatività e quella non vi manca–

Mr. Cloud lei è un genio!– saltai in piedi sulla sedia.

Certo cara, lo so, ma dammi del tu– disse ridendo. Mi risedetti con il collo rosso d'imba­razzo.

E ora, girate, girate per la libreria, non abbiate paura, fatelo separati e scegliete un libro, uno, quello che vi ha colpito di più, qualsiasi– propose marcando sul “qualsiasi”.

Questo mi piace!– esclamai.

Anche a me!– disse Guido di rimando.

Facciamolo– mi sorrise Diego e in quel momento seppi che Mr. Cloud si era accorto di me e lui.

Mi diressi seguendo il vago odore di caffè che avevo percepito prima. Volevo vedere cosa c'era sopra quella scala a chiocciola e la salii. Quasi mi girò la testa e rischiai di cadere, alla fine la vidi: libri su libri su libri ammucchiati dappertutto. Le pareti nemmeno si vedevano, i mobili ne erano strapieni. Vagai seguendo l'odore di caffè, di quella che pareva cenere e la luce. Mi ritrovai in un punto cieco, una libreria altissima mi ostacolava il passaggio. Ero si­cura che c'era un modo per superarla, il mio olfatto era sempre stato acutissimo e gli odori che avevo sentito provenivano da lì, adesso c'era anche un leggero profumo di vaniglia.

Tastai i libri riposti senza nessun risultato. Poi mi allontanai in modo da avere la visione più ingrandita e notai che erano posti in un ordine preciso, solo che non capivo quale. Una specie di simmetria... un domino! Mi accorsi che spingendone uno sarebbero automatica­mente caduti tutti, seguii l'ordine e arrivai ad un libro che si sarebbe arrestato, lo misi in posizione esatta e caddi giù. Mi sentii risucchiata sotto così lanciai un urletto, non c'era da aver paura, caddi su una morbida poltrona di pelle marrone scuro un po' rat­toppata e scu­cita. La poltrona proseguì su delle rotaie fino ad arrivare ad un'ulteriore stan­za... mi brilla­rono letteralmente gli occhi!

Quello era un sogno, vero? Ero accerchiata da libri e libri e piante, tantissime, ricoprivano le pareti con dei rampicanti verdissimi. Notai pochi arredi di mobilia su cui erano abban­donati alcuni libri e su di uno c'era anche un computer ultra moderno, un Apple. Su un ta­volino basso davanti a dove si era fermata la poltrona c'era una moca con del caffè bollen­te, biscotti, zucchero e panna. Un sigaro alla vaniglia era stato lasciato incustodito e la luce, oh la luce: davanti a me una porta finestra con i bordi di legno smaltato di bianco era spalancata su un balconcino con piastrelle di marmo grezzo e vasi di fiori nei portavasi in ferro nero. Affacciandosi da lì una brezza dolce e leggera ti sfiorava e ti portava indietro nel tempo... come il tram. Sogghignai.

Mi riscossi leggermente, dovevo scegliere un libro. Quello più bello era sicuramente “fuori dalla portata dei bambini”. Buttai giù libri che andarono a cadere rovinosi sul terreno, poi lo trovai: Sii Chi Sei! Diceva la copertina e nella quarta di copertina: Lui non è normale, in molti glielo dicono e lui risponde quasi sempre, scrollando le spalle: io sono così. Ma un giorno ha risposto: non sono normale perché non sono una pecora! Da quell'istante tutti nel villaggio lo detestano.

Sì, era il volume giusto. Lo misi sotto il braccio, riempii una tazza di caffè, m'infilai il sigaro in bocca e scesi la scala a chiocciola trionfante.

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Capitolo 8
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Mr. Cloud leggeva un giornale, ma non c'erano né Diego né Guido.

Ho trovato qualcosa che m'interessa– proclamai.

Sì, e hai superato la prova, non proferire parola a nessuno dei due di quello che hai trova­to. Adesso so chi sei– Adesso so chi sei? Sarebbe stato bello capirci qualcosa...

Come faceva a sapere dove sarei andata?–

Non lo sapevo, qui ci sono trappole ovunque e tu sei stata attirata verso il mio studio e hai scoperto varie cose–

E gli altri?–

Non lo so, ma tranquilla torneranno presto–.

Passò una buona mezz'ora prima che arrivasse Guido, una mezz'ora in cui Mr. Cloud non disse nulla. Dopo un quarto d'ora arrivò Diego che pareva sconvolto, entrai subito in ansia per lui cercando di non darlo a vedere.

Bene, ora vi conosco tutti e tre– disse Mr. Cloud tra facce stupite.

Allora ci dica cosa sa– dissi.

Iniziamo da Guido– iniziò lui -curioso, alcune volte avventato, crede di aver sempre ra­gione e capita che non ragioni affatto. In fatto d'intelligenza sei pressappoco come Diego. La tua trappola si chiamava: lo specchio. Non dire niente di ciò che hai visto a loro. Sop­porti ogni difficoltà con rassegnazione e intelletto. Ma, c'è una parte oscura in te, una di quelle che ti potrebbe portare a fare qualcosa di immorale– Ero certa che conoscesse di più e non volesse dirlo, perché tentava di tenerci separati? Vidi i suoi oc­chi concentrarsi su di me e sorridere, i suoi occhi mi avevano sorriso.

Diego: sei misterioso, tu non dici quello che sei. Fai finta di farlo, ma nessuno lo sa davve­ro, tranne me, starà a loro scoprirlo. Tieni alle persone come pochi e, quando ti affezioni, dài la vita, sei molto buono e adori gli animali. Il tuo punto debole è che sei cinico e fai fati­ca a credere nei sogni. Sei sportivo e svelto, un atleta ottimo– quelle notizie m'incuriosiro­no, avevo il desiderio di prendere Diego e chiedergli spiegazioni, ma non sarebbe servito a molto. In effetti non avevo mai trovato niente di misterioso in lui, era uno che andava con tutte, non certo raccomandabile, questo e fine.

E tu Ronny, tu sei qualcosa di completamente... sconosciuto. Tu pensi in modo così diver­so, non c'è da stupirsi se sei incappata nella prova speciale. Sei molto furba e intel­ligente, arriverai presto ad ogni soluzione. Vedo la morbosa curiosità dei tuoi occhi, vedo come vuoi sapere. Tu sei nata per studiare anche se non lo ammetti, perché tu vuoi sapere e chiunque voglia conoscere è uno studioso. Ma sei fin troppo testarda e acida alle volte. Sei cattiva, questo è il tuo peggior difetto,– continuò Mr. Cloud –sei combattiva, incredibil­mente determinata e nascondi segreti anche a te stessa– finì.

Mi scavava dentro. Lo sentivo.

Ognuno ha una qualità utile all'altro, ma dovete imparare che sarete soli un giorno. Non potete vivere nel passato, dovete superare i vostri limiti per essere qualcuno–. Ci mise da­vanti tre post-it di diversi colori: verde, blu e rosso. Ci disse di prenderne uno, Guido scat­tò su quello verde senza esitazione. Diego prese cauto il blu ed io afferrai il rosso che già volevo dall'inizio.

Immaginavo,– sogghignò Mr. Cloud –leggeteli e non mostrateli a nessuno–.

Uscimmo dalla libreria più confusi di quando ci eravamo entrati. Erano le cinque di pome­riggio, dovevo studiare... il biglietto. Corsi a casa noleggiando una bici, posizionai lo zaino nero nel cestino e pedalai a più non posso.

Entrando in casa lessi il post-it cercando di capire perché avevo scelto quello rosso: era il colore della passione, del sangue quindi della vita, del fuoco quindi della morte, era il colo­re della fine e quello dell'inizio. Era il mio colore.

Lessi: “Ciao Ronny” sapeva quale post-it avrei scelto “fonda il blog, costruisci i tuoi deside­ri e avverali, ci vediamo tra tre giorni al parco, sai quale”. Ogni parola era perfettamente stu­diata, facevo sempre attenzione alle parole, facevo sempre attenzione ad ogni singolo parti­colare. Tre era il numero perfetto.

Salii le scale di marmo bianco, aprii la porta e vidi mio padre con espressione truce.

Ronny. Dove sei stata?– chiese duramente.

Non ti è mai importato– accartocciai il biglietto nella mano.

M'importa adesso, non puoi andare dove vuoi, perché non studi?– cosa stava succeden­do?

Andavo giusto ora– dissi.

Alle cinque del pomeriggio? In quarta scientifico? Non ti sembra un po' tardi?–

E' il secondo giorno– cercai di giustificarmi.

Hai sempre studiato dalle due... perché adesso è cambiato qualcosa?–

Domani lo farò, vado adesso–

Non bere più–

Mi voltai veloce: –Come?–

Non voglio che bevi, nemmeno una birra– cominciavo ad infuriarmi, 'senti da che pulpito viene la predica' –non finire come me, io ti amo, sei la mia bambina, non voglio perdere an­che te– è per colpa sua che la mamma è morta!

Dovresti smettere tu di bere, perché io non l'ho mai fatto–

Non posso, è diventato essenziale per me–

Sei debole– silenzio.

Non diceva niente. Ancora silenzio.

Me ne andai e mi buttai sul letto. Iniziai a studiare: latino, filosofia e fisica. Finii a mezza­notte. Crollai un minuto dopo. Mi rimanevano tre dì e due notti.

Per la prima volta da tempo mi svegliai con il suono della sveglia. Orrendo. Un saporaccio m'invadeva la bocca, non avevo tempo per farmi la doccia. Legai i capelli in una coda alta, usai i vestiti del giorno prima, preparai velocemente lo zaino buttando i libri che non mi servivano sul letto. Scesi in cucina. Evitai accuratamente di parlare con Aliviero.

Cominciai ad armeggiare con i diversi succhi di frutta, poi, notando che tutti quei succhi e quel cibo faceva parte delle industrie di proprietà di mio padre, andai a prendere un'aran­cia e la spremetti con la macchinetta. Lo facevo ogni mattina, per questo mio padre e Ali­viero mi avevano fissata senza capire quando avevo tentato di bere qualcosa prodotto con i soldi di mio padre, ma ero talmente confusa, gli orari mi erano stati sballati e non avevo ri­flettuto.

A che ora sei andata a letto ieri sera Ronny?–

Tardi, studiavo e non mi sono accorta dell'orologio– risposi a mio padre. Altra cosa che non avrei fatto se solo fossi stata più sveglia. Bevvi l'aranciata colma di nocciolini e andai a in strada.

Fuori auscultai le voci dei due dalla porta.

Aliviero? Secondo te perché mi odia in questo modo?–

Per lo stesso motivo per cui la odiano tutti, solo amplificato–

Anche tu mi odi?–

Silenzio.

Allora mio padre lo sapeva il nome del maggiordomo. Com'era stato diretto Aliviero, lavo­rava per quell'uomo spregevole, ma non ne aveva paura. In fondo io e lui eravamo simili: entrambi dovevamo convivere con la persona che detestavamo di più senza farci sopraffare da questa. Io me ne sarei andata, però.

A scuola m'interrogarono in filosofia, presi sette, si stupirono tutti. Filosofia era il mio pane, quando mi andava male prendevo otto, cosa sarebbe successo in fisica?

Quella mattina non parlai con nessuno. Evitai anche Diego, vedevo come stava male per questo. Avevo bisogno di riflettere.

Quello che c'era scritto nel biglietto era una prova? Dovevo realizzare i miei sogni?

Alle due mi fiondai in biblioteca e studiai per ore e ore, arrivarono le sette. Tornai nel bor­go con un autobus fingendo di essere una qualsiasi ragazza intenta nella lettura del suo prezioso libro (una storia d'amore di cui non ricordo neppure il titolo), mentre invece os­servavo la gente sul pullman. Una mamma con un bambino in carrozzina e uno in arrivo, un uomo alto, uno basso e giovane, alcuni drogati e persone che, come me, parevano nor­mali. Mi chiesi quanti segreti quei preziosi contenitori di emozioni relegassero al loro inter­no.

Scesi per andare da Mr. Cloud. Entrai, ma non trovai nessuno.

So che è qui! Non mi atterrò alle sue stupide regole! Voglio una vita migliore, lei è il mio biglietto! Venga fuori o non mi vedrà più e ne può stare certo– attesi per alcuni minuti. Co­minciai a perlustrare la stanza, salii la scala a chiocciola ed entrai nello studio di Mr. Cloud. Non era lì. Voleva farmi andare a scovare le altre trappole? Beh, io non avevo biso­gno di inutili giochetti.

Me ne vado, addio!– annunciai. Se mi avesse lasciata andare, giuro che avrei pianto, ma non lo fece.

Aspetta!– lo guardai prima duramente, poi la vista mi si appannò e strinsi i pugni.

Cosa c'è?– chiese preoccupato.

E' questo il punto, non lo so– la voce era rotta –Non voglio quel padre!– urlai.

Anche lui sembrava sul punto di scoppiare a piangere.

Lo so, devi essere forte– rimasi delusa, mi aspettavo di più che quelle solite tre parole.

Dite tutti così! Io non voglio esserlo! Non me ne frega un cazzo della scuola, non me ne frega un cazzo dei soldi! Io voglio amore, l'amore che quel merda di padre non mi ha mai dato!– chiuse gli occhi –voglio libri! Voglio leggerli e scriverli, voglio giustizia!– li riaprì e mi fissò –non mi arrenderò, sarò forte, ma lei mi deve promettere che avrò giustizia, che non biasimerà mai le mie scelte, che non proverà a comandare la mia vita, che sarà il mio migliore amico, che non mi abbandonerà mai– pronunciai quel “mai” sussurrando con la voce incrinata.

Mi guardava e non faceva niente. Le lacrime mi sgorgarono dagli occhi, non perché non riuscii a trattenermi, perché non mi volli trattenere.

Guardi quanto è bella questa libreria, come si fa a non amarla? Guardi quanto è bella la natura, perché la distruggiamo? Abbiamo bisogno di un dio per amare? Le persone sono crudeli, ma, se Dio esiste, Lui lo è di più. Scommetto che Dio è il Diavolo. Scommetto che da morti ci condanneranno a cose orrende. Non voglio vivere per Dio, non voglio vivere per nessuno che non sia io– uscii dalla porta, mi sfilai scarpe e calze e mi deliziai del calore della pietra sotto le piante dei miei piedi.

Mi sciolsi i capelli e mi sedetti.

Se Dio avesse un minimo di cervello o umanità mi avrebbe già uccisa, invece sono qui– mormorai.

Nessuno mi aveva sentita, nessuno tranne Lui

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Capitolo 9
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

Quella sera tornai a quella che, per scopo di sola comodità, definisco “casa” correndo. Cor­revo per arrivare prima e fondare il blog. Correvo per scappare dal nulla che mi rincorre­va, come nella storia infinita di Michael Ende. Correvo per avere il vento in faccia, per provare a volare con quel corpo sottile e leggero che mi ritrovavo.

Quando arrivai, fin troppo presto, capii che non avrei dovuto correre. Mio padre sedeva austero e m'invitava a sedermi a mia volta.

Mi hanno telefonato i miei colleghi ridendo come dei rincoglioniti perché ti hanno vista nuda su, come si chiama?... Facebook– strabuzzai gli occhi, nuda? Io nuda? E lui ci crede­va? Oh beh, questa non era una novità, ma io non avevo mai messo foto di me nuda in rete, né tantomeno me n'ero mai fatta di foto nuda. Ho sempre detestato le foto e quelle che mi piacevano di me erano solo della mia faccia (o di un pezzo di faccia) ed erano due o tre massimo.

Io non ho messo foto di me nuda su Facebook, non mi aspetto affatto che tu ci creda, co­munque–

Infatti non ti credo– il filo scorreva seguendo la sua solita trama –ma ti ho vista io, sei sul­la pagina della Chiesa! Del prete!– mi stava per venire un collasso, ma come poteva esse­re? Dovevano aver artefatto le foto.

Hai mai sentito parlare del photoshop?–

Sei proprio tu!–

Sì, perché tu mi vedi sempre nuda!– anche urlando infuriata, il mio collo (io arrossisco sul collo) si colorò di un rosso acceso.

Vai a studiare!–

Sono le otto di sera, voglio mangiare, da quando mi dài ordini?! Non prendo ordini da nessuno figurarsi da un alcolizzato! Smetti di comportarti come un padre! Smettila! Ho studiato tutto il giorno, solo perché non mi vedi non significa che non l'abbia fatto!– si sa­rebbe meritato anche uno: “stronzo!”, ma evitai.

Mi trasferii in cucina e lì vi trovai Aliviero.

Come lo sopporti?– gli chiesi.

Per me è molto più facile che per te, Ronny– nella rabbia non mi ero accorta che mi aveva dato del tu e chiamata “Ronny”.

Hai ragione, ti prometto che, quando andrò via, ti porterò con me–

Quando andrai via sarò io a licenziarmi– e mi sorrise. In lui, c'era molta più furbizia di quanto credessi.

Fai credere al tuo nemico di essere stupido, cosicché quando gli tirerai un colpo, sarà trop­po occupato a chiedersi come poteva essere successo e tu potrai fregarlo definitivamente e lo stupido sarà diventato lui.

Fai credere al tuo nemico di essere stupido, solo così lui diverrà tale.

In camera non trovai il Mac portatile che usavo di solito e che mi ero comprata con i soldi datami da zii e nonni alle varie feste, così girai per quella casa enorme che mi dava l'idea di essere un'estranea. Sorvolai lo studio di mio padre, augurandomi che non fosse lì dentro. Non era da nessuna parte. Mi affacciai cauta allo studio, ma non poteva essere là, lui non lo usa­va e io non ce l'avevo portato di certo. Lo vidi brillare argentato sopra la scrivania d'accia­io fredda e poco accogliente. Entrai con tutte le intenzioni di prendere il computer e scap­pare, ma rimasi dentro. Era stato Aliviero a metterlo sulla scrivania, l'aveva fatto ap­posta, cosa voleva dirmi? Riluttante feci vagare lo sguardo. Quadri che valevano migliaia di euro, carte strapazzate, penne della società di mio padre, fuori non c'era molto. E nei cassetti nemmeno, ebbi modo di visionare subito dopo. Era stato un caso che il Mac si tro­vasse lì... no, non poteva essere. Aliviero voleva forse farmi trovare la vodka? No, tanto quella era nel baretto cinese insieme agli altri alcolici.

E se ci fosse stato un trabocchetto come in libreria? L'apparenza inganna. Posai i palmi sui muri candidi e li feci scorrere, il muro era dipinto bene, ma c'erano dei granuli di pittura qua e là. Ad un certo punto non li avvertii più: la superficie era perfettamente lucida e li­scia. Come avevo fatto a non accorgermene? Appoggiai entrambi i palmi e spinsi con tutto il corpo. Niente. Il pavimento, non lo avevo controllato. Mi buttai a terra sulla moquette grigio chiarissimo. Sorrisi: esattamente sotto la parte di muro lucido mancava la moquette. Il muro spuntava di pochissimo, infilai le dita e feci leva. Il muro si aprì. Una semplice anta, come quella di un armadio, semplice ed efficace. Ci entrai. Si accesero varie luci al neon, percorsi un piccolo corridoio e quello che incontrai dopo fu... una camera da letto? Mio padre dormiva in un'altra stanza... mi si accesero gli occhi, quella camera aveva l'im­mancabile tocco di mia madre. Credevo l'avesse murata quella stanza. Su un comò c'erano alcune foto della mamma, mi scese una lacrima. Questo voleva farmi trovare Aliviero? Non ne ero affatto certa. Mi distesi sul letto dalla parte dove dormiva mia mamma, sentivo il suo profumo Chanel. Un'altra lacrima. Il cuscino s'inumi­dì, ci misi una mano sotto. Gli occhi mi si spalancarono: carta! Documenti!

Era il certificato di morte della mamma! Ce n'erano due e c'era anche l'appunto di un noto avvocato. Oddio, in un certificato la mamma era morta d'omicidio non suicidio. L'appunto dell'avvocato era una mappa, un'intrigo. Si trovavano tutti i modi per scagionare l'omicida, una frase era cerchiata in penna blu: morte cancerosa ----> fumo.

Strinsi i pugni. Abbozzi, quelle carte erano solo bozze, bozze per compiere un reato. Chi aveva ucciso mia madre, allora? Non avevo bisogno di riflettere, sapevo chi era stato, ma non ci volevo credere. Chiusi le palpebre sforzandomi di calmarmi e non spaccare tutto. Contai fino a dieci.

Quando li riaprii dovevo avere un'espressione che avrebbe incenerito una pietra delle più solide.

Non mi preoccupai di chiudere niente, camminavo veloce, marciavo con quelle carte male­dette strette nella mano, le stavo rovinando, non importava, non volevo denunciarlo, vole­vo qualcosa di più.

Cominciai a correre per casa, ero diventata una scheggia infuocata pronta a colpire.

Lo trovai che stava per entrare nell'ufficio, mentre Aliviero tentava di fermarlo.

Tu. Aliviero, vai via, devo parlare con lui– puntai gli occhi neri su mio padre, serrai la ma­scella.

Cosa ci facevi lì dentro?– chiese lui allarmato, i suoi occhi si posarono sui documenti nelle mie mani –Non puoi avere...– le parole gli morirono in bocca non appena spalancò la porta dello studio e vide il passaggio segreto decriptato.

Sgranò gli occhi e aprì la bocca. Restò immobile.

Come. è. morta. davvero. la. mamma?– sillabai.

Ronny...–

Veronica, il mio nome è Veronica– precisai, non mi facevo chiamare Veronica da nessuno, mi dava fastidio, però, in questo caso, era diverso.

Figlia mia– ribatté.

Purtroppo– dissi.

Tua madre non è morta di cancro ai polmoni–

Fin qui c'ero arrivata e so anche che è stata uccisa, l'hai uccisa tu? Le risposte sono: sì o no– abbassò il capo, mentre quel debole barlume di speranza stava svanendo.

Sì–

Voglio sapere com'è successo–

E' tardi...–

Non me ne frega niente! Dimmi cosa le hai fatto! È un ordine!–.

Riluttante mi raccontò tutto: –Tua madre, ammalata di cancro, da due anni dopo la tua na­scita, la sera del 5 gennaio 1999 mi volle parlare dicendomi che non mi poteva più soppor­tare, che non sopportava il mio lavoro e la mia fame di ricchezza. Mi disse che se ne sareb­be andata il giorno dopo e ti avrebbe portata via– la mamma mi voleva portar con lei, non mi stava abbandonando, sapeva di essere ammalata, ma non mi voleva lasciare, mi stava salvando da quell'uomo orrendo che era mio padre –intanto che lei parlava io bevevo vod­ka, cominciai a traballare e urlarle che non se ne poteva andare, che l'amavo, ma lei comin­ciò a fare le valigie. Le aveva finite, le tue erano già pronte, ti chiamò. Sentivo i tuoi passet­tini fieri percorrere la gradinata delle scale. Non ci vidi più. La presi per un braccio, lei provò a liberarsi, io, per la furia, afferrai la bottiglia di vodka e gliela sfracellai in testa- fece una pausa.

Stavo morendo, morendo dentro, lui aveva ucciso con una cazzo di bottiglia di vodka la mia mamma, non ricordavo niente di quel giorno, solo mia madre stesa a terra, ma niente sangue, il mio cervello doveva aver ricostruito tutto, in fondo avevo tre anni.

Quando arrivasti fu difficile tenerti a bada, eri una bambina tenace. Potrai mai perdonar­mi?– parevo calma, o almeno questo mi disse Aliviero quando tutto fu finito. Feci un passo avanti e lo fissai. Sguardo nello sguardo.

Io ti odiavo prima di sapere ciò che hai fatto e speri che ti possa perdonare ora? No no no. Quello che hai fatto è imperdonabile– mi fermai per controllare che mi stesse ascoltan­do e urlai –hai ucciso la mamma con una cazzo di bottiglia di vodka! Sei un alcolizzato... ti odio! Mi fai schifo, mi fai ribrezzo!– s'impaurì –Ti ucciderò– dichiarai –ti ucciderò bastar­do! Guardami bene perché la prossima volta non avrai molto tempo per farlo! Tua figlia ti uc­ciderà! Non voglio rivederti, non voglio il tuo cinismo, non voglio te! Padre schifoso! Stammi lontano!– aveva gli occhi bassi –Guardami!– urlai a metà tra il disperato e l'incaz­zato nero. Alzò lo sguardo –Me ne vado, se provi a fermarmi ti uccido adesso; ricorda che sono sangue del tuo sangue, ne commetterò di azioni spregevoli. Lurido bastardo!– mi ave­va fatta piangere, mi avventai su di lui mordendolo e prendendolo a pugni, non sembrava, ma ero forte. A cavalcioni su di lui gli tirai un pugno in faccia, gli si ruppe il naso. Corsi in camera, presi tutto ciò che avevo di più caro. Riempii una valigia e una borsa quasi intera­mente di libri e dei pochi vestiti che indossavo sul serio. Nello zaino infilai il Mac, il taccui­no, la penna e scappai.

Figlio di puttana!– gridai correndo, mi avrebbe presa se non avessi corso velocissima e non avesse avuto morsi e pugni in tutto il corpo.

Era notte. Non c'erano pullman o tram. Valutai l'idea di farmi a piedi tutto il pezzo da qui alla libreria. Ci avrei messo due ore buone. Iniziai a camminare sotto il peso dei bagagli.

Ronny! Aspetta, ti porto io!– mi voltai, Aliviero.

Non cerchi di fregarmi, vero?–

Scherzi? Sali, svelta!– dalla mia ex casa uscì mio padre emaciato ordinandomi di fermar­mi. Figurarsi, gli ordini erano l'unica cosa a cui non provavo nemmeno ad obbedire.

Nel bagagliaio dell'auto di Aliviero c'erano altre due valigie, senza pensare buttai le mie te­nendo lo zaino e saltai al posto del passeggero. Sgommammo via nella notte. Dopo un paio di minuti mi assalì una domanda: perché Aliviero aveva una Porsche?!

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Capitolo 10
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

Sedili in dura e scomoda pelle nera, odore di pulito. Strumenti di guida super avanzati, ca­ramelle al limone in uno scomparto facilmente raggiungibile, finestrini oscurati.

Ne abbassai uno e mi sporsi: la carrozziera era lucida e splendente, i lampioni si specchia­vano sull'argento perfetto.

Ricchezza, ancora ricchezza. Il mio solo patrimonio erano i libri e stavo viaggiando su una Porsche argentata?

Aliviero, mio padre ti dà tanti soldi?– chiesi stupidamente, sapevo benissimo che non era­no stati i soldi di mio padre a far permettere ad Aliviero un simile mezzo.

Non so dove dobbiamo andare– disse eludendo la mia domanda.

Da Mr. Cloud... non lo conosci forse?– chiesi con aria beffarda.

La mia teoria era che Aliviero avesse sempre lavorato per gli scopritori di talenti: aveva co­minciato a parlarmi da quando avevo conosciuto Mr. Cloud; mi aveva sottoposto alla pro­va della stanza segreta poco dopo che Mr. Cloud aveva fatto la stessa cosa nella libreria e mi aveva fatto scoprire il segreto di mio padre sempre poco dopo che mi ero lamentata di lui con Mr. Cloud. E poi mi ricordavo benissimo una delle sue frasi più enigmatiche: “Non appena te ne andrai, io mi licenzierò”. Ad Aliviero, di mio padre, non era mai importato niente, era lì per me. Restavano delle incertezze: come faceva Aliviero a conoscere il segre­to di mio padre? E, soprattutto, perché quegli uomini (e la società per cui lavoravano, ave­vo modo di credere) erano tanto interessati a me?

Aliviero, tu conosci Mr. Cloud?– fece un quasi impercettibile segno di assenso.

Anche tu sei uno scopritore di talenti?–

Non esattamente–

Cosa sei, allora? Un maggiordomo non credo– sorrisi.

Giusta osservazione. So che la tua mente è colma di domande, sei una ragazzina curiosa, ma ti chiedo di aspettare almeno domani. Tra pochissimo saremo alla libreria–

Non posso farvi domande alla libreria?– chiesi innocente.

E' davvero molto tardi, riposa e domani risponderemo, lo prometto–

Anche a Diego e Guido?–

Se li vuoi con te, volentieri– acconsentì.

Non passammo molto tempo a viaggiare. 'Non avere sonno', cercavo di ripetermi, ma era inutile, le palpebre mi si abbassavano continuamente.

Ci fermammo a poco dal borgo. Camminammo per cinque minuti e arrivammo alla libreria.

Ronny, ti ho preparato un divano-letto, domani ti farò vedere dov'è la tua stanza– mi ac­colse Mr. Cloud. Volevo saperlo subito, volevo sapere tutto subito, ma non ne ebbi la forza, mi feci scortare sul divano, mi distesi vestita e fui lasciata sola.

Tutta la rabbia si era trasformata in sonno, sarebbe tornata domani, non appena mi fossi svegliata e sarei stata pronta a colpire. Pensai a Diego, il mio ultimo pensiero, una delle mie ragioni di vita. Mi addormentai.

 

Diego, perché mi chiami? Sei qui davanti a me...–

Ronny, Ronny, ti prego svegliati–

Ma Diego, io sono sveglia– obiettai.

Ronny!– urlò Mr. Cloud.

Cosa c'è? Cos'è stato?!– mi svegliai di soprassalto –Mr. Cloud!–

Devi andare a scuola–.

Mi alzai dal divano contro voglia e controllai l'orologio, era tremendamente presto.

Sono le cinque del mattino! Io arrivo a scuola alle otto!–

Lo so, ma ti devo spiegare come funziona la casa, altrimenti per trovare il bagno ci mette­resti delle ore– disse lui. C'era d'aspettarselo.

Mi condusse in alcune parti della libreria, per ognuna c'era un congegno da azionare per far aprire una porta segreta ed entrare nella stanza. Chiesi a Mr. Cloud di mostrarmi solo come si azionavano il bagno e la cucina, il resto avrei provveduto a trovarlo da sola.

Mi ero già ambientata meglio lì in una notte e due ore che alla mia ex casa vivendoci per anni.

Aprii la valigia e tirai fuori la maglietta di Superman, era fantastica, le maniche erano corte e a sbuffo, tutta nera con la S grande in rosso e dietro si apriva un oblò fino a metà schiena, per il resto c'era una parte in pelle rossa stretta con tanti laccetti neri. M'infilai quella, i jeans chiari e le All Star nere. Mangiai un cornetto con il caffè e andai a lavarmi in bagno. Per azionare l'apertura bastava infilare la mano dentro un vaso lì a fianco, trovare la levet­ta sul fondo e tirarla. Un metodo classico, che s'intuisce facilmente, ma, diciamola tutta, chi entrerebbe in un bagno per trovare documenti segreti o altro?

Mi guardai allo specchio, non avevo occhiaie, sembravo... felice. Scossa, ma felice. Mi bril­lava una strana luce negli occhi. Mi ero liberata di mio padre, avevo scoperto cos'era e gli avevo fatto anche una promessa... che avrei mantenuto.

Mi truccai e mi struccai, rimisi il mascara e la matita e lasciai guance, labbra e tutto il resto liberi da trucchi. Preparai lo zaino, sembrava passato un secolo da quando avevo studiato e, invece, era stato appena ieri pomeriggio.

A scuola guardai gli studenti che camminavano assonnati per niente pronti ad una lezione. Avevano passato la serata prima a studiare, a guardare un film o a leggere ed erano stan­chi, io avevo passato la serata scoprendo che mio padre era l'assassino di mia madre e tra­sferendomi nell'abitazione-libreria di uno “scopritore di talenti” alias “strana spia segreta” ed ero sveglia e felice. Le incomprensioni della vita.

Diego urlò il mio nome preoccupato –Mr. Cloud mi ha chiamato ieri a mezzanotte, mi ha detto solo che tu ora vivevi lì, ma che è successo?– glielo raccontai e mi si riaccese la rab­bia –Oh merda...– commentò.

Non dire così, non è poi un fatto tanto grave per dirlo–

No, no, certo, hai ragione– disse sarcastico.

Forza, c'è la verifica di fisica– gli ricordai

Che importa? Io non ti capisco...–

Pochi ci riescono– confermai e ci dirigemmo verso un rogo ben più grande di mio padre assassino.

La verifica non passò poi così male, dieci problemi di cui due sbagliati, ma il resto era forse decente. Guido, invece, non era della mia stessa opinione e nemmeno Diego se devo pro­prio dirlo. Come da copione Cloe era sicurissima di essere stata un mito e non aveva tutti i torti.

Il cellulare mi squillò mentre parlavo (mi baciavo...) con Diego. Era un mio vecchio amico, m'invitava alla sua festa di compleanno, declinai l'invito dicendo che mi stavo trasferendo e dovevo mettere a punto alcuni particolari, non mentii.

Finita la scuola ci precipitammo: io, Diego e Guido, alla libreria.

Servivano risposte certe.

Aliviero!– esclamai abbracciandolo –Non è stato un sogno? Anche tu sei uno scopritore di talenti!–

Non proprio, Ronny, come ho già detto– sorrise.

Aliviero era un uomo semplice e composto, magro e alto come Guido, simpatico e gentile. Non era misterioso od enigmatico come Mr. Cloud. Erano uomini completamente diversi, mi accorsi, ma molto amici: lo capii quando si abbracciarono come chi non si vede da tem­po.

La prima cosa che voglio sapere io è... cosa sei Aliviero?– dissi, Guido e Diego ne erano curiosi quanto me.

Io e Mr. Cloud lavoriamo per la stessa società, la società è un gruppo di coppie di uomini–

Siete gay?– volle sapere Guido.

No, coppie nel senso piccole società... dicevo? Ah, sì, coppie di uomini che lavorano sepa­ratamente e che cercano talenti per uno scopo preciso– si fermò e aggiunse –non chiedete­mi quale, ve lo dirò,– un'altra pausa e continuò –ciascuna coppia sceglie il talento da quan­do è piccolo e lo segue fino a che non crede che sia pronto a venire a conoscenza di tutto. La coppia che trova la persona giusta si aggiudica molto più che dei soldi– non parlò più, pare­va che avesse finito. Io ancora non capivo troppe cose.

Ma lei– intervenne Diego riferendosi a Mr. Cloud –aveva detto che aveva trovato Ronny per aiutarla a cercare il suo talento e adesso lei– e puntò gli occhi su Aliviero –dice che l'a­vete scelta voi per un determinato scopo, quindi dovreste già sapere qual è il suo talento–. Era esattamente ciò che mi domandavo io: se mi avevano scelta per qualcosa significava che loro sapevano già che avrei dovuto fare, allora non avevo alcun talento, ero solo una pedina.

L'ho detto per depistarla, noi la tenevamo d'occhio dalla sua nascita– disse Mr. Cloud. Ero solo una pedina, una pedina in grado di fare cosa?

Allora lei non è uno scopritore di talenti...– disse Guido.

Se non lo fossi, non avrei mai individuato Ronny–. 'Sono solo una pedina' pensai.

lei allora di che si occupa?– chiese Diego verso Aliviero.

Io inviavo le informazioni a Mr. Cloud per controllare il grado di maturità cerebrale di Ronny– rispose. Una pedina, una pedina robot.

Io sono un mezzo cosicché voi arriviate ai vostri scopi, perciò– conclusi tristemente.

Ti sbagli, noi sappiamo che lo scopo per cui combattiamo è anche il tuo, sappiamo che ci tieni molto e, se vinciamo, io e Mr. Cloud saremo comunque solamente i tuoi fedeli compa­gni di viaggio–

Posso scegliere di non aiutarvi?– chiesi. Entrambi gli uomini abbassarono il capo delusi da tale domanda.

Sì– disse infine Mr. Cloud.

Qual è lo scopo?– chiese Guido. Fu Aliviero a rispondere: –Da tempo si è ormai scoperto che la Chiesa vuole tornare ai suoi più antichi splendori. Vuole regnare sovrana, noi abbia­mo bisogno di qualcuno che la fermi–. Rimasi un po' a riflettere, quindi io dovevo fermare la Chiesa? E loro credevano fermamente che io ci sarei riuscita?

Che succederebbe se la Chiesa regnasse?– s'informò Diego.

Ritornerebbero streghe, eretici, le donne perderebbero ogni libertà e sarebbero sottomes­se, la ricchezza andrebbe a concentrarsi sul Papa, la povertà e le malattie infurierebbero. Tornerebbero i roghi, le decapitazioni, l'accusa per meretricio, le frustate. Sarebbe una se­conda era buia. Un secondo medioevo– rispose Mr. Cloud. 'Sarebbe un disastro' riassunsi in mente.

Voi credete davvero che io possa riuscire a fronteggiare tutto questo?– chiesi.

Sì!– esclamarono entrambi convinti all'unisono.

Perché?–

All'inizio per capire che tu eri quella giusta ci siamo basati su tecniche scientifiche e logi­che: una donna avrebbe combattuto più strenuamente di un uomo perché sarebbe stata colpita in pri­ma persona, una ragazza ferita da quand'era piccola sarebbe stata più forte inequivocabil­mente, una bella sarebbe stata maggiormente creduta dagli altri– disse Mr. Cloud –tu avevi anche i geni di tuo padre,eri... sei senza scrupoli– finì.

Mentre crescevi ci rendevamo conto di avere compiuto una scelta perfetta: sei intelligen­te, scaltra, leggi molto e questo ti aiuta ad allenare il cervello, non ti è mai piaciuta la reli­gione e varie altre piccolezze altrettanto essenziali– aggiunse Aliviero.

Capivo che potevo servirgli, ma conoscevo tante ragazze che avevano quelle caratteristi­che. Per­ché io?

-Sei speciale, Ronny, tu non ti arrendi, la tua tenacia è infinita, sei l'unica che può riuscirci– disse Mr. Cloud.

Ora tutti mi osservavano speranzosi: Guido fremeva dalla voglia di portare avanti un'idea che avevamo entrambi dall'infanzia, Diego credeva in me e non vedeva l'ora di un'avventu­ra (quante volte gli avevo detto che desideravo tanto un'avventura come quella dei libri?), Mr. Cloud non voleva perdere, Aliviero sapeva cos'avevo passato e voleva che mi riscattas­si. Però, tutto si concentrava su di me. Che razza di vigliacca e stupida sarei stata non ac­cettando una storia incredibile offertami dalle persone più importanti della mia vita?

Ci sto– mormorai.

Come?– chiese Aliviero.

Ci sto!– gridai rivolta a... me stessa.

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Capitolo 11
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

Ancora non capivo molto, ma andando avanti avrei risolto ogni questione.

Quel pomeriggio lo passai facendo i compiti come una normale, si fa per dire, 17enne insie­me a Guido e Diego. Mi sentivo a casa e finalmente sapevo che casa significava il gruppo di persone che abita un edificio, non l'edificio stesso.

A metà pomeriggio Aliviero ci portò tre tazze di tè con i biscotti allo zenzero. Lui e Mr. Cloud, apparentemente preso da un quotidiano, erano stati a confabulare tutto il tempo lì accanto.

I compiti finirono presto e così potemmo provare a creare il blog. Fu incredibile, eri libero di fare ciò che volevi, quello era il tuo spazio nel web, molto più libero di una pagina Face­book. Lo chiamammo: “Geni incompresi” e sotto il titolo mettemmo una frase “anche da loro stessi...”. Ciascuno creò dei post, ma ben presto capimmo che io dovevo scrivere i post, Diego si doveva occupare della pubblicità in rete e Guido doveva documentarsi su quello che accadeva nel mondo ateo e in quello religioso. Per lui era facile, partecipava ad ogni manifestazione e aveva buone persone su cui fare affidamento per avere notizie fre­sche. Io riuscivo ad abbellirle trasmettendo le mie emozioni e Diego era un vero e proprio mito con la pubblicità!

Passarono alcuni mesi. Il blog decollò, avevamo centinaia di membri e migliaia di visualiz­zazioni. Ormai tutti lo chiamavano “Genio”. “Ehi ragazzi, ci aggiorniamo su Genio?” era una frase abituale.

La pagina del don avrà anche avuto centinaia di migliaia di “mi piace”, ma che la seguivano sul serio erano ben pochi, noi avevamo tantissimi commenti ogni giorno.

Mio padre non si faceva sentire e io ero tranquilla, forse non l'avrei rivisto mai. Diego era la mia vita, tutto il mio amore si concentrava su di lui. La scuola andava avanti peggio del resto, non che importasse. Cloe era sempre più arrabbiata: continuavano a succedere belle cose solo a noi.

Temevo che sarebbe cambiato, la ruota della fortuna gira instancabile. E le mie perplessità persistevano. Arrivò un giorno che volli sapere.

Faceva un caldo terribile, era domenica, mi ero messa una maglietta bianca, i pantaloncini corti e un paio di scarpe tutte rotte “bianche”, non avevo resistito a tirarmi la maglietta so­pra l'ombelico fermandola con un nodo. Lavoravo sul balcone con le piante e la terra che sembrava appiccicarsi ovunque. I capelli neri erano tenuti su da alcune forcine, ma il collo era completamente fradicio di sudore. La pelle sotto il sole mi si era ulteriormente inscuri­ta, il trucco doveva essere colato. Rientrai nella libreria e andai in bagno. Mi feci una doc­cia e indossai un abitino leggero a righe azzurre e nere stretto in vita, ciabattando per la li­breria con le infradito, raggiunsi l'atrio e trovai Mr. Cloud, gli davo ancora del “lei”.

Mr. Cloud?–

Dimmi Ronny– disse alzando gli occhi dal libro che stava leggendo e sfilandosi gli occhia­li argentati.

Dove dobbiamo arrivare?–

Cosa intendi?– la sua espressione si fece curiosa.

So che non potrà sempre andare tutto bene, dobbiamo cercare di batterla la Chiesa, noi abbiamo tanti ammiratori sul blog e domani faremo anche un concerto per propagare la nostra idea, ma non è così che si sconfigge qualcuno. Ho letto troppi libri per crederci, c'è sempre una battaglia finale– Mr. Cloud parve pensare

Ronny, le cose non vanno bene come appaiono ai nostri occhi– disse infine.

Cioè?–

Sembra che la società a favore della Chiesa...–

Fermi tutti, quale società a favore della Chiesa?–

Abbiamo dei nemici, e la società di cui parlo ha, penso, come massimo esponente il don che conosci tu–

Don Franco?– chiesi perplessa.

Proprio lui–

Non credevo ci fossero società–

Nemmeno noi, ma io e Aliviero abbiamo concluso che Cloe non può aver stretto un simile patto con te, senza tramare niente–

Quindi, se capisco bene, Cloe è una me, ma dalla parte opposta–

E' quello che intendevo–

E cosa pensate stiano tramando?– ora ero preoccupata, Cloe sapeva essere fastidiosa, però, non potevo convincermi che facesse parte di una specie di società segreta nemesi de­gli scopritori di talenti.

Qualcosa di tremendo, se hanno smesso di lanciarci frecciatine significa che stanno pre­parando una bomba–

Perché lo dice soltanto ora?!– chiesi frustrata.

Non volevo preoccuparti, non ne sono certo–

E mio padre?– lo interrogai molto più turbata di prima.

Tuo padre potrebbe essersi alleato con loro–. I miei dubbi erano stati confermati. Lui sa­rebbe tornato, dovevo mantenere la parola data e ucciderlo. Presto ci sarebbe stata la guer­ra o almeno uno scontro.

Non possiamo indagare meglio e scoprire cosa hanno intenzione di fare?– mi mordicchia­vo nervosa il labbro interno.

No, io e Aliviero non disponiamo di mezzi adatti per spiare in questo modo–

Ma fate parte di una società! Non ci possono aiutare?–

Non sono sicuri che tu sia quella giusta e, per ora, non si sbilanciano– rispose.

E rimaniamo così, impotenti, ad aspettare che ci sferrino un colpo?–

Non vedo altra soluzione, Ronny– disse triste.

Quella sera Aliviero preparò piatti buonissimi che io non riuscii a mangiare del tutto.

Non ti senti bene?– mi domandò lui ad un certo punto.

Sto bene Aliviero. È che mi si è chiuso lo stomaco–.

Aliviero lanciò un'occhiata eloquente a Mr. Cloud e lui confermò con un cenno. Per tirarmi un po' su di morale provai a chiedere ai due se c'erano stanze che ancora non avevo sco­perto in casa. Dissero di no e io mi rattristai ulteriormente.

Finito di cenare uscii a fare un giro per il borgo. Le luci dei lampioni erano fioche, l'aria calda e il cielo coperto di stelle. Quasi non sembrava di trovarsi a Milano. Diedi varie oc­chiate agli edifici di tufo rosso, tanti fiori erano esposti sui balconi, anziani sedevano all'a­perto a godersi l'aria tranquilla e fresca della sera. Le zanzare vorticavano fameliche, mi pungevano di rado, avevo il sangue amaro. Mi fermai, di fianco a me c'era una pasticceria ed esposti un battaglione di dolci caserecci. C'era del cioccolato, pensai di comprarne un po' perché sia Mr. Cloud che Aliviero lo adoravano.

Mentre stavo per entrare uscì una ragazza correndo e mi prese in pieno. Sentii delle fitte alla fronte e la vista confusa, le gambe molli cedettero e caddi sul pavimento di pietra lavi­ca. Riaprendo gli occhi ne vidi altri due a pochi centimetri, di un azzurro limpido. Allonta­nai la testa e vidi un viso roseo ovale terminante con un mento a punta incorniciato dai ric­cioli biondi che sfuggivano a una coda alta. Le ciglia erano nere di mascara e la boccuc­cia era lucidata di un rosa lampone. Il nasino a patatina era perfettamente adattato al viso. Poco a poco capii di che bellezza ancora infantile fosse. Il corpo non diceva lo stesso, il seno era una terza scarsa, molto più di quello che io avrei mai desiderato e il sedere pieno e ro­tondo. Pareva russa per le sue forme. Indossava una gonnellina di jeans, una camicetta bianca e sopra un grembiule azzurro.

Ti sei fatta male?– si curò con voce dolce, avevo sempre voluto una voce così, la mia o era troppo forte oppure un sussurro, la sua era giusta: squillante, ma mai irritante.

No, sto bene– mi sfuggì un gemito e mi tenni la testa ergendomi –mmm... allucinazioni temporanee, sono Veronica, chiamami Ronny–

Oh– mi guardò con occhi da cerbiatto –mi spiace, io mi chiamo Deborah–

Avevo sempre connesso quel nome ai capelli rosso lampone, non so perché. Evidentemente mi sbagliavo.

Che bel nome, hai un diminutivo?–

Deb–

Debby mi sembra più adatto, può andare?–

Mi piace, sicura di stare bene?–

Mica ti faccio causa!– risi. La vidi imbarazzata, fantastico, non era molto spiritosa.

Scusa,– le dissi –sono di un sarcasmo infinito, sto bene comunque. Lavori alla pasticceria?–

E' una cioccolateria, ogni dolce è fatto con una percentuale o per intero di cioccolato: bianco, al latte, fondente, al peperoncino, alla frutta, con nocciole...–

Ok, ok, ricevuto– dissi mettendomi le mani nei capelli.

Scusa– disse mortificata.

Ci risiamo, scherzavo, non prendermi sul serio, la maggior parte delle volte non so nem­meno io cosa dico– mi sorrise. I denti erano bianchi e perfetti, cominciavo a provare una leggera invidia per Debby e soprattutto provavo una fortissima voglia di fare amicizia con lei.

-Che belli i tuoi capelli, li ho sempre desiderati lisci e lucidi, i miei sono sempre così crespi, non so come tenerli a bada– a dire la verità amavo i miei capelli, alcune volte sembrava di avere una cascata di seta sulla testa, però, tutto quello che mi piaceva di me, più di lei, fini­va lì. Parlammo per una mezz'ora di capelli, trucchi e cose da donna. Lei era così riservata e mite, ci completavamo. Mi disse che i suoi genitori si erano diplomati all'alberghiero di... una qualche città prestigiosa e che lei desiderava seguire le loro orme. La sua famiglia era perfetta, c'erano lei, suo fratello più grande, sua madre e suo padre (che si amavano e non avevano cercato di uccidersi a vicenda o di scappare disperati) e il loro cagnetto, Willy. Willy, scoprii pochi secondi dopo che lei lo chiamò con un fischio (io non ero mai stata ca­pace di fischiare), era un ammasso pulitissimo di peli lunghi e grigi ingarbugliati.

Io per Willy ho un richiamo segreto, prova ad imitarlo, scommetto che non ci riusciresti– m'incitò.

Puoi esserne sicura, non so fischiare– mi derisi, mi dedicò degli occhi sorridenti degni di un anime. Forse la comprendeva un po' la comicità.

E tu? Non mi hai parlato della tua famiglia– emisi un risolino –ok, cosa c'è di comico in questo?– chiese confusa.

Niente, in questo proprio niente. Negli ultimi giorni ho parlato della mia famiglia a tre persone diverse. Non è che l'argomento mi entusiasmi–

I tuoi genitori sono separati?–

Magari– dissi –prometti di non scappare via se ti parlo di mia madre e mio padre?–

Certo–. Non sapeva quanto una famiglia poteva fare paura.

Oh, mio Dio– disse infine.

–“Mio Dio” no, per favore– la pregai –sei credente?–

Credente? Non più di tanto, non mi è mai interessata molto la religione, semplicemente la ignoro–

E' il modo più sicuro quello– ammisi –Vuoi conoscere la mia vera famiglia?– proposi.

Con mio sommo piacere non si tirò indietro. Non mi scorderò mai la faccia che fece quan­do vide Guido: prima impaurita, poi quella di una che ha appena scoperto una nuova spe­cie vivente e, infine, arrossì visibilmente. Arrossì sulle guance, non sul collo. Vedendo simi­li sintomi avevo subito intuito che Debby si fosse presa una bella cotta per il mio amico e non mi dispiacque affatto.

Anche se mi piaceva vedere come si squadravano Guido e Debby controllai Diego ogni se­condo. Temevo che lei lo avrebbe conquistato, sapevo come si era comportato in tutti que­sti anni e avevo paura, una paura tremenda di perderlo. Io chi ero in confronto a Debby. Non smettevo di notare quanto fosse bella e quanto io fossi imperfetta.

Fu proprio Diego a invitarla il giorno dopo al concerto che si sarebbe tenuto, lei accettò di buon grado.

Quella sera quando Diego mi salutò mi diede un misero bacetto a stampo, la passione se n'era già andata? Lei non poteva essere così... tutto da fargli dimenticare di me in un istan­te.

Quella notte, nel letto, l'ultimo viso che mi apparì prima di addormentarmi fu quello bellis­simo di Debby. 

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Capitolo 12
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

Era il giorno del concerto. Era il giorno del concerto! Debby, Guido, Diego... io.

Svegliati!– mi gridò qualcuno all'orecchio. Non appena vidi una cresta di capelli mi rigi­rai e infilai la testa sotto il cuscino producendo suoni biascicati.

Ronny, togliti questo coso, non capisco quello che dici!– disse Guido strappandomi il cu­scino dalle mani.

Non stavo dicendo niente. Ma te ne sarei grata se uscissi e mi lasciassi dormire per ancora dieci minuti– rise di cuore –sono felice di starti a cuore– scherzai.

Ma è lunedì! E c'è il concerto! Ed è tardi– mi riscossi, effettivamente non avevo modo di sapere che ore fossero realmente.

Che ora è?– chiesi sospettosa.

Tardi...–

Quanto tardi?– mi voltai e controllai la sveglia: le 4:00! –Guido ma vaffanculo!– urlai sal­tando sul letto e prendendolo a cuscinate. Si mise a farmi il solletico sotto i piedi e scoppiai a ridere in modo ben poco delicato.

Su, su, vatti a vestire che io mi devo re-laccare la cresta– disse con il fiatone.

Ok... senti un po', ma... che effetto ti fa Debby?–

Debby– ripeté il nome a bassa voce sussurrando –nessuno... si vede tanto che mi piace?– chiese preoccupato.

No, tranquillo– mentii –piaci anche a lei–

Davvero? È talmente bella– mormorò dolcemente.

Spostati romanticone, non voglio vomitare– brontolai mentre nella mia testa pensavo 'ma non poteva essere una racchia con i denti storti e un carattere orribile?'.

Che abiti dovevo mettermi? Non ero mai stata ad un concerto punk (Guido suonava il punk)... decisi che sarebbero andati bene quelli che indossavo per andare ai concerti rock. Ma c'erano solo magliette con i nomi delle band.

Guido!– urlai dal bagno con la porta della camera chiusa –Che vestiti devo indossare?–

Fammi entrare– disse lui. Mi arrotolai un asciugamano intorno al corpo e lo invitai ad en­trare. Frugò tra i miei pochi vestiti. Poi prese una maglietta lunga rossa e bianca con dei te­schi neri strappata su uno sfondo nero intatto. Era favolosa, me l'aveva prestata una mia amica tanto tempo fa, doveva avermela lasciata e io con un colpo di fortuna dovevo averla presa senza rendermene conto facendo la valigia per scappare da “casa mia”.

Dove la tenevi?– chiese Guido stupito.

Me l'ero dimenticata–

Hai qualcosa con cui metterla?–.

Cercai nell'archivio mentale... avevo dei pantacollant neri lucidi.

Perfetti e hai delle scarpe? Anfibi?–

Guido, spiacente, ma in quelli non ti posso aiutare, non li indosso–

Ti starebbero bene, davvero, che numero hai di piedini?– chiese riferendosi ai miei piedi che, in confronto ai suoi, erano minuscoli.

38... circa– risposi. Sorrise. Lasciai passare il tempo, mi vestii e incorniciai i miei occhi az­zurri di matita nera e mascara un po' più pesantemente del solito tracciando una virgola ai bordi degli occhi.

Dipinsi la mia bocca di rosso. Con la pelle scura, gli occhi neri e i capelli neri quel trucco stava benissimo ed era anche intonato con i vestiti.

Lanciai una rapida occhiata all'orologio, erano le sette, tra mezz'ora saremmo dovuti anda­re.

Guido entrò in camera. Mi guardò e mi posò ai piedi degli anfibi. Provai a calzarli, stavo bene... in qualche maniera, erano fantastici!

Wow, sono davvero belli–

Guido mi fissava a bocca aperta. Imbarazzata contemplai ammirata il lampadario, c'erano ben undici lampadine.

Sei... Diego... beh, ok– farfugliò.

A dire il vero mi sentivo ridicola, non per i vestiti, che di per sé erano splendidi, ma perché li portavo io. Non volevo farmi vedere da Mr. Cloud e da Aliviero. Presi in proposito l'idea di correre, ma ero abituata a farlo con le All Star, gli anfibi mi avrebbero solo fatta rovinare a terra. Così uscii allo scoperto sotto gli sguardi che tanto temevo.

Ronny... sei meravigliosa– disse Aliviero –manca qualcosa, però– continuò e restò impala­to a ragionare. Mr. Cloud che, come al solito, leggeva il quotidiano, appoggiò i gomiti sulla poltrona, bevve un sorso di latte e lo sputò sull'abito di Aliviero. Non potei trattenermi e mi spanciai dal ridere nel vedere la faccia contrariata di Aliviero che sbuffava scocciato e la tensione volò alta, come i miei sogni. Avevo fatto colpo?

Cloud!– sbraitò Aliviero –Ah, lasciamo stare, Ronny– disse rivolto a me –ho trovato cosa manca–.

Sparì dietro un muro e ricomparve con una spilla lunga e rossa in mano. Mi prese i capelli che stavano davanti a formare il ciuffo e me li fermò dietro con la spilla lasciandomi la fronte scoperta. Mi porse uno specchietto e m'ispezionai. Era un tocco di classe, gli occhi risaltavano molto meglio.

Secondo me Diego non ti fa uscire di casa– considerò Mr. Cloud –geloso com'è–.

Avvampai, mi sentivo nuda con la fronte scoperta.

Andammo a prendere Debby e la vidi: non esistevo più. Aveva un vestito corto e nero con tante borchie da rimanere spinati solo a guardarla. Le ballerine nere erano anch'esse co­perte di minuscole auree borchie. Si sapeva truccare davvero bene, il trucco sugli occhi era come il mio, ma lei aveva sfumato dell'ombretto oro sulla palpebra. Anche lei aveva messo il rossetto rosso e si era colorata le guance, alcune ciocche di capelli erano nere, quelli sciolti le arrivavano fino all'ombelico, poco più corti dei miei, scendevano in lievi e delicate onde.

Sei bellissima– mi disse. Credevo mi stesse prendendo in giro, ma poi ricordai che non aveva ancora sviluppato il mio sarcasmo e dissi: –Tu di più–.

Siete entrambe splendide– equilibrò Guido posizionandosi alla destra di Debby. Mi senti­vo falsa e invidiosa, tutto ciò che non ero mai stata. Poche volte mi era capitato di avere della seria competizione, sapevo di essere bella, non me ne facevo vanti, ma ne ero coscien­te. Falsa perché detestavo truccarmi così tanto, era come indossare una maschera. Io non ero così, non lo sopportavo.

Arrivammo al ritrovo, dove stavano allestendo il palcoscenico. Ovunque c'erano mie foto sulla statua al lago, com'ero naturale, com'ero io. Avvicinai una mano alla bocca per strofi­narla, ma, appena la sfiorai, mi accorsi che c'era il rossetto.

Debby! Ronny!– ci salutò Diego. Aveva salutato prima lei...

Non so cosa dire, chi le ha truccate così?– chiese rivolto a Guido con gli occhi che brilla­vano e guardavano Debby.

Hanno fatto tutto da sole, le nostre bamboline– mi si spense il sorriso falso che avevo te­nuto. Girai sui tacchi.

Ronny! Dove vai?– Diego mi seguì.

Lasciami stare!– ordinai.

Entrai nel bagno della sala, mi guardai e non mi riconobbi. Poteva essere un motivo futile, ma non stavo bene.

Mi struccai, rimisi solo il solito filo di matita che, anche se ci passavo la mano sopra, non se ne accorgeva nessuno e una striata di mascara.

Tenni i capelli indietro, mi piacevano così.

Salutai la nuova me e riabbracciai quella vecchia.

Ti sembro ancora una bambolina, Guido?–.

Mi squadrò stupito –Perché? Eri bellissima–

Ma non ero io. Non mi nascondo dietro il trucco–

Vai benissimo anche così–

Non ho bisogno che sia tu a dirmelo–.

Giornata no? Ero davvero acida e scontrosa. Più che altro, non volevo essere trattata come una fragile, non ero una bambolina, ero Ronny. Forse era grazie a questo che ero l'unica a poter vincere contro la Chiesa.

Debby, non è che potrei parlarti un attimo?– domandai gentile, sentendomi in colpa.

Certamente–.

Ci rifugiammo dietro le quinte e io ebbi l'occasione di vedere un tecnico che montava quel­l'incredibile intrico di tubi.

Prima che inizi ti volevo dire che...– emise un fischio –sei stata grande–.

Perché?–

Anch'io detesto truccarmi e questo trucco non lo sopporto, ma non avrei mai avuto il co­raggio di struccarmi come hai fatto tu–

Non ci vuole tanto–

Davvero? Non ci vuole tanto a prendere, urlare che nessuno ti comanda, correre via, tor­nare spoglia del trucco fiera della tua naturale bellezza sapendo che tantissime si sono truc­cate per prenderti il tuo ragazzo e rimanere implacabile?–

Non è andata proprio così...– farfugliai imbarazzata.

Sembra una cosa da poco, ma non lo fa nessuna e non è certo perché il trucco piace a tut­te– scherzò.

Io ero andata lì con l'intenzione di dirle di non fare tanto la bella con il mio ragazzo e che ero un'invidiosa e lei mi elogiava. Murphy, hai sempre ragione, maledetto te.

Mi strofinai il collo e mi liberai i capelli dallo spillone in un atto naturale.

Cosa volevi dirmi?–

Cosa... volevo... ah, sì, ehm... Diego ti guarda continuamente...– dissi a voce bassissima.

Diego che cosa? Ma... oh, tu sei l'unica per lui, ma ti sei vista?–

annuii –E ho visto anche te, devo ammettere che non sono proprio sicurissima di me, tu sei così... attraente, mi fai un po' paura– ammisi.

Oh, no! Credimi, Diego vuole te, non sai che faccia ha fatto quando ti ha vista tornare struccata–

Quale?– mi si accesero gli occhi.

Quella di qualcuno che aveva appena ritrovato dopo anni la donna che amava– rispose te­neramente.

Il cuore si rimise a battere e il respiro si liberò. Ero rimasta in tensione. Lo amavo. Lui mi voleva com'ero, non come la bambolina di Guido. Voleva Ronny. Risi e piansi.

Oh, mio Dio ti faccio sempre male in un modo o nell'altro–

–“Mio Dio” no, ti prego– la supplicai e ridemmo. Forse un giorno lo capirà che io non sono una persona normale. Forse un giorno lo capirò anch'io.

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Capitolo 13
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

Il concerto stava per avere inizio.

Le farfalle svolazzavano impetuose e piene di vita nel mio stomaco. Tolsi gli anfibi e le cal­ze rimanendo a piedi nudi.

Salii sul palco. Tutto lo spazio davanti era gremito di punk, rocker e gente normale, tutti lì per noi, per me. Mi aspettavo venisse anche Cloe, ma lei non c'era. Per una ragione a me sconosciuta, quando me ne resi conto, mi agitai.

Ormai non potevo fare altro che parlare. Afferrai il microfono. Scovai nella parte più pro­fonda di me una voce sicura e potente e cominciai.

Benvenuti a tutti!– annunciai. Si zittirono. Applaudirono. Allungai un braccio e si zittiro­no nuovamente. –Se ancora non lo sapeste io sono Ronny, l'autrice dei post del blog “Ge­nio”, quella che ha scalato la statua, in parole povere– risero e alzarono cartelloni con la mia im­magine –vedo che non c'è bisogno di presentazioni, comunque...– mi voltai verso le quinte e uscirono Guido e Diego. Applausi. –ma questo è un concerto! Siamo venuti qui per ascol­tare buona musica, le canzoni sono tutte in italiano così potrete capire meglio cosa inten­diamo con la nostra battaglia. Se qualcuno di voi volesse contattarci potete andare sul blog: “Geni incompresi”, ma vi basterà digitare “Genio” e lo troverete. È aggiornato giorno per giorno. Se volete più informazioni potete chiedere direttamente a me o a Guido o a Diego. Non siamo la Chiesa, noi vi rispondiamo di persona. Non vi chiediamo soldi per en­trare e nemmeno vogliamo l'elemosina, questa è una causa giusta! Non è un modo per gua­dagnare!– feci una pausa e tutti mi osservarono zitti –Divertitevi!– esclamai.

Un boato si alzò. Guido e la sua band iniziarono a suonare. Avevo un caldo incredibile con quei pantacollant, Aliviero mi diede dei pantaloncini di jeans che aveva portato da casa. Ora stavo molto più fresca, calzai le All Star nere e corsi in mezzo al pubblico.

Molti, quel giorno, s'iscrissero al blog. Tanti mi fecero domande e vollero conoscere Deb­by, struccata e con il vestito nero privo delle borchie che lo avevano ricoperto. Aveva i ca­pelli legati in una coda di cavallo. Noi siamo noi stessi, la Chiesa fa vestire, fa essere le per­sone come vuole Lei, noi vogliamo la libertà di scelta.

L'aria si rinfrescò e la sera giunse, continuammo a suonare fino all'una. Cantai diverse can­zoni, mi riuscivano bene perché avevo la voce arrochita dallo stress della giornata.

Un ultimo accordo e avrei proclamato finito il concerto, senza ombra di Chiesa o società segrete a suo favore.

Bene! Silenzio!– ordinai, dovevo smetterla con quel tono autoritario –Scusate, dicevo, la serata sta per terminare, spero vi sia piaciuta! Sappiate che io sono a vostra disposizione per qualsiasi tipo di domande– salutarono con urla e grida di gioia.

I visi stravolti sorridevano. Staccai i fili dall'amplificatore.

Aspettate!– la gente si fermò e cercò di capire da dove proveniva quella voce così simile ad una di mia conoscenza.

Cloe! Fatti vedere– dissi prendendo il microfono.

Certo– una luce si accese proprio sopra di lei. Lo sapevo, la folla era ancora lì, lo spazio pieno.

E' facile fare concerti e aprire blog? Ci scommetterei. Sono qui per farvi una proposta– di male in peggio –domenica prossima il Papa verrà al duomo di Milano per celebrare la San­ta Messa, vuole conoscerti Ronny, vuole conoscere tutti voi– voleva farci cadere in trappo­la –e tu, che ti proclami tanto coraggiosa e giusta, non avrai paura di parlare con quel vec­chietto di Ziegler, giusto?– 'inganno!' urlava la voce nella mia testa –O vieni o non vieni, devi dirmelo adesso, non hai scelta–.

Avrei potuto controbattere. Ero libera. Ma il pubblico m'incitava con lo sguardo, avrei pa­gato io se fosse stato necessario.

Vengo, ma ad una condizione–

rise –Quale?–

Prendetevela con me se proprio dovete, loro non sono implicati–

Non c'importa di loro, il problema sei tu, loro sono solo tante piccole pecorelle dietro la pastorella– disse e svanì. Ma come faceva?!

Cloe, in ogni caso, si sbagliava: abituata alla mentalità cristiana era certa che, senza di me, gli altri non si sarebbero potuti muovere. La nostra forza consisteva, invece, nell'essere in­dipendenti l'uno dall'altro.

Avrei comunque dovuto preoccuparmi per me. Solo Dio sapeva cosa desideravano farmi. Non pregai.

 

Desideravo che quella settimana durasse per sempre. Ormai buona parte dell'anno scola­stico era andato e io a scuola stavo rimontando, la primavera era alle porte e già faceva tan­to caldo da svenire. Studiavo, leggevo, aggiornavo il blog. Non ne potevo più. Mi diressi al telefono fisso. Schiacciai i tasti tondi e telefonai a Guido.

Pronto... Chi è?–

Sono Ronny–

Ronny, dimmi, successo qualcosa con Cloe?–

No, devi studiare?–

Rise forte –No... perché?–

Che ne dici se facciamo un giro?–

Mi piacerebbe, ma ti sei dimenticata che devo incidere oggi– il CD!

Doveva andare in sala registrazione e incidere! Sarebbe stato meraviglioso!
–Posso venire?–

Porta anche gli altri, sono sicuro che ne sarebbero felici–

Arrivo in sala!–.

Mi alzai dalla scrivania abbandonando il giornale di barzellette. In bagno mi rinfrescai e ri­marcai la matita, mi spazzolai i capelli e osservai i miei vestiti. Fuori faceva molto caldo, guardai nell'armadio e trovai una maglietta lunga e grigia con delle scritte in hawaiano co­lorate. I pantaloncini di jeans, le solite All Star e via.

M'intrecciai i capelli in una treccia particolare che avevo imparato a fare da poco e salutai Mr. Cloud.

Non trovai Aliviero. Uscii, corsi per la strada, saltai sulla bicicletta da città che adoravo tanto e mi fermai alla cioccolateria. Con la treccia che si disfaceva al vento, Debby al mio fianco e Diego che stava arrivando, pedalai per la città.

Poi, d'un tratto, avvertii un sibilo sordo, una bottiglia mi prese di striscio la testa facendo­mi quasi cadere. Abbandonai la bicicletta pronta ad aggredire il mio aggressore, ma cam­biai idea appena lo vidi. Papà. Lo sguardo era confuso, ubriaco, avevo promesso che lo avrei ucciso se lo avessi rivisto, ma non così, era ubriaco, non se ne sarebbe neppure accor­to.

Risalii sulla bici e partii con Debby sempre accanto che non capiva.

Non avevo alcuna voglia di spiegare quindi tacqui.

Guarda!– urlò Debby, io scattai sull'attenti intimorita, ma lei m'indicava un negozio di ve­stiti vintage. Sorrisi scoprendo i denti.

Non mi piace il vintage– dissi.

Si nota– disse con finto disgusto –solo un'occhiata, troverò qualcosa che ti starà benissi­mo–.

I vestiti in vetrina erano indubbiamente graziosi...

Ti prego...– pregò.

Non pregare– pausa –ok– dissi scocciata –ma facciamo presto– saltellò felice. Saltellò? Scossi la testa ridendo.

Mi prese il braccio e mi trascinò all'interno del negozio. C'era odore di naftalina. Era col­mo di gente, il cartello dei saldi faceva effetto.

Debby mi chiamò, aveva messo un cappello di paglia che la faceva sembrare una contadi­na. Le stava bene, però.

Ma questa è una salopette?– domandò entusiasta –Ronny?–

Sì?–

Spiegò un abito del colore del sole, con tante sfumature. Era leggero e terminava a metà coscia. La scollatura a oblò era perfetta e non aveva le maniche, non avrei potuto mettere le solite scarpe con quello.

Provalo– ordinò

No– dissi. Me lo sbatté spiegazzato sul petto e mi spinse nel camerino. Alla fine lo com­prammo.

Tornammo sulla strada per andare in sala registrazione e arrivammo poco più tardi dell'ini­zio, Guido non se ne rese conto.

Presi una sedia e vi poggiai le ginocchia rannicchiandomi.

Suonava davvero bene, lo capii quando la mia anima scivolò via dal mio corpo e s'introdus­se nella musica che stavo ascoltando.

Chiusi gli occhi, quando li riaprii fu perché Diego era arrivato e mi aveva sollevata bacian­domi.

Come se fossi di piume si sedette e mi adagiò su di lui. Avvertivo il suo profumo muschiato, quello che si metteva sempre e che conoscevo solo io perché ne metteva talmente poco da accorgersene solo se ti avvicinavi fino a sfiorargli il collo.

La musica di Guido mi faceva perdere il contatto con la realtà, la mia mente scappò in un'altra dimensione con Diego, non avrei voluto essere in nessun altro posto. Solo con lui.

 

Correre lontano, soltanto io e te.

Correre lontano dagli occhi della gente.

Correre dove non c'è più niente.

Correre e vivere in un mondo strabiliante.

Soltanto io e te... mio cuore.

 

Oh, Diego... lui era legato a me da una corda così forte da non potersi rovinare, nemmeno il coltello più tagliente l'avrebbe recisa. Quando ancora non stavamo insieme mi acconten­tavo di pochi secondi con lui, mi accontentavo di quel pezzo di strada che dovevamo fare ogni giorno insieme e da soli, facevo finta di parlare e lo aspettavo finché non mi si avvici­nava e andavamo via. Arrivati alla fine della strada io dovevo salire sul tram e lui continua­va a parlare noncurante di ciò, non mi voleva lasciar andare e io nemmeno. Sapevamo di doverci separare, ma la corda rimaneva, si allungava, ma persisteva, non si slacciava. C'era sempre stata e sempre ci sarebbe stata. I suoi erano gli unici occhi che non avevo mai avu­to timore di scrutare, mi fidavo di lui. Era come se facesse parte della mia anima da sem­pre, quando se ne andava un nodo mi stringeva gli organi, il respiro mancava per un attimo e ricacciavo in giù le lacrime. Non potevo sciogliere un legame tanto forte. Avevo bisogno di lui per vivere. Io avevo conosciuto l'amore. Non c'è bisogno di ali per volare, c'è bisogno di un cuore per amare.

Io di solito parlavo sempre, tenevo con chiunque le redini del discorso, lui, invece, lo la­sciavo parlare, lo lasciavo guidarmi, mi sentivo completamente al sicuro, sorridevo mentre parlava. Eravamo la stessa persona: non c'era bisogno di comandare l'uno sull'altro. Di di­mostrare superiorità. Con lui mi sentivo appagata, felice, a mio agio. Litigavamo pratica­mente ogni giorno per qualsiasi tipo di motivo, sapevamo fin dove spingerci, sapevamo che litigando ci saremmo conosciuti di più. Condividevamo le stesse emozioni, gli stessi pensie­ri, se uno voleva una cosa, l'altro gliela dava. Era il mio più grande amico, il mio gioiello più prezioso. Lo osservavo parlare, battere gli occhi, ridere, litigare e non dicevo niente, non ce n'era motivo.

La musica s'interruppe, il mio sogno era ancora lì, che mi teneva stretta e pensava a come ci eravamo conosciuti, pensava alla tenerezza di quella scena, pensava che era impossibile non pensare e sogghignava tra sé. Sono sicura che, se gli fosse successo qualcosa, l'avrei percepito.

Quella sera andammo tutti e quattro a vedere un film appena uscito. Tornammo alle undi­ci, poi ci comprammo un gelato e ce lo gustammo seduti su un dondolo. Guido evitò di bere e la serata passò spensierata.

Mercoledì.

Giovedì.

Venerdì.

Sabato... mancava un giorno.

Domenica.

Il sole mi accecò aiutato dal vetro della finestra socchiusa. Sbadigliai. Mi stiracchiai gli arti indolenziti e scostai le coperte.

La piccola cameretta color beige dotata di armadio, scrivania, libreria e letto non mi dispia­ceva affatto. Molto meglio di un'algida stanza tecnologica. Illuminata dai raggi solari sem­brava di essere su un altro pianeta, uno molto più antico e affascinante. Aprii la lignea por­ta del bagno interno alla stanza che non aveva bisogno di interruttori segreti e vi entrai. Urlai, fortunatamente non c'era nessun cadavere impiccato, ma solo Debby che mi scruta­va sospettosa.

Cosa fai qui adesso?!– chiesi con il fiato corto.

Parlami del segreto della tua bellezza– disse tranquilla.

Che cosa?–

La merda rosa, su su, voglio sapere come fai a conquistare tutti!– strillò eccitata con la sua voce dolce.

Conquistare tutti? per conquistare l'unico che mi piace ci ho messo tre anni!–

Mm e intanto gli altri cadevano ai tuoi piedi– disse.

Ah sì?–

Sì–

Non me n'ero accorta...- ammisi cercando di oscurare l'orgoglio che si stava impossessan­do di me.

Come?!–

Lo sputacchiume!–

Eh?– feci una pernacchia ancora più orgogliosa.

Andiamo!– s'innervosì.

Cosa c'è?!– chiesi esasperata.

Voglio sapere qual è il tuo segreto!–

Io non ho segreti, Debby! Ora lasciami che mi preparo per andare ad incontrare il Papa. E, ora che ci penso. lo dovresti fare anche tu!–

Ecco!– le si accese la lampadina –Tu non hai segreti, è questo il punto, tu sei talmente te stessa da essere pazzesca– sentenziò.

Certo, certo– bofonchiai.

Smanettai tra i trucchi, ma lasciai perdere, mi lavai le mani, la faccia e uscii dal bagno. Debby mi seguì.

Sai cosa farò? Mi metterò il tuo vestito– dissi.

No! Non saresti più te stessa–

Debby, inizi a diventare patetica– silenzio.

Indossai il vestito con delle ballerine beige comparse per caso, il caso si chiamava ovvia­mente Aliviero. Cercai Debby, ma non la trovai, sentii dei rumori provenire dall'armadio, la lasciai fare.

M'intrecciai i capelli, mi truccai al solito modo e aggiunsi del lucidalabbra che mi levai po­chi secondi dopo.

Nel portagioielli scovai un piercing per il naso a forma di minuscolo fiore e lo infilai al po­sto del solito puntino brillante.

Un tocco di stile può servire alle volte, anche se trovai quel look per niente opportuno.

Tolsi il vestito e le ballerine. In mutande e reggiseno chiamai Debby. Comparì poco dopo indossando una camicetta bianca con una gonnellina e degli stivali alla cowboy. Sembrava proprio lei. Io invece m'identificavo in jeans a pinocchietto, All Star nere e la t-shirt di Spongebob. Sciolsi i capelli neri corvini con i riflessi blu.

Cucciola, esci o devo entrare io?– domandò una voce maliziosa: Diego. Io e Debby ci scambiammo un'occhiata.

Nasconditi– dissi.

No–

Perché?–

Non voglio sentirvi scambiare effusioni–

Mica facciamo sesso!–

No–.

Sbuffai.

Ciao Diego, entra pure, c'è anche Debby– dissi di malavoglia a voce più alta.

La porta si spalancò e una testa spuntò da dietro. Una testa di splendidi capelli neri, tenuti su da un po' di gel.

Dobbiamo andare, così ha detto sua maestà– scherzò.

Sua maestà, il messer Cloud?– chiesi stando al gioco. Annuì e fece un inchino. Poi mi ba­ciò incurante di Debby che tossiva sonoramente e che se ne andò vedendo che non erava­mo intenzionati a smettere.

Il bacio non è solo uno scambio di saliva, è uno scambio d'anima.

Mmm, sexy la maglietta di Spongebob– disse Diego.

In fondo non stiamo per fare niente d'importante...-–

C'incamminammo.

Giusto?– mi assicurai.

Non rispose.

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Capitolo 14
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15

Arrivammo in macchina. Salutai Aliviero e Mr. Cloud, avevo una strana sensazione. Non era paura, era... disagio.

Tutti lì portavano una crocetta al collo. Appena fummo allo scoperto venimmo colpiti da bucce di agrumi, ortaggi e carbone.

Benvenuta– salutò Cloe.

Non ci sono solo io–

Benvenuti– si corresse –Diego, sei diventato più carino di prima, io ti credevo praticante, però–.

E lo era. Diego era convinto dell'esistenza di Dio, ma la Chiesa non gli piaceva, io, invece, non sapevo cos'ero.

Dov'è la tua marmaglia, Ronny?– mi domandò Cloe.

Non ho portato nessuno con me, chi vorrà verrà– anche se in verità la mia paura era tro­varmi sola tra tutti loro, senza Diego.

Sentii un chiasso, come se una mandria di cavalli ci stesse per abbattere. Mi voltai, mi aspettavo di vedere tanti contadini dotati delle proprie fiere e dei loro forconi, ma erano studenti, tantissimi accorrevano fiduciosi, spogli di croci.

Marmaglia– sibilò Cloe e subito dopo –arriva! Arriva l'Amatissimo– strillò.

La religione è l'oppio dei popoli diceva Carl Marx, “il ribelle”.

Ziegler fece la Messa, mi aspettavo un po' più di sontuosità, ma i fedeli lo acclamavano come se fossero ad una partita di calcio. Ad un cenno del capo del Papa si quietarono, fece­ro il segno della croce e pregarono. Ziegler parlò di bambini, di terremoti, di malattie, della crisi, degli atei e dei musulmani. Tutti argomenti che apprezzavo, solo che infine disse:–Per loro tutto ciò che possiamo fare è pregare, amiamo il Signore, la vita che ci ha donato e re­galiamo ai più poveri– chinò la testa dotata di cappello alto tre piani e quasi lo fece cadere.

Ziegler! Il cappello le è troppo grande, ne faccia a meno e lo regali ai bambini, ai poveri, ai terremotati, ai malati, allo stato, ai musulmani e anche agli atei!– mi pronunciai. La folla mi guardò con evidente disprezzo. Io avevo semplicemente ripetuto ciò che lui aveva detto in ore, ma evidentemente nessuno sembrava averlo notato.

Il Papa m'ignorò e, con il cappello ben piantato in testa, scese regalmente le scalette che portavano alla base del piedistallo per baciare le teste dei bambini e le mani di uomini, don­ne e vecchi. Difronte a me si bloccò. Mi offrì il palmo della mano. Io abbassai gli occhi sul­la croce che pesava più di lui di oro, lapislazzuli, rubini, smeraldi e diamanti e dissi: –Sa credo che quella non le consenta un buon equilibrio– aprii la borsetta a tracolla di camo­scio marrone che mi ero portata e ne estrassi una semplice croce di legno –questa sicura­mente è più sobria,–- si accigliò –più leggera,– guardò basso –più religiosa– la mano gli tre­mò –ed è an­che rispettosa– marcai il “rispettosa”.

Ritrasse la mano.

Non la prende?–

Ti devo parlare, cara–

Ronny– precisai.

So qual è il tuo nome–

Allora lo usi, è fatto apposta per chiamarmi–.

Mi porse il braccio in modo che lo prendessi. Ridacchiai, era talmente vecchio che si regge­va a malapena in piedi.

Intorno a noi silenzio. Intorno a me vuoto, Diego mi guardava da dietro. “Non mi abban­donare” pensai.

Percepii un “mai” sussurrato. Sussultai, strinsi gli occhi, ma una lacrima mi cadde.

Davanti a me la bambina di sette anni che avevo incontrato al lago. Le sorrisi, lei mi parlò con gli occhi: “vinci, vinci per me, mia eroina, mia paladina”.

Cloe era una statua di granito, non batteva ciglio, muta. Il tempo si era fermato. Il mio re­spiro risuonava come una cascata. Il mio respiro forte e quello debole di Ziegler. Tutt'attor­no morte.

Diego...– soffiai. Perché mi sembrava di andare a morire?

Entrammo nella chiesa e andammo nella camera dove accoglieva gli ospiti.

Tu mi preoccupi Ronny, non sei una ragazzina normale, sei un problema che va estirpato alla radice– cominciò senza preavviso il Papa, lo fissai a bocca aperta, la sua voce non era più un flebile lamento, era quella vera e propria di un gerarca nazista.

Mi stai ascoltando? Non farti più vedere, altrimenti saranno guai per te, per la tua fami­glia e per molti altri– il cuore batteva fortissimo mentre si lasciava cadere tremolante su una sedia imbottita –è incredibile cosa tu abbia suscitato nella popolazione mondiale–.

Che blaterava? Mondiale? Avevo centinaia di membri nel blog e migliaia di persone che mi seguivano, ma erano nel nord Italia, il mondo non c'entrava affatto.

Tu non lo puoi sapere, ovvio,– continuò –ma noi clericali abbiamo fatto alcune ricerche e ri­sulta che persone ti seguano fin dall'America, risulta che in questi mesi tu abbia scatenato qualcosa con un blog, delle manifestazioni e dei concerti, che non aveva scatenato neppure Hitler perseguitando gli ebrei–

Erano altri tempi, comunque...

Lei è ebreo?– chiesi senza apparente motivo.

Ghignò, aveva i denti gialli e l'alito cattivo –No–.

E quindi? Cosa farete?–

Niente, questo è solo un avvertimento– si bloccò –sai... ho alcuni progetti per te nel caso tu ti faccia rivedere, ho alcuni progetti per l'umani­tà nel caso che tu ti faccia rivedere o meno–.

Si versò del vino nel bicchiere d'argento perfettamente lucidato e, finito di bere, si pulì la bocca umida sul vestito. Un vestito di seta e oro.

Non dovrebbe rovinarlo... in lavatrice poi si sciupa– constatai.

Questo tuo sarcasmo mi dà sui nervi. Molto– aggiunse –Ronny, non cercare di metterti contro di noi, non lo fare, potresti rimanere stupita da chi ci aiuta a farti sprofondare–. 'Papà', pensai, ma non lo dissi. Doveva essere lui.

Riaccesi i sensi e ascoltai, ma non sentii niente al di fuori del Papa con i suoi pochi gesti e i suoi sghignazzamenti. Annusai l'aria, non sapeva di... niente! Il vino era stato portato via, il cibo non c'era e l'aria era spoglia da odori.

Lanciai un'occhiata alle finestre, erano chiuse.

Non parli più, cara?–

Il mio nome è...–

Veronica–

Sì–

Che il Signore ti protegga, Veronica, visto che non sarò io a farlo–

Non mi serve il Signore– dissi levandomi dalla sedia e stringendo la borsa.

Ne sei proprio sicura?– mi faceva paura, mi faceva ribrezzo, detestavo quell'uomo con tut­ta me stessa. Feci per aprire la porta quando due guardie mi si pararono di fronte. Era­no uomini grossi come armadi, non avrei mai potuto fare niente così dissi: –Mi volete se­gregare?–

No, tranquilla, vai pure–.

Mugugnai. Un passaggio si aprì tra le guardie. Ero confusa, perché mi aveva tenuta ferma lì prima di farmi andare?

L'istinto mi aveva abbandonata, non sapevo cosa fare. Barcollante uscii, la piazza era vuo­ta, i fedeli dov'erano? Diego dov'era? E tutti gli altri?

Un'angoscia profonda mi afferrò d'impatto. Mi vennero i conati. Piegai la testa e vidi la faccia felice di Spongebob sulla mia maglietta. Volevo tornare dentro dal Papa, ma non vo­levo rivedere quell'uomo. Dov'era Diego?

Diego... dove sei?– dissi in un soffio di vento che si perse in quel niente infinito. Dov'era? Ero sola. Sola con il mondo. La mia mente si affollò di domande e del viso di Diego in tutte le espressioni. Le lacrime mi salirono agli occhi. C'erano tante strade intorno a me, cono­scevo il percorso per tornare a casa. Conoscevo la mia città, ma il pensiero che non ci fosse più nessuno da nessuna parte, un pensiero assurdo, mi aveva colta.

Mi accasciai a terra, la schiena contro la pietra calda, cercai di stare meglio, di pensare con raziocinio. Respirai affannosamente. Il mio cuore stava scivolando via. Perché mi facevo tanti problemi? Probabilmente li avrei ritrovati tutti al più presto, avevo perso mio padre e mia madre e non mi ero mai sentita così tremendamente... sola.

Anni e anni cercando di non soffrire. Anni e anni cercando di non pensare a mio padre, cercando di scacciarlo dal mio mondo. La sofferenza, però, fa parte dell'esistenza. Mi tirai su dall'asfalto, mi alzai. Guardai il cielo, il sole che mi stavano prendendo per il culo con la sua luce, lo stesso Dio mi stava sfottendo in quel momento. Piansi, aprii i rubinetti per le lacrime e quelle sgorgarono senza paura, senza timore, senza vergogna. Urlai.

Con le braccia spalancate. L'urlo riecheggiò. Cercai un sasso, non lo trovai, comunque la violenza non è la soluzione. Arrabbiata corsi via, avrei macinato chilometri per arrivare a casa, ma ce l'avrei fatta.

Mi ci vollero circa seicento metri di corsa e smisi, non perché fossi stanca, forze dell'ordine erano intervenute con caschi, manganelli e scudi e stavano spogliando tutti di cellulari, elettronica, si potevano tenere solo gli orologi a patto che non fossero digitali.

Altri poliziotti prendevano le ragazze e le toglievano i pantaloni e le magliette e gli conse­gnavano un elastico per i capelli, così fecero anche con i ragazzi. A ognuno diedero una sacca di tela marrone.

Appena cercarono di prendermi e fare lo stesso, partii diretta ad un albero, sapevo che non sarei riuscita ad arrampicarmi su nessuno di quelli, ma lo feci comunque. Mi acchiapparo­no senza difficoltà, nonostante mi dimenassi mi tolsero i vestiti. Mi legai i capelli in una coda bassa. Non possedevamo più niente, ridotti in biancheria, privati del nostro onore.

Cosa sta succedendo?!– chiese Debby.

I poliziotti, i soldatini ammaestrati, non risposero, certo non mi aspettavo che lo avrebbero fatto.

Ora basta ridateci i vestiti, stronzi!– intimò Guido. Non lo ascoltarono. Le parole non ba­stavano. Sentii un pianto, un pianto di bambino, una bambina stava piangendo perché le stavano togliendo un orsacchiotto dalle mani, quale razza di bastardo può togliere un gio­cattolo ad una bimba? Ed eccolo che lo rincontro il suo sguardo, la stessa bambina di sette anni, avrei dovuto chiederle il nome, ma non mi sembrava reale, era come un angelo custo­de. In fondo quella bimba era stata una delle mie prime sostenitrici, colei in cui avevo visto la fiducia in me, quell'esserino mi dava la forza con la sua speranza, i giovani sono il futuro, non i vecchi. Io ero il portavoce di quella bambina che, con il suo volto, mi consigliava cosa fare, che se avesse provato a dire qualcosa nessuno l'avrebbe ascoltata. Ero la sua voce.

Sì, una voce senza vestiti.

Perché le togliete un orsacchiotto? Avete paura che sia impuro?!– esclamai.

I poliziotti si voltarono. Un po' di attenzione finalmente.

Guardatela! Cosa credete che possa fare? È solo una bambina– nessuna risposta, ma al­meno la piccola aveva riottenuto il suo pupazzo.

Ora basta– disse Diego, quasi mi vergognavo a vederlo in mutande, stava andando verso una forza dell'ordine –ci avete spogliati di tutto, guardatevi, protetti dagli scudi e dai ca­schi, pronti a manganellare a sangue, cosa credete che faremmo? Non abbiamo pistole! Non abbiamo niente! Siete persone? Avete dei figli, ci potete spiegare cosa sta succedendo o volete avere il sangue di tutti noi sulla coscienza? Perché se non ce lo dite proveremo a scoprirlo da soli e scommetto che non vi piacerebbe. Volete massacrare una bambina? Ri­cordate che più persone uccidete, più famiglie avrete contro che cresceranno e progette­ranno di uccidere gli uccisori dei loro figli e nipoti– Diego fece cadere le braccia lungo il corpo.

I poliziotti non risposero, ma uno indicò la strada per il duomo.

Il Papa c'entra qualcosa con tutto ciò?– domandò la bimbetta. Un uomo le sorrise e annuì appena percettibilmente.

Perché se la prende anche con noi allora?!– sbraitò Cloe, non l'avevo notata fino ad allo­ra.

Neanche voi lo sapete, vero? Voi eseguite solo gli ordini, ma non siete a conoscenza del perché eseguite questi ordini...– dissi.

Sì– ammise uno, quello dal cuore più tenero a giudicare.

Allora chi lo sa?– chiese un ragazzo.

Scrollò le spalle.

Non lo sa nessuno, lo sa il Papa e il governo che ha mandato loro a farci questo– realizzò Guido.

Una mano calda si posò sulla mia schiena nuda, un poliziotto tentava di farmi avanzare.

Permetti?– gli disse Diego seccato. Staccò la mano dell'uomo da me, mi poggiò una mano sulla spalla, io arrossii e iniziò a camminare.

Non aveva senso non andare, ci avrebbero costretti con la forza, solo che... dove eravamo diretti?

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Capitolo 15
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

Ci scortarono fino alla piazza del Duomo, non volevo più vedere quel posto, ma almeno non c'era traccia del Papa.

Diego mi afferrò il braccio e lo strinse con forza, mi stava facendo male. Sbirciai verso di lui: il poliziotto lo teneva per le spalle, le nocche gli si erano sbiancate segno che stringeva con forza, forse per tenerlo fermo, ma perché avrebbe dovuto andarsene?

Una mosca girava placida intorno al mio viso sudato e accalorato, i capelli mi ci si erano at­taccati, il suo ronzio aumentò di troppo, tanto più che sembrava quasi quello di una libellu­la, aumentò ulteriormente: era un elicottero!

Buttai istantaneamente la testa all'insù, era un elicottero giallino chiaro, con delle parti bianche, c'era una scritta, ma da lontano non riuscivo a leggerla, era di colore rosso, il veli­volo si abbassò, sposto l'aria in modo così forte che fui sul punto di volare via, mi schermai gli occhi con il braccio libero.

Un portello si aprì sul fondo, ne uscirono delle specie di panni marroni e beige, mano a mano che cadevano vedevo vestiti abbastanza corti e camicette bianche.

Avvertii un gemito provenire da Diego.

Cos'hai?–

Le... costole–

Eh..?– gettai un'occhiata, la mano del poliziotto pigiava le costole di Diego in modo sadi­co –Ma è pazzo?! Si fermi!– con le unghie cercai di graffiargli la mano, ma lui fu più velo­ce e mi afferrò per un braccio, Debby intervenne e gli morse il braccio con cui mi teneva.

Puttana!–

In un momento di follia presi la mano di Diego senza pensare e cominciai a correre, lui mi aiutò trainandomi, io mi sforzai con tutta me stessa di correre alla velocità della luce, appe­na vidi i poliziotti dietro di me non fu difficile raggiungerla.

Tu sai dove stiamo andando?– urlò Diego.

Non urlare.. non lo so, volevo fuggire– lanciai un urlo, Diego si era fermato e io ero cadu­ta, mi rialzò e mi strinse a sé.

Perché?–

Perché? Ci stanno inseguendo e non sai cos'ha in mente il Papa...– dissi.

Tu lo sai?– sembrava che mi stesse prendendo per matta e forse lo ero. Il Papa, cosa vuoi che possa architettare un vecchietto che sa solo predicare?

No,– ammisi –ma so che...– cosa so? So che non è buono? So che mi vuole uccidere? So an­che che se non mi trovasse sarebbe capace di far uccidere anche tutti gli altri. Egoista, falsa egoista, sono pronta a scappare dalle persone che mi hanno accolta come una famiglia per salvarmi.

Oh, Diego... tu... io... hai ragione e...– mi scaraventò contro un portone, le vertebre schioc­carono.

Diego aveva un dito premuto sulle labbra in segno di silenzio. E che labbra... 'concentrati Ronny' mi dissi. Le forze dell'ordine passarono ignorandoci come in un film e i due inna­morati si baciarono sotto la pioggia... sì, magari, ci trovarono eccome, fu colpa mia ovvia­mente, sbattei la testa contro un campanello appeso al portone e il suono si propagò. Un uomo c'indicò e io lo vidi per un attimo con un'ascia in mano che pian piano calava sul mio collo fino a trafiggerlo con la punta acuminata da parte a parte.

Storsi la bocca. Muggì. Ora era un vichingo, chiunque fosse non è che mi piacesse un granché.

Gridai come una femminuccia mentre schivavo una manganellata, deglutii rumorosamente.

Portava gli anfibi, non sarei mai riuscita a farlo ruzzolare, ma i miei denti erano molto più forti delle mie braccia e dove c'era il pantalone di tela potevano penetrare dolorosamente.

Mi chinai e lo morsi. Muggì nuovamente. Prima che mi prendesse mi gettai sotto le sue gambe, nello scivolare sulla pietra mi sbucciai un ginocchio. Non lo sentii quasi, mi ero sbucciata le ginocchia milioni di volte da piccola, in qualsiasi circostanza. Sanguinava e la gamba mi tremava, controllai che non ci fosse qualche vetro o pietruzza nella ferita e igno­rando il male partii a razzo.

Diego!– ci dirigemmo verso la piazza, speravo che tutti gli altri si fossero messi in salvo, ma nell'istante in cui li vidi capii che non avevano idea di come comportarsi, erano confusi e impauriti ed io li compresi facilmente.

In un attimo solo non sentii più niente, vidi la pietra sfocata che si avvicinava sempre di più e le ginocchia che mi si ammaccavano, il dolore che entrava in me, il sangue caldo che mi scorreva sulla schiena e la maglietta gialla che si tingeva lentamente di rosso. Bramavo di rialzarmi, di non rimanere inerme, ma niente rispondeva più ai miei comandi.

Fermatevi!– pianse una vocina acuta, un angelo a giudicare da ciò che pensavo, ma le mie orecchie come il resto del corpo erano fuori uso, il mio cervello, però, no, quello continua­va a pensare e così riuscii a individuare la voce del mio angioletto, la piccola di sette anni.

Un caldo piacere s'insinuò nella mia mano, la pietra sotto il sole cocente, il senso del tatto stava tornando. Mi accorsi che gli occhi erano chiusi e mi costrinsi ad aprirli, mi accecai inizialmente, poi vidi tutto sfocato e appannato, la vista si fece più nitida ed eccolo il mio angelo che mi sorrideva timida e che con una manina afferrava parte del braccio di un poli­ziotto dallo sguardo truce con in mano un manganello.

Provai a far leva con le braccia, avevo paura che mi cedettero, caddi con la schiena al suo­lo. Digrignai i denti e non respirai per circa dieci secondi. Le fitte alla schiena erano intol­lerabili.

Spalancai la bocca, ma non ne venne suono.

La bimba si chinò su di me e mi scrutò con occhioni dolci.

Ti hanno fatto molto male? Ti medicheranno, te lo prometto– sorrisi incapace di ricono­scere tanta purezza.

Ronny...– sussurrai, volevo sapere il suo nome, ma riuscivo a dire a malapena una parola.

Io sono Fiammetta– trovai la forza di sollevarmi sui gomiti.

Fiammetta? Mai ci fu nome meno azzeccato– commentai.

Perché?–

Beh, tu sei così...– mi fermai, cosa importava del nome? Per la prima volta vidi com'era ve­stita: una lunga gonna marrone a pieghe la infagottava e una camicia troppo grande ci era incastrata dentro, i capelli castano scuro erano intrecciati e fermati sopra la testa.

Come sei conciata?–

Ci hanno costretti a cambiarci–

Cosa?– chiesi sconcertata rivolta ai poliziotti –Perché?– com'era prevedibile non ottenni risposta.

Contando sulle gambe e sulla ginnastica artistica che avevo fatto per alcuni anni mi sollevai da terra.

Non sappiamo perché ci hanno fatto indossare questi vestiti, non ce lo vogliono dire, ci hanno solo detto di andare a casa e accendere la televisione– disse Guido.

Ora ero ancora più confusa. Con delicatezza, mi spogliarono, lavarono, medicarono e mi fe­cero indossare un abito abbastanza corto bianco con, cucita sopra, una cintura di pelle in vita.

Scoprimmo presto che le macchine ci erano state sottratte come i cellulari, io, Diego, Gui­do e Debby andammo a casa a piedi.

La schiena mi bruciava come se qualcuno ci avesse acceso un fuoco, mi avevano colpito con un frustino, l'avevo visto solo adoperato sui cavalli e non pensavo che potesse fare così male, mi ripromisi di non usare mai un frustino su un cavallo.

Entrai nella libreria esausta, Debby e i suoi genitori si rifugiarono da noi e Diego rimase, solo Guido se ne andò via.

Sia Mr. Cloud che Aliviero indossavano dei pantaloni di velluto con una camicia fermati da delle bretelle, ci fecero sedere sul divano, Aliviero mi diede del ghiaccio e accendemmo la televisione.

Su ogni canale c'era il Papa e il primo ministro impassibili e muti.

Quando il primo ministro iniziò a parlare era già passata una mezz'ora da che eravamo tor­nati e quel tempo era stato insostenibile.

Sono lieto di annunciarvi che io e Papa Ziegler abbiamo stilato un accordo– Ziegler sor­rideva maligno –Chiesa e Stato si stanno ricongiungendo, in questi tempi difficili l'Italia ha tanto bisogno di un appoggio e la Chiesa ce lo può donare–.

Siamo ben lieti di collaborare signor Premier– disse flebilmente il Papa.

Sigillai la mascella, avevo terrore, puro terrore di sentire le...

Ebbene l'accordo consiste nell'abbandonare i nostri beni di lusso e ricondurci alla sempli­cità, all'amore, in questo modo ogni famiglia riceverà cibo al mese e ognuno lavorerà.

I vostri lavori sono sospesi a tempo indeterminato, ve ne verranno assegnati di nuovi pre­sto, quanto ai giovani studiosi: potranno continuare nel loro progresso solo i migliori, chiunque venga bocciato anche solo una volta lavorerà e chiunque lo sia già stato farà lo stesso.

Verranno inserite regole nuove che sono ancora da completare. Per quanto riguarda i mez­zi di locomozione vi verrà concesso un cavallo a famiglia e potrete usare le biciclette che ancora possedete. É tutto. Buona giornata– ...cazzate avrebbe detto!

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Capitolo 16
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

Ebbi il coraggio di guardare le facce di tutti: i genitori di Debby erano impietriti, Debby stringeva gli occhi per non piangere, Aliviero e Mr. Cloud stavano per avere un attacco isterico, Diego mi guardava con occhi dolci ed io... io stupidamente avevo sempre sognato tutto questo.

Volevo tornare indietro nel passato, esattamente come stava per accadere, sin da quando vidi il primo film sul '700 o lessi “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen. Adesso, però, mi rendevo conto che tutto ciò era una sciagura, un qualcosa di tremendo, la mente mi vagò tra tutti i libri e i film che avevo letto sui tempi antichi, in nessuno di essi le donne veniva­no trattate con un minimo di rispetto o amore. Perché era ovvio che abbandonando i pro­gressi della tecnologia che il mondo aveva ottenuto in anni di sacrifici, anche le leggi sareb­bero cambiate, sarebbero regredite.

Espirai dalla bocca i terribili pensieri che stavo avendo: niente musica, niente jeans, niente scarpe da ginnastica, niente libertà, nessun diritto per me e per Debby. Come sarei riuscita ad essere me stessa se probabilmente come lavoro avrei dovuto fare la tessitrice? E i miei capelli? Li avrei dovuti tenere legati per il resto della mia vita, il mio meraviglioso simbolo di libertà assoluta... o peggio, li avrei dovuti tagliare?

Avevo l'impressione che fosse tutto un terribile incubo. Esistono avvenimenti così carichi di emozioni, dolore o felicità che siano, da farti perdere la cognizione del concreto e dell'a­stratto.

La gente sarebbe andata in rivolta e poi? Poi li avrebbero ammazzati tutti con una ghigliot­tina, oppure li avrebbero rinchiusi in una cella fatiscente a morire di fame, nessuno si sa­rebbe più ribellato e la Chiesa avrebbe vinto e i ricchi avrebbero vinto, come sempre d'al­tro canto.

Quando ero arrabbiata sentivo come se il cuore si ribellasse e volesse uscire e sputare tutto il suo rancore, come se, invece del sangue, nelle vene, mi scorresse del veleno che dovevo eliminare al più presto.

In quei momenti piangere non mi serviva, ridere neppure, mi serviva parlare, mi serviva urlare, leggere, mi serviva potermela prendere con qualcuno, ma mio padre non c'era più e, anche se stento a crederlo ancor oggi, mentre scrivo, mi mancava.

Bene... chi sa andare a cavallo?– chiesi per rompere quel silenzio opprimente.

Io e Aliviero anche– disse Mr. Cloud. Diego scosse la testa, i genitori di Debby pure e Debby disse: –Io ho cavalcato un pony per cinque o sei lezioni quando avevo sette anni e tu?–

Mai provato... beh, almeno qualcuno di noi ne farà uso– conclusi.

Fortunatamente non siete mai stati bocciati, cari ragazzi– disse Aliviero con un accento aspro.

Io non ho capito una cosa, se riceveremo del cibo al mese, sarà sempre quello, non esiste­ranno supermercati, giusto?– domandò Diego.

Niente di niente, solo quella sbobba che ci propineranno– confermò Mr. Cloud.

Non farò più la cioccolataia– sussurrò la mamma di Debby –che lavoro avremo?–.

Uno brutto– suppose il padre.

Regole ancora da completare– bisbigliai.

Questa è la parte più importante, il lavoro, il cibo e tutto il resto è il piccolo, ma le regole, la legislazione, quella è il succo, vi consiglio di non spremerlo, potreste schizzarvi di acido- disse Mr. Cloud.

Schiacciati da un vecchio rincoglionito, tutta l'Italia schiacciata da un vecchio rincoglioni­to!

Mi grattai la fronte e mi passai la mano in faccia sconsolata. Il campanello trillò, Aliviero andò incontro alla porta.

C'è il vostro cavallo– disse un uomo insignificante –ah, domani verrò a prelevare questi tre ragazzi,– c'indicò –il sindaco vuole parlarvi–.

Vuole anche imballarci?– ironizzai. Non rispose.

Solo a noi tre?– chiese Debby con la sua dolce e suadente voce.

No, a tutti i ragazzi di Milano che non abbiano superato la maggior età e che abbiano già iniziato le elementari– rispose lui e se ne andò senza dire o fare niente.

Non vedevo l'ora di farmi ridicolizzare davanti a tutti.

Arrivata sera ero talmente distrutta che non volevo nemmeno cambiarmi i vestiti o farmi una doccia. Un presentimento mi percosse, spalancai le porte dell'armadio: gonne e cami­cie, scarpette, una vestaglia, i miei vestiti erano scomparsi, come avevano fatto a prenderli?

E i libri...! Mi gettai tra i libri cercando i miei preferiti e osservando man mano i titoli, non c'era più nemmeno un fantasy, un horror, un thriller, in compenso le storie della vita di Gesù abbondavano. Presi una Bibbia, la sfogliai, la rigirai, ne aspirai l'odore, lessi un ver­so: i dieci comandamenti, non nominare il nome di Dio invano, 'e intanto l'hai già nomina­to' pensai, con una penna nera cancellai tutti i comandamenti, rovinai quel libro, se così si po­teva chiamare, e lo strappai, pagine volarono ovunque. Raccolsi i pezzi e andai dritta verso il cestino, poi ci ripensai; basta, non era un sogno, bisognava reagire. Aprii la porta d'en­trata e buttai la Bibbia distrutta a terra.

Richiusi la porta di botto!

Quando mi svegliai dal sogno tormentato di quella notte ero nuda nel letto, strisciai ancora travagliata fino alla doccia, girai il rubinetto e scoprii che l'acqua era calda, dopo circa cin­que minuti, però, un getto freddo m'investì e rigirai il pomello veloce. Per fortuna faceva caldo. Non sapevo come vestirmi, optai per una lunga camicia bianca che sembrava un ve­stito, mi stupii che mi stesse anche piuttosto bene e si adattasse al mio corpo perfettamente. Ma le scarpe? Io avevo bisogno di scarpe comode per correre, lì vedevo solo ballerine di camoscio e scarpette che sembravano far sanguinare i piedi da quant'erano piccole. Nel­l'angolo più remoto dell'armadio scovai degli stivali marrone chiaro, erano freschi, comodi e ottimi per correre visto che non rischiavano di volarmi via dal piede al primo passo.

Scesi per il caffè e magari una brioche. Tutto quello che trovai era del pane. Pane sordo.

Non c'è niente da mettere sul pane? Non c'è nemmeno della frutta?– chiesi ad Aliviero.

Abbiamo la ricotta, è buona e come frutta ci sono alcune ciliege, purtroppo niente caffè, ma il latte caldo posso preparartelo– mi rispose gentilmente, andava più che bene tutto, solo, per quanto tempo sarebbe durata la ricotta? E il latte? E le ciliege? Il pane sarebbe sempre stato così dorato e profumato o si sarebbe ridotto ad una forma piatta e nera piena di muffa? Una volta avevo letto che durante la guerra nel pane ci mettevano il cartone e le persone lo mangiavano comunque perché avevano troppa fame, sarebbe successo lo stesso?

Grazie. Dov'è Mr. Cloud?–

Aliviero m'indicò con la testa il piano di sopra. Come avrebbe fatto Mr. Cloud senza il suo amato caffè e senza il giornale? Poteva sembrare una sciocca routine, ma era l'unico gra­nello di quotidianità che Mr. Cloud si poteva permettere e, portarglielo via, era brutale.

Mangiai un poco. Avevo intenzione di parlare con Mr. Cloud, ma vennero a prendermi pri­ma.

Finora non avevo mai avuto posti in cui volessi restare, volevo solo scappare, ma ora, ora abbandonare la mia famiglia era così dura, mi rassicurai pensando che presto sarei tornata. Ero stata abituata sin da bambina a saper badare a me stessa, non sarebbe stato impossibi­le affrontare il molle sindaco di Milano.

Procedemmo a passo di marcia e arrivammo in un tempo che mi parve infinito e, allo stesso tempo, troppo breve.

Ci costrinsero a schierarci in file parallele e ordinate, i miei muscoli erano tesi, come se do­vessero essere sempre pronti a scattare per partire all'attacco.

Mi accorsi che avevo le spalle rigide, le rilassai. Il sindaco si presentò e cominciò a parlare:

Voi siete la parte più importante di questa città, di questo paese, voi giovani. Sappiate che il vostro dovere è rappresentare la giustizia, la sapienza, la purezza; alcuni già lo fanno al­tri, invece, devono migliorare. Le ragazze, le ragazze sono un punto critico di questa nuova legislatura, io non sono d'accordo, ma è stata approvata una legge e le donne non possono più portare i pantaloni, né fare lavori da colti, lavoreranno nelle fabbriche.

Dovranno mantenere un comportamento rispettoso nei confronti dei loro colleghi uomini–

Alzai il braccio. Il sindaco annuì.

Quelle che stanno studiando al liceo possono continuare e laurearsi?–

Se lo farete non otterrete alcun genere di stipendio e non potete andare oltre il diploma li­ceale–.

Questo fu uno di quei momenti in cui il mio cuore si riempiva di veleno.

Non è giusto! Le sembra una legge questa?!–

No, ma devi sapere che la legalità non sempre combacia con la giustizia–

Io non voglio lavorare in una fabbrica! Non voglio e non mi arrenderò!– protestò Debby.

Presto tutte le ragazze urlarono e si sbracciarono contro quell'ingiustizia che ci perseguita­va. Trovai Cloe.

Sei felice della Chiesa adesso? Volevi diventare un medico, vero? Me lo dicesti una volta, non potrai farlo! E questa è in parte colpa tua!–

Il sindaco continuò imperterrito ad elencare ciò che non avremmo potuto più fare:

Non potrete più rispondere in modo sarcastico o irrispettoso agli uomini a meno che non siano loro a darvi il permesso.

Saranno loro a decidere chi avere tra voi. Non potrete più praticare sport.

Vi sarà tolta la libertà di parola.

Per chiunque violi queste leggi è prevista una pena dalla galera al rogo nel caso in cui siate condannate per eresia e proclamate streghe.

I maschi come punizione riceveranno ghigliottina, impiccagione e fustigazione, ma le rego­le che dovranno rispettare saranno di meno e avranno quasi tutti i diritti di ora–

Nessuna di noi soccomberà!– gridai.

Allora ognuna di voi verrà condannata a bruciare nelle fiamme dell'inferno–.

I passi del sindaco risuonarono lugubri sulla predella di legno... 

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Capitolo 17
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18

Il sindaco tornò.

Ricordatevi che domani dovrete tutti presentarvi davanti al Duomo– disse.

Cosa sarebbe capitato? Cosa potevo fare io contro la Chiesa? Niente. Una risposta sempli­ce e concisa.

Inclinai la testa di lato e vidi due occhietti vispi,tanto dolci da scaldare il mio cuore di pie­tra. Fiammetta. La osservai incapace di dire niente, mi si era formato un groppo in gola, come avrebbe reagito una bambina sapendo di essere rinchiusa senza avere nemmeno co­nosciuto il cielo?

Forse meglio di noi, che siamo state catturate e buttate in una gabbia senza rimpianti, noi che abbiamo conosciuto la libertà! 'Mi mancherà la felicità...'.

Non ti arrendere– sussurrò Fiammetta.

Come faccio? Sono solo una ragazza, una sola–

Anche il Papa è uno solo–

E' vero,– confermai –ma lui è pazzo–

Perché tu credi di essere normale?– ridacchiò.

Quella ragazzina pareva onnisciente, mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stes­sa.

Rimasi a bocca asciutta.

Tu cosa vuoi diventare da grande?– mi chiese.

Non lo so... forse... non lo so– effettivamente non ci avevo mai pensato: amavo i libri, ma non avevo mai provato a scrivere, quello in cui ero brava era filosofia, ma non potevo certo diventare filosofa.

Io lo so cosa vuoi diventare: tu vuoi diventare libera, un'avventuriera, una specie di India­na Jones–

Ma quello non è un lavoro, piccola– dissi e subito me ne pentii. Stavo parlando come mio padre, stavo parlando come un adulto, un cinico adulto. Lei mi guardò con malinconia mi­sta a delusione.

Io ti credevo pazza,– iniziò a infilare la lama –ma, invece, sei normale, come tutti gli altri- e girò il coltello nella piaga.

Era incredibile, l'unica volta che qualcuno mi amava per quella che ero, diventavo cinica. Stavo perdendo il mio “tinnulo campanello”, quella sfrontata bambina che viveva in sim­biosi con me e che io avevo sempre ascoltato. Non avrei mai permesso che quella bambina diventasse una voce arrochita dagli anni e dai pensieri consoni ad un adulto.

Io voglio fare qualcosa, Fiammetta, ma non so cosa...– mi guardò peggio di prima.

'Devo seguire il mio tinnulo campanello' mi dissi.

Non ci dobbiamo fermare Fiammetta, dobbiamo continuare la nostra sommossa contro il Papa, continueremo e vinceremo. Vinceremo perché noi donne e anche gli uomini hanno diritto ad un futuro migliore–

Come farai ora che ti possono condannare per stregoneria quando vogliono?– ci pensai un momento. Riflettere non serviva, niente mi affiorava alla mente! Chi avrebbe seguito una rivolta se fosse stato sicuro che, facendolo, sarebbe andato dritto su di un rogo?! Fiammetta aspettava una risposta.

Non lo so... oh, ma lo saprò presto, stanne certa– e le sorrisi, ma trovare una soluzione in simili condizioni non sarebbe stato di certo facile.

 

Tornai a casa più sconsolata che mai, Debby si tratteneva per non piangere, era facile capi­re che era una persona molto emotiva. Una di quelle persone alle cui la gente riserba le mi­gliori attenzioni. Lei era sempre consolata e coccolata. Io, al contrario, venivo sempre vista come qualcuno che sapeva badare a sé stessa e lo ero, cresciuta con un padre che nemmeno mi guardava, ma questo non voleva dire che non desiderassi un po' d'affetto, di dolcezza. La vita non aiuta mai chi appare più forte degli altri, molto spesso le persone ti disprezza­no, t'invidiano, ti odiano, ti ammirano, ma non fanno mai un passo nella tua direzione.

Ma, io credo, che non esistano persone forti e persone deboli. Io credo che sia solo un'ap­parenza. Ognuno di noi saprebbe vivere da solo, chi più chi meno e ognuno di noi ha biso­gno di amore. Non siamo fatti con uno stampino e le emozioni contrastano fin troppo spes­so dentro di noi.

Debby non era l'unica che voleva piangere. Io, però, riuscivo a trattenermi, Debby non si piangeva addosso, ma non riusciva a fermarsi. Era tremendamente emotiva. Mentre le la­crime le scorrevano lei cercava una via di fuga, così mentre gli ingranaggi del mio cervello lavoravano strenuamente, io ero distrutta e il cuore pompava sangue al ritmo di rock.

Guido, che ci aveva trovate prontamente, consolava Debby e Diego Fiammetta. Ed io? Io non avevo alcun bisogno di sentire parole gentili, io ero una dura.

Emisi un risolino nervoso. Nessuno se ne accorse.

Tornate a casa io e Debby stavamo sedute per terra, circondate da libri e parlavamo senza sosta con delle fette biscottate che ci accompagnavano riempendoci lo stomaco.

Come facciamo, Ronny? Abbiamo studiato tutti questi anni per tornare a scuola, non po­terci laureare e andare in fabbrica?– sui giornali avevamo trovato scritto che saremmo tut­ti (quelli che potevano) tornati a scuola il lunedì dopo.

No–

Appunto, quindi fatti venire un'idea!–

Ehi, non sono l'unico essere pensante qui, giusto per puntualizzare– dissi, però, non ave­vo idee, quale donna sarebbe stata disposta a morire pur di non lavorare in una fabbrica? Esi­stevano delle donne deboli. E quale uomo sarebbe stato disposto a morire per una don­na? Esistevano anche degli uomini deboli.

Allora cosa potevo fare? Il dolore, la frustrazione stavano prendendo il sopravvento.

'Io non voglio vivere la mia vita come una schiava, non voglio che Fiammetta finisca per essere solo una ragazza sfruttata come tante.' i pensieri mi s'ingarbugliavano in testa come fili sottilissimi in una tela, come un insetto nella ragnatela di un ragno! E la paura cresceva e con questa l'angoscia. Il macigno sul mio cuore pesava diverse tonnellate, deglutire era diventata un'impresa ardua.

Non c'era rimedio! Non c'era soluzione! Non potevamo insorgere, non avremmo mai vin­to!

Non piangere, Ronny!– Debby era preoccupatissima. Già, io non potevo piangere, ma io non ero niente, solo una pazza, una pazza con la mente vuota.

Troveremo una soluzione– mi disse. Essere confortata era confortevole, consolatorio, ma non mi piaceva. Mi sentivo così inutile, piangere non avrebbe aiutato...

Stetti vario tempo a riflettere e più mi concentravo, più avevo voglia di rompere tutto, d'in­cendiare tutte le Bibbie e tutti i crocifissi...

Fiamme! Fiamme! Fuoco! Ecco la soluzione!

Dobbiamo incendiare le fabbriche! Dobbiamo scrivere giornali e pubblicarli! Dobbiamo essere dei partigiani!–

Che?–

L'unico modo per combattere ciò che stanno costruendo è distruggerglielo! Lo faremo in modo pacifico, quando tutti saranno andati a casa, non morirà nessuno, saranno come dei gesti d'avvertimento, minacce che non avranno un seguito–

Dei protestanti, un qualcosa di segreto–

Sì! Ma noi non ci limiteremo a nasconderci, noi... noi reagiremo!–

Sembra un'idea riciclata... insomma, stiamo solo copiando i partigiani, con un po' più di azione–

Loro hanno vinto. Vuoi vincere o vuoi essere originale. No perché altrimenti ti posso or­ganizzare il rogo con i fuochi d'artificio al posto delle fiamme!– ed eccolo il sarcasmo con cui esco da ogni situazione spiacevole.

Ok. Resta il fatto che sarà difficile–

Le idee semplici non sono il mio forte, questa è l'idea che mi è balzata, se non ti sta bene pensane una tu. O devo fare sempre tutto io?! Tu stai lì a piagnucolare senza fare niente e io dovrei trovare un qualcosa di migliore da organizzare! Scusa, ma io non voglio essere una serva per il resto della vita, e sono disposta a mettere a ferro e fuoco ogni proprietà della Chiesa per questo. Se tu non la pensi così fai le tue maledette manifestazioni pacifiche e muori–.

Debby era scioccata, non l'avevo mai trattata così, mi dispiaceva, ma ero nervosa ed ero una persona come lei, non un robot da combattimento.

Scusa...–

Hai ragione tu. Io ho solo pianto, mentre tu ti stai impegnando davvero. Forse t'intralcio solamente– proclamò fredda e se ne andò lasciandomi sola tra tutti quei libri dove il corag­gio, l'astuzia e la cattiveria non avevano mai intaccato un'amicizia. E, per la prima volta, vidi che ormai avevo assoluto bisogno di altre persone per stare bene.

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Capitolo 18
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

La realtà supera sempre la fantasia. Chi se lo immaginava cosa sarebbe successo in questo futuro?

Sedevo ancora a terra, incapace di rialzarmi. Pareva l'inizio di un incubo, quel momento in cui cerchi di scappare, ma alla fine ti ammazzano e poi ti svegli. Sì, ma dove? In paradiso? All'inferno? In ogni dove, in nessun dove.

Avvertii una musica forte e armoniosa insieme, riconobbi subito la canzone.

Non mi voltai per cercare di scoprire da dove provenisse il suono, mi sollevai e presi un li­bercolo così sottile che sembrava potersi spezzare. Ecco come apparivo io. Io ero la “Gab­bianella e il Gatto”. Piccola, bassina, sottile come un giunco, ma resistente come una canna di bambù. Riaffogliai quella storia, quel libricino minuscolo che ancora tutti leggono ai propri figli. Ecco l'emblema del fatto che per sopravvivere non devi essere grosso, devi avere sostanza. E l'acqua, per quanta possa essere, non saprà mai di niente, mentre un unico chicco di caffè ha il suo autentico sapore originale.

Chi piace a tutti, sostanzialmente non piace a nessuno. Meglio essere amata da pochi che odiata da tutti.

Chiusi “la Gabbianella e il Gatto” e lo riposi con cura, mi era rimasto solo lui. Non si era fatto vedere ed ora era solo, solo in mezzo a decine di Bibbie. Finché quella fiaba non arde­rà su di un candelabro della Chiesa, io non brucerò su di un Suo rogo.

Scesi in strada.

Debby! Debby!– mi affacciai alla sua finestra come Romeo al balcone di Giulietta –So che ci sei. Debby io sono umana, sbaglio come tutti, ma so amare. Non mi era mai capitato di affezionarmi così tanto a delle persone e tu sei tra loro. Esistono tanti tipi d'amore, sai? Uno è quello che provo per te, si chiama amicizia, poi c'è quello per Diego. Nessuno è quello vero. Io, in qualche matto modo, ti amo e, qualunque persona di quelle che mi stan­no fissando adesso sbalordite, pensi che sia una lesbica, non ha capito niente. Non ha pro­vato la vera amicizia, quel tesoro prezioso, che io non voglio perdere per colpa di un vec­chio e del suo patrimonio...– sussurrai il suo nome sperando che si affacciasse.

Vidi il suo viso contornato di caldi boccoli biondi.

Ti perdono– disse –e smettetela tutti di guardarla così!–

Per inciso,– iniziai –anche se fossi stata una lesbica, non sarebbero stati fatti vostri e sarei stata fiera di dirvelo, ma siccome non è così, ci tengo a precisarlo– feci l'occhiolino a Deb­by. Lei scoppiò a ridere. Mi stavo prendendo gioco di tutti e mi divertivo. Non sarei cam­biata mai radicalmente e questo che importava? A lei piacevo così com'ero, come a Diego, come a Guido, come ad Aliviero e Mr. Cloud. Come a Fiammetta.

Guardai le donne, gli uomini, i bambini, i cavalli, le sentinelle incaricate di tenerci a bada e ricordai il piano di essere delle partigiane...

Se non avessi infranto la legge non avrebbero potuto punirmi e ricordo bene che nei “Pro­messi Sposi” quel porta guai di Manzoni aveva scritto che molto si riusciva a fare pur se­guendo le regole del galateo, fino a sbudellarsi, dicevano lui e il suo alter ego.

Il popolo si era fermato, come ad aspettare la mia decisione, io mi avvicinai ad una donna che aveva in mano una sedia di legno, gliela chiesi e me la porse.

Piantai bene la sedia a terra e ci salii.

Le persone mi guardavano, le sentinelle non osavano fiatare. Mi chiesi dove le avessero trovate e chi fossero davvero, forse dei religiosi. Se fosse stato così sarebbe stato semplice, i religiosi che fanno parte del clero, ma non sono né il Papa né dei vescovi importanti, sono dei completi abietti.

Sono regredita anch'io. Prima scalavo delle statue, organizzavo concerti e scrivevo sul blog per aggiornarvi dei cambiamenti. Ora sono in piedi su una sedia mezza tarlata– risoli­ni –sapete cos'ha detto il sindaco a noi giovani? Sono sicura che non lo sapete e ve lo dirò io, visto che, probabilmente, gli unici giornali distribuiti e quell'unico canale in televisione, vi diranno ben poco di vero– levai la testa verso il cielo domandandomi cosa stesse facendo Dio in quell'istante, giocava a poker?

Sono lieta di annunciarvi che, cari i miei uomini liberi, ora non lo siete più. Soprattutto le donne, torneremo ad essere dei cani da borsetta. Torneremo a soffrire dentro scarpette troppo piccole, a non essere padrone di niente, neppure di noi stesse. Lavoreremo in delle fabbriche, scordatevi i vostri lavori, scordate ciò che amate. Scordate gli scioperi. Scordate il rispetto– gli occhi cominciavano a bruciarmi e le labbra mi tremavano, costrinsi me stes­sa a contenermi –sapete, è triste pensare che colui che ci sta per governare pensi che noi siamo utili, molto utili, unicamente utili... a proliferare. Siamo donne, il nostro compito è quello di adempiere ai nostri doveri: stirare, far da mangiare, servire, amare, aiutare–

I nostri mariti sanno chi siamo, non sono arretrati, ci amano ancora– disse una ragazza di circa vent'anni.

Hai ragione, gli uomini, però, tranne rari casi, sono facilmente condizionabili. Quanto cre­di che ci metteranno a trovare mitico il non picchiarci, l'occuparsi anche loro delle fac­cende? Quanto credi che ci metteranno ad abituarsi ad andare ogni sera dai loro amici a diver­tirsi? Sarebbe normale. Non sta a loro proteggerci, per quanto possano essere buoni, non possono risolverci i problemi. Siamo noi le padrone del nostro destino–

E anche se dovessimo lavorare in una fabbrica? Avremmo da mangiare, non moriremmo– guardai la donna che aveva appena parlato, giovane e bella.

Ma non saremo mai medici, né avvocati, né niente, saremmo solo delle operaie–

Però vivremmo, che m'importa del resto?– continuò imperterrita.

Non le sembra ingiusto?!– gridai.

Sì–

Allora facciamo tutte insieme qualcosa–

Cosa?–

Ribelliamoci!–

Se ci ribelliamo, moriamo. Non voglio morire– annunciò guardandosi attorno in cerca di alleate –voi lo volete?– nessuno si mosse.

Se ci ribelliamo e vinciamo, avremo molto di più!– mi spazientii.

E se ci ribelliamo e perdiamo? Ho una famiglia, voglio vivere ragazza! In che mondo vivi? Quello delle fiabe? Questa è la vita vera! Non puoi avere tutto quello che desideri, sveglia­ti una buona volta– un brusio si levò.

Se si vuole davvero una cosa, la si può ottenere impegnandosi!– urlai.

Sono potenti, ricchi, sono di più, hanno orde di fanatici, credi che abbiamo qualche possi­bilità?–.

Annuii triste, certo che sì, certo che le avevamo. Il popolo ha qualsiasi possibilità, ma deve crederci.

L'hai fatto il tuo teatrino. Dici molto di vero, tutto, ma purtroppo è irrealizzabile, ora sei diventata famosa. Finiscila perché il tempo degli scherzi è terminato, bambina, studia e poi raggiungici in fabbrica, ti accoglieremo con calore–.

Fu come se mi avessero uccisa, una pugnalata tanto forte da farmi svenire. Mi avevano schiaffeggiata con la realtà, con il cinismo della gente, con il suo sottovalutarsi.

Cosa dirà ai suoi figli?– ebbi la forza di chiedere.

I miei figli sono maschi– replicò. Questa volta un pugno mi colpì allo stomaco, eccolo an­cora: il menefreghismo, la cattiveria, l'egoismo.

E delle bambine? Le mamme delle bambine che diranno alle loro figlie?–

Che questa è la legge ed è sempre stato così– rispose una donna dolce di mezz'età.

Ma.. ma... ma...– balbettai –siete tutte d'accordo con questa donna? Volete solo sopravvive­re?–.

Risposta affermativa. Incerta, era come se non ci fossero alternative, loro dovevano essere sottomesse.

Bene, allora combatterò da sola–

Ti farai uccidere– disse la donna di prima.

Preferisco morire da viva, che vivere da morta. buona esistenza, io voglio vivere, grazie comunque– finii e me ne andai.

Il popolo era a bocca asciutta, combatterò, combatterò, combatterò... sola, o insieme a chi vuole vivere.

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Capitolo 19
*** Capitolo 20 ***


Mi lasciai alle spalle quella folla ingrata, Debby mi raggiunse:

Non sempre tutto può andare come vuoi tu–

Qualcosa la farò accadere, giuro su me stessa, per Fiammetta–.

La notte fu tormentata, buia come poche volte, che fine avevano fatto le stelle? La luna era ridotta ad una buccia d'arancia.

I miei occhi non riuscivano ad abituarsi alle tenebre, in fondo, anche loro erano spenti. I miei occhi neri erano di colpo diventati opachi, tristi, perdenti.

Io, però, non ero una perdente, le donne si sbagliavano, potevo ancora portare avanti una rivolta, ma sola. Sola cosicché nessuno si ferisse, cosicché la Chiesa non avesse avuto prove contro Diego, Guido, Debby, Mr. Cloud e Aliviero. Avrei scatenato qualcosa di terribile e sarei andata avanti fino alla fine. Mai arrendersi, neppure quando tutte le speranze appaio­no vane. Mai.

Ed eccolo, apparire all'orizzonte, quel dolce raggio di sole. 'Est, mi potrei rifugiare nella terra dell'est, con Diego, vivere per sempre in Oriente' le nuvole che formavano i miei so­gni vagarono e gli occhi non erano più spenti, non c'erano, perché si trovavano in cielo, vo­lavano!

Mi vestii, lasciai i capelli sciolti e mangiai pane con burro. Per poco non mi strozzai, bevvi dell'acqua.

Si fece l'ora di andare dal sindaco... ancora.

Questa volta le file si formarono velocemente, senza che ce lo ordinassero, stavamo diven­tando dei burattini.

Bene, ragazzi, benvenuti. Questo è un giorno speciale– cominciò il sindaco.

'come se gli altri non lo fossero stati' pensai –Il Papa non è ancora tornato a città del Vati­cano, vi farà compiere un... esercizio– disse imbarazzato.

Perché provava imbarazzo? Che genere di esercizio aveva in mente?

Lo vidi arrivare con le guardie d'intorno, i suoi occhietti malefici scrutavano tutti noi come raggi laser. Rintracciai Debby e Guido, ma non trovai né Fiammetta, né Diego.

Il Papa esordì.

Dovete imparare ad essere coppie, famiglie, dovete imparare a stare ai vostri posti– il re­spiro mi si accentuò –oggi, voglio che ogni maschio scelga una femmina e che si dicano re­ciprocamente i loro compiti per la vita– tralasciando il sessismo evidente del Papa, non sembrava tanto male come esercizio.

I bambini dai sei ai tredici anni compresi sono esenti, andatevene pure alle vostre abita­zioni– ordinò con un sorriso bizzarro e inquietante insieme.

Fiammetta quindi se n'era appena andata, una in meno.

Forza, uomini, compiete le vostre scelte– proclamò.

Non sapevo cosa fare. Dov'era Diego? Tutto questo mi provocava un sensazione sgrade­vole indescrivibile. Un ragazzo si avvicinò a me e lo scacciai con la mano: –Ho un ra­gazzo, sceglitene un'altra–

No– controbatté.

Vattene!– mi prese per le braccia, ancora una mossa e mi sarei difesa –Lasciami– sibilai. Non allentò neppure la presa, calcolai la mira per un calcio assestato, ma arrivò Diego che lo strattonò via.

Lo abbracciai con tutte le mie forze, il suo calore, il suo profumo. Lui.

Sono qui– bisbigliò.

Noi rimaniamo in due– annunciò un ragazzo. Lo conoscevo, sapevo che era gay e che, probabilmente, aveva sperato fino all'ultimo che non ci fossero abbastanza ragazze.

Manco io– disse una ragazza, lui andò con lei, ma rimase il suo compagno.

Tu trovatene un'altra, intanto, sparisci– sanzionò il Papa. Quello scappò via.

Vi voglio uno davanti all'altra– Diego mi si parò davanti e fui sul punto di piangere, che sciocchezza era quella!

Come ti chiami, compagno di Veronica?– chiese a Diego.

Diego–

Venite sul palco–. Costrinsi le mie gambe a muoversi, avrei fatto da cavia per l'esercizio.

Allacciammo le mani e ci guardammo negli occhi.

Diego,– lui fece un cenno d'assenso –dille i suoi compiti per il futuro–.

Deglutii.

Ronny, devi essere felice, devi essere amata da me, devi seguire i tuoi sogni e non farmi di­sperare come fai sempre, devi cacciarmi se non ti amerò e lasciarmi punire chiunque ti vo­glia fare del male,– pronunciò Diego –devi essere te stessa, perché ti amo e ti seguirò ovun­que andrai–. Sorrisi.

Non sono questi i suoi compiti, ti faccio vedere– il Papa lo scantonò con una mano, quan­ta forza aveva? Diego ne era colpito quanto me.

Devi amarmi, volermi, non tradirmi, dovrai darmi progenie e seguire i precetti, devi pre­gare, fare da mamma e lavorare. Il tuo impegno più grande è 'ora et labora'. Non mi devi deludere e devi mettere gli altri prima di te, perché è questo ciò che una donna deve fare– concluse quel... quel... pusillanime!

E lei– iniziai –deve andare a...– storsi le labbra –pregare, non nominare il nome di Dio in­vano e lasciare che io sia libera–.

Arricciò il naso.

Andiamo avanti, fatelo anche voi– disse agli altri giù dal palco. Per diversi minuti potei sentire il calore della mano di Diego, lo sguardo gelido del Papa e l'omelia che veniva reci­tata appena sotto di me. Quando fu finita.

Ziegler fece ripetere a Diego ciò che doveva dire. Lui sbagliava volontariamente.

Ogni volta che sbagliava, sua Santità lo colpiva con la mano con su un'anello tanto grande che sulla guancia di Diego si stava formando un livido violaceo. Cercavo di fargli capire che doveva dire quelle cose e che io non me la sarei presa, sapevo che era obbligato. Ma lui continuava ancora e ancora e ancora. Quando il Papa vide che non aveva nessun effetto, se la prese con me. Passandomi dietro mi strattonò i capelli. Diego contrasse la mascella, ma sbagliò nuovamente. Il Papa mi sferrava calcetti dolorosi. Lo strazio sembrava non avere fine.

Calcio. Sbaglio. Strattone. Sbaglio. Spinta. Sbaglio. Schiaffo. Sbaglio. Sberla. Sbaglio.

Diego si sarebbe infuriato presto, ma perché non diceva quello che voleva Ziegler?!

Preso da un impeto di collera Ziegler sfilò dal vestito una frusta e mi colpì al fianco.

Gridai. Sollevandomi la maglietta vidi la pelle lacerata. Lo avrei azzannato alla gamba, lo avrei buttato giù dal palco. Lo avrei massacrato. Ucciso!

Perché?! Lei non ha fatto niente!– urlò Diego.

E' una donna, niente di più. Ora dì gli ordini giusti!– rispose il Papa.

Diego si arrese.

Ed ora l'ultimo esercizio: uomini osservate il corpo della vostra donna per constatare che ella non abbia imperfezioni–.

La saliva mi andò di traverso.

Ci sta chiedendo di spogliarle difronte a tutti?– disse Diego contrariato.

Sì, sbrigatevi!–.

Lui mi guardò con tenerezza, ma io ero troppo sconvolta; appena voltai la testa vidi le ra­gazze con i seni fuori o in reggiseno. Diego mi sfiorò la spallina del vestito per farmela sci­volare giù. Quel gesto mi fece traboccare.

NO!– ero fuori di me –Non lo farà mai! Io non mi farò vedere nuda da tutti! Sono una per­sona, una persona che vuole il rispetto!– mi affannai –Non fatelo! Non fatelo! Non vi dimo­strate tanto deboli! E lei– mi rivolsi a Ziegler –lei è un porco! Un'uomo spregevole, schifo­so, orrendo– gli lanciai un pugno che lo piegò in due.

Ronny!– urlò Diego. Quest'azione non era resistenza, era attacco e non si poteva sapere cosa avrebbe comportato.

Ma quando il Papa riuscì a raddrizzarsi lo vidi sorridere. Che stupida! Era una trappola, sperava che mi ribellassi! Questo andava ben oltre le regole...

Prendetela– sogghignò Ziegler malefico.

Da quel momento in poi non sentii più niente, vidi volti terrorizzati e lanciai un bacio a Diego.

Sprazzi di ricordi vedono una fabbrica con dentro le operaie che lavorano torturate e sgri­date.

E poi... buio. Il mio destino. L'eretica.

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