The lost life

di A l i c e
(/viewuser.php?uid=141795)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


The lost life
The lost life
 

  *Prologo*

 

   L’orologio tondo appeso alla parete scrostata della stazione segnava la mezzanotte passata e in giro non c’era anima viva. Il lento scorrere del tempo era regolarmente scandito dal frustrante ticchettio delle lancette nere che rimbombava in modo quasi assordante tra i binari desolati. Poco più in là, sul cartellone degli orari dei treni, l’unico foglietto affisso sbatacchiava freneticamente contro la lastra di compensato, tenuto in gabbia solo da un pezzettino si scotch. Le fredde lampadine al neon rilucevano di una fioca illuminazione intermittente, creando di tanto in tanto piccoli scoppi.
   L’aria stagnante d’inizio marzo era fin troppo calda e afosa e sembrava essere attraversata da fremiti nervosi che la ripulivano dell’odore maleodorante di cui era pregna. Di tanto in tanto, un soffio di vento più violento degli altri faceva scricchiolare le ultime foglie secche rimaste a terra, dando un tocco di grazia a quella sinfonia di elementi. Perfino la strada che fiancheggiava la stazione, solitamente gremita di traffico, quella sera pareva deserta.
   Alzando gli occhi al cielo, le poche anime ancora sveglie si sentivano piccole e insulse: il manto scuro che avvolgeva la città era invaso da stelle rese opache dallo strato di nubi cariche d’acqua che le coprivano, rendendole ancora più lontane del dovuto.
   I binari che si affollavano alla stazione erano lucidi e lisci e il lieve strato di pioggia che li copriva rifletteva la triste desolazione di quel cielo senza luna.
   Si poteva già scorgere la luce dell’ultimo treno della giornata che il lieve guscio di silenzio fu rotto da un rombo potente, e dal firmamento cominciarono a cadere grosse gocce d’acqua, quasi a presagire qualcosa di strano e sbagliato.
   Il treno si muoveva velocemente e finalmente raggiunse il capolinea, arrestando la sua lunga corsa. Le porte degli unici due vagoni si aprirono e nessuna voce metallica risuonò nell’aria, nessun capotreno scese a gridare il nome della fermata. Solo la pioggia e il marciapiede vuoto arrivavano ad accogliere l’unica persona scesa: un’ombra offuscata dall’acqua, chiusa in un giubbotto di pelle nero.
   Scese lentamente, strascicando i piedi, con le spalle curve e le mani in tasca. Immobile sotto la pioggia, il bavero del giubbotto sollevato e la testa abbassata a nascondere un volto sconosciuto. I capelli rossi erano piuttosto lunghi e ricadevano grondanti ai lati del collo, appiccicandosi qua e là sul viso.
   «Vuoi già andartene?» domandò una voce sottile e rauca.
   Con un movimento lento l’ombra sollevò lo sguardo da terra, mostrando il volto al vuoto. Il cielo, il luogo intero quasi, sembrò riconoscerla, poiché liberò un ruggito più potente degli altri e la pioggia prese a scrosciare più violenta. La ragazza sembrò quasi sorridere compiaciuta quando un fulmine particolarmente vicino fece tremare la terra. Poi, con una flemma quasi estenuante, girò la testa fino a far incrociare i suoi occhi castani con quelli riflessi nel vetro affianco. La vista di quello sguardo acquoso e senza profondità le fece piegare la bocca in una smorfia di disgusto, nonostante tutti quegli anni passati.
   «No, sono appena arrivata». Diceva così ma i suoi occhi sembravano cercare disperatamente un treno che la portasse lontano, da dove era venuta.
   L’ombra la guardò ancora per qualche minuto con aria compassionevole prima di ripetere la domanda, questa volta velata d’ironia.
   Ichigo, si chiamava così la ragazza, distolse con disprezzo lo sguardo da quell’essere che tanto la ripugnava e l’ennesima stilettata al cuore la trafisse: se solo avesse potuto, si sarebbe uccisa da sola pur di liberarsi di quel mostro.
   «Lasciami perdere» biascicò tentando di accendersi una sigaretta, riparandola inutilmente dall’acqua con la mano umida. Ringhiando sommessamente schiacciò a terra la spagnoletta fradicia e con un gesto secco voltò lo sguardo verso le luci della città. Quanto le era mancato quel posto!
   «Che dici, andiamo?». L’ombra disgustosa era ancora lì che la scrutava, con gli occhietti neri che brillavano malevoli nel buio. Anche lei non vedeva l’ora di far ritorno alla città, il suo luogo d’origine, dopo anni di esilio.
   Ichigo rimase a osservare l’orizzonte ancora per una manciata di secondi, dopodiché annuì. Era tempo che lei e gli altri si rincontrassero, dopo anni e anni passati a morire e rinascere.
   E il suo sguardo ancora una volta implorava: portami via.

 

   L’appartamento era immerso nel buio e nel silenzio della notte, fatta eccezione per il lieve russare che proveniva dalla stanza da letto. L’orologio segnava l’una in punto quando quella pace ovattata fu rotta bruscamente da una secca ed insistente serie di colpi.
   Un ragazzo biondo e alquanto scocciato calciò lontano le lenzuola che gli si erano attorcigliate alle gambe, sbuffando e masticando parole amare. «Arrivo, arrivo».
   «Vado io, se vuoi». Minto si stiracchiò nel letto, raggiungendo placidamente il braccio del ragazzo.
   «No, tu stai qui». Ryo s’infilò i pantaloni del pigiama e le pantofole in poco tempo, con gesti veloci e secchi. «Vado a vedere chi è questo scocciatore e torno subito».
   I colpi alla porta d’ingresso ripresero più forti e decisi di prima, incuranti di tutto e tutti.
   «Ho detto che arrivo, cazzo!».
   Le chiavi girarono nella toppa della serratura un paio di volte, la catenina liberò la porta laccata di bianco e la serratura scattò.
   «Ciao, Ryo».
   Fanculo.
   «Che sei venuta a fare?».
   «Sono tornata».
   Fanculo pensò Ryo prima di chiudere la porta.
   «Chi era?» domandò Minto vedendo tornare il ragazzo scuro in volto. Era seduta sulla sponda del letto con una vestaglia nera poggiata sulle spalle.
   «Nessuno».

 

Note di Alice:
Questo in realtà doveva essere la revisione di una mia vecchia ff "Un nuovo giorno sta nascendo", ma avevo talmente perso la passione per quella ff che l'ho eliminata.
Così, mi sono seduta davanti al computer e ho ricominciato e scrivere tutto daccapo. E' breve come prologo, lo so, prima scrivevo molto di più o per lo meno mi sforzavo, ma ora ho deciso di prendermela comoda.
Spero di non avervi delusi, ma prometto che, anche se magari i capitoli saranno più brevi cercherò di non deludere le vostre aspettative :)
Dico un'ultima cosa: negli avvertimenti c'è scritto "drammatico", quindi la storia sarà piuttosto triste, ma non ho ancora deciso se ci sarà un happy o bad ending.
Spero di avervi incuriositi almeno un poco e vi ringrazio per aver letto. Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate :D

Alice

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


The lost life
The lost life
 

  *Capitolo 1*

 

   Il locale era immerso nel silenzio, finalmente, dopo ore e ore di continuo baccano e uno sciamare costante di gente. Dal soffitto e dagli stipiti delle porte pendevano ancora le ghirlande di fiori e i nastri dai colori tenui raccolti in grossi e flosci fiocchi.
   Era appena stato ristrutturato: le pareti con l’intonaco bianco diffondevano insistenti il loro odore fresco e pungente, facendosi beffa dei vari diffusori di profumi per l’ambiente; i tavolini e le sedie laccate rosso e di bianco rilucevano ai raggi caldi del sole al tramonto, quasi a voler ostentare la loro ritrovata bellezza; il vecchio soffitto era stato sostituito dalle più belle travi di legno, chiaro, compatto; le piastrelle lucide e lisce richiamavano i toni chiari delle pareti, in contrasto con i pochi mobili, scuri, dell’arredamento; enormi vasi di porcellana accoglievano, maestosi, mazzi coloriti di fiori ed altri erano contenuti in piccoli cestini posti sopra ogni tavolino.
   Il piccolo edificio era circondato da un grazioso giardinetto col prato inglese, cintato da una raffinata ringhiera nera; in un angolo - vicino al vialetto di ghiaia che conduceva all’ingresso – era stato piantato un piccolo sakura in fiore; girando attorno all’edificio ottangolare si potevano ammirare le aiuole ben curate e un piccolo laghetto decorato con tanto di ninfee.
   Ma nonostante tutta quella grazia e raffinatezza che trasudava da ogni mattone, un vago senso di decadenza e trasandatezza aleggiava attorno al Cafè Praline, un tempo Caffè Tokyo Mew Mew, come se i nuovi gestori avessero affidato le chiavi del locale direttamente ai clienti. La ghiaia del vialetto era tutta smossa, foglie secche e sporcizia varia rotolavano nel giardino sospinte da un leggero alito di vento, tazze e bicchieri e piattini con posate giacevano ancora, dimenticati, sui tavolini con le sedie riverse, e il pavimento era sporco di briciole e quant’altro.
   Poco più in là, in quella che un tempo era stata la cucina, ora adibita a ufficio, s’intravedeva una lama di luce che sgusciava fuori dalla porta socchiusa e uno scampanellio di voci guizzava allegro fuori dalla stanza, per diffondersi lieve in tutto il locale.
   Un’ombra schiva e piccola si mosse lungo le pareti intonacate a nuovo facendo rimbombare i passi lenti e sicuri, cadenzati, nella solitudine del salone. Si muoveva tranquillamente, composta e determinata, verso il nuovo ufficio. Passando, accarezzò quasi con ribrezzo la gamba di una delle seggiole di metallo riversa a terra; portava sul volto l’espressione cinica e ironica di chi sa già che reazione aspettarsi, di chi ormai (disilluso dall’arroganza del mondo) non si stupisce più di nulla, di chi ha paura di soffrire e indossa quella maschera come protezione.
   Appoggiò le dita lunghe e sottili sulla maniglia laccata d’oro e spinse un po’ di più la porta fedifraga che lasciava fuoriuscire la lama di luce. Poteva vederli tutti, sorridenti e sereni, mentre si scambiavano frasi gentili.
   Erano così felici di ritrovarsi dopo alcuni mesi, dicevano, e in un’occasione così importante poi! La nuova gestione del vecchio Caffè era davvero un’ottima idea ed erano sicuri che Minto e Ryo se la sarebbero cavata egregiamente.
   Sorrise stancamente e rimase in attesa che il momento giusto arrivasse.
   Quindi diede una spinta definitiva alla porta e la luce la investì.
   Zakuro e Retasu furono le prime a voltarsi. Seguirono poi Purin e Minto e per ultimo Ryo.
   «Buonasera a tutti».
   E il silenzio cadde sulle loro teste come la mannaia del boia, mentre una tazzina da the si frantumava a terra.

 

   Keiichirou non aspettava visite quel giorno.
   Era andato via dalla festa d’inaugurazione del locale abbastanza presto per andare a recuperare sua figlia di cinque anni alla scuola materna e poi era tornato a casa.
   Era un padre molto premuroso: le aveva preparato la merenda e adesso sedeva con lei in salotto per aiutarla a colorare un album di disegni.
   Era il suo giorno libero, le pulizie di casa le aveva terminate e non doveva nemmeno correggere le verifiche dei suoi studenti del corso avanzato di chimica.
   Ma, nonostante questo, non si sorprese più di tanto nel sentire suonare il campanello.
   Deve essere Zakuro.
   Sorridendo indulgente si alzò dal divano e accarezzò con dolcezza la testolina bionda di sua figlia Sarah.
   «Ehi piccolina, corri a prepararti che è arrivata la mamma».
   La bambina continuò a colorare ancora per alcuni secondi, poi si alzò, in silenzio, e cominciò a mettere in ordine le proprie cose dentro la cartella.
   Una nuova scarica di scampanellii impazienti costrinse Keiichirou a correre verso la porta d’ingresso.
   «Dev’essere parecchio nervosa la mamma og-». Ma le parole gli morirono in gola non appena spalancò la porta.
   Sul pianerottolo, ad accoglierlo, trovò innumerevoli occhiate torve e fiammeggianti.
   «Minto? Che ci fai qui?».
   La ragazza lo scansò senza complimenti, furibonda e sconvolta. Non riusciva a contenere l’ira che la pervadeva. Senza pensarci due volte, si fiondò in cucina alla frenetica ricerca di una birra.
   «E’ tornata» ringhiò tra un sorso e l’altro.
   I bei lineamenti del viso erano alterati da un’espressione di odio puro, i capelli legati in una coda scomposta uscivano in ciuffi dispettosi e i vestiti spiegazzati erano madidi di sudore. Strano, pensò Keiichirou osservandola con aria pacata appoggiato al muro della cucina: Minto non era il tipo da mostrare così apertamente i suoi sentimenti.
   Nel frattempo la birra era stata prontamente sostituita da qualche isterica boccata di fumo.
   «Hai capito cos’ho detto?».
   Keiichirou annuì lentamente in modo grave. Non c’era nemmeno stato bisogno di pronunciare il suo nome.
   «E ha chiesto di te».

 

   Ichigo si trovava nello scantinato del Cafè Praline, quelli che una volta erano stati i laboratori del progetto Mew Mew. Sorrise.
   «Gran bella situazione, vero?».
   L’avevano rinchiusa lì, tra scatoloni, sacchi, scaffali e barattoli vari, per paura che combinasse qualche disastro; o che scappasse nuovamente. Non sapeva nemmeno lei perché, però la cosa la faceva sorridere.
   «O forse perché hanno paura che tu possa far del male a qualcuno, no?».
   Ichigo contrasse istintivamente i muscoli e digrignò i denti. No, non era possibile che avessero quel sospetto, nessuno poteva essere a conoscenza di...
   L’oscurità attorno a lei cominciò ad addensarsi, come petrolio strisciava a terra fino a raggiungere la sua ombra e di colpo, questa, prese vita.
   Sospirò.
   Era solo uno stupido effetto della sua mente, lo sapeva. Non era l’oscurità ad addensarsi, era solo un’illusione che quell’essere utilizzava per uscire allo scoperto, lo sapeva. E non era la sua ombra ad animarsi, era solamente il mezzo di comunicazione di quell’essere. Lo sapeva.
   Ma nonostante tutto, non poté far a meno di provare un moto di disgusto.
   «Non hai intenzione di rispondermi nemmeno oggi, dico giusto?».
   Sospirò stropicciandosi il viso.
   «Ah, già. Dimenticavo. Devi sforzarti di non considerarmi».
   Cazzo.
   Ichigo strinse i pugni, trattenendo la stizza che aumentava man mano.
   «Te lo dico per l’ultima volta, Coso: lasciami perdere» ringhiò a denti stretti.
   La risata della sua ombra, o meglio, di quell’essere, si propagò per lo scantinato: fredda, stridula, metallica.
   Metteva i brividi. Forse non era stata una buona idea tornare, ma d’altronde lei doveva farlo.
   Estrasse un piccolo pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans e se ne portò una alla bocca, lentamente, come a voler assaporare quel gesto. Stava già pregustando l’aroma del tabacco tostato arrotolato nell’involucro sottile di carta, quando...
   «L’accendino no!!».
   L’essere al suo fianco girò quella che doveva essere la testa nella sua direzione, quindi scoppiò nuovamente nella sua orrenda risata.
   Devo vedere Kei, maledizione.

 

   Il piede piccolo e sottile batteva con insistenza sul pavimento piastrellato, le dita tamburellavano nervosamente contro il bracciolo della poltrona e le unghie già corte erano state ridotte a dei moncherini sanguinanti.
   Era passata un’ora e non era cambiato nulla.
   E lei voleva fumare, dannazione. Rivoleva indietro il suo accendino.
   Masticò rabbiosamente qualche parola non troppo carina nei confronti di quelli che una volta erano stati i suoi compagni e i suoi amici, quando finalmente la porta si spalancò.
   Rimase zitta, seduta, immobile, nell’attesa che qualcuno facesse la prima mossa.
   Ryo era alle spalle di Keiichirou e fissava astioso Ichigo, i muscoli tesi come se fosse stato pronto a saltarle addosso al benché minimo movimento.
   «Ti dispiace lasciarci soli?».
   Il ragazzo annuì e dopo alcuni attimi di iracondo silenzio, uscì richiuse la porta.
   Keiichirou rimase ancora qualche istante a fissare serio quella che una volta era stata Mew Ichigo, stropicciandosi di tanto in tanto la fronte. Quindi le porse un piccolo accendino nero, lucido.
   Finalmente.
   «Kei» mormorò Ichigo a mo’ di saluto dopo una lunga boccata di fumo.
   Il ragazzo inclinò la testa da un lato e sorrise.
   «Ichigo! Che piacere vederti, non mi hai più chiamato alla fine».

 

Note di Alice:
Buonasera a tutti! :) Allora, per prima cosa desidero veramente ringraziare chi ha recensito la volta scorsa (Imiberry, Lady S, Xuehua), chi ha letto, chi ha messo nei seguiti e nei da ricordare e chi è anche solo passato a dare un'occhiata.
Veramente, non so che dire se non GRAZIE! Bene, spero di non deludervi!
Alla prossima

Alice

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


The lost life
The lost life
 

  *Capitolo 2*

 

   Le piaceva la notte. Con il suo manto scuro e spesso che avvolgeva fluido la città, mellifluo, falso e carezzevole, si sentiva sicura. Si sentiva viva. Si sentiva un’altra, protetta da quelle braccia invisibili e scure che rubavano il sole per farla vivere, pronte a mutare in base a un suo capriccio.
   Chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro prima di alzarsi dalla panchina del parchetto di fronte al Cafè Praline. La luna quella sera aveva deciso di non farsi vedere, e a ben pensare, aveva fatto un’ottima scelta. Non sarebbe riuscita a tollerare la sua luce commiserevole e piena di pietà.
   Era passato un mese esatto dal suo arrivo in città e tutto pareva restio a cambiare. Le sembrava di essere un fantasma. Keiichirou aveva fatto fuoco e fiamme per farla assumere, sfidando le ire e le minacce degli altri, ma non aveva fatto un granché differenza. Persino i clienti sembravano sospettosi e distaccati nei suoi confronti. Certo, i nuovi gestori del locale avrebbero potuto cacciarla via tranquillamente da un momento all’altro, ma era palese che a tirare le fila di quello stupido gioco era Keiichirou.
   Un ringhio distolse la sua attenzione dal corso dei pensieri: «Hey».
   Si girò. Ecco, Ryo era l’unico che pareva aver cambiato atteggiamento nei suoi confronti.
   «Che vai cercando, Shirogane?».
   Silenzio.
   «Solo della compagnia».
   Sì, anche ora che la studiava da sotto la chioma bionda, pareva farlo in un altro modo, diverso dal solito.
   «Bene».
   Non più dolce, non più compassionevole. Solo più cattivo, ma di una cattiveria gentile.
   «Bene».

 

   Keiichirou si mosse nervosamente sulla sedia ancora una volta. Chiuso nel suo abito elegante, le braccia appoggiate alla preziosa tovaglia del ristorante, giocherellava col gambo in cristallo del bicchiere davanti a lui. Rimase a contemplare ancora per qualche secondo il liquido chiaro e brillante all’interno del bicchiere e se lo portò alle labbra, mentre l’aroma fruttato invadeva il naso e i polmoni.
   Sospirò: «Tutto bene?».
   Zakuro era particolarmente bella, quella sera. I capelli morbidi e profumati cadevano delicatamente sulle spalle, mettendo in risalto il collo sottile, e il corpo statuario e flessuoso era avvolto da un lungo abito da sera. Si sentiva ridicola conciata in quel modo.
   «Sì, certo» rispose senza troppo impegno infilzando un boccone di aragosta.
   Le faceva schifo l’aragosta. E allora perché l’aveva ordinata?
   Lasciò cadere malamente la forchetta d’argento nel piatto rimanendo a fissare accigliata la polpa biancastra davanti a lei.
   Tutto intorno a loro pareva vorticare incessantemente, mischiandosi in un cocktail di frivolezza e perdizione: delle voci mielose, un discorso banale, risate cristalline, una mano morta, gesti carichi di aspettative per le ore seguenti, qualche occhiata languida a qualcuno del tavolo accanto.
   Questo mondo fa proprio ribrezzo.
   Keiichirou sorrise, posando delicatamente il bicchiere del vino.
   «Ho capito, ho fatto male a portarti qui».
   «Perché l’hai fatto?».
   Kei rimase qualche secondo a osservare quella che avrebbe potuto essere la sua compagna di vita.
   «Non mi sembrava di commettere un reato, invitando a cena la madre di mia figlia».
   Zakuro sollevò la testa guardandolo con un misto di stizza e dispiacere: «Non era questa la domanda».
   «Avevo voglia di stare da solo con te».
   Rimasero a guardarsi qualche istante, occhi negli occhi, ponendosi mute domande e risposte sfuggenti, alienando il resto del ristorante, i battiti incerti e deboli di un cuore e quelli forti e sicuri delle dita che picchiettavano sul tavolo.
   «D’accordo. Pago il conto e andiamo» mormorò Kei, e tutto riprese a essere come prima, invadendo furiosamente il naso, gli occhi, la bocca, le orecchie, che fino a qualche istante prima sembravano essersi trasportati in un’altra dimensione.
   «Keiichirou...».
   Si voltò di scatto: «Sì?».
   Zakuro prese fiato, lentamente. In viso aveva sempre quell’espressione seria e cinica che raramente l’abbandonava.
   Un altro respiro e... “Scusa. Per come sono e per come mi comporto. Scusa se ti faccio soffrire. Scusa se ho allontanato da te Sarah e me stessa. Scusa per il rifiuto di quel giorno. Scusa se non riesco ad amarti nel vero senso della parola ma ho comunque fatto un figlio con te”.
   Nessuna di queste parole uscì dalla sua bocca, secca e impastata.
   Strinse i pugni: «...perché hai permesso a Ichigo di tornare?».
   Keiichirou rimase qualche secondo impalato, senza aprire bocca. Poi sorrise gentilmente,come sempre, e si avviò verso la cassa.

 

   Il palazzo visto dalla strada era imponente. Grosso, massiccio, dava un senso di sicurezza e minaccia insieme. Era piuttosto isolato dalle altre case, nonostante si trovasse vicino al centro città, ed era circondato da un insulso fazzoletto di terra, macchiato qua e là da ciuffi di erba selvatica.
   Una piccola auto rossa, bassa e silenziosa, tirata a lucido, si fermò poco più avanti, spegnendo luci e motore. Ne scesero due persone.
   «E così tu abiti qui» constatò Ryo osservando l’edificio buio. Si stupì nel constatare che non c’era nemmeno una finestra illuminata.
   Ichigo lo guardò seria, soppesando le parole. Annuì.
   «E’ piuttosto carino, dentro, anche se visto così non sembra granché; e poi è vicino a quasi tutti i punti importanti della città. E i vicini sono vecchietti discreti. Non rompono e...».
   S’interruppe, rendendosi conto di quanto fosse ridicola. Sembrava un incontro per vendere l’appartamento.
   Scosse la testa.
   «Avanti, entra».
   Il locale dove abitava la ragazza era piccolo e trascurato, piuttosto spoglio. Gli scatoloni abbandonati in un angolo del salotto ancora imballati e della carta da parati stracciata brutalmente.
   Ryo si guardò intorno valutando che razza di gusti avesse quella ragazza. Scosse la testa. Che gliene poteva fregare, infondo? Non era certo per criticare l’arredamento che era andato fin lì.
   «Fai come se fossi a casa tua».
   Ichigo apparve sulla soglia del salotto con addosso una maglietta sbrindellata, che in teoria avrebbe dovuto essere il pigiama.
   Si avvicinò con passo felpato.
   «Vuoi qualcosa da bere?».
   «Non ti pare che abbiamo già bevuto abbastanza?».
   La ragazza sollevò le spalle incurante. Ryo continuava a mantenere quel tono brusco e distaccato. Bene, che se lo tenesse, non le faceva né caldo né freddo. Non era certo per criticare il suo tono che l’aveva portato fin lì.
   Con una lentezza quasi calcolata si diresse verso una piccola credenza, l’aprì e ne trasse fuori una bottiglia di Vodka.
   Forte.
   Quello che non era lei, che non era lui.
   Svitò il tappo e avvicinò la bottiglia alle labbra carnose, pronte ad accogliere il liquido bollente, ardente. Doloroso.
   «Non ti si addice proprio».
   Ichigo sorrise, menefreghista e si avvicinò con altrettanta lentezza al ragazzo seduto sul divano, che la osservava.
   Si muoveva sinuosa, quasi sexy, anche se, a dire il vero, le mosse non trasudavano altro che dolore.
   Gli salì cavalcioni abbandonando la bottiglia a terra, riversa sul pavimento. Tanto era Vodka scadente, quella, che gliene fregava?
   «Zitto»
   In un attimo Ryo si impossessò delle labbra della ragazza, veloce, duro, crudele. Le loro lingue si muovevano frenetiche, inseguendosi in gioco di solitudine.
   Le mani di Ichigo correvano veloci lungo il petto del ragazzo sbottonando, tremanti, la camicia spiegazzata: non si stupì nel trovarlo incredibilmente possente e solido.
   Sorrise nuovamente contro le labbra del ragazzo nel sentire le mani calde e ruvide di lui seguire la linea delle gambe, passando e ripassando più volte sullo stesso punto, come a volerlo imprimere bene nelle mente.
   Si fermò improvvisamente quando sentì le dita di Ryo sfiorarle l’elastico degli slip.
   «Che stiamo facendo?».
   Ryo la guardò accigliato, quasi a voler nascondere la voragine che gli divorava il petto, all’altezza del cuore.
   «Ci lecchiamo le ferite a vicenda, nulla di più, nulla di meno».*
   Rimasero in silenzio giusto il tempo di un battito di cuore, il tempo di un respiro.
   «Non siamo altro che due cani randagi, soli, in compagnia della propria ombra, che si fanno compagnia».
   Silenzio.
   Occhi puntati negli occhi. Cioccolato contro ghiaccio.
   Nascondevano così, dietro un’apparente menefreghismo, la più cruda delle verità. Per non soffrire oltre il dovuto e il lecito.
   «E Minto?». Ichigo aveva ricominciato a lambire il collo del ragazzo con una scia umida di baci e risucchi.
   «La nostra non è altro che un’unione contro la solitudine. Sappiamo entrambi, Ichigo, che tra me e lei non c’è nulla a legarci».
   Era la prima volta che pronunciava il suo nome da quando era arrivata.
   Ichigo si sollevò e lo guardò negli occhi.
   Come fra noi.
   Aveva già visto quello sguardo vuoto e desolato, laconico e supplichevole di cure. In fondo, non erano così diversi. La stava praticamente pregando di non abbandonarlo, di donargli il suo calore almeno per una notte. Una sola.

 

   Pensava che il cuore gli si stesse per frantumare. Da nove anni a quella parte aveva sempre creduto che quelle sensazioni le potesse trovare solo nei sogni.
   Un’altra spinta.
   Ryo nascose il viso tre i capelli della ragazza.
   Gli era già capitato di trovarsi nel dormiveglia e udire la propria voce che chiamava “Ichigo”. Strascicata. Dolorosa. Come un lamento di belva ferita.
   Un’altra spinta.
   Ormai non faceva altro che rifugiarsi nei sogni per sfuggire alla realtà. Per vivere.
   Un’altra spinta.
   Eppure, anche adesso che la stringeva fra le braccia, non poteva far a meno di sentirla lontana.
   Perché?
   Un’altra spinta, un’altra, un’altra. Fino a sentire sgorgare il piacere nelle vene.
   E a un tratto la risposta gli giunse chiara e limpida mai come prima.
   Lei non gli apparteneva.

 

* Questa frase è stata presa dalla magnifica ff “Sea Biscuits: figlia della violenza”. Una fan fiction davvero straordinaria e a dir poco sublime, se avete tempo passate a darle un’occhiata! ;)

 

You’re beautiful, you’re beautiful. You’re beautiful, it’s true.
I saw your face, in a crowed place. And I don’t know what to do.
‘Cause I’ll never be with you.
(James Blunt – You’re beautiful)

 

Note di Alice:
Buongiorno! Allora, visto che sono in mostruoso ritardo dico giusto due cosine veloci sul capitolo. E' la prima volta che cerco di descrivere una scena pseudo-hot, quindi non mi pare sia venuta granché... ._.
Poi, che dire, è un capitolo di passaggio che non spiega nulla di nuovo ma vuole servire a mettere in luce alcuni rapporti che si sono creati fra i personaggi, sperando di esserci riuscita :)
Ne approfitto inoltre per ringraziare che ha recensito la volta scorsa (scusate se non metto i nomi ma sono appunto in ritardo e devo scappare), chi ha inserito la storia fra le preferite, le seguite e le ricordate, chi ha letto... e naturalmente tu che stai leggendo! :D
Un saluto,
Alice

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


The lost life
The lost life
 

  *Capitolo 3*

 

      La sigaretta giaceva abbandonata nel portacenere sul tavolino e ancora fumava, camminando lentamente verso la sua inconsapevole fine.
   Sorrise lievemente.
   Le sigarette le ricordavano gli uomini: avevano un’esistenza così breve, che nemmeno se ne rendevano conto, troppo prese a servire gli altri, per avere come ricompensa un bel salto nei cestini. Per questo l’aveva appoggiata delicatamente sul portacenere, per farle godere gli ultimi istanti di vita con un po’ di egoismo.
   Scosse la testa.
   A volte sfiorava veramente la psicopatia. Che cacchiata, compiere un gesto di riconoscenza verso una sigaretta. La prese tra le dita con rabbia fin quasi a spezzarla e la portò alla bocca, aspirando.
   Al diavolo.
   E pensare che stava così bene, prima che arrivasse lei. Che male aveva fatto per meritarsi quello?
   Si accasciò sulla sedia laccata di bianco scivolando lentamente verso il basso. Gettò la testa indietro e chiuse gli occhi mentre il fumo le riempiva lentamente i polmoni, incendiandoli.
   I passi rimbombavano prepotenti nel corridoio deserto, accavallandosi in un costante fruscio di abiti e di gambe.
   La porta non era molto distante, ancora qualche passo e l’avrebbe raggiunta. Un ultimo sforzo.
   Bussò. Una, due volte. E nel frattempo ebbe tutta la libertà di constatare quanto quell’albergo fosse desolato e puzzolente.
   Bussò di nuovo mentre la rabbia in corpo aumentava proporzionalmente alla preoccupazione. Finalmente la serratura scattò e la porta scrostata si aprì, lasciando intravedere l’interno squallido.
   «Oh. Sei tu».
   «Che cosa significa questo?». Gli sbatté in faccia il post-it appiccicato frettolosamente sul frigorifero di casa.
   «Quello che c’è scritto».
   «E cioè? Non capisco».

   “Ho bisogno di tempo per riflettere, se mi cerchi sono all’hotel Kayatsu n°234”. Lo avrebbe saputo recitare a memoria, interpretare così appassionatamente che sarebbe subito diventato successo mondiale quanto Madame Butterfly, quel breve messaggio scritto con una biro blu.
   Rimase in silenzio a fissare quel volto fin troppo conosciuto: il naso dritto, gli zigomi alti, gli occhi fuggenti...
   Spalancò un poco la bocca in una vaga espressione di sorpresa e disgusto.
   «Te la sei scopata, non è vero?».
   Ancora silenzio.
   «Cristo Santo, sì o no?!». Aveva cominciato a prenderlo a pugni sul petto.
   «Sì! Sì, me la sono scopata, va bene? E mi è anche piaciuto!».
   Fu come prendere una lavata di acqua gelida. Rimase lì come paralizzata a fissarlo negli occhi.
   Avanti, non era difficile: espirare ed inspirare,dentro e fuori. Annaspò alla ricerca d’aria, strabuzzando gli occhi, e tornò a respirare più o meno normalmente mentre il cuore pompava furiosamente sangue nelle arterie.
   «Bene... allora... tanti auguri».
   «Non essere sempre così...».
   «...strega? No, per carità. Ti auguro solo dal profondo del cuore di rimanere solo come un cane e di avvelenarti con la tua stessa bile quando questo avverrà».

   Il suono di pochi passi brevi e veloci che si affrettavano sulla terrazza la fece tornare alla realtà.
   «Mi volevi».
   La domanda suonò come un’affermazione, quasi una dichiarazione esplicita di una consapevolezza profonda.
   Minto sollevò la testa puntando gli occhi gelidi in quelli caldi di Ichigo. Sbuffò con fare superiore, e senza distogliere lo sguardo si accese un’altra sigaretta. Inalò e andò a fuoco, quel tanto che bastava a darle la forza e la determinazione che la contraddistinguevano.
   Per un paio di minuti si poté udire il suono leggero del vento che soffiava lontane le ultime nuvole lasciando scoperto un cielo dorato, spruzzato di azzurro qua e là.
   Sullo sfondo si stagliava la silhouette dei grattacieli di Tokyo e ancora più in fondo si poteva intravedere la baia con le acque luccicanti. Si potevano scorgere qualche peschereccio e nave cisterna che scivolavano silenziosi sul mare lanciando di tanto in tanto il loro suono triste.
   «Mi detesti, non è vero?».
   Minto rimase in silenzio a osservarla riducendo gli occhi a due fessure malevole mentre soffiava via il fumo.
   Ichigo sorrise mesta scuotendo la testa e si appoggiò alla ringhiera della terrazza allungando la mano verso le sigarette.
   «Tu che dici Momomiya?».
   «Che ti sono mancata».
   Ichigo rimase ancora un po’ in attesa della sigaretta tanto agognata, invano. Ritirò la mano accigliata: «Sei ancora troppo giovane per fumare, lo sai?».
   «Cagna» masticò Minto tra i denti tornando a fissarla.
   «Prego?».
   L’espressione sul viso della ragazza di fece ancor più dura: non le era mai stata simpatica, fin dall’inizio, ma questa non era una novità. Aveva cercato di accettarla e di provare una sorta di rispetto per il ruolo che svolgeva.
   Rise amaramente scostandosi il ciuffo di capelli ribelli che le cadeva sugli occhi.
   «Non credere che adesso che sei tornata tutto diventi come prima. Forse per gli altri, non per me».
   Per una frazione di secondo Ichigo parve barcollare sotto il peso enorme di quelle parole: per una frazione di secondo agli occhi di Minto parve nuovamente quella ragazzina adolescente un po’ avventata che sembrava essere stata risucchiata da un’altra Ichigo.
   «Pensavi di poter tornare a fare i tuoi comodi, persino portarti a letto il mio compagno?».
   Di nuovo Ichigo parve barcollare e accasciarsi contro la ringhiera della terrazza. Continuava a scuotere piano la testa balbettando parole spezzate, lo sguardo vacuo e le lacrime agli occhi.
   Minto si mosse nervosamente sulla sedia, quelle lacrime la facevano imbestialire più del dovuto. Le persone come lei la facevano imbestialire. Le facevano schifo alla pari della feccia, così subdole e opportuniste, false fin dentro le budella. Le sembrava quasi di poter vedere il fegato che sosteneva, impudico, di essere una milza.
   «Se vuoi un consiglio, Momomiya». Un’altra boccata di fumo e un ultimo sguardo a quegli occhi tristi. «Vattene».

 

   Un vento gelido soffiava imperterrito da alcune ore su quella terra arida e abbandonata da Dio. Il cielo plumbeo preannunciava una tempesta coi fiocchi, mentre muri di sabbia e terra si innalzavano dal suolo, quasi a voler prendere il posto di quella torre che gli umani avevano tentato di costruire per sentirsi alla pari degli dei. O meglio, di un dio soltanto.
   Un’ombra avvolta in un lungo mantello proseguiva lentamente lungo un sentiero tortuoso che portava al Monte degli Dei riparandosi il volto con un grande cappuccio. Avanzava faticosamente poggiandosi a un bastone nodoso. I piedi nudi incespicavano fra i massi e la pelle secca si era già spaccata in diversi punti.
   «Ben arrivata, Lilith».
   L’ombra raggiunse con un ultimo sforzo il tempio posto a metà del Monte. Sospirò e abbassò il cappuccio lasciando intravedere un ciuffo di capelli arancioni. Senza pronunciare una parola si avviò verso la stanza sacra dell’edificio accessibile solo ai sacerdoti e si mise seduta davanti al focolare. Allungò le mani e i piedi alla ricerca di calore.
   «Ci sono novità?».
   «E’ arrivato il momento».
   Gli occhi turchesi di Lilith guizzarono verso il vecchio alieno seduto di fronte a lei.
   «Gli altri sono già stati informati?» chiese sfiorando sovrappensiero il tatuaggio che ricopriva interamente l’avambraccio destro.
   Il vecchio annuì serafico.
   «La partenza è fissata per domani. Se tutto va come previsto dovreste arrivare, parlando di tempi umani, la sera del 7 aprile».
   Parlava pacatamente, soppesando con cura le parole. La voce ovattata e pastosa, invecchiata da un accenno di raucedine, risuonò per qualche secondo.
   Lilith sorrise fra sé e sé: «Bene. Tutto va secondo i piani, per ora. Ci penserò io ad avvisare lui». Fece una pausa rovistando all’interno della bisaccia accanto a lei.
   «Qui ci sono alcuni documenti importanti. Contengono alcune informazioni che ci saranno indispensabili per portare a termine la missione.
   «Se ad un certo punto qualcosa dovesse andare storto, non esitare a distruggerli: sono alcuni studi che mio cugino ha portato avanti durante l’intera durata della faccenda “Ichigo”. E’ tutto chiaro?».
   Il vecchio alieno annuì nuovamente, con lo sguardo improvvisamente perso nel vuoto.
   «Mio figlio verrà con te?».
   «Sì».
   «Buona fortuna».
   Lilith sorrise sommessamente: «Buona sorte anche a te».

 

   Retasu sospirò contro il vetro freddo e bagnato, appannandolo. Fuori pioveva a dirotto e il cielo scuro non prometteva di dare una tregua.
   Il tavolo della cucina ancora apparecchiato e la televisione accesa che parlava per nessuno davano un senso di solitudine al moderno appartamento che si affacciava sulla via più in di Tokyo.
   Gli occhi della ragazza seguivano distrattamente il corso delle gocce di pioggia contro la finestra mentre il pensiero vagava inconsolabile e frenetico a quegli ultimi mesi.
   La situazione, dopo il ritorno di Ichigo non era cambiata granché e sembrava in bilico in attesa della tempesta. Che, ne era certa, non sarebbe tardata ad arrivare. Lei lo sentiva.
   Sollevò lentamente la mano e fece scorrere le dita contro il vetro con lo sguardo che correva a rincorrere qualcosa d’irraggiungibile nel vuoto.
   Lei era stata l’unica a rimanere –per così dire- “fedele” al Café a Ryo e a Keiichirou in tutti quegli anni, sempre pronta servire ed accontentare gli altri col sorriso sulle labbra, senza che mai gli altri si curassero di sapere se lei riusciva a sorridere ancora. Era pur vero che la sua indole la portava ad essere così, ma che ci poteva fare?
   Lei era stata l’unica a percepire una sorta di pericolo nel ritorno dell’amica di un tempo, a percepire tutti i sentimenti discordanti di ciascuno di loro. E nonostante questo aveva cercato di trovare il lato positivo nella cosa e di far sentire Ichigo a proprio agio, ma non era stata apprezzata.
   Lei era l’unica, che, rimanendo in disparte, a testa bassa, a lavorare, riusciva a capire meglio di tutti la situazione: Kei proteggeva Ichigo cercando di non dare troppo nell’occhio (parevano quasi d’accordo); Ryo era diviso dall’odio e dall’attrazione che provava nei confronti della ragazza (odio per la scomparsa di nove anni prima e attrazione per la cotta che aveva sempre avuto e che aveva ancora); Minto faceva credere di detestare Ichigo dal profondo del cuore, mentre in realtà era quella che aveva e che soffriva maggiormente; Zakuro era più che altro tormentata da altre questioni e Purin era troppo giovane e buona da serbare rancori e aveva accolto Ichigo con lo stesso slancio di anni prima.
   Se per gli altri era stato il ritorno di Ichigo la causa scatenante di tutto quel dolore, lei sapeva che in realtà Ichigo era stata solo la “purga” che aveva fatto uscire allo scoperto anni e anni di angosce. Perché, lei lo sapeva, la loro felicità era finita quando c’era stato il Terremoto.*
   Sembrava quasi una soap opera americana, sotto una luce forzatamente ironica. Tutti contro tutti, tutti a favore di tutti. Ma di lei, chi si curava?
   Il respiro le tremò per un attimo e appannò nuovamente il vetro mentre una goccia le cadeva sulla mano. Improvvisamente tornò alla realtà e guardando fuori si accorse di come la normale pioggia di prima si fosse trasformata in una vera e propria tempesta.
   Sospirò: era stanca. Di tutto.
   Con gesti misurati aprì la porta finestra e lasciò che l’acqua violenta le bagnasse un po’ il viso entrando, furiosa, in casa. Fu scossa da un brivido di freddo, lungo e inteso, nel sentire l’acqua e l’aria gelida infiltrarsi nel maglione.
   Respirò lentamente. Lo sguardo era tornato a rincorre qualcosa nel vuoto della sera.
   Fece un passo avanti, poi un altro e un altro ancora, fino a trovarsi vicina alla ringhiera del piccolo balcone.
   Tutto quello che chiedeva...
   Com’era profondo il vuoto sotto di lei.
   ... dalla vita...
   Con le macchine che correvano veloci incuranti della tempesta.
   ... era solamente...
   E le migliaia di luci al neon che illuminavano a giorno il centro della città.
   ... un po’ di gratitudine.
   Sollevò il viso verso il cielo e chiuse gli occhi, godendosi la pioggia gelida sulla pelle.
   Allargò le braccia e gettò il capo all’indietro, con i vestiti zuppi, per sentire meglio le gocce d’acqua sul suo corpo.
   «Ciao». Una voce profonda e suadente.
   Retasu spalancò gli occhi e si ritrasse improvvisamente. «Co-come hai fatto a venire qui?».
   Sorrise e alla ragazza parve di scorgere una luce malevola in quegli occhi.
   «E’ sempre così facile sorprenderti, umana».
   Retasu spalancò gli occhi conscia del terrore che la stava pervadendo.
   «Addio per sempre», si avvicinò alla ragazza con passo lento e deciso. «Retasu Midorikawa».

 

Yes I'd catch a grenade for you
Throw my hand on the blade for you
I'd jump in front of a train for you
You know I'd do anything for you
(Bruno Mars- Grenade)

 

* Ci si riferisce al terremoto durante il quale venne modificato il loro dna

 

Note di Alice:
Eccoci qua, tornata da un lungo viaggio verso l'infinito e oltre! No, non è vero, sono stata a casa a far nulla XD
Beh, che dire, il capitolo non mi convince molto e devo ammettere che mi è uscito talmente tanto dalle orecchie che non l'ho nemmeno riletto.
Qui c'è un accenno di azione, comincia la storia vera dal prossimo capitolo e faranno la loro comparsa in grande stile i nostri cari alieni, ma non dico altro! E' molto triste come storia, ultimamente mi sto dando al drammatico, come anche la one-shot che ho pubblicato il mese scorso "Stay" su Ichigo e Ryo... strano, non è da me...
Comunque sia, spendo due ultime paroline sulla storia e poi vi lascio andare (sempre che non siate già scappati!): tra feccia e purga ho fatto una gran bella descrizione di Ichigo... mi spiace mi è venuta così, spero che non me ne vogliate.
Bene, un bacione a tutti e alla prossima! ;)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1137071