L'amore che distrugge: Storia di Meg

di xlairef
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: La scommessa ***
Capitolo 2: *** Il ritorno dell'eroe ***
Capitolo 3: *** Il campione ***
Capitolo 4: *** Niente da perdere ***
Capitolo 5: *** Nel buio ***
Capitolo 6: *** Quel che la morte non spezza ***
Capitolo 7: *** Una vita per una vita ***
Capitolo 8: *** L'amore è solo un mito ***
Capitolo 9: *** Epilogo: Nella fine un nuovo inizio ***



Capitolo 1
*** Prologo: La scommessa ***


Salve! Questa storia era partecipante ad un concorso la cui giudicia si è dissolta nel nulla e non è ancora ricomparsa (il contest implicava l’uso di citazioni da film disney vari e della colonna sonora di alice in wonderland a inizio capitoli). Mi rendo conto di non essere Tolstoj, tuttavia avendo impiegato abbastanza del mio tempo in questo lavoro mi sento autorizzata a pubblicarlo lo stesso. 
Se a qualcuno potrà piacere o risultare di ispirazione ne sarò davvero felice! Buona lettura!
 
 
 
Prologo: La scommessa
 
Asia Minore, qualche migliaio di secoli avanti Cristo
 
La notte prima di una battaglia ogni soldato si comporta in modo diverso.
C’è chi, veterano esperto del mestiere, preparate le armi per l’indomani, si getta sul proprio giaciglio, per sfruttare al massimo le poche ore di sonno a lui concesse. C’è chi non riesce a riposare: per costui la notte trascorre lentamente, contemplando le stelle o ricordando la famiglia che lo attende a casa, motivo per il quale il giorno dopo cercherà a tutti i costi di non morire. C’è chi è alla sua prima battaglia, e attende con gioia il momento in cui potrà provare di essere un vero uomo. C’è chi prega in silenzio, consapevole che potrebbe non vedere la notte successiva. C’è chi cerca una compagna o un compagno di letto, per passare piacevolmente le ultime ore.
Inoltre, ci sono sempre gli idioti.
 
“Ed eccolo, signori, un altro sette!” I dadi ricaddero sul tavolo formato dagli scudi dei soldati radunati attorno al fuoco. Illuminati dalla luce delle fiamme, i capelli dell’uomo che aveva parlato sembravano formare un’aureola attorno al suo viso esultante.
Voci impastate dal vino si levarono a protestare. “Non è possibile!”
“I dadi sono truccati!”
Hyperion si spazientì. “Calmate gli animi, amici: questo è il quinto paio di dadi con cui giochiamo… Osereste credere che tutti i dadi del battaglione siano truccati?” Concluse levando platealmente gli occhi al cielo.
Uno dei compagni immediatamente si portò alle sue spalle, scuotendo la testa.
“Su, ragazzi, non sospetterete che Hyperion, il nostro Hyperion, la stella degli eserciti corinzi, l’eroe a cui tutti dobbiamo la vita grazie al suo valore e al suo coraggio leggendari, sia un vile baro, una canaglia?”
L’indignazione di Damocle ebbe l’effetto di riportare seduti a terra i deretani dei commilitoni.
“Allora” Sentenziò il più anziano tra di loro “E’ senza dubbio opera delle divinità infernali!”
Hyperion e Damocle si guardarono l’un l’altro, per poi scoppiare a ridere, imitati dal resto della truppa, resa audace dall’alcool.
“Divinità infernali!” Boccheggiò Damocle. “Andiamo, Laerte, non esagerare!”
“Non prenderti gioco degli dei, ragazzo!” Ruggì il vecchio Laerte, ma un attacco improvviso di tosse gli impedì di aggiungere altro, con grande divertimento dei suoi compagni.
“Non mi dirai che credi ancora che gli dei si interessino alle nostre vite?” Sogghignò un soldato, indicando la cavità che aveva recentemente preso il posto del suo occhio destro. “E questo allora, come lo spieghi? Devo rendere grazie agli dei anche di questo? O piuttosto renderò grazie alla mia spada, che mi ha concesso di sbudellare quel persiano prima che si prendesse anche il resto della mia testa?”
“Gli dei…” Laerte si rizzò in piedi, furente. “Gli dei esistono! Non sfidare mai un dio, se non vuoi perdere la tua vita.”
“Nessuno qui vuole sfidare gli dei, Laerte.” Intervenne Hyperion, per calmare le acque. “Soprattutto non alla vigilia di una battaglia come quella di domani. Ad ogni modo, non credo che le divinità infernali si abbasserebbero mai a un gioco come questo.” Fece saltare i dadi nella sua mano.
“Non ne sarei così sicuro.”
La voce, bassa e roca, proveniva da un punto oltre le luci del campo.
“Gli dei infernali!” Sussultò Laerte, rovesciando inavvertitamente un boccale di vino sulle fiamme, che si spensero sfrigolando.
Hyperion si alzò, seccato. “Adesso basta con questa storia. Riaccendete il fuoco, e tu, straniero, se sei un amico, vieni avanti senza timore; se sei un nemico, non uscirai vivo da quest’accampamento.”
“Ehi, vacci piano con le minacce.” Una figura alta, avvolta da un mantello scuro, avanzò fino al gruppo di soldati. “Sono solo uno a cui piace il gioco d’azzardo.”
“Da dove vieni? Non ti ho mai visto tra le truppe…” Indagò sospettoso Damocle.
“Diciamo che è difficile fare caso a me, prima e dopo una battaglia… E, in fin dei conti, credo che nessuno muoia dalla voglia di fare quattro chiacchere con me…” Qui lo straniero scoppiò a ridere, come per una battuta particolarmente spiritosa, ma nessuno lo imitò.
“Beh? Che vi succede, avete il morale sotto terra?” Si stupì lo sconosciuto.
“Abbiamo visto tempi migliori…” Hyperion tornò a sedersi, tranquillizzato: quel tale non aveva l’aria di essere una spia, aveva troppa parlantina; più probabilmente era uno dei tanti accattoni che vivevano vendendo quel che l’esercito lasciava dietro di sé dopo gli scontri, oppure uno dei lenoni dei carri delle puttane.
L’ultima ipotesi era la più plausibile, rifletté Hyperion.
Lentamente, il gruppo di soldati tornò a sedersi. Solo Laerte restò in piedi, accanto al fuoco riacceso, ad una buona distanza dallo straniero.
“Allora, amico…” Domandò Hyperion. “A che gioco vuoi giocare?”
“Quei dadi vanno benissimo.” Rispose quello. “Solo che… Ti va se alla posta in gioco aggiungiamo una scommessina?”
“Che tipo di scommessa?”
Lo sconosciuto si sfregò le mani, eccessivamente secche e avvizzite.
“Mah, non saprei… Supponiamo io non ritenga possibile che il numero sette esca di nuovo sui tuoi dadi, e che io mi giochi sette anni di schiavitù completa e totale nel caso il sette esca ancora…”
“Continua.” Hyperion guardò in tralice Damocle, che annuì lievemente con il capo, per rassicurarlo.
“Mi domandavo… In tal caso, saresti disposto a scommettere la tua anima, nel caso il sette non esca?”
Laerte sbiancò di colpo. “Comandante, allontanati! E’ senza dubbio uno spirito venuto dagli Inferi!”
“Non agitarti Laerte!” Lo liquidò Hyperion, e si sporse avanti, interessato. “Vediamo di capire: se vinco io, tu diventi mio schiavo per sette anni. Se vinci tu, io dovrei cedere a te la mia anima? E come faresti a prendertela?” Ridacchiò divertito, convinto di aver a che fare con un pazzo.
“Ho i miei metodi.”
Hyperion scosse la testa. “Non si può fare: vedi, io ho già consacrato la mia anima ad Ares, il dio della guerra. Nessun avversario su questa terra può battermi, e quando morirò, andrò ad unirmi alle schiere del mio signore Ares. Questa è la ragione delle continue vittorie di Corinto qui in Asia, dico bene, truppa?”
I soldati risposero con un urlo di approvazione.
“Capisco.” Lo straniero non si dette per vinto. “Allora, facciamo così: se mai verrai battuto da un avversario in combattimento, nonostante la protezione di Ares, io avrò potere sulla tua anima, ci stai?”
“Non accettare, comandante!” Urlò Laerte, ma Hyperion aveva già stretto la mano tesa dello sconosciuto.
“D’accordo!” Accettò Hyperion, gongolando al pensiero di guadagnare un nuovo schiavo con così poca fatica.
 Certo che per essere vestito con vesti così pesanti, lo straniero aveva delle mani incredibilmente fredde, ma Hyperion non fece in tempo a riflettere sullo strano fenomeno.
“Lancia i tuoi dadi, giovane… Qual è il tuo nome?”
“Hyperion, come il figlio del Sole!” Si vantò l’uomo. “Hyperion di Corinto. Posso sapere il tuo?”
“La gente mi chiama in molti modi…” Lo straniero gettò il cappuccio dietro le spalle, rivelando un volto grottesco, illuminato sinistramente da fiamme azzurre in luogo dei capelli. “ Ecco, vedi… A differenza di quel che crede la maggioranza degli umani, noi divinità infernali sappiamo giocare, e discretamente bene, direi.”
Tutti i soldati impallidirono e si fecero indietro. “E’… E’…”
“E’ Ade!”
“Ti avevo avvertito di non provocare la collera degli Inferi, comandante!” Singhiozzò Laerte.
“Andiamo, Raggio di Sole: non avrai paura di una scommessa?” Sghignazzò Ade.
Hyperion, riacquistando il suo sangue freddo, ritornò a sedersi.
“Dunque, se vinco io, avrò il dio della morte mio schiavo per sette anni… Mi sta bene!” Asserì deciso: Damocle aveva truccato ogni dado presente nella guarnigione, il giorno prima, per cui la vittoria era assicurata…
Con gesto sicuro, lanciò in aria i due dadi, e attese che ricadessero sugli scudi.
Clinck.
Un cinque.
Clinck.
Un tre.
Otto.
“Hai perso, Raggio di Sole.” Sussurrò Ade. “Arrivederci…” e scomparve, sciogliendosi in lingue di fumo blu, illuminate dai primi bagliori dell’alba che sorgeva a Est.
 
Note al capitolo: Ares: dio della guerra
                                  Ade: dio dei morti
                                  Hyperion: figlio del Sole, rubò il carro del padre per compiere lui il tragitto del sole diurno
                                                         ma venne sbalzato fuori e morì schiantandosi sulla Terra
  

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Capitolo 2
*** Il ritorno dell'eroe ***


                                                                                                                       I found myself in Wonderland
                                                                                                                 Get back on my feet, again
 
Corinto, qualche mese più tardi.
 
“Ifigenia, attenta a dove metti i piedi!”
“Fermo! Callicrate ha ordinato di non spostare assolutamente i musici, per non creare troppa confusione!”
“Tutto questo non ha senso!”
“Per amor di Zeus, figliolo, va subito a chiamare Diomede!”
“Qualcuno ha visto la mia arpa?”
Quel giorno la città sembrava essere in grande fermento: uomini e donne indaffarati correvano da un capo all’altro delle vie che portavano alla piazza principale; servitori carichi di cesti di cibo e bevande si affrettavano ad accorrere al richiamo dei rispettivi padroni, e persino i bambini avevano ricevuto incarichi da svolgere, prima del grande evento.
“Di quale evento si tratta?” Domandò un viandante ad un uomo carico di arpe finemente cesellate.
L’uomo sbuffò irritato e proseguì per la sua strada. “Non sei in città da molto, non è vero, straniero? Oggi è il giorno in cui finalmente le truppe di Corinto ritornano dalle loro campagne in Asia!” La sua voce si perse tra le vie contorte della città.
 “Celebreremo il ritorno dei nostri valorosi guerrieri con tre giorni di feste e sacrifici agli dei!” Spiegò una vecchia, comparendo alle spalle del viandante confuso. “Tutti gli abitanti di Corinto parteciperanno, e tutti i forestieri sono bene accolti, se vorranno unirsi a loro.” Dicendo questo indicò con il bastone al quale si appoggiava uno dei viottoli più affollati. “Segui quella via, e arriverai in piazza in tempo per vedere le schiere corinzie di ritorno dalla guerra.”
Il viandante si chinò verso la vecchia. “E voi, kyria, non vi curate di arrivare in tempo per la festa?” Chiese, usando l’appellativo riservato alle nobili in segno di rispetto. “Non avete anche voi un figlio da riabbracciare?”
La donna si strinse nelle spalle incurvate. “Non servono tutti questi salamelecchi con me, giovanotto. Non ho più figli da poter perdere in battaglia. Ho solo una figlia di latte, che a quest’ora sarà già in prima fila per assistere alla parata.” Rispose, iniziando ad avviarsi lentamente verso la piazza.
L’uomo, gentilmente, le rimase accanto, e regolò il proprio passo con quello di lei. “Una dolce sposa in trepida attesa, immagino.”
“Piuttosto una piccola gatta selvatica vittima degli scherzi di Afrodite, temo.”
 
“Riesci a vederli?” Domandò Cleone all’amica Tersicore, intenta a farsi strada a gomitate tra la folla radunata attorno alla piazza.
“Ancora no… Per gli Dei, signora, faccia passare anche noi!” Sbuffò inferocita Tersicore all’indirizzo di un donnone grasso e corpulento, che le bloccava il passaggio.
“I giovani d’oggi! Non hanno nessun rispetto per gli adulti.” Si indignò quest’ultima, badando bene di non muoversi nemmeno di un millimetro dalla sua postazione, dalla quale riusciva a contemplare tutta la piazza.
“Se solo Meg fosse qui con noi…” Sospirò Cleone. “Allora sì che questi… bruti… si sposterebbero!”
“Già, i vantaggi di essere figlie della nobiltà al governo…” Tersicore continuava a lavorare di spalle. “Ma lei non è qui e noi non ne abbiamo bisogno. Ecco qui, Cleone, proprio in prima fila!” Esclamò soddisfatta, facendo passare la sua compagna tra un paio di cortigiane e spingendola davanti a sé. Le due amiche osservarono soddisfatte la piazza, addobbata per l’occasione da rami di alloro e da grappoli d’uva, e l’arco da cui di lì a poco avrebbero fatto la loro comparsa i soldati.
 “Ehi, guarda, ecco dov’era Meg!” Cleone indicò un posto in primissima fila, nel punto migliore d’osservazione.
“Come ho detto: il sangue non è acqua…” Le trombe squillarono nuovamente, interrompendo ogni possibile lamentela. “Eccoli! Eccoli!” Strillò Tersicore, dimentica di tutto il resto, agitando freneticamente le braccia. “Ettore! Ettore! Sei tornato! Non sei morto! Sei tornato da me!”
Le schiere corinzie facevano proprio allora il loro ingresso nella piazza, gli scudi illuminati dal sole del mezzogiorno. Un boato si alzò dalla folla: le mogli invocavano i mariti, le madri e i figli, gli anziani acclamavano gli eroi di ritorno da una delle migliori campagne di espansione mai compiute dalla città di Corinto.
 Ad un tratto, uno dei soldati si staccò dalla colonna, e con un gesto teatrale impose il silenzio attorno a sé. “Cittadini di Corinto!” La sua voce si levò alta nell’aria.
“Oh, miei Dei, è Damocle!” Sussurrò eccitata Cleone, arrossendo.
“Cittadini di Corinto!” Damocle percorse lentamente il piazzale, fino a portarsi al suo esatto centro. “Voi, che ci avete visto nascere e correre tra queste strade, fino al momento di abbandonare i giochi dell’infanzia per più virili occupazioni…”
“Ne avrei io di occupazioni virili per te…” Ammiccò una delle cortigiane accanto a Tersicore.
“… Voi, che ci avete visto partire, quattro anni orsono, per una campagna in una regione remota e, fino a poco tempo fa, semi-inesplorata… Oggi potete gioire!”
 “Damocle si sta dando da fare, come sempre.” Appoggiata al viandante, la vecchia ricurva era infine arrivata alla piazza. “Quattro anni di sangue e morte non l’hanno cambiato, a quanto pare.”
“Ci sa fare con la retorica, il ragazzo…” Commentò il viandante. “Tuttavia pecca di contenuto.” Concluse, fissando le sue due iridi azzurro ghiaccio su Damocle, che si affrettava verso il gran finale.
“…Questi festeggiamenti, dunque, non devono essere per noi: non abbiamo compiuto altro che il nostro dovere! I veri eroi siete voi, cittadini!” Proclamò fieramente. “Voi che ci avete sostenuto, ricordato nei sacrifici, voi che avete pianto per noi lacrime amare… Oggi, cittadini di Corinto, è la vostra festa!”
Il pubblico proruppe in boati di orgoglio, e fu quasi sul punto di saltare addosso al latore di cotanta eloquenza.
Damocle saltò sul palco al centro dello spiazzo. “Nonostante tutto, sarei ingeneroso se, prima di concludere questo mio umile discorso, mancassi di ricordare una persona. Qualcuno che con il suo coraggio, la sua forza, la sua astuzia, il suo valore, ha determinato le sorti della campagna. A quest’uomo noi dobbiamo tutti la vita, da lui salvata durante un’imboscata in Cilicia. Cittadini, questa è la vostra festa, ma vi prego di rendere omaggio al salvatore di tutti noi, un uomo che ho l’onore immenso di chiamare amico… Cittadini, rendete omaggio allo stratega Hyperion, figlio di Menelao!”
Le schiere di guerrieri si aprirono, unendosi anch’esse alle urla di approvazione del pubblico. Uno di essi, la cui armatura era ricoperta di lamine dorate, avanzò verso il centro del piazzale, chinando il capo in segno di modestia.
“Damocle esagera, concittadini, non sono degno di tanto onore.” Parlò Hyperion, con voce commossa. “Stratega, sei troppo modesto!” Urlò uno degli spettatori.
Hyperion fece per proseguire, ma il suo sguardo incrociò quello di una ragazza tra la folla.
 “Ehi.” Lo salutò lei, incrociando le braccia. “Sotto quei muscoli c’è qualcuno che conosco?”
Hyperion le sorrise. “Mi sei mancata, Megara.”
E lei, ricambiando il sorriso, gli gettò le braccia al collo, segnando la fine del discorso e l’inizio della festa.
 
Corinto, piazza del mercato
 
“Portate altro vino, dobbiamo festeggiare!” Urlò Damocle, gettando a terra la brocca ormai vuota, frantumandola in mille cocci.
La notte era calata da molto sui baccanali, senza che gli abitanti di Corinto avessero accennato a ritirarsi nelle loro case. Al centro della piazza il palco aveva lasciato posto ad un falò, attorno a cui si alternavano danzando giovani e vecchi, completamente ubriachi.
Le tavolate del banchetto erano state spostate lontano dalla luce del fuoco; al suolo si intravedevano ancora i resti delle ossa spolpate e dei crateri di vino denso e dolce che avevano allietato il festino.
Seduta su una delle panche, nell’ombra, con un gomito poggiato sopra un ginocchio, Meg osservava i suoi concittadini danzare, con un sorriso stranamente ironico.
Un fruscio fece voltare la ragazza. “Tu non balli, ragazza mia?”
Meg riprese a respirare. “Mi hai spaventata, Euriclea.” Tornò a volgere il capo verso il fuoco. “Perché sei qui?”
“Non posso festeggiare anch’io il ritorno dei nostri eroi?” Chiese beffarda la vecchia Euriclea, sedendosi sulla panca. Meg sembrò volersi alzare e andarsene, ma, come per un ripensamento improvviso, tornò a sedersi e si avvicinò alla donna più anziana. “Tu disapprovi tutto questo.” Affermò, senza guardarla.
“A volte hai un dono per l’ovvietà, ragazza mia.” Ribatté Euriclea. “Anche questo fa parte della tua nuova vita?”
“Non ho intenzione di farmi dire da te come dovrei comportarmi. Se è per questo che sei qui, puoi pure andartene. “ Meg la fissò con rabbia. “Non ho più bisogno della balia.”
“Invece non ne hai mai avuto tanto bisogno quanto ora.” Sospirò la vecchia. “Eppure non parlerò questa notte, se così preferisci.”
Cadde il silenzio, rotto solo dai suoni della festa davanti a loro.
 “Altro vino! Altro vino!”
“Cleone, stai bevendo troppo, come farai a dichiararti a Damocle se non riesci nemmeno a parlare?”
“Alla salute di Hyperion, il nostro eroe!”
Euriclea scosse il capo. “Eroe…”
“E non lo è, forse?” Meg riportò gli occhi su Hyperion, e i lineamenti duri del suo volto si addolcirono, inconsapevolmente. “Ci ha regalato grandi vittorie, per terra e per mare.”
“Un eroe non si misura dall’ampiezza delle sue spalle.” Sentenziò Euriclea.
Meg si inalberò. “A te non è mai piaciuto, dunque non criticarlo.”
“Non è che non mi piaccia, soltanto lo disprezzo.”
“Non hai nessun motivo per farlo!”
“Non ho nessun motivo?” Euriclea fissò la sua pupilla, ormai cresciuta. “Ma guardati. Sei talmente presa da lui che ne vedi solamente la luce, non le ombre.”
In quel momento Hyperion si unì alle danze assieme ad alcune fanciulle.
“Hyperion!” Cinguettarono quelle, attorniandolo entusiaste.
“Non sei gelosa?” Chiese Euriclea.
“E’ solo ubriaco. E ti ricordo che le promesse solenni le ha fatte solo a mio padre.” Rispose Meg seccamente, ma una sottile ruga le si disegnò sulla fronte, tra gli occhi.
“Promesse vecchie di quattro anni, fatte davanti ad un uomo che ora dorme sottoterra.”
“Mio padre non avrebbe accettato le sue richieste, se non si fosse fidato di lui.” Irata, la ragazza si alzò in piedi, ma qualunque cosa avesse avuto in mente di dire o fare, venne bloccata dall’arrivo dell’oggetto della conversazione.
“Meg…” Hyperion le circondò le spalle con un braccio, appoggiandosi a lei. “Meg, tesoro… Vieni a danzare con me…”
“Sei completamente ubriaco, ragazzo.” Lo redarguì Euriclea. “Mi domando come tu possa essere in grado di ballare.”
Hyperion stese le labbra in un sorriso entusiasta. “Euriclea! Vecchia amica mia… Quanto tempo è passato…”
“E ancora sei rimasto quello di sempre.”
“Sempre spiritosa, la cara vecchia Euriclea…” Hyperion tornò a volgere la sua attenzione verso la fidanzata. “Meg, vieni a danzare con me.”
Senza parlare, sotto lo sguardo di rimprovero della nutrice, Meg passò un braccio attorno al collo di Hyperion, e si allontanò con lui verso il fuoco e verso la musica.
Qualcuno prese il posto di Meg sulla panca. “Non sembri felice per lei.” Osservò pacato Il viandante della mattina.
Euriclea non si girò. “Prego solo gli Dei di poter essermi sbagliata sul suo conto.”
Il viandante esaminò i due giovani, ormai presi dal vortice della danza. Le luci del falò si riflessero nei suoi occhi cerulei. “Lui è un guerriero valoroso…”
“ Niente di più. Un giorno, fra qualche decennio, lei si sveglierà con i capelli bianchi, e si accorgerà che lui non la guarda più come sta facendo ora.” Euriclea accennò nella loro direzione. “Attorno a sé troverà solo serve fin troppo scaltre, amiche ottuse, le cui uniche preoccupazioni saranno figli e nipoti, e le mura di una casa che la separeranno dal mondo esterno.”
“Non è quel che sogna la maggior parte delle donne?” Domandò il viandante.
“Meg non è la maggior parte delle donne, lo so bene io che l’ho cresciuta.” L’anziana donna abbassò il capo. “Eppure l’amore può cambiare anche le stelle…”
Il viandante distolse lo sguardo dal fuoco, e lo puntò al cielo notturno.
“Amore…” La parola sembrò uscirgli a fatica dalla bocca. “Qualcosa di così contrario alla ragione.”
“Hai un nome, straniero?”
L’uomo si riscosse. “Puoi chiamarmi Medamos.”
“Un nome che non è un nome.” Commentò Euriclea. Poi continuò il suo discorso. “A volte la ragione da sola non basta, e forse le preoccupazioni di una vecchia nutrice pessimista come me sono infondate. A volte l’amore compie miracoli.”
Hyperion sussurrava parole all’orecchio di Meg, la quale sorrideva felice. Nel frattempo i suoi occhi si posavano involontariamente sulle altre danzatrici davanti al fuoco.
“Ma non penso questo sia il caso.”
I due giovani si allontanarono insieme, sparendo nell’ombra al di là della festa.
 
                                                                                                                                        Is this real?
                                                                                                                                        Is this pretend?
                                                                                                                                        I'll take a stand until the end
Note al capitolo: Medamos: dal greco, significa nessuno
                                   Cilicia: regione dell’Asia minore
                                   Afrodite: dea dell’amore 

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Capitolo 3
*** Il campione ***


Cap.2 Il campione
                                                                                                                                                                   Tripping down
                                                                                                                                                                  Spinning around
                                                                                                                                                                    I'm underground
                                                                                                                                                                  I fell down
                                                                                                                                                                  Yeah I fell down

Corinto, Bosco di Artemide
 
Eos si svegliò di malumore, quella mattina.
Forse fu per questo che l’alba giunse cupa, ammantata di nebbia, come nelle giornate invernali, nonostante fosse primavera inoltrata.
I più festaioli tra gli abitanti di Corinto ritornarono barcollando alle loro case, dopo la nottata di bagordi più riuscita dalla fondazione della città, incrociando il cammino delle serve che proprio allora iniziavano le loro mansioni quotidiane.
Con uno sbadiglio, Meg si svegliò a fatica. Accanto a lei, Hyperion russava ancora immerso nel mondo di Morfeo. Intorno a loro, gli alberi del bosco li proteggevano da sguardi indiscreti.
La ragazza lo guardò scuotendo la testa, poi si lasciò ricadere sul terreno morbido e si rannicchiò vicino a lui. La cosa la fece sentire al sicuro come non le accadeva da anni. Per l’esattezza, da quando suo padre era morto.
Un raggio di sole riuscì a farsi strada tra le nubi, e andò a colpire il viso di Hyperion. Il giovane mugugnò, si girò, si stese, si girò di nuovo, si stiracchiò ed infine aprì lentamente gli occhi.
Il volto di Meg era a pochi centimetri dal suo. “Buongiorno.”
“Salve.” Le sorrise il giovane, e la avvolse in un abbraccio.
“Tutti i soldati di Corinto dormono fino a tardi?” Chiese la ragazza, con un mezzo sorriso.
Hyperion ricambiò. “Solo quelli che trascorrono la notte con una ninfa.”
Meg rise. “Sei a corto di battute, per passare ai complimenti così presto?”
“Speravo rimanessi colpita dalla mia galanteria.” Ammise lui. “La guerra non affina le arti oratorie.”
“Non si direbbe, a giudicare dal discorso di Damocle ieri…”
“Per lui è un talento innato.” Hyperion ridacchiò piano, poi si alzò a sedere. “Dei, quanto mi è mancata Corinto, in questi anni…”
Chinò il capo verso Meg, che lo fissava dolcemente. “Ci sono stati momenti in cui credevo non saremmo mai tornati in Grecia, e avremmo dovuto stabilirci in qualche villaggio sperduto dell’Asia, al servizio della figlia del capotribù.”
“La figlia?” Meg inarcò un sopracciglio.
“Non immagineresti mai cosa possono fare le donne laggiù. Alcune brandiscono addirittura le armi come gli uomini!” Le spiegò Hyperion, tra il divertito e lo scandalizzato. “Niente a che vedere con le fanciulle greche.”
“Non mi sembra così sbagliato voler combattere per salvare i propri cari.” Commentò Meg. “Anch’io avrei voluto partire al tuo fianco, quattro anni fa.”
Hyperion le accarezzò la testa. “Questo perché eri ancora in parte la ragazzetta selvatica che mi tirava le mele dal frutteto di Socrates.”
Sarebbero potuti restare così per sempre.
Il destino, tuttavia, non poteva aspettare, e si manifestò nel suono innaturale di uno squillo di tromba.
“Proviene dalla città.” Hyperion balzò in piedi, inquieto. “E’ un’adunata militare!”
“Che cosa significa?” Chiese Meg, mentre il suono si ripeteva ancora.
“Nemico nell’accampamento.”
 
Corinto, piazza del mercato.
 
“Chi è quel tipo?” Chiese Cleone a Tersicore.
“Un idiota venuto a sfidare il guerriero più forte della città.” Borbottò l’altra, schiacciata dalla folla di spettatori che le attorniava. Tutti gli sguardi erano rivolti al centro della piazza, dove stavano Hyperion e un guerriero sconosciuto, il cui volto era coperto da un elmo di fattura ignota.
“Ovviamente il compito di cacciarlo a calci nel didietro è toccato a Hyperion.” Commentò un vecchio alle loro spalle.
“Patroclo! Non essere volgare!” Lo rimproverò sua moglie.
I due avversari si studiarono per qualche minuto. Hyperion reggeva nella destra la sua spada corta, compagna fedele di guerra; al braccio sinistro era appeso uno scudo di cuoio, piccolo e leggero, adatto ai combattimenti corpo a corpo. Lo straniero, d’altro canto, indossava un mantello, da sotto il quale si intravedevano pezzi di un’armatura di cuoio simile a quella di Hyperion, e teneva ben salda nella mano sinistra una spada a doppio taglio.
“Che si sbrighino a farsi a brandelli! Ho altre faccende di cui occuparmi, a quest’ora del giorno.” Borbottò la vecchia Euriclea, gli occhi ridotti a due fessure.
Lo straniero dagli occhi azzurri, Medamos, considerò attentamente i due avversari. “Hyperion ha la protezione di Ares, non sarà sconfitto. Tuttavia, c’è qualcosa…” Scrutò attentamente il guerriero sconosciuto. “Qualcosa che sfugge…”
Con un movimento repentino, Hyperion dette il via al duello, abbattendo la sua lama contro lo straniero, il quale fu svelto nello sguainare la sua e parare così l’affondo, per poi replicare con una pioggia di colpi.
Meg osservava il combattimento, apparentemente tranquilla come i suoi concittadini.
“Fallo fuori, Hyperion!” Urlò qualcuno accanto a lei. “Fagli vedere la forza di Ares e di Corinto!”
Solo ad un esame più accurato ci si sarebbe potuti accorgere dei suoi occhi leggermente sgranati, delle mani che si torcevano sotto il mantello della tunica: e se Ares avesse distolto gli occhi proprio in quel momento?
Hyperion arrivò a sfiorare l’avversario con il filo della spada, ma questi si tirò indietro con un salto acrobatico.
“Hai visto? C’era quasi riuscito!” Esclamò un bambino magro, davanti alle sue gambe. Per un istante Meg pensò si stesse rivolgendo a lei, ma un’altra voce infantile fu svelta a replicare: “Quasi non vuol dire riuscito. Io scommetto su quello grosso.” Un bimbetto grassottello trotterellò fin dove stava l’amico.
“Ma sono grossi tutti e due!” Obiettò l’altro.
Il bambino fece un ampio sorriso. “Appunto.”
Lo straniero roteò la sua lama e fece cadere lo scudo di Hyperion. La folla rumoreggiò, improvvisamente in ansia. Hyperion non perse tempo a rimpiangere lo scudo, ma si lanciò di nuovo all’attacco, sommergendo l’avversario con una gragnuola di affondi.
“Se fossi in Meg, questo sarebbe il momento adatto per pregare gli Dei.” Cleone si rabbuiò.
Tersicore scrollò le spalle. “Ares non infrangerà la promessa fatta. Non vedo di che agitarsi: sono tutti uguali, fanno tanto i gradassi ma poi, dopo qualche minuto, sono a terra e implorano pietà come codardi.” Come a darle ragione, il guerriero straniero sembrò cedere sotto l’attacco di Hyperion. “E smettila di nominare Meg. Ormai lei non ha più niente a che fare con noi. E’ troppo occupata a farsi accettare dall’alta società che prima disprezzava.”
Il combattimento proseguiva con ardore da entrambe le parti.
“Che cosa intendi dire?” Domandò Euriclea a Medamos.
“Quel guerriero non sembra appartenere a nessuna dellepolis greche. Inoltre, le sue armi, il suo mantello, non somigliano a quelle di nessuno dei regni in cui ho viaggiato.”
“Come puoi dirlo? Hai forse visitato tutti i luoghi di questo mondo?”
Hyperion parò un contrattacco nemico, schivò un colpo destinato al suo fianco scoperto, e scartò di lato, individuando un punto debole nella difesa avversaria.
“Perché ci mettono così tanto?” Il bambino magro si agitò e iniziò a saltellare nervosamente.
Il suo amichetto lo redarguì. “Ignorante, non sai nulla di tattica e strategia?”
Meg si stava domandando cosa poteva saperne un bimbo così piccolo di tattica e strategia, quando la sua attenzione fu deviata tutta verso il duello in corso.
Hyperion decise di sfondare la difesa del nemico, e inscenò una finta che avrebbe dovuto farlo scivolare sotto i piedi dell’avversario, per poi permettergli di trafiggerlo alla gola. Tuttavia qualcosa non funzionò.
“Non è possibile.” Mormorò Tersicore.
 Euriclea era sgomenta. “Non può essere.”
“No.” Il sussurro di Meg risuonò tra il silenzio degli astanti come un urlo. “No.”
La lama del guerriero senza nome era penetrata a fondo nell’armatura di Hyperion. Lo stratega guardò la spada immersa nel suo fianco, incredulo. Lentamente, cadde a terra.
“No!” Meg spinse via i due bambini, e corse verso l’uomo che amava. Si chinò su di lui, in lacrime.
“Megara…” Hyperion la guardò, con occhi appannati. “Non capisco… Ares… Dov’è la protezione…?”
“A qualcuno serve una spiegazione?”
Il terreno cominciò a tremare, e si aprì una voragine al centro della piazza. Lingue di fumo azzurro spento si propagarono di lì fino agli spettatori, che si tirarono indietro. Infine, dallo squarcio uscì una figura alta, avvolta in una tunica nera. Due occhi cerchiati si posarono sugli abitanti di Corinto.
“E… Abracadabra!” Esclamò Ade. “Poi non ditemi che non so entrare in scena con stile!”
La folla ammutolì per qualche secondo. Subito dopo, scoppiò il caos.
 “Ehi, tu!” Ade si era incamminato fino a dove giaceva esanime Hyperion, la testa nel grembo di Meg. “Ragazza!” Meg non parve averlo udito, e continuò a sussurrare e a lacrimare sul viso di Hyperion. “Ehi, dico a te, dolcezza!” Intanto, anche gli abitanti di Corinto avevano ripreso a scappare. Vedendosi ignorato, Ade perse le staffe, e i suoi capelli eruttarono fiumi di fuoco blu. “Insomma, cosa devo fare per avere un po’ di attenzione?” Urlò in preda all’ira.
Calò il silenzio. Meg alzò gli occhi pieni di lacrime. “Che cosa vuoi?”
“Molto meglio. Stavo per dire: il motivo per cui Raggio di sole, qui, ha perso, è che nemmeno Ares in persona può vincere, contro Thanatos.” Indicò il guerriero senza nome, il quale ad un suo cenno tolse l’elmo, rivelando un teschio privo di pupille. Con uno sbuffo di fumo, sparì nel nulla.
Hyperion gemette, comprendendo improvvisamente l’inganno.
“Avresti dovuto pensarci, prima di scommettere contro di me.” Gli sussurrò Ade. “Noi Dei raramente giochiamo secondo le regole.”
“Di che cosa sta parlando?” Domandò affranta Meg. “Hyperion,  che cosa hai fatto?”
“Meg…” Provò a rispondere lui, ma si interruppe sputando sangue.
“Ed ora la tua anima è mia!” Esultò Ade. Con uno schiocco di dita avvolse Hyperion in una coltre di fumo, e lo fece svanire.
Meg sentì il nulla sotto le sue mani. “Dov’è?” Urlò contro Ade. “Dove l’hai portato?”
Ade, in procinto di ritornare per dove era venuto, si fermò interdetto.
“Dov’è Hyperion?” Lo incalzò Meg. “Dimmelo, oppure io ti…”
Il dio della morte la squadrò incuriosito, come notandola per la prima volta. “Oppure che cosa? Non ho tempo da perdere con ragazzine dal cuore spezzato. Il tuo amichetto ha scommesso ed ha perso.”
“Non mi interessa.”
“La vita è dura: arriverai alla fine dell’arcobaleno e le Esperidi ti offriranno un cesto di… arance!” La prese in giro Ade. “Se hai lamentele, rivolgiti all’ufficio informazioni… Non appena sarai morta per poterlo raggiungere.”
Con una risata malvagia, Ade si calò nello squarcio, che si richiuse dietro di lui.
La folla si disperse in fretta. Nella piazza rimase solo Meg, in ginocchio, la testa china sulla spada di Hyperion.                                                               
                                                                                                                                                            I fell down
                                                                                                                                                                     Yeah I fell down
 
Note al capitolo: Eos, dal greco: Aurora
                                    Artemide: dea della caccia
                                    Ninfa: creatura mitologica, fanciulla di grande bellezza
                                   Thanatos, dal greco: Morte
                                   Esperidi: divinità minori della mitologia greca, sono guardiane dell’albero dalle mele d’oro 

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Capitolo 4
*** Niente da perdere ***


Cap. 3  Niente da perdere
 
                                                                                                                                       I'm freaking out, where am I now?
                                                                                                                                 Upside down and I can't stop it now
                                                                                                                                 Can't stop me now, oh oh
 
Erano ormai trascorsi dieci giorni dalla scomparsa di Hyperion. Nonostante la mancanza di un cadavere, la famiglia aveva deciso di allestire comunque una pira funebre e una cerimonia, a cui avevano partecipato tutti i cittadini di Corinto. Per tutto il tempo Meg era rimasta silenziosa, gli occhi spenti, le mani lungo i fianchi, il volto immobile.
“Povera ragazza…” Avevano commentato le prefiche, venute per aggiungere le loro lacrime a quelle dei parenti. “Alla viglia del matrimonio… Una vera tragedia.” E avevano coscienziosamente spremuto i loro occhi e alzato il tono dei loro lamenti.
“Si dice che ora sia rimasta sola.” Sussurravano i vecchi al governo. “Il padre è morto, ed era un uomo benestante.”
“Finora era tutto intestato ad Hyperion, come futuro sposo…”
“E tutti sanno che le donne non possono ereditare.”
La pira arse per una notte intera, assieme agli oggetti che erano appartenuti ad Hyperion.
“Ben le sta.” Borbottò Tersicore. “Se non avesse avuto tanta fretta di abbandonare le amiche per entrare nell’alta società…”
Cleone scosse il capo. “Le kyrie della casa di Hyperion non avrebbero tollerato le nostre umili origini. Lo ha fatto per lui, per Hyperion.”
“E anche se fosse? Non per questo è meno in torto. Guarda poi come l’ha ripagata Hyperion: facendosi ammazzare dal dio della morte.”
Ad uno ad uno gli spettatori se ne andarono.
Meg rimaneva in silenzio, come se quella pira, oltre che ai ricordi di Hyperion, stesse consumando anche la sua stessa anima.
 
Fu solo all’alba che le ultime fiamme si spensero sfrigolando con le prime gocce di rugiada. Meg si riscosse, gettò un ultimo sguardo alla catasta di legna, ormai in cenere, e mosse i passi verso casa. Percorse le strette strade, ancora deserte, che l’avrebbero condotta alla dimora di famiglia e quasi inciampò su uno dei bambini che litigavano in mezzo alla strada.
“… Ma l’altro era più grosso, per cui… Ehi! Signora!” Da qualche parte molto lontana della mente di Meg, una parte di lei si chiese che cosa ci facessero fuori a quell’ora i due bambini del giorno del duello. “Solo perché sei più alta di noi non credere che la strada sia solo tua!”
“Chiedo scusa.” La voce spenta della ragazza rispose in automatico, mentre lei continuava a camminare verso casa.
Come attratti da quella che ritenevano una stranezza inconcepibile, i due bambini smisero di litigare e la seguirono.
“Signora? Perché hai quella faccia lunga?” Chiese quello magro. “Vuoi giocare con noi?”
“Scemo!” Intervenne l’altro. “Non la riconosci? E’ la moglie di quel soldato!”
“Ah! La moglie del nuovo schiavo di Ade?” Esclamò il bambino, incapace di trattenersi.
A quelle parole, Meg si volse di scatto. “Come avete detto?” Chiese, furiosa. Con un gesto rapido, afferrò entrambi i bambini per la collottola e li alzò all’altezza dei propri occhi. “I mocciosi come voi dovrebbero essere a dormire a quest’ora, invece di insultare la memoria dei morti.”
Con un rumore secco i due si contorsero, rivelando le loro vere sembianze.
“Che ne dici ora, dolcezza?” Le chiese Panico, sorridendo con tutti i suoi denti affilati.
Senza un battito di ciglia, Meg li scaraventò sul bordo della strada.
“Mi ha fatto male!” Esclamò Pena, incredulo.
“E te ne farò ancora se non sparisci subito dalla mia vista, mostriciattolo!” Sibilò Meg. Senza aggiungere altro, come se incontrare demoni dell’Ade all’alba per le strade di Corinto fosse un evento irrilevante, girò le spalle e proseguì verso casa.
 
Purtroppo una sgradevole sorpresa era lì ad attenderla.
Una schiera di servitori, mai visti prima, stava entrando ed uscendo dall’atrio della sua casa. Mobili vecchi e usurati dal tempo e dall’uso venivano scaraventati fuori dalle finestre, infrangendosi al suolo, dove i resti rimanevano ad adornare il giardino.
Meg abbandonò la sua apatia. “Che cosa sta succedendo?” Chiese incredula ad uno dei servi, il quale la ignorò e continuò ad abbattere un antico ulivo cresciuto al centro del patio. “Fermo! Questa è la mia casa, non osare…”
“La tua casa?” Una voce conosciuta si fece largo tra le file dei servitori. “Meg, mia cara, credo tu non sia aggiornata sugli ultimi avvenimenti di cronaca mondana.” Damocle uscì da una delle stanza.
“Damocle?” Meg non capiva. “Che cosa ci fai qui?” Indicò con una mano lo scempio attorno a lei. “Che cosa sta succedendo alla mia casa?”
“E’ proprio questo il punto, tesoro. Non è più la tua casa: adesso appartiene a me. Gli anziani hanno deciso di indagare più approfonditamente nella genealogia di tuo padre.” La bloccò Damocle, lustrandosi le unghie. “E, grande scoperta: un erede esisteva: me.”
“Non è possibile!”
Damocle le si avvicinò, per sussurrarle all’orecchio: “Sai, forse potresti aver ragione: forse, una serie di borse d’oro asiatico, passate di mano in mano, potrebbe aver avuto la giusta influenza sulla questione… Forse, la morte del mio migliore amico mi ha talmente sconvolto da portarmi a decidere di ritirarmi dall’esercito, e di metter su casa…”
“Bastardo.”
L’uomo rise. “Suvvia, mia cara, non serve essere scortesi. Pensa piuttosto alle migliorie che ho in programma di apportare alla tua ex-casa. Tutto secondo l’ultima moda. E tu, Meg, potresti essere al mio fianco per ammirare la mia saggezza in queste cose. Anzi.” Rifletté ad alta voce, prendendo il mento di Meg tra le dita. “Ora che ricordo, tu dovrai essere al mio fianco, se non vuoi finire in mezzo alla strada. Altrimenti… Dicono che non lontano da qui ci sia un tempio ad Afrodite Punica, particolarmente frequentato dai viaggiatori: potresti rifugiarti lì…”
Il suono di uno schiaffo, secco e preciso, risuonò sopra ogni altro rumore. I servi si fermarono, ammutoliti.
Damocle si massaggiò la guancia, irato. “Piccola selvaggia. Prendetela!” Ordinò ai servitori e alle guardie. “Che sia portata davanti agli anziani per aver insultato gravemente il nuovo membro del Consiglio!”
Un paio di servi robusti si precipitarono su Meg, che non stette ad aspettarli. Con uno scatto guadagnò l’uscita, assestò un calcio all’inguine del più veloce dei due, e rapidamente scomparì per le strade di Corinto.
 
Corse finché non le parve che il cuore le scoppiasse nel petto e le gambe divenissero molli. Alla fine si ritrovò nel bosco di Artemide, ed esausta, si lasciò cadere a terra, appoggiando la schiena ad un tronco spezzato.  Non aveva più una casa, una famiglia. Riusciva solo a pensare ad Hyperion, a quel maledetto duello che aveva distrutto le loro vite, in modi diversi. Le lacrime riempirono i suoi occhi, per la prima volta dalla morte di Hyperion, e finalmente Meg scoppiò in singhiozzi, e per lungo tempo pianse.
 “Le lacrime non ti saranno di nessun aiuto, ragazza mia.”
“Euriclea!” Si sorprese la ragazza, e si alzò, mentre la vecchia nutrice arrancava faticosamente tra il sottobosco, sorretta da un uomo a lei sconosciuto.
“E chi altri? La dea Atena in persona forse?” Brontolò Euriclea, sedendosi pesantemente sul tronco spezzato. “Dei immortali, Meg, quando piangi potrebbero sentirti fino alle Colonne d’Ercole. E’ un miracolo che non ti abbiano sentita i lupi.”
 “Io, non…” Provò a replicare Meg, ma senza vigore. “Lasciate che mi prendano, allora. Non mi resta più nulla.”
Euriclea si alzò, e, senza preavviso, abbatté il suo bastone sulla schiena di Meg.
“Sciocca.” Disse quietamente, mentre la ragazza si rialzava da terra. “Non sei più la ragazza che ho allevato. Che cosa avrei dovuto fare io, allora, quando mio marito e mio figlio morirono nella guerra contro Tebe, decenni fa? Farmi ardere sulla pira?” Commentò aspramente. “Le donne non dovrebbero perdere se stesse per un uomo. Soprattutto per certi uomini.”
“Lui era diverso!” Urlò Meg. “Darei tutta la mia vita per averlo di nuovo qui un solo giorno, una sola ora!” Scoppiò a piangere. “Lui era tutto per me. Farei qualunque cosa.”
Medamos era rimasto a guardare la scena: in quel momento fu colpito da un pensiero improvviso. Ad Euriclea non sfuggì il cambiamento impercettibile della sua espressione. “Uomo senza nome.” Lo chiamò. “A cosa stai pensando?” Il suo fu un ordine, al quale nemmeno Medamos pensò di trasgredire. Si rivolse direttamente a Meg.
“Lo ami davvero così tanto da fare qualunque cosa per salvarlo?” Chiese a bassa voce.
“Qualsiasi cosa.”
Medamos parve riflettere per alcuni minuti, come combattuto tra due diverse scelte. Infine parlò. “Allora, l’unico modo per farlo è scendere nell’Ade.”
Le due donne lo guardarono incredule. “Credo tu abbia bisogno di dormire, viandante.” Disse Euriclea.
“E’ impossibile scendere nell’Ade, a meno di essere morti!”
“Non sarebbe una cattiva idea.” Mormorò Meg, senza essere udita.
“E’ già stato fatto, un tempo. Orfeo si recò nell’Ade per ottenere l’anima della sua sposa Euridice.”
“E’ solo una leggenda che si racconta ai bambini la sera.” Meg scosse il capo.
 “No Esiste davvero.” Medamos fissò Meg. “Ma si tratta di un viaggio pericoloso. Saresti nel territorio di Ade, e non potresti contare che sulle tue forze. Potresti rimanere ferita. Potresti non ritornare mai più nel mondo dei vivi.”
Euriclea intervenne. “Meg, non farlo. Puoi fuggire con me, a Sparta, l’unico posto in tutta la Grecia dove le donne hanno ancora qualche libertà: ho una nipote che si prenderà buona cura di noi. Ero venuta a cercarti per questo, in effetti.” Si accigliò: sembrava che la situazione le fosse sfuggita di mano.
Ma Meg, illuminata dalla speranza, non la stava ascoltando. “Tu sai dov’è l’entrata al regno dei morti?” Si aggrappò con furia alle vesti di Medamos. “Ti prego, dimmelo!”
L’uomo la allontanò gentilmente. “E’ incredibile…” Mormorò tra sé. “Quello che può fare l’amore…” Scosse la testa, scacciando il pensiero.
“Ti guiderò fin lì.”
 
Camminarono a lungo, nella foresta. Infine giunsero ad un crepaccio nel fianco del monte. Le pietre formavano una scala naturale verso l’interno buio del baratro.
“E’ qui.” Medamos si fermò. “Alla fine di queste scale troverai una galleria, che porta dritta alla piana dell’Acheronte, sorvegliata da Cerbero. Dovrai superarlo, e passare il fiume senza domandare l’aiuto di Caronte, il traghettatore delle anime. Il resto è ignoto anche a me.”
“Pensavo avessi viaggiato ovunque.” Criticò Euriclea.
“La morte è un mistero che nemmeno i più saggi possono svelare.”
Meg guardò verso il fondo del baratro, e involontariamente i suoi piedi indietreggiarono.
“Sei ancora in tempo per tornare indietro con me.” Le sussurrò Euriclea. “Bambina mia, non farlo: non ne vale la pena.”
Meg gettò indietro i capelli sciolti, e li legò con un nastro. “Addio.” Sussurrò alla vecchia nutrice. “Madre.”
Medamos le porse un ciondolo argenteo. “Tieni.” Meg lo afferrò: al centro del gioiello una civetta la osservava con pupille sgranate. “Dovrebbe proteggerti dall’influenza di Ade.”
La ragazza lo squadrò attentamente. “Non so chi tu sia, straniero, ma ti sono debitrice. Grazie.”
“Non ringraziarmi.” Il viandante esitò, poi aggiunse. “Non posso accompagnarti nel tuo viaggio: non mi è consentito varcare le soglie del regno dei morti. Tuttavia, ascolta questo povero pazzo.” Scosse la testa, non capacitandosi della sua follia, e proseguì. “Se, per caso, mentre sarai alla ricerca del tuo Hyperion, ti capitasse di incontrare un uomo, non molto alto…” Medamos parve riportare con fatica alla mente il volto di qualcuno. “Non particolarmente attraente, ma intelligente, e maestro nell’arte della retorica…” Si interruppe.
“Gli porterò i tuoi saluti.” Concluse Meg per lui. “Qual è il suo nome?”
“No!” Scattò Medamos. “Non parlargli di me. Non dovrà nemmeno sapere che mi hai incontrato. Se tornerai in superficie, vorrei solo sapere da te se, dovunque egli si trovi, sia felice.” Sospirò. “Se lo incontrerai, capirai da sola che è lui. Mi basta questo per saldare il nostro debito.”
Euriclea aveva osservato attentamente Medamos. Si avvicinò a Meg per un ultimo abbraccio. “Sii cauta, Meg.”
“Tornerò con lui, te lo prometto.”
“A me basterà rivederti di nuovo.”
Le due donne si staccarono. La più vecchia indietreggiò, lontano dal dirupo, mentre la più giovane, senza voltarsi, iniziava la sua discesa nell’oscurità.
“Io credo che tu sappia dell’amore molto più di quel che ritieni.” Euriclea osservava Meg scendere lentamente per le lastre di pietra irregolari.
Medamos non si girò verso di lei, ma sul suo viso comparve un debole sorriso ironico. “E tu sembri sapere molto più di quel che dovresti.”
“E’ il privilegio dell’età.”
“Amore…” Mormorò Medamos, gli occhi fissi su Meg. “E’ completamente diverso dalla ragione. La ragione non conosce amore. Può solo… Immaginarlo.”
La testa di Meg scomparve nel buio.
 
                                                                                                                                 Can't stop me now, oh oh
Note al capitolo: Afrodite Punica: dea delle prostitute (a quanto ricordo…)
                                   Prefiche: donne pagate per piangere ai funerali
                                   Orfeo: eccezionale suonatore di lira, andò nell’Ade a riprendere l’anima della defunta             
                                                   sposa Euridice
  

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Capitolo 5
*** Nel buio ***


                                                                                                                                                                         I, I'll get by
 
La discesa fu lunga e spossante: le lastre di pietra che formavano la rudimentale scalinata verso le porte dell’Ade erano scivolose e taglienti, e più di una volta Meg rischiò di mettere un piede in fallo, con le ovvie conseguenze. Arrivata al fondo del crepaccio, si ritrovò circondata da pareti di roccia, fiocamente illuminate da qualche raggio di sole. In una di esse vi era un varco, stretto e oscuro: il passaggio verso l’Ade.
Meg respirò profondamente, e brandì la torcia fatta con i rami e la resina che aveva avuto l’accortezza di raccogliere durante il tragitto nella foresta.
Afferrate due pietre, le sbatté tra loro, fino a creare alcune deboli scintille, che subito infiammarono la torcia. Si assicurò di avere i calzari ben legati alle caviglie, e mise le due pietre nella piccola borsa che portava alla cintura: non era pronta per quel che l’aspettava, ma non aveva importanza.
Si chiese se a quel punto non dovesse prima invocare gli dei sul buon esito della sua impresa, ma ripensò ad Ade che sghignazzava sul corpo esanime di Hyperion, e decise di farne a meno.
Reggendo la fiamma come se da essa dipendesse il suo successo, si incamminò nel tunnel.
 
La torcia riusciva ad rischiarare il terreno solo fino a pochi centimetri davanti a lei. L’oscurità era densa, soffice, innaturale: segno che la strada era quella giusta. Nonostante il luogo, Meg non scorse nessun animale notturno, nessun insetto: sembrava che non potesse esserci vita in un posto simile, solo il nulla.
Quando infine il tunnel si allargò e sfociò su di un pianoro arido, la luce fioca che pervadeva il nuovo ambiente ebbe l’effetto di accecarla, nonostante la fiamma della torcia. Udì delle voci: davanti a lei le rocce scendevano fino alle acque di un fiume enorme, del quale non era possibile vedere la sponda opposta; un pontile di legno marcito ospitava alcune sagome in attesa di un traghetto. Meg era arrivata all’Acheronte.
“Devo solo trovare un modo per arrivare dall’altra parte senza essere vista.” Si disse la ragazza, riflettendo attentamente sul problema. Un angolo della sua mente si chiese se non stesse dimenticando qualcosa, ma Meg ricacciò indietro il pensiero, troppo occupata ad escogitare un modo per passare oltre.
Fu così che si accorse di Cerbero solo quando avvertì il suo fiato ansimarle sul collo.
Si girò di scatto sulla schiena, e per poco non lanciò un urlo di terrore: l’enorme mastino a tre teste stava proprio sopra di lei, annusandola e ringhiando sommessamente. I suoi occhi enormi non esprimevano altro che crudeltà e, per il momento, incomprensione: il mostruoso animale non aveva ancora compreso se quella che aveva davanti fosse un’anima destinata al traghetto oppure un’intrusa da sbranare immediatamente.
Meg capì di dover agire senza indugio.
“Bel cagnolino…” Tentò con voce strozzata, rimproverandosi all’istante per la trovata decisamente fuori luogo. Cerbero rimase interdetto: in migliaia di anni di onorato servizio, nessuno si era mai rivolto a lui con un appellativo simile. La ragazza ne approfittò per muoversi impercettibilmente verso di lui. Non aveva nessuna possibilità di riuscire a correre più veloce del cane, in un’eventuale fuga.
Il mostro si grattò metaforicamente la testa: quella cosa non aveva l’odore dei morti. I vivi, d’altro canto, non avrebbero mai osato avvicinarsi a lui come stava facendo la creatura. I suoi tre cervelli si consultarono, e decisero infine di portare quella curiosità da Ade in persona, dopo averla sbranata.
Cerbero si preparò quindi ad attaccare: emise un latrato infernale, e… La preda era sparita dalla sua vista.
Il bestione guardò a destra e a sinistra, ma della creatura nessuna traccia.
Quello fu il momento che Meg scelse per aggrapparsi alla sua pancia e, con uno scatto di reni, montare sulla sua schiena, proprio dietro alle tre teste ringhianti.
Va detto sul conto di Cerbero che si comportò in modo appropriato: ululò, scalciò, si gettò a terra, provò ad azzannare l’aria, ma Meg si stringeva salda al suo collo taurino, incurante degli scossoni.
Dopo un certo tempo, anche Cerbero si stancò, e ricadde sulle zampe posteriori. Come liberarsi di quella pulce di nuova specie?
“Su, in piedi, bestiolina…” Meg decise di tentare la sorte: dopo una serie di contorsioni riuscì ad estrarre dalla borsa un piccolo pugnale, senza mollare la presa, e, usandolo come pungolo, provò ad indurre Cerbero a portarla dove lei voleva. “Coraggio, avanti!”
Il pugnale poteva solo intaccare la pellaccia dell’animale, ma era fastidioso. Di malavoglia Cerbero si alzò, e iniziò a trotterellare verso la riva dell’Acheronte.
Dove si fermò con decisione.
“Che ti succede?” Protestò la ragazza. “Lo so che puoi attraversarlo, sei un cane infernale, o no?”
Il mostro uggiolò in segno di risentimento.
Meg sospirò. “Va bene, forse noi due siamo partiti con il piede sbagliato, ma non mi sembra il caso di fermarsi adesso.”
Altro guaito.
“Non mi dirai che non sai nuotare?” Esclamò allibita.
Cerbero abbassò le sei orecchie tutte assieme.
“Non ci posso credere: il famoso Cerbero, il terrore delle anime dei morti, e non è in grado di guadare un semplice canale?”
La celebrità in questione abbaiò per protesta.
“D’accordo, è un po’ più che un canale… Ma davvero non sei in grado di attraversarlo?”
L’animale parve pensarci su per un po’. Infine, quando Meg aveva ormai perso le speranze di poter proseguire (e di poter scendere impunemente dalla groppa del mostro), Cerbero girò le zampe e ritornò indietro.
“Ehi! Ehi! Che cosa stai facendo? L’altra sponda è da quella parte! Che cosa vuoi fare?”
Nessuna risposta.  Cerbero arrivò fino alle rocce da dove era sbucata Meg, si voltò di nuovo, si preparò, prese la rincorsa… “No! Non farlo, hai capito? Non provarci nemmeno, bestione….No! No!”
 E saltò.
Il tempo di un urlo, e Meg e il suo destriero furono sull’altra riva dell’Acheronte.
 
Seduto sul suo scranno con vista sul Tartaro, Ade abbassò lo sguardo verso i due parassiti che si contorcevano ai suoi piedi.
“Ci perdoni, o sommo!”
“Siamo solo miserabili larve!”
Ade sputò l’osso dell’Arpia mangiata a pranzo. “No! Non è corretto: siete due piattole, due pustole sul sedere del mondo dei morti!” Specificò, per poi aggiungere, adirandosi sempre di più: “Vi avevo solo ordinato di procurarmi un semplice attrezzo per il fai-da-te… E voi, idioti, avete osato tornare da me con la coda tra le gambe e senza martello?” Urlò, alzandosi e incendiando la mobilia con le fiamme provenienti dai capelli.
“Ma, o oscurissimo, il fatto è che su al Nord non sono di larghe vedute…” Tentò Panico.
Pena proseguì, tremando. “Sì, eccellenza, e quando Thor ha capito che…”
“Silenzio!” Ade sprigionò un’altra fiammata. Poi si lasciò ricadere sul suo trono: “Perché, perché sono a corto di collaboratori validi e vivi? Forse dovrei mettere un annuncio…”
“Che magnifica idea, signore!” Pena si rallegrò. “Io e Panico potremmo svolgere i colloqui preliminari…” Venne prontamente colpito da un tizzone e relegato in un angolo.
“Eccellenza!” Uno spirito svolazzò velocemente fino al trono, si inchinò e annunciò: “Cattive notizie: Cerbero è scomparso!”
“Che cosa?” Tuonò Ade, diventando incandescente. “Quel grosso ammasso di pulci ha deciso di concedersi una vacanza?”
“Sembrerebbe così, eccellenza.” Lo spirito si dileguò rapido.
Senza perder tempo, Ade si spostò verso un anfratto della stanza, dove, sopra una stalagmite, una formazione calcarea concava conteneva dell’acqua torbida. Il dio della morte passò una mano sopra il liquido: quello divenne limpido e alcune immagini comparvero alla vista.
“La mappa dell’Ade… Oh, vi prego, signore, fate vedere anche a noi!” Implorarono Pena e panico.
“Zitti, amebe! Bene, bene… Minosse è al suo posto, Caronte pure, l’Acheronte scorre ancora, il Lete idem con patate…” Borbottò Ade, continuando a guardare. “Vediamo… Dove può essersi cacciato quel sacco di pulci? Le Isole dei Beati? No… Ah-ah!” Esclamò soddisfatto. “Eccolo qui: è al Campo degli Asfodeli… Ma chi ha scelto questi nomi sdolcinati? E… Chi abbiamo qui?” Incuriosito, Ade avvicinò la testa alla fonte.
“Che cosa vedete, vostra grazia?” Domandò Panico, saltellando fino ad aggrapparsi al bordo della fonte con gli artigli, per poi sporgersi a guardare. “Oh! Sembrerebbe…una ragazza?”
“Dieci più per l’intelligenza.” Commentò Ade.
“Sarà senza dubbio qualche spirito che ha perso la strada.” Ipotizzò Pena, saltando in groppa a Panico per vedere pure lui.
“Impossibile, Minosse avrebbe dovuto automaticamente farla comparire nella sua destinazione finale…” Mormorò Ade, pensoso, osservando attentamente Cerbero farsi strada con la ragazza in groppa. “A meno che… No. No, non può essere… E’ assurdo…”
“Che cosa è assurdo?” Chiesero i due scagnozzi.
Ade gettò un’ultima occhiata ed allibì. “E invece sì, per le chiappe di Zeus! Quella ragazza, è viva!”
Pena e Panico si guardarono sgomenti.
 “Viva!” Urlò Ade, in fiamme. “Una non-morta che passeggia allegramente per il mondo dei morti!” Sputò fiumi di lava. “Che cos’è questo, un nuovo modo per passare il fine settimana? Un giro turistico dell’Ade in sella al mio cane da guardia?”
“Vostra nerezza…”
“Voi! Provvedete subito a riportare Cerbero al cancello principale e a sbarazzarvi di quella ragazza!” Ordinò Ade. “Se muore dalla voglia di farsi una scampagnata, possiamo accontentarla immediatamente!”
 
Note al capitolo: Acheronte: primo fiume infernale
                                   Cerbero: cane a tre teste a guardia dei cancelli dell’Inferno
                                   Tartaro: luogo più profondo dell’Ade, dimora di Ade in persona e dei dannati più malvagi
                                   Piana degli Asfodeli: luogo in cui dimorano le anime di chi in vita non è stato né troppo
                                                                             nobile né troppo malvagio
  

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Capitolo 6
*** Quel che la morte non spezza ***


                                                                                                                                             Narrami, o Musa…
 
Sia Meg che Cerbero non avevano la minima idea del luogo dove stavano vagando da ore. La piana, una distesa di erba alta e mossa dal vento, era cosparsa di asfodeli, delicati come seta. Una nebbia sottile e impalpabile permeava l’atmosfera, rendendo difficile vedere al di là del proprio naso (o muso).
Meg non osava scendere dalla groppa di  Cerbero: da parte sua il cagnone si era adeguato al suo nuovo ruolo di cavalcatura, e sembrava godersi la vacanza inaspettata, mugolando e saltellando per tutto il campo.
“Fermo! Fermo!” Lo rimproverò Meg. Il cane si immobilizzò e abbassò le orecchie.
La ragazza lo guardò stringendo gli occhi, con attenzione. “Immagino che se solo provassi a scendere tu te ne andresti subito.”
Cerbero guaì.
“Non ti credo.”
Una sagoma trasparente fluttuò davanti a loro, interrompendo la discussione.
“Tu ne sai qualcosa?” Domandò Meg alle tre teste, che si scossero positivamente. “Un’anima? Forse è qui da abbastanza tempo per sapere dove possiamo trovare Hyperion.”
Meg spronò Cerbero, e i due si misero all’inseguimento dell’anima, ma invano.
“L’abbiamo persa.” Sbuffò Meg. “Non puoi correre più veloce, bestione?”
Un ringhio fu la risposta.
“Va bene, non sei un bestione, ma un bravo cagnolino. Ora, puoi per favore raggiungere quello spettro?”
“Nemmeno lui è in grado di farlo.”
“Già: a lui non è consentito avvicinarsi alle anime già giudicate.”
Meg sobbalzò. “Chi siete? Fatevi vedere!” Dalla nebbia comparvero due figure rattrappite, avvolte in laceri manti neri.
“Siamo gli oracoli dell’aldilà…” Declamò uno di loro con tono teatrale. “Siamo qui per vaticinare il tuo futuro.”
“Un futuro alquanto breve, se posso permettermi.” Aggiunse l’altro.
Con aria di sfida, la ragazza strinse di più la sua presa su Cerbero. “Questo è da vedere, nonnetti.” Senza preavviso, spronò Cerbero. Il cane ringhiò di nuovo e si catapultò sui due nuovi arrivati, i quali furono pronti a farsi da parte, sghignazzando. “Addio, ragazza!”
Alle loro spalle all’improvviso apparvero due enormi esseri semi-umani: dal loro torace spuntavano decine e decine di braccia e di mani dalle unghie appuntite.
“Centimani…” Dopo il primo iniziale attimo di sgomento, Meg si riprese. “Coraggio, Fido, facciamogli vedere cosa sappiamo fare!” Cerbero abbaiò e si lanciò sui mostri.
“Sarà una cosa veloce.” Gongolò uno dei due oracoli.
“Io scommetto sui centimani!” Dichiarò l’altro.
Un istante più tardi erano entrambi a terra, e le tre teste di Cerbero sopra di loro li fissavano con aria feroce.
Immediatamente Pena e Panico riacquistarono le loro solite sembianze.
“Ci risparmi, signora!”
“Non intendevamo… Non sapevamo…”
“Ditemi un solo motivo per cui io non dovrei… Ehi, un momento.” Fissandoli con espressione meditabonda, Meg continuò. “Noi ci conosciamo, forse?”
Panico scosse la testa. “Noi non conosciamo nessuno. Facciamo una vita talmente appartata…”
“Aspetta, Panico, guardala… Non sarà mica…”
I due mostriciattoli squadrarono Meg. “Potrebbe esserlo…”
“ No, guarda, la forma del mento è tutta diversa…”
“Eppure a me sembra…”
“Lo è o non lo è?”
“Quasi…Affatto.”
“Insomma!” Sbottò l’interessata. “Avete deciso?”
Cerbero ruggì. Pena e Panico urlarono: “Pietà!” Cercando di liberarsi, Panico chiese: “Tu somigli molto alla ragazza di Corinto, la fidanzata di quel perdente, come si chiamava?”
“Qualcosa come Hurrah, mi sembra…”
“Il suo nome è Hyperion!” Scandì Meg, furiosa. “Adesso mi ricordo di voi… I due finti mocciosi. Dunque siete al servizio di Ade: avrei dovuto immaginarlo.” Ad un suo cenno, Cerbero afferrò con i denti le collottole dei due demonietti. “Capitate al momento giusto: mi porterete da Hyperion. Adesso.”
“Ma noi…” Provò a protestare Pena, ma Panico lo interruppe.
“Shhh. Pensa: lei non sa dove andare… La porteremo direttamente da Ade, e ci penserà lui a farla fuori!” Sussurrò al collega.
“Niente chiacchere, laggiù.” Ordinò Meg, e la compagnia si incamminò nella nebbia.
 
“Allora? Quanto manca ancora?” Chiese esasperata la ragazza dopo ore e ore di marcia solitaria.
“Non siamo in un parco turistico, pupa: benvenuta nell’Ade!”
“Non sono la tua pupa, verme.”
Si erano lasciati alle spalle il Campo degli Asfodeli, ed ora camminavano lungo la riva di un largo fiume dalle acque dorate. Interrogando Panico, Meg era venuta a sapere che si trattava del Lete.
“Vi avverto.” Disse la ragazza con un cipiglio truce. “Se state cercando di giocarmi un brutto tiro, finirete nel suo stomaco senza aver il tempo di dire Pane alle olive.” Indicò Cerbero, il quale mugolò di soddisfazione, pregustando il pasto.
Pena e Panico deglutirono.
Il corso del Lete si allargò progressivamente, sfociando in un largo bacino: in lontananza si intravedevano alcune isole, alle quali il fulgore delle acque conferiva un’aura dorata.
“Che cosa sono?” Domandò Meg, ammaliata.
“Che cosa?” Chiese Pena.
“Quelle isole.”
Pena fissò Panico allarmato.
“Quelle? Niente.”
“Non sono niente. Niente di degno della tua attenzione, mia signora.”
Anche Cerbero guaì lamentoso, e cambiò direzione, dirigendosi verso un ponte sul fiume, che dava su di un pianoro in discesa, spoglio e arido.
“Aspetta, voglio vedere che cosa c’è laggiù.” Meg tentò di far cambiare rotta a Cerbero, ma inutilmente. Sulla riva del bacino scorse una piccola barca dorata. Con un salto scese dalla groppa dell’animale, e si precipitò a bordo, prima che gli altri potessero fare alcunché. Non appena fu a bordo, la barchetta si allontanò dalla riva, prendendo il largo.
“Hai visto? Hai visto?” Strillò Pena, agitandosi freneticamente. “E’ andata . E chi lo sente ora Ade?”
“Calmati.” Panico infilò a tradimento un dito in uno degli occhi di Cerbero. Il cane mugolò di dolore e mollò la presa sui due demonietti. Pena e Panico furono svelti a scappare oltre il ponte, nascondendosi tra le rocce spoglie. Cerbero si riprese, fece per inseguirli, poi gettò uno sguardo alla barchetta, quasi sparita tra le onde: si accucciò sulla riva e restò ad aspettare.
non troverà quel che sta cercando. Dovrà tornare indietro, e allora sarà nostra.”
 
La traversata fu veloce, o almeno così sembrò a Meg. L’imbarcazione si arenò da sola sulla spiaggia di un’isola, permettendo alla ragazza di scendere.
Attorno a lei c’erano alberi d’ulivo, ruscelli di acqua limpida, radure amene e, sullo sfondo, alcune semplici abitazioni. L’alone luminoso che aveva attratto Meg permeava l’aria, rendendo ogni cosa illuminata di luce soprannaturale.
“Hyperion… Ti trovi forse qui?” Mormorò Meg, muovendo alcuni passi.
Venne bloccata da una voce dai toni gradevoli. “Fermati, ragazza. Questo non è un posto per i vivi.” Un uomo comparve dal bosco. Era vestito con una semplice tunica di lana filata a mano, e sulla testa portava un cappellaccio da contadino. Con gentilezza, allargò una mano verso la sponda da cui Meg era venuta. “Temo tu debba andartene.”
“Sto cercando una persona. Non tornerò indietro senza di lui.”
L’uomo la fissò con sguardo penetrante. “ Nessuno può riportare in vita i morti, a meno che Ade non acconsenta.”
“Non mi interessa.”
“Parole coraggiose. Su, parla, chi stai cercando? Se è un’anima che risiede nelle Isole dei Beati ti condurrò da lui.”
“Hyperion, figlio di Menelao, eroe di Corinto. Ade lo ha portato con l’inganno nel suo regno.”
L’uomo annuì. “Hyperion. Avrei dovuto sospettarlo. Mi dispiace, ragazza, ma non lo troverai qui: Ade lo trattiene nel Tartaro, il luogo più oscuro del suo reame.” La guardò con pietà. “Ascolta il mio consiglio: torna indietro, nel mondo dei vivi. Nessun mortale può entrare nel Tartaro e rimanere in vita.”
Meg scosse rabbiosamente la testa. “No! Non posso arrendermi! Non mi interessa se morirò nel tentativo, io devo salvare Hyperion!”
“Perché?”
“Perché…Perché senza di lui io non posso vivere.”
Con un sospiro, lo sconosciuto chinò il capo. “Se davvero è questo quel che desideri, non ti tratterrò oltre.  Il Tartaro si trova sull’altra sponda del Lete: attraversa il ponte e la Valle del Pianto, e arriverai alla dimora di Ade.”
“Ti ringrazio.”
“Non farlo.” L’uomo non concluse la frase e voltò la testa verso le abitazioni in lontananza. Meg lo osservò: non aveva l’aria di un nobile, e il suo aspetto era insignificante, eppure c’era qualcosa nel suo modo di parlare che avrebbe spinto chiunque ad ascoltarlo per ore. Prese tra le mani l’amuleto datole da Medamos e lo esaminò alla luce. Una civetta d’argento.
Il suo interlocutore si rivolse a lei. “Devo lasciarti, ragazza, per tornare alla mia casa. Mia moglie aspetta con impazienza il mio ritorno: nonostante la morte, questo in lei non è cambiato.” Sorrise. “Non posso far altro che invocare su di te la protezione degli dei…”
Con un’improvvisa intuizione, Meg lo interruppe.
“Aspetta.” Raccolse le parole nella sua mente. “Tu… Sei qui da molto tempo, non è così?”
L’uomo sorrise. “Più di quel che potresti immaginare.”
“Oh, allora è impossibile che tu conosca…”
Incuriosito, lo sconosciuto la esortò a proseguire. “Chi dovrei conoscere?”
Meg scrollò le spalle, fingendo indifferenza. “Non è nulla, in realtà. E’ solo che, prima di entrare in questo posto, ho incontrato una persona…”
“Una persona? Un po’ vaga come descrizione…”
“Un uomo.” Meg lo guardò negli occhi, ma non vi lesse nulla. “Diceva di voler conoscere la sorte di un tale la cui descrizione corrisponde alla tua…Ma deve essersi confuso, non credi?”
“Quest’uomo… Descrivimelo.”
Meg chiuse gli occhi, riportando alla mente Medamos. “Alto, ma non tanto da attirare l’attenzione. E’ quasi del tutto coperto da un mantello scuro. Ricordo bene solo i suoi occhi: azzurri, talmente chiari da incutere timore.” L’uomo trattenne il fiato, e Meg proseguì. “Si diletta di retorica, a quanto diceva. Non deve essere molto sveglio, in realtà: pensa, nel caso avessi trovato il suo amico, voleva avere sue notizie, sapere se, dovunque si trovasse, avesse raggiunto la felicità.”
“Aveva un nome, questo misterioso individuo?” Domandò l’uomo, incurvando l’angolo delle labbra in un sorriso trattenuto a stento.
“Si faceva chiamare Medamos.” A quel punto lo sconosciuto, senza più porsi un freno, scoppio a ridere di cuore.
“Medamos?” Rise di nuovo. “Per il sommo Zeus, non lo avrei mai creduto possibile.” Si ricompose, e parlò di nuovo. “Immagino che questa conversazione non fosse prevista nei suoi piani, dico bene?”
“Esatto. Tuttavia mi sembrava  giusto fartelo sapere, nel caso incontrassi il suo amico…” Meg si guardò le unghie con interesse.
“Allora, nel caso ti capiti di rivederlo – e, francamente, inizio a pensare tu abbia qualche possibilità di riuscita – puoi dirgli che il suo amico sta bene, e ha trovato la felicità che cercava, soltanto…” Si fermò un momento, riflettendo. “Digli che sente la sua mancanza, e che spera, contro ogni razionalità, di poterlo incontrare di nuovo, un giorno.”
Meg sorrise. “Nient’altro?”
“Il resto credo lo sappia già.” L’uomo sorrise a sua volta. Dalle abitazioni giunse un richiamo. “E’ tempo di andare. Sii prudente, ragazza… Qual è il tuo nome?”
“Meg.”
“Che gli dei siano con te, Meg.”
“Non credo a loro interessi la mia sorte, ma grazie lo stesso.”
“Al contrario: so per certo che almeno uno di loro ti onora con la sua protezione.” L’uomo la guardò con aria complice. “Basta aver fiducia, e cervello: allora vedrai, sarai in grado di far tremare le stelle.”
Il richiamo risuonò di nuovo.
“Addio Meg.” L’uomo si avviò, e ben presto fu solo una figura in lontananza.
“E’ stato un onore… Odisseo.” Mormorò Meg. Poi risalì sulla barchetta, e prese il largo.
 
Note al capitolo: Centimani: mostri della mitologia greca, dotati di cento braccia e mani
                                  Isole dei Beati: luogo dell’Ade in cui risiedono gli spiriti dei nobili d’animo
                                  Lete: secondo fiume dell’Ade, bevendo le sue acque si dimentica la vita precedente e si è
                                              pronti a reincarnarsi
                                    Odisseo: nome greco di Ulisse 

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Capitolo 7
*** Una vita per una vita ***


                                                                                                                                                      I, I'll survive
 
Cerbero non era mai stato un cane affettuoso.
I suoi sentimenti si limitavano alla rabbia, all’odio e alla fame (se questa può essere definita un sentimento). Per cui era con profondo sconcerto che assisteva, all’interno del proprio cuore rinsecchito, alla lotta tra il più tradizionale odio e un nuovo qualcosa che compariva non appena riportava alla mente l’immagine di Meg.
La visione di Meg in persona, di ritorno dalle Isole dei Beati, gli fece metter da parte ogni riflessione. Scodinzolando, corse verso di lei, gettandola a terra e iniziando a leccarle la faccia.
“Buono, buono.” Ricoperta di saliva infernale, Meg tentò di darsi un contegno. Risalì in sella a Cerbero e puntò lo sguardo oltre il ponte sul Lete.
“Coraggio, non manca più molta strada.” Stava per spronare il cane, quando un pensiero subitaneo la fermò. “Dove sono finiti quei due?”
“Eccoci, mia signora.” Come richiamati per magia, Pena e Panico apparvero sul ponte. “Non vi potremmo mai abbandonare da sola!”
“Non ne avevo dubbi.” Li zittì lei. “Forza, portatemi da Hyperion.”
“Subito!” Esultò Panico, pronto a scortarla dal suo signore e padrone Ade.
“Ma prima…” Meg rifletté attentamente. Sicuramente quei due mostriciattoli avrebbero cercato di farla cadere in qualche insidia. Inoltre non aveva alcuna certezza che, una volta liberato Hyperion, sarebbe bastato portarlo alla luce del sole per farlo rivivere. E non doveva dimenticare Ade: e se si fosse accorto delle sue manovre? Anzi, a quel punto avrebbe già dovuto essere intervenuto…
Meg si massaggiò il mento in un gesto che aveva visto tante volte fare a suo padre, prima di una grave decisione politica. Che cosa avrebbe detto lui, in questo caso?
“La miglior difesa è talvolta l’attacco…” Meditò Meg.
“Come, scusa?” Chiese Panico, sordo d’orecchi.
“Nulla. Ho cambiato idea, nano.”
“Sono un demone!” Replicò quello, offeso.
“Fa lo stesso. Il Tartaro che tipo di luogo è?”
Pena prese la parola. “E’ un posto spaventoso! Dannati ovunque, provenienti da ogni parte del mondo, e vengono puniti con le peggiori torture mai concepite da mente umana o divina!” Prese fiato, e concluse. “E’ il luogo più terrificante mai esistito nell’universo!”
“Dannati, dici?” Considerò Meg. “Interessante…”
 
Ade era impegnato in una combattuta partita a freccette contro se stesso (usando l’anima di uno sfortunato signore della guerra come bersaglio), quando Meg irruppe nella sala a bordo di Cerbero.
“Rivoglio Hyperion. Subito.” Intimò al dio della morte, senza alcuna paura.
Con un gesto annoiato, Ade fece scomparire bersaglio e freccette.
“Lo rivuoi? Con chi credi di parlare, ragazzina? Come osi sfidare il  qui presente magnifico, supremo dio della morte, Ade?”
“Ehm, signore…” Panico, che era entrato dopo Cerbero, si avvicinò ai piedi del suo sovrano. “Non vorrei essere inopportuno, ma credo si siano verificati dei problemi…”
“Quali problemi? Che altro c’è ora?” Chiese Ade, esasperato.
“Ecco…”
Cerbero si spostò, e Ade poté ammirare uno stuolo di dannati, liberi dalle loro catene, inneggiare a Meg e brandire ogni tipo di arma possibile e immaginabile contro di lui.
Uno di loro, Tantalo, mentre  con una mano addentava una mela con gusto, con l’altra fece roteare Pena sopra la sua testa e lo scaraventò di fronte ad Ade.
Sisifo rincarò la dose, e fece rotolare verso il dio della morte un colossale macigno. “Che ne dici, Ade? Assaggia un po’ la tua stessa medicina!” Rise, mentre Ade schivava il colpo tuffandosi dietro il suo trono.
Uno sciame di arpie, liete di aver occasione di ribellarsi al loro datore di lavoro, si lanciarono in picchiata contro di lui, per poi virare verso l’alto e defecargli in testa, spegnendogli i capelli.
“Un po’ di rispetto, per cortesia!” Tuonò Ade
Due banditi tebani emisero un suono molto, molto poco cortese verso di lui.
“Insomma! Sono il dio della morte, dopotutto, esigo di essere rispettato!” Nessuno gli diede retta, e il saccheggio continuò.
“Sembra che la ragazza sia riuscita a fomentare una rivolta, eccelso…”
“Una rivolta?” Ade guardò alternativamente Pena, Panico e Meg. “Una rivolta nel mio regno?” Poi esplose, letteralmente. “Vi affido un compito semplice semplice, e voi, invece di far fuori la ragazza, le consentite di organizzare una sommossa con i peggiori avanzi di galera?!?”
“Sommo Ade, veramente noi…”
Le Danaidi iniziarono a saccheggiare la mobilia di Ade, spettegolando tra loro ad alta voce.
“Silenzio!” Sbottò Ade.
“Ridammi. Hyperion. Vivo.” Scandì Meg.
Il dio della morte si portò una mano alla fronte. “Vediamo: una rivolta nel Tartaro e una misera mortale che mi dà ordini… Il mio oroscopo non diceva nulla di tutto questo, oggi.” Si raddrizzò. “Devo ricordarmi di non pagare le Parche, la prossima volta che andrò da loro… Bene!” Batté le mani, all’indirizzo della bolgia scatenata. Creonte alzò un randello ricavato dalla gamba di una sedia e lo agitò nella sua direzione.
Ade non se ne curò. “Bene, ragazzi, la ricreazione è finita, adesso tornate ai vostri posti!”
Un ululato pieno di odio fu l’unica risposta.
“Andiamo, ragazzi, niente scherzi.” Ade alzò un sopracciglio.
Meg lo guardò minacciosa. “Non sei nella condizione di poter scherzare: dimmi dove si trova Hyperion, altrimenti….”
“Altrimenti cosa?” Le sorrise mellifluo Ade. “Mi scateni contro i tuoi amichetti?” Schioccò le dita: una potente corrente di aria e fuoco spazzò via tutti i rivoltosi, rispedendoli nelle loro rispettive punizioni eterne e dolorose.
“ E tu…” Ade si rivolse a Cerbero. “Sacco di pulci, ti insegno io a prenderti le ferie senza autorizzazione.” La folata di vento spinse con violenza il cane contro una parete, lasciandolo esanime.
 Meg fu sbalzata a terra, piombando addosso a Pena e Panico.
Le tre teste dell’animale cercarono con lo sguardo Meg un’ultima volta, poi le palpebre si richiusero, e Cerbero venne portato via come gli altri, verso il cancello dell’Ade.
“Stupida mortale. Ho il controllo assoluto su questa parte del regno dei morti, non lo sapevi?” Ade fissò Meg, irato: per colpa di quella ragazza il suo magnifico palazzo era ridotto ad un cumulo di macerie, e avrebbe impiegato giorni a rimettere tutto in ordine. Si sorprese a pensare che, se avesse avuto collaboratori con meno della metà del fegato di quella ragazza, l’Olimpo intero sarebbe potuto essere a portata di mano da tempo.
“Ridammi Hyperion.” Meg si rialzò, incurante del dolore alla schiena.
“Non sai dire altro?” La sbeffeggiò Ade. “Comunque, se ci tieni tanto…” Con un altro schiocco di dita fece aprire la volta della sala. Meg inorridì: appeso ad una rupe, Hyperion urlava di dolore, mentre un avvoltoio enorme si cibava del suo fegato.
“Sai, Prometeo aveva bisogno di una vacanza…” Commentò Ade, indifferente alle lacrime di Meg.
La ragazza cadde in ginocchio, distrutta dalla vista del suo amato tormentato a quel modo.
“Ti prego, liberalo!” Supplicò.
Ade portò una mano all’orecchio. “Cosa odo infine? Siamo passati a maniere più cortesi?”
“Meg!” Hyperion la chiamò. “Meg! Aiutami, Meg! Ti prego!”
“Lascialo andare! Ha pagato a sufficienza!”
“Secondo i termini della nostra scommessa, la sua anima mi appartiene.” Replicò il dio della morte in tono cattedratico.
“Meg! Salvami!”
“Ti supplico… Farò qualunque cosa, qualsiasi cosa…” Sussurrò Meg, piangendo.
Ade alzò la mano, e l’avvoltoio si fermò.
“Qualunque? Specifica.” Chiese.
La ragazza trattenne il respiro, poi disse, con voce ferma: “Prendi me al suo posto.”
Ade si irrigidì, poi la squadrò, meditabondo. “Dunque, cosa mi viene proposto? Scambiare la vita di Raggio di Sole, che sta diventando lamentoso, con quella di Miss Ce La Posso Fare?” Rifletté ad alta voce, camminando avanti e indietro per la sala. “Direi che…è andata!” E trionfante le porse una mano.
Meg esitò solo per un istante, poi la strinse con forza.
Subito sentì come se una forza invisibile le stesse marchiando l’anima con un punzone ardente. Urlò di dolore, poi ricadde a terra. Hyperion si trovava accanto a lei, e l’abbracciò. Il mondo dei morti iniziò a girare attorno a loro, svanendo lentamente.
“E’ stato un piacere fare affari con te.” Il volto di Ade le danzava all’interno delle palpebre chiuse. “Ti concedo di riaccompagnare a casa il tuo amato soldatino: hai tredici ore, poi ti richiamerò qui. Per sempre.”
 
Note al capitolo: Tantalo: dannato, la sua pena consiste nel rimanere immerso per metà in uno stagno                      
                                                 senza poter bere o mangiare
                                    Sisifo: dannato, è costretto a spingere un enorme masso fino alla cima di un monte
                                    Arpie: esseri mitologici per metà donne e per metà uccelli
                                    Danaidi: gruppo di sorelle condannate per aver ucciso i loro mariti
                                    Creonte: dannato, famoso per la sua crudeltà
                                    Prometeo: condannato ad avere il fegato eternamente divorato da un’aquila 

 

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Capitolo 8
*** L'amore è solo un mito ***


                                                                                                                                    When the world's crashing down                                      
                                                                                                                                    When I fall and hit the ground
 
 
Meg aprì gli occhi, e si ritrovò a Corinto, nella piazza del mercato, mentre sorgeva l’alba. Sbatté le palpebre, confusa. Per un istante, credette di aver sognato, che fosse stato tutto un  frutto della sua immaginazione, ma poi sentì, accanto a sé, il calore di un corpo.  Si girò: Hyperion era lì con lei, steso a terra, ad occhi chiusi, ma il suo petto si alzava e si abbassava ritmicamente. Era di nuovo vivo.
Senza poter più contenere la gioia, Meg lo abbracciò e baciò con passione. “Hyperion!”
Al suono della sua voce, lui si svegliò. “Meg!” La strinse contro di sé. “Mi hai salvato…”
“Non parlare.” Meg si rannicchiò contro di lui, felice nonostante tutto. Percepiva dentro al suo corpo una morsa di fuoco, il marchio di Ade, ma in quel momento non aveva importanza, perché Hyperion era vivo.
“Meg…” Hyperion la scostò dolcemente da sé. “Non saprò mai come ringraziarti.”
“Non preoccuparti.” Sussurrò Meg. “Mi basterà saperti vivo.”
Hyperion sembrò sul punto di dire qualcosa, ma all’ultimo si fermò. Guardò Meg negli occhi, e, senza poter dire altro, l’abbraccio nuovamente.
“Dei immortali! Hyperion è tornato!” Uno dei cittadini di Corinto, più mattiniero degli altri, fissò incredulo la coppia immobile al centro della piazza. “Accorrete, gente, è un miracolo!”
In meno di un attimo la piazza si colmò di uomini e donne acclamanti: ognuno di loro voleva vedere, toccare, parlare con Hyperion, l’eroe che aveva sconfitto la morte. Meg venne lasciata in disparte, come era normale che fosse, per le donne. Sentendo le ore scorrere dentro di sé, e decisa a non sprecarne nemmeno un minuto, incurante delle buone maniere Meg si incuneò tra la folla, raggiungendo Hyperion.
“Hyperion!” Lo chiamò. “Resta con me, oggi.” Non era una richiesta, bensì la supplica di un condannato a morte.
Lui però non udì la sua voce, e, portato in spalla dal resto della città, si allontanò verso la sua casa.
 
“Sei viva.” Una voce alle spalle della ragazza la fece voltare. “Sei riuscita a non farti ammazzare.” Euriclea avanzò lentamente verso di lei, accompagnata da Medamos. “Grazie.”
Senza rispondere Meg l’abbracciò forte.  Euriclea bofonchiò qualcosa, commossa. “Cerca di ricordare che le mie vecchie ossa non sono più quelle di una volta, mentre mi stritoli.”
“Anch’io sono contenta di rivederti.” Sorrise Meg, dimenticando per un momento il suo futuro.
Medamos la squadrò. “Ce l’hai fatta. Lo hai riportato dal mondo dei morti.”
“A quanto sembra.” Meg tornò a guardare la strada in cui era scomparso Hyperion assieme alla folla festante.
“Ma a che prezzo?” Medamos la fissò cupo: la ragazza sostenne il suo sguardo, seppur con fatica.
“Che cosa intendi dire?” Chiese Euriclea, senza capire.
Meg continuò a reggere lo sguardo color ghiaccio dell’altro. “Avrei dato qualsiasi cosa per farlo tornare.” Disse asciutta.
“Vedo. Credi ne sia valsa la pena, almeno?” Chiese irato Medamos. “Che Zeus sia dannato, ragazza, ti rendi conto di quello che hai fatto?”
“Ho salvato l’uomo che amo.”
Non si vive solo per amare gli altri!” Urlò Medamos, furioso. “Avresti dovuto pensare a te stessa!”
“Come hai sempre fatto tu?” Replicò Meg, sfidandolo con gli occhi. Medamos si bloccò.
Euriclea intervenne. “Meg, bambina mia, non sai quello che dici…” Sussurrò, conscia dell’ira repressa dell’uomo alla sua sinistra.
“So benissimo di che cosa sto parlando, Euriclea.” Meg scostò la vecchia, che le si era avvicinata come per farle da scudo. “E anche tu lo sai.”
Medamos le fissava entrambe. “Voi non sapete nulla. Nulla. Nessun umano può capire.”
“Ti sbagli. Questa è l’unica cosa che un umano è in grado di comprendere e gli dei no.” Meg incrociò le braccia, fieramente. “L’amore.”
“Taci.”
“Temi la verità, proprio tu?” La ragazza fissò beffarda l’uomo. “Rabbia, noia, piacere… Questi sentimenti li conoscete, li potete comprendere, sono ciò che muove le vostre esistenze, dopotutto. Ma l’amore? Non siete in grado di provarlo. Nessuno di voi può, altrimenti non sarebbe più uno di voi. Così fate pagare agli uomini la vostra mancanza, vi divertite ad aggrovigliare i nostri destini, ad interferire con le nostre vite, per vendicarvi.”
“Assurdità, dalla prima all’ultima parola.”
“Tuttavia, se per un caso incredibile, vi capita di provare qualcosa che non conoscete, una forza che non potete comprendere con le vostre brillanti menti… Allora vi rifiutate di accettarlo.”
“Non esiste nulla che la Ragione non possa comprendere.”
“Non è vero. L’amore esiste: ed è per questo che tu non potrai mai capire il motivo della mia scelta. Io non ho paura di amare.” Dichiarò Meg, e aggiunse, a bassa voce. “Tu  invece l’hai avuta.”
Per un istante, sembrò che Medamos volesse scattare in avanti per colpire la ragazza, ma, come ripensandoci, abbassò la mano e lo sguardo. “Non credo abbiamo più nulla da dirci.” Si voltò verso Euriclea. “E’ stato un piacere conoscerti, kyria.”
Euriclea, incapace di pronunciar parola, si limitò a fare un cenno con il capo. Proprio quando l’uomo stava per andarsene, Meg parlò. “Mentre ero laggiù, ho incontrato un uomo. Uno a cui piace ancora la retorica.”
 Medamos si fermò, senza girarsi.
Meg proseguì. “Abbiamo parlato assieme: conduce una vita tranquilla e serena. E ha trovato la felicità che cercava.”
Medamos riprese a camminare, con passo pesante.
“Ha un solo rimpianto: non poter rivedere quello che era il suo migliore amico. Eppure è certo che, un giorno, in qualche modo, riusciranno a incontrarsi di nuovo.”
“Ha detto questo?” Improvvisamente la voce di Medamos si era fatta più sottile, il timbro più alto.
“Sono state le sue esatte parole.”
Medamos guardò Meg. “Ti ringrazio.” Dopodiché, lentamente, mutò sembianze e si dissolse nell’aria.
Nonostante fosse impossibile, a Meg ed Euriclea sembrò di vedere delle lacrime negli occhi splendenti di Atena.
 
La dimora di Hyperion era stata presa d’assalto da centinaia di cittadini, i quali stavano intonando cori di lode agli dei per il suo ritorno tra i vivi. Per Meg fu un’impresa farsi largo tra la folla. “Scusate, vi prego, lasciatemi passare!” Disperata, decisa a non mollare, continuò a schiacciarsi tra le masse di persone incuranti di lei.
“Meg?” Una delle persone la riconobbe. “Sei proprio tu?” Meg fissò il volto della ragazza con aria assente, prima di riconoscerla. “Cleone?”
Cleone l’abbracciò, un’operazione faticosa quando si è immersi in una bolgia di uomini e donne esultanti. “Pensavano tutti che tu fossi scappata. Damocle ha riferito in consiglio che hai tentato di ucciderlo servendoti di magia nera.” Cleone scosse il capo. “Ovviamente il Consiglio ha finto di crederci, così adesso Damocle è l’erede legittimo di tutti i tuoi beni.”
“Spero venga colpito da una malattia venerea.” Meg strinse le braccia di Cleone. “Cleone, siamo state amiche per anni: ti prego, aiutami a raggiungere Hyperion.”
Cleone la osservò. “Tersicore direbbe che non vale la pena di aiutarti. Che ci hai abbandonate al primo soffio di Borea.”
“Tu cosa pensi?”
L’amica le sorrise. “Seguimi.”
 
Hyperion era seduto su uno sgabello imbottito, impegnato a ridere e a bere con i suoi compagni di battaglione.
“Hyperion!” Udendo la voce di Meg, si alzò in piedi. La ragazza era sulla soglia, i capelli in disordine, ansante, la tunica ancora sporca per il viaggio compiuto nell’aldilà. Di colpo Hyperion si sentì in imbarazzo, a vederla comparire tra i suoi amici e tra i membri del Consiglio in quelle condizioni, nonostante sapesse a cosa fossero dovute. Sentiva accanto a sé le voci dei suoi compagni borbottare sconcertati. Rosso in volto le si avvicinò. “Meg!” La prese per un braccio. “Perché non sei tornata a casa?” Fu l’unica cosa che gli venne in mente di dire.
“Volevo vederti, prima di…” Provò a replicare Meg, ma lui la interruppe velocemente.
“Non dovresti farti vedere qui, così, adesso che io… Cioè, avrei dovuto, ma… Insomma, torna a casa, mi farò vivo io.”
La ragazza lo guardò, confusa. Cosa stava succedendo? Perché Hyperion sembrava seccato dalla sua presenza? Fu allora che, dalle stanze interne, provenne un gemito.
“Un bambino?” Chiese Meg, stupita. “Che cosa ci fa un bambino a casa tua?”
“Sarà il figlio di uno dei servi…” Buttò lì Hyperion.
Un uomo riccamente vestito tra i convitati si accostò alla coppia. “Hyperion, mio caro genero! Ascolta la voce di tuo figlio: non vuole la compagnia di sua madre e delle altre donne, ma quella di suo padre. Di certo diventerà un valoroso guerriero!” Si interruppe per guardare Meg con lieve ostilità. “E chi è questa giovane fanciulla? Una tua parente povera?”
Hyperion si affrettò a rispondere. “Una specie, sì, nobile Anassimandro. In precedenza, prima di legarmi a tua figlia, i nostri padri ci avevano promessi, ma è stato un impegno sciolto da tempo, come ti diranno tutti qui a Corinto.”
A Meg sembrò che il cuore le si fermasse nel petto. Migliaia di piccole crepe lo spezzarono, riducendolo a finissima polvere.
Rassicurato, Anassimandro esaminò attentamente Meg. “Mia cara, senza dubbio sei venuta a congratularti per la nascita del piccolo Teseo, non è così? Una delle serve sarà lieta di indicarti la strada per le stanze di mia figlia Ione. Siamo appena arrivati dalle colonie, dove questo giovanotto” E indicò Hyperion. “Si è permesso di rapire ad un padre la gemma più preziosa dei suoi occhi. Un’unione che gli dei hanno benedetto ieri con la nascita di un erede, e oggi con il ritorno del padre dal mondo dei morti. Ione non poteva essere più felice…”
 Meg non ascoltava più il fiume di parole che uscivano dalla bocca dell’uomo.
“Ho cercato di dirtelo…” Provò a spiegare Hyperion, sussurrando.
“E quando, mentre facevi l’amore con me nei boschi?” Replicò aspra lei. “Oppure quando sussurravi parole d’amore spergiure?”
“Ti giuro, non sapevo che lei era incinta, non pensavo davvero… Poi quando sono arrivato a casa e li ho trovati qui…”
“Nonpensavi fosse incinta?” Scoppiò Meg, senza badare ai presenti. “A cosa hai pensato allora, mentre ti rotolavi con lei nelle lenzuola?”
“Non puoi capire: la guerra, i morti, il sangue… Un uomo sente il bisogno di fare certe cose, dopo, per sentirsi vivo… E lei non era come le puttane del nostro campo, era dolce e gentile, e tu così lontana…”
“Allora è meglio io sia nata donna:  almeno non ho bisogno di fottere nessuno per sapere di essere viva.”
“Stai zitta, donna!” Urlò Hyperion.
Tutti i convitati caddero nel silenzio.
Meg non riusciva a credere a quello che stava succedendo. Sentiva un acre sapore di cenere riempirle la bocca, e un freddo glaciale diffondersi in tutto il suo corpo. Quel che era peggio era il silenzio di Hyperion, i suoi occhi distanti. “Hyperion…” Sussurrò, incapace di dire altro.
Lui infine si decise a parlare. “Meg, forse è meglio che tu te ne vada.”
Non era la morte, era  mille volte peggio. A fatica, Meg distolse lo sguardo dall’uomo per cui aveva dato la sua anima, e si incamminò verso la porta.
Hyperion la guardò andarsene, senza fermarla.
 
Note al capitolo: Borea: divinità del vento
                                     Atena: dea della sapienza 

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Capitolo 9
*** Epilogo: Nella fine un nuovo inizio ***


Meg spalancò le porte del palazzo di Ade con una forza insospettabile per una ragazza così fragile.
Ade, impegnato ad osservare pigramente Pena e Panico che spazzavano i resti della tentata rivoluzione, al vederla alzò un sopracciglio, fingendosi sorpreso. “Già di ritorno?” Una piccola meridiana da passeggio gli comparve al polso. “Come passa in fretta il tempo…”
“Tu lo sapevi.” Realizzò Meg. “Tu sapevi cosa aveva fatto Hyperion in Asia, e sapevi che cosa avrebbe fatto a me.” Gli puntò un dito contro. “ E nonostante tutto hai permesso che io dessi la mia vita per lui.” Scosse la testa, disgustata. “Perché?”
Ade giocherellò con un paio di fiammelle. “Sai com’è… La vita quaggiù è un vero mortorio, a volte…” Scoppiò a ridere da solo. “L’hai capita? Morte, mortorio…” La fissò con aspettativa.
“Non sono in vena di battute, mi dispiace.” Lo freddò lei. Poi mormorò, rivolta a se stessa: “Forse Atena aveva ragione, dopotutto.”
“Che c’è, ancora triste per quel mortale?” Ade le si parò davanti, prendendola confidenzialmente a braccetto. “Non ne vale la pena, zuccherino. Lascia che ti illustri il tuo futuro prossimo, piuttosto.” Si incamminò con le tra le volte della sala. “Per come la vedo io, ti si presentano due strade. La prima è semplice: mi hai offerto la tua vita, e io me la prendo e tanti saluti.”
“Ho una seconda scelta?”
Ade si fermò e sogghignò. “Tutti ne hanno una. Sai, hai dimostrato notevoli capacità di sopravvivenza mentre ti muovevi quaggiù, di molto superiori a quelle dei miei servi più fedeli.”
“Avete chiamato, signore?” Chiesero Pena e Panico.
“Continuate a pulire, amebe!  Dov’eravamo?” Continuò il dio dei morti. “Ah, sì. Sei stata brava, fin troppo brava.” Meg lo guardò scettica. “Ehi! Dico davvero, hai talento! Quindi… Ti andrebbe di entrare al mio servizio? Di questi tempi è così difficile trovare del personale competente, c’è una tale crisi…”
Meg rimase a bocca aperta.
“Si tratterebbe di lavoretti di poco conto, relazioni con il pubblico, import-export di manufatti utili, diplomazia…” Elencò Ade, aggiungendo: “Che ne dici? Non suona meglio di una triste e, detto tra noi, inutile morte?”
“Perché lo faresti?” Indagò Meg, riprendendosi dallo stupore. “Non mi fido di te.”
“Mancanza di personale, te l’ho detto: ti sto offrendo l’opportunità del secolo, mia cara. Non capita a tutti di ricevere offerte del genere, te l’assicuro.” Ade le si accostò, e le soffiò all’orecchio: “O preferisci davvero morire per il tuo soldatino infedele?”
La ragazza sbatté gli occhi, ricacciando indietro le lacrime che non aveva versato al cospetto di Hyperion: l’idea della morte l’attraeva, perché con essa avrebbe finalmente smesso di soffrire, di sentirsi spezzata.
Ad un tratto però le balenò alla mente l’immagine di Hyperion, che avrebbe continuato a vivere felicemente la sua esistenza, nonostante la sua morte. Sì, lui l’avrebbe dimenticata, l’aveva già fatto con facilità.
Le tornarono alla mente le parole di Atena: vivere per se stessi.
L’amore per Hyperion era stata una trappola, e lei ci era caduta in pieno. Forse, a quel punto, era ora di cominciare a pensare al proprio interesse.
Guardò Ade: non si fidava di lui, ma al momento sembrava essere la sua unica possibilità di salvezza.
“Accetto.” Annunciò, senza ulteriori esitazioni.
Il volto di Ade si contorse in un sorriso storto. “Ne ero sicuro.” Meg sentì il marchio di Ade sulla sua anima allentarsi lievemente, e il vincolo cambiare forma. “Benvenuta nella squadra, zuccherino.” Ade fece comparire dal nulla uno strano copricapo, dalla visiera rigida e con le lettere NY impresse sul davanti, e glielo schiaffò in testa.
“Per cominciare, ecco una lista delle cose che servono a restaurare il mio palazzo che tu e i tuoi amichetti avete messo a soqquadro poco fa.” Il dio della morte le mise in mano una lunga lista. “Pena e Panico ti accompagneranno per mostrarti la strada.”
I due accorsero alla chiamata, ma si bloccarono interdetti alla vista di Meg.
“Vi presento la vostra nuova partner, il suo nome è… Giusto, come ti chiami?” Chiese Ade.
“Il mio nome è Megara.”
“Vi presento Meg!” Annunciò Ade ai suoi sottoposti.
Pena la guardò con sospetto.
“Quella Meg?” Domandò incerto.
“Si è dibattuto molto su lei oggi, signore…” Ricordò Panico ad Ade.
Il dio della morte, apparentemente dimentico degli insulti lanciati nei confronti della ragazza appena poche ore prima, replicò con indifferenza: “Ah, davvero? Non mi sono mai interessato ai dibattiti…”
“Ma signore, quella lì…” Provò a protestare Panico, ma Ade lo interruppe: “Su, ragazzi, è ora di dimenticare e perdonare, o perdonare e dimenticare, quale dei due venga prima o in ogni caso sia più conveniente!” Esclamò con allegria. “E non dimenticate i tre chili di feta!”
Si sfregò le mani, segretamente soddisfatto: se Meg avesse insistito a voler immolare la sua vita per Hyperion, lui sarebbe stato costretto a liberarla dal suo marchio e a mandarla alle Isole dei Beati, poiché quella sarebbe stata un’azione tanto nobile e disinteressata da renderla quasi come una dea. “ Figuriamoci se qualcuno sarebbe così pazzo da dare la sua vita per quella di qualcun altro.” Sogghignò a bassa voce, osservando Meg allontanarsi assieme a Pena e Panico.
“Mettiamo in chiaro le cose, signorinella: il capo sono io.” Le spiegò Panico.
Pena si arrabbiò. “E chi l’ha deciso, sentiamo?”
Mentre i suoi due nuovi colleghi si azzuffavano, Meg ripensò un’ultima volta a Hyperion, alla propria vita ormai irrimediabilmente cambiata.
Con un sospiro, si calcò il berretto in testa: “Ehi, voi due! Non fatemi perdere tempo!” Disse all’indirizzo dei due mostri, poi si incamminò verso la porta del Tartaro. “Venite o no?”
Il medaglione di Atena le cadde spontaneamente dal collo, senza che lei se ne accorgesse. Ormai non c’era più bisogno della sua protezione.
L’amore aveva mietuto una nuova vittima.
I, and I won't cry
 
 
Note al capitolo: feta: formaggio tipico greco 



Writer's corner: Finalmente la fine!^^ Ringrazio infinitamente tutti coloro che hanno recensito o anche solo letto, in particolare Madama Pigna, Yvaine0, Blackmiranda, Briciola Elisa per aver recensito!! Grazie mille, alla prossima!

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