Memories

di EliCF
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1# Girl on fire ***
Capitolo 2: *** 2# Because I avoid mirrors ***
Capitolo 3: *** 3# A promise ***



Capitolo 1
*** 1# Girl on fire ***


 
Una raccolta di tre One-shot introspettive sul personaggio più amato di Hunger Games: Peeta.
Questo primo capitolo è ambientato subito dopo la fine del primo libro e può essere letto come song-fic. 
La canzone su cui ho scritto è di Arshad, musicista che sta facendo firmare una petizione per inserire il pezzo tra le colonne sonore di Catching Fire. 
Se vi va di leggere la fic con il pezzo di sottofondo (opzione consigliata!) il link è questo: http://www.youtube.com/watch?v=CRSvoKoU3kk
Sentivo di dover qualcosa ad Arshad, così ho dato al capitolo lo stesso nome della canzone. 
Non mi resta che chiedervi di leggere e, nel bene e nel male, di recensire.
Buona lettura e buon ascolto!

Elicf             

Girl on fire


 

- Mi dispiace davvero tanto per le tue mani - 
- Non mi porta, Katniss. E comunque non sono mai stato in gara per la vittoria - 
- Non è così che bisogna pensare - 
- Perché no? Spero solo di non comportarmi in modo vergognoso e... - 
- E cosa? - 
- Non so bene come dirlo. Solo non voglio... perdere me stesso. Ha un senso? 
Non voglio che mi cambino, là dentro. Che mi trasformino in una specie di mostro che non sono -


"Non mi possiedono". 
Era tutto quello che volevo lasciare intendere. 
Osservo il Distretto 12 stagliarsi, sotto di me, in tutta la sua miseria. 
Direttamente dal tetto della casa assegnatami al Villaggio dei Vincitori, sbocconcello uno strappo di pane rubato dai preziosi pezzi esposti in vetrina, al Forno. 
Dopo aver vinto gli Hunger Games, finalmente io e la mia famiglia possiamo permettercelo. 
Ho sempre lavorato duro, lì al Forno: ne sono testimoni le braccia forti e le dita doppie delle mani che, ormai abituate all'atto unico di impastare, presentano una bella sfilza di scottature che si tramutano in bolle giallastre piene d'acqua. Le mani sono il mio prezioso mezzo di lavoro, per il Forno come per la pittura, mia unica e vera passione. Durante il giorno ascolto e guardo il mondo facendone protagonisti i colori. Proprio ora, con un pezzo di pane tra i denti e un po' di vento a scuotere i lembi dei pantaloni ormai troppo larghi, osservo il mio Distretto con attenzione meticolosa ai particolari. 
Il cielo è di un azzurro pastello davvero raro, qui al 12: tutto sembra sempre essere ricoperto da un paio di strati di cenere, anche quando in realtà non lo è. 
ll grigio domina. Grigio surreale dal sapore di vecchio e sporco. Grigio che sembra voler sfidare l'azzurro del cielo, senza mai trovarne realmente il coraggio.
Nonostante le strade, 
come ogni domenica mattina, siano poco trafficate, gli abitanti del 12 sono svegli nelle loro case. Da qualche abitazione arriva fin qui il rumore dell'armeggiare di pentole e piatti per la prima colazione; da qualche altra sento lanciarsi auguri di buon giorno e buona domenica, accompagnati dal rumore di qualche tv che si accende. Non accendo mai quel dannato televisore. So che è troppo per me lasciare che anche quell'apparecchio malefico mi ricordi dei miei impegni da vincitore dell'ultima edizione degli Hunger Games, come il Tour della Vittoria. 
Non sono felice di tutto questo: quello che desideravo era non diventare una pedina dei loro giochi sporchi e invece ora sento che, sì, mi stanno controllando. 
Per me non esistono più notti tranquille. Mi sveglio, in preda ad attacchi di panico silenziosi che, invece di rendermi irrequieto, mi immobilizzano a letto. 
Nomi di bambini a cui vengono tagliate le gambe, proprio come la mietitura ha strappato figli dalle braccia di madri per anni; lampi di luce che scintillano negli occhi umani di ibridi a quattro zampe; dolori lancinanti in tutto il corpo e spari. Sono loro, gli unici da incolpare. 
Gli unici da incolpare per tutto questo, a quest'ora saranno ancora a poltrire nei loro letti ultralussuosi dalle coperte liscie e cucite magnificamente. 
E io non posso farci niente, senza dubbio. 
Ricordo la promessa che feci a me stesso il giorno prima dell'inizio dei Giochi: non avrei dato nulla. Sarei morto. Probabilmente avrei ucciso, ma sarei morto anch'io. Avrei abbandonato questo mondo non ancora del tutto folle e da persona capace di commettere atti concreti che non fossero il solo uccidere; così avrei abbracciato la morte. 
Non è difficile intuire che ciò che ha cambiato il corso degli eventi si possa riassumere in un solo nome: Katniss. 
E' grazie all'audacia e all'astuzia della ragazza ormai più amata di Panem che posso ancora dichiararmi vivo, la quale, per riportare entrambi a casa, ha usato la trovata degli innamorati sventurati del Distretto 12 , suggerita da Haymitch dopo una confessione che, a quanto pare, per me ha fatto la differenza tra il vivere e il morire.
Nonostante la ferocia dell'Arena credevo che, per una volta, i fiori potessero nascere dalla roccia, oltre che dal terreno. Credevo che la mia compagna di Distretto si fosse realmente accorta del fatto che io fossi lì; del fatto che io fossi sempre stato lì, ad attendere che mi cantasse la sua canzone. 
Dovevo sapere che sarebbe bastato un bacio per rimanere incatenato al suo fuoco: le sue fiamme mi avvolgono da allora e grazie ad esse ho avuto la forza di alzarmi e combattere; di esaudire il desiderio di non essere pedina.

- E' stato tutto per le telecamere. Il tuo modo di comportarti -
- Non tutto -
- Allora quanto? No, lascia perdere. Immagino che la vera domanda sia: cosa resterà quando torneremo a casa? -
- Non lo so. Più ci avviciniamo al Distretto 12, più sono confusa -



Per me questo amore non è un gioco. 
Sapevo saremmo sopravvissuti per far scoppiare una rivoluzione. 
Tu puoi farlo: rimani qui e combatti. Non crollare all'idea del fatto che dovrai appiccare un fuoco, perché i Giochi dovranno ricominciare.
Sebbene l'Arena sia stata per me un inferno dolcissimo, posto in cui quel sentimento
 ha preso ancora piede dentro di me, dovremo andare insieme  incontro al nostro destino. Ma ora sono io, solo, rinchiuso tra le tue fiamme. 
Se te lo dicessi, non ascolteresti. Non riuscirei in nessun modo a farti rendere conto dell'effetto che fai al tuo pubblico. 
E a me. 
Sapevo che sarebbe bastato un bacio per rimanere incatenato al tuo fuoco: le fiamme mi avvolgono anche ora e a causa loro non ho la forza di alzarmi e combattere; questo è un guaio. Perché i Giochi stanno per cominciare. 
Da qui su, mi rendo conto di quanto sia imprevedibile il destino. Ti vedo tornare dai boschi proprio ora, capisco di avere ragione alla vista della treccia scomposta e delle prede in spalla. Sei stata una cacciatrice, Katniss, e io la tua preda. Non nascondere il tuo coraggio e dai fuoco alla rivoluzione che ho promesso avremmo fatto esplodere. Ti conviene sorridere ed essere forte: io farò lo stesso nonostante il dolore. 
Lascia che i Giochi abbiano inizio. 

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Capitolo 2
*** 2# Because I avoid mirrors ***


Beacuse I avoid mirrors



- Non andartene ancora. Non prima che mi addormenti -
- Pensavo che avessi cambiato idea, oggi. Quando eri in ritardo per la cena -
-Resta con me.
 


«Sempre»
Sempre, Katniss. Sempre.
Potrei giurare che tu non abbia colto la mia risposta alla tua richiesta, come potrei giurare che ci sia riuscita. 
Rimango, ancora sorpreso, seduto sul ciglio del letto. Ho ancora la tua mano tra le mie: l'ho presa sperando di riscaldarla.
Faccio roteare lo sguardo lungo le pareti spoglie della stanza, senza coglierne realmente il motivo. La finestra è spalancata nonostante il freddo pungente che quest'inverno ha deciso di rifilarci; vorrei andare a chiuderla, ma decido di lasciar passare ancora un po' d'aria fresca. 
La guardo dormire sotto le luci fioche di un paio di candele: i capelli sono sciolti e d'inverno sembrano assumere riflessi rossicci che richiamano il colore forte delle labbra. La pelle, impallidita per il freddo, lascia che spicchino ancora di più insieme agli occhi di quel grigio sempre acceso, ora coperti dalle palpebre pesanti, testimoni di un sonno profondo. La fronte è rilassata: le sopracciglia non assumono l'espressione aggrottata che la caratterizza nei momenti di disapprovazione. Sembra una sconosciuta. Riesce a sembrarmi persino più bella. 
Mi impongo di distogliere lo sguardo e andare a chiudere la finestra per evitare altri malanni: sfilo la mano bianca dalle mie e la guido sotto le coperte. 
Prima di serrare la finestra, esito un paio di secondi: è una serata fredda e limpida. La neve ha smesso di colorare di bianco ogni superficie, ma il ghiaccio regna, lucido e trasparente. C'è un po' di vento, mi scompone i capelli e mi sferza con leggerezza il viso reso duro e quasi incallito dalle intemperie a cui è rimasto esposto all'Arena. Richiudo la finestra e il vetro mi riflette la mia immagine come uno specchio. Distolgo velocemente lo sguardo, un po' assonnato e un po' malinconico, perché evito gli specchi. 
Il motivo risale a quando tornai a casa dopo la vittoria degli Hunger Games. 
Varcai la soglia di casa timidamente, sentii una fitta di emozione allo stomaco. La porta non era chiusa a chiave e mi aspettavo di trovare qualcuno: mio padre, mia madre, uno dei miei fratelli. Eplorai in lungo e in largo, chiedendomi il motivo per cui non fossero lì. Temetti il peggio. Pensai che potevano essere stati uccisi, imprigionati, portati via dalle forze di Capitol City per motivi che, in quel momento, mi erano sconosciuti. Sfrecciai lungo il corridoio ed aprii con forza le porte di tutte le stanze, ma non trovai nessuno. Solo quando mi convinsi del fatto che non avrei trovato nessuno, mi chiusi la porta della camera dei miei genitori alle spalle. Non so perché andai lì, ma ci rimasi per un po'. Mi sedetti sul letto, sfiorai con le dita la stoffa della trapunta a cui mia madre teneva così tanto, il bianco liscio della fodera del cuscino di mio padre. Pensai che potessero essere ancora al Forno, allora mi feci coraggio e feci per andarmene. Prima di uscire dalla stanza, il mio sguardo cadde sullo specchio della toeletta di mia madre. Pensai che potrebbe non averla mai usata, per quanto era curata - la toeletta, e per quanto non era curata - mia madre. Fissai la superficie del tavolino: schiere di pennelli d'ogni misura e forma si susseguivano per tutta la lunghezza del mobile, intervallati da paia di cilindri dai colori diversi, ancora chiusi. Aprii uno dei due cassetti e scoprii rossetti e matite di cui non ho mai scoperto la funzione, vasetti di creme e una quantità quasi industriale di spugne di forme diverse che, evidentemente, costituivano un elemento sostanziale per il trucco. Pensai che quel piccolo tesoro avrebbe fatto impazzire chiunque persino a Capitol City. Tranne Portia, ovviamente: lei è la regina di tutta questa roba, possiederà una dozzina di mobili come quello. 
Mi ritrovai a riflettere su quanto mi sarebbe piaciuto dipingere. All'inizio pensavo solo che mi sarebbe piaciuto utilizzare un paio di quei pennelli così sottili che sembravano promettere la riuscita di un lavoro accuratissimo; poi mi resi conto di avere qualcosa, molte cose, da dire. Ma di avere la bocca serrata.
Ho sempre pensato che ci siano cose che, raccontate, perdano tutto il loro valore: un'esperienza all'Arena è una di queste. 
Sapevo che se avessi parlato, nessuno avrebbe capito il senso e l'intensità delle mie parole, delle mie verità. Allora decisi che avrei parlato con il linguaggio dei colori. Su tela. Con pennelli veri, non con quelli per il trucco, mai utilizzato, di mia madre. 
Abbandonai la stanza, ma non prima di essermi guardato allo specchio. Sì, è una cosa stupida: con tutte le apparizioni televisive in cui compaiamo io e Katniss, che bisogno avrei di guardarmi allo specchio? So come appaio. So come vogliono che io appaia. Eppure è stato diverso, guardarmi lì, da solo, in camera dei miei. Io che guardavo me, o quello che di me era rimasto. Io. Io, non una folla di persone radunate attorno ad un maxischermo. Io, non l'intera Panem. Io e basta. Mi vidi e mi sentii nudo. Sorridevo, ma sapevo di farlo solo perché ero in una specie di riflesso condizionato: pensavo di vedere me stesso da un maxischermo, costretto a sorridere, a battere le mani, a fare un paio di battute su argomenti che mi danno la nausea. Poi piansi e lì vidi me per come mi conoscevo. Debole. Impotente. Spaventato. 
Corsi al Forno e mi riconciliai con la mia famiglia, ma da quel giorno evito me stesso. Evito gli specchi perché capaci di mostrarmi quello che sono. 
E non voglio che il mondo lo scopra, perché nessuno va fiero delle sue debolezze. Nemmeno io. 
Lancio un ultimo sguardo a Katniss addormentata e sento che desidererei rimanere lì la notte intera. Mi avvicino nuovamente al letto e le regalo un bacio sulla fronte come augurio per una buona notte, poi mi chiudo la porta alle spalle e mi lascio distrarre dal motivetto che Primrose canticchia al piano di sotto.
Saluto la madre e la sorella di Katniss, mi complimento con quest'ultima per la bellezza della sua voce, quasi equiparabile a quella della ragazzina di cui mi innamorai a cinque anni. Lascio la casa e penso ancora agli specchi. Penso che sia una cosa stupida, nascondere persino a se stessi sfumature del nostro essere. Così, una volta a casa, prendo quello che, appena arrivato, ho staccato dal muro in corridoio e nascosto tra gli asciugamani del bagno. 
E' semplice, un quadrato magico capace di risvegliare in me momenti di assoluto mistero. 
Lo porto con me davanti al fuoco e piango per tutta la notte.


NdA: Seconda shot andata. Penso che questa mi piaccia molto di più della prima! 
E' bello leggere di un Peeta coinvolto in vicende, in qualche modo, staccate  da Katniss, nonostante ami quella coppia.
Anyway, spero in meglio per questo capitolo. 
Ringrazio chi ha recensito il precedente, perché è sempre un piacere,
Elicf

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Capitolo 3
*** 3# A promise ***


A promise
 


 
Ho sempre preferito il giorno, alla notte. 
Saranno i colori, saranno le voci, saranno le luci, gli elementi che permettono alla bellezza del giorno di diventare palpabile e di sfiorarmi la pelle, illudendomi di ricevere le carezze che mia madre mi ha sempre nagato. 
Ho sempre preferito il giorno alla notte, perché al buio ho paura di sentire colpi di cannone capaci di sfondarmi il petto, paralizzato dalla paura dell'arena e dalla consapevolezza del fatto che l'ennesima vittima potrei essere io. 
Ho sempre preferito il giorno alla notte, nonostante questa notte sia diversa. Non ci sono finestre nella mia camera, ma Finnick dice che non ci sono nemmeno nelle altre: siamo sotto terra. All'inizio non ci ho creduto. Qui nessuno sembra volermi dire la verità, perché tutti pensano che io sia cambiato. Tutti pensano che io sia diventato come Annie, l'innamorata di Finnick, entrambi vincitori dal Distretto 4.
Quando l'estate calava sulla panetteria, asfissiato dal caldo del forno, desideravo la vita di un qualsiasi abitante del Distretto 4: la città dove l'inverno non arriva mai. Non conoscevo molto di loro, ma sapevo che avevano l'acqua, il mare. E senza acqua non si impasta il pane, non crescono gli alberi, non si pesca nel  fiume. Senza acqua le mie labbra diventerebbero raggrinzite e secche, la gola arsa dall'aria sporca delle ceneri libere, i polmoni accartocciati su loro stessi. Ed è così che mi fa sentire questo posto che chiamano Distretto 13: asciutto e privo d'ogni tipo di emozione che non sia rabbia o tristezza.
Per questo stasera, nonostante sappia d'essere controllato da una fin troppo leggera distanza, ho avuto il permesso di prendere aria per un po', accompagnata da un prezioso bicchiere di acqua con delle bollicine che mi pare di aver conosciuto a Capito City ma che, nonostante questo, mi sono simpatiche. 
Fiotti di luce si riversano sull'erba come tappeti argentati e scintillanti. La luna è l'occhio del cielo, che si staglia con eleganza superba sul Distretto 13, così come sulle rovine di casa mia al 12, e sulla mia camera delle torture che in realtà è un'intera città, chiamata Capitol. 
Nonostante sia distratto dalla bellezza sfacciata dell'astro, sento di dover cogliere frammenti di eventi nascosti, non dal tempo, ma dalle violenze di Snow.
Nonostante mi sforzi, non ricordo. 
Nonostante sia calmo, non dormo. 
Nonostante mi stanchi, non mi lamento. 
Ho sempre preferito il giorno alla notte, ma non dico bugie: c'erano volte in cui aspettavo avidamente che il sole tramontasse, per condividere le coperte con lei, occhi negli occhi, mani tra le mani, cuore su cuore, incubi negli incubi.
E' strano, ma mi ritrovo a stringere l'erba in un pugno, mentre credevo di starla appena accarezzando. Mi sento ingenuo quando mi chiedo perché io non possa più condividere quelle coperte con colei che nonostante fosse chiamata "ragazza di fuoco", riusciva a placare la mia sete. 
Appena qualcosa pare ritornarmi alla mente: solo uno sguardo, un bacio, fiamme che non bruciano ma mi avvolgono, il mio continuo lottare per non perdermi nei suoi occhi grigi. Mi torna in mente il disegno di una Katniss che non riconosco; una Katniss diversa da quella che vedo ora: sfuggente, fredda, distante.
E' come se fosse lei quella ad aver dimenticato. Forse è per questo che non mi tende la mano e non mi aiuta a fare il salto per ritrovarmi fuori da questo buco nero che è la mia testa. Forse non era quello che credevo, forse non era la mia mano quella che realmente desiderava stringere, tra le lenzuola che profumavano di fiducia. 
Forse il fuoco è davvero fatto solo per bruciare, non per dissetare. 
Per tante notti sento d'essermi chiesto perché nei tuoi occhi non ci sia più calore, ma solo resa. 
Ma io so che, in fondo, non ti sei mai arresa. 
Quindi, perché non mi tendi la mano? 
Dev'essere a causa della ferocia che l'arena ti impianta nella mente e nel cuore, delle volte in cui ti ho detto di lasciarmi morire o di lanciarmi in pasto all'arena, oltre che alla sete che di nuovo mi scortica, qui dentro.
Potrebbe essere troppo tardi, ma te lo susurro ora, nonostante le parole che potrebbero rompermisi sulle labbra: 
«Se mai ti chiederò ancora di lasciarmi, non...»
Non farlo. Tienimi. 
Vorrei poter chiederti di non mollare la presa, ma inizia col tendermi la mano: la afferrerei senza esitazione. 
E poi aiutami a ritrovarmi, perché io sia di nuovo io, perché non rimanga uomo nel corpo e feto nell'animo, con ricordi e pensieri incompleti o distorti. 
Ho dei tagli sui polsi, poi manette: i segni della necessità di mettere un lucchetto alla mia violenza, ma testimoni della mia battaglia. 
Resta con me. 
E' quello che vorrei poterti chiedere come facesti tu, poco prima dell'Edizione della Memoria. 
Tristemente, mi sorprendo a ridacchiare pensando alla tua oramai improbabile risposta, che in quel tempo fu la mia: sempre.
Ho sempre preferito la notte al giorno... o forse no. 
I fili d'erba mi sfuggono dalle dita: non lo ricordo più. 
Continuo a dimenticare. E' come se una mano invisibile avesse sfilato via tutto quello che mi apparteneva, e la prima sei stata tu. 
Ho ancora qualcosa da dirti, prima di tornare, vivo, sotto tera. 
Con o senza il tuo aiuto, mi riprenderò ciò che è mio. E non smetterò di combattere perché, in ogni caso, non avrò mai più pace.
«E' una promessa».



NdA: Siamo giunti alla fine. Peeta tenta di ricordare.
Ringrazio chi mi ha seguita fin qui: è tutto. La mia trilogia di shot mi soddisfa abbastanza e sono felice.
Grazie.
Elicf

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