A cosa stai pensando?

di sheishardtohold
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Ultimo. ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***






Callie, seduta al bancone di Joe, restava immobile. Lo sguardo perso nel nulla e un bicchiere di tequila in mano. L’ennesimo bicchiere di tequila in mano. Non aspettava nessuno –aveva smesso di aspettarsi qualsiasi cosa dalle persone. Restava semplicemente lì a pensare quanto la sua vita facesse schifo e a crogiolarsi in quell’atto di auto commiserazione. Si sentiva una fallita: in amore, nel lavoro, in amicizia – in amore, soprattutto in amore. Lei che, a trentacinque anni, aveva finalmente capito da che parte stava e che, dopo aver realizzato di essere lesbica –o per lo meno bisessuale- era stata scaricata brutalmente da Erica. La cosa più divertente era che la causa della fine di quella storia era stata Izzie Stevens, almeno in apparenza. Callie, mentre stava lì a pensare a come Erica l’aveva colpevolizzata per non essere abbastanza lesbica, si domandava se veramente Dio esistesse, o ce l’avesse con lei, o qualsiasi cosa si potesse avvicinare ad un’ipotesi simile. Com’era possibile che, nonostante avesse preso le difese di Izzie, tutto era andato a rotoli, ancora, per la seconda volta? Che gran presa per il culo. Avrebbe dovuto odiare quella donna che sembrava rovinarle la vita continuamente. Avrebbe potuto pensare ad uno scherzo del destino, se ci avesse creduto, ma lei credeva solo in Dio e nella sua fede, quindi dubitò solo di lui.
Era talmente assopita nei suoi pensieri da non rendersi conto degli sguardi che attirava, come una calamita. Era assopita da suoi pensieri, non abbastanza da ignorare quella voce.
“Hey” aveva detto. Semplice, breve. Solo una parola. “Hey”, e lei si era girata, come fosse certa che chiamasse lei. Callie aveva accennato solo un gesto con la testa, troppo stanca persino per un ciao. Era incerta se fidarsi di quella voce o rimanere nella sua indifferenza, nel suo odio verso il mondo, nella sua diffidenza per il genere umano.
“Tequila?” aveva aggiunto, cercando di iniziare una conversazione. In realtà, a Callie, quella frase parve più come un “non ti facevo tipa da tequila”, come se la conoscesse. Lei l’aveva ignorata, completamente, come se non avesse parlato. Decise per l’indifferenza, alla fine.
Arizona, la voce, restò seduta accanto a Callie, in silenzio. Bevve il suo drink, le lanciò qualche occhiata, provò ancora con un “non è serata a quanto pare” e poi si alzò per andarsene.
Callie la fermò per un braccio. Neanche lei sapeva cosa esattamente le era preso. Sicuramente non era per la voce che aveva attirato la sua attenzione all’inizio. Forse era per gli occhi, o per il modo in cui si muoveva – così piena di grazia, così leggera. Forse era proprio la leggerezza che a Callie mancava che l’aveva attirata. Comunque la fermò ed Arizona le sorrise mentre le labbra di Callie si aprirono in un timido “scusa, di norma non sono così.. fredda”.
“Ti va di fare un giro?” e Callie annuì, afferrando la mano che Arizona le aveva porto per aiutarla ad alzarsi. C’era qualcosa di rassicurante in quella faccia d’angelo coi capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare.
 
Camminavano fianco a fianco. Callie si stringeva nel suo cappotto nel tentativo di sconfiggere l’aria invernale che le ghiacciava il naso e la costringeva a socchiudere gli occhi, mentre Arizona camminava tranquilla, quasi fosse una bambina che saltellava in un prato fiorito nel mese di maggio.
“Io sono un casino, la mia vita è un casino” aveva esordito Callie finendo in uno di quei suoi lunghi discorsi che somigliavano più a monologhi che ad altro “Tutto ciò che mi sta accanto cade in mille pezzi. Sembra che ogni cosa che tocchi, ogni persona che respiri la mia aria si intossichi. È tutto così fragile”. Arizona solo a quella parola aveva alzato gli occhi per guardarla in faccia, per guardare quale sarebbe stata l’espressione di Callie nel pronunciare quella parola. Fragile. Lei lo era, fragile, non “tutto il resto”. Arizona l’aveva capito da subito, ecco perché entrando in quel bar aveva scelto proprio Callie.
Ci fu un attimo di silenzio alla fine di quel lungo flusso di parole che travolse Arizona come un fiume in piena, e poi “Perché racconti ad una sconosciuta chi sei?”. Questo no, tra tutte le cose che aveva detto Callie – e che Arizona aveva avvertito dal primo istante – questo proprio non le era chiaro.
“Perché è più facile parlare di sé stessi con chi non si conosce. Nessuno cerca di trovare la soluzione ai tuoi problemi, come se io fossi stupida, come se non ci avessi mai pensato. Nessuno tenta di consolarti o di strapparti un sorriso – in fondo a te che t’importa della mia vita? Ma soprattutto non si hanno aspettative. Sono quelle che fottono la gente” e poi erano state ancora una volta inghiottite dal rumore della notte.
“Ti va se cerchiamo una gelateria aperta? Ho voglia di gelato” e Callie, con uno sguardo un po’ perplesso, continuava a vedere la bambina che c’era in Arizona, questa volta non più in un prato, ma sotto il sole di maggio.
Aveva fatto un cenno con la testa. Callie non era tipa di grandi parole, o meglio, c’era stato un periodo della sua vita in cui parlare le piaceva. “Le parole sono come le persone” diceva “Le parole sono importanti”. Poi aveva smesso di crederci. Nelle parole – nelle persone- e aveva cominciato a misurare tutto. Non sprecava più una sola sillaba se la cosa non le sembrava necessaria. Aveva cominciato a misurare le parole, la grandezza delle persone e i suoi sentimenti fino a diventare vuota.
“Buona sera, vorrei una coppetta al cioccolato. Media, tutto cioccolato” puntualizzò Arizona.
Bambina, pensò ancora tra sé e sé lasciandosi sfuggire un sorriso mentre restava immobile ad ascoltare la voce di Arizona che restava in sottofondo e la cullava. Forse anche lei si sentiva un po’ bambina ascoltando il suono di quella ninna nanna che le dava leggerezza, proprio com’era leggera Arizona nel muoversi, nel parlare, nel sorridere.
“Andiamo?” le chiese prendendola sotto braccio, mentre Callie si domandava come le venisse spontaneo atteggiarsi in quel modo. Si chiedeva come facesse a sentirsi a suo agio, o meglio, si chiedeva come facesse a sapere che Callie non si sarebbe ritratta ad una moina, ad una carezza.
“A cosa stai pensando?” le aveva chiesto Arizona sedendosi su una panchina all’ombra di un albero spoglio e secco. Callie aveva guardato prima l’albero, come a vedere il riflesso della sua anima, poi Arizona, che sembrava scavare nella coppetta per cercare l’ultimo residuo di cioccolato, rannicchiata su se stessa, con le gambe al petto. Aveva un’espressione così concentrata.
“Al discorso che ti ho fatto prima”.
Arizona era rimasta in silenzio a fissare la coppetta ormai vuota, con un’espressione mista tra il deluso e l’affamato. Sembrava chiedesse ancora gelato. Callie, per tutta risposta, si sentì quasi offesa. Arizona la stava snobbando, stava snobbando i suoi problemi –gravi problemi, enormi problemi – per una coppetta di gelato finita. Non poteva neanche dirsi delusa dal comportamento di Arizona, dato che la conosceva solo da qualche ora, però sentì dentro crescerle un fastidio.
“Come al solito, a nessuno importa degli altri” aveva pensato tra sé e sé e forse qualche aspettativa se l’era già creata.
Silenzio. C’era ancora silenzio. Era un silenzio di quelli pesanti, di quelli che senti così forte che ti fischiano le orecchie. Arizona restava seduta in posizione fetale con il naso all’insù, rivolto al cielo. Per un attimo a Callie sembrò che i suoi occhi brillassero come le stelle. Non nel modo poetico in cui lo intendono due innamorati guardando l’uno negli occhi dell’altro, no. Brillavano proprio, come se stesse per scoppiare in un pianto. Poi si mosse e Callie ebbe paura di restare da sola. Di nuovo. Non voleva. Per quanto cercasse di nascondere quella sua folle paura, per quanto non riuscisse ad ammetterlo ad alta voce, lei non era pronta a restare da sola. E così mise su una bilancia la sua paura ed i suoi limiti, lasciando vincere i secondi. Si spinse oltre il suo limite accennando un leggero colpo di tosse.
“E tu a cosa stai pensando?”
“Al discorso che mi hai fatto prima” rispose citando la sua stessa frase per poi guardarla negli occhi e sorridere. Per un secondo a Callie sembrò di vedere scivolare dagli occhi di Arizona una stella, così, veloce, come se stesse perdendo una lacrima. Poi capì che non se ne stava andando via.
Callie sentì il cuore accelerare di un paio di pulsazioni ed il respiro farsi un po’ più affannato. Lo conosceva bene il suo corpo, lei, che era un dottore.
“Sto pensando che le persone che parlano di sé tentano di descrivere chi vorrebbero essere, oppure sono peggio di quel che dicono” aveva detto Arizona, probabilmente accorgendosi dello strano cambiamento di Callie. Lei no, non era un medico, ma aveva intuito il respiro affannato dalla nube bianca che si era formata davanti alla bocca di Callie.
“Ed io a che tipo di persone appartengo?”
“Nessuna di queste” e poi d’istinto aveva allungato la mano sul viso di Callie, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Aveva lasciato che il dorso della sua mano e le sue dita scorressero piano sulla guancia di Callie come per voler toccare ogni millimetro della sua pelle. Come se le servisse per conoscerla meglio. Come se le servisse davvero. Come se già non la conoscesse. E Callie l’aveva lasciata fare, mentre sentiva i pezzi del suo cuore farsi più vicini, come se volessero tornare insieme e ricucirsi da soli sotto quel tocco. “Tu sei buona” aveva sussurrato piano Arizona, col tono di voce spezzato quasi di una commozione –una commozione reale.
Bambina, aveva pensato ancora Callie, questa volta per quel suo modo di amare così puro ed innocente.
“Da cosa l’hai capito che sono buona?”
“Dagli occhi” le rispose subito continuando a mantenere il contatto visivo. Era il blu del mare che si mischiava col nero dell’oblio. Chiaro, scuro. Luce, ombra. Erano il giorno e la notte che si inseguivano e giocavano a rincorrersi e solo a volte riuscivano a toccarsi –ad amarsi con un solo tocco.
“A cosa stai pensando?” aveva ripetuto Callie meccanicamente.
“Sto pensando alla tua bocca” Arizona aveva appena inumidito le labbra. “Sto pensando che voglio baciarti” e Callie aveva guardato la sua lingua muoversi sulle labbra di Arizona che improvvisamente tornavano morbide, dopo essere state toccate dal freddo rigido che le aveva screpolate. Callie non era abituata a questo –a qualcuno che restasse sospeso a mezz’aria ad aspettare una sua risposta prima di baciarla. Callie era abituata ad essere usata, o ad essere scartata a priori. Come poteva Arizona trovare tanto interessante una persona così vuota e sola e instabile? Ma più la guardava, più sembrava che gli occhi di Arizona parlassero per la sua voce e la sua bocca.
“C’è differenza tra l’essere vuoti e sentirsi vuoti”, le sembrava di aver sentito Arizona dire, mentre invece restava ferma nel suo respiro calmo che riscaldava le labbra umide di Callie.
“Perché non lo fai” si era lasciata sfuggire Callie senza nemmeno accorgersene. Aveva lasciato scivolare dalla sua bocca quelle parole senza riuscire a tenerle lì, strette tra i denti, incastrate nella gola. La sua frase parve più un’affermazione che una domanda. Arizona non esitò.
Il suo naso sfiorò quello di Callie, mentre chiudeva gli occhi e faceva scivolare le sue mani fredde sulle spalle di Callie, fino a quel momento riscaldate dal calore del cappotto. La schiena di Callie s’irrigidì, percorsa da un brivido ed Arizona sorrise dolce mentre continuava a baciarle le labbra. Callie teneva gli occhi aperti, sempre all’erta, nonostante avesse chiesto lei quel bacio. Arizona sentì il suo sguardo, il suo disagio, allontanandosi da quella bocca che tanto desiderava.
“Voglio portarti in un posto” aveva detto balzando in piedi, come se non fosse accaduto nulla “Vieni?” e le aveva porto la mano, facendola alzare da quella panchina.
 
L’aveva tenuta per mano tutto il tempo, anche in quel momento, mentre la chiave in ferro apriva una vecchia porta in legno. Buio, buio totale. A Callie piaceva stare al buio. Si sentiva a suo agio, per lo meno nessuno l’avrebbe vista, non perché sembrava invisibile agli occhi degli altri, quanto per la mancanza di luce. Al buio ogni oggetto perde forma, ogni persona è uguale ad un’altra.
“Aspetta qui” aveva detto lasciandola da sola in mezzo alla stanza. Quando Arizona aveva fatto scattare l’interruttore Callie si sarebbe aspettata tutto tranne che un’enorme stanza riempita solo da luci, specchi, alcuni riflettori, un telo bianco e in un angolo una scrivania in legno quasi a richiamare la porta d’ingresso. Sulla parete opposta della scrivania, una porta che si mimetizzava col bianco del muro.
“Andiamo?” l’aveva attirata a sé gentilmente, riprendendole la mano. Poi avevano percorso una breve rampa di scale. Quella Callie non l’aveva notata e neanche la camera stellata, nel vero senso della parola.
“Sembra di stare al planetario” aveva detto ad Arizona fissando il soffitto trasparente, come fatto di vetro. Ad Arizona quel commento non sembrò stupido, nè tanto meno infantile. Callie invece si sentì inappropriata, specialmente quando Arizona le rispose “Questo è il mio posto felice. Da piccola mio fratello mi portava qui di nascosto. Sai, all’epoca tutto questo non mi apparteneva.” Pausa, come se avesse tralasciato qualcosa “Questo posto significava così tante cose per me e Timothy, così ho deciso di comprarlo.”
Che voleva dire con “significava così tante cose”, si chiese Callie e, come sempre, Arizona soddisfò la sua curiosità senza bisogno di parole.
“È morto” disse a bassa voce sdraiandosi sul letto –un materasso che poggiava a terra ricoperto da lenzuola gialle ed una trapunta multi color. Fu la prima ed unica volta in cui Arizona sembrò fredda, distaccata e nello stesso tempo così piccola e fragile. Non come la bambina che gioca o la bambina che mangia il gelato –non come la persona leggera che era– ma come il cristallo che si pacca quando cade, o la neve che si scioglie appena tocca il suolo.
“Perché ci tenevi tanto a portarmi in questo posto?” Arizona la sentì sdraiarsi accanto a lei, mentre Callie le parlava a bassa voce, come per non voler disturbare qualcuno che dorme o gli stessi pensieri di Arizona, ora che sembrava così cupa. Erano vicine, non abbastanza per toccarsi. Callie voleva mantenere quella distanza invisibile che Arizona aveva creato.
“Perché voglio che ti fidi di me, voglio che capisci che non sono come le altre persone” Arizona rispondeva restando immobile a fissare il soffitto, le stelle e il cielo scuro che si stagliava imponente sopra la città e si mischiava alle luci e ai colori di Seattle. Callie aveva ritrovato in quella risposta la sicurezza che aveva perso in precedenza nel tono di voce di Arizona, nel suo sguardo triste.
“Allora raccontami di te” le aveva sussurrato all’orecchio, girandosi su un fianco e posando il peso su un gomito per mantenersi in equilibrio a guardarla parlare.
“Ho un dono, credo” stava già esitando. Callie credeva che non volesse ricadere tra quella gente che si descrive come vorrebbe essere.
“La gente dice che ho un dono e che sta nei miei occhi e nel mio sorriso. La gente dice che quando sorrido, insieme alla mia bocca ridono anche gli occhi ed ogni muscolo della mia faccia e questo fa stare bene chi mi guarda –anche se io non capisco come” aveva aggiunto a bassa voce, aggrottando le sopracciglia “Non lo so come si usa questo dono, ammesso che io ce l’abbia davvero” un’altra pausa, come per selezionare le cose più importanti “Non mi piace aggiustare le cose. Che sia una cosa piccola, o significativa o costosa, non ha importanza. Non mi piace aggiustare le cose –sono stanca di aggiustare cose” si era lasciata sfuggire e Callie aveva capito che non si riferiva solo agli oggetti, ma soprattutto alle persone. Forse Callie riusciva solo ora a comprendere la sua finta solitudine. Forse Callie aveva capito che, a furia di aggiustare cose, rapporti, persone, aveva lasciato perdere e aveva deciso di vivere –vivere e basta. Non importava quanto facesse male tagliare un rapporto. Le cose sarebbero state difficili all’inizio, poi, col passare del tempo, tutto sarebbe passato.
“Avresti già buttato mille volte questa” disse Callie estraendo dalla tasca una collana con inciso il suo nome per intero. Calliope, lesse Arizona ad alta voce e per la prima volta a Callie sembrò di avere il nome più bello del mondo. Non si spiegava come, in bocca ad Arizona, qualsiasi parola suonasse bene. Forse avrebbe dovuto dirglielo, ma, come sempre, preferì il silenzio alle parole. Rimase a guardarla, mentre si rigirava tra le mani la collana rotta.
Calliope, ripetè Arizona.
“Già, è il mio nome” disse sorridendo, come se stesse parlando ad una bambina e le stesse spiegando il segreto più profondo. Arizona ricambiò il sorriso ed annuì, lasciando in dubbio Callie, che non capiva se Arizona approvasse solo il suo nome o la guardasse come a dirle “okay, ho capito”.
“Arizona, il mio nome è Arizona” e solo in quel momento entrambe pensarono quanto fosse strano restare così vicine, sapere tutto e al tempo stesso non sapere nulla dell’altra –come i loro nomi. Alla fine erano solo quelli, nomi, che importanza potevano avere?
“Come lo stato”
“Come la nave” la corresse Arizona.
Una pausa, un silenzio interrotto solo dalle parole di Arizona “A cosa stai pensando?”
“Al tuo discorso, quello sulle persone che si descrivono come vorrebbero essere e quelle che sono peggio di quel che dicono” erano tornate a parlarsi fianco a fianco, sguardo fisso sul soffitto, mani incrociate sulla pancia. Per Callie era troppo imbarazzante parlare con una persona guardandola negli occhi, non reggeva il confronto. Arizona l’aveva capito e aveva rispettato il suo volere.
“E qual è il tuo verdetto?” le aveva chiesto sarcastica Arizona, accennando una risata ironica.
“Sei buona” entrambe rimasero in silenzio, nuovamente. A Callie quella frase uscì a fatica. Arizona, invece, ne fu del tutto sorpresa.
“Da cosa l’hai capito?” ed ora non era più solo la bocca di Callie a non rispondere ai suoi comandi, ma tutto il corpo. Callie si tirò su per guardare Arizona, per studiarne ogni singolo cambiamento espressivo e restando a fissarle le labbra rispose “Dagli occhi” riprendendo la stessa frase di Arizona. Aveva ragione la gente che diceva che Arizona aveva un dono – il dono del sorriso e degli occhi che brillano. Callie aveva visto il volto di Arizona illuminarsi, mentre le sue labbra si schiudevano in un’altra domanda –sempre la stessa che si ripeteva ogni due minuti tra loro, come una cantilena.
“A cosa stai pensando?” aveva messo le sue mani attorno alla nuca di Callie, che restava sospesa sopra di lei a guardarla estasiata. Anche se non lo sapeva, era questo il modo in cui stava guardando Arizona.
“Sto pensando al tuo corpo” Arizona aveva annuito seria, capendo la serietà della frase di Callie che parlava poco e dava così peso a quello che diceva. “Sto pensando che voglio toccarti” e ad Arizona non erano servite altre parole per capire che Callie intendeva la sua anima –voleva toccare la sua anima.
“Okay”
“Voglio..”
“Okay” l’aveva interrotta prima ancora di lasciarle terminare la frase “Calliope, io mi fido” e Callie l’aveva baciata con un’intensità che non credeva nemmeno di essere capace di esprimere, men che meno di provare. Si sentì soffocare quando le sue labbra entrarono a contatto con quelle di Arizona e non capiva se era per il bacio in se o per la valanga di emozioni che la stavano travolgendo. Era viva, si sentiva viva, mentre l’odore di Arizona si mescolava col suo e riempiva l’aria e i suoi polmoni e più ne respirava, più avrebbe voluto respirarne. Era l’odore della leggerezza, quella che caratterizzava Arizona e della fiducia. Callie non riusciva a spiegarsi come, in fondo, Arizona la sua anima l’avesse già toccata con quella frase –io mi fido. Erano parole che valevano più di un ti amo, specialmente dette da una bocca come quella di Arizona. Callie lo sapeva, labbra così non potevano mentire.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Arizona fu la prima a svegliarsi –a svegliarsi, non ad aprire gli occhi. Rimase per qualche istante immobile ad immaginare Callie stretta nella sua maglietta, a dormire serena tra le sue braccia, mentre lei restava completamente immersa nella folta chioma nera. Invece, quando aprì gli occhi, l’unica cosa che percepì fu il vento dell’inverno che impertinente, s’infiltrava dalla finestra accarezzandole il ventre scoperto. Sul lato opposto del letto, Callie, appallottolata su se stessa, si era presa tutto: le sue coperte, il suo spazio, la sua fiducia. E Arizona l’aveva lasciata fare. Cosa le importava in fondo? Niente, assolutamente niente. Ogni cosa perdeva importanza davanti a quegli occhi e a quel respiro affannato nel sonno –un sonno agitato. Neanche quando dormiva era in pace col mondo.
Gettò un’ultima occhiata al corpo inerme di Callie che si dimenava nei sogni, poi al cielo grigio macchiato da nuvole nere. Un cielo plumbeo, troppo cupo anche per Seattle. Ad Arizona non piaceva un cielo così, era presagio di sfortuna, di qualcosa sarebbe andato storto. Si sentiva impotente. Era come Callie nei suoi sogni, inquieta.
Scese le scale, si mise il cappottò, sbadigliò e uscì a fare due passi. L’aria fredda delle sei e mezza le pizzicava le guance, colorandole di rosa e poi di rosso. Soffiò sulle mani per scaldarle e poi estrasse dalla tasca una sigaretta. Si sdraiò su una panchina e l’accese, lasciando che il freddo marmo a contatto con la sua pelle le provocasse un brivido lungo la schiena. Tirò indietro i capelli, lasciò cadere la testa da un lato per osservare l’orizzonte. Nonostante fosse troppo cupa come giornata per vederlo o per scorgerne l’alba, lei sapeva che era appena successo.
Le strade erano tranquille, la maggior parte della gente era ancora rintanata nella propria casa, nel proprio letto, a dormire, a far l’amore, a scambiarsi un po’ di calore. Lei no, lei era lì fuori. Sola, al freddo. Parlava a suo fratello. Per lei quello era il suo momento di pace, il momento in cui si sentiva in armonia con l’universo. Poi finiva e allora correva al bar sotto casa per bere un caffè.
Questa volta non si fermò.
“Ciao” aveva sorriso Arizona entrando nel locale ed un saluto familiare l’aveva accolta. Era un’abitudine ormai, fare colazione in quel posto “Due caffè e due brioches al cioccolato” aveva usato un tono calmo, come di una che si sente a suo agio.
“Colazione per due eh?” la frase di Fabio, il barista italiano, parve ad Arizona più una provocazione, che una domanda. Lasciò cadere il discorso scuotendo la testa.
Prese in mano il sacchettino di carta, pagò, lasciò la mancia e uscì pensando che se non fosse stato per il freddo le sue guance rosse d’imbarazzo l’avrebbero tradita.
Appena in casa lasciò cadere tutto a terra, finendo poi in uno dei suoi sbadigli rumorosi. Si stiracchiò, si stropicciò gli occhi e cominciò a sorseggiare il caffè seduta per terra.
Non si era fatta la doccia, non si era neanche accorta di avere indosso i vestiti della sera prima – i vestiti impregnati del profumo di Callie. L’unica cosa che importava era aver parlato con suo fratello, aver bevuto il suo caffè e guardare Callie mentre scendeva per le scale e si sfregava gli occhi come i bambini.
“Buongiorno” esordì dolce Arizona, mentre Callie si trascinava in giro per casa il piumone, infreddolita.
A Callie uscì solo un flebile “Ciao” che risultò più la frase di un’eterna indecisa che un saluto. Era solo la stanchezza, lo sapevano entrambe.
“Che.. che razza di posto è questo?” disse con aria confusa passandosi una mano tra i capelli. Girava attorno a sé stessa nel tentativo di mettere a fuoco ogni minimo dettaglio di quell’enorme, gigantesca stanza.
“Questo è il mio studio fotografico” e prima che Callie potesse aggiungere qualsiasi cosa “Si, sono una fotografa”.
Arizona non si aspettava nessun “wow” o “che gran figata”, almeno, non da Callie che, infatti esordì con un “Non ti azzardare a lasciarmi mai più in un posto così grande da sola. Mi è quasi preso un colpo quando mi sono svegliata e non ti ho vista”.
Ad Arizona sfuggì un sorriso involontario. “Me lo ricorderò la prossima volta” disse con un tono carezzevole alzandosi per cingerle la vita.
“Arizona non ci sarà una prossima volta” e fermò le sue mani a mezz’aria, per spezzare quell’abbraccio ancora prima di entrare in contatto con la sua pelle. Arizona non disse nulla, solo non capiva e Callie glielo lesse in faccia. “Sai troppe cose di me, Arizona. Sai troppe cose” era un tono compassionevole, il tono di una persona consapevole di aver spezzato, ferito o comunque deluso le aspettative di un’altra persona. Avrebbe voluto dirle “cosa ti avevo detto? Quando ci si affeziona, quando si hanno aspettative, si soffre”. Avrebbe voluto dirle che le dispiaceva, invece rimase in silenzio e riprese a fissare con insistenza qualcosa di indefinito, almeno, così parve agli occhi di Arizona. Per quanto ne sapeva lei, Callie stava fissando il vuoto. La continua assenza di dialoghi tra loro ormai non era più un problema, anzi, si poteva pure definire il loro modo di comunicare. Arizona intuiva molte più cose dai silenzi di Callie che dalle sue parole. Silenzio, ormai c’erano abituate.
“Ti ho preso il caffè” aveva esclamato, per poi girarsi, prenderlo e porgerglielo. Quando Arizona si rigirò, trovò Callie davanti alla scrivania a frugare tra cartellette, fascicoli e foto. Sfogliò un paio di foto di paesaggi, ma si stancò subito. Poi passò ai volti, ai bambini che giocavano, la luna. C’era di tutto tra cassetti di quella scrivania, se uno sapeva dove cercare. Arizona restò immobile in disparte a guardarla. Le piaceva come Callie tentasse dei passi avanti per avvicinarsi al suo mondo.
“E questa?” le chiese Callie retorica prendendo in mano una cartelletta di cartoncino giallo sbiadita dal tempo.
“No, Callie! Quelle no, quelle no!” provò a strappargliela di mano, ma a Callie bastò solo alzare il braccio per impedirglielo. Arizona si appoggiò con le mani alle sue spalle, tese ogni muscolo del suo corpo, si mise in punta di piedi. “Tanto non ci arrivi” l’aveva presa in giro Callie, appoggiando il suo naso su quello di Arizona, che colpita da quell’inaspettato gesto che sembrava così abituale, tentennò. Abbassò la testa, accennando un passo indietro quando Callie le prese il mento tra l’indice e il pollice, costringendola a guardarla.
“Hey” si sentiva quasi in colpa.
“È.. è che è personale, tutto qui.” Non aggiunse altro. Non sorrise, non mise il broncio, non usò un tono particolare di voce. Disse solo “è personale”. Cosa c’era di più personale che passare la notte intera con una donna con quegli occhi a spiegarle i suoi sospiri, i suoi silenzi, il suo posto speciale? Cosa c’era di più personale di Arizona che aveva passato un’intera notte a restituire la vita a Callie con le sue mani e la sua bocca? E Callie, infatti, gliel’aveva detto.
“Io conosco il tuo nome, so che ti piacciono solo le cose nuove, che mangi il gelato al cioccolato – che preferisci la coppetta al cono – che ti piacciono le stelle e che hai un dono. Cosa può esserci di più personale?” Rimasero in silenzio. Le loro menti furono toccate dallo stesso pensiero. Arizona non aveva più nulla da perdere dal momento in cui Callie le aveva detto che non si sarebbero più riviste. Annuì in silenzio, poi si diresse verso la grande porta finestra e restò ad osservare il cielo per un tempo indeterminato. In sottofondo sentiva le foto che passavano avidamente tra le mani di Callie. Le guardava, le riguardava, sembrava non stancarsi mai.
“Sei tu” due semplici parole. Le aveva pronunciate con la stessa intensità con la quale aveva chiesto ad Arizona di baciarla o di toccarle l’anima, la sera prima. Ecco, le loro anime si stavano toccando ancora mentre Arizona si girava per guardare Callie negli occhi. E come sempre erano vicine e distanti nella stessa stanza -più di quanto potessero mai immaginare.
“Sei bellissima” si era lasciata sfuggire Callie, come sempre –come quando era con lei.
Avrebbe voluto avvicinarsi e baciarla per chiederle scusa per aver insistito, per curare le sue ferite –anche solo in parte– come lei aveva fatto. Riusciva a vederla completamente nuda, riusciva a vedere come Arizona si sentiva nuda davanti a lei e come le era diventato d’un tratto più facile leggerla come un libro aperto o vederci attraverso, come l’acqua di un ruscello. Avrebbe voluto, ma restò in silenzio. Arizona avrebbe saputo leggerle dentro o capire, come sempre.
“Ti spiace se mi faccio una doccia?” chiese Callie dopo aver finito anche l’ultima briciola della sua brioche. Arizona scosse la testa restando immersa nei suoi pensieri. L’unica cosa che la scosse fu vedere Callie pronta, sulla porta d’ingresso.
Scesero le scale mantenendo quel loro religioso silenzio e poi si salutarono davanti al portone.
“Beh, quindi.. addio?” l'affermazione di Arizona restò sospesa in aria per un istante. Riecheggiava nell'aria come una domanda, come a chiedere conferma, come a chiederle se se ne stesse andando davvero oppure era stato solo un brutto scherzo.
"Addio" era stata la sola parola di Callie che si voltava. Lo sguardo triste, le mani nel cappotto, le guance rosse. "Girati dai, girati", pregava Arizona mentre si stringeva la sciarpa al collo e strizzava gli occhi come fanno i bambini quando esprimono i desideri. "Non chiedo tanto, solo che ti giri e mi guardi. Me ne accorgerò da me che mi stai cercando. Sentirò i tuoi occhi sulla mia pelle, sentirò il tuo silenzio chiamarmi e le tue mani invisibili cercarmi e ti correrò in contro e ci ameremo a modo nostro: senza baci, senza parole -ci toccheremo l'anima- ma adesso girati, ti prego".
E così fece quando sentí i suoi occhi, la sua voce, le sue mani -la sua anima- si girò e le corse in contro lasciando piccole nuvole bianche nell'aria ad ogni respiro affannato.
Arizona andò a sbattere contro Callie finendo dritta fra le sue braccia. "Sono qui, mi vedi? Mi hai trovata", ma niente dalla sua bocca non usciva una sola sillaba. Tutto d'un tratto si era ritrovata muta. "Andiamo, non adesso" pensò, mentre il cuore di Callie batteva prepotente nel suo petto sovrastando i pensieri di Arizona. E lo sentí nella sua testa, nel suo stomaco, nel suo petto. Non osò chiederle cosa stava pensando -le era chiaro- e poi sapeva bene come funzionava quel gioco tra loro. Callie alla fine le avrebbe rivolto la stessa domanda. E a quel punto, cosa avrebbe risposto?
"Io ti amo. Non so come sia possibile in una sola notte, ma mi sono innamorata di te. Prima dei tuoi occhi, poi di te. E sono sicura che è amore, non mi sto confondendo con altro. È amore perché vorrei svegliarmi la mattina e trovarti nella mia maglietta, appiccicata al mio corpo -anche se questo vorrebbe dire rinunciare alle coperte, bene, rinuncerò volentieri. È amore perché vorrei baciarti sotto la pioggia, quando non percepisci più nulla, se non l’odore di bagnato e poi ridere. È amore perché vorrei portarti al mare. Nessuno è mai riuscito a portarmi al mare, nessuna delle persone con cui sono stata. È amore perché credo valga la pena saltate tutte le tappe e dirti che ti amo. Che valore ha il tempo se tu non sei qui a dividerlo con me?” Arizona si sentì esausta per quel discorso, come se l’avesse detto davvero ad alta voce e non solo nella sua testa. “È amore perché è fiducia" lo urlò nella sua mente, tentando di penetrare lo sguardo di Callie col suo.
Occhi negli occhi, rimasero in quell'attimo di sospensione per un momento eterno. "Calliope" cercò di pronunciare il suo nome, quando Callie la strinse a se -le sue labbra, le sue mani, il suo corpo- e la baciò. Rimasero aggrappate l'una all'altra. Piansero, nelle loro menti piansero entrambe. Erano lacrime invisibile proprio come le loro parole -solo le loro anime potevano toccarle. Piansero perché si erano cercate, si erano trovate, si erano create aspettative. Avrebbero sofferto di più dopo. Inspirarono all'unisono nella speranza di tenere salda l'anima dell'una all'altra, poi si lasciarono andare. Non una parola, non più uno sguardo. Solo le labbra che pulsavano dell’ultimo bacio e un ciondolo rotto accanto al letto di Arizona. Questo era stato il loro addio.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


“Ecco il tuo tè verde” aveva detto Joe, porgendo una tazza fumante ad Arizona. Lei sorrise. Era felice, era solare. Era l’arrivo della primavera che la metteva di così buon umore –i fiori che sbocciano, le rondini che cantano, il cielo azzurro e limpido che si alterna ad una leggera pioggia. Arizona sorseggiò il suo tè caldo, gustandone ogni minima goccia. Sapeva che quello sarebbe stato uno degli ultimi della stagione invernale.
“Tè verde, davvero?” aveva esclamato una voce alle sue spalle, facendola sobbalzare. Arizona mandò giù tutto d’un fiato metà del tè bollente nella tazza, bruciandosi la gola. Poi cominciò a tossire, mentre la voce rise.
“Callie?” si girò a guardarla –a guardarla ridere di lei. “Callie!”
“Dio, quanto mi sei mancata”, pensò mentre la stringeva a sé. Le braccia di Arizona circondarono le spalle di Callie prima ancora che se ne potesse rendere conto. Le braccia di Arizona la tenevano così forte, che neanche volendo avrebbe potuto opporsi. Figuriamoci, era già tanto se la lasciavano respirare. Callie istintivamente ricambiò il gesto affettuoso. Era mancata anche a lei. Per quanto non volesse ammetterlo, per quanto fosse sbagliato affezionarsi, secondo la sua logica, era mancata anche a lei in fondo. Se ne rese conto solo quando Arizona si staccò da quell’abbraccio che le era davvero mancato tutto questo. Se ne accorse quando Arizona si staccò e lei tentò di fermarla per tenerla ancora con sé.
“Come stai? Cos’hai fatto in questi mesi? Ti sono mancata? Mi hai mai pensato?” Arizona avrebbe voluto chiedergliele tutte queste cose. “Io si, ti ho pensato sempre” e invece restava solo a guardarla con gli occhi che le brillavano di gioia.
“Conosci Callie?” le aveva interrotte Joe.
“Conosci Arizona?” aveva ribattuto Callie, ancora prima che Arizona potesse rispondere alla domanda.
“Qui la conoscono tutti. È l’unica che viene al bar alle dieci per bere un tè verde” esclamò Joe ridendo, come ad intendere che a quell’ora solo bere alcool diventa legale, o per lo meno nomale. Le guance di Arizona si tinsero di rosso mentre cadeva in un totale imbarazzo. Si sollevò appena dalla sedia, oltrepassò il bancone con un braccio e spinse Joe sulla spalla, mossa da un gesto amichevole, come a chiedergli di smetterla. Callie restò ad assistere alla scena, finchè Joe non indicò ad Arizona il grande orologio che si stagliava sulla parete alle loro spalle.
“Oddio, devo andare!” esclamò Arizona, infilando il giubbino in pelle nera.
“Dove?” fu istintiva la domanda di Callie, che la guadava piegata verso terra con la testa immersa in un enorme zaino nero. Per un attimo Arizona le fece tenerezza. Così piccola, così minuta si perdeva in uno zaino così grande. Pensò che l’avrebbe potuta spezzare.
“Ho un appuntamento” rispose senza neanche pensarci Arizona. Solo quando si alzò per uscire dal locale si rese conto di quanto quella frase potesse turbare i pensieri di Callie. Si fermò sulla soglia della porta. Voleva solo essere fredda e distaccata, come lo era stata Callie quando le aveva detto che non si sarebbero più riviste. “Non ti devi affezionare” e lei stava cercando di non farlo, o per lo meno cercava di tornare indietro –un passo indietro rispetto al momento in cui aveva cominciato ad affezionarsi a Callie. Che poi se lo chiedeva da tempo, esisteva davvero un momento preciso oppure era legata a lei da sempre? Un attimo, il tempo di un’esitazione, poi Arizona si girò indietro e corse a prendere le mani di Callie tra le sue.
“Non è come credi” la voce bassa, il tono dolce di Arizona scaldarono il cuore di Callie e la fecero sentire al sicuro, come sempre, come quando era Arizona a parlarle. Non l’aveva dimenticata quella sensazione. “Vuoi venire?”.
“Si.” Callie non aveva esitato neanche un istante. Il tempo di prender fiato e risponderle si, ferma decisa, ad alta voce. “Si, ti ho pensata. Si, mi sei mancata. Si, ho pensato di non poter stare senza di te e di amarti, forse. Ma io non sono brava ad amare, non ne sono capace”, era quello che avrebbe voluto dirle, ma si limitò solo ad uno stupido “si” alla sua proposta. E senza far domande si lasciò guidare dalle mani di Arizona che continuavano a tenerla stretta in una morsa eterna. Senza far domande si fidò.
 
“Stiamo tentando di battere un record in scalate?” chiese Callie in tono ironico e proseguì la frase, senza aspettare una risposta alla sua domanda retorica “No, perché se non te ne fossi resa conto è da un’ora che stiamo salendo questa strada” Arizona trattenne a stento una risata, mentre con la mano cercava al buio quella di Callie, rimasta qualche passo più indietro.
“Siamo quasi arrivate” le aveva detto avvicinando il suo orecchio alla sua bocca. Parlava a bassa voce per non disturbare la quiete del posto. Callie le strinse le mani attorno al braccio sorridendole. Ad Arizona piaceva il modo in cui Callie aveva imparato a prendere confidenza col suo corpo, la sua voce, la sua persona, spingendola persino a far battute.
“Sei sicura che non vuoi ti porti lo zaino?”
“Callie, è la ventesima volta che me lo chiedi. Ho detto di no” le schioccò un bacio sulla guancia “Grazie.”
Callie sentì le gambe cedere sotto al suo peso. Si staccò da Arizona e si fermò in mezzo al nulla, dandosi il tempo necessario per riprendersi dalla camminata e dal quel bacio. Arizona aveva aumentato il passo, anzi, saltellò felice nell’erba verde finchè non posò lo zaino a terra ed esclamò entusiasta “Siamo arrivati!” Non stava più nella pelle. Callie non riusciva a capire quell’entusiasmo.
“Oh” esclamò quando il suo sguardo percorse l’orizzonte sotto al quale si estendeva Seattle, nei suoi colori, nel suo splendore. Arizona prese il volto di Callie con una mano, facendole alzare lo sguardo, poi scivolò dietro di lei. Appoggiò il mento sulla sua spalla, immergendo il viso tra i capelli di Callie, mentre con le braccia le cingeva la vita.
“Oh” esclamò di nuovo, questa volta con più sorpresa. Arizona sorrise compiaciuta, mentre ascoltava il battito del cuore di Callie e il suo respiro affannato. Ad Arizona piaceva sorprendere Callie. Voleva vederla sorridere, voleva essere lei la ragione di quel sorriso e di quegli occhi che s’illuminavano sotto le stelle. In fondo le bastava sempre così poco per farla stare bene.
“Volevo solo fare qualche foto a.. questo” Arizona parlava a Callie sempre piano, sempre quieta, come se solo parlandole avrebbe potuto calmare la sua anima “Perché..” Callie l’aveva interrotta.
“A te piacciono le stelle” Callie si girò per dirglielo –dirglielo guardandola negli occhi- mentre Arizona sorrise ed annuì con la testa. Si alzò una leggera brezza, presagio di primavera ma ancora troppo fredda, data la stagione e scosse il corpo di Arizona. Callie, d’istinto, la strinse tra le sue braccia, mentre Arizona si strinse a lei. Le mani di Arizona s’intrufolarono tra la giacca di Callie e la sua felpa, e si serrarono in pugni per non lasciarla andare via. Rimasero così qualche istante, giusto il tempo di far passare il vento freddo, poi si staccarono l’una dall’altra lanciandosi un’occhiata come a dirsi “Mi è mancato tutto di te, ma dire tutto è come dire niente. Allora ti dico che oltre alle tue mani, alle tue braccia, alla tua bocca, alla tua voce, la cosa che mi è mancata di più è stato il nostro silenzio.”
Callie andò a sedersi su una panchina, per guardare da lontano Arizona che si perdeva a sistemare la sua macchina fotografica.
“Potrebbe essere un po’ noioso” le disse Arizona, provando un paio di scatti per verificare i colori e l’intensità della luce “Prometto che sarò veloce” e le aveva sorriso, così, semplicemente, come ogni volta che la guardava. E Callie aveva ricambiato. Con lei aveva imparato a ricambiare un semplice sguardo, un sorriso puro, una sola parola gentile. Con lei si sentiva più buona, meno sola, meno infelice.
Passò del tempo, nessuna delle due si rese conto di quanto tempo effettivamente passò. Arizona troppo persa nelle sue stelle, Callie troppo persa in Arizona. Era rimasta tutto il tempo a fissarla mentre si chinava, si spostava, calcolava delle distanze. Studiava ogni suo movimento, lo spostamento dell’aria al suo passaggio e il suo odore quando si faceva più vicina. Quando Callie distoglieva lo guardo per osservare le stelle o le luci di Seattle, sentiva l’odore di Arizona che si avvicinava e la chiamava indietro, come a richiamare uno sguardo o l’attenzione persa. Arizona –il suo odore- era come una calamita per i sensi di Callie.
“Guarda che puoi parlare anche se sembro super concentrata” esclamò Arizona sarcastica prendendo posto accanto a lei. Callie sussultò. Nonostante l’avesse sentita farsi più vicina, sussultò quando Arizona appoggiò la sua spalla contro la sua accennando un movimento provocatorio. Si limitò a scuotere la testa e a girarsi dall’altra parte, quando Arizona le scattò a tradimento una foto.
“No” aveva detto seria Callie, mente Arizona si era alzata dalla panchina e aveva preso a correre “Arizona, torna indietro” e Callie aveva iniziato ad inseguirla “Cancellala immediatamente! Avevi detto le stelle, non me. Cancellala!” Per un attimo Callie si trovò disorientata. Si guardò attorno senza più distinguere le ombre degli alberi dalla silouette di Arizona, che si avvicinò di soppiatto alle sue spalle bisbigliando “Ma si che lo sei, una stella” e poi ricominciare a scappare.
Callie la prese per un braccio attirandola a se con forza, nel tentativo di farla tornare indietro. Arizona perse l’equilibrio, cadde a peso morto su Callie, che a sua volta scivolò. Mentre finivano stese a terra l’unica cosa che si sentì fu Arizona urlare “Attenta alla macchina fotografica, attenta alla macchina fotografica” per poi scoppiare in una risata. Callie la guardò stesa a terra, accanto a lei mentre rideva di una risata limpida e cristallina che riecheggiava nell’aria e riempiva tutto. Nonostante tentò di mantenere un tono serio, scoppiò a ridere anche lei contagiata da quel suono.
“Stai bene?” Arizona si voltò a guardare Callie che annuì, nonostante le facesse male la testa per la botta.
“Tu?” anche lei annuì per poi stringersi al braccio di Callie e chiudere gli occhi per godersi quel momento. Arizona sorrideva serena mentre Callie le passava una mano tra i capelli biondi.
“Sai cantare?” le aveva chiesto con un filo di voce.
“Come?”
“Sai cantare?” aveva ripetuto nuovamente, restando immobile nella sua posizione fetale. Le gambe in cerca di quelle di Callie, le braccia strette a lei.
“No” ecco cos’avrebbe voluto risponderle Callie. No, perché per lei cantare era una cosa personale –come avrebbe detto Arizona. Cantare era qualcosa che apparteneva a lei –solo a lei- qualcosa che non aveva mai voluto condividere con nessuno. Era il suo dono segreto -la sua voce- e lo custodiva gelosamente. Invece disse “si”, sussurrando, chiaramente consapevole di ciò che Arizona le avrebbe chiesto dopo. La sua domanda, infatti, non tardò ad arrivare.
“Puoi cantare per me?” ed Arizona gliel’aveva chiesto come consapevole del fatto che quello era un segreto che apparteneva solo a Callie. E Callie le avrebbe risposto di no se solo fosse stata abbastanza fredda, se solo fosse stata abbastanza lucida davanti a quegli occhi azzurri che brillavano così prepotenti persino all’ombra del buio.
“Cantami quello che vuoi, Callie. Solo canta per me” e Callie aveva iniziato a cantare. La sua bocca si era schiusa in un suono flebile che poi si era fatto sempre più forte, sempre più potente. Callie chiuse gli occhi, Arizona, invece, la fissava col fiato sospeso come a non voler disturbare quel suono così perfetto col suo respiro.
Quando Callie riaprì gli occhi, si ritrovò faccia a faccia con Arizona che si protendeva sopra di lei con la macchina fotografica.
“Ti prego” le aveva detto fermandole la mano a mezz’aria “Callie, sei.. sei perfetta in questo momento. Ti prego” Callie si era lasciata andare ad un sorriso per la dolcezza con cui Arizona aveva pronunciato quella frase. Aveva preso la macchina fotografica e l’aveva appoggiata sull’erba per poi rigirarsi verso Arizona, prenderla per il colletto del giubbino e attirarla a sé per baciarla.
Arizona rimase in ginocchio, sospesa sopra a Callie, mentre con una mano si reggeva in piedi e con l’altra si appoggiava alla sua spalla. Un ciondolo sbucò fuori dai vestiti di Arizona. Calliope.
“L’hai fatta aggiustare?” chiese Callie passandosi tra le mani il ciondolo.
Arizona annuì silenziosamente mantenendo un sorriso limpido, mentre Callie le spostava dietro all’orecchio una ciocca di capelli e con l’altra mano avvicinava il suo viso alle sue labbra.
Capì in un istante che la perfezione a cui si rifaceva Arizona dipendeva solo dal modo in cui lei riusciva a guardarla e a toccarla dentro.
 
“Ora ti porterò nel posto in cui assaggerai la cioccolata più schifosa del mondo. Probabilmente ti sembrerà un posto strano per bere cioccolata e ti verrà istintivo fare domande. Bene, non lo fare, non parlare proprio finchè non ti sembrerò abbastanza calma per smetterla di straparlare, perché per quanto tutto questo possa sembrarti assurdo, per quanto in apparenza possa sembrare solo un posto angusto, questo è il mio posto felice, okay?” la bocca di Arizona si schiuse in un enorme sorriso luminoso, mentre Callie riprese fiato. Prese per mano Arizona e la guidò fino all’ingresso del Seattle Grace. Con la coda dell’occhio rimase a guardare l’espressione di Arizona mutare sul suo viso, ma non in senso cattivo, anzi, sembrava una bambina in gita con la scuola in un ospedale. Arizona era una persona curiosa mentre osservava le infermiere correre per i corridoi, i pazienti che si spostavano a fatica, gli altri che si intravedevano appena nelle loro stanze.
“Oh, adoro le scarpe di quella bambina” era stato il suo unico commento guardando un paio di pattini a rotelle rosa. Callie non capì se Arizona fingesse tutto quell’entusiasmo o davvero fosse parte di lei. Sembrava non capire dove si trovasse. In ospedale la gente muore, la gente sta male, lei invece andava in giro sorridendo come se non se ne rendesse conto. Ma Callie non fu infastidita dal quel suo comportamento, anzi, i suoi nervi si distesero e finalmente si rilassò quando si sedette al tavolo della caffetteria con due cioccolate fumanti.
“E così questo è il tuo posto felice?” Arizona aveva interrotto il silenzio sapendo che quello era il momento in cui Callie aveva ripreso a sentirsi a suo agio. Le guance avevano smesso di pulsare colorate di un rosso vivo e il suo respiro era tornato regolare.
“Si, no, cioè si” aveva detto Callie indecisa “cioè, in ospedale sto bene –il mio lavoro mi fa stare bene- ma non è esattamente questo il mio posto felice”. Callie si era alzata in piedi a dire “vieni te lo faccio vedere” per poi prendere Arizona per mano e condurla in una specie di scantinato alcuni piani sotto la caffetteria.
Arizona lasciò scivolare a terra lo zaino e si sfilò il giubbino appoggiandolo a terra, sedendosi sul letto per guardarsi intorno. Tra le mani stringeva ancora il cartone di cioccolata calda per scaldarsele. Callie si aspettava un commento di qualsiasi genere, invece Arizona restò zitta a guardare come Callie aveva arredato quel posto come fosse casa sua.
“So che non è il massimo. È freddo e spoglio” come te, pensò Arizona guardandola, perché sapeva che era questo che Callie intendeva, aveva capito perfettamente perché quello era il suo posto felice –perché era come lei- “però è casa mia –l’ospedale è la mia casa. Star vicino ai miei pazienti, intendo in senso fisico, mi fa sentire meno sola”. Arizona sorrise della sua debolezza, della sua fragilità, mentre con una mano le fece cenno di sedersi accanto a lei.
Arizona si tolse le scarpe ed incrociò le gambe sul letto appoggiando la schiena ad un cuscino, dopo averlo sistemato contro al muro. Bevve un sorso di cioccolata mentre Callie continuava a guardarla. Non aveva detto nulla da quando l’aveva portata lì, non riusciva nemmeno a decifrare l’espressione sul suo volto.
“Mi piace” Arizona ruppe il silenzio “Non che tu abbia bisogno della mia approvazione, ecco, solo che mi piace. Mi sento a mio agio qui” e Callie non capì se per qui intendesse nel suo posto felice oppure accanto a lei e basta. Si limitò solo a ricambiare il suo sorriso mentre i suoi occhi sembravano proprio non volersi staccare dai lineamenti dolci del volto di Arizona.
“Che c’è?” chiese a Callie, sapendo di aver fatto la domanda sbagliata “A cosa stai pensando?” si corresse immediatamente mantenendo quel contatto visivo.
Callie per tutta risposta si protese verso di lei –un piede appoggiato a terra, un ginocchio sul letto e le braccia tese a sostenere il suo peso mentre sfioravano i fianchi di Arizona. Quando Arizona capì che Callie la stava per baciare chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dalle sue labbra.
“Sto pensando al tuo corpo, Arizona” entrambe restarono senza fiato. Callie non l’aveva mai chiamata ad alta voce dopo una frase così importante. “Voglio fare l’amore con te” ed Arizona si aprì in uno dei suoi soliti sorrisi dolci sfiorando con le dita della mano la guancia di Callie –piano, come per non spezzarla sotto al suo tocco. Come sempre, non ebbero bisogno di parole. A Callie bastò quel cenno per sfilarle il cartone di cioccolata dalle mani ed approfondire il loro bacio. Arizona si ritrovò spalle al muro, sommersa dai capelli neri di Callie che le offuscavano la vista, così come quel bacio affannava il suo respiro. Sentì prima le mani di Callie cercare le sue, poi un sospiro. Arizona aprì gli occhi e si perse nel terrore del suo sguardo.
“Va tutto bene, Callie” strinse le sue gambe attorno al corpo di Callie che tremava di paura sotto al suo tocco “Va tutto bene” pronunciò flebilmente le parole sfiorandole le labbra che restavano schiuse a pochi centimetri dalle sue. Arizona lasciò scivolare piano le sue mani sul volto di Callie accarezzandole dolcemente la fronte, le palpebre, gli zigomi. Callie chiuse gli occhi, concentrandosi solo sul respiro regolare di Arizona per calmarsi. Arizona prese le mani di Callie nelle sue e restò in silenzio ad ascoltare il battito del suo cuore che bussava prepotente contro le sue costole come a chiederle di uscire –sembrava le stesse scoppiando nel petto. Callie deglutì una, due, mille volte ed Arizona restò immobile ad osservarla, ad aspettare solo che fosse pronta –che si sentisse sicura. Poi Callie riaprì gli occhi e lentamente mosse la sue mani sotto la maglia di Arizona che restò immobile. Le dita di Callie si muovevano leggere sulla sua schiena, come se stessero accarezzando velluto, come se stessero cercando di farle solletico. In un solo gesto a rallentatore Callie fece scivolare dal corpo di Arizona la maglia ed il maglione abbandonandoli sul freddo pavimento. Arizona sospirò rumorosamente irrigidendo la schiena nel tentativo di mantenere il controllo, mentre silenziosamente le mani di Callie si prendevano tutta la lucidità dei suoi sensi.
Arizona sfiorò sensualmente il profilo del naso di Callie contro il suo, come quando i gatti fanno le fusa, e poi si inumidì le labbra lasciando che Callie ne studiasse ogni minimo movimento. Arizona sfiorò la bocca di Callie con la sua e si morse il labbro, questa volta non in modo provocatorio. Aveva paura di sbagliare, paura di affidarsi troppo ai suoi sensi, paura di non far sentire Callie al sicuro. Pensava che l’ultima cosa che avrebbe voluto sarebbe stato vedere il corpo di Callie ritrarsi dal suo, mentre con dolcezza la guidava nei movimenti e la faceva sdraiare. Nello stesso modo incerto e insicuro con cui Callie aveva spogliato Arizona, anche lei tentennò nel slacciarle la camicia. Mentre tra le mani passava bottone per bottone, i suoi occhi restavano incatenati allo sguardo di Callie per controllarne le sue reazioni. Quando la camicia di Callie cadde a terra accanto ai suoi vestiti, Arizona guardò il corpo nudo di Callie, che a sua volta la fissava, movendo la testa di lato. Sorrise di un sorriso dolce. Sorrise come fosse leggera ed Arizona trattenne a stento le lacrime guardarla inerme sotto al suo peso. Erano lacrime di rabbia quelle di Arizona, erano lacrime di qualcuno che si domandava com’era possibile distruggere una persona in quel modo, quando l’unica cosa che lei riusciva a fare –che lei voleva fare- era restituirle tutto. I suoi sorrisi, la sua anima, la sua vita.
“Non ti farò mai del male, Callie, te lo prometto. Io lo so che tu non ci credi alle promesse, ma prova a farlo –per me, per l’ultima volta. Perché io non voglio farti del male. Perché io voglio scaldarti il cuore anche quando fuori fa così freddo che ti si gelano le ossa, perché io voglio riempirti quando ti senti vuota. Non lo vedi? Io ti amo, sei l’amore della mia vita.” Arizona si chiedeva se Callie potesse leggere tutto questo nei suoi occhi ogni volta che le stava attorno, che le parlava, che la toccava. Arizona si chiedeva se sarebbe scappata se gliele avesse dette, perché Callie era così, Callie scappava quando le si dicevano cose belle, quando c’era da affezionarsi. Callie scappava sempre perché le avevano portato via tutto –i suoi muri, i suoi scudi, le sue barriere invisibili- e scappare era l’unica cosa che l’era rimasta per proteggersi.
Una pioggia leggera cominciò a danzare sulle strade di Seattle così come le mani di Callie cominciarono a danzare sul corpo di Arizona che la lasciava fare per ridarle sicurezza, per farle capire che era lei che poteva fare il primo passo, per dirle che lei non se ne sarebbe andata. La bocca di Callie cercò in modo affannato la pelle bianca di Arizona che risplendeva nel buio. Le labbra di Arizona cercarono quelle di Callie per suggellare l’amore di una notte in un ultimo bacio. In quel momento Callie si strinse nella maglia di Arizona. In quel momento Arizona strinse a sé Callie e pensò che non c’erano braccia più perfette per stringerla. Pensò che le sue braccia erano fatte apposta per Callie e Callie pensò che il suo corpo fosse fatto apposta per essere stretto al corpo nudo di Arizona avvolto fra le coperte.
“Arizona..”
“Callie, ti prego”
“Arizona..” Callie non aveva aggiunto altro.
“Io lo so che ci stiamo lasciando –che mi stai lasciando. Lo so che questo è il nostro addio –il nostro vero addio. Lo so che domani mattina me ne andrò contro voglia sperando solo di poter rivedere quegli occhi tristi illuminarsi per me, ancora una volta. Lo so che non ti vuoi affezionare. Tutte queste cose le sappiamo entrambe. Quindi, per favore, stai zitta. Non rovinare quest’attimo perfetto.” Fiumi di parole che restavano nella testa di Arizona, mentre stringeva a sé Callie più forte che poteva. Come se il solo contatto servisse per dirle tutto quello che pensava. Come se stringendola non l’avrebbe mai persa.
Callie scoppiò in un pianto silenzioso, scossa dai singulti, mentre Arizona appoggiava la sua testa sulla spalla di Callie e le sussurrava all’orecchio un flebile ssht, come si fa coi bambini per calmarli. Callie si girò, faccia a faccia con Arizona. La guardò un istante negli occhi e poi si fece piccola. Rannicchiandosi in posizione fetale, portò le braccia di Arizona lungo la sua vita, per farsi stringere ancora, mentre nascondeva la testa nell’incavo del suo collo. Restarono in silenzio a sentire l’odore dell’una mischiarsi con quello dell’altra, a sincronizzare i battiti del cuore. Si addormentarono solo all’alba quando un raggio di sole, flebile come il loro amore, sbucò dietro alle nuvole candide e penetrò dalla finestra accarezzando i loro corpi. Sul pavimento freddo il luccichio del ciondolo di Arizona risplendeva tra i loro vestiti.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Ultimo. ***


Un sospiro di vento aveva travolto Arizona che restava immobile davanti all’ingresso dell’aeroporto nel suo vestito blu a pois bianchi, coperto da un enorme borsone marrone che reggeva in mano. Il caldo afoso di agosto si stagliava sulla fronte di Arizona come fanno le onde contro gli scogli e il collo imperlato di sudore brillava toccato dalla luce del giorno. Sorrise di un sorriso luminoso quasi a fare a gara col sole, invidioso di tanta bellezza. Invidioso del suo bagliore.
Lo sguardo di Callie si perse sulla scollatura del vestito data dai bottoni slacciati e dal colletto bianco appoggiato sulle spalle di Arizona, poi sulla sua bocca e infine nei suoi occhi.
“A quanto pare non riusciamo proprio a dirci addio” aveva esordito Arizona con una delle sue solite frasi, come se quello fosse effettivamente un saluto. Callie si sentì completamente catturata da quella voce che la teneva sospesa, in aria, come fosse impigliata in una ragnatela. Dolcemente imprigionata, stordita, persa in quel suono.
“A quanto pare” era l’unica cosa che le era uscita. Aveva avuto il coraggio di risponderle in quel modo, come se fosse l’unico che conoscesse, come se non ce ne fosse un altro e poi si era ritirata nel suo silenzio. Si avvicinò ad Arizona lasciando dondolare avanti e indietro la mano che si apriva e si richiudeva su se stessa in un pugno. Sembrava presa da uno spasmo, sembrava che nemmeno il suo cervello fosse in grado di controllarla, di suggerirle la mossa esatta. La punta delle dita di Callie sfiorarono appena il braccio di Arizona. Callie restò a fissare la pelle di Arizona rabbrividire poi sorrise. Sorrise compiaciuta per aver fatto la cosa giusta, sorrise di tenerezza nel vedere Arizona così piccola stringere un borsone così grande. Le sembrò di rivivere un dejà-vu, le sembrò di rivivere una sera di marzo sotto le stelle a scambiarsi pezzi d’anima e ad affezionarsi. Callie sentì un vuoto crescerle dentro, un’enorme bolla di petrolio scoppiarle nello stomaco fino a renderla pesante –nei gesti, nei respiri. Per la prima volta sentì il bisogno di colmare quella mancanza che cresceva prepotente dentro di lei. Per la prima volta capì che solo Arizona poteva colmare quel vuoto. Quel contatto apparentemente casuale si trasformò in una morsa. Callie strinse le sue dita attorno al braccio di Arizona, inchiodando i suoi occhi in quelli dell’altra. Arizona istintivamente lasciò scorrere la sua mano tra i capelli di Callie e sulla sua guancia, lasciandosi andare ad un gesto dolce e rassicurante, mentre lo sguardo di Callie si dipingeva di incertezza e tremava sotto quello di Arizona. Callie, come sempre fragile. Arizona, come sempre a ricordarle che le sue braccia avrebbe potuto chiamarle casa, che i suoi occhi avrebbe potuto chiamarli cielo e le sue mani e la sua bocca lo scotch e la colla per rimettere insieme i pezzi e sanare le sue cicatrici, e sanare le sue mancanze -voragini di mancanze. In ogni caso, avrebbe potuto chiamare suo tutto ciò che apparteneva ad Arizona. Callie si abbandonò a quel gesto, strofinando con insistenza una sola volta la sua guancia contro la mano di Arizona.
“A cosa stai pensando, Calliope?” il tono dolce di Arizona la risvegliò come da un lungo sonno profondo. Anzi, il suo nome detto in modo così serio, detto ad alta voce, la riportò alla realtà. Lesse nella voce di Arizona una nota di serietà, come quando l’aveva chiamata col suo nome, come quando le aveva chiesto di fare l’amore.
“Voglio le tue parole, Arizona” e per la prima volta era Callie a pregare qualcuno di interrompere il silenzio. Lei, che aveva sempre vissuto in ombra con le sue parole mute, aveva deciso di rimettere l’audio al mondo, con la voce di Arizona. “Ti prego, ho bisogno delle tue parole”.
Arizona tentennò. Chiuse gli occhi e restò immobile ad ascoltare il mondo muoversi a rallentatore attorno a lei. Sentì l’annuncio del ritardo del suo volo per Parigi, sentì i passi veloci di un bambino che correva, la voce alta della madre che gli urlava dietro, ma sopra ogni cosa, sopra qualsiasi rumore assordante che le penetrava nel cervello e le assordava le orecchie e la mente, sentì il respiro affannato di Callie, il suo cuore battere, il sangue scorrerle nelle vene. Come quella volta, come nel suo posto felice. Inspirò lentamente, giusto per non far notare a Callie come cercasse la sua essenza e come l’avesse riconosciuta tra le altre mille che la colpivano in faccia, prepotenti, pronte a distogliere la sua attenzione dal profumo di Callie. L’odore di una brioche calda, l’odore di pelle bruciata, l’odore di mare che si portava appresso l’uomo che le era passato accanto, ma nessuno di questi le sembrò così forte da attrarla. Nessuno di questi le sembrò Callie. Solo quando ebbe la certezza di essere invasa da lei, scelse con cura le parole nella sua mente, poi, quando aprì nuovamente gli occhi incrociando lo sguardo di Callie, tutto le fu chiaro.
“Io ti conosco. Per quanto ti rifiuti di ammetterlo, per quanto tu non ci creda, io ti conosco e so che appena comincerò a parlare –intendo seriamente- tu avrai un’irrefrenabile voglia di scappare” Arizona fece una breve pausa cercando il coraggio che sembrava mancarle. Callie sentì i secondi passare lenti, come se le stessero logorando l’anima. “Io ti amo” e come previsto, a Callie prese il panico. Arizona glielo lesse ovunque –nel suo respiro, nei suoi occhi, nei suoi gesti frenetici e in quel modo che aveva nel cercare una via di fuga. “Non scappare, Callie!” ad Arizona quella frase uscì naturale, come un ruggito, mentre la sua mano teneva quella di Callie in una stretta che andò ad addolcirsi insieme al suo tono di voce, mentre ripeteva “Non scappare”.
“Lo so che non posso convincerti a parole, lo so che non credi nelle promesse e nelle persone, ma ti prego, prova a fidarti –a fidarti di me. Ci conosciamo da sempre, Callie. Mi conosci dalla prima volta che mi hai chiesto di restare in quel bar” Arizona lasciò andare il borsone e la mano di Callie per indicarsi. “Questa, sono io, Callie. Nulla di più, nulla di meno di quel che hai visto” e la guardò con gli occhi di una che chiede “Vedi me, ti prego. Vedimi dentro, vedi la mia anima, vedi la mia essenza, vedi quel che vuoi, ma ti prego, vedi me”.
“Non voglio riempirti di parole vuote, non voglio farti promesse che non posso mantenere. Non ti voglio sposare, non voglio dei figli, non voglio un per sempre. Io ti voglio ora, io ti voglio adesso. Ecco, questo si che posso promettertelo –l’adesso. Io voglio una notte da te e una da me, o addirittura intere settimane, come se vivessimo insieme –fisicamente insieme quando si sta bene, ognuno nel proprio appartamento per evitare le liti. Io voglio le tue mani tra i cassetti della mia scrivania –tra i cassetti che non devi toccare, ma che tocchi comunque, perché sei curiosa come una bambina. E voglio litigare con te, per cazzate, perché sei gelosa –non ha importanza. Voglio litigare con te per chiederti scusa e fare pace. Voglio lottare per te, adesso, domani, sempre –e per sempre intendo finché non smetterò di amarti. Io ora non mi aspetto un ti amo anch’io, una frase ad effetto, un qualche cliché. Spero solo tu decida di restare. La speranza è l’unica cosa che rimane”.
“Allora chiedimelo, Arizona” Callie sussurrò piano quelle parole.
Arizona abbassò la testa di lato, come se stesse per incassare un pugno nello stomaco e strizzò gli occhi lasciandoli aperti in una fessura per guardare le labbra di Callie rispondere al suo “Arrivi o te ne vai?”
“Arrivo” pausa “Tu?”
Arizona lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Immobile, restò ad immaginare il biglietto per Parigi nella tasca del suo borsone –un biglietto spiegazzato, mai timbrato. Immobile, restò a sentire l’annuncio del suo volo.
“Arrivo, Callie. Arrivo sempre quando si tratta di te” e Callie l’aveva attirata a sé e l’aveva baciata, sollevandola appena da terra. Come una fiaba, come un lieto fine, c’erano solo loro e le loro anime e le loro cellule che si mischiavano e il battito del loro cuore che diventava uno solo, come il canto delle rondini a primavera –un coro di uccelli che cantavano all’unisono. Sarebbe stato impossibile dividerle, sarebbe stato doloroso, come strappare l’una la pelle dell’altra –la pelle viva. Ora che si erano affezionate.
Si presero per mano. Non fu Callie, non fu Arizona a farlo –si presero per mano insieme e basta. Callie si caricò il borsone di Arizona su una spalla, Arizona la lasciò fare tirando indietro la testa e scoppiando a ridere senza alcun motivo apparente. Rideva innocente di una risata limpida. Rideva di gioia sotto lo sguardo estasiato di Callie che più la guardava e più pensava “È mia. È la mia felicità, è il mio lieto fine”. Forse fu proprio quello il momento esatto –quando Arizona scoppiò a ridere- in cui Callie capì che poteva fidarsi ancora di qualcuno –di Arizona.
“Per caso hai visto il mio ciondolo?” Arizona aveva interrotto i suoi pensieri. “Non lo trovo più dall’ultima volta che ci siamo viste”.
Callie scosse la testa lasciandosi andare ad un sorriso, contagiata dalla gioia di quegli occhi e di quella bocca che le parlavano e la cullavano ad ogni parola. Arizona la lasciò fare, la lasciò mentire, felice di sapere che Callie l’aveva sempre portata con sé. Felice di sapere che qualcosa di suo, ormai, apparteneva a Callie –qualcosa che non fosse la sua anima o la sua vita, s’intende.
Si lasciarono alle spalle l’aeroporto, Callie e Arizona –il ciondolo nascosto sotto la maglia, un biglietto mai timbrato per Parigi.

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