Zombie

di Cali F Jones
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** {Prologo ***
Capitolo 2: *** {Chapter 1: Child is slowly taken ~ ***
Capitolo 3: *** {Chapter 2: And the violence caused such silence ~ ***



Capitolo 1
*** {Prologo ***


{Prologo


I filosofi. Ci avete mai pensato? Seriamente, chi erano i filosofi? Io ho sempre avuto due teorie: o erano dei cialtroni ubriachi che, alla disperata ricerca di un po' di approvazione da parte degli avventori seriali del pub, sparavano stronzate assurde riguardo cose che mai neanche lontanamente avevano sfiorato l'anticamera del loro cervello oppure uomini che non scopavano da così tanto tempo da farsi tutte quelle seghe mentali mentre se ne stavano seduti sul cesso in attesa che qualcuno inventasse quella tanto simpatica ed utile cosina chiamata "Playboy". Io punto sempre alla seconda. Di sicuro, non erano le rock star della loro epoca. Dài, ragazzi, parliamone! Voi vedreste mai Nietzsche che canta God save the Queen con la stessa voce da gatto-incastrato-nei-cingoli-di-un-carroarmato di Johnny Rotten? Ora, non fraintendetemi, io adoro i Sex Pistols, ma voi quello, lo chiamate cantare? No no no, quello è semplicemente "urlare versi incomprensibili alla cazzo, ma con stile". Johnny Rotten ha stile, di questo bisogna dargliene atto. Cosa che i filosofi non avevano. Prendevano in mano il loro calamaio, guardavano fuori dalla finestra e si chiedevano: "Perché quell'albero esiste?". Come se a noi poveri mortali ce ne potesse fregare qualcosa. Sul serio, mi piacerebbe tornare indietro nel tempo, andare da quel coglione di Cartesio e prenderlo a calci in culo, lui e il suo cogito ergo sum. Che, tra l'altro, non ha senso! A questo mondo ce n'è di gente che non pensa eppure continua ad esistere. Certo, a parlarci insieme ti verrebbe l'impulso naturale di mollargli qualche calcio nelle gengive -e credetemi, che di gente così io ne ho conosciuta, una in particolare, ma di questo vi parlerò più avanti.
Comunque sia, devo smetterla di divagare, altrimenti questo prologo diventerà più lungo del resto della storia. Ah ah, ve lo immaginate? Non sarebbe buffo? Alquanto, non è vero? Eh? Sì sì, va bene, la smetto.
Allora, parlavamo dei filosofi. Sì, ecco, stavo pensando a quei filosofi che dicono che la nostra vita è già determinata dal fato e che noi non possiamo fare altro che "adattarci" a ciò che è stato scelto per noi. E poi ci sono i filosofi che, invece, dicono che la nostra vita è completamente nelle nostre mani, che solo noi siamo i fautori del nostro destino. Sinceramente, non mi sono mai posto il problema, ma ora che ci penso non saprei davvero quale posizione prendere.
Voglio dire, nella mia vita ho fatto delle scelte, molte delle quali radicali e che mi hanno condizionato profondamente. Quindi ho deciso io cosa fare, ho deciso io di essere quello che sono. Ma, se fossi nato in un posto diverso da Belfast, se fossi nato in una famiglia ricca, senza problemi finanziari, se fossi nato in un'epoca diversa, avrei fatto le stesse scelte? Vedete, non è vero che siamo completamente i fautori di noi stessi perché ci sono delle cose che noi non possiamo decidere e che, comunque, condizionano la nostra vita e le nostre decisioni.
E solo a distanza di anni riusciamo a riguardarci indietro e valutare se una scelta che abbiamo fatto è giusta o sbagliata. Come quella che io ho fatto con Alfred. Sono passati tanti anni da quando l'ho visto per l'ultima volta. Mi chiedo ancora se, in quel momento, io avessi fatto una scelta diversa, qualcosa sarebbe cambiato.
Ma ormai è tardi. Dieci anni sono passati. Credo sia ora di rispolverare i ricordi. I ricordi e le scelte.

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Capitolo 2
*** {Chapter 1: Child is slowly taken ~ ***


{Chapter 1: Child is slowly taken ~


Mi chiedo spesso in quale preciso momento la mia vita abbia cominciato ad andare a puttane. Pensandoci bene, non sono mai stato fortunato. Si potrebbe dire che la mia vita sia finita nel preciso istante in cui sono nato. O, forse, ancora prima, quando sono stato concepito. Quale donna sana di mente, sposata ad uno scaricatore di porto bevitore, giocatore d'azzardo e violento, con già tre figli a carico e povera in canna avrebbe fatto nascere un quarto figlio in una vecchia catapecchia nei Docks di Londra? Nessuna, direte voi. Ma mia madre non è mai stata sana di mente.
Non ricordo molto bene la mia infanzia; la mia strizzacervelli mi aveva spiegato, una volta, che è una cosa normale, soprattutto quando, come nel mio caso, si vive un lungo e continuato periodo di abusi, che il cervello cancelli dei ricordi, di solito i più dolorosi, in una sorta di meccanismo di autodifesa. Secondo me è una stronzata. Oppure il mio cervello era talmente pieno di brutti ricordi che è riuscito a cancellarne solo alcuni, mentre altri sono ancora lì. Ottimo. Così saprò con chi prendermela quelle volte che la notte mi sveglierò urlando a causa di un incubo. Dannato cervello. L'uomo non starebbe meglio senza quel fottuto stronzo, sempre lì a dirti cosa fare e cosa non fare? Sarebbe tutto incredibilmente più semplice, se l'uomo nascesse senza materia grigia. Tutti idioti. Oppure, ancora meglio, solo alcuni dovrebbero averlo! Così a loro spetterebbero le decisioni più importanti e gli altri sorriderebbero ed annuirebbero come comuni caproni. E...oh, aspettate un momento! Ah ah, che buffo! La realtà non è poi molto diversa, non è vero?
Allora, si vede che la mia famiglia non è mai stata destinata a prendere decisioni importanti. Nessuno di loro poteva vantare una spiccata intelligenza. Oh, beh, me ne farò una ragione.
Avevo tre fratelli maggiori: Darren, James e Gabriel. Mio padre era uno scaricatore di porto. Usciva alla mattina presto e tornava dopo mezzanotte, quando io e i miei fratelli eravamo già a letto. Mamma spesso ci dava un bicchiere di gin per farci addormentare, prima che papà rientrasse. E quei giorni che il gin era finito, ci raccomandava di tenere gli occhi chiusi e di continuare a fingere di dormire, anche se sentivamo dei rumori. E noi, i rumori, li sentivamo. Eccome se li sentivamo!
Papà tornava a casa, dava della "puttana" alla mamma per circa due o tre minuti, poi la picchiava. Ogni mattina, la vedevamo alzarsi con un nuovo livido. Mi faceva un po' pena, a dire il vero; almeno quando ero bambino. Ricordo che ero l'unico dei miei fratelli che si preoccupava ogni volta per lei, che le chiedeva cosa avesse fatto e a cui lei rispondeva con: "Non è niente, sono solo scivolata". All'epoca sapevo che non era vero, che era colpa di papà. Ma ero solo uno stupido ragazzino di sei anni, cosa potevo fare io? Già, cosa potevo fare?
Una notte, Darren -quel grandissimo pezzo di stronzo- venne a svegliarmi. "La mamma ti ha chiamato" mi disse "Presto! Potrebbe aver bisogno di te! Corri!". Ero solo uno stupido ragazzino di sei anni, l'ho già detto, no? Entrai in camera dei miei genitori. Mamma era accasciata a terra, si copriva il viso con le mani. Papà, in piedi, la sovrastava. Con una mano si teneva i pantaloni, con l'altra agitava per aria la cintura, sferzando feroci cinghiate contro mia madre. Si accorse che ero entrato. Ghignò e mi si avvicinò.
Dieci ore dopo mi svegliai in un letto d'ospedale. Naso rotto, polso sinistro rotto, insieme ad una costola destra. Il tutto corredato da un vistoso ematoma violaceo attorno all'occhio destro. Sentii mia madre che parlava al dottore.
"Signora, com'è successo?"
"È stato un incidente".
"Questi sono evidenti segni di violenza perpetrata da terzi. Il bambino subisce abusi in famiglia, magari da uno dei fratelli o dal padre?"
"No no, è stato...ehm...un suo compagno di scuola".
"Vuole sporgere denuncia?"
"No, non è necessario".
Da quando mio padre era diventato un compagno di scuola, non lo sapevo.
Rimasi in ospedale qualche giorno, giusto per degli accertamenti. Nessuno della mia famiglia venne mai a trovarmi. Solo una volta venne Darren. Mi minacciò di non raccontare a nessuno che era stato lui a mandarmi nella camera dei miei nel bel mezzo della notte, altrimenti mi avrebbe fatto ancora più male di quanto già non avesse fatto papà. Ero ancora uno stupido ragazzino di sei anni. E lui era ancora uno stronzo.
James e Gabriel non vennero mai a trovarmi. Loro due erano piuttosto strani, vivevano per conto loro, in un mondo a parte. Esistevano soltanto l'uno per l'altro. Spesso e volentieri mi dimenticavo di loro. E loro di me. Andavamo molto d'accordo, nel senso che non litigavamo mai. Era già tanto se ci rivolgevamo una parola al giorno. Gabriel non superò mai il vecchio vizio del cicchetto di gin prima di dormire. Iniziò a bere. Pesantemente. Aveva sedici anni quando morì per avvelenamento da alcool. Tre giorni dopo il suo funerale, James tentò il suicidio, impiccandosi. Ma Darren entrò giusto in tempo nella sua stanza per salvarlo. All'ospedale nessuno di noi lo andò mai a trovare.
I medici che lo avevano in cura, consci della morte di Gabriel e memori di tutte le altre volte che mi avevano visto coperto di lividi su una di quelle fredde sedie in metallo del pronto soccorso, chiamarono i servizi sociali. Mentre le due assistenti sociali parlavano con James in ospedale, venimmo a sapere, questi tentò nuovamente il suicidio, gettandosi dalla finestra. Unico danno: lesione alla spina dorsale a livello lombare. Sarebbe rimasto paraplegico per il resto della vita. Poi lo rinchiusero in un istituto per malati mentali. Nessuno di noi lo andò mai a trovare.
La mamma portò via me e Darren e si trasferì a Belfast. Trovò lavoro come donna delle pulizie. Anche Darren iniziò a lavorare, sebbene, credo, fosse entrato in un brutto giro, di quelli delle droghe, in cui entri, ma da cui non esci.
James, per quanto ne so, è ancora oggi rinchiuso in manicomio. Forse dovrei andare a trovarlo.
Di papà non ho più avuto notizie. Penso sia morto. Non lo so, non mi interessa.
Belfast era parecchio diversa da Londra. O, perlomeno, l'aria era diversa. Si sentivano i primi, importanti moti. I giovani volevano cambiare. Volevano una rivoluzione. L'Inghilterra era il nemico. Bisognava combattere. Combattere per la libertà, per l'indipendenza. Io avevo quindici anni quando arrivai in Irlanda del Nord.
Ne avevo diciannove quando commisi il più grave errore della mia vita.
Io ne avevo quindici, lui undici, quando lo incontrai.



*Angolo dell'autrice*
Grazie per aver letto questo primo capitolo, spero vi sia piaciuto, sebbene ancora non sia successo nulla di importante. Mi serviva un primo capitolo per presentare il personaggio di Arthur per poi spiegare le scelte che farà e il suo modo di comportarsi all'interno del resto della storia. I capitoli non saranno lunghissimi, come potete vedere, e non ho ancora idea di quanti ce ne saranno. Io andrò avanti ad aggiornare finché avrò ancora qualcosa da dire (;
Per il momento vi saluto, ricordatevi di recensire, sennò vi fagocito e diventerete tutt'uno con Madre Cali <3
Alla prossima
Cali ~

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Capitolo 3
*** {Chapter 2: And the violence caused such silence ~ ***


{Chapter 2: And the violence caused such silence ~


Chissà perché quella storia non cambiava mai.
Ero entrato in camera di Darren senza bussare. Lo avevo visto seduto sul letto, con una rivista sulle ginocchia, di quelle che, a suo tempo, gli comprava sempre papà, quelle con le donne nude, impegnato a masturbarsi. Un'orrenda visione, a dire il vero. Così Darren pensò bene di risolvere anche quel problema piazzandomi un pugno in un occhio. Mi spinse a terra e prese a riempirmi di calci nelle costole. Ormai avevo perso il conto di quante me ne aveva rotte nel corso degli anni. Mi mollò una pedata in bocca. Quando iniziai a sputare sangue si fermò. Mi afferrò per un braccio e mi sbattè fuori dalla sua stanza, ordinandomi, da oltre la porta già chiusa, di darmi una pulita.
Mamma era seduta in salotto. Televisione a tutto volume, una cicca fumante tra le dita e lo sguardo perso nel vuoto. Mi scorse arrivare dal corridoio. Mi squadrò, poi tornò a guardare la tv. Credo che, in qualche modo, lei stessa avesse troppa paura di Darren per dargli una strigliata.
Mi diressi verso la porta d'ingresso, quando sentii la sua voce assonnata: "Cosa ti sei fatto?"
"Niente".
"È stato Darren?"
"Sì".
"Cosa gli hai fatto?"
"Sono entrato in camera sua senza bussare".
Mamma aspirò la sigaretta, lo sguardo ancora sulla televisione dove trasmettevano una di quelle odiose televendite.
"Ora hai imparato la lezione?" riprese.
Non risposi. Annuii con un cenno del capo, indi presi la porta ed uscii. Vaffanculo. Era quello il modo di insegnarmi una lezione? Avevo solo quindici anni, ma sapevo riconoscere la differenza tra violenza ed educazione. Mia madre no, evidentemente.
A pensarci bene, all'epoca non odiai Darren. Non potevo odiarlo. D'altronde, a lui, cos'altro era stato insegnato se non la violenza fine a se stessa? Volevano che apprendessi anch'io un tale insegnamento. Ogni volta che mi picchiava, sentivo Darren intimarmi di reagire. "Reagisci! Combatti! Sii uomo!" urlava, sferrandomi calci e pugni. Poi mi diceva che ero una femminuccia, un finocchio, che non ero nemmeno in grado di sostenere una rissa e che, per questo, meritavo di essere picchiato. Perché il più forte vince sempre sul più debole. Era la regola del gioco. E io stavo in silenzio e le prendevo. Semplicemente perché era così che doveva andare. Lui era forte, io ero debole. Lui vinceva, io perdevo. Elementare, Watson!
Mi misi a sedere sul gradino all'ingresso, con la testa fra le mani. Osservai quello che, in teoria, si sarebbe potuto chiamare giardino: era un ammasso informe di sterpaglia e fango. Pioveva spesso, in Irlanda, così come in Inghilterra. Anche in quel momento, il cielo era grigio, coperto da pesanti nuvole. Non mi piaceva la pioggia, non mi è mai piaciuta, l'ho sempre detestata. Avrei voluto vivere in un luogo pieno di sole, di persone sorridenti, allegre. Magari con una bella famiglia, in una bella casa e...e...
Stava cominciando a piovere o quella che ora mi bagnava la guancia era una lacrima? Dannazione! Non dovevo piagere, se Darren mi avesse visto...
Ma, in un attimo, Darren mi passò di mente. Lui, quella gran troia di mia madre, mio padre, i miei altri fratelli, la mia vita di merda. Avevo così tante cose per piangere, eppure non avevo nulla. Con i palmi mi asciugai gli occhi. Ma le lacrime non cessavano nemmeno per un istante di cadere. Basta basta basta piangere! Darren sarebbe potuto uscire dal un momento all'altro. Dovevo trattenermi, basta! Merda...
Sentivo il petto gonfiarsi. Poi scoppiavo in singhiozzi. Ancora piangevo. Non riuscivo davvero a fermarmi, stavo esagerando. Ma...ma...perché doveva essere tutto così fottutamente difficile? Perché proprio io?
"Hey, tutto bene?"
Una voce squillante davanti a me mi ridestò. Alzai lo sguardo, incrociando il suo. Era un ragazzino; non riuscii ad inquadrare subito la sua età perché, se di viso sembrava più piccolo di me, in altezza mi superava alla grande. Aveva capelli biondi, con un ciuffo ribelle sparato per aria che sfidava arrogante la forza di gravità. I suoi occhi erano azzurrissimi, di quell'azzurro...beh, forse avrei detto azzurro cielo, se mai avessi visto il cielo di un colore che non fosse il grigio topo-di-fogna. Portava un paio di occhiali dalla montatura trasparente.
"Va tutto bene, amico? Oh..."
Mi osservò con un sorriso stampato sul volto, un sorriso che, a primo impatto avrei definito assolutamente idiota, ma che poi avrei invidiato. Poi il sorriso si tramutò in uno sguardo preoccupato. Che cosa...ah, già, l'occhio nero e il sangue dal naso. A quanto pare, Darren si era sbizzarrito con i cazzotti sul naso quella volta.
"Zia Ethel! Zia! Vieni!" chiamò a gran voce il ragazzo, voltandosi all'indietro verso una donna che solo in quel mentre notai. Era la mia vicina di casa, la signora Ethel Doyle, viveva in quella piccola villetta dall'altra parte della strada. Era una signora sulla sessantina, un po' bassa e tarchiata, ma di una gentilezza unica. Non mancava mai di salutarmi ogni volta che passavo di lì e, quando mi vedeva tornare a casa stanco da scuola, mi chiamava, regalandomi qualche manciata di biscotti fatti in casa.
La signora superò la staccionata e si avvicinò.
"Oh cielo, Arthur! Cosa hai fatto alla faccia?"
"Ah...no, no, questo...non è niente...non si preoccupi, signora Doyle".
"Oh no, non va per niente bene, vieni da me, che medichiamo queste brutte ferite".
E, senza darmi il tempo di obiettare, mi afferrò per un polso e mi trascinò oltre la strada, nella sua casa. Era una donna incredibilmente forte, dovevo ammetterlo.
La sua dimora era la tipica casetta inglese, arredata con ninnoli, soprammobili e centrini. A casa mia, quelle cose non venivano mai nemmeno nominate. Credo che mia madre neanche sapesse cosa fossero.
Nonostante le mie obiezioni neanche tanto convinte, la signora Doyle mi fece sedere sul suo divano. Era morbido e comodo, a differenza del mio.
Mentre ella andò a prendere disinfettante e garze, il ragazzo, che nel frattempo ci aveva seguiti, si sedette accanto a me.
"Come hai fatto a ridurti così?"
"Sono...ehm...sono caduto...giocando a calcio..." bofonchiai. Quella era la scusa che inventavo tutte le volte che qualcuno mi chiedeva cosa fosse successo. Non volevo mettere nei guai mia madre e tantomeno mio fratello. Anche perché sapevo che, se avessi parlato, le avrei prese di nuovo, magari da entrambi stavolta.
"Non ti credo!" se ne esordì, però, lui.
"E tu che cavolo ne sai?"
"Ti hanno picchiato?"
"Non sono affari tuoi!"
"Sì, ti hanno picchiato".
"Ti ho detto che non sono affari tuoi!"
Quel ragazzino! Lo conoscevo da circa...due minuti? E già aveva cominciato a starmi sui coglioni!
In quel mentre, la signora Doyle tornò e, con un batuffolo di cotone impregnato di un poco d'alcool, prese a tamponarmi gli ematomi che avevo sulla faccia.
"Oh, Arthur, come è successo?" domandò l'anziana signora.
Aprii la bocca per rispondere, ma qualcuno pensò bene di dare aria alla sua inutilmente.
"È stato picchiato".
"Alfred!"
Così quel coso irritante si chiamava Alfred. Buono a sapersi! Mi serviva un nome irritante da associare ad una faccia irritante. Mio padre si chiama Al. Non sarebbe stato per niente difficile odiarlo.
"Perdonalo, Arthur. Ogni tanto questo mascalzone dimentica le buone maniere" disse ancora la signora Doyle, afferrando il ragazzo per un orecchio. "Ed ora" continuò, rivolgendosi ad egli "vai a preparare del tè caldo".
In mezzo agli "ahi ahi" e i "mollami", Alfred borbottò un "ok", per poi, una volta rilasciato, fiondarsi in cucina.
"Al...Alfred vive con Lei?" domandai, sentendo la voce morirmi un poco a pronunciare quel nome. Erano pur sempre ricordi di merda che evocava, cosa potevo farci?
La signora Doyle abbassò la voce. Mi spiegò che quel ragazzo era suo nipote, veniva dagli Stati Uniti ed era recentemente rimasto orfano di entrambi i genitori. Lei e suo marito erano i suoi parenti più vicini, perciò era stato affidato a loro.
Uno yankee, quindi. Quando tornò, reggendo un vassoio con una teiera fumante e tre tazzine, lo osservai. Non aveva affatto l'aria di passarsela male. Sembrava uno di quei ragazzini che si vedono nei telefilm. Avete presente quelle sitcom in cui la protagonista è la tipica famiglia americana che si ritrova coinvolta in una serie di avventure tanto patetiche quanto improbabili? Ecco, lui sembrava essere uscito da uno di quei programmi ridicoli. Non riuscivo a guardarle, quelle sitcom. Ogni volta che vedevo uno di quegli irritanti bambocci brufolosi e lentigginosi che sorridevano, magari senza un dente, sentivo crescere in me un odio profondo. Un odio chiamato invidia. Li invidiavo. Terribilmente. Invidiavo il loro stile di vita, la loro famiglia, i loro capelli con la riga perfettamente al centro, i loro maglioncini a rombi da secchioni, le loro lentiggini che li rendevano così adorabili agli occhi di tutti gli ospiti. Invidiavo tutto di loro. Tutto ciò che loro avevano in quel mondo finto, di cartone, io non l'avevo nella realtà. Non potevo averlo e non potevo nemmeno sognarlo.
Ecco, Alfred mi fece questa prima pessima impressione. Non era lentigginoso, non aveva i capelli perfettamente pettinati e tantomeno indossava un maglioncino a rombi. Ma sorrideva. Diavolo, quanto sorrideva! Avrei voluto afferrarlo per il collo e urlargli: "Che cazzo sorridi? I tuoi genitori sono morti!" Volevo smontare tutto ciò che lo rendeva così maledettamente felice. Lo invidiavo. Lo invidiavo da morire. Invidiavo la sua felicità. Quella cosa di cui per troppo tempo ero stato privato.
Chi l'avrebbe mai detto che proprio quel ragazzino me ne avrebbe regalata tanta?

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