My faith walks on broken glass.

di Freccia_9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. o Tutto me ne ha bisogno. ***
Capitolo 2: *** Due. o Piuttosto mi faccio prete. ***
Capitolo 3: *** Tre, anzi Trè. o Poteva sempre saltare fuori. ***
Capitolo 4: *** Quattro. o Hai fatto bene a definirmi indie. ***
Capitolo 5: *** Cinque. o Non proprio un grande inizio. ***
Capitolo 6: *** Sei. o Franklin voleva farlo. ***
Capitolo 7: *** Sette. o Non più una macchia fastidiosa. ***
Capitolo 8: *** Otto. o Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo. ***
Capitolo 9: *** Nove. o Resti sempre il solito pollo. ***
Capitolo 10: *** Dieci. o Quel mio cambiava tutto. ***
Capitolo 11: *** Undici. o Buio. ***
Capitolo 12: *** Dodici. o Per quando tornerai. ***
Capitolo 13: *** PRIMA NOTA DELL'AUTORE ***
Capitolo 14: *** Tredici. o La paura. ***
Capitolo 15: *** Quattordici. o Qualcun'altro. ***
Capitolo 16: *** Quindici. o Come in uno di quei documentari sugli animali. ***
Capitolo 17: *** Sedici. o Ora più che mai. ***
Capitolo 18: *** Diciassette. o I hope you have the time of your life. ***
Capitolo 19: *** SECONDA NOTA DELL'AUTORE. ***
Capitolo 20: *** Diciotto. o Un amore strano tra due ragazzi strani. ***
Capitolo 21: *** Diciannove. o Aiuto. ***
Capitolo 22: *** Venti. o Ho preso coraggio. ***
Capitolo 23: *** Ventuno. o L'aria sembrava non entrare più. ***
Capitolo 24: *** TERZA NOTA DELL'AUTORE. ***
Capitolo 25: *** Ventidue. o Dentro la vita. ***



Capitolo 1
*** Uno. o Tutto me ne ha bisogno. ***


Se qualcuno vedesse da fuori la scena che sto per descrivervi, non ci noterebbe nulla di particolare. Semplicemente il tetto del più alto grattacielo di Chicago. Bianco, scolorito, la vernice disastrata qua e là, l'enorme antenna, l'altrettanto enorme comignolo. Niente di particolare.
Solo dopo alcune occhiate si farebbe caso a quella macchia nera sul cornicione, quasi insulsa, fastidiosa, come una mosca su un quadro perfetto. Eppure, quella macchia ha una vita propria, addirittura un nome. Franklin. Per tutti (pochi, veramente) Frank.
Eccolo lì, ora si riesce quasi ad inquadrarlo. Fisico quasi rachitico, cappotto nero, jeans scuri, scarpe alte in pelle. La faccia di chi non dorme decentemente da un secolo, i capelli giusti, ma spettinati come al solito. Esteticamente non è esattamente lo sconosciuto da cui ti faresti dare un passaggio, diciamo così. Ma non era quello il suo problema, ci si era abituato, alle occhiataccie di tutti, quasi gli piacevano. Infatti, Frank era un sedicenne atipico. Nato in una famiglia onesta, alla periferia di Chicago, fin da bambino aveva capito di essere diverso. Diverso da tutti quelli della sua generazione, diverso da una società omofoba e razzista come quella di oggi. Diverso da un mondo che ha perso tutti i valori. Per questo aveva sviluppato un carattere taciturno, silenzioso, molto introverso.
Ma torniamo alla nostra macchia sul tetto. Frank prese un bel respiro, e assorbì ancora un tiro della sua sigaretta, osservando le sue gambe penzolare nel vuoto. Si sentiva bene, solo con se stesso, con i suoi pensieri. Si lasciava trasportare dalla sua mente, come una busta di plastica viene trasportata dalle onde del Lago Michigan.
Mentre era ancora immerso nei suoi alquanto strani pensieri, contemplando grattacieli, cantieri di grattacieli e cartelloni pubblicitari, sentì sbattere la porta di accesso al tetto, dietro di sè. Aveva paura di sapere già chi avrebbe trovato se si fosse girato. E infatti si dimostrò quasi veggente, vedendo Nick sedersi accanto a lui. Nick era il suo migliore amico, e uno dei pochissimi al mondo con cui proprio non riusciva a non andare d'accordo. Erano complementari, come veri amici.
«Ciao, Frank.» Mormorò l'amico. Aveva sempre quel tono tenerissimo da cane sotto la pioggia.
«Altrettanto.» Oramai era automatica la risposta “scazzata”, e Nick lo sapeva, come suo solito, quindi, scoppiò a ridere.
«Simpatico al solito, eh?» I due si guardarono e sorrisero.
«Piuttosto, che ci fai qui, seduto sul ciglio del grattacielo più alto di questa fottuta città, a 350 metri da terra? Ho sempre detto che ti mancano delle rotelle, ma per farla finita bastava un palazzo più basso, da 100 metri, tipo, non sopravvivi mica!» Altra risata sincronizzata.
«Vivo, semplice.»
«Ah! E non potevi vivere un po' più in basso? Così non mi toccava sfidare le mie vertigini per dirti due parole.»
«Scusa, ma io mi sento vivo solo qui, a fumarmi una sigaretta più in alto di ogni altra merda di persona in questa città. Mi fa sentire libero.»
L'occhiata di Nick fu di quelle che gli rivolgeva di solito, di quelle che si riservano a chi non ci sta troppo col cervello.
«Comunque, quante volte devo ripetertelo che quella roba ti uccide i polmoni?» Ora aveva l'aria da papà premuroso.
«Lo so, ma il mio cervello ha bisogno di questo, altrimenti davvero a volte non saprei come tirare avanti. A pensarci bene, tutto me ne ha bisogno. Dalla testa ai piedi. I miei polmoni dureranno abbastanza.»
«Lo spero! Mi mancheresti, altrimenti.»
Era tenero, e in genere gli amici maschi non lo sono. Troppo, tenero. Frank lo trovava diabetico, per tutta quella dolcezza. Ma sotto sotto gli faceva piacere.
Passò una buona mezz'ora tra chiacchiere e risate, e la cosa tirò entrambi (più Nick che Frank, per la verità) su di morale.
Fino a quando, dopo aver chiuso con una battuta un discorso su come sarebbero stati i Muse senza Matthew Bellamy, Nick si alzò, e si girò verso la porta che riportava al palazzo.
«Io vado, aperitivo con Jessica!» fece, accompagnando la frase con un occhiolino da vero playboy. L'amico non disse nulla, si arrese al fatto che come al solito lui era il migliore con le ragazze.
«Senti, stasera ti va di venire da me? Ho noleggiato Into The Wild, e prenotato la tua pizza preferita! Poi i miei sono fuori.»
«No, amico, non ne ho voglia. Anche i miei sono fuori, quindi mi cucinerò qualcosa da me, ma come se avessi accettato.» rispose senza neanche girarsi, continuando a contemplare le sue scarpe appese nel vuoto.
«Merda, lasci da soli gli amici. Bella riconoscenza, grazie!» ancora il tono da cane bastonato.
«E va bene, alle nove sono da te.»
«Così ti voglio!»
Frank concesse all'amico un sorriso non troppo vero, e Nick scomparve saltellando nell'oscura porta. Lui era l'unico che rendeva Frank un po' più allegro.
Tuttavia, ora che era solo, il ragazzo si pentì amaramente di aver accettato. Avrebbe preferito di gran lunga stare a casa a distruggersi, come le altre sere. Lo avrebbe fatto stare bene.
Comunque, si impose di non pensarci, e realizzò solo in quel momento che si era fatto buio. Chicago era illuminata da una miriade di luci e neon. Un vestito lucido ed attraente per nascondere molta merda. Tirò fuori dal fodero la sua chitarra acustica. Ora era il momento di lasciarsi un po' andare. Come al solito aveva voglia di stare solo con se stesso, era malinconico, ma quelle sei corde vibranti tornarono a far viaggare la sua mente, fuori dalla realtà, a sognare.
Seduto penzoloni sul tetto di un grattacielo, di notte, con le luci a fargli compagnia, e soprattutto con la sua Kay. Così Frank trascorse l'ora più bella degli ultimi tempi, con la convinzione che ci sarebbe voluto molto tempo prima di risentirsi ancora così. Vivo.



Ciao a tutti! Io sono un ragazzo di 14 anni, e questa è la primissima cosa che scrivo, quindi vi prego di non essere troppo cattivi c.c
Comunque, grazie con tutto il cuore se mi state leggendo, mi farebbe immensamente piacere sapere che quello che scrivo interessa a qualche anima ** Ciao, a presto!

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Capitolo 2
*** Due. o Piuttosto mi faccio prete. ***


Ciao, lettori! Mi avete lasciato a bocca aperta, davvero! Oltre 60 visite e ben 6 recensioni in un solo giorno, siete magnifici **
Volevo solo premettere che questo è un capitolo un po' "morto" che ho pensato soprattutto per capire un po' meglio la vita di Frank. Lo troverete noioso e schifoso, quindi scusate in anticipo c.c
Però ho un sacco di idee in mente, se l'ispirazione mi assisterà presto andrò avanti, e spero che quello che verrà fuori vi piaccia. Grazie a tutti voi, a presto! :3




Luce. Tanta, troppa luce. Gli occhi semichiusi di Frank vennero trafitti dalla violenza del sole nascente. Si rigirò sul cuscino, tentando di fuggire dal fastidio. Ma ormai il sonno lo aveva abbandonato, così dopo alcuni minuti si decise ad alzarsi. Le gambe rifiutavano di reggere il suo peso, gli occhi non riuscivano a mettere a fuoco le immagini, il senso dell'equilibrio era in vacanza da un pezzo. Il ragazzo sorrise pensando che erano i soliti segni del “dopo-sbornia”. Per un attimo la sua mente si soffermò sul fatto che la serata con Nick non era stata poi così male, per quanto ricordava.
Arrivato a scuola, ancora barcollante, parcheggiò il motorino in un angolo, e si avviò verso l'enorme facciata bianca.
Era seduto in un banco alla fine della classe, vicino alla finestra, lontano da tutti. Ma non dai loro i sguardi. I soliti sguardi pieni di ribrezzo. “La gente ha paura di ciò che non capisce.” Aveva sentito questa frase da qualche parte, non ricordava bene dove.Scavò nella sua memoria per trovare la fonte di quella citazione, ma invano.
A interrompere la sua ricerca, infatti, fu il suo amico del cuore, sedutosi come sempre al suo fianco.
«Bella serata, ieri!» fu l'unica cosa che disse Nick. Frank rispose con un occhiolino, non troppo convinto, sperando che la cosa finisse lì: non era psicologicamente pronto a sostenere una conversazione da più di tre battute, a quell'ora.
Al solito non seguì affatto le lezioni, tanto avrebbe recuperato a casa, stando qualche minuto sui libri, quanto gli bastava a prendere un 6. Madre Natura lo aveva dotato di una memoria fotografica, per certe cose.
Le sue cinque ore le passò a viaggiare, lo sguardo perso fuori dalla finestra, oltre i grattacieli, oltre il mondo.
La campanella suonò prima del previsto, e Franklin ne fu solo soddisfatto. Aveva voglia di riposare, per farsi passare quel cerchio alla testa, così rimase nel cortile, in un angolo, giusto il tempo di una sigaretta, per poi riavviarsi verso casa. Una volta rientrato, dopo i saluti di cortesia, si chiuse la porta della sua camera alle spalle e si stese sul letto, sperando che nessuno entrasse a chiedergli com'era andata; sapendo che sarebbe stato così.
Al suo risveglio era pomeriggio pieno. I suoi erano già al lavoro, così, rinvigorito dal riposo, prese una birra dal frigo, e accese il suo vecchio stereo, caricando un cd dei Green Day. Rimase lì, sulla vecchia sedia con le rotelle blu, a sciogliersi tra i suoi pensieri.
Era ancora preso dalla sua mente, quando si accorse che il telefono stava suonando.
«Pronto?»
«Ehi, campione! Sono Nick. Senti, che ne dici di uscire da quel buco di camera, così, per provare? Io stasera esco con Jessica, vieni? Ha detto che porta anche una sua amica, magari è la volta buona per te!»
«Se è sullo stile di Jessica non preoccuparti, mi faccio prete piuttosto. Poi anche se fosse, ti credi di essere in una favola, in cui due si incontrano tramite un amico in comune e si amano alla follia?»
«Ma hai fatto una scuola per essere così simpatico? Vabbè, dai anche se non conoscerai oggi la donna della tua vita, vieni a farti due passi almeno!»
Frank pensò che era rimasto seduto praticamente tutto il giorno, e, lasciando da parte per una volta la voglia di solitudine, accettò, con il solo intento di sgranchirsi un po' le gambe e prendere una boccata d'aria.
«Grande! Passo da casa tua per le sette. A dopo, amico!»
Frank guardò l'orologio. Le cinque e mezza. Rimase ancora un po' nella sua stanza, dopo di che iniziò a prepararsi.
Doccia, maglia dei Guns, jeans, converse. Ed era pronto per una nuova uscita a vuoto.
Sempre la stessa merda di routine, che ricominciava ogni volta da capo, come il cane che si morde la coda, come il sole che risorge e tramonta ogni giorno. Il suo, di sole, doveva essersi eclissato già da troppo tempo. O semplicemente era nascosto da un cielo molto ma molto nuvoloso.

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Capitolo 3
*** Tre, anzi Trè. o Poteva sempre saltare fuori. ***


Erano le sette passate da un quarto d'ora quando Franklin vide una figura comparire all'orizzonte, stagliandosi sul viale dove si affacciava la piccola casa blu. Il tempismo di Nick non era mai stato invidiabile.
Una volta saliti in macchina, l'amico provò ad arraffare delle scuse, ma sapeva che l'altro sopportava abbastanza i suoi ritardi, quindi non insistette e si avviarono verso la piazza dove si erano dati appuntamento con le ragazze.
Durante il tragitto parlò solo Nick, e onestamente non è che l'amico lo stesse granchè a sentire. Si soffermava con la mente sui grattacieli che scorrevano ai loro fianchi, mentre si avvicinavano al centro. Non che Frank ritenesse l'altro ignorante o antipatico, tutt'altro, solo che non aveva voglia di conversare, ecco.
«L'amica di Jessica dev'essere davvero carina, da come ne parla!» disse Nick, senza dare molto peso alla frase, ma con un sorrisetto alquanto sgradevole sul volto.
«Amico, te l'ho già ripetuto. Non ho intenzione di trovarmi una ragazza, sai che sono un tipo solitario. E anche se fosse, non mi interesserebbero neanche lontanamente quelle come Jessica.» era così difficile da capire? La situazione iniziava a dargli sui nervi, e non poco.
«Oh, vacci piano. Okay, non sei interessato alle ragazze, capito. Non c'è mica bisogno di essere sempre scontroso.»
«Scusa, sai come sono. E poi sei tu che spari stronzate.» ora aveva un po' di rimorsi, ma si affrettò ad accatastarli dentro sé, in un angolino.
Arrivati al Millenium Park, trovarono solo Jessica ad aspettarli, ma disse subito che l'altra, Corinne, sarebbe arrivata a breve. Così i tre si sedettero al tavolino di un bar. Ovviamente lei si sedette sopra Nick, e i due si scambiarono effusioni decisamente troppo spinte, durante la conversazione a tre. Il "terzo incomodo", Frank, non si sentiva granchè, questa cosa lo metteva tremendamente a disagio, come un attore che non ricorda il testo di una commedia, in mezzo a due che invece hanno imparato tutto a memoria. Non riusciva a capire come mai l'amico non stava facendo nulla per metterlo a suo agio.
Finalmente arrivò Corinne. Frank la squadrò subito, come usava fare con le nuove conoscenze: una ragazza molto carina, come aveva detto Nick, ben vestita e ben truccata. Ma solo un numero tra la folla, un'altra delle mille troiette che credono di essere le uniche principesse della città, ma in realtà hanno abilità solo nel tirare su la (mini)gonna.
Un giudizio abbastanza crudo e atipico, ma passeggiando per il parco si accorse sempre di più che ci aveva fottutamente visto giusto. La compagnia, come tutte quelle frequentate dal ragazzo, era gradevole, ma nulla di più. Così dopo poco tempo Frank buttò una scusa abbastanza credibile, e si avviò dalla parte opposta rispetto agli amici, verso casa sua.
Ora si sentiva meglio, mentre percorreva all'inverso il breve tragitto dell'andata, da solo, a piedi.
Ad un tratto scoppiò a piovere. Cioè, così. D'un tratto, quella che fino a poche ore prima era il cielo una solare giornata di inizio autunno, si trasformò in una cappa scura, liberando violenti scrosci d'acqua. Frank lanciò un paio di imprecazioni: era solo in t-shirt, dato che quando era uscito il sole rendeva gradevole l'aria. Comunque, non si lamentò più di tanto e si tirò la maglia sopra la testa.
Dopo poco la pioggia aumentò di intensità. Era un vero temporale. Il ragazzo, imprecando ancora, sperò che la strada per casa si accorciasse all'improvviso.
Le gocce penetravano nella sua pelle come coltelli ghiacciati. I denti iniziarono a battere. Un'utilitaria blu accostò, proprio accanto a lui. «Che cazzo vuole questo, ora?!» fu il primo pensiero.
Poi si accorse che avrebbe dovuto dire “questa”.
«Ehi, ragazzo indie, serve un passaggio?»
Ad occhio era una ragazza della sua età. Lo colpì dentro. Aveva dei capelli rossicci fino alle spalle, degli occhi verdi talmente profondi che non se vedeva la fine, e un sorriso da madre premurosa. Frank aveva imparato a non fidarsi degli sconosciuti, ma faceva davvero troppo freddo. E poi mancava poco a casa, se le cose si fossero messe male poteva sempre saltare fuori e continuare a piedi.
«Magari, grazie.» Non capiva a fondo il senso di quel gesto, affatto. Ma si impose di non pensarci.
«Okay! Dai, salta su, che sta diluviando! Comunque piacere, Florence.» era tremendamente gentile.
«Altrettanto, Franklin.» Di solito si presentava sempre come Frank, ma non capiva perchè questa volta aveva detto il suo vero nome di battesimo. Non capiva più cosa stava succedendo dentro di sè. E la testa iniziava a girare. Lasciò stare quei pensieri e si infilò nella piccola auto.
Fu accolto dal calore dell'aria condizionata mentre chiudeva lo sportello dietro di sé.

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Capitolo 4
*** Quattro. o Hai fatto bene a definirmi indie. ***


Frank non sentiva più le dita. Prima il freddo e poi il caldo torpore dell'auto gli avevano tolto la sensibilità nelle zone periferiche.
«Allora, dove andiamo di bello?» Florence aveva una voce calda e rassicurante, ma con note infantili.
«Oh, giusto. Hampton Street, 409.»
«Ah, non è lontano! In cinque minuti saremo lì.» Sorrise. Frank provò ad abbozzare qualcosa di simile, ma probabilmente fece solo una faccia buffa. Perchè gli rimaneva sempre così difficile essere un minimo socievole?! Rimase in silenzio, maledicendosi.
«Ma sei un tipo chiacchierone, eh?» scherzò lei. Stavolta Frank non potè fare a meno di ridere. Stranamente era a suo agio.
«Mannò, è che sono sempre un po' chiuso, è proprio il mio carattere.»
«Oh, bene! Per l'informazione, odio i chiacchieroni, e sono taciturna anche io. Solo che boh, tu mi sei simpatico ad occhio.» Simpatico ad occhio. Frank si ripetè quella frase nella testa. A dire la verità si sentiva bene. Quella ragazza strana lo metteva a suo agio. Aveva un po' paura, non si era mai sentito così. La testa ricominciò a girare.
«Avanti, apriti. Dimmi qualcosa di te.» Il ragazzo fu preso dal panico. Era pessimo con le presentazioni. Probabilmente fece qualcosa che mostrò la sua insicurezza, perchè subito Florence aggiunse: «Dai, inzio io, così ti rimarrà più facile! Mi chiamo Florence, ho 16 anni. Sono nata a New York, figlia unica. Ma quando avevo 2 anni mio padre lasciò mia madre. Così lei si ritrovò sola con una bimba piccola, in una città troppo costosa. Trovò un gran bel lavoro a Chicago, allora sono qui. E, tranquillo, il mio mestiere non è caricare ragazzi sotto la pioggia, hahah! Studio, a dire il vero. Tutto qua. Tocca a te!» l'occhiata che rivolse a Frank, staccando per un attimo gli occhi dalla strada, era di quelle a cui non si può dire di no. Prese un respiro a pieni polmoni e cominciò a parlare. Gli occhi chiusi, i pugni serrati.
«Mi chiamo Franklin, Frank per gli amici, quei pochi che ho. Ho 16 anni anche io, sono nato qui, e vivo con i miei, anche se loro per lavoro sono quasi sempre fuori. Hai fatto bene a definirmi “indie”, in un certo senso. Provo ribrezzo per tutto ciò che è diventato il mondo oggi, per la cultura di merda che abbiamo sviluppato. E boh, fine, ho una vita noiosa, e una delle pochissime cose che mi aiutano ad andare avanti è la musica. E' la mia vita.» sperava solo di essere stato esauriente.
«Davvero?! Per me è uguale! Dimmi, gruppo preferito e, se suoni, che strumento.» fece una faccia buffa.
«Uhm, Green Day. Ma adoro tanti altri gruppi, soprattutto rock alternativo e punk! E suono la chitarra acustica ed elettrica, ma non sono granchè. E tu?»
«Idem, solo io amo i Blink-182. Ma anche io adoro l'alternative e il punk. Sei un grande!»
Risero entrambi di cuore. Appena dopo la ragazza accostò.
«Eccoci qua, fine della corsa! Grazie, sei davvero un tipo curioso, Frank! Anzi, Frankie. Frank ti dà un'aria seria, non mi piace.» rise ancora.
«Figurati, grazie a te.. Non so come sdebitarmi... Davvero, sei stata troppo gentile!»
«Magari potresti sdebitarti invitandomi da te a bere qualcosa per festeggiare il tuo “salvataggio”!»
«Ehm, vorrei, ma non posso. I miei stasera sono a casa, poi è tutto in disordine...» Non si era mai trovato in situazioni del genere.
«Tranquillo, afferrato!» disse Florence, con l'espressione di chi si accorge di aver esagerato. «Vabbè, allora... Ci si risente!»
«Oh» disse poi, tirando fuori un foglietto su cui scarabbocchiò qualcosa «questo è il mio numero, se mai ti dovessi ritrovare in t-shirt durante un altro temporale. Ti ho detto che mi sei simpatico!»
«Oh, okay! Va bene, allora grazie e... Ci sentiamo!» disse in fretta lui scendendo dalla macchina. L'ultima immagine che vide dal finestrino fu quella di Florence che salutava con la mano, poi solo l'auto rimpicciolirsi verso l'orizzonte.
Franklin si avviò rapidamente verso casa. Aveva smesso di piovere. Ma il suo umore non era mai stato così tempestoso. Aveva trovato una fottuta persona con cui andava d'accordo, con cui stava bene, e l'aveva fatta fuggire. Era confuso, aveva fatto quello che non voleva fare. Perchè?
Rientrò in casa senza neanche salutare, si chiuse in camera e si infilò a letto vestito. I rimorsi lo attanagliarono per quasi due ore. Pensava che  sarebbe rimasto sempre solo, che aveva un carattere di merda.
Ma ad un tratto qualcosa folgorò la sua mente: nulla era scritto, poteva rimediare ai suoi errori. Doveva per forza provarci.
Di scatto, rinvigorito, si alzò e prese il telefono. Tirò fuori dalla tasca il foglietto stropicciato, e digitò il numero in “nuovo messsaggio”.
< Hei Flo! Sono Frank. Senti, scusa per stasera, sono stato un idiota a non farti entrare. Ma voglio recuperare. Che ne diresti di fare un giro al parco, domani pomeriggio? Tienimi informato, grazie ancora del passaggio! >
Rilesse tutto, e pensò che andava bene così. Invio. Ansia.
Furono i minuti più lunghi di sempre. Lo stomaco di Franklin era diventato un macigno. Poi finalmente, dopo quella che sembrava un'eternità, il messaggio di risposta.
< Chi si risente! Per stasera non preoccuparti, non me la sono presa. Quindi ci vengo volentieri al parco con te, domani. Ci vediamo lì alle 4, ragazzo indie! >
La mano tremante poggiò il cellulare sul comodino. Frank si coricò. Il sonno lo trovò, stranamente, con una cosa che assomigliava ad un sorriso stampata sul volto.

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Capitolo 5
*** Cinque. o Non proprio un grande inizio. ***


Ciao carissimi lettori! Siete fantastici, davvero! Il primo capitolo è a cento visite, ora mi commuovo :') Volevo solo dire che questo è un'altro capitolo "di transizione" ma che al più presto arriverà il prossimo, quello vero. Grazie ancora a tutti, vi amo, a presto :3

Appena sveglio, Frank corse subito alla finestra, e scansò la tenda. Buio. Doveva essersi svegliato nel bel mezzo della notte. Prese il vecchio orologio dal comodino, e nelle tenebre tentò di intravedere l'ora. Dopo alcuni sforzi, lesse: 6 a.m. Non era notte fonda, semplicemente era riuscito nell'impresa di anticipare la sveglia, e il sole era un po' pigro, quel giorno.
Si stese a letto, pur sapendo benissimo che non avrebbe ripreso minimamente la via del sonno. Era agitatissimo, e confuso. Come mai si sentiva così? Poi si diede dello stupido. Il collegamnto era ovvio. Florence.
Quel giorno, se tutto fosse andato bene, avrebbe avuto il suo primo appuntamento vero. Si maledì ancora. «E' solo uno stupido appuntamento, con una ragazza che conosci da poche ore.» continuava a ripetersi.
Eppure, non capiva. Non aveva avuto il classico “colpo di fulmine”, come in tutti quei film sdolcinati a morte. Allora perchè ora si sentiva vuoto? Perchè aveva l'ansia che arrivasse il pomeriggio? Perchè le aveva scritto quel messaggio, la sera prima? L'emicrania riprese il suo posto, ancora.
Stava giochicchiando coi posters, quando i primi raggi di sole sfondarono la piccola finestra della sua stanza. Stavolta i suoi occhi li accolsero senza problemi.
Uscito dalla doccia, inizio a rovistare dentro l'armadio. Dato che era in anticipo poteva provare a scegliere i vestiti per il pomeriggio.
Ad un tratto, si bloccò. La maglia rossa dei Clash in mano, ferma a mezz'aria, in attesa del suo destino.
Un pensiero fece irruzione nella mente di Frank. Quando mai si era “preparato” i vestiti per uscire? Florence glielo aveva detto! “Ragazzo indie”. Indie vuol dire diverso. Lui era diverso. Gli bastava essere sé stesso, e sarebbe andata come doveva. E il suo “sè stesso” gli stava dicendo di prendere qualcosa all'ultimo dall'armadio, come al solito.
A scuola Franklin passò una mattinata da ricordare tre le migliori. Era particolarmente di buon umore, e rischiò di collassare dalle risate, assieme a Nick. Gli voleva davvero bene, alla fine, a quell'idiota lì.
Una volta usciti da scuola si fecero una passeggiata insieme, urlando contro gente a caso, suonando citofoni ancora più a caso. Insomma, fecero i bambini, ma si divertirono un mondo a farlo.
Tornò a casa verso le due. Si cucinò qualcosa, e si mise a suonare. I suoi erano fuori, al solito. In un attimo passò oltre un'ora.
Era il momento. Rinfoderò Blair, la sua chitarra elettrica, una Fender Telecaster, e si avviò verso il bagno. Non voleva farsi bello, semplicemente rendersi presentabile, e magari più “accogliente”.
Si vestì. (Maglietta stupida, jeans stretti, converse gialle, al solito.)
Si accorse che stava tremando. Si impose di calmarsi, non era un bambino.
Uscì, e mise in moto il motorino, a fatica. La strada gli sembrò infinita, migliaia di chilometri di asfalto. Non finivano mai. Accellerò. Le immagini dei grattacieli ai suoi fianchi sfocarono ancora di più. Chicago scorreva sotto quel vecchio motorino, con sopra un omino, e tutte le sue aspettative. E tutte le sue ansie.
Finalmente intravide le grandi querce del parco. Parcheggiò nel primo spazio libero che trovò. Raggiunse il bar accordato.
Tutti i tavolini erano liberi. Tutti tranne uno, e in questo tavolino sedeva una sola persona. I capelli rossi legati dietro la testa, un velo di trucco, la borsa poggiata accanto. Gli occhi verdi rivolti al cielo pulito.
Le chiavi del motorino caddero dalla mano destra tremante di Frank. Non proprio un grande inizio.

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Capitolo 6
*** Sei. o Franklin voleva farlo. ***


Frank si chinò immediatamente a raccogliere la chiave, sperando di non essere stato notato, nonostante il rumore. I suoi movimenti erano scattosi e sconnessi. Ma Florence si era già voltata nella sua direzione.
«Ehi, Frankie! Come stai?» Sorrise alzandosi, e lo baciò sulla guancia. Sapeva di essere diventato terribilmente rosso, le orecchie erano in combustione.
«Bene, tu?» Si sforzò di far uscire le parole nel minor tempo possibile.
«Anche! Allora, ragazzo indie (oramai mi sono affezionata a questo nome) facciamo una passeggiata o ci sediamo a prendere qualcosa?»
«Stiamo qui, tranquilli. Al limite poi facciamo una passeggiata! Che ne dici?»
«Dico che è una grande idea!» Risero. La sua risata aveva un suono melodioso, come una colonna sonora azzeccatissima per un film. Dopo alcuni secondi Frank riuscì a staccare lo sguardo dalle sue labbra sottili, colorate da un rossetto rosso vivace ma non troppo. Si diede dello stupido ancora, e si sedette.
Lei ordinò una Cola al limone, lui una cedrata. Ne era dipendente, assolutamente. Peggio del tabacco.
Parlarono di musica, soprattutto. Avevano gli occhi del bimbo che trova il compagno perfetto di giochi. L'uno verso l'altra.
«Allora, mi hai detto che suoni la chitarra, giusto?»
«Ebbene si! Almeno, ci provo. E tu? Tu non mi hai detto se sai suonare qualche strumento.» Frank fece una faccia buffa, così, senza motivo. In realtà chiese a sè stesso se era uno stupido tentativo di rivedere ancora quel sorriso.
Florence scoppiò a ridere, tirandosi indietro con la mano l'unico ciuffo libero dallo chignon. Qualcosa esplose nel quartiere del cuore di Franklin.
«Ossì, ti sorprenderò! Suono il basso e canto in una band!»
«Davvero? Ma come fai?! Io faccio fatica a suonare la chitarra e abbozzare qualche verso insieme, e tu addirittura lo fai col basso? Sei brava allora.»
Provò un sorriso. Non aveva mai parlato così con nessuno. Nessuno. Il cuore dava l'impressione di voler sfondare le costole.
«Ahahahahah, no, solo che facciamo soprattutto pezzi originali, e io scrivo la parte di basso. Quindi me la creo sempre abbastanza facile, per concentrarmi sul canto!» Rise ancora. «Grazie, comunque. Sei carino. E i ragazzi in genere con me non lo sono..» Per la prima volta Florence abbassò lo sguardo, concentrandolo sulle sue cosce, e rese ancora più sottile il sorriso.
«Beh, si vede che hai mai incontrato un vero uomo!» Scherzò Frank. Si sorprese di sé stesso. Da quando aveva imparato a rompere il ghiaccio?
Lei rise, di gusto, ancora.
L'ora successiva passò su questa falsa riga, ridendo e prendendosi in giro. I loro cuori battevano a tempo, l'uno con l'altro.
Come quando all'asilo un bambino conosce una bambina. Lì i sentimenti sono puri, sono fatti di risate e di nascondini.
I loro cuori erano rimasti fermi a quell'età. Fragili e ingenui, ma complementari. Ognuno, appena trova l'altro, diventa forte e stabile. Come idrogeno e ossigeno che si legano, diventando acqua.
«Mah, io direi che possiamo avviarci nel parco.» esordì Florence. Davanti a loro quattro bicchieri vuoti, che a ridere viene anche sete.
«Concordo!»
Raccolsero le loro cose e si incamminarono nel verde, per il sentiero che entrava nel cuore del Millenium.
Erano passate alcune decine di minuti, ed erano nel bel mezzo del discorso su chi sia meglio tra Slash e Angus Young, quando Frank sentì qualcosa attaccarsi al suo braccio sinistro. Si girò di scatto, istintivamente.
Era una delle scene più dolci che avesse mai visto. Florence lo aveva preso sotto braccio, ed ora si stringeva a lui. La chioma di capelli rossi gli copriva una parte del braccio ossuto. Il suo cuore schizzò come non mai. I brividi esplosero partendo dal centro della schiena.
Con aria decisa, tolse il braccio da quelle della ragazza, e le cinse le spalle, stringendola al suo petto.
Si guardarono negli occhi. Quelli di Florence erano due gemme infinite.
Risero. Una risata innocente, che conteneva tutti i discorsi del mondo. E ognuno capì quelli dell'altro, fino alla fine.
Si raccontarono aneddoti per il resto della serata. Si spogliarono di ogni scudo, ognuno nelle mani dell'altro.
Era ormai buio quando si ritrovarono al punto di partenza. Erano nella stessa identica posizione di prima. Abbracciati. Si erano dati tutti i permessi senza dire una parola.
«E per oggi siamo al capolinea..» provò ad esordire il ragazzo.
«Mi lasci così?» Florence aveva la voce di una bimba a cui sono state tolte le caramelle.
«Ma no, certo. Volevo ringraziarti per questa giornata stupenda.. E dirti che non sono mai stato così bene in vita mia.. E che tu sei..»
«Guarda che c'è un modo per dirlo senza parole.» lo fermò lei. Il suo sguardo non ammetteva esitazioni.
Frank poteva farlo. Frank doveva farlo. Franklin voleva farlo.
Poggiò la sua mano sul collo della ragazza, scostando i capelli. E la baciò.
Non fu un bacio da film. Fu un bacio diverso da qualsiasi altro, come diversi erano loro. Fu un bacio passionale ma non volgare, romantico ma non diabetico. Fu perfetto, come ogni primo bacio dovrebbe essere.
Quando si staccò, Frank sentì chiaramente una parte di qualcosa dentro sé che rimaneva sotto quelle labbra. Il cuore ora sembrava fermo.
Rimasero bloccati a fissarsi.
Poi ad un tratto risero, assieme. Un'ultima volta.
Si allontanarono con l'aria di chi sa che l'intervallo stavolta sarebbe durato poco, perchè il film era iniziato, per davvero, solo ora.

 

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Capitolo 7
*** Sette. o Non più una macchia fastidiosa. ***


Frank si fermò sul vialetto di casa, la mano sul pomello della porta verde. Fece un passo indietro. Non aveva mai trovato così bella e accogliente casa sua. Entrò, e trovando la madre in cucina la salutò, dandole un bacio sulla guancia. Lei rimase a bocca aperta, ferma con ancora in mano la padella. L'ultima volta che ,a memoria, il figlio le aveva rivolto un gesto d'affetto aveva ancora i denti da latte.
Il ragazzo stava esplodendo di felicità, dal profondo del cuore. Aveva voglia di saltare suonare urlare cantare ballare (okay, magari ballare no).
Comunque, era il giorno più felice dei suoi sedici anni.
Si stese a letto cercando di calmare l'adrenalina. Aveva ancora il sapore di Florence nelle labbra, poteva sentirlo passandoci la lingua. Era un sapore strano, di caffè mischiato a fragole.
I suoi capelli rossi gli ripassavano davanti agli occhi, come lampi, mentre fissava il soffitto vuoto.
Cenò con calma, ancora immerso nei suoi pensieri. Il resto della serata trascorse velocemente, mentre parlava con Florence, via messaggi. Si sentiva così stupido, col vecchio cellulare in mano, ad aspettare. Però era quasi divertente, e poi quella rossa fuori di testa era la persona con cui aveva più spunti di discussione in assoluto.
Poi, era quasi l'una, quando un messaggio, uno stupido SMS, sconvolse di nuovo nel profondo Franklin.
< Comunque, ti avevo parlato del mio gruppo? Ecco, domani sera siamo in concerto al Kerplunk, quel locale in fondo alla dodicesima.. Se vuoi venire hai un invito mio personale, per quello che vale! E poi, così, mi farebbe piacere vedere una faccia conosciuta..e molto carina, per di più! Hahahaha, dai, fammi sapere, okay? >
< Sei carinissima, grazie mille. Ci vengo volentierissimo, non vedo l'ora di sentirti! Grazie davvero.. >
< Grazie a te! Allora ci si vede domani, lo spettacolo inizia alle 10, ma tu vieni un po' prima, e dì agli addetti che sei il mio ragazzo: ti faranno entrare nel retropalco. >
< Okay, lo farò. Grazie, sei una persona speciale, davvero! >
< Tu di più, ragazzo indie. >
Quelle parole dolci accompagnarono Frank nel sonno.
La mattinata successiva volò, tra viaggi mentali e stronzate varie, la scuola quasi passò inosservata.
Erano le tre, e Frank stava cercando di battere il suo record di velocità col cubo di Rubik, quando il suo telefono squillò. “Florence” fu il primo pensiero del ragazzo. Ma si sbagliava. La voce squillante di Nick si fece sentire dall'altra parte della cornetta.
«Amico, come va? Senti, oggi andiamo a prenderci qualcosa per festeggiare il tuo fidanzamento (era ora, dico io) e non voglio repliche, è un ordine!»
«Fidanzamento è un parolone, io direi più...» fu l'unica cosa che riuscì a dire Frank.
«Sta' zitto, idiota! Alle quattro e mezza al Black Rose, offre il tuo amico Nick.»
«Grazie mille, fratello, davvero.»
«Vedi solo di non darmi buca.»
Quel disgraziato riusciva sempre a farlo ridere. Lo adorava.
Nick era particolarmente in forma, quel giorno. Fatto sta che si divertirono un mondo, come veri amici. Una specie di “rito”, così lo interpretò Frank.
Era sera inoltrata quando la macchina del playboy accostò al 411 di Hampton Street.
«Idiota, mi avrai riportato a casa un milione di volte e non ancora impari che casa mia è quell'altra!» Risero assieme, di cuore, e Nick poggiò la testa sul volante, facendo pochi metri per arrivare nella giusta posizione.
«Ecco qua, perfettino.» rise ancora.
Frank si bloccò a metà tra l'auto e il marciapiede, mentre scendeva.
«Ehi, stasera Florence suona al Kerplunk, hai presente? E dato che mi ha invitato, pensavo che potreste venire anche tu e Jessica. Che ne dici?»
«Dico che ti amo! (Ma non farlo sapere alla tua donna.)» Il ragazzo dovette reggersi alla portiera per non cadere dalle risate. Come faceva quell'uomo ad essere così idiota? «No, seriamente, ci saremo volentieri. Mi sento che sarà quasi divertente!» concluse Nick srizzando l'occhio.
«Allora a stasera, lì alle nove e mezza!» fu il congedo di Frank.
Si preparò con calma, quella sera, facendo di tutto per fermare il tremore alle mani.
Florence lo aveva invitato al suo concerto. Qualcuno lo aveva invitato per fare qualcosa. E che "qualcuno"! Era diventato importante per una ragazza.
Forse, per una volta, era unico. Non più una macchia fastidiosa.
Quando ritenne di essere abbastanza sé stesso, prese le chiavi di casa e uscì.
L'amico era ad aspettarlo in macchina, alla fine del vialetto. Tanto per cambiare discuteva con Jessica. Frank si sedette dietro e li lasciò fare. Ci era abituato.
Arrivati al locale, i conflitti erano placati. Il Kerplunk era un piccolo pub sulla dodicesima strada, famoso per le sue esibizioni live punk. Quindi, punto di ritrovo per gli amanti del genere.
Entrarono, e i tre furono investiti dal classico odore di erba mischiata a incenso.
«Erba, ossigeno per i miei polmoni!» esclamò con fare poetico Nick. Eh si, perchè secondo lui le sigarette uccidono, ma fumare erba è la cosa più normale del mondo. Frank non vedeva di buon grado questa idea dell'amico. Ma per quella sera poteva sopportarlo.
Si avvicinarono al palco di pochi metri quadrati, e sfilarono sul retro. Uno scimmione della security proteggeva i piccoli camerini.
«Sono Frank Turner, il ragazzo di Florence Williams, dovrei andare da lei, credo sia lì dentro. E loro sono con me.» Un fortissimo brivido percorse il suo corpo mentre pronunciava la prima frase, e lasciò gli strascichi per alcuni secondi.
«Prego, per di qua.» Furono condotti ad una piccola porta bianca in legno. La guardia era già scomparsa.
Frank premette sulla maniglia, entrando nello stanzino.
Una chioma di capelli rossi si mosse, mostrando un volto chiaro come il latte e due occhi verdi da togliere il fiato. Il cuore del ragazzo schizzò a mille.

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Capitolo 8
*** Otto. o Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo. ***


I due sguardi si incrociarono quasi sistematicamente. Era il loro modo di comunicare, senza parole. «Tesoro!» esclamò Florence, scattando verso Frank. Le loro labbra si toccarono e si unirono. Il sapore di fragola era più forte, questa volta. Il ragazzo lo adorava.
Quando le bocche tornarono a respirare i due rimasero a guardarsi, ancora abbracciati. Frank si sentì morire, vedendo le fossette create sulle guance di Florence dal sorriso a mille denti. Una frase gli balzò in mente. La amava..? Tentò invano di rispondersi di no. La amava, lo sapeva.
«Ne abbiamo ancora per molto? Sapete com'è, domattina avrei scuola.» fu il laconico commento di Nick. Quel tipo aveva un talento per rovinare le scenette romantiche, in parte era una fortuna.
«E lui è il mio migliore amico, Nick!» disse Frank tra le risate. Florence si fece avanti, sciogliendo l'abbraccio.
«Florence, piacere di conoscerti.» fece con aria allegra.
«Piacere tutto mio, madame!» rispose l'altro, imitando un buffo inchino stile “bacia-mano”, che suscitò le risate dell'amico, ma le occhiatacce di Jessica.
Anche Florence scoppiò a ridere, poi si presentò all'altra ragazza.
I quattro conversarono, seduti per terra nel piccolo camerino, per un buon quarto d'ora.
Gli ultimi accordi dell'ultimo brano della band di supporto si stavano spegnendo tra dei cauti applausi. Florence cercava di ritoccare la matita, ma le mani tremanti le negavano ogni possibilità. Doveva lasciarsi stare. Nel frattempo Frank era seduto dietro di lei, con lo sguardo fisso sul riflesso di quegli occhioni verdi, nello specchio.
«Perchè tremi?» chiese di getto, senza pensarci. La ragazza arrossì e abbassò lo sguardo in silenzio. Maledicendosi Frank si alzò.
Le braccia di Florence erano gelide e tremanti. Bianche come il latte, indebolite dall'emozione e da chissà quali altri agenti. Frank le poggiò sul suo petto, stringendo a sé quel piccolo fiore. Voleva stringerla forte tanto da scaldarla, da farle passare ogni tremore, ogni paura. Voleva che sapesse che con lui era al sicuro, sempre.
«Ho paura, è uno dei nostri primi veri concerti, ho paura.» sussurrò Florence. Lei voleva sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene. Voleva qualcuno a sostituire l'orsacchiotto con cui dormiva da bimba, qualcuno che la proteggesse incondizionatamente. Frank poggiò le sue labbra sulla fronte pallida della ragazza, senza proferire parola. Forse l'aveva trovato, quel qualcuno.
E' come quando costruisci un castello di carte. Prese singolarmente non stanno in equilibrio, ma poggiate una all'altra nel modo giusto diventano stabili. Così loro. Erano due pezzi di un puzzle che combaciano alla perfezione.
Si sentì bussare alla porta.
«Andiamo Flo, tocca a noi!» Era una voce maschile molto rassicurante. «Forza, principessa, facciamo vedere chi siamo!» Questa era la voce di una ragazza, piena di energia.
«Devo scappare, scusa..»
«Non fa nulla, abbiamo tutta la sera. Divertiti e facci sentire un po' di buona musica!» fu tutto quello che riuscì a dire Frank.
Probabilmente era abbastanza, perchè si concesse un'altro assaggio di quel rossetto alla fragola, prima che la chioma fiammante scomparve dietro la porta bianca.
Poco dopo, anche Frank uscì da quel varco, dirigendosi di fronte al palco.
Il concerto durò due ore scarse. Fu fantastico, il ragazzo rimase allibito dalla bravura di quella band. E poi Florence aveva una voce che penetrava pelle, carne, ossa e qualsiasicosa, per andare a schiantarsi al cuore.
Ma soprattutto, quella sembrava essere un'altra ragazza. Ora capiva. Lei era sempre allegra e solare, ma su quel palco aveva un aspetto rabbioso. Non brutto, assolutamente, ma come facesse lentamente esplodere una bomba da dentro sé stessa. Si sfogava così, e gli riusciva molto bene.
Raramente si poteva sentire buona musica live in quel periodo, a Chicago. Ma quella volta fu una delle poche.
Insomma, spaziando tra Green Day, Guns, e Muse, lo spettacolo fu davvero piacevole.
Finita l'ultima canzone, Supermassive Black Hole (molto riuscita), Nick disse a Frank qualcosa su un suo amico che era in quel locale e che doveva dargli delle “cose”, e scomparì in un angolo buio.
Quindi il ragazzo, rimasto solo, raggiunse nei camerini la sua fidanzata.
«Wow, sei stata grandiosa, piccola! Farei meglio a chiamarti “giovane star”, forse!» Risero, e delle macchie rosse esplosero colorando le guance di Florence.
«Grazie, sei sempre così carino. Davvero, è molto importante per me sapere che qualcuno mi apprezza.» aveva un'espressione a metà tra l'imbarazzato e il lusingato.
«Sei fantastica, sfido chiunque a dire il contrario!» fu l'esclamazione con cui Frank si guadagnò un grande sorriso e un bacio, stavolta si, intenso e passionale.
Aveva la sensazione di potersi sciogliere tra le braccia di quella ragazza, che ora le accarezzava il volto. Era un angelo, tutto quello che non aveva mai avuto e che aveva sempre desiderato. Se era un sogno voleva non svegliarsi mai, rimanere per sempre in quella favola.
«Dai, che ne dici se andiamo a casa? Stavolta puoi salire da me, promesso.» Florence accettò ridendo.
Ma appena usciti dal retropalco capirono che qualcosa non andava. C'era gente che correva dappertutto raccogliendo la propria roba nel minor tempo possibile. Sedie che cadevano, tavolini rovesciati, bicchieri ancora pieni abbandonati sul bancone.
«Cazzo, è una retata! La polizia ogni tanto la fa perchè sa che qui dentro gira della droga. Mica tu ne hai con te?»
«No, piccola, tranquilla.»
Frank alzò la testa, e vide la cosa che non avrebbe mai voluto vedere. Istintivamente, inziò a correre più veloce possibile, travolgendo ogni cosa, ogni persona. Il locale non era grande, doveva arrivarci, doveva avvisarlo.
Quando giunse da Nick, questo aveva già delle manette ai polsi, la marijuana ancora sul tavolo.
Le gambe gli diventarono di piombo. Impallidì. Non credeva ai suoi occhi, lo stavano portando via e lui non era stato capace di fare nulla. Stavano portando via suo fratello e lui era lì, fermo, con la bocca spalancata e gli occhi umidi sbarrati. Fino all'ultimo coltivò la speranza che si trattasse di un errore, che il poliziotto lasciasse andare il suo amico, che il suo cuore ricominciasse a battere. Invece no.
«Scusa, mi dispiace. Torno presto.» furono le ultime parole di Nick. Quei suoni, quelle due frasi dette con l'aria di chi crede di aver deluso un amico, straziarono il cuore di Frank Poi fu sbattuto nella volante della polizia. Quei maledetti finestrini oscurati negarono ai due amici perfino l'ultimo sguardo.
Il ragazzo indie era ancora nella stessa posizione, di fronte all'uscita d'emergenza, bloccato. Le lacrime si decisero a uscire, sfondando le dighe delle palpebre. Distruggendo ogni protezione, ogni scudo. Frank era nudo davanti alla cruda realtà.
Florence arrivò di corsa, col fiatone.
«Frank, che cazzo succede?! Sei impazzito?» La sua frase aveva evidenti note d'ira, ma nonostante questo non ricevette risposta.
«Parlo con te, rispondimi!» Sulla fronte pallida della ragazza comparvero delle piccole venature.
«Hanno arrestato Nick, okay?!» Franklin urlò quelle parole, sperando invano che si portassero dietro parte del suo dolore.
«Dddio...Potevi dirmelo, ti avrei seguita! Non credo di essere un peso, o sbaglio?» il ragazzo serrò i pugni. Iniziava ad alterarsi. In quel momento desiderava essere solo nel locale.
«Oh, certo, scusa se ho scordato di dirti che andavo dall'altra parte del locale per cercare di salvare il mio migliore amico da uno sbirro! La prossima volta ti scrivo anche le coordinate, su un foglietto.» La provocazione fu intenzionale ed efficace.
«Tanto non avresti mai potuto avvisarlo per tempo!» BOOM, ora la bomba era esplosa.
«Ma io ho voluto provarci, d'accordo?! Ho voluto nutrire la speranza che il mio amico potesse fuggire. Ho voluto provare a salvarlo da quella merda! Ma cosa ne sai tu? Cosa sai di noi, cosa sai del nostro rapporto? Parli senza sapere un cazzo!» Aveva usato tutta la voce che aveva, per quelle parole. Si avvicinò alla ragazza. «Le amicizie sono fatte di tanti minuscoli anelli, che si uniscono a formare una catena indistruttibile. Non sono cose che nascono in tre giorni!» Non capiva come Florence potesse comportarsi così da stupida. Non era da lei. Era impossibile.
Si sentì deluso, svuotato.
Florence non disse nulla, lo guardò fisso negli occhi, trafiggendolo, e poi girò sui tacchi uscendo dal locale.
Frank ordinò una birra al barista, anche lui ancora scosso dall'accaduto, ma consapevole di cosa passava in quel locale.
Per qualche strano motivo, la birra diede lucidità alla mente provata del ragazzo. Aveva fatto una cazzata. Non solo aveva perso il suo amico, aveva anche fatto scappare l'unica persona che poteva essergli di aiuto, l'unica che lo sosteneva. Tirò un lungo sorso dalla bottiglia di vetro verde.
Pensandoci bene, Florence non aveva colpe. Si era solo trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Certo, aveva sbagliato atteggiamento, ma probabilmente era colpa dello shock, che ha subito anche lei.
Si alzò di scatto, lasciando a metà la birra, sul bancone.
Uscito dal locale, il freddo gli penetrò nelle ossa. Dopo pochissimo al vento gelido si accompagnarono gocce di pioggia pesanti come il piombo. Frank tirò il cappuccio, e salì sul motorino, avviandolo.
Si sforzò di ricordare l'indirizzo di Florence, gliel'aveva detto pochi giorni prima. Blue Avenue, 86!
Nonostante fosse mezzanotte passata da un pezzo, le strade di Chicago erano ancora affollatissime di auto e taxi, che Frank scavalcò agilmente, ma che, nelle sue speranze, dovevano aver rallentato l'utilitaria della ragazza rossa.
Infatti fu così. Giunto davanti alla piccola casa scura, con un giardino di contrasto, molto colorato, vide Florence percorrere il vialetto in direzione della porta di ingresso.
Parcheggiato al volo il veicolo, con uno scatto la raggiunse.
Le cinse il ventre con le braccia, da dietro. La sentì rabbrividire, e poi divincolarsi, sfuggendo alla presa.
«Scusa, sono stato un coglione. Davvero, perdonami.» disse Frank in un sussurro.
La ragazza non si girò, ma contiuò a fissare imperterrita la serratura. Poi si bloccò, dopo due mandate. Alzò la testa. L'aria si fece incredibilmente silenziosa, tanto che la scena assomigliava ad un fermo immagine. Decine di scatti balenarono nella sua mente. Quel ragazzo in maniche corte sotto la pioggia, la passeggiata nel parco, Frank che le urlava contro con gli occhi lucidi, poco prima.
Con un movimento veloce, Florence ripose le chiavi nella piccola borsa verde e si girò verso il ragazzo tremante.
Fu l'abbraccio più intenso della loro breve storia. Un abbraccio che spiegò mille e più parole. Entrambi sprecarono buona parte della loro riserva di lacrime, ma senza dire niente. Semplicemente uno poggiato sulla spalla dell'altra, in un lungo, interminabile gesto. Dopo vari sussurri e quelli che sembravano secoli, si separarono.
Si guardarono negli occhi, asciugandosi le pesanti lacrime tra loro.
«Comunque scusa anche tu. E' che anche Alan, il chitarrista della mia band, è finito nella retata. Per quello ero sotto shock, e ti ho parlato in quel modo.»
Frank aveva mille domande, ma decise che era di gran lunga più conveniente uno «Sta' tranquilla.»
«Rimani qui stanotte, piccolo? Ti prego, mia madre è a New York, dai miei parenti e non voglio dormire sola, dopo tutto quel casino.»
Al caldo sotto le coperte, lasciarono scivolare I pensieri via, l'uno nelle braccia dell'altra, le labbra di uno in quelle dell'altra.
Per tutto il resto ci sarebbe stato tempo, un'altra volta.

 

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Capitolo 9
*** Nove. o Resti sempre il solito pollo. ***


Frank aprì gli occhi di scatto. Il sole era appena sorto, e penetrava a malapena nella stanza. Aveva ancora un cerchio alla testa dalla sera prima, più la tristezza per la perdita di Nick. La scena era ancora vivida nei suoi occhi.
Sentiva un peso sul proprio petto, appena sopra lo sterno. Osservò quel punto, e una marea di capelli rossi si presentarono alla sua vista. Era un immagine tenerissima, quasi si commosse. La tristezza si fece totalmente da parte.
Gli aveva sempre fatto un certo effetto vedere le persone dormire. Sembravano sempre così fragili e indifese. Soprattutto ora che era la sua ragazza nel sonno, per di più poggiata sul suo petto.
Carezzò un braccio della ragazza, facendo lentamente scorrere le dita sulla pelle morbida e lattiginosa. Sarebbe potuto rimanere lì per anni, tanto era attraente la carnagione chiara di Florence.
Uscì da quei pensieri, continuando a disegnare piccoli cerchi con le dita, attento però a non svegliare il suo piccolo angelo.
All'improvviso gli venne un'idea in mente. Si sfilò lentamente da sotto la testa della ragazza. Da qualche parte in quella casa doveva esserci una fottuta cucina. Come nella regola dei migliori film super-dolciosi, aveva in mente una sorpresa. La teoria era una specie di “servizio in camera”, con la colazione. Ma a lui le sorprese (le poche che aveva fatto) non erano mai riuscite granchè.
Trovò la stanza che cercava. Non portava alcuna maglietta, quindi il freddo autunnale si fece sentire. Spuntò il secondo problema: non aveva idea dei gusti di Flo in fatto di colazione.
Si rispose che avrebbe preparato ciò che trovava.
Aprì vari cassetti, spulciò altrettanti armadietti, scaraventò all'aria diverse scatole vuote. Alla fine trovò quello che cercava, sperando che i gusti della sua ragazza fossero gli stessi suoi.
Latte, cereali. Preparò tutto al meglio, almeno nelle sue possibilità. Aggiunse dei biscotti, per sicurezza. I biscotti piacciono a tutti.
Si sentiva uno stupido con tutto quel vassoio, e probabilmente Florence avrebbe pensato lo stesso. Ma ormai era lì.
Tornò in camera. Lei era ancora nella stessa identica posizione. Somigliava ad una bambina troppo cresciuta, era dolcissima.
Tentò di essere il più dolce possibile nello svegliarla, aveva avuto brutte esperienze con sua madre.
«Piccola, svegliati, sono le dieci.» sussurrò, scuotendole leggermente un braccio.
Lei fece un verso, e si girò sul suo seno.
«Dai, Flo, non puoi rimetterti a dormire!» disse Frank tentando di assumere un'aria più severa possibile, con scarsi risultati.
«Lasciami..riposare..Solo un minuto...» furono le parole che uscirono dalla bocca impastata di Florence.
«Ennò, tu devi alzarti!» fu la secca risposta.
Con un balzo Frank salì sul letto, e cominciò a punzecchiare con le dita i fianchi della compagna, per farla muovere. L'obiettivo fu centrato: la ragazza, in preda alle risate, iniziò a dimenarsi, implorando Frank di lasciarla in pace.
Proprio mentre il ragazzo stava per accettare le suppliche, Florence mosse un braccio tentando di scacciarlo, ma colpì in pieno il comodino e... il vassoio della colazione.
La tazza schizzò in aria, schiantandosi fragorosamente sul parquet. Il latte si sparse sul legno scuro, lasciando galleggiare i cereali.
«E quello cos'era?!» Florence era stupita.
«Fino a pochi secondi fa, la tua colazione.»
Lei si stese sul letto, sporgendo la testa per osservare il danno.
«Poco male, quella era una tazza vecchia, e i cereali mi fanno schifo. Si vede che non mi conosci, idiota!» disse, passando una mano tra i capelli scuri di Frank.
«Però mi hai portato la colazione a letto, come un vero principe, quindi ti meriti questo!» continuò, tirando a sé il ragazzo e stendendolo accanto a lei, pancia in giù.
I minuti successivi si sciolsero come neve al sole, tra le effusioni dolci di quei due corpi. Ognuno confortava l'altro con i proprio calore e il proprio affetto. Il tempo sembrava infinitamente rallentato.
Per questo sembrò passata un'eternità quando Florence lasciò la sua metà di letto, alzandosi.
«Vado a farmi qualcosa di commestibile» disse, diretta verso la cucina. Indossava una canotta e degli shorts, la notte non era ancora rigida. Il ragazzo non riuscì ad autoconvincersi che, soprattutto in quel momento, anche il fattore “attrazione fisica” non era affatto da trascurare. Era davvero bellissima.
Fecero colazione assieme, divertendosi come bimbi. Le sirene e le manette per alcuni minuti furono spettri silenziosi, ricordi in secondo piano, resi trasparenti ma non invisibili. E, puntualmente, rientrarono in scena dopo poco tempo.
Nick mandò un messaggio all'amico, dicendo che l'avevano trattenuto in centrale per la notte, ma ora poteva ricevere visite, in attesa del giudizio.
Non aspettarono un minuto di più, erano già vestiti e preparati, diretti al comando di Polizia di Chicago.
Il sole riusciva ancora, con le sue ultime forze della stagione, a scaldare abbastanza quella mattinata. L'atmosfera era gradevole, e le strade profumavano di natura.
L'edificio era grande, austero e imponente. Una costruzione antica, in marmo bianco, che trasmetteva già da sé potere e superiorità. Frank si sentiva a disagio, mentre avanzava a passi pesanti verso la porta. Stringeva con tutta la sua forza la mano cerulea di Florence.
Il primo agente che incontrarono fu inaspettatamente cortese. Il ragazzo pensò che sicuramente aveva arrestato qualcuno per cominciare bene la giornata. Sono quelle, più o meno, le cose che fanno felici i poliziotti.
Furono condotti alla zona dove veniva tenuto Nick, con Alan e le altre vittime della retata. Non era una vera e propria cella, ma solo una parte dell'enorme stanza, separata dal resto da una grata malconcia.
«Avete mezz'ora.» disse laconico l'agente di guardia. Lui non aveva affatto l'aria felice, no.
Nick corse subito tra le braccia del suo migliore amico. Aveva una faccia stravolta, con evidentissimi segni della notte passata non troppo bene. Frank era ancora sull'orlo delle lacrime. Provò vergogna. Il fatto era che non era abituato a vederlo così. Lui era sempre l'anima, quello più attivo e creativo. Sembrava la controfigura scialba del ragazzo che conosceva.
«Andrà tutto okay, vedrai.» disse in un fiato Frank. L'amico si strinse ancora di più a lui.
«Grazie fratello. E' solo che ho paura, ho fatto una stronzata..»
Frank prese coraggio. «Vieni, ti dico due parole.»
Sedettero in un angolo, lontani da orecchie indiscrete.
«Nick, so che hai fatto una stronzata, e lo sai anche tu. Ma io non voglio darti la colpa, ne dire “te l'avevo detto” come tutti. Io ti conosco e so che non sei come vogliono dipingerti. So che non spacci quella merda, ma la usi sono per toglierti qualche sfizio. Un errore capita a tutti, e il tuo è stato quello di farti trovare con quel tipo ieri sera. Ma vedrai che capiranno anche loro che non sei tu quello da rinchiudere.» Si bloccò un attimo, costringendo l'amico a guardarlo negli occhi. «Andrà-tutto-bene. Intesi?» Sperò ardentemente che Nick non riabbassasse lo sguardo.
E così fu. Qualcosa diede un minimo di luminosità a quel viso così scialbo. «Se mi rinchiudono in qualche merda di prigione, anche per una sola settimana..prometti che mi porterai la mia Playstation 3 con Skyrim!»
Un ondata di calore pervase Frank, partendo dal petto. Stava tornando. «Certo, ci mancherebbe. Poi anche FIFA FOOTBALL, così facciamo vedere un po' a queste guardie come si gioca a calcio!» Scoppiarono a ridere, senza mai interrompere il sottilissimo filo che legava i loro sguardi. Ridevano di gusto, era l'azione più semplice da fare in quel momento.
Continuarono su queste rime per alcuni minuti, fino a quando i violenti colpi di un omone sulla grata non li avvertirono che il tempo era scaduto.
Per un attimo si fecero entrambi scuri in volto.
Frank abbracciò un'altra volta l'amico. «Ci vediamo presto.»
Mentre si separavano, Nick diede un colpo dietro al collo dell'altro.
Resti sempre il solito pollo, amico.» L'occhiolino che seguì fu la notizia più bella della giornata del ragazzo indie. Doveva ricordarsi che l'altro non riusciva proprio a reggere le scenette tristi da telenovela.
Uscendo, temporeggiò, per aspettare Florence. Stava salutando con un bacio sulla guancia e una carezza Alan, anch'egli evidentemente scosso dalla vicenda.
Raggiunsero la macchina, in silenzio, ma la ragazza si bloccò, poggiata alla portiera chiusa. Fissò Franklin, con i suoi soliti occhi immensi.
Il ragazzo si stava mordendo un labbro, tanto da farlo sanguinare, e aveva gli occhi lucidi, a dir poco, lo sguardo perso avanti a sè.
Per una volta aveva bisogno di sentirsi dire che tutto sarebbe andato bene. Tutto le sue energie interiori le aveva utilizzate per tirare su Nick, ed ora aveva un vuoto profondo, dentro. L'allegria di quell'occhiolino era una temporanea illusione, schiacciata ora dal peso della realtà. Le cose non erano messe bene.
Suo padre era avvocato, gli aveva spiegato alcune cose. Quindi era perfettamente a conoscenza del fatto che l'amico doveva essere giudicato dal comandante due giorni dopo, per la nuova legge del “rito abbreviato”, e qualora avesse richiesto un processo, per tutto il suo svolgimento sarebbe rimasto chiuso in cella.
Ma il problema principale non era quello. Piuttosto, difficilmente Nick sarebbe stato giudicato “utilizzatore” della droga e non “spacciatore”, per di più senza processo. E comunque nella migliore delle ipotesi (la prima), si sarebbe beccato 2-3 mesi di domiciliari. All'altra non voleva neanche pensare.
Così, questi pensieri naufragavano all'orizzonte.
Florence si avvicinò, scostandogli il ciuffo ribelle che gli copriva parte dell'occhio sinistro. Infilò la sua testa, e la sua bocca, nell'incavo tra le spalle atletiche del ragazzo ed il collo.
«Non preoccuparti piccolo, è tutto okay.» Non sembrava convincente, ma bastò comunque per liberare gli occhi di Frank dall'ingombro delle lacrime. Lasciò colare quelle gocce tra i capelli rossicci, sperando che non tornassero a breve. Liberò con un bacio la ragazza e salirono in macchina.
«Sei sicuro di non voler entrare a mangiare qualcosa? Sei benvenuto!» Erano nel vialetto davanti alla casa scura nel cuore di Blue Avenue, uno di fronte all'altra.
«No, grazie, ho qua il motorino, e poi i miei mi daranno per disperso alla polizia se non torno. E per oggi con la polizia ne ho avuto abbastanza!» Florence si avvicinò ridendo.
«Certe volte sei davvero stupidissimo.» mormorò. Un altro, lungo assaggio di fragola.
«Ma ti amo.»
«Altrettanto.»

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Capitolo 10
*** Dieci. o Quel mio cambiava tutto. ***


I giorni passarono veloci, scorrendo come in un flash forward di un film : facce, voci, luoghi; tutto passava senza lasciare alcun segno. Frank in quelle due settimane abbondanti stava prendendo sempre più coscienza del fatto che la vita, la vita vera, era quella che passava con Florence. Il resto era solo un “ponte”, una specie di sala d'attesa che precedeva il prossimo momento da passare con la sua ragazza. L'unica cosa di importanza rilevante che successe in quel lasso di tempo fu la condanna a Nick, un solo mese di carcere e tre di domiciliari, era stato fortunato. Ad Alan, invece, erano toccati due anni dietro alle sbarre.
Per il resto, comunque, tutto calmo come al solito.
Quel giorno Frank si svegliò incredibilmente presto: era ancora buio. Allungò la testa fuori dalla finestra annusando l'aria del mattino non ancora sbocciato, e il freddo pungente si fece subito sentire.
Prese una sigaretta dalla tasca del cappotto, con le dita intorpidite dal sonno. Approfittava della solitudine per sfogare quel suo bisogno, era una cosa che sentiva dentro, una dipendenza, ma tuttavia era fiero di riuscire spesso a tenerla a freno. Preferiva di gran lunga il sapore di rossetto alla frutta.
Lasciò sfumare le piccole nuvole prodotte dal tabacco nell'oscurità. Alzò la testa: tutto sembrava fottutamente silenzioso. Pace.
Chiuse gli occhi assaporando l'ultimo respiro, e lanciò la cicca nel posacenere sul comodino.
Proprio quando aveva deciso di stendersi a letto, per recuperare qualche minuto di sonno, la sveglia assordante scacciò definitivamente ogni traccia di torpore. Doveva per forza alzarsi. Solo allora volse lo sguardo al calendario, appeso dietro la testata del letto.
27 novembre. «Cristo, è il mio compleanno!» disse sottovoce, stropicciandosi gli occhi semichiusi. Quel giorno compiva 17 anni. Per la prima volta da tempo, si fermò davanti allo specchio.
Osservò il suo corpo con attenzione. Come diciassettenne si riteneva alquanto particolare. Rimase per qualche minuto ad osservarsi, assorto in una marea di complessi da adolescenza. Dopodichè, si diresse a prepararsi; sarebbe arrivato tardi a scuola, altrimenti. Uscì comunque in ritardo, tanto per cambiare.
Aveva fatto tre passi nel vialetto, quando si bloccò, lasciando cadere lo zaino semivuoto.
C'era una macchina blu parcheggiata lì davanti. Un'utilitaria. Quell'utilitaria.
Sentì uno sportello sbattere, e una ragazza correre verso di lui saltellando.
«Ma auguri, bellezza!» urlò Florence, gettandosi al collo di Frank. Gli diede una quantità incalcolabile di baci. «Ho una sorpresa per te!» Fece una faccia buffa, da fumetto. Il ragazzo rise. Sotto sotto amava le sorprese.
«Ah si, e quale sarebbe?» chiese incuriosito.
«Scemo, non posso dirtelo, altrimenti che sorpresa sarebbe?»
«Ah, ovviamente..»
«Ecco! Quindi, niente scuola, sali in macchina.» La ragazza fece per tornare indietro, scattante, ma Frank la afferrò per una mano, stringendola al suo petto. Aveva la sensazione di poterla rompere, con un abbraccio troppo forte.
«Si può sapere almeno dove mi porti?!» Stavano viaggiando già da una manciata di minuti.
«No, stai buono e calmo.»
«Flo, guarda che ti denuncio per sequestro di persona!»
«Allora ti faccio scendere qui, se proprio vuoi. Ti conosco abbastanza da capire che non ritroveresti la strada di casa.» Sorrisero, e Frank decise di tenere a bada la curiosità ed attendere.
Dopo circa dieci minuti, lei accostò. Frank non resisteva più.
«Eccoci qua, arrivati. Ora seguimi, o ti perderai.» Il ragazzo non aveva idea di dove si trovassero, ma Florence aveva sempre avuto ragione, quindi obbedì.
Camminarono per pochi minuti su uno stretto sentiero in salita, parlando del più e del meno. Gli occhi della ragazza ogni tanto brillavano di una strana luce.
«Ci siamo. Ora però devi metterti questa sugli occhi!» esclamò, porgendogli una bandana nera. Frank la guardò come a dire – non ne posso più di questo gioco – ma acconsentì. Lei lo guidò per alcuni passi, poi lo stoppò baciandolo leggermente, e sciogliendo il nodo della benda.
«E voilà.» gli sussurrò all'orecchio.
Frank aprì gli occhi.
Uno spettacolo maestoso gli si presentò di fronte. Una piccola scarpata appena oltre i suoi piedi si gettava su un'immensa distesa di verde, probabilmente un parco. Il sole appena sorto illuminava di una luce tenue quella piccola riserva di meraviglie naturali, inalterate dal freddo dell'inverno incombente. Tutto aveva un'aria indescrivibile, qualcosa di magico. Il ragazzo notò, poi, la scritta che sembrava stampata sul prato limpido,formata da grandi sassi.
«Buon compleanno, mio ragazzo indie.» quel “mio” cambiava tutto. Lo rendeva infinitamente più dolce. Una lacrima solcò la guancia del diciassettenne. Nessuno aveva mai fatto nulla di simile per lui. Si voltò verso la ragazza.
Era seduta per terra, gambe incrociate, un sorriso adorabile. «Che te ne pare?»
«Sei una meraviglia, ti amo.» fu l'unica cosa che riuscì a comunicarle Frank, prima di sedersi accanto a lei.
Si diedero il miglior bacio in assoluto, lasciando passare tutto l'amore possibile, tra quelle quattro labbra.
Rimasero per un lunghissimo lasso di tempo stesi sull'erba fredda, una sull'altro, abbracciati. Si divertivano a vedere i movimenti degli uccelli, o a inventare somiglianze assurde alle nuvole. Il cielo era perfetto. Anche la natura aveva dato il suo apporto a quella sorpresa. Il ragazzo pensò che avrebbe potuto passare il resto della sua vita esattamente in quella posizione, con le mani candide di di quella rossa sulle sue. Sembravano due bimbi troppo cresciuti, nel loro mondo immaginario, in cui tutto poteva essere perfetto.
Fecero una sorta di pic-nic (Florence aveva pensato proprio a tutto), continuando a scambiarsi abbracci e battute, inventando giochi e scherzi dal nulla. Il tempo sembrava essersi fermato ad osservare la strana coppia.
«Il tempo non promette bene, Frank. Guarda quei nuvoloni neri!» Era pieno pomeriggio, e stavano girando per il parco, mano nella mano come veri innamorati (tremendamente dolci, diabetici).
«Vedrai che ci passeranno sopra senza neanche buttare una goccia.»
«Si, ma comunque non è prudente restare qui. Torniamo a casa, per favore.» Florence si strinse al suo uomo.
«E va bene, ma solo perchè sei tu!» rispose lui scompigliandole la chioma.
In poco più di mezz'ora raggiunsero Blue Avenue.
«Che dici, ti va di concludere la serata facendo compagnia a una sfigatona?» La ragazza usò il tono più tenero possibile.
«Se quella sfigatona è bella come te accetto ad occhi chiusi!»
«Ruffiano..» fece lei prendendolo in giro.
Entrati nella casa vuota, tolsero le giacche e si accomodarono sul divano, perennemente poggiati l'uno all'altra.
«Vediamo un po che mandano in tv!» disse lei, prendendo il vecchio telecomando.
Frank rimase fermo con lo sguardo sulla ragazza. Aveva i capelli fiammanti raggruppati in una specie di coda, lasciando scoperta la pelle stupenda del suo collo; le bretelle del reggiseno si intravedevano da sotto la sottile canotta blu; i leggins modellavano le sue gambe sottili ma statuarie.

Non aveva mai pensato in quei termini alla sua ragazza. Sentì qualcosa dentro sé stesso sfuggire al controllo del cervello.
Spense la tv, costringendo Florence a guardarlo. La baciò improvvisamente. Poi continuò a fissarla negli occhi.
Solo quando vide le pupille dei grandi occhi verdi dilatarsi intuì che non c'era bisogno delle parole. Si erano capiti, non avrebbe dovuto parlare.
Lentamente si spogliarono, rimanendo ognuno senza protezioni di fronte all'altro.
Frank sentì la pelle gelida della ragazza sulla sua. Qualcosa di caldo, invece gli esplose dentro, disattivando la ragione e lasciando spazio solo alla passione. Non era solo un bisogno fisico, ma molto di più. Si stavano legando uno all'altro, stavano mischiandosi le anime indissolubilmente.
Frank si sorprese della facilità con cui riusciva a trovare i punti della sessualità della ragazza. Gli occhi di Florence erano un fiume in piena.
Sperò solo che il divano non fosse di quelli componibili dell'IKEA.


 

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Capitolo 11
*** Undici. o Buio. ***


«Mamma, con due buste in più questa macchina rischia di esplodere, fidati!»
«Flo, non ti porto mai a fare shopping, per una volta fammi prendere la soddisfazione! Qualunque madre lo farebbe per la propria figlia, è un classico.»
«Ma a me non serve girare per mille negozi a fare compere per sapere che mi vuoi bene, mamma!»
«Oh, bene, allora porto via queste buste!»
«Nooooooo, cara, a ripensarci sono molto onorata di aver fatto shopping con te!» Florence rise, abbracciando sua madre. Avevano entrambe i capelli rossicci: di una tonalità più accesa quelli della ragazza, tendenti al rame quelli della donna.
«Piccina mia, non so come farei senza di te.»
«Mamma, è la stessa cosa per me, davvero.»
Le due donne salirono sulla piccola auto, chiacchierando.
«Comunque quel vestito ti sta uno splendore, Flo! E' davvero bellissimo.»
«Ehi, ringrazia il cielo di aver trovato un vestito che mi piacesse, e on abituarti!»
«Sei sempre la solita, non so cosa ti passa per quella testa!»
«Non provare a capirmi, quante volte devo dirtelo?!»
«Veramente sei una stronzetta. Piuttosto, come va con quel ragazzo, Freddie?» Le pupille della ragazza sfiorarono l'esplosione, tanto erano larghe.
«FRANK, MAMMA. FRANK! Ci sto assieme da oltre un mese, due praticamente, e non ancora impari il suo nome!» Si accorse solo dopo di aver urlato quella frase. La donna si girò, gli occhi colmi di orgoglio. Florence annusò nell'aria l'arrivo delle urla della donna, così si affrettò a scusarsi. «Volevo solo correggerti, perdonami. Comunque va tutto bene, è dolcissimo e mi tratta da vera principessa. Credo di aver trovato davvero quello giusto, ma!» Un guizzo attraversò gli occhi di quella ragazza tutto pepe.
«Beh, a me non sembra fantastico. Ma non lo conosco, e mi fido di te, quindi non fallo scappare, figliola!» rispose la madre, strizzando l'occhio.
Florence si strinse nelle spalle, sospirando. Guardò verso il cielo. Le sembrò di rivedere quel corpo leggermente rachitico, la pelle liscia e levigata, i capelli ricci spettinati. Sentiva quasi il suo profumo all'arancia, il suo abbraccio spigoloso.
Sentì un sussulto che la risvegliò dai suoi sogni.
Delle luci sbucarono da una traversa laterale. Un enorme camion entrò con violenza in carreggiata, da un traversa semi invisibile.
I dischi frenanti premettero con forza, le ruote si blocccarono, le gomme lisce scivolarono sull'asfalto bagnato.
Florence si voltò istintivamente verso il sedile del guidatore. Vide la madre tirata sullo schienale, pallida, gli occhi sbarrati.
L'auto sbandò, disegnando strane curve col suo movimento.
Fu un impatto violentissimo, l'utilitaria venne sbalzata di lato, picchiando tre volte a terra, prima di fermarsi a ridosso di un palo, nella carreggiata opposta.
Il mondo ruotò attorno alla ragazza. L'ultima immagine stampata nei suoi occhi di smeraldo fu quella della cintura di sicurezza che si staccava dall'aggancio, lanciandosi verso il suo volto.
Poi il buio.

 


Lettori, rieccomi qua. Ultimamente ci sono pochissime visite, dove siete finiti? Mi mancate, fatevi vedere per favore c.c 
Comunque, grazie a tutti quelli che mi leggono. Volevo scusarmi perchè il capitolo è cortissimo, ma me lo sono sentito così.
Vi toglierò presto dalle spine, promesso. Vi amo, "stay foolish".

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Capitolo 12
*** Dodici. o Per quando tornerai. ***


Frank se ne stava seduto sul letto, giocherellando con la sua chitarra, quando lo squillo fragoroso del cellulare fermò il filo delle note. "Flo <3" comparve sullo schermo.
«Amore, dimmi!»
«Vieni immediatamente al Saint James.» La voce non era affatto quella di Florence. Era maschile. Frank la riconobbe come quella di un membro del gruppo della sua ragazza, non ricordava esattamente chi. Ma, cristo, una cosa era sicura: il Saint James era l'ospedale più grande di Chicago.
Il cuore era paralizzato, lì in mezzo al petto.
«Che succede?!»
«Flo ha avuto un incidente. Ora è qui. Ti prego arriva in fretta, amico.»
Frank si sentiva morto. O qualcosa del genere. L'avrebbero ritrovato al mattino, dopo aver sfondato la porta chiusa a chiave, steso sul letto, col cellulare e la chitarra addosso. Si, sarebbe andata così.
Rimase totalmente immobile, lo sguardo perso nel vuoto, la bocca spalancata. Voleva dire qualcosa, voleva fare qualcosa. Ma per un infinita di tempo restò in quello stato, bloccato dallo shock.
Poi, finalmente, riuscì a convincere il suo corpo a muoversi, mettendo da una parte la preoccupazione.
Sentiva i muscoli legati e la vista offuscata, non riusciva a ragionare. Era come se il mondo avesse improvvisamente iniziato a girare all'impazzata.
«Mamma, prendo la macchina!» urlò, senza neanche aspettare risposta. Si precipitò nell'auto grigia, spingendo al massimo sull'accelleratore. Non amava le 4 ruote, preferiva lo scooter, ma era decisamente il modo più veloce per raggiungere quel dannato ospedale.
Non era affatto lucido, e stava sudando freddo, non desiderava altro che arrivare al Saint James. Dopo quella che sembrò un'eternità, finalmente l'enorme casermone bianco comparve davanti ai suoi occhi, provocandogli una profonda fitta al cuore.
Non aveva mai amato gli ospedali, lo inquietavano dal profondo. Come se ce ne fosse bisogno, stavolta. La paura non lo aveva mai assalito in quel modo.
Arrivato dentro, tremante, raggiunse la stanza indicata dall'infermiera.
Era un'umile camera d'ospedale, scolorita e arredata quasi militarmente. Tutta quell'austerità avrebbe fatto allergia a Florence.
Eccola lì, su una brandina. Aveva la testa tenuta sollevata da molti cuscini, la pelle cadaverica oltre ogni immaginazione, dei grandi cerotti bianchi sul collo e sulla fronte, gli occhi chiusi. Era surreale e terrificante.
Frank si sentì svenire, e dovette sorreggersi alla sedia per non cadere.
Non era decisamente pronto a quella visione.
Attorno a Florence, di fianco a lui, c'erano tutti i membri della band, compreso il tipo che sostituiva Alan. Dakota, la batterista, una ragazza in genere molto frizzante, abbracciò Frank calorosamente. Era in lacrime, la pelle scura solcata da profonde pieghe. Lei era l'unica del gruppo con cui il ragazzo aveva legato un minimo. Fu proprio Dakota a spiegargli com'era andato il disastro; del tir, dell'auto che è rotolata su se stessa. Sembrava un film dell'orrore.
Frank ascoltava in silenzio, e si sentì mancare quando provò a figurarsi la scena davanti.
Dopo poco, un ragazzo piuttosto basso con la barba sfatta fece: «Ah, Frank, noi andiamo a prendere qualcosa... Se hai bisogno chiama, okay?»
«Grazie, ragazzi.»
Dakota gli lasciò un bacio sulla guancia, uscendo dietro gli altri.
Ecco, il momento era arrivato. Si trovava solo con la sua amata. Poggiò a lungo gli occhi stanchi sul viso scialbo di Florence, senza riuscire a pensare a nulla.
All'improvviso, Franklin prese la mano estremamente pallida della ragazza tra le sue, chiuse gli occhi e iniziò a parlare, dopo un grande sospiro.
«Ciao, piccola. Non so se puoi sentirmi, ma nei film ci sono sempre questi discorsi super dolci, quindi penso di si. Comunque, ho voglia di parlare. Ho voglia di dirti che devi riprenderti, perchè senza i tuoi occhi verdi mi sento morire. Mi manchi come l'ossigeno sott'acqua. Stasera avevo in programma di prepararti la cena, e magari dopo avremmo fatto del sesso, ma sempre e solo dopo il film, come piace a te; invece sono in questa stupida stanza a provare a parlarti. Mi sento un tale idiota.. Mi prenderesti in giro per mesi, tu. E io probabilmente te lo lascerei fare, pur di rivedere quel sorriso, quelle fossette. I tuoi capelli sembrano quasi spenti, sai? Li odieresti a vederli, sono sicuro. Come odieresti ogni cosa in questo ospedale. Non fa per te, sei un controsenso, in questa camera. Devi uscire presto. Vabbè, ti comprerò una barretta di cioccolato, per quando tornerai. Dicono che mette allegria. Ora, io vado un attimo a prendere qualcosa di caldo. Ma, bimba, qualsiasi cosa succeda sono qua vicino a te, fino a quando non ti sveglierai. E se deciderai di non venire tu da me, sarò io a seguirti, te lo prometto. Perchè tu mi hai fatto capire dov'è la vita, e senza te non varrebbe la pena svegliarsi ogni mattina. Ti amo più di me stesso.»
Frank sentiva le lacrime attaccare i suoi occhi, e non voleva piangere lì, quindi scappò verso il bar dell'ospedale, lasciando per un attimo quel fiore indifeso.
Dopo pochi minuti, riprese posto sulla sedia bianca logora, accanto al letto.
La sua mente era intasata di cattivi pensieri. Voleva, doveva essere ottimista; ma se Florence non si fosse più svegliata? Per ora non aveva la forza di chiedere ai medici in che stato fosse. Aveva paura delle risposte che avrebbero potuto dargli. Cosa avrebbe fatto senza quella chioma fiammante? Non poteva trovare un'altra compagna. O lei o il vuoto, ne era convinto.
Stava fissando il suo caffè amaro, quando uno smeraldo illuminò la penombra.

 

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Capitolo 13
*** PRIMA NOTA DELL'AUTORE ***


Ciao a tutti, bellezze. Questo non è un capitolo vero, ma è una piccola mia nota rivolta a tutti voi.
Volevo scusarmi perchè è tanto che non pubblico nulla, e le ultime cose non piacevano neanche a me. Quindi ho deciso appunto di prendermi una piccola pausa, in cui ho pensato e letto molto. E ora credo di aver ritrovato il piacere di scrivere, quindi tornerò a farlo. Grazie a chi continua a leggere, siete davvero importanti per me.

Con amore, Freccia_9

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Capitolo 14
*** Tredici. o La paura. ***


Florence si pentì subito di aver aperto gli occhi: una profonda fitta le attraversò la schiena, rendendo la vista offuscata ed ogni minimo movimento terribilmente doloroso. Richiuse le palpebre, lasciando sprofondare lentamente la testa nel soffice cuscino candido.
Si sentiva davvero male. Come se qualcuno si fosse divertito a spezzarla in mille parti, scambiandola per uno strano puzzle, riassemblandole poi al contrario.
Con enorme fatica spulciò i suoi pensieri, cercando di ricostruire ogni piccolo dettaglio di quanto ricordava. Le immagini dell'incidente si rincorrevano sfocate e disordinate. Flash confusi si avvicendavano .
Poteva sentire ancora nel profondo di sé stessa il terrore dell'attimo in cui si era resa conto di non avere più scampo, appena prima dell'impatto. Capolinea.
Quel sentimento non era ancora riuscita ad eliminarlo. Non ci sarebbe mai riuscita.
Quando finalmente la nebbia densa e fitta dei pensieri svanì, la ragazza riconobbe una voce. Era qualcosa di lontano, come all'altra estremità di un tunnel molto lungo. Le parole giungevano ovattate e distorte. Tentò di concentrarsi, e dopo alcuni lunghi minuti riconobbe il timbro fin troppo familiare: Frank. Frank. Frank! Quel tesoro doveva essere stato lì a vegliarla per chissà quanto tempo, sicuramente. Non distingueva le parole, ma il tono era molto dolce, basso, come una confessione privata, qualcosa da intimo e inaccessibile per chiunque tranne lei.
Florence avrebbe dato tutto l'oro del mondo per poter ascoltare il suo ragazzo. O meglio; per abbracciarlo e stringerlo forte; per sentire il sapore acre della sua bocca, passando la lingua sulle piccole labbra screpolate e ferite, quasi a guarirle.
Doveva provarci. Doveva fare qualcosa per far capire a Frank che lei è ancora viva, c'è ancora, dentro quel guscio vuoto. Sull'onda di questi ragionamenti raccolse tutte le sue forze e provò a dire qualcosa, ma trovò la sua gola bloccata totalmente e impastata. Addio voce.
Scelse il “piano b”, ovvero il più rischioso: prese un respiro e provò a staccare la schiena dal letto, spingendo con i muscoli del collo.
Era quasi riuscita nel suo obiettivo, quando il mondo iniziò a girare a tutto sprofondò nel buio.


 

Frank stava fissando il suo caffè amaro. D'improvviso sentì un piccolo movimento, uno scatto, quasi impercettibile. Alzò gli occhi su Florence, sgranando lo sguardo. Poteva giurare che fosse successo qualcosa, ma ora era semplicemente immobile, come l'aveva trovata. E sarebbe stato difficile spiegare al medico che la ragazza si era svegliata per un microsecondo per poi ricadere immediatamente in coma. Non gli avrebbe creduto. Così decise di aspettare, tornando sul suo caffè.
Era ormai mezzanotte passata quando il ragazzo si staccò dall'unticcia sedia bianca. Stanco e provato, si avviò verso l'uscita, ma solo dopo aver poggiato ancora le labbra su quelle, spente e crude, di Florence.
Si accese una sigaretta per scaldarsi un po' dal freddo pungente della notte, e per provare a calmarsi. Le gambe tremavano ancora.
Sarebbe andato tutto bene. Sarebbe andato tutto bene. Stava andando tutto a puttane, in realtà. Ma è possibile che il suo “tutto” fosse rappresentato solo dalla sua ragazza? Eppure era semplicemente così. Lei era costretta su una barella e la sua vita aveva d'un tratto perso di senso. Totalmente, tristemente.
Provò a farsi forza stringendosi nel cappotto scuro.
Le nuvolette di fumo prodotte dalla sigaretta lo rilassavano, in un certo qual modo. Ma era un rilassamento superficiale, perchè l'ansia e il nervosismo erano ancora radicati nel profondo, inchiodati al loro posto.
Si decise ad entrare in macchina. Solo allora si rese conto di non voler tornare a casa. Al momento non avrebbe sopportato tutte le domande della madre, del tipo “oddio poverina, come sta?”, “ma si riprenderà?”. Non avrebbe sopportato di dover rispondere che era ancora in coma e che non aveva avuto il coraggio di chiedere nessuna informazione.
Prese la statale, senza alcuna meta. Imboccò la sesta uscita, a caso, lo sguardo vuoto, le mani cadaveriche strette sul volante. La macchina mangiava chilometri d'asfalto, senza sapere dove si sarebbe fermata.
Frank non riusciva a pensare. Era completamene scarico. La mente affannata, pensava solo a tenere l'auto in carreggiata. Ad un tratto voltò la testa alla sua destra.
Si fermò all'istante, accostando.
Prese a camminare con passo lento e pesante. Era improvvisamente lucido, e aveva trovato la sua destinazione: un'immensa distesa. Verde. Erba, fiori, alberi qua e là. Gli ricordava molto il posto dove lo aveva portato Florence. Se fosse stato lo stesso? Poco importava.
Continuò ad avanzare fino a raggiungere il centro del grande piano. Si fermò.
Chiuse gli occhi.
Era in ginocchio, o forse steso. Rimase immobile. Sentiva qualcosa mescolarsi tra il suo cuore e il suo fegato. E cresceva, cresceva. Tra poco sarebbe diventato insopportabile.
Ancora silenzio.
Poi uno squarcio. Un grido potente e grave, una lama contro l'aria tranquilla di una notte d'autunno inoltrato. Avrebbe svegliato genitori e bambini e anziani e badanti degli anziani, ma non gliene fregava un cazzo.
Doveva far uscire la sua anima.
Continuò ad urlare per una manciata di secondi, cercando di metterci dentro quella marea di pesi che si trovava sullo stomaco. L'amore, il dolore, la rabbia, l'invidia, la passione, la paura. La paura. Doveva far uscire la paura. Voleva che andasse via, magari si sarebbe fatta una vita altrove, con moglie e figli. Ma sulle spalle di qualcun'altro. Le sue non erano abbastanza potenti, non avrebbe potuto permetterselo.
Si sentì crollare, quando era tutto finito. L'odore dell'erba umida lo invase. Ora era sicuro di essere steso, faccia a terra. Avrebbe voluto entrare nella terra, diventare la base di qualche pianta, la radice di qualche albero. Voleva essere importante in senso assoluto, importante nella sua vita, non in quella di qualcun'altro.
Sarebbe resistito fino alla fine, o avrebbe gettato la spugna a metà, lasciando la sua vita morire?
Quando Frank si alzò aveva ancora il fiatone. Era ancora più scosso di prima, ma si sentiva libero. Libero dal peso della sua vita. Sicuramente questa sensazione sarebbe durata per poco. E allora, non gli restava altro che godersela.
Balzò in macchina, inserendo un logoro cd dei Sex Pistols. Premette con tutta la sua forza sull'acceleratore e partì.

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Capitolo 15
*** Quattordici. o Qualcun'altro. ***


Frank guardò il suo pacchetto di sigarette. Era ancora incelofanato. Sano e pieno. Immacolato. E in fondo al cestino.
Aveva deciso di smetterla. Era un periodo di crisi, e lui non lavorava, e quello era il modo peggiore di spillare soldi ai suoi. Ma soprattutto sentiva di non averne più bisogno.
All'improvviso era cambiato, si sentiva puro, sano, e aveva paura che quella merda lo avrebbe fatto tornare il tipo di ragazzo che era, e che non voleva più essere. Mai più.
Quell'urlo lo aveva completamente scosso, dal profondo. Un gesto così semplice, naturale, lo aveva pulito e svuotato. Voleva essere una persona diversa, ora. Poteva essere una persona diversa, ora?
Si strinse nelle spalle: il vento gelido sferzava sul parcheggio della stazione di servizio.
Uno squillo del telefono. Un lungo squarcio nell'aria calma della notte. Un sussulto, uno scatto, nel cuore del ragazzo.
Florence. Cristo santo, era il suo numero. Non sentiva più le dita, non sentiva più le labbra, doveva essere scomparso, tipo sparito dalla faccia della terra senza lasciare tracce. Eppure era ancora lì, sul sedile della sua automobile. Forse. Probabile.
Finalmente si decise a prendere il telefono.
«Ti prego dimmi che sei tu.»
«Frank, sono sveglia! Vieni?»
Autostrade del cervello intasate. Il piccolo cuoricino esplose in un aura di gioia e speranza. Prese a saltare dappertutto, avrebbe voluto gridare ad ogni persona della terra che Florence era sveglia, che la sua ragazza non sarebbe morta! Sarebbe andato tutto per il meglio, avrebbero fatto due bimbi, un maschio e una femmina, sarebbero invecchiati insieme, e dalle loro poltrone, da anziani, avrebbero riso di questi momenti.
Poi riflettè che era troppo presto per pensare alla sua vecchiaia, decisamente. Tutta colpa dell'euforia, si disse. Forse sarebbe stato meglio pensare solo al presente.
Inforcò la statale col gas a tavoletta, in direzione dell'ospedale. Casa sua avrebbe dovuto ancora aspettare.
Frank spinse con forza la porta, ritrovandosi nella stanza bianca.
Florence aveva un viso stanco e spento, trasparente a momenti, con profondi solchi fino alle guance, le labbra sottili e scolorite, lo sguardo totalmente perso nel vuoto. Sembrava totalmente inerme, ma almeno era sveglia. Ma neanche il suo solito sorriso, quello indistruttibile, era passato in zona.
Frank le strinse la mano gelida tra le sue, poggiandoci le labbra.
«Dio, non immagini quanto mi sono preoccupato.»
«Lo so, nella confusione del coma ti ho quasi sentito.. Quanto ho dormito?»
«Poche ore.»
«Sembrano passati secoli.»
«Non dirlo a me, piccola. Sono diventato il migliore amico di questa sedia! E' anche cordiale, se provi a parlarci.»
Florence mostrò un sorriso forzato e poco convinto, così il ragazzo cambiò rotta.
«Ricordi qualcosa dell'incidente?» Lo aveva detto in fretta, e con tono molto meno premuroso di come avrebbe voluto.
«NO. Solo flashbacks, niente di utile comunque. Sai com'è, non è stata proprio una passeggiata. Ma tu non puoi capire...» Si sentì lo scatto di qualcosa che cambiava dalle parti del cuore della ragazza. Stava diventando scontrosa, lo si poteva sentire nell'aria.
«Perchè no? Se non capisco io chi capirebbe?»
«Qualcuno che ci è già passato, tipo Jack, il nuovo chitarrista. Stiamo diventando molto molto amici. E questo è un trauma troppo grosso, anche se ti ci metti non potrai capire cosa provo ora.» Per quale motivo faceva così? Era una provocazione più che aperta.
«Cristo, sono il tuo ragazzo. E a me non importa capire, ma solo starti vicino. Oppure se vuoi faccio venire Jack.» Ora toccava a lui tirare frecciatine. Pane al pane.
«Di certo potrei parlare più apertamente con lui.» No, doveva essere uno scherzo. Hahaha, che simpatici, ci sono cascato, ma ora ridatemi la mia Florence.
«Dici sul serio?»
«Si. Con te sono sempre stata sincera. E ora credo che tra me e te ci sia un muro riguardo questa cosa, ma non è colpa tua. E' una cosa che comprendi appieno solo dopo che l'hai provata. Tutto qua.»
Era troppo. Non era un burattino, non era il suo burattino. Non poteva annullarsi completamente per una ragazza. Non lo aveva mai fatto per i suoi genitori, carne della sua carne, ora avrebbe dovuto farlo per una ragazza? Tutto ad un tratto si sentì infinitamente stupido, pensando a come stava cercando di cambiare la sua vita, il suo carattere, solo per lei. E questa sarebbe la riconoscenza? No, non lo reggeva.
«Bene, allora ti lascio al simpaticone del tuo amico.» disse, alzandosi con un enorme sforzo di cuore. Cuore che avrebbe voluto restare lì, chiedere scusa e fissare ancora quegli occhi verdi, ancora meravigliosi anche se sfiniti. Ma no, non voleva. O forse era quello che davvero voleva. Confusione totale.
Si trovava a metà corridoio quando voltò il passo, estraendo dalla tasca la barretta di cioccolato al caramello. La poggiò sul comodino senza alzare lo sguardo. Avrebbe avuto letteralmente terrore dell'espressione assunta da Florence.
«Gustatela con Jack.» Lo stomaco di Frank si strinse convulsamente nel pronunciare la frase. La cattiveria non faceva per lui. Avrebbe voluto chiedere scusa e dire qualcosa tipo “facciamo finta di niente?” e fare la pace. Ma ancora spedì quel pensiero nella soffitta della mente.
Uscì dalla stanza, gli occhi fissi sulle piastrelle del pavimento, tanto per cambiare, bianche.
Camminava lento e a passi pesanti, perchè il suo desiderio più profondo era di sentire ancora quella voce acuta, chiamarlo, o addirittura sentire il calore del suo petto sulle scapole, stretti come una bambina e il suo peluche.
L'ascensore arrivò senza nessuna di queste cose. Freddo e asettico, accolse il corpo tremante dai nervi del ragazzo. Frank si voltò appena prima di premere sul pulsante “terra”: gli sembrò di intravedere uno smeraldo. E c'era qualcun'altro vicino alla barella.
Raggiunse in fretta e furia l'auto. Si muoveva velocemente e nervosamente, non aveva il controllo del suo corpo. Desiderava solo il suo letto caldo e la sua chitarra. Poggiò la mano a lato del sedile, quasi a caso.
Un oggettino di carta gli urtò le dita. Carta e tabacco, o qualcosa del genere. Non si era mai specializzato nella composizione delle sigarette.
Accese quell'ultimo barlume di libertà, assaporando dopo tanto la sensazione del fumo nei polmoni, e per la gola.
Era sulla strada di casa, quando un brutto rumore stridulo si sprigionò dal cofano, e il suo mezzo lo abbandonò. «Che nottata di merda!» ora poteva dirlo.
Dopo un breve esame capì che nonostante la sua praticità meccanica gli ci sarebbe voluto comunque il suo kit di attrezzi per rimediare la situazione. Accostò a fatica l'auto, si chiuse a riccio nel sottile cappotto e prese a camminare verso il 409 di Blue Avenue. Tremava.
Un'auto accostò proprio davanti a lui.
No, di nuovo, no. Impossibile. Doveva essere uno di quegli incubi senza via di uscita, quelli dove ti senti morire e non hai idea di cosa fare. Desiderò di essere invisibile.
Ma il finestrino elettrico della macchina si abbassò, mostrando una chioma bionda e un paio di occhi azzurri leggermente a mandorla.
«Hei, ho visto che hai avuto problemi con la bestia, lì. Posso offrirti un passaggio.» Era gentile, aveva usato il “posso”. E anche molto carina.
Ma Frank non poteva farlo. Non era nella condizione adatta.
Scosse la testa, ringraziando, e riprese a infilare un passo dopo l'altro i pochi chilometri che lo separavano da casa. Santo iPod, era una salvezza.
Le coperte calde e rassicuranti furono un piccolo contentino alla fine di una notte fin troppo stressante. Il sonno girò alla larga.




 

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Capitolo 16
*** Quindici. o Come in uno di quei documentari sugli animali. ***


«Flo, ma che cazzo hai fatto?» La voce di Jack era alterata.
«Niente, ho litigato con Frank.»
«Oh, lo avevo capito. Ma perchè, cristo?» Si prese la testa tra le mani, chiudendo gli occhi. «Quel santo ragazzo ti è stato vicino tutta la notte, ogni volta che venivo a controllare lui era qui a stringerti la mano. E tu per ricambiarlo lo hai buttato fuori malamente. Che ti succede?» Accompagnava le parole con ampi gesti delle braccia, quasi a rafforzare il discorso. La testa era sempre china verso il terreno.
«Ah, grazie! Sei davvero d'aiuto!» Florence d'improvviso stava urlando. «Io sono appena uscita da un incidente in cui potevo lasciare le penne, e tu che sei l'unico che potrebbe aiutarmi mi ti butti contro.» Aveva gli occhi gonfi.
«Non mi ti sto buttando contro, Flo.»
«Invece si, bello stronzo.»
«No.. e calmati. Io sto parlando da amico, e sto parlando per il tuo bene. Se vuoi starmi a sentire è ok, altrimenti me ne vado anche io e resti sola con la tua acidità che tanto ti piace. Non voglio sgridarti come un padre, ma solo farti capire che stai sbagliando. Mi pare di aver capito che ami quel ragazzo, o no?»
«Credo di si. Cioè, si.»
«Allora non ti rendi conto che lo stai facendo fuggire? La vita è tua, te la giochi tu, ma per come la penso io Frank potrebbe già essere a letto con qualche puttana, e non avrebbe torto. Io ti voglio bene cazzo, e voglio la tua felicità, e so che lui ti completa e nasconde tutte le tue debolezze e incertezze. Io ne sono sicuro, non so perchè tu ora non te ne renda conto, è assurdo.»
Quelle parole passarono come carbone incandescente tra la carne di Florence, lasciando un solco profondo, giungendo pesanti e bollenti al cuore. Erano belle frasi, disegnavano bene il suo rapporto con Frank, ma non riusciva proprio a prenderle per il verso giusto. Si sentiva consumare dentro, non tanto per gli attacchi velati di Jack, ma per il fatto che aveva ragione, Dio, aveva ragione.
La ragazza ricacciò indietro le lacrime maledicendosi.
«Vorrei restare sola.» La voce era rotta e spezzata.
Jack uscì a passi lunghi senza aprire bocca. Florence dentro sé lo ringraziò infinitamente e lo maledisse allo stesso tempo.
Prese tra le mani un ciuffo di capelli. Stava sfuggendo da quella frase: “Frank potrebbe già essere a letto con qualche puttana, e non avrebbe torto”. E non avrebbe torto.
Pensò alla discussione con Frank. Aveva avuto una specie di raptus, qualcosa che da dentro era esploso travolgendo qualsiasi cosa nella sua deflagrazione. Perchè lo aveva fatto? Perchè sfogarsi sul suo ragazzo? Le era sembrata la cosa migliore, come se lui fosse di sua proprietà, obbligato a ricevere tutta la frustrazione senza muovere un muscolo. E invece i muscoli li aveva mossi eccome, giustamente. “Cristo, non sono la regina del mondo. Sono solo una stupida idiota che ha fatto fuggire un ragazzo d'oro.” Florence era stata egoista, stupida e presuntuosa. Si sentiva una cattiva persona, aveva un peso sullo stomaco, un masso indistruttibile.
Voleva solo tornare indietro, provare per una volta a pensare prima di agire, salvare il sorriso di quella stella.
Doveva stare ancora parecchi giorni a letto, secondo gli ordini dei medici. Gli ordini dei medici. Ah, fanculo i medici!
Saltò fuori dal letto. Impiegò un attimo per prendere l'equilibrio, poi barcollò verso i suoi vestiti, in un angolo. Puzzavano, ma doveva accontentarsi. Si accorse di non avere l'intimo, così dovette infilare i jeans senza nulla sotto. Il suo sesso si ribellò, ma lo ignorò proseguendo verso la porta, col cappuccio tirato sul volto. Pregò Dio, Superman, o chi per loro, di non essere fermata da nessuno. Per fortuna a quell'ora della notte l'ospedale era semi-deserto. Usò le scale di sicurezza per arrivare al parcheggio. Jack aveva appena avviato l'auto.
«Ehi, tu, fermo!» Si avvicinò alla vettura. «Ti prego, stella, scusa. Ora mi serve un passaggio. Devo andare da Frank prima di qualche puttana.»
L'amico rise aprendo la portiera e accogliendola con un abbraccio. «Sei matta totalmente.» E partì lentamente.
Arrivati in Hampton Street era quasi l'alba.
«Secondo me se lo svegli ora ti prendi una Telecaster in faccia.»
«Tanto sono già a pezzi di mio. Sto per svenire, mi darebbe solo il colpo di grazia.»
«Wow, ottimismo. Ma sei sicura che ti voglia parlare dopo come lo hai trattato?»
«Vedrai. Voglio solo spiegargli che ho sbagliato, chiedergli scusa, perchè me la sono presa con lui credendolo capace di ricevere qualsiasi sfogo, invece anche – soprattutto – lui è fragile e debole. Lo amo, non posso stare senza lui, e me ne sono accorta solo ora. Voglio provare ad aggiustare le cose.»
«Okay, ma io non voglio entrarci. E' tra voi due. Ma comunque se hai bisogno sono in zona.» Jack fece per andare verso l'auto, mostrando le grandi spalle e la folta chioma ramata. Poi un dietrofront. «Flo, sii donna. Ti voglio bene.» disse lasciando un bacio sulla pallida guancia della ragazza. Era davvero in un cattivo stato, ma era convinto che Frank si sarebbe preso cura di lei.
La rossa avanzò a passo lento verso la porta, e suonò timorosamente il campanello.
Si sentì un rumore confuso di cianfrusaglie spostate, poi dei passi pesanti in avvicinamento.
«Sono le cinque e mezza, e se sei un postino stavolta ti uccido!» La voce era impastata, e quando Frank aprì la porta aveva ancora gli occhi chiusi. Portava solamente un paio di boxer, aveva i capelli spettinati, e puzzava di fumo, ma Florence non riuscì a nascondere un forte fremito.
«Ciao.» Il ragazzo si stropicciò gli occhi e spalancò le palpebre.
«Ciao. Cosa vuoi?»
«Ti prego fammi parlare e non sbattermi la porta in faccia.»
«Sto avendo la tentazione..»
«Scusa. Davvero, ti chiedo scusa. Sono stata stupida, egoista, idiota, e qualsiasi cosa. Voglio essere sincera con te, come sempre. Ero convinta di poterti usare come spugna, che tu assorbissi tutti i miei problemi lasciandomi solo il meglio, stendendo perennemente un tappeto rosso sulla mia vita. Non ho pensato a quel ragazzo indie che si copriva dalla pioggia con la maglietta, non ho pensato alla tua fragilità e alla tua anima. Ho solo colpito, come se tu fossi obbligato a ricevere tutta la mia frustrazione. Ma io, amore, non ce l'avevo con te. E' che mi sei capitato lì e non ho ragionato e.. Dio, scusa, perdonami. Mi sento sola. Anzi, senza te non mi sento. Non mi sento. Non sento nulla dentro me. Tu mi completi. Perdonami, per favore.»
Frank si passò le mani sul volto. Prese un respiro lento, restando immobile.
«Stanotte sono stato male. Mi sentivo solo come un cane. Ma devo essere sincero, mi aspettavo che tornassi. Sei troppo intelligente per non capire di aver torto. E a me basta questo. Che poi ammettilo, sei venuta a quest'ora perchè sapevi di trovarmi rincoglionito e che quindi ti avrei perdonato, vero?»
«Hahahaha si, piccolo segreto di donna.»
Il ragazzo assunse un'espressione del tipo “come devo fare con te”.
«Dai, entra dentro, che fuori è freddo e hai un aspetto schifoso. Ah, e sai di vomito. E ti amo.»
«Sei uno stronzo.» A questa frase seguì un lungo bacio della pace ritrovata. Senza sesso, senza passione. Solo labbra su labbra.
«Secondo te cosa danno in tv alle cinque del mattino?»
«I cartoni animati? Da piccola li vedevo appena sveglia.»
«Magari! Dai accendi, io vado a vestirmi.»
«No! Non andare.» Lo sguardo di Frank si fece interrogativo. «Avvicinati.» Il ragazzo le si sedette accanto, sul divano.
«Di più.» Aveva un tono malizioso.
Il ragazzo si stese e poggiò la testa tra la spalla e il collo di Florence, come quando si coccolavano.
Lei, per ricambiare, portò a termine il suo piccolo gioco: morse con delicatezza la pelle di Frank, lasciando un profondo segno.
Messaggio afferrato. «Dai, Flo, sei appena uscita da un'ospedale, avanti. Non è il caso di..»
«Non mi importa quanto male starò dopo, o se mi tirerai via tutti questi cerotti. Ora voglio solo te.» Aveva uno sguardo animalesco, quasi inumano.
«Me l'hai chiesto tu!»
Attaccò la sua amata. Aveva le pupille dilatate e tremava dalla passione. Avrebbe potuto sradicare un albero, tanto si sentiva in forze.
Subito cercò sotto i jeans la pelle nuda, e dopo averla trovata la scoprì dalla copertura dei vestiti.
Fu un sesso duro, passionale, una lotta.
Come in uno di quei documentari sugli animali, in cui non si capisce mai se stanno facendo l'amore o scannandosi di botte.” Aveva sentito questa frase da un suo amico, una specie di cantautore molto particolare che girava sobborghi e pub. Si faceva chiamare “the lights”.
Comunque, quella citazione rendeva perfettamente l'idea. Sapeva che si sarebbe sentito in colpa qualora Florence non avesse retto lo scontro, ma il desiderio superava ogni altro pensiero, portandolo a continuare fino allo sfinimento. Era amore anche quello.
Era già mattino quando crollarono sotto la stanchezza, una tra le braccia dell'altro. Florence era cadaverica, ma soddisfatta e realizzata.
Un sorriso le decorò il volto. Era il primo passo del suo ritorno alla vita.

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Capitolo 17
*** Sedici. o Ora più che mai. ***


Un dolore immenso accolse Frank mentre apriva gli occhi. Sentiva come se qualcosa premesse con forza su ogni centimetro della sua pelle.
Deglutì cercando di togliere dalla bocca la saliva impastata e prese un grande respiro.
In qualche modo si alzò in piedi. Si sentiva male, ma gettò uno sguardo a Florence e...beh, lei era messa peggio. La svegliò comunque, più che altro per accertarsi che fosse viva.
«Amore, io mi faccio una doccia.» sussurrò.
Un verso non ben identificato era una risposta più che soddisfacente. Continuava ad essere preoccupato.
Nonostante tutto era già vestito quando lentamente la ragazza riprese possesso del suo corpo e, seppur mantenendo l'aria vagabonda, si infilò anche lei nella doccia.
«Oh, grazie per avermi chiesto di poter usare il mio bagno, eh!» le fece la mossa l'altro.
«Avanti, mi hai portato a letto un'infinità di volte e ancora ti fai problemi se uso il tuo bagno per rinfrescarmi?»
«Stronza.» fu il commento stizzito.
Dopo parecchi minuti finalmente la rossa fece capolino dal bagno. Il suo fidanzato l'aveva cordialmente aspettata mangiando merendine sdraiato sul divano.
Florence lo raggiunse. Sentì i capelli gelidi che si poggiavano sul suo petto nudo e la testa della ragazza accanto alla sua.
«Stanotte sei stato magnifico.»
Un fremito d'orgoglio. «Come sempre, insomma.»
«Oh, ma siamo modesti!»
«Sei tu che mi inciti!»
Lei rise e gli si andò a sdraiare accanto.
«A letto devi essere sempre così. Ti amo.» disse lentamente, accarezzandolo. Aveva addosso solo un sottile accappatoio, solo la stanchezza fermò l'istinto di Frank di sfilarlo e precipitare ancora nel mare della passione. Si limitò ad abbracciarla e ricambiare le dolci parole.
Il forte squillo di un cellulare li interruppe. Era quello di Flo.
Il viso pallido si illuminò. «E' mamma!»
Incredibilmente, in pochi istanti, quell'espressione gioiosa si tramutò nell'esatto contrario: una maschera di terrore.
Il gelo calò sulla stanza.
Il ragazzo era immobile, in piedi accanto al divano. Continuava a fissare l'infinito tunnel degli occhi di Florence, attendendo un qualche segnale.
Oh, no, non ancora. Non avrebbe retto altre sofferenze, altri occhi gonfi. Altri silenzi. Non avrebbe voluto ancora cingere col suo braccio le spalle della sua donna. E tutti i “mi dispiace”, “è un peccato”, “non doveva succedere” di circostanza, che tanto lo turbavano.
E invece le lacrime iniziarono a scendere sulle guance cadaveriche della ragazza. Si facevano largo con violenza. Il suo corpo era squassato dai singhiozzi. Tremava.
Frank le corse addosso. La strinse al suo petto con forza. Non sopportava quella visione, il suo cuore si stava sgretolando come vecchio intonaco. Voleva fermare il tremore, ricacciare dentro le lacrime, ricostruire pezzo per pezzo quel mondo improvvisamente fatto esplodere.
Prese la testa tra le mani, poggiandola a sè.
In un istante un urlo spezzò il silenzio. Un grido profondo, duro, pieno di dolore. La voce di Florence era straziante, entrava nel cuore conficcandosi come una lancia.
Il muro già debole dell'uomo crollò in un colpo, e anche il suo volto fu rigato violentemente dal pianto.
Aveva capito tutto senza bisogno di spiegazioni. In realtà era un presentimento che aleggiava nel suo stomaco da tempo, ma che non lo aveva mai impensierito seriamente: la madre non aveva resistito all'incidente.
Per un attimo la ragazza tornò lucida. «Dobbiamo andare in ospedale.» disse mentre freneticamente si vestiva. Così fu.
Il viaggio fu uno strazio. Florence, senza pace, continuava a ripetere “è tutta colpa mia, sono scappata, non sono stata con lei” tra le lacrime.
Frank guidava con un solo braccio. L'altro lo teneva su quello della sua compagna. Avevano entrambi fottutamente bisogno del contatto col partner.
Arrivati, velocemente raggiunsero la stanza designata.
Entrando il mondo sembrò crollare attorno ai due giovani amanti: la stanza era fredda e deserta, a parte la piccola barella che troneggiava al centro. La ragazza si bloccò, prendendo fiato.
Poi alzò la testa e infilò un piede dietro l'altro fino a raggiungere la madre. Camminava decisa, con sguardo fiero alto davanti a sé. Frank rimase stupito davanti a tanto orgoglio. Corse a prendere la mano scheletrica di Florence, stringendola tra le sue, quasi a proteggerla.
Passarono diversi minuti che sembrarono infiniti. In silenzio. A ricordare, a provare a dare una motivazione logica alla tragedia, che di per sè un senso non lo ha. Dopodichè lei disse «Andiamo fuori.» correndo verso la finestra che dava sul piccolo balcone. Avevano entrambi chiaramente bisogno d'aria. Usciti, si sedettero sul pavimento.
Doveva essere mezzogiorno, un pallido sole era alto nel cielo.
L'intero panorama di Chicago si stendeva davanti a loro, tutto grattacieli e palazzoni. Ma aveva un nonsochè di pittoresco, di artistico.
Strinsero ancora le loro mani.
«Ed ora che si fa?» chiese a mezza bocca lei.
«Non ne ho idea..» Frank era desolato e imbarazzato, non aveva mai saputo gestire il suo dolore, figuriamoci quello degli altri.
Florence ricominciò a piangere. Ma stavolta silenziosamente, come se non si volesse far sentire, come non volesse infastidire nessun. Invece lui doveva farsi infastdire, doveva reagire ed aiutare la sua compagna. Era sempre stato troppo inutile nella sua vita, era arrivato il momento di far vedere il proprio valore.
Fissò le gemme verdi sul volto della ragazza. «Anzi, ora so che si fa. Si fa che prepariamo qualcosa per ricordare tua madre, tipo un funerale, o quello che vuoi. E poi si fa che tu corri a casa, prendi tutta la tua roba, e ti trasferisci da me. Abbiamo una specie di stanza per gli ospiti, aggiustandola un po' tornerà perfetta.» Aveva detto queste frasi con tutta la forza che riusciva a generare.
Florence sgranò gli occhi. Le lacrime di commozione si unirono a quelle di dolore. Gettò le mani al collo del compagno. Aveva l'aria della bambina che abbraccia forte il suo peluche per scacciare i brutti sogni. Si appendeva a lui per tenere la speranza. Per non far spegnere la sua vita.
«Grazie ma non posso, proprio non...»
«Non era una domanda.»
«No, sul serio. Non ci riuscirei. E se invece ti trasferissi tu da me? Ho tutta la casa libera, ora, credo..»
«Si potrebbe fare. Desidero solo starti il più vicino possibile. Ora più che mai.»
«Sei molto dolce. Ora non ho la minima idea di come andare avanti. Lei era il mio mondo, il mio modello. Ora il mio futuro non ha punti di riferimento. Nero.»
«Beh, il mio non ne ha mai avuti. Non ho mai avuto neanche una certezza. Ma credo di averne raggiunta una: voglio aiutarti con tutte le mie forze a costruire il tuo futuro. E voglio ad ogni costo che coincida col mio. Ti amo.»
«Piccolo, ti prego, non smettere di ripeterlo. Ora più che mai.»


 



Salve miei carissimi lettori! :'3 Inanzitutto grazie moltissime per le visite e le recensioni, che continuano sempre a raggiungere un numero rispettabile u.u
Eh si, sono stato fermo ai box per un po', ma in questa notte tra Pasqua e Pasquetta sono riuscito a ripartire, ed ora ho il serbatoio pieno! Hahahahahaha okay, metafore automobilistiche a parte, sono riuscito a fare pace con la mia ispirazione, e la storia è quasi in dirittura d'arrivo, quindi credo ci saranno molte sorprese (spero che vi piaceranno) per concludere in bellezza la storia di questi due sciagurati u.u

Stay tuned, I love you, Freccia_9

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Capitolo 18
*** Diciassette. o I hope you have the time of your life. ***


«..e poi bisogna fare la spesa e, oh si, ti amo, e prendere roba a lunga scadenza...»
«Frank guarda che scherzavo quando ti ho detto di non smettere di ripeterlo! Saranno trecento volte che lo dici da quando siamo saliti in macchina.» Florence rise.
«Oh, ma che bella riconoscenza!» Amava fare l'offeso. «Va bene, non te lo dirò mai più. Ma il fatto è che sono tentato da morire, oltre che dal gusto di dirtelo, dal fatto che ti faccia ridere, e ascoltare la tua risata mi mette l'anima in pace.»
Lei gli fece gli occhi dolci.
«Avanti, ci conviene smettere di fare i piccioncini tenerosi, ci aspetta molto lavoro.» Sospirarono, assieme.

«Amore credo che le braccia mi crolleranno tra un minuto!»
«Su, avanti, questo è l'ultimo.»
Con un tonfo sistemarono un pesante mobile nella camera ormai completa.
Si sedettero su un'enorme scatolone rovesciato.
«Però la mia nuova camera mi piace, mi ci trovo!» disse Frank facendo delle giravolte da improbabile (ed improponibile) ballerino.
«Poi il pavimento imbottito lo amo! E' bellissimo.»
«Sono contenta che ti piaccia. Mamma lo aveva fatto mettere in tutta la casa quando ero piccola, perchè avevo le ossa molto molto fragili, e la gomma attutiva le cadute. Poi ho fatto delle cure a base di calcio, le mie ossa sono diventate normali, quindi abbiamo tolto la gomma. Ma in camera sua la aveva tenuta, adorava questo pavimento.» Gli occhi le brillarono violentemente.
L'espressione allegra del ricordo lentamente si trasformò in una maschera di rimorso e disperazione.
«Beh, se ne intendeva!»
Frank voleva risultare simpatico, sdrammatizzare, ma al contrario creò un gelo sgradevole nella stanza. Allora mise da parte le parole e abbracciò la sua donna.
Lei crollò in un pianto singhiozzato.
«Sono passati...solo tre giorni...dal funerale...e già sento mancarmi l'aria!» Florence scagliò un bracciale sulla parete, scalfendola.
«Forza, avanti!»
Il ragazzo era imbarazzato, non sapeva come prendere la situazione. All'improvviso si ricordò che una volta era anche timido. Gli sembrò di tornare a quando alle elementari provava senza successo a fare amcizia con qualcuno; a quando al campo di basket dietro scuola tutti lo sceglievano sempre per ultimo mentre i facevano le squadre, nonostante sapessero che era capace di fare 10 triple a partita. Possibile che non fosse cambiato nulla? No, avanti.
Un lampo si accese nel suo sguardo.
Imbracciò la chitarra poggiata in un angolo e fece cenno a Florence di sedersi accanto a lui, sul letto sfatto.
Lei si cinse al suo braccio, da buona dama.
Sottili note iniziarono a riempire il vuoto creato dall'assenza.
«Questa canzone è triste ma a me mette voglia di vivere e di andare avanti.» Frank sperò solo che la sua voce non lo tradisse.
#Another turning point a fort stuck in the road,
time grabs you by the wrist, directs you where to go;
So take the best of this days and don't ask why,
i'ts not a question but a lesson learned in time.
It's something unpredictable, but in the end it's right.#
Ci fu una breve pausa. Gli occhi si scontrarono, le menti si capirono, i cuori si abbracciarono.
#I hope you have the time of your life.#
#I hope you have the time of your life.#
Anche Florence aveva cantato. Solo per quella frase. Solo quella frase. Le due voci mischiate risuonarono a lungo tra le pareti scarne.
«Grazie piccolo.»
«Prego..ma come mai hai cantato anche tu?»
«Credevi di essere l'unico a conoscere i Green Day?» Rise di gusto. «Ma non importa, ti amo lo stesso.»
Lo baciò, stavolta con tutto l'amore e la passione che riusciva a prendersi.
Frank sentì le sue unghie sulla propria schiena, e si lasciò andare.
Kay fu ancora una volta spettatrice di qualcosa di tanto, troppo, più grande di lei.

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Capitolo 19
*** SECONDA NOTA DELL'AUTORE. ***


Salve ragazzi. Dopo tanto mi rifaccio sentire lo so, ma vorrei un po' parlarvi di alcune cose. 
Ho la sensazione di stare subendo un'involuzione nel mio breve percorso da scrittore. In sostanza, mi sento peggiorare andando avanti, invece che migliorare. Questo credo sia influenzato dalla mancanza di ispirazione e dal fatto di dover parlare in terza persona. Col tempo mi sto accorgendo di non essere un gran narratore esterno. Motivo per cui molte frasi, interi periodi, non vengono affatto fuori come voglio. E questo mi dispiace, perchè ogni volta che rileggo qualcosa che ho scritto penso di stare raccontando in modo totalmente sbagliato una storia che di suo potrebbe essere molto interessante.
Comunque, presto pubblicherò qualcosa, perchè 'sti due li ho a cuore e voglio cercare di migliorare almeno negli ultimi capitoli. Poi aprirò una nuova pagina (anzi, un nuovo libro) della mia carriera da scrittore.
Grazie a tutti, sempre e comunque.

Stay tuned, Freccia_9.

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Capitolo 20
*** Diciotto. o Un amore strano tra due ragazzi strani. ***


«Oh Dio, Frank! Sei uno strazio.»
«Ehi, Elvis, guarda che ora ti caccio da casa mia!»
«Tecnicamente non sarebbe tua ma sarebbe della rossa.»
«Già, bravo Nick! E io dico che dovremmo cacciare quel brutto omone laggiù.»
«Avanti, due contro uno? E intanto il brutto omone vi sta preparando il pranzo, razza di ingrati.»
«Vero... Dai, rimani solo per le tue doti di cuoco!»
«Grazie, signori. Ed ecco a voi, direttamente dalla Cina: involtini primavera!» disse Frank portando tre piatti colmi di pietanze.
«E pensare che una volta 'sto coglione non parlava mai, sempre tutto chiuso nelle sue paranoie. Secondo me hai fatto qualche magia, ne sono sicuro!» Risero. Il ritorno di Nick si faceva sentire, eccome.
«Ah, l'amour, l'amour..»

«Oh, comunque, questa roba è molto migliore di quella che c'è in carcere! Amico, che ci hai messo?» disse cingendolo con un braccio.
«Meglio se non te lo dico.» Continuava a mangiare. L'altro alzò il sopracciglio, stranito o spaventato, e poggiò la forchetta.
«Sto scherzando, idiota. E' solo pasta sfoglia, verdure e salsa.»
«Mi hai fatto venire il panico...»
Un lieve sole primaverile inondò il soggiorno, riflettendosi sulla pelle particolarmente pallida di Florence.
Era rimasta in silenzio. Osservare quei due le portava allegria, erano come due gatti che giocano: sembra si stiano scannando, invece è il loro modo di volersi bene. Erano teneri, immersi nella loro infinita infanzia. Per un attimo sembrò rivedere il ragazzo scorbutico con la t-shirt tirata sulla testa. Ogni tanto quel ricordo le sbuca fuori dalla mente. Fuori dall'angolo in cui è sempre stato, e sarà sempre.
Solo Dio può sapere quanto desiderava una situazione del genere. Un'amica del genere. Un punto fermo nella sua vita. Andiamo, sinceramente, Frank ci sarebbe stato per sempre? Non poteva averne la sicurezza. Eppure lui era il solo caposaldo della sua vita.
«Silenzio voi due, smettetela! Sta cominciando Hell's Kitchen.»
«Benedetta tv satellitare.»

«Andiamo al lago? Ti prego, ti prego.»
Un leggero sole andava annegando all'orizzonte, l'aria era ancora molto gradevole.
«Sei sicura? Non mi sembri in gran forma. Sei molto pallida..»
«Sono sempre pallida, ti assicuro che sto benone.»
«Okay, allora si parte!»
Arrivarono dopo una buona mezz'ora, attraversando dapprima palazzoni e centri commerciali; subito dopo, a contrasto, uno stretto sentiero in mezzo ad alberi e cespugli.
Finalmente eccolo. Il lago Michigan, e il suo parco, si stendevano davanti ai loro occhi. Il potere della natura. Lo spettacolo della natura.
«Qui finisce la strada, ci tocca proseguire a piedi. Beh, passeggiata, no?» esclamò un raggiante Frank. «Avanti, dammi la mano.»
Le fredde dita di Florence si strinsero attorno a quelle del ragazzo.
Camminavano calpestando le ultime piccole foglie secche, ed osservando la meraviglia della primavera attorno a loro.
Arrivò la spiaggia. La camminata della ragazza era pesante, affaticata. Frank dovette rallentare notevolmente per stare al passo.
«Flo, sicura di stare bene?»
«Si, si.»
La risposta non lo convinse affatto. La preoccupazione crebbe a macchia d'olio nel suo corpo.
«Solo un secondo, un secondo...» Si piegò sulle gambe. E rigettò.
«SANTA POLENTA FLORENCE WILLIAMS! Vedi che non stai bene, porca miseria.»
La accolse sotto il suo braccio. La strinse al suo petto.
«Cosa succede?»
«Non so.. Mi sentivo bene, poi ho avuto un attacco di nausea ed ecco.»
«Ti sono tornate?» Non aveva esitato un secondo a chiederlo. Era anche questa la forza del loro rapporto. Saper parlare di tutto. Voler parlare di tutto.
«No, veramente ho alcuni giorni di ritardo..»
Oh, andiamo. Tutti i fidanzati pensano immediatamente una cosa quando la loro compagna dice di avere ritardo nel ciclo.
Frank ricacciò dentro il suo stomaco quel pensiero, che continuò ad agitarsi, a dimenarsi rimanendo in un angolo.
«Avanti, su. Come va?»
Lo sguardo della donna era del tipo “mi prendi in giro?”.«Oh, benissimo! Come appena uscita da una spa!»
«Facciamo le simpatiche, ah?» La baciò. Sapeva di vomito e se ne vergognava. Le carezzò dolcemente il mento. «Vieni» disse prendendola per mano.
La notte prese il sopravvento proteggendo i loro corpi provati, stendendo un velo sui segni dei loro volti. Il sonno li abbracciò sulla spiaggia, lontani dal mondo. Lontani da loro stessi.
Un immagine della tenerezza, eccola. Due anime avvolte, incastrate indissolubilmente.
A urlarsi che il mondo è bello.
Urlarsi che andrà tutto bene. Se solo si rimane insieme. Se solo si rimane uniti.
Urlarsi il proprio amore difficile. Urlarsi storie difficili di una vita difficile.
Il loro modo di comunicare erano gli abbracci, i baci. Le loro urla in realtà erano dolci sussurri. Era il loro modo di dirsi “sei il mio universo”. Un modo strano per dimostrare un amore strano tra due ragazzi strani.


Un timido raggio di sole colpì la schiena nuda della ragazza. Frank percepì il suo seno stringersi al proprio petto.
«Ho freddo.» Voleva essere abbracciata. Sentire il calore interno del suo amore sulla pelle. La sottile coperta non svolgeva al meglio la sua funzione.
«Capitan Ovvio. Ci saranno quindici gradi e tu sei completamente nuda su di me. E io ho sonno.» Non proprio il risultato sperato.
«Antipatico.» Prese a baciarlo sul petto. Aveva imparato ormai dove colpire per abbattere ogni difesa. Si chiese, un po' spaventata, se non stesse davvero imparando ad amare. Magari si. Comunque Florence guadagnò un posto al caldo tra le sue braccia.
«Mi piace fare sesso con te.»
«A me fa sentire vivo. E poi con una bomba sexy come te non resisto proprio.» La lucidità aveva ripreso il controllo.
«Oh, come sei dolce... Ma non lo faremo troppo spesso?»
«Ma no, siamo ragazzi, è giusto. Non credi? Poi a me piace, e da un po' ho deciso di fare tutto ciò che mi piace. Come sicurezza, nel caso che domattina io venga stirato da un tir, non si sa mai.»
«Bella filosofia, poeta.» Lo prese per il naso.
«Beh vuoi dire che non ti piace?»
«Nono, non fa una piega.»
«Ma ti ricordi le nostre prime litigate? A ripensarci mi sento un bimbo. Tipo di quelli che si offendono quando gli togli il giocattolo da sotto al naso, anche se non lo stanno usando.»
«Ovvio che le ricordo. Beh sinceramente anche io un po' mi vergogno, ma sono esperienze. Non devi disprezzarle. Prendile come le esalazioni di monossido di carbonio del nostro amore. Avevamo bisogno di scaricarci, di tirare fuori qualcosa. Ecco come la vedo io.»
«Beh, con questa mi hai levato il nobel per la letteratura, devo ammetterlo. Brava la mia piccola filosofa.»
«Tutta questa dolcezza ti farà diventare diabetico.» fu il commento laconico. Ma gli abbracci arrivarono comunque, puntuali.
Frank poggiò la testa sulla tenera pancia della ragazza, carezzandole i capelli. Percepì dei movimenti sotto il suo capo. Lasciò naufragare i pensieri assieme alle onde del lago, lontani.


 

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Capitolo 21
*** Diciannove. o Aiuto. ***


Franklin era solo in un enorme salone bianco. Degli specchi spiccavano sulle pareti, sparsi. Passandoci davanti la sua immagine non veniva riflessa.
Una porta si aprì. Entrò un cameriere, di quelli di alta classe, capiamoci, con tanto di cravattino e carrello pieno di piatti coperti. Erano tutti in fila, uno dopo l'altro. E ad uno ad uno il maggiordomo andò a scoprirli.
Il ragazzo si stava preparando ad un bel pranzo, faceva spazio già nel suo stomaco. Eppure, nel primo piatto non trovò del succulento pollo arrosto, ma una chitarra. La sua. Blair, una Telecaster color azzurro evidenziatore. Tralasciò il fatto assurdo che la copertura del piatto era decisamente più piccola della chitarra, quasi come se questa fosse ripiegata su se stessa.
Blair doveva essere in riparazione.
Vi si lanciò, bramoso di musica, ansioso di sfogarsi su quelle sei corde. Il cibo avrebbe potuto aspettare.
C'era vicino, ma si sentì bloccare. Qualcosa lo tirava verso la direzione opposta, con una forza degna del miglior Thor.
Una catena metallica nera era ben saldata alla sua caviglia. Per collegamento, capì che il peso era legato lì.
Si voltò di scatto.
Un neonato. Un neonato teneva in mano l'altro capo. Stringeva con entrambe le mani, ma non sembrava neanche fare troppa fatica. Era rilassato, sorrideva sotto i suoi grandi occhi verdi.
Nel frattempo l'uomo aveva portato via la chitarra, ed aprì il secondo vassoio.
Una palla da basket. Anche in questo caso la dimensione era decisamente eccessiva per stare sotto al coperchio, ma ormai era tutto così assurdo che la cosa passò in secondo piano. La stessa attrazione di pochi istanti prima lo spinse verso il carrello. L'amore verso lo sport lo aveva animato fin da bambino. Ma ancora, si bloccò. Ancora quel poppante. Era irritante oltre ogni cosa perchè stava sorridendo. Pareva soddisfatto.
Frank si dimenò, provò a strisciare, tirò con tutta la sua forza. Desiderava solo liberarsi, fuggire. Era tutto così stupido, così inutile. Urlò,battendo i pugni sul pavimento lucido. La sua voce risuonò vuota nell'enorme stanza.
Corse zoppicando verso l'oggetto del suo tormento. Tentò di prendere in braccio il bimbo, ma pesava come fosse fatto di piombo. In preda all'ira gli sferrò un calcio, ma quello rimase immobile. Rise. I pochi capelli gli rimbalzavano sul capo.
«Dio, cosa succede? Aiutatemi
»
Evidentemente era solo nel raggio di chilometri. Per quello che ne sapeva poteva benissimo essere su Marte.
Intanto anche la terza ed ultima portata gli si mostrò. Ancora, niente cibo. Una foto. Una sua foto, mentre baciava Florence. Gliel'aveva scattata Nick il giorno del loro primo anniversario. In quell'immagine la sua ragazza splendeva di una strana luce, era davvero bella.
Come sopra una fiamma, la carta prese fuoco cominciando ad accartocciarsi. Frank corse, ma fu di nuovo bloccato, cadendo col volto al suolo.
Scoppiò a piangere, disperato. Rimase steso, il corpo nudo rabbrividiva a contatto con le gelide mattonelle.
Sentì il fiato mancare, e la stanza svanì lentamente.

Si stropicciò gli occhi cercando di affondarli nel buio pesante della sua stanza da letto. Sentì il sudore freddo appiccicarsi sulla schiena, lasciandolo boccheggiante in cerca d'aria.
Avvicinò il capo a quello di Florence, stesa accanto a lui.
«Aiuto.
»

 


Hi :'3 Allora, comunicazione di servizio: questo capitolo è piccino perchè rappresenta nella mia mente un flash, un episodio, che dovrebbe servire a far capire un po' l'umore turbato di Frank, ma anche ad avvisarvi che sono vivo u.u
Ci siamo, è la volata finale, scusate se vi faccio aspettare ma davvero non riesco a fare di meglio.
Stay tuned, Freccia_9.

 

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Capitolo 22
*** Venti. o Ho preso coraggio. ***


Camminava spesso da solo. Aveva occasione per pensare. Quasi che il silenzio gli rendesse possibile ascoltare il rumore sordo della sua coscienza.
Infilava un passo dopo l'altro nelle tenebre di Hampton Street. Alle tre e mezza della notte non c'è un'anima. Ma nel vero senso della parola, neanche il classico cane randagio. Proabilmente gli avrebbe fatto compagnia, un cane.
Voleva farlo Florence, ma era crollata nel sonno mentre si stava vestendo, e sarebbe stato davvero cattivo svegliarla ancora. Poi era così tenera, addormentata con una gamba infilata nei jeans e l'altra nuda, mutanda in microfibra ben visibile.
“Walking Alone” dei Green Day uscì dalla riproduzione casuale del suo iPod. Giust'appunto.
Chiuse gli occhi sedendosi sul ciglio della strada e si lasciò cullare dalle graffianti note dell'armonica. Anche l'aria era pungente, nonostante fosse praticamente estate.
Raccolse un piccolo pezzo di vetro. A specchio.
Franklin Turner. Provò un po' impressione vedendo il suo faccione riflesso. La fioca luce risaltava tutte le sue rughe d'espressione e soprattutto le occhiaie. Maledetta insonnia.
Guardandosi negli occhi aveva l'impressione di entrare in sé stesso, una specie di tour guidato della sua anima. Una volta ne aveva parlato con Nick. L'amico aveva risposto laconicamente “'Sto viaggio dev'essere peggio di quello di Dante all'inferno, fidati.”
Un risolino gli sfuggì ripesando alla scena. Che poi, chi cazzo era Dante? Uno scrittore italiano, forse, sì. Era originario di Firenze. Sicuro al 90%. O forse era Venezia? Le confondeva sempre. Ma no, a Venezia c'è l'acqua. E le gondole. Dante in gondola non ce lo vedeva. Anzi, non lo vedeva proprio, non se lo figurava. Avrebbe dovuto ripassare letteratura straniera. Ma chi se ne importa? Tanto aveva deciso di ritirarsi passato il terzo anno di liceo.
Che discorsi che si fanno alle tre e mezza di notte seduti da soli al buio sul ciglio di Hampton Street.
Il silenzio era talmente opprimente da sembrare solido. Una coperta di flanella poggiata su tutto. O qualcosa di simile. Comunque molto pesante.
Il silenzio gli dava occasione di svagare coi pensieri, senza distrazioni. La mente tornò a quasi due anni prima. A quando il principale svago era sbronzarsi con Nick. A quando l'unica via d'uscita alla depressione, l'ora d'aria dalla routine quotidiana era la musica. La sua chitarra. I Green Day. “It's not over 'till you're underground” era ancora scritto col pennarello indelebile in camera sua. Era tutto così triste ma così alternativo. La vita in solitudine/perenne abbattimento gli piaceva un sacco. Più di Florence? No, no di certo.
Ma a mancargli era il poter sperare che qualcuno arrivasse a toglierlo dalla solitudine e lo prendesse tra le sue braccia, accettandolo ed esaltandolo per ciò che è. Amandolo per ciò che è. Continuare a coltivare un sogno. Quel sogno così gelosamente custodito che era diventato realtà materializzandosi nella persona di Florence.
Diventando realtà era però diventato routine. E diventato routine perdeva tutto il fascino dei sogni. Già. Perchè a volte abbiamo dei sogni, dei progetti di futuro talmente belli, che quando essi si realizzano rimaniamo comunque un po' delusi. Perchè sono talmente grandi e potenti da perdere significato a contatto con la realtà.
Andiamo, aveva tanto sperato di trovare la sua metà e ora rimpiangeva la vita da sfigato?
Sfilò dalla tasca la foto della ragazza. Risaliva a pochi giorni prima, in spiaggia. Si incantò fissando gli occhi smeraldini. Poi posò lo sguardo sul piccolo rigonfiamento sul bacino. Lo trovava tenero. Non ne avevano parlato mai, continuando a nascondersi dietro un dito, ma quello e le nausee erano dei chiari segni. Anche se Florence continuava a rimandare le visite dal ginecologo.
Il panico lo assalì. E se avesse paura di fare una famiglia con lui? Non lo avrebbe accettato. Ma allora perchè invitarlo a convivere? Mise da parte i dubbi e la fiducia ebbe la meglio: la sua compagna aveva solo timore di sentirsi dire che custodiva un bimbo in grembo.
In quella foto era meravigliosa.
Un tenue raggio di sole lo colpì sul volto. L'alba inondò Chicago con le sue tinte rosate. La natura ci teneva a ripetere il suo spettacolo. Quello non diventava mai routine.
Frank si alzò. Le gambe addormentate cedettero, e impiegarono alcuni minuti per tornare al lavoro. Una volta attivato, si diresse verso il forno della città.

«Amore, ho i cornetti caldi!»
Ma il letto era vuoto. Solo un post-it sul muro. Era scritto male, di fretta.

- Ormai è inutile nascondersi, ho preso coraggio. Aspettami per la mattinata. Ti amo più di ogni altra cosa.

Florence. -  


 


Ciao bellissimi :'3 Allora, dopo tanto ho partorito un'altro piccolo capitolo, mi sto centellinando! Anche questo preannuncia alla fine. Ma per la prima volta vorrei fare dei ringraziamenti. Grazie a TUTTI i miei amici, ma soprattutto a quella che su EFP è nota come Fallin, perchè con la sua storia e la sua irresistibile simpatia mi ha ispirato davvero tanto questa volta <3

Stay tuned, Freccia_9


  

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Capitolo 23
*** Ventuno. o L'aria sembrava non entrare più. ***


Il dottor Dawson era il tipico esempio di dottore. Proprio come lo immaginate. Camice bianco, occhiali, pettinatura perfettamente tirata all'indietro; uomo in carriera, mai una pecca, mai un foglio fuori posto, tutto casa e lavoro, tutto casa e lavoro, con moglie e due figli (ovviamente maschio e femmina). Ginecologo, era diventato primario del suo reparto al St. James, per poi decidere di abdicare e dedicarsi al suo ambulatorio personale.
Quel mattino di venerdì gli portò una sorpresa. Qualcuno era riuscito nell'impresa considerevole di anticiparlo sul posto di lavoro. Una giovane ragazza in sala d'aspetto giocava coi suoi capelli fiammanti.
«Buongiorno, so che avrà mille appuntamenti in agenda, ma le chiedo cinque minuti del suo tempo. E' importante.» Aveva aggiunto le ultime parole come per paura di non essere stata convincente.
Profonde occhiaie le solcavano il viso sicuramente non dormiva decentemente da giorni. Forse da settimane.
Cinque minuti del suo tempo, non poteva rifiutare.
«Prego, si accomodi.» disse aprendo la porta candida.
Florence non potè non notare l'oggettiva bellezza di quell'uomo. Scacciò il pensiero, non era su MTV.
Si sedettero ai lati di una scrivania anch'essa rigorosamente bianca.
«Mi dica.»
«Credo di essere incinta.» La voce le tremava.
«Beh, questo non posso dirlo subito io. Almeno, non ora. Però posso controllare che sia tutto a norma e prescriverle lastre e analisi giuste. Ma prima devo compilare la sua scheda.»
Iniziò la sfilza di domande che esattamente furono:
- Dati anagrafici.
- A che età ha avuto le prime mestruazioni?
- Quanto dura attualmente il ritardo?
- Ha già avuto ritardi simili?
- E' vergine?
Diciamo non esattamente le domande che ogni donna vorrebbe sentirsi porre. Ma lei strinse i denti.
Fece lo stesso anche quando sentì il dottore entrare nel suo intimo ed esplorarla, spingendo al contempo sul monte di Venere.
Era una sensazione spiacevole. Fino a quel momento l'unico ad essersi spinto fin lì era Frank. E non era paragonabile ad un guanto di plastica che si muoveva in lungo ed in largo. Si sentiva osservata, con le gambe poggiate a quelle aste e tutto il suo sesso esposto. Non si fidava del dottore. Avrebbe dovuto? Si era pentita di averlo fatto. Voleva fuggire.
Finalmente la visita terminò.
«Signorina, complimenti, lei è sana come un pesce. Ed ecco qui..» proseguì scribacchiando incomprensibilmente su vari fogli «..le prenotazioni per analisi del sangue, delle urine e lastre. Sono fissate per martedì mattina, le crea problemi?»
«No, si figuri, perfetto.»
«A posto. Ora, mi scusi ma ho degli appuntamenti urgenti.» disse il dottore andando verso la porta. Non aveva mai smesso di sorridere.
«E' stato un piacere, torni pure venerdì prossimo in mattinata con i risultati delle analisi per avere il verdetto definitivo.»
«Grazie mille, a presto.» Florence mangiò le parole coi pensieri.

Frank aspettava da ore guardando i suoi dvd sulla storia della Formula Uno (aveva inserito per ben 5 volte quello delle infinite lotte Prost-Senna-Mansell) quando il campanello trillò.
Balzò oltre il divano spalancando la porta.
«Ciao amore.»
Florence aveva i capelli davanti al viso. Era terribilmente pallida e sudaticcia. Ma sorrideva. Un sorriso forzato, ma pur sempre un sorriso.
Frank la fece entrare stando in silenzio. Il cuore gli usciva dal petto.
«Sono stata dal ginecologo e..»
Il ragazzo era in apnea, stava morendo. Cercava ossigeno. Aria.
«..martedì ho da fare delle analisi e venerdì saprò se sono incinta o no.»
«Ma vaffanculo, mi hai fatto prendere un infarto! Potevi dirlo subito.» e tornò a sedersi con le gambe incrociate davanti al televisore.
«Guarda che il fatto che ancora so se porterò un bambino nel grembo non ci vieta di fare l'amore.» disse lei raggiungendolo e coprendogli la vista.
Si allungarono sul pavimento bianco e Frank spense la tv. Tanto la guida di Fangio lo aveva sempre annoiato.

Dopo alcuni minuti qualcuno aprì la porta rimasta socchiusa. I due amanti, ancora aggrovigliati, si voltarono di scatto.
«Buongiorno, ho portato le..» Nick si bloccò a bocca aperta «..okay,tranquilli,ripasso dopo..» aggiunse subito, facendo dietrofront. «Certo che scopate come ricci!» Esclamò, prima di chiudersi la porta alle spalle.
Florence e Frank risero a crepapelle per ore, fino a farsi lacrimare gli occhi. Ci volle un po', ma non appena riancquisirono la lucidità poterono tornare alle loro faccende, tornare a dimenticare tutto il resto.

«Mi raccomando, fammi sapere appena riesci, intesi?»
«Si, Frank! Sono ottocento volte che lo ripeti.»
«Scusa, sono in ansia.»
«Se lo sei tu figurati io.»
«Volete finirla voi due?! Mi mettete le ansie anche a me, tra poco anche le vostre ansie avranno le ansie.»
Fissarono entrambi Nick con espressione corrugata. Lui dal canto suo continuava a masticare patatine steso sul divano.
«Okay, il discorso non ha molto senso, ma ci siamo capiti, no? Flo, tu vai che rischi di fare tardi, e Frank si siede qua vicino a me, che tra poco c'è il sorpasso di Hakkinen a Schumacher col doppiato in mezzo, una meraviglia!»
«Eccomi!»
Florence sorrise al ragazzo, ammiccando. Non si salutarono. A Frank bastò ricambiare il sorriso. E attendere.
Rimase sul ciglio della porta guardandola camminare verso la macchina. Indossava un vestitone colorato. Di solito li portava quando si sentiva male e voleva nasconderlo. In ogni caso, era bellissima. Portava i capelli legati con una lunga coda.
Lentamente l'utilitaria diventò un puntino all'orizzonte e sparì. Rientrò in casa e si sedette di peso sul divano. Sentiva i polmoni chiusi, l'aria sembrava non entrare più.
Passò un'eternità (e ben 4 dvd) prima della fatidica chiamata.
Frank cadde nella corsa per raggiungere il telefono. Rispose, tenendosi la caviglia mentre saltellava su un piede solo.
«Pronto.»
«Ciao, sei papà.»


 

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Capitolo 24
*** TERZA NOTA DELL'AUTORE. ***


Saaaaaaalve! Si, potete linciarmi ed insultarmi quanto volete per essere stato via un mese praticamente, quindi mi scuso dal profondo.
Però porto piccole news :'3 Una di tipo personale, cioè che credo di aver trovato la persona con cui condividere la mia vita in questo momento, lei mi ricambia, e sono felice come non mai! Le altre sono legate alla storia: sto spremendo tutti i miei neuroni per sfornare un ventiduesimo ed ultimo capitolo che voglio sia il più bello ed il più ricco, ma anche un piccolo epilogo, sullo stile dell'ultimo capitolo del settimo libro di Harry Potter (per i meno esperti del settore, s'intitola "19 anni dopo") **
Dovrei riuscire a pubblicare il tutto in un mesetto, salvo contrattempi, e sono pronto per le vostre (spero molte) visite e recensioni, a presto!

Stay tuned, Freccia_9.



Aggiornamento del 04/08/12, ore 2.47:

Ragazzi me la sono un po' tirata. La mia ragazza è andata in vacanza in Inghilterra due settimane, e al suo ritorno la prima cosa che ha fatto è stata lasciarmi per andare con un'altro che era con lei a fare la vacanza-studio. Non è piacevolissimo, tra tre giorni avremmo fatto un mese assieme e come prima storia è finita abbastanza di cacca. Però il vostro finale è in costruzione e a buon punto, arriverà :3

Peace & Love

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Capitolo 25
*** Ventidue. o Dentro la vita. ***


«Guarda che potresti anche scendere dal frigo, ci sei da un'ora.»
Frank continuava a dondolare sul sedere con le ginocchia strette al petto. Silenzio.
«Se ti dico che sembri un bambino autistico rinchiuso in un centro psichiatrico in isolamento, scendi?»
«Un neonato piange e sgrotta ad ogni ora, capisci? Anche alle tre della notte. E poi richiede cose. E le cose costano soldi. Io non ho soldi. Non posso farcela, è matematico.»
«Beh, in effetti...»
«Dovresti tirarmi su il morale, secondo copione.» Continuava a fissare un punto sopra la testa di Nick, come se l'amico avesse l'aureola.
«Sei nella merda, ti ci sei messo tu, perchè dovrei tirarti fuori?»
«Con te, in carcere, io l'ho fatto.»
L'altro prese una manciata di pop corn dal sacchetto fumante caldo di microonde. «PORCA PUTTANA SCOTTANO!» urlò, poi prese a soffiarsi sulla mano.
«In ogni caso, hai ragione. Ti aiuterò. Peccato che non abbia mai tirato su un pargolo, sai com'è, non sarei utilissimo.»
«Invece si. Hai la faccia di uno che ci sa fare coi bambini. I bambini adorano i playboy, fighi, single.»
«Si, si, per gli autografi ci vediamo dopo!» ammiccò.
«Anche se quando fai così sei odioso.»
«E tu crescerai tuo figlio da solo. E ti vomiterà sulla maglia degli Arctic Monkeys. Si, quella col faccione di Matt.»

«A pensarci bene non sei proprio tanto odioso. No, affatto.»


«Guarda qui, Flo. Barista, appena fuori città, 4 sere ed 1 mattina a settimana, giorno libero Martedì e Giovedì, 1000 dollari mensili. Mica male.»
«Tu? BARISTA? Hahahahahahaha hai rotto due piatti e tre bicchieri solo da quando sei qui. Cerca ancora, va.» Continuò a ridere. Le vene pulsarono sulla fronte del ragazzo. Sguardo di odio puro.
«Eccolo. Aiuto elettricista, piccoli lavori, 5 giorni a settimana, week-end libero. 800 dollari mensili.»
«Questo sì!»
«Cioè, aspetta. Siamo d'accordo, finalmente? Non ci credo, ora scenderà ancora Gesù Cristo con tanto di stigmate. E si metterà a suonare highway to hell.»
«Highway to hell, sei matto? Al limite stairway to heaven.»
«Gesù è un tosto, un tipo ribelle, te lo dico io!» Cercò di convincere la ragazza facendo ampi cenni col capo.
«Tu sei tutto fuso.»
Ci fu un bacio di quelli duri, aggressivi. I due sembrarono voler strapparsi pezzi di labbra a vicenda.
«Ora telefona per questo fottuto lavoro.»


«Cosa vuol dire che devo avere un minimo di esperienza per lavorare, se per accumulare esperienza devo lavorare?! Capisce che è un giro inutile?»

«Ma io la capisco, solo le chiedo di darmi fiducia, ho una famiglia che sta per sbocciare.»

«Non cerco di farle compassione, assolutamente. Io.. No, non ha cap..»

«Se non mi assume le do fuoco al furgone.»

«Benissimo, allora ci vedremo lunedì per la prova, è stato un piacere, tante care cose!»
Un lieve “click” sbuffò nell'aria.
«Le frasi intimidatorie da gangster funzionano sempre, hai visto?» proclamò Frank allungando il pugno verso Nick, che ci sbattè con forza il suo.
«Sei un cazzo di genio.»
«Non c'è spazio per mammolette nel mondo del lavoro, ahah!»
«Ma sentiti, mi sembra un comizio elettorale. Magari al primo giorno mandi a fuoco una casa per un corto circuito e ti tocca pure pagare i danni.»
«Wow, tu si che mi dai botte di autostima!»
«Quando vuoi, fratello!»
«SMETTETELA DI AZZUFFARVI, VOI DUE!» Il tono da mamma severa di Florence rieccheggiò per l'appartamento; faceva già le prove.
Fece capolino dietro lo stipite della porta, cercando invano di nascondere il pancione di ormai 3 mesi.
«Allora, trovato questo cazzo di lavoro?» Magari le parolacce le avrebbe dovute abolire.
«Yeah, ho già fatto la prima minaccia di morte al mio datore di lavoro!»
L'espressione della TestaRossa (l'ultimo originalissimo soprannome di Nick) era tutto un programma. Sembrava dire “guarda tu se proprio io sono dovuta capitare con un tale idiota”. Abbassò la testa. Frank la rialzò dal mento, fissandola negli occhi. «Andrà tutto bene, ce la faremo. Ce la faremo, amore, promesso.»


Col tempo Florence stava cadendo nella trappola che aspetta tutte le donne in dolce attesa: la paranoia. Mangiava pochissimo, beveva solo acqua («Le bibite gassate fanno male al piccolo!») vomitava troppo spesso, e aveva voglie assurde ogni notte (che Frank era costretto a soddisfare correndo in lungo e in largo per Chicago. Dove cazzo lo trovi il mango che ha mangiato a dodici anni?!). Soprattutto era altamente irritabile. Non passava giorno senza una discussione col compagno. Ed erano ancora al sesto mese, Cristo!
In quel cupo pomeriggio di inizio settembre l'aria aveva odore di ruggine.
«Flo, dobbiamo parlare.» Frank la trascinò dal gomito, dalla cucina alla camera da letto. Si sedettero.
«Dimmi.»
«Cosa ti succede? Cioè, okay, quella incinta sei tu e io non posso capire, però sei cambiata, cazzo. Non sei la Florence che mi ha convinto a metterle un neonato in grembo.»
«A proposito, la prossima volta mantienila viva la tua scorta di profilattici, onde evitare “piccoli” inconvenienti.»
«Vedi?! Ora come dovrei rispondere? “Oh scusa, mi dispiace, comprerò altri preservativi, tu intanto abortisci con calma”?
E' successo, punto. Né io né tu possiamo farci niente, ci siamo dentro fino al collo. Dobbiamo restare uniti, e affrontare quest'avventura assieme. Assieme. A me sembra che tu stia facendo di tutto per allontanarti, come se ti divertisse. E' un incubo, capisci? Ti sento dimenarti, sfuggire dalle mie mani. Se c'è qualcosa che non va dimmelo, non chiuderti. Lasciami ancora essere parte della tua vita.»
Frank aveva parlato a lungo, guardando il terreno. Alzò la testa. Tante piccole lacrime stavano rigando le guance pallide accumulandosi sul mento. Florence era scossa dal pianto, un pianto duro, profondo, proveniente dalle parti tra il cuore e lo stomaco. La schiena rimbombava al ritmo dei singhiozzi. Si prese la testa tra le mani.
«Ehi, no! Flo, no, va tutto bene. Non fare così, mi sento una merda.»
«Hai ragione, cazzo, hai ragione! Sono stata.. un'idiota.. ma non mi controllo, sto totalmente perdendo il mio corpo.. lo sento sbagliato, fuori misura. Cosa mi sta succedendo? Non volevo essere scontrosa con te ma.. non so cosa..»
«Ehi, va tutto bene. Zitta. Dimentica tutto, svuota la mente, okay?» disse Frank cingendola con un braccio
Lei annuì.
«Ti amo, sai?»
Florence strinse l'abbraccio forte, davvero forte, fino a sentire tutte le ossa del compagno a contatto con le sue.
«Il sesso è proibito, se sono incinta?»
«Mannò, piccola, dovrò solo fare un po' di attenzione. E diciamo che... uhm... Avremo spettatori!» Frank spalancò un sorriso mentre dava un buffetto al futuro figlio.
«Prendimi, ora.»

«Al limite penserà che gli hanno offerto un, che ne so, Kinder Bueno al cioccolato bianco!»
Frank ormai stava rotolando sul tappeto in preda alle risate, la quarta bottiglia di birra che gli rotolava via dalle mani.
Per la cronaca, aveva appena espresso i suoi dubbi riguardo il sesso con Florence incinta. La risposta di Nick non si era fatta attendere. Certo che di birra ne girava tanta.
Flo era fuori con delle amiche, la avevano un po' costretta, da una parte perchè ormai era chiusa in casa da mesi, dall'altra per tentare di strapparle pettegolezzi e varie come al solito.
E così c'era terreno fertile per una serata playstation&birra tutta al maschile.
Al suo ritorno la donna di casa aveva trovato i due addormentati, abbracciati, sul tavolo. CAZZO, ERANO ABBRACCIATI SUL TAVOLO. Come in una super-diabetica scena di Glee. Li aveva scollati e a forza, lei, la principessa della casa, li aveva trascinati a letto, dovendosi accontentare di dormire vecchio divano mezzo rotto di mamma. “Dura vivere sola con un uomo più un altro bonus!” pensò, mentre il sonno la accoglieva di malavoglia. “E il prossimo è in dirittura d'arrivo, figuriamoci.”

Dall'altra parte della casa, un raggio di sole mattutino si posò sulle palpebre di Frank. Aprì gli occhi sentendo subito le meningi premere sul cranio.
«Dove mi trovo? Tedeschi di merda, non mi prenderete mai vivo!» E con questo grido si tuffò giù dal letto. Di testa.
Un tonfo esplose nell'appartamento.
«Oh, ok, amh.. non siamo in guerra. Coglioncello, ci siamo sbronzati ancora?» disse lanciando una bottiglietta d'acqua vuota sulla testa di Nick. «Uhm, si, no, cioè... CAZZO I TEDESCHI ARRIVANO COI BOMBARDIERI!» E anche lui si gettò da un lato, cadendo sulla schiena.
«Merda, sto per diventare padre, dovremmo smetterla.» disse l'altro mentre si chinava a raccogliere le sue cose. «Vado a cercare Florence.»

«Hei bellezza, che ci fai qui?» Frank corse verso la sua compagna nel piccolo giardino curato (Florence aveva deciso di impiegare il tempo libero in bricolage) proprio davanti casa.
«Ieri sera eravate ubriachi come spugne.»
«Mi sono accorto.»
Il bacio del buongiorno. L'abbraccio delle scuse. La bussata al piccolo.
«Cioè renditi conto, sono tornata ed eravate sdraiati sul tavolo, abbracciati.»
«Oh, cristo, che ansia..»
La presero sul ridere. Solo per poco, un'illusione futile. Florence spezzò letteralmente l'aria: «Hai intenzione di andare avanti così?»
«No, certo che no... Tra poco sarò padre, responsabilità, dare l'esempio, e tutti quei discorsi lì, no?»
«Meno male che lo sai..»
«Scusa, non capiterà più, promesso. Al limite mi troverai un po' brillo, ma nei prossimi anni almeno mai così ubriaco da svenire.»
«Giuralo. Giuralo sulla tua copia di Metal Gear Solid 4 edizione limitata.»
«Ma c'è anche il diario di sviluppo di Kojima, ti rendi conto di che valor...»
«Frank.»
«Okay, lo giuro.» Il pensiero di quella copia, quella vinta nel torneo alla fiera del videogioco, in fiamme, o comunque distrutta.. Beh, valeva tutte le promesse del mondo.
Florence assunse un'espressione da “ben fatto figliolo” e lo baciò.
Lui sospirò rumorosamente. «Ah, che fatica essere papà.»
Chiuse gli occhi e si lasciò andare al fresco prato alle sue spalle.

Il successivo mese e mezzo passò velocemente, molto. Tra i due girava una certa tensione nascosta da sorrisi e baci, ma la si poteva intravedere negli sguardi bassi, sotto la pelle, dove risaltano le vene. C'era l'inesperienza e la paura che qualcosa andasse storto. L'entusiasmo per l'essere prossimi ad una famiglia e l'ansia per i costi che questo comporta. La consapevolezza di dover donare parte della propria esistenza al nuovo nato.
Avevano deciso di tenersi allo scuro del sesso del nascituro. Volevano mantenere l'”effetto sorpresa”. Nick stava sempre più alla larga, capiva la situazione, la gravità, e si limitava a piccole comparsate che tuttavia rallegravano l'atmosfera.
Tutti sapevano che il momento si avvicinava progressivamente, presto ci si sarebbero trovati dentro. Dentro il problema. Dentro la vita.
Per tutti i mesi di attesa non li aveva neanche sfiorati una questione in realtà cruciale: il fottuto nome. Si erano decisi a chiamarlo col primo nome che avrebbero detto appena visto il nascituro. Frank aveva già immaginato il piccolo “CRISTODDIOE'MIOFIGLIO” Turner, cosa alquanto comica.
La maternità aveva fatto riscoprire ai due la tenerezza degli abbracci. Senza baci, senza sesso, semplicemente passare del tempo con la persona che si ama sotto le proprie braccia. Dare il segno del “ci sono, ti sono accanto e sono pronto” senza dover arrovellare mille discorsi.
Erano abbracciati, sul divano, anche nel momento in cui la fine ebbe inizio.

«Vado a predere un bicchiere d'acqua.» Florence si alzò dirigedosi al frigo. I passi lenti e cauti, la testa alta, lo sguardo stanco.
Improvvisamente iniziò a sudare, le pupille si dilatarono: cadde in ginocchio ancora prima di raggiugere la maniglia.
«Oddio, le acque. Oddio, oddio... FRANK!» Chiamò con tutta la voce che aveva in corpo, pur sapendo che il compagno si trovava a pochi metri. Difatti il giovane balzò in piedi, gettando gli occhi terrorizzati al dì là del divano, dall'altro lato della stanza. Sentì il gelo salire dalle estremità fino al centro del corpo. La vista era appannata. I muscoli contratti non avevano intenzione di muoversi.
«CAZZO FRANK VIENI!» La sua ragazza stava per partorire e lui non riusciva a fare un passo. Gran pezzo di idiota. “Dai, è in ginocchio, muoviti ad aiutarla.” pensò. Niente. Il corpo era scollegato dal cervello, i piedi troppo pesanti per muoversi. L'ossigeno pareva scomparso tutto in un tratto.
Tempestivo, Nick ribaltò la poltrona su cui era seduto e corse dall'amico. Uno schiaffo lo colpì sulla guancia, facendolo cadere su un fianco.
«Coglione le si sono rotte le acque, che cazzo hai intenzione di fare? Ora, Frank, caro.. ALZATI E PORTIAMOLA IMMEDIATAMENTE IN OSPEDALE! ORA!»
Il panico lentamente fu mangiato dalla voglia di riuscire. Per una volta doveva portare a termine qualcosa, arrivare in cima alla montagna.
Dare alla luce suo figlio. Doveva farlo.
In un attimo si trovarono nell'auto, Frank alla guida, che teneva la mano a Florence sdraiata sui 3 sedili posteriori, Nick al passeggero con un mucchio di fazzolettini bianchi sventolanti sul braccio appeso al finestrino.
Il percorso sembrava infinito, le macchine accostavano dovunque per fare loro spazio, ma comunque quei pochi minuti passarono come secoli. Nessuno disse una parola. Solo i gemiti di Florence a frantumare il silenzio.
Dal momento in cui arrivarono al Saint James Hospital tutto iniziò ad essere confuso per Frank, come un film mandato a velocità doppia, e nonostante corresse per stare dietro a tutto non riusciva ad avere un briciolo di controllo della situazione. Senza sapere come, venne catapultato in una scialba sala d'attesa bianco latte. Nessun'altro che aspettava nessun'altra donna. La sua, di donna, era stesa su una brandina in una delle tre sale operatorie del corridoio, probabilmente avevano già iniziato le procedure. Nick accanto a lui, come un fratello maggiore, a sorreggerlo. In effetti era pallido da far paura, letteralmente.
«Parto naturale. 5 dollari.»
«Per me fanno il cesareo, conoscendoti tuo figlio si metterà di culo per uscire.» Sdrammatizzava sempre Nick, era una sua grande abilità. Sdrammatizzava ma senza risultare sgradevole, senza dare fastidio, strappava solo sorrisi quando ce n'era bisogno.
“Per quanto andranno avanti?” Era il pensiero fisso di Frank, che ottenne risposta dopo una mezz'ora buona.
«Scusate, emh, chi è il padre?»
«Quello che sembra un cadavere, cioè lui, Frank.»
«Oh, perfetto.» L'infermiera nonostante le scarpe basse era slanciatissima, la silhouette perfetta si stagliava in controluce. «La sua compagna lo richiede, al più presto.»
«Dai, corri!» lo incoraggiò Nick con una pacca sulla spalla.
La sala operatoria aveva il classico aspetto di... una sala operatoria. Andiamo, avrete visto almeno una puntata di E.R., tutti, sono sicuro.
Pieno zeppo di medici e infermieri, tutti impeccabili. Tutto bianco, mobili e apparecchiature, tutto pulito e disinfettato. Le converse verdi lercie di fango rischiavano di autodistruggersi per i complessi di inferiorità.
Si avvicinò quasi gattonando al lettino. Florence era cadaverica come non mai, il viso sembrava arato, tanto erano profondi i solchi. Lo sguardo per una volta spento e cadente si poggiò sul compagno.
Frank si sedette. Le prese la mano. Tremava come una foglia in un uragano.
«Ci sono. Amore, ci sono.»
Dopo due ore di “signorina, spinga” “respiri forte” e varie Frank fu fatto uscire. Avevano deciso che non doveva vedere suo figlio nascere, per qualche arcaico motivo, e lui si limitava solo ad assecondarli. Voleva solo che tutto finisse al più presto. Voleva solo tornare a casa.
Cominciò a girare in lungo e in largo per sfogare i nervi. Zero effetto, restava teso come una corda di violino. Stavolta neanche parlare da solo lo calmò. Chissa cosa stava facendo suo padre mentre lui veniva messo alla luce.
Nick lo seguiva come un ombra. Frank avrebbe preferito restare solo ma alla fine era meglio così, avere qualcuno che lo controllasse. I minuti sembravano dieci volte rallentati, ora. Pensò seriamente che qualcuno stesse manomettendo lo spazio-tempo. Presto sarebbe sbucato Cronos da un portale sul muro bianco.
Invece no, il muro bianco rimase bianco, i minuti continuarono a scorrere in modalità lumaca. L'attesa diventava insostenibile. Frank stava per morire. L'idea che stessero armeggiando DENTRO la sua ragazza, dove solo lui si era spinto, non lo tranquillizzava decisamente.
Un rumore distrusse l'atmosfera.
Un infermiera.
Due infermiere.
Era finita.
Frank ebbe un attacco di vertigini.
«Signore, tutto bene? Suo figlio è nato, può entrare a vederlo. E' di sesso femminile, il parto è stato naturale.»
Gli si erano avvicinate, proprio come avessero paura di uno svenimento.
Nick era andato via, ma magari era solo dietro l'angolo, lo aveva lasciato solo proprio quando doveva lasciarlo solo.
Alzandosi sentì il cuore lottare con la gabbia toracica, e le gambe di pastafrolla. Inciampando entrò in stanza.
Alzò lo sguardo.
Due occhi verdi, stanchi ma felici come non mai.
Altri due occhi verdi. Piccoli. Piccoli e verdi.
Quattro occhi verdi.
«Benvenuta al mondo, Greenie.»


 


Ciao, ciao ciao ciao! Ragazzi, ci siamo, è finita. O almeno, il grosso della trama è finito. Sono sollevato, la storia nel complesso non è venuta come speravo ma sono all'inizio e devo fare tanta esperienza, migliorerò, quindi sono abbastanza soddisfatto di me stesso. Negli ultimi tempi la cosa è diventata quasi un peso, e mi dispiace da morire, spero di non avervi deluso proprio sul finale. Avevo promesso di scrivere un prologo ma penso di riposarmi per un periodo, per cui i tempi si dilateranno. Così, ho deciso di inserire qui i ringraziamenti, di seguito.

Grazie ad EFP perchè mi ha fatto scoprire la scrittura amatoriale.
Grazie a Fallin, o meglio Vale, perchè è stata la benzina del mio motore da scrittore, anche se come al solito mi coprirà di insulti.
Grazie a Nicola perchè questa storia è nata anche grazie a lui e non lo sa.
Grazie a Claudia perchè è stata la prima a leggermi.
Grazie a Claudia (l'altra) perchè c'è.
Grazie a Debbie perchè mi ha fatto scoprire che le parole possono mangiare centinaia di chilometri.
Grazie a Carla perchè è l'ultima lettrice e psicologa.
Grazie a tutti i recensori, dal primo all'ultimo, e anche a chi ha guardato anche solo un capitolo, per errore. Mi sento però in dovere di menzionare SamDBazinga perchè è stato davvero onnipresente.
Grazie a Veronica per avermi tradito.
Grazie alla musica perchè è qualcosa che va oltre.

Spero di non aver dimenticato nessuno, sbadato come sono e data l'ora tarda. 
Vi amo, ci risentiremo presto.
Stay tuned, Freccia_9



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