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Fissavo
il soffitto che sovrastava la piccola stanza, gli occhi fermi e stanchi, quasi
stufi di dover vedere quel panorama in continuazione, una visione davvero
monotona. Quel bianco sporco, così impregnato del fumo grigio di sigaretta,
sembrava implorare una rinascita, una nuova mano di colore. Poco più in là il
poster di un modello regnava sulla parete, l’ennesimo uomo che sprecava la
propria immagine per conquistare delle ragazzine che imperterrite compravano il
suo nuovo libro, pregno di menzogne ed esagerazioni che si sostituivano alla
sua vita altrimenti anonima. Quell’uomo aveva dopotutto un fisico scolpito (come
lo abbia ottenuto non era di certo affar mio) e poi,
si, dovevo ammetterlo, dei begli occhi di un azzurro intenso. I miei invece erano
di un castano scuro tendente al nero e nonostante tutto molte donne trovano più
affascinanti le mie scure iridi rispetto a quelle quasi stellate.
Forse
era solo colpa dei miei occhi se più spesso mi trovavo con persone sbagliate,
nei letti sbagliati.
-
Ehi, mi stai ascoltando?- ripeté quella voce femminile con tono seccato,
ansioso di ricevere risposta. Spostai lo sguardo verso di lei, i capelli biondi
le coprivano sensualmente il volto, oscurato dall’ombra creata dalle tapparelle
abbassate quel tanto che bastava per illuminare un
filo di pavimento. La lunga frangia le percorreva i lineamenti delle spalle e
del collo, il petto s’alzava e si abbassava con il suo
irregolare respiro. Le braccia allungate e poggiate sulle mie
spalle, le dita delle mani stretta sulla mia pelle, le gambe a cavalcioni sul
mio ventre.
Scossi
la testa. – No. - fu la mia risposta secca, seppur appena sussurrata.
-
Vuol dire che nemmeno questa volta…?- lasciò la domanda a metà, forse notando
che oltre ad aver smesso di guardarla non la stavo neppure ad ascoltare, avendo
voltato il viso alla mia sinistra. Notai il suo sguardo solo per una manciata di secondi: si, aveva capito, anche quel giorno
non mi andava di continuare. Tanto è inutile che mi guardi così, pensavo, sai
bene che il tuo modo di far la sgualdrina non mi eccita
affatto. Dopotutto l’hai avuta tu, l’idea di indossare quell’orrida mise,
ora te ne becchi le conseguenze.
Mi
alzai sui gomiti per scomodare la povera creatura dalla sua pur comoda posizione.
Svogliatamente, si spostò al fondo del letto senza fiatare. Scesi lentamente con
un piede e poi con l’altro sul tappeto, ed altrettanto
comodamente mi accinsi a riaccendere il mozzicone di sigaretta che avevo spento
a metà. Nonostante il metodo poco salutare era la via più facile per aiutarmi a
calmare la bestia del nervosismo. Poggiai la parte arancione del filtro sulle
labbra e con l’altra mano tentavo di far funzionare un accendino, regalo
sgradito di una persona. Appena avesse smesso di funzionare
l’avrei gettato nel primo tombino per strada.
Inspirai
della sostanza nella mia bocca, mentre lei si stava riagganciando il reggiseno
il più velocemente possibile, come a coprire un brutto errore appena commesso. Lasciai
che il fumo scivolasse fuori andandosi ad attaccare al grigio soffitto. La
procedura era monotona come sempre.
La
sentii avvicinarsi, strisciando sulle lenzuola, portandomele addosso con la
mano sinistra, poggiando il mento sulla mia spalla e baciandomi il collo. Il
suo rossetto lasciava una sgradevole sensazione ed ebbi quasi l’istinto di
strofinar via il suo residuo unto in quel punto.
L’istinto
prese il sopravvento.
Uno
schiaffo.
-
Come ti permetti?! Dopo tutte le volte che mi hai usata, hai anche il coraggio di comportarti in questo modo??
E dire che ti considero più di un’a..!-
Le
mie dita si mossero da sole, poggiate su quella bocca innocente ma sporca di
troppa saliva altrui, tanto quanto di servizi molto arditi. Premetti il pollice
sul labbro inferiore, tenendole il mento con l’indice, mordendola con
ingordigia. Che mi costava, dopotutto, accontentarla? Le mie energie mentali si
erano ormai esaurite per lei.
-
Non ho mai chiesto di usarti.- sussurrai gentilmente, sorridendo un poco e
guardandola negli occhi. –E non ti considero nient’altro che quella che sei. Nient’altro.- Poggiai la mia fronte alla sua
scostandole i capelli dal viso. Pensavo che le sue sopracciglia si piegassero
corrucciate ed offese, ma mai in un’espressione così
stupita. I suoi occhi parevano tristi e, a mio parere, pateticamente
dispiaciuti. Bè, capita di sbagliarsi. Infatti cambiò espressione in pochi secondi, spingendomi
lontana da lei e stringendosi le spalle con le mani incrociate al petto,
guardando altrove.
-
Ed ora cosa hai intenzione di fare?- chiese sottovoce,
ammutolita e ridotta alla condizione di indifesa ragazzina, senza corazza a
proteggerla. Già, in quel modo era davvero carina, forse la stessa causa che mi
aveva attratta quando la conobbi tempo prima. Le misi
un braccio attorno alle spalle e la feci poggiare al
mio fianco.
-
Nessuno ha la cifra adatta a comprarmi, e nemmeno la giusta valuta. Tu non
l’hai mai avuta eppure hai provato a prendermi.-
Mentredicevo ciò, inclinai
il capo verso il suo viso, che era poggiato al mio tatuaggio: un codice a barre
senza cifre.
-
Ora cercherò qualcuno in grado di acquistare il mio cuore.-
*******
-
Allora ti piace!-
Quell’esclamazione
viva e giovane riecheggiò nei corridoi della galleria d’arte moderna. Era una
struttura vecchia sia fuori che dentro, ridipinta recentemente
di un colore rosa salmone molto chiaro che dava un senso di ariosità e
lucentezza. Ogni parete era alta circa cinque metri ma ristretta in larghezza,
così da poter contenere solo due quadri, tre se di media grandezza.
Il
quadro che stavo osservando era di modeste dimensioni, con una cornice
argentata semplice senza ornamenti particolari. L’immagine era divisa in due
momenti: nella prima parte era ritratto uno scorcio di mare mosso, da cui si
ergeva una mano di colore. Dall’altro lato una mano bianca che si allungava in
direzione della prima, dandole forse aiuto. Perché forse? Bè,
nella seconda parte si poteva capire indistintamente che la mano bianca non voleva affatto aiutare quella nera. Infatti
si ritrae, mentre la prima scompare tra le onde, risucchiata dalla schiuma
dell’acqua.
La
ragazza stessa che l’aveva dipinto mi aveva chiesto un parere personale. In quanto dipendente della galleria, molte volte artisti
emergenti mi domandavano commenti sulle loro opere, ma i più copiavano quadri
già esistenti e, se li creavano loro stessi, erano ideazioni banali o poco
concrete. Quella invece era stata un’opera semplice ma ben ideata, sebbene si
notasse bene che in alcuni punti il tratto era inesperto.
-
Qui. - toccai lievemente con la punta dell’indice, là dove, accanto agli
scogli, si potevano notare delle screziature in rilievo, incrostazioni bianche
che stavano a rappresentare la schiuma delle onde. –
Cos’hai usato?-
-
Ah quello…- ebbe un attimo di esitazione, quasi imbarazzata – è bianchetto!-
-
Bianchetto?!-
-
E-ehi calma! Ecco…mi mancava l’acrilico bianco e
poi…-sembrava cercasse una scusa- …volevo dargli un tocco di realtà!-
Realtà
o finzione? Quell’incrostazione era talmente toccabile con mano che pareva
voler uscire dalla tela. Fuggire. Mai più tornare.
Si, decisamente mi piaceva.
-
Ok, vorrà dire che chiederò un favore al padrone della baracca. Magari potrebbe
spostare questa opera d’arte in una zona più esposta.-
dissi lentamente, portandomi una mano al mento con fare da esperta critica,
senza guardarla in viso.
Era
tremendamente carina.
-
Opera d’arte? Wow! Che paroloni! Non avevo mai sentito un commento del genere!-
strepitò tutto d’un fiato, gonfiandosi d’orgoglio.
Sorrisi
un poco alla sua esultanza, poi mi voltai su me stessa e mi diressi verso
un’altra stanza, senza illuminazione. Appena vi entrai, poggiai la testa al
primo muro a disposizione, abbandonandomi ad esso con
svogliatezza. Accesi un mozzicone di sigaretta che avevo conservato all’entrata
della struttura e buttai la cenere per terra con non curanza, poi mi poggiai
completamente di schiena e mi lasciai scivolare seduta a terra. Sapevo bene che
stavo per farlo, mi conoscevo abbastanza bene da poter scommettere sulla mia
possibile prossima mossa.
Sentii
i passi della ragazza di poco prima avvicinarsi, quasi
di fretta, fermandosi a poco centimetri da me. Correva saltellando, un gesto
tipico dei bambini che si avviano alla mamma. Si piegò nella mia direzione,
portandosi le mani sulle ginocchia.
-
Per caso non stai bene?- mi domandò un poco sottovoce, avviando ed incrociando il suo sguardo al mio. Socchiusi gli occhi,
buttando fuori il fumo davanti a me, non badando se c’era o
meno lei, ma parve non lamentarsi.
-
Ti andrebbe di dividere il letto con me, stasera?-
Ecco.
L’avevo fatto. Mi ero di nuovo lasciata prendere la mano da istinti impulsivi e
non attinenti alla situazione. Avevo già previsto come avrei agito, per questo
ho cercato almeno di prevenire la situazione, allontanandomi. Pareva invece che
il mio intento sia andato a vuoto.
Lei
sorrise.
-
Pare invece che tu stia bene, anzi, direi benissimo. Vedrò di chiedere
personalmente al padrone della galleria se vorrà spostare il mio quadro.-
Detto
questo si alzò spolverandosi i pantaloni e girò
l’angolo, ma prima di sparire totalmente fece un passo indietro, guardandomi di
lato.
-
Alla prossima, ragazza egoista.-
Era
bionda, ma si capiva che in realtà il suo colore naturale era un altro.. Mi chiedevo come facessero i suoi capelli a superare la
forza di gravità, forse l’effetto era dato dall’enorme quantità di cera che
usava sulle sue chiome. Le punte più ardue puntavano verso il cielo, mentre
altre le cadevano sugli occhi. Chiare iridi innocenti e spensierate.
Mascolina
d’aspetto quanto di carattere. Non si faceva mettere sotto i piedi da nessuno,
anche se più delle volte si rattristava per un nonnulla.
Era
decisamente carina.
Tremendamente
carina.
Da
quando mi aveva lasciato sola in quella stanza, quel giorno famoso, mi era
rimasto impresso il suo modo di fare. Certo, non sfrontato come il mio.
Qualcosa in lei mi aveva colpito ed avevo deciso di
seguirla. Conoscevo la zona dove abitava ed i suoi
orari. Lo ammetto: questo si chiama stalking e dovrei
essere arrestata per ciò, ma dopotutto non nocevo alla sua privacy tra le mura
di casa. Ora era al parco pubblico, contornata da un paio di ragazze. Va bene,
va bene, ammetto anche questo: le sue amiche erano decisamente
più dotate di lei, in tutti i sensi. Ma non era ciò a cui
miravo.
-
Ti dico che la formula è questa!- puntava il dito sulla pagina di un libro di
chimica, pieno di numeri sospetti, continuando a puntare in quel punto - Visto?
Se aggiungi questo elemento, non credo che il professore sarà contento di dover
spostare tutto in un laboratorio nuovo!-
Le
altre non erano molto convinte del ragionamento, ma cedettero presto alla sua
insistenza. Un comportamento impeccabile, seppur a tratti odioso. Le altre
annuivano, forse fingevano mera comprensione, poi presero le loro cartelle,
posandovi dentro i libri, la salutarono e se ne andarono.
La
ragazza fece un cenno di saluto mentre si allontanavano, poi sbuffò vistosamente e portandosi le mani dietro la testa si
accomodò per bene sulla panchina.
-
Posso sedermi?-
Forse
la sorpresi, tanto che sobbalzò al mio arrivo,
spostandosi verso l’altra sponda della panchina.
-
Oh… prego, si sieda…- fingeva disastrosamente di non conoscermi, dandomi quasi
le spalle, prendendo distrattamente a leggere il suo libro pieno di formule per
me incomprensibili.
-
Ti infastidisco forse?- chiesi.
-
…no…è che… non farti venire strane idee su di me.-
Ridacchiai,
estraendo il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, aprendolo e tirandone fuori
un biglietto un po’ spiegazzato. Mi avvicinai a lei, ma notando il mio
movimento si alzò di scatto cercando una via di fuga lontana da quella che
sembrava una trappola.
-
No, aspetta. - si fermò subito alle mie parole, volgendosi solo un poco. Le
porsi il biglietto.- Il capo ha detto che forse potrebbe darti una mano, dato che ti conosco…-
-
Tu non mi conosci affatto. - prese il biglietto
sgarbatamente, leggendone il contenuto.
-
… e vorrei anche farmi perdonare. -
-
…- ci pensò un attimo, poi si volse totalmente, fissandomi dritta negli occhi. Un sguardo che non potevo facilmente evitare, per quanto
fosse carico di diffidenza e con una punta di… era rabbia, quella? Così pareva.
Forse era ancora adirata per la mia proposta tutt’altro che simpatica.
-
Basta che tu non mi inviti a condividere le tue
lenzuola.-
-
Senz’altro.-
*********
-
Allora?! Ti piace?!-
No.
Mi fa letteralmente schifo.
Non
risposi così però, nonostante fosse quello che realmente pensavo in
quell’istante. Continuai a girare il cucchiaio nel piatto, stracolmo di passato
di verdura, che aveva un colore per nulla invitate: un
verde oliva schizzato da macchioline bianche qua e là. Che fossero residui di
sedano che si era rifiutato di esser triturato con i suoi compagni ortaggi?
Tutto poteva essere. Stava di fatto che mi rifiutavo di mangiare una simile
schifezza.
Non
l’avrei mai assaggiata.
La
trangugiai con discrezione, silente, senza alzar ciglio verso la televisione
che parlava o al rumore sommesso delle pagine di giornale che venivano girate con notevole cura da dita talmente
grossolane. Quando posai il piatto sulla tavola e mi accinsi a far lo stesso
col cucchiaio, lasciai sfuggire un’occhiata alla
notizia che sovrastava la copertina. Un altro caso di stupro. Inghiottii la
saliva, ma non per coda di paglia. La cosa mi intimoriva,
quante donne dovevano ancora soffrire per far capire alla gente che era il caso
di porre fine a tutto ciò? Bella domanda, senza risposta.
-
Cos’hai da guardare? - freddo quesito, quasi
un’affermazione celata dal punto interrogativo. Non dovevo guardare, non dovevo impicciarmi dei loro affari, non dovevo uscire dal
mio mondo, dovevo semplicemente stare alle regole, muta, cieca, ma non sorda. Ed il solo fatto di sbirciare il giornale era un reato
punibile seduta stante.
Scossi
la testa, come per dire “no, nulla”. Se avessi parlato
sarebbe iniziata una nuova questione. La mia trasgressione. Il mio comportamento.
La mia maleducazione.
Finalmente
poggiai sulla tovaglia il cucchiaio che tenevo ancora in mano. Mi osservava
ancora, fessure con le quali poteva tenermi buona come
e quando voleva. Poteva farmi e dirmi quello che voleva. Anzi, mi stava proprio
facendo ciò che voleva. Mi sottometteva con il solo sguardo, come se lo
meritassi. Come se lo meritassi.
Non
lo meritavo.
Spostai
la sedia e mi accinsi ad andarmene nella stanza adiacente, posando il
tovagliolo al fianco del mio piatto. Rimisi la sedia al suo posto, sotto il
tavolo, il più tranquillamente possibile, il più silenziosamente immaginabile.
Mi voltai e feci pochi passi verso la porta.
–Dove
stai andando?- non risposi.
–Devi
finire di mangiare.- non risposi.
-Quando
capirai che devi portarci rispetto?-
Risposi,
voltandomi, senza guardarlo in faccia, senza fare una piega, senza proferir
parola. È così che funzionava, dopotutto ero in debito con loro, no? Se non mi
avessero accolta nella loro casa non avrei avuto
angolo, ponte o stazione dove vivere. Se solo i miei veri padroni fossero ancora in questo mondo non sarei stata trattata come
un’orfanella qualsiasi. Li avrei rispettati, e sarei stata rispettata.
Loro, per i quali la mia vita era un tremendo peccato. Loro, per cui la mia
vita era un disonore. Io vivevo, per cui dovevo andarmene. Ero un fastidio. Un
grande intoppo. Un soprammobile non gradito, che si poteva togliere in
qualsiasi momento. Ma la legge a qualcosa serve, a
farmi stare con qualcuno. Possibilmente non loro, ma sono pur sempre qualcuno.
Per questo, restando, dovevo sopportare.
Mi
sedetti sul divano, sempre garbatamente, continuando il mio silenzio esteriore.
Oh, se solo i pensieri fossero suoni tangibili esternamente. Sarebbe stato
bellissimo. Avrei potuto dire ciò che non avrei mai osato dire. Avrei visto
facce che non avrei mai avuto modo di vedere. Che belle sensazioni.
Silenzio.
-Alzati
e aiutami.- Semplice comando al quale dovevo scattare. Vicino al lavabo c’era una pila di piatti, uno straccio e lo sportello
dell’armadietto aperto. Compresi. Mentre li asciugavo, ascoltavo il rumore del
traffico fuori dalla finestra e lo stridio della sedia a dondolo alle mie
spalle. A mio zio piaceva, nonostante quel suono talmente acuto. Pazienza,
dovevamo sopportarlo. Era la legge.
-
Dimmi te, ‘sti deficienti…-
con la coda dell’occhio osservai ed ascoltai – Quegli assurdi finocchi truccati
e le loro puttanelle! Se solo potessero mandarli in prigione a calci in culo, ‘sti disgraziati, depravati,
malati!-
-
Gli omosessuali non fanno male a nessuno…- mormorai sommessamente tra me e me.
Errore.
Dovevo tacere.
-
I gay non sono sani! Devono nascondersi! -
Già,
si nascondono. Si rifugiano, cacciati dalla società, hanno paura di essere
giudicati per quello che sono, anzi, per quello che provano. Cosa c’è di
diverso in un gay se non il destinatario del loro
amore? Null’altro. Oh, mi sbaglio. C’è tutto di sbagliato in un gay. Sono gli oppositori della Chiesa e della società, sono
degli schifosi pervertiti, rovina famiglie, manifestanti abusivi e violenti.
Certe
volte mi chiedo perché mi piacciono le donne.
Perchémi piacciono?
Mi
piacciono.
Non
c’è molto da dire. Non mi nascondo. Ok, la verità è tutt’altra e neppure io
posso oppormi al modo di pensare della gran parte della
popolazione. Cosa non farei per far sapere a tutti cosa
provo, cosa sento, come soffro per quel che sono. Anche se effettivamente provo
una certa delizia a corteggiare una donna che non capisce il mio modo di
pensare, e devo dire che è un gioco a cui mi presto
molto spesso. La cosa si fa divertente quando capiscono che ci sto provando e
si risolve tutto con una risata. O un’espressione indignata. O una passata di
letto. Molti credono che la mia mente sia limitata, purtroppo non sono brava a
parole e la cosa che mi riesce meglio è esprimere i
vocaboli in gesti. Quanto vorrei poter fare qualcosa per questo mio maledetto
modo di fare.
Qualcuno
mi metta un freno.
Ciao sono
io, Chiara.Mi avevi detto di volerti
farti perdonare no? Su, allora, precipitati qui in centro che devo farti vedere delle mie nuove creazioni! Non sai quanto
sia contenta che il capo mi abbia dato questa possibilità, ora potrò esporre
altri quadri! Ok ok è anche
merito tuo ma…non dimenticarti, oggi offri tu! Sennò non ti perdono :-P
Mi
buttai fiaccamente sul letto della mia camera. Il materasso non era mai stato
tanto soffice, le coperte sembravano fatte di dolce cotone ed
il cuscino di vere piume. Mi guardai in giro, attenta ad
ogni particolare, concentrata su ogni suono, scricchiolio del legno del
pavimento, delle molle del letto.
Mi
coprii la bocca con le mani, i miei occhi divennero fessure piccole
piccole.
I
vecchi ricordi, che erano scivolati via silenziosamente nel fiume del tempo,
iniziavano a farmi male. Li misi a tacere, nascondendoli al mio cuore tremante
e sforzandomi di sorridere. Lo immaginavo come un agglomerato scomposto,
formato da sentimenti di convenienza, intaccato dalla ruggine, da ferite
cicatrizzate male che talvolta sanguinavano ancora, lambite da venti tempestosi
e dall’orgoglio che mi invadeva. Non era liscio e bianco come la candida
porcellana, ma grigio e bruciato come la cenere delle sigarette che fumavo mal
volentieri. Ardente di passione, innocente e perso nell’incertezza. Paura di
far del male amando, e paura di essere amato. Paura di provocare dolore e
riceverne. Perché conosceva bene il significato di essere preso a schiaffi.
Piano
piano realizzavo che il mio passato non mi aveva mai
aiutata a guarire la malattia che perseguitava insistentemente il mio essere.
Non aveva senso avere paura di un futuro a cui non potevo sfuggire. Il mio era
un cancro incancellabile. Dolore.
-
Mi spiace per essermi comportata in quel modo l’altro giorno, per questo ti
chiedo scusa e sono qui anche perché vorrei rimediare alle mie parole.-
-
Altro da dichiarare?-
-
Nient'altro, direi.-
-
Bene! Allora…un frullato alla fragola ed un bicchiere d’acqua. E’ tutto,
grazie!-
Il
cameriere rimase un attimo interdetto, lo sguardo perplesso, ma prese
ugualmente il menù dalle mani di Chiara e segnò l’ordinazione sul blocchetto di
fogli rigati. Si girò su se stesso, borbottando misteri e segreti, e dirigendosi
verso il bancone principale.
Il
locale era piccolo e carino, come qualcosa di prezioso. I tavoli neri e le
sedie bianche, non una sporca, né rovinata in alcun modo. Anche i quadri appesi
ad ogni parete ritraevano scenari incolori o combinazioni di immagini visionarie.
Quella perdita di colore e vivacità era in perfetta sintonia con le persone che
abitavano quel luogo ogni giorno o quasi. Ragazzi e ragazze che parlavano di
politiche e padroni del mondo, vecchie signore che si lamentavano della società
moderna e le guerre giuste o circa, distinti signori che leggevano notizie dal
mondo della disperazione. Era decisamente un clima pacifico e potevo finalmente
riporre l’accendino nel cassetto.
-
Senti, senti…- mi richiamò alla realtà, sventolando la sua mano davanti agli
occhi, persi poco prima nella contemplazione del suo decolleté. E dire che
pensavo avesse capito i miei gusti ma evidentemente mi sbagliavo. Ringrazio la
natura per avermi fatta nascere donna.
-
Come ti dicevo, ho portato degli schizzi che ho fatto di recente. Li ho messi
in questa cartellina.- me la porse, sfilandola dalla borsa. Le mie dita
sfiorarono le sue se non per pochi secondi, nell’attimo di transizione. La sua
pelle era ruvida, ma non potevo esserne del tutto certa avendola toccata per così
poco tempo.
Aprii
la cartellina e sfogliai uno ad uno i fogli in esso contenuta: paesaggi di
montagna a carboncino, ritratti di persone e abbozzi di nature morte. Tracce
lievi e sottili che parevano volersi dissolvere nel nulla. Le idee erano
semplici, forse copiate da qualche parte. Che importava? Alle prime armi ci si
aggiusta come si può, e ricordavo volentieri l'improvvisazione di una ragazza
che aveva usato del bianchetto per creare la schiuma delle onde.
Poggiò
le mani sotto il mento ed i gomiti sulla tavola, attendendo probabilmente un
mio giudizio, completo o meno. Se era davvero quello che si aspettava,
osservandomi esaminare i suoi disegni, bè, aveva
proprio capito male. Non intendevo dare alcun giudizio sul suo tratto
personale. L’anima del disegnatore è concentrata nel matita che ne traccia le
linee, non di certo nei giudizi di un terzo che non deve mettere il naso nella
relazione tra i due.
-
Studi illustrazione?- le chiesi semplicemente, senza staccare gli occhi dai
fogli. Dire che la domanda l’ha lasciata un po’ stupita e delusa era abbastanza
per descrivere il suo sguardo. Era una domanda così strana e di difficile
risposta?
-
Veramente no…sono appena al secondo anno di scienze e tecnologie chimiche.- fu
la sua risposta frettolosa, non rivolgendomi lo sguardo come stavo facendo io nei suoi confronti, solo che a
differenza mia cercava
di guardare altrove, sempre più distante con gli occhi e la mente.
-
Però. Complimenti nonostante questo. Hai un buon tratto, un po’ pesante in
alcuni punti, ma volendo puoi rimediare, se vorrai naturalmente.- un attimo di
pausa, sperando di catturare la sua attenzione – Avrei dovuto capirlo.-
-
Cosa?- si voltò finalmente, regalandomi tutta la sua attenzione. I suoi occhioni spalancati erano pieni di curiosità, quasi
devozione, o forse semplice interesse. Azzurri, pastello, mare, acqua della barriera
corallina. Senza accorgersene congiunse le mani alle mie, che le avevano
catturate silenziosamente come solo un abile predatore sa fare.
-
Sono ruvide. Non era solo un’impressione.- le strinsi alle mie, osservando
ancora i suoi occhi.- Si può sentire e capire che ti dai alla sperimentazione.-
Non vuoi sperimentare con
me?
Le
sue labbra semiaperte cercavano insistentemente di formulare delle parole con
significato, ma le corde vocali si rifiutavano di vibrare. I miei occhi
parlavano senza bisogno di emettere suoni e mescolando lentamente i colori per
creare il rossore delle sue guance, le sue pupille attingevano immagini dalle
mie come se nulla fosse. Visioni esplicite.
No.
Non
volevo.
Non
dovevo.
Allora
perché lo facevo, ancora, morbosamente?
Certo
che poteva aiutarmi, in qualche modo, iniziando a ritrarsi.
Egoista.
Lo
so, grazie. Non ricordarmelo. Non ricordarmi cosa sono. Conosco me stessa, non
voglio farmi rimproverare proprio da lei. Da me. Da tutti. Da coloro che
puntano il dito e, con la semplicità estrema di bere dell’acqua, formulano
parole che scalfiscono ancora e ancora, senza fermarsi. Non ne ho bisogno. Vi
ringrazio di esservi preoccuparti per cos’è giusto e per cosa è sbagliato, per
me. Ma credo sia meglio iniziare a preoccuparsi ognuno per se stessi. Io a
cominciare da Me.
-
Direi…che sono abbastanza brava…- farfugliò lentamente senza staccare né
sguardo né mani.
Perchè non mi mostri la tua bravura?
-
…smettila, per favore…-
-
Non ti sto facendo nulla.- dissi pacatamente, assottigliando gli occhi e
prendendo ad accarezzarle il dorso delle mani. Era confusa, forse. Era
imbarazzata, anche. Direi che non si era mai trovata prima ad essere
corteggiata da un’altra ragazza. O forse non era mai stata corteggiata.
Sembrava così pura e semplice, nonostante il carattere sbarazzino e decisamente
estroverso. Le impressioni che mi dava erano essenzialmente due: la prima, che
aveva alcune esperienze alle spalle; la seconda, che era stata fregata. Puntavo
tutto sulla seconda, che mi pareva la più lampante. Presi la personale
decisione di volerla coccolare come si doveva.
-
Non mi stai facendo nulla, è vero,- disse ad un tratto, spostando i miei
pensieri- …ma mi spiace dirti che non capisco perché stai…bè
ammettilo, ci stai provando con me.-
-
Hai un ragazzo?-
-
Cosa?-
-
Ho chiesto se hai un ragazzo.-
-
No…-
-
L’hai mai avuto?-
-
Ma che stai dicendo…-
-
L’hai mai avuto?-
-
…mai…-
Le
lasciai le mani, portandomele sotto il mento, assumendo la posizione che aveva
lei poco prima. Non le ritirò, sembrava aspettare una prossima mossa.
-
Allora si, ci sto provando con te.-
Il
rossore la colse improvvisamente e non fece nulla per nasconderlo. Nello stesso
momento arrivò il cameriere, oserei dire finalmente, e posò l’ordinazione sul
tavolino, piegando in due lo scontrino e ponendolo sotto il tazzone
del frappè alla fragola, che ricordava tanto il
colore di Chiara in quel momento. Si allontanò e quasi ci avventammo sulle
bibite appena portate. Pareva che non bevessimo da tantissimo tempo, tanta era
la foga. O era solo la gola secca dalla sorpresa che aveva suscitato in lei la
voglia matta di bere?
Girai
il cucchiaio nel mio bicchiere, lentamente, osservandola ancora. Sorrisi del
suo imbarazzo e nello stesso tempo mi spiaceva averglielo causato. Tolsi il
cucchiaio bagnato e lo poggiai al fianco del piattino bianco con il contorno
nero. Bevvi, e infine posai con calma il bicchiere vuoto sullo stesso piatto.
-
Mi spiace, sono fatta così. Non volevo spaventarti. Forse per te tutto ciò è
nuovo.-
-
E’ decisamente nuovo…- mugolò, osservando con minuzia il tovagliolino di carta
davanti a lei. Lo presi e lo spostai in alto. Lei seguì perfettamente il
percorso, così da guardarmi in faccia ancora una volta.
-
Ti andrebbe di uscire con me qualche volta?-
-…perché
no?-
Strano,
mi dissi internamente. Che voglia provare nuove formule o concetti chimici? O
forse avevo scatenato in lei una certa emozione e voleva porre fine alla dolce
tortura? Queste cose le conoscevo bene, ahimè oserei dire.
Non
c’è nulla di più pericoloso di una pozione d’amore.
Poi
torno in quel luogo ericomincio a pensare. Al passato. Al presente. Mai al futuro. Sento che
se voglio posso dimenticare le cose legate a ieri, se ho abbastanza forza di
volontà posso liberarmi delle cose inutili e mantenere per me ciò che è
realmente necessario e significativo. Tutto il resto è principalmente una
decorazione. Una maschera, forse. Mi preoccupo di tutto e niente. Mi faccio
carico di ogni cosa e nulla. Ho la testa piena di sentimenti a cui non so
attribuire né nome né causa né effetto. Era ciò che determinava la mia
malattia? Essere piena di ogni sorta di cose, tutte inutili a me, alla mia
vita, alla mia anima. Al mio cuore.
Mi
manca forse l’orgoglio di rinunciare a ciò che mi ha formata, per poter vedere
il futuro?
Mi
sento un oggetto valutato da tutti. Ho valore o no? Decidetevi a darmi una
risposta. Se fossimo tutti oggetti a cui attribuire un prezzo, allora che
significato avrebbe la vita? Come posso aprire la porta al mio futuro se non me
ne si da la possibilità? Non ho sogni né cose particolari a cui credere, non ho
nulla di certo su cui fermarmi a pensare.
Ci
sarà un luogo dove posso recarmi e far riposare il mio corpo stanco, forse. E
penso anche che quel luogo si stancherà di esistere prima che prenda velocità e
lo raggiunga.
Quante
volte mi sono trovata davanti ad un bivio, e quante volte ho dovuto scegliere
una via da seguire. Decisione dettata dal cuore? Tra la strada gioiosa e quella
facile, ho sempre percorso la seconda. Anche se non mi portava necessariamente
a sorridere.
Il
letto ultimamente emetteva dei cigolii quasi sinistri. Sarebbe ora di
cambiarlo, pensavo. Illusa, lo sai che non te lo cambierebbero mai.
Esattamente.
Da parecchio tempo avevo quella dimora, quell’unico angolo dove rifugiarmi
stanca, afflitta e annoiata. Del mondo, di tutti. Del mondo di tutti. Di mio,
nulla.
Il
sentir proclamare in continuazione le mie colpe, le colpe di una persona che
non riconoscevo, mi faceva diventare fiacca ogni volta, talmente tanto che la
voce mi mancava e le forze anche. Anche se in quel momento non avevo
stranamente ricevuto complimenti di sorta, ero semplicemente stufa di quel
luogo. Mi buttai su quel materasso talvolta duro, altre volte flaccido ed
inconsistente. Sembrava che il mio corpo giocasse con le sensazioni che mi
davano le cose che toccavo. In quel preciso momento il materasso era
invisibile, con lui le molle, le doghe, le lenzuola. Ero caduta per terra ed
avevo sbattuto la testa su di un pezzo di marmo freddo, che si scaldava
lentamente man mano che passava il tempo in cui riposavo, o tentavo tal inutile
sforzo.
Aveva
una storia quel letto. Ne aveva più di una, ma con ordine, dal principio vero e
proprio, ne ha sempre avuta una ed una soltanto. La crescita di un corpo che
cercava il riposo sin dai suoi primi vagiti, rincorrendo sogni belli che sono
arrivati ad altri. Egoisticamente parlando quel corpo esigeva tutti per sé, non
voleva lasciarne nemmeno uno in pasto a chi pretendeva il potere sul suo corpo
e la sua mente. Poi crebbe e crebbe ancora. Ora quel corpo tentava di trovare
un sonno deciso e prorompente. Era un corpo che si accontentava e che non
desiderava più.
Poi,
bè, ci sono le altre storie. Ma sono molto più noiose
ed ordinarie della principale. Romanzi di scrittori inesperti che narravano
aggrovigliamenti di lenzuola, cuscini che cadono a terra, mani che si
intrecciano e bocche che prendono avidamente aria nei loro polmoni dilatati.
Storie semplici nella narrazione e nella credenza. Forse l’unica cosa
complicata era il fatto di credere che fossi io una delle protagoniste delle
svariate storie.
Stavo
poco a poco prendendo la ferma decisione di buttare veramente tutto alle mie
spalle. Il mondo che mi aveva costruita, e con esso chi mi aveva costruita.
Tutto. Chiudendo i ricordi con una chiave arrugginita che girando produceva un
rumore stridulo, come a rammentare che è difficile serrare una porta che dà
alle tenebre.
Talvolta
desideravo essere luce per brillare nei miei momenti oscuri e illuminare le
notti insonni di chi entrava nel mio cuore e nel mio corpo.
Talvolta
desideravo diventare il male in persona, racchiusa in un portagioie. Un
prezioso cofanetto che scatena un potere nero a piacimento.
-
E’ pronta la cena. Alza il culo da lì e muoviti.-
Agli
ordini, padrona.
E
così dovetti alzare il mio culo da lì e portarlo dove mi venne ordinato. Luogo
in cui passavo solo una manciata di minuti al giorno. Sedersi a tavola in loro
compagnia per me era una sofferenza fisica oltre che spirituale. Star gomito a
gomito con esseri che non potevano né soffrirmi né tantomeno vedermi era un
dolore sotto il costato che non è spiegabile a parole. Forti fitte che mi
trapassavano da lato a lato ogni volta che dovevo sedermi su quella dannata sedia.
Avrei voluto vomitare quello che avevo nel cervello ogni qualvolta che aprivano
bocca per riferirmi aggettivi e surrogati che meritavo. Secondo loro.
Mi
sedetti, tranquillamente, guardando in basso, silenziosamente, ponendo il
tovagliolo sulle gambe, lentamente. La prassi era pressoché quella. Rendermi
invisibile ai loro occhi e alle loro orecchie. Solo così potevo in sperare un epiteto
in meno, ed una ferita sanguinante un po’ meno aperta.
Mi
venne buttato davanti al naso il piatto, a cui non potevo storcere il naso.
Guai a farlo. Quello per me era un convento di clausura, ed io ero la piccola
ignobile suora rinchiusa dietro le sbarre, non potevo uscire senza permesso e
potevo solo sognarmi un pasto che fosse ad un livello più elevato del solito che
mi spettava.
Mangiai
la foglia, e non solo in senso metaforico. E tacqui. Tacqui e tacqui ancora.
Non proferii una sola singola parola. Aspettai ansiosamente la fine di quella
sevizia e quindi raccolsi i piatti e le stoviglie, portandole dove le
aspettavano e recandomi poi alla mia camera.
Una
mano mi impedì il cammino, trattenendomi in modo amorevolmente distorto.
-
Ehi, dove sei stata oggi?-
Ehi,
questo è il mio nome per ora. Ehi. Non mi chiamo più Sara. Non esiste il mio
nome. Ehi. È anche più corto, sono solo tre lettere. È facile da pronunciare e
non da problemi ai linguaggi orientali. Ehi. L’anagrafe deve aver sbagliato
qualcosa perché sono cresciuta con questo nome, o almeno, da quando sono
diventata il cane di questi padroni.
-
Sono andata in giro.- dissi tranquillamente,
l’espressione incolore, i movimenti labiali lenti ma precisi.
-
Dove?- ancora chiese, tenendomi ferma il braccio, impugnandolo con avidità. Ehi
ha male. Ehi non vuole essere presa. Ehi…si chiama auto-ironia, vero?
- Sono andata in centro.-
risposi ancora pacatamente, senza cambiare una sola posizione dei muscoli del
mio viso.
-
Chi è quella ragazzina che era con te?-
-
Un’amica.-
Scoppiò
in una tremenda risata perforante. Mi sentii male, veramente, nel corpo e nella
testa. Assunsi una smorfia di vero dolore sulle mie labbra, e lo stesso feci
capire con la mano libera che poggiai sul petto. Scoppiavo. Volevo scoppiare.
Proprio come era scoppiata lei in quella rovente risata.
-
TU hai amiche?- chiese divertita, marcando il tono sulla prima parola. Si, io.
Lo so che può sembrare strano ma cara, è la realtà. Ho amiche. E amanti. E tu
non lo verrai mai a sapere. Per ora voglio lasciarti il dolce dubbio che io ne
abbia veramente, anzi, la certezza che io non abbia nessuno oltre a voi. Che io
non possa vivere al di fuori di queste quattro mura. Che io non possa mantenere
questo corpo trafitto e dolorante, stanco e morente, senza le vostre parole
soavi e le vostre pacche di incoraggiamento sulla schiena.
Sapete,
mi stostancando
di questo posto.
Le
parole soavi sono coltelli acuminati che nascondete dietro la schiena ogni
volta che volete essere gentili con me.
Le
pacche che mi date bruciano la mia pelle, marchiandola a fuoco.
Sentii il fluido
scendere dalla parte posteriore del capo alla nuca, poi giù giù a toccare ogni
frammento della spina dorsale. Viscido e lento scorreva e macchiava tutto ciò
che trovava sul suo cammino, non gli importava di essere
indesiderato, anzi si faceva largo oltre la maglia, aprendosi un varco a
colorare il freddo cemento, un intenso color pastello. Era il padrone.
Lo ammiravo.
- Non ti permettere mai
più di mettere le mani addosso alla mia ragazza! E’ mia, è mia,
è solo mia! Frocia del cazzo, stai lontana da lei!-
Non capivo molto bene
quello che mi diceva. Non che non volessi capirlo. Mi
era proprio estraneo l’argomento a cui faceva
riferimento. Sentivo solo che mi sollevava e per poco
non mi strozzava, la collottola della maglia si abbracciava teneramente al mio
collo con grinta micidiale.
Ti odio.
Stai ridendo. Ti vedo, sei dietro di lui. Non sai far altro che rifugiarti
alle spalle del più forte, basta fornirgli ciò che desidera ardentemente e
guarda chi spunta, lo scemo di turno che cade come cadono le tue mutande. Il momentaneo salvatore.
E tu, schifosa, che prima mi offri bere e poi mi
trascini nel tuo nido di cotone, dove ti senti protetta e appagata da uno dei
tuoi tanti poveri illusi amanti.
Anche da me.
Ma no, ora no, hai capito che è inutile continuare a
giocare e che fai? Ti senti ferita, cerci conforto tra
braccia più salde del poveraccio precedente che ha osato respingerti. Povero perdente, non merita nemmeno una parola di compassione.
Vendetta.
Solo schifosa vendetta.
Ti piace
giocare, non è forse vero?
Adori quando il gioco si
fa duro, perché ti senti come una regina coni suoi schiavetti agli ordini. Perché
le difficoltà non le incontri tu, no. Come ora. Non sei capace di venirmi a
sputare in faccia un “non farti più vedere stammi alla larga non trovarti sulla
mia strada sennò ti ammazzo”. Non sei nemmeno capace di pensarlo. Lo lasci
pensare agli altri, che compensati a dovere eseguono ordini invisibili agli
occhi ed impercettibili alle orecchie. Sanno già cosa
devono fare.
Vendetta vendettavendetta.
Un pugno nello stomaco.
Doveva proprio avergli dato fastidio l’abbozzo di sorriso che stavo disegnando sulle mie labbra. Che ci posso
fare, il volermela far pagare aveva un non so che di ridicolo. Anzi no. Divertente.
In quel momento il fluido porpora scendeva
dall’angolo della bocca. Scorri fiume, prima di
trovare lo sbocco sul mare ne farai, di strada…o forse no, non molta.
Ricordarsi vecchie canzoni non aiutava sicuramente la
sensazione di vomito che mi stava salendo alla gola. Trattenni ed inghiottii, tutto quanto. Liquidi, pensieri, sentimenti.
I capelli spazzavano il terreno, le ginocchia cedettero e lo toccarono
gentilmente, come è gentile
dare un pugno ad un blocco di cemento. Le mani furono troppo lente nel frenare
la caduta, i gomiti stridettero all’atterraggio. Un piede, non il mio, alzò il
mio viso appoggiandosi al mento.
Sorridevo.
Hai visto?
Mi volevi vedere
strisciare ai tuoi piedi. Al momento non strisciavo ma ero comunque
ai tuoi piedi. Schiavo e padrone. Il costume era quasi completo, gli stivali
neri col tacco alto e la gonnellina pressocchè
inesistente alzavano la mano all'appello, ma mancava il frustino. Eri quasi
perfetta.
Perfezione, che cosa
tremendamente assurda. Deve essere
stressante aver la precisione e l’ordine in pugno, interiormente ed
esteriormente. Mi chiedevo talvolta perché si deve seguire le
leggi dettate dalla società. Esatto, si deve. Dopotutto se non segui il fiume non avrai mai la possibilità
di arrivare al mare.
Si accontentò di vedermi
piegata a terra, le mani al ventre, una smorfia sulle labbra che pareva un
sorriso, forse lo era. Il ragazzo mi ringhiò contro parole confuse. Non
sentivo, non vedevo, non parlavo. Pregavo. Pregavo qualcosa o qualcuno che se
ne andassero. Che mi lasciassero sola, non meritavo la loro cara
compagnia.
Dopotutto io ero
nessuno.
Nessuno è perfetto.
Forse ero
presuntuosamente perfetta.
************
Ancora uno schiaffo.
Parola contro viso.
Testa contro cuscino.
Mi lasciai
cadere su quel materasso talvolta morbido talvolta duro. Quella volta
più del solito. Le ossa scricchiolavano come pietriccio
sull’asfalto su cui era passato un camion. Sembravano scomporsi come pezzi di
puzzle di livello avanzato. Milioni di
pezzi sparsi nella carne insofferente al dolore, alle sensazioni, alle gentili
provocazioni.
- Sei ridotta da far schifo! Non posso credere di averti ancora in casa, dopo averti
vista…così!- e non trovava parole per confortarmi meglio, o peggio definirmi. Si può dire che le facevo già abbastanza schifo. Uno zigomo gonfio, lo stomaco ricoperto d’un
livido grigio fumo e sangue raggrumato alla bocca e sulla maglia.
Vaghi ricordi di persone che volevano prestarmi soccorso, e ancor più vaghe
immagini di altre persone che si allontanavano spaventate o troppo nobili d'animo per prestare attenzione
ad una passante qualunque che si trascinava per strada poggiata al muro.
I capelli impolverati
spazzavano ora la federa del cuscino, bianco come nuvole di un cielo poco
promettente. Perché so di certo che la pioggia si
presenta celata da un velo innocente, guardinga a non farsi scoprire. Eppur si rivela per quello che è: una traditrice sfuggente,
che passa e che va, lasciando dietro di sé solo umidi ricordi.
Oh, a proposito, mi
scese una lacrima.
E no, non ero triste.
Ero furente.
La persona che più
odiavo in quel momento era là. Mi guardava. Aveva i capelli scombinati, un
volto impassibile, occhi sottili e spenti. Ed
uno zigomo gonfio e sangue raggrumato agli angoli della bocca. Mi ero fatta
fregare ancora. Mi veniva quasi da ridere, per non piangere, per non suscitarmi
ulteriore compassione.
Scappa.
Ed effettivamente mi alzai. Scansai con fatica vocaboli
di troppo che mi venivano
sputati contro, letteralmente. Mi sentivo così inondata di quelle parole che avvertivo la necessità di lavarle via, acqua e sapone,
nitroglicerina.
Scappa.
Ed effettivamente mi recai in bagno, meno strisciante e
più energica di prima. Lo volevo. Lo pretendevo. Un getto
d’acqua che risciacquasse via ogni cosa, ogni traccia, trucco polvere sangue.
La porta alle mie spalle si chiuse con un tonfo, ne rigirai la chiave, altri
insulti e poi solo lo scroscio impertinente di chi voleva trascinarmi con sé
nella corrente. Si, prendimi e portami via.
Scappa.
Un’altra porta si
chiudeva rumorosamente, tacchi giù per le scale, borse che sbattevano, parole
non per me
ma per chi era al di là della scatoletta parlante. Discorsi molto
interessanti sul perché e per come una povera disgraziata fosse tornata al nido
con la faccia tumefatta.
Ora.
***********
Niente schiaffi.
Viso contro gamba.
Labbra contro guancia.
- Ahia…- replicai quasi
in silenzio, un sussurro pressoché inutile. Non perché non venne percepito. Mi mancava, ne
volevo ancora. Era una lamentela a scopo di lucro. La sensazione
di sentirsi bene è certo la più bella al mondo, e lo è ancora di più se
stai bene con te stessa.
E con lei.
- Scusa… ti brucia così tanto?- domandò altrettanto
silenziosamente, un soffio nell’orecchio. Ancora. La tua mano sul mio fianco,
l’altra a stringere la mia, la mia testa sulle tue gambe, le mie distese sul tuo letto. Ancora. Fammi sentire la tua voce qui, dentro il
cervello, in ogni angolo del mio corpo. Risana le mie ferite in questa camera.
Mi accontento della tua voce.
- Mi sei entrata in casa
infradiciata, pesta e col fiatone…mi pare che fuori non piova ma, a parte
questo, scommetto che ti sei
messa a correre e sei anche caduta, vero?-
Non importa,
non importa.
Come mi sia procurata
queste ferite, non importava.
Perché io ero bagnata dalla testa ai piedi, non importava.
Importavano te e la tua voce, mille volte più efficace di qualunque acqua purificatrice. Il tuo tono allegro in
ogni momento alleviava il mio dolore. Nemmeno si può immaginare la sensazione
vibrante che mi provocavi ovunque, in angoli e cunicoli segreti. Oh, eri il
suono ed io la tua chitarra elettrica.
- Vado a prenderti
qualcosa da bere. Fa come se fossi a casa tua. - mi
sorrise, la voce squillante di una ragazzina che giocava con l’amichetta. Mi
fece scostare e mi abbandonò momentaneamente lì. Il letto era duro, non
mattone. Era abbastanza confortevole. Sul comodino erano poggiati dei fogli ed alcuni libri di cui scorsi i titoli. Sembravano romanzi crimedi autori poco
conosciuti o presunti geni. Fidiamoci, dissi a me
stessa, passando oltre.
Poco distante un tavolo
con svariati bicchieri. Alzai di poco il capo e scorsi in essi
acqua e diverse tinte, alcuni avevano ancora pennelli e spatole sporche. Le
tele erano riposte al fianco delle gambe della sedia, alcune piccole ed altre medie. Poi vi era uno sgabello, non pareva molto
stabile, dava l’idea di essere stato molto usato.
Ai muri appesi poster di
cantantimetal. Per un attimo provai un brivido
di contentezza: molti li conoscevo, alcuni perfino di
persona. Sorrisi all’idea della sua faccia se l’avesse saputo, sarebbe stata uno spettacolo.
Ancora
appesa una pianola, o quel che pareva.
Allora non usa le mani solo per dipingere, pensai, osservandola meglio. Questa
pareva molto più nuova di tutto il resto. Forse aveva perso interesse. Male.
D’un
tratto sentii una mezza imprecazione venire dall’altra stanza. Timidamente mi
alzai e mi avventurai in direzione del suono. La vidi
con la mano sinistra sotto il getto dell’acqua, una scodella rovesciata sul
tavolino della cucina. Mi avvicinai, cercai dei fogli
di carta per asciugare il tutto. Appena sentì il rumore della scodella che avevo spostato vicino al lavello, si voltò di scatto, sorpresa.
- Ah…grazie.- mi sorrise
gentilmente, un sorriso quasi di circostanza. Non importava.
- Forse…è meglio se usi
l’acqua fredda…- mormorai, notando appunto che aveva girato il rubinetto
sbagliato. Santa ragazza, era proprio distratta. Mi
apprestai a cambiare la temperatura dell’acqua, quando lei si mise a
ridacchiare.
- Sai,
ho le mani ricoperte di tempera. Prima che arrivassi stavo per dipingere qualcosa, qualunque
cosa, e non trovando ispirazione ho iniziato a pasticciare con i colori. Solo
che non sono andata subito a lavarmi.- prese una
pausa, poi mi guardò- Ho le mani insensibili ora come
ora, ma tra poco torneranno apposto. Ecco perché non mi sono resa conto che
l’acqua era calda.-
Pochi momenti per
pensare.
Mani tra le mani, a sciacquare via tutto
quanto. La polvere delle mie dita mescolate al colore delle sue. Un abbraccio, da dietro, a premerla contro il lavello. Il
mio mento appoggiato alla sua spalla.
Non un fremito, non un vai via, non una
mossa. Solo dita che si intrecciavano
e che giocavano tra loro, e noi a fissare il loro gioco.
E forse una buona parola, una carezza, un bacio...
Se le
tenebre mi prendessero con loro, avvolgendomi e cullandomi in un dolce sonno
eterno, credo che mi lascerei portar via senza il minimo contrasto. Non potevo sapere se quella che percorrevo era la
via giusta da seguire. Potevo chiedere a chiunque e nessuno avrebbe avuto la
risposta. Sopita da qualche parte in me, si rifugiava quando
la richiamavo, poiché il destino è già segnato e non c’è modo per combatterlo.
La certezza è ora. Dopo è il buio.
Mentre nella mia mente
si susseguivano forti rumori di costruzione di qualcosa sconosciuto perfino a
me stessa, mi sentivo come se dovessi collassare da un
momento all’altro, trafitta da mille lame mal appuntite, atte a graffiar non la
pelle, non la carne ma qualcosa di più profondo.
Ed
incapace di muovermi, potevo solo attendere.
Stavo bruciando.
Nell’aria se ne poteva sentire l’odore vivido che si infiltrava in ogni dove, per far sapere a tutti
che ero lì. Ogni cosa accadeva come la fine di un sogno, e l’inizio di tutto.
Ciò che volevo raggiungere appariva ai miei occhi così
splendido, che poco a poco si allontanava e brillava ancor di più.
Raccoglievo i pezzi del
mio sogno frantumato più e più volte. Cos'aveva di sbagliato? Potevo ricomporlo
mille e più volte, e continuava a sbriciolarsi come se il collante che usavo
non sortisse il dovuto effetto. Per far rinascere un
sogno, non basta forse il solo desiderio che ciò accada?
Poi sei piombata
all'improvviso, senza annunciarti. Quella luce smise di indietreggiare.
Vorrei poter essere i tuoi occhi, anche solo per un momento.
Come sarà lo scenario che vedi? Riusciresti a scorgere l’abisso che ci separa e
la mia mano che si tende verso di te? E se la vedessi,
ti sporgeresti per accoglierla?
Questo sentimento ti
raggiungerà?
Nessuno poteva saperlo
con certezza. Solo la mia mente vedeva questo scenario.
Se la mia vita avesse la durata di un fiore, allora
vorrei fiorire pienamente al tuo fianco. E dopo aver
visto il tuo sorriso, cadere da sola, lentamente.
Queste cose, forse, avrei dovuto dirtele esplicitamente.
*****
Mi chiese se ero impegnata, quella sera.
Certo che no, non lo
ero. Per quale ragione avrei dovuto
essere occupata? Nessuno mi aspettava e nulla aveva priorità assoluta in quel
momento. Ero fuggita e sarebbe stato piacevole se la
cosa fosse continuata ancora un po’. Tornare in quella prigione rumorosa
avrebbe solamente giovato all’annientamento dei miei neuroni. I pochi ancora in
funzione mi servivano per restare coi
piedi per terra, per ragionare, per vivere. Gli altri ormai si erano rassegnati
al fatto che la loro padrona stava crollando.
- Perfetto! Allora ti andrebbe di restare qui per cena?- domandò con il suo solito
tono vivace, sarebbe stato difficile rinunciare al suo invito proprio a causa
della sua voce. Forse sarebbe stato meglio evitare di intrattenermi a casa sua,
dopotutto era la prima volta che ci entravo, tra
l’altro senza nemmeno preavviso. L’educazione è stata una delle cose che mi fu imposta al di sopra di ogni
altro insegnamento, stranamente, e sapevo bene che presentarsi a casa degli
altri comportava una certa discrezione. Che non avevo
avuto, per ragioni puramente interiori.
Forse avendo notato il
mio disagio, mi rassicurò che non creavo alcun disturbo, era anzi contenta di
avere un’ospite dopo tanto tempo. Mi fece fare
un giro dell’appartamento per soddisfare una mia probabile curiosità, che
effettivamente avevo. Vi erano in tutto quattro camere, due separate da un
tendone, una aperta al
pubblico e l’ultima più privatamente chiusa da una porta. Ogni stanza aveva un
che di particolare, forse decretato dai variopinti quadri che qua e là
apparivano sulle pareti. Curioso, nella sua camera non vi era tappezzeria, ma
le mura erano state dipinte e decorate a mano. Probabilmente un’altra delle sue
opere, ma preferii non chiederglielo.
Il piccolo soggiorno era
composto da un tavolo
circolare nel centro e quattro sedie intorno, il tutto completamente in legno. Una specie di comodino accanto alla porta con
sopra un vaso di fiori, qualche boccetta qua e là, probabilmente un suo
esperimento per l’università. Non domandai.
La cucina
era subito di fianco, composta da un mobile con
lavabo incorporato, una parte dove riporre le stoviglie, un microonde ed un
frigorifero con tante calamite corredate da foglietti. Probabili appuntamenti o orari di lezione. Tacqui, ma mi avvicinai per constatare che avevo in parte ragione. Pareva aver un orario
piuttosto fluido e poco pesante, qualche ora al mattino e un paio al pomeriggio, corsi serali di
specializzazione. La maggior parte di queste informazioni le avevo acquisite
nel mio breve periodo da stalker. Questa era la cosa
che più dovevo tacere.
La stanza chiusa era,
come sospettavo, il bagno. Era perfettamente in
ordine, ogni cosa al suo posto. Nonostante la visita
improvvisa, tener pulita la casa era una delle cose che le riusciva bene,
sempre. Nulla di interessante,
a parte i sanitari e la doccia. Piastrelle bianche. Lo notai per ultimo sebbene fosse la cosa che veniva prima all’occhio sia riguardo il
colore che la luce: le altre stanze erano
scure, sia dal fattore colore che da quello luce. Quella stanza invece
risplendeva di un bianco quasi fastidioso.
Fu l’ultima che visitai,
e ne uscii contenta. Le altre stanze avevano le persiane
chiuse, creavano un’ombra soffusa molto piacevole. Mi sedetti ad una delle sedie della tavolata e mi asciugai i capelli
con l’asciugamano che mi aveva dato. Dovevo segnarmi una nuova regola: mai
balzare in casa altrui se si è bagnati fradici. Non che il procedimento di asciugatura avesse levato il peggio, ma almeno ero
leggermente meno bagnata di prima. Il precipitarmi per strada appena tolta da
sotto la doccia doveva aver decisamente
suscitato scalpore tra i passanti, che non notai, che non volevo notare.
- Senti, sei gentile, davvero, ma non posso restare.- le dissi, lo
sguardo puntato al pavimento, nessuna voglia di guardarla in faccia.
Si sedette anche lei. – Devi chiedere permesso ai tuoi per lasciarti qui?- ridacchiò.
Ancheio ridacchiai, in maniera un po' più ironica
della sua risatina.- Sì.-
fu la mia unica secca risposta. Spostai lo sguardo su di lei, lateralmente, per
osservare il suo viso. In quel momento aveva assunto un’espressione
indecifrabile, ma sicuramente qualcosa di molto vicino allo stupito e
incredulo. Dirle che era la pura verità forse
l’avrebbe fatta ridere.
- Uhm, ok, non
importa…quand’è che verrai a farmi un po’ di compagnia allora?- chiese senza la
minima intenzione di approfondire i vari perché che non mi permettevano di
rimanere da lei. Ci pensai un attimo, ma non vedevo molta via di scampo. Di
solito lo zio ritornava per ora di cena, mentre la zia era andata a far compere
o spargere in giro belle parole riguardanti me con le
sue amiche. E dovevo tornare. Non che mi segregassero
in casa, se non vi ero all’ora stabilita.
Semplicemente avevo il cervello saturo delle loro parole, non volevo sentirne di extra per un insulso ritardo. Ma sinceramente non avevo neppure voglia di vederli. Anche gli occhi erano stanchi di trovarsi davanti sempre le
stesse persone.
Tutto ciò non giovava
alla mia salute traballante.
Forse era ora di fare
una pazzia.
- Potrei ripensarci
riguardo la tua proposta? Credo che potrei
rimanere…sempre se non ti sono di impiccio.-
le rivolsi finalmente lo sguardo, sfoggiando un lieve sorriso. Lei fece
altrettanto, apparentemente felice della mia presa di posizione. Si guardò attorno irrequieta, come una bimba che non vede l’ora di
scartare il pacco regalo. A quanto pare, lei desiderava
tutto meno che ad aprire nuovi regali. Si alzò di scatto e si precipitò verso
il frigo, lo aprì e vi frugò dentro. Imprecò talmente
sottovoce che potevo sentire chiaramente le frasi colorite che diceva. Si fermò davanti alla porta aperta e si mise
una mano nei capelli. Poi si voltò verso di me, lo sguardo preoccupato. – Ti va
un uovo diviso a metà con me e delle carote?- domandò
sarcasticamente. Evitai di rispondere,
capii che probabilmente non aveva fatto la spesa recentemente.
Alzai le spalle.
- Credo proprio che
dovrò andare al supermercato. – diede uno sguardo all’orologio che sovrastava
la porta d’ingresso.- Cavoli, è pure tardi! Le sei e mezza! Devo proprio
sbrigarmi.- si avvicinò a me e batté le mani sul
tavolo. Il suo sguardo semi-serio non le si
addiceva proprio, eppure l’aveva assunto con molta semplicità.-
Senti, lì dentro ci sono i piatti, i bicchieri e le varie cose. Io scappo e
torno, tu intanto potresti restare e preparare la tavola, per favore?-
La sua richiesta mi
lasciò letteralmente spiazzata. Ma
come, ti vengo per la prima volta in casa e ti fidi a lasciarmi da sola? Non
pensi che io possa aver voglia di frugare in giro e collezionare qualche tuo
aggeggio? Chissà, potrei anche uscirmene e lasciare
l’appartamento incustodito! Sei così sicura di volermi dare queste possibilità?
Vendi così facilmente la tua fiducia?
Ovviamente non avevo
alcuna di queste intenzioni. Non ero il tipo talmente curioso da aprire
cassetti, spalancare ante, sbirciare sotto i letti altrui. Eppur esistono tali
persone, e alcune di esse sono chiamate
cugini. Irrequieti parenti che non vedono l’ora di
ficcare il naso in posti che non siano il fazzoletto, e le mani in posti che
non siano le tasche, o…tanti altri posti dove sarebbe lecito che facessero un
viaggio, una volta ogni tanto, anzi, molto spesso. La sola idea che le
parole si tramutino in fredda
realtà ha un che di sinistro, ed interessante. Perché
no, anche parecchio divertente. Fortunatamente di cugino ne avevo
uno soltanto, era già laureato e lavorava abbastanza lontano. Era una brava
persona, a dispetto del fatto che fosse il figlio dei miei attuali tutori.
La guardai preoccupata senza motivo, ma la rassicurai che avrei fatto
ciò che mi era stato chiesto di fare. In fondo non mi costava nulla
accontentarla, avevo già intenzione di disubbidire completamente ad un ordine imposto, tanto valeva fare anche quelle piccole
cose senza significato che potevano rendere la giornata un po’ più allegra. La
cosa parve tranquillizzarla, quindi mi sorrise, prese una borsa a caso da un
angolo della cucina ed uscì, lasciandomi il compito di
chiudere la porta.
Silenzio.
Un dolce e tiepido
silenzio.
Diversissimo
da ogni altra assenza di suoni, era come un caldo abbraccio di fredde mura
senza che mi scalfisse la pelle né il cuore. Era così rilassante essere soli in quell’angolo di
pace ed era allo stesso tempo soffocante al punto da desiderare mani amiche che
potessero donarti sollievo, strappandoti dal collo quelle mani invisibili che
stringevano con ingordigia. Un controsenso delizioso e micidiale.
Tra sedie e poltroncine,
preferii la scomoda comodità del pavimento. Si, in
tanti mi dicono che sono un controsenso vivente. Lo
adoro. Poggiandomi a terra sentii qualcosa che premeva contro la schiena,
subito arrivai al punto con la mano sinistra e trovai il mio fidato
portafoglio. Pelle marrone scuro un po’ graffiato dal
tempo e dall’uso. Un contenitore ed amico fidato che
conservava per me tanti ricordi, tra cui biglietti del cinema, di qualche
viaggio col treno, un paio di autobus di città
diverse, fotografie e disegni.
Sospirai. Non era il
momento di farsi azzannare dai ricordi. Bruciavano e sanguinavano. No, meglio
di no.
Tanto valeva buttare la
testa indietro e chiudere gli occhi.
Il mio cervello aveva
conservato meglio di qualunque pellicola le immagini della mia vita.
*******
Basta, finitela, tacete.
Ora.
Un attimo di silenzio.
Ascoltiamo il rumore
scricchiolantedell’anima. Con questa quiete è
possibile distinguere due suoni distinti: la ruggine crepitante di due barre di
ferro che sfregano tra loro, un carillon dolce ed
armonioso che non termina il suo canto sinfonico.
Quali dei due preverrà
sull’altro?
Quale naufragherà, sopraffatto
dalla violenta prepotenza ed egoismo dell’altro?
Quale soffocherà, con le
mani dell’altro al collo?
Il mio carillon si era
fermato molto presto.
Anche durante i sogni
riuscivo a sentire la mancanza di una presenza a me molto cara.
Se oggi non troverò una motivazione che mi
renda felice, domani ti raggiungerò.
Sognavo questa
possibilità ma no, non era ancora giunto quel momento.
*********
Uno scialle addosso, un
cuscino sotto il capo. Luce flebile che mi batteva sul petto, incapace di
destarmi dal sonno battendomi sugli occhi.
Intontita alzai la testa e la scossi, i capelli a battermi
sulle spalle come piccole sottili fruste. I miei sogni erano stati, come norma,
degli agglomerati di visioni surreali e ricordi dolorosi, molte volte
relazionati tra loro, simbologia che avrei evitato volentieri.
Per terra, davanti a me,
un biglietto di carta.
“Ho tentato di svegliarti ma non ne volevi proprio sapere. Io intanto vado
a nanna ;) Puoi stare qui stanotte, la poltroncina è
un quasi comodo letto apribile. Buonanotte ^_^”
Orientarsi al buio era
una delle mie specialità, nonostante quella casa fosse nuova al mio senso di orientamento. Sbattei a destra ed a manca contro qualche mobiletto, sbagliai camera
non meno di due volte. Cosa non accade a gattonare in circolo.
Per alzarmi in piedi forse era ancora presto, la testa non voleva starsene al
suo posto ed ero ancora abbastanza intontita.
Decisa di provare ancora
una volta a caso, senza un valido motivo, aprii l’ennesima porta.
Dormiva serena, le
spalle rivolte verso di me, il viso al muro. La porta ora era aperta ed un gattino infreddolito alla ricerca di quel calore quasi
materno era entrato curioso di osservare la padrona di casa nel lieto e
profondo sonno.
Luna a tre quarti, luce
soffocante.
Nessuna zampa, ma una
mano a scostare la tenda. Buio completo, se non per un quadro formato da tesserine fosforescenti, che andavano
a formare un unicorno che cavalcava cieli e stelle, rubate dall’esterno per
decorare quel piccolo angolo di paradiso.
Freddo pavimento. I
pantaloncini che mi aveva prestato non tenevano molto
caldo, tra l’altro mi erano stretti: i miei fianchi erano spigolosi e tonici, i
suoi…
Desiderai accarezzarli,
sfiorarli anche solo per un momento. Come una bambola di
porcellana della quale vorresti scoprire il segreto di quella così bianca e
pura superficie. Ma
sai che puoi sporcarla con le tue impronte o che questa potrebbe rompersi. Non
la sfiori nemmeno, la paura è
tanta.
La mia amicizia con
Chiara era una bambola di porcellana: lei sapeva di me ed io sapevo di lei. Aveva paura che le mie intenzioni
fossero spinte da ben altro interesse, io avevo paura che l’avvicinarmi
troppo l’avrebbe allontanata.
Mi ero vista scivolare
via tante cose tra le dita delle mani, come sabbia al vento che andava ad
aggiungersi ad altra sabbia. Sapevo che non avrei potuto recuperarla: mi
sarebbe sfuggita ancora e ancora.
Rabbia, dolore,
amarezza. Pochi granelli a sporcarmi le mani. I semi cattivi che fecero
germogliare il frutto della mia distruzione interna.
Zampettai fino al suo
giaciglio, sporgendomi per osservarle il viso. Occhi chiusi dolcemente e labbra semi aperte, una mano al fianco
della guancia e l’altra a tenerle il polso, come per assicurarsi un lieto riposo.
Un’immagine preziosa da non scomporre per motivo alcuno.
Le lenzuola erano
bianche come neve appena caduta e dalla consistenza parevano per il periodo
invernale. Era primavera, ma le notti fredde non erano ancora terminate. Sali
e scaldala. Dai, che aspetti? Forza, ce la puoi fare, che ti prende?
No, non potevo. E’
preziosa al punto che temevo di spezzarla.
- Vuoi salire?
- No, grazie.
- Dai,
c’è posto…
- Ho detto no.
- Vuoi carta bollata per
il permesso?
- Non posso.
Risposi subito, al
termine di ogni domanda, senza il minimo indugio. Prendere
le persone alla sprovvista sembrava la cosa che le veniva meglio, se non il suo
passatempo preferito. Ammetto che anche il fingere le riusciva
piuttosto bene, poiché mi ero avvicinata incurante al suo giaciglio con la
ferma convinzione che stesse dormendo. Mi aveva completamente imbrogliata.
Per un momento la scorsi
guardare la finestra e, per personale interpretazione, fissare oltre di
essa, il cielo che le avevo nascosto.
Distolsi lo sguardo. Il
luogo che osservava non mi apparteneva.
Forse uno spiffero di
vento venuto da una parete vecchia e fallata mi fece rabbrividire, mi strinsi a
me stessa nella ricerca di un minimo calore che consolasse
la mia spina dorsale infreddolita. Una coperta calata sulle
mie spalle, una mano tra i capelli che mi spinse ad appoggiare la testa al
bordo del materasso. Come un cane ubbidiente seguii
l’ordine silenzioso della mia padrona. Intanto la fioca luce emessa dal quadro fosforescente era diminuita, a momenti il buio
avrebbe avuto il sopravvento.
Il soffice abbraccio dell’oscurità,
che tutto avvolge ed ogni suono fa
tacere.
Vorrei che mi fissassi
negli occhi e dicessi il mio nome.
Vorrei che mi tenessi la
mano e mi dicessi che va tutto bene.
Cercavo solo una
semplice parola.
Desideravo che me la
concedesse.
- Scusa. -
Un momento.
Non era questo che mi
aspettavo di sentire.
- Tempo fa sono stata dura con te, non era mia intenzione.- una pausa-
Sai, stavo valutando la possibilità di conoscerti meglio di quanto abbia fatto
finora. In fondo è da molto che usciamo assieme ma so
solo poche cose di te. Non ti andrebbe di…?-
Scossi la testa nel
buio, la sua mano a lisciarmi i capelli sicuramente aveva percepito il mio
movimento, ma insistentemente, amichevolmente, non mollò
la presa. Una grande forza d’animo.
Mi opprimeva.
Mi sentivo così piccola
a confronto, minuscolo puntino pronto a sparire, sovrastato da tutto ciò che lo
circondava. Lei poteva sottomettermi, aveva questo
inconsapevole potere dalla sua parte.
Forse ero lì per
imparare da lei.
- Se solo uno dei tuoi
desideri potesse divenire realtà, cosa sceglieresti?-
Che domanda impertinente, pensai subito dopo averla
formulata. La curiosità uccide, anche se mai come in quel momento avrei temuto la morte.
Attese un momento prima di rispondere. – Penso che come prima cosa vorrei finire l’università, poi trovare un buon lavoro,
comprare una bella casa e…- si fermo, poi esclamò- Oh no! Sono troppi, solo
uno, vero?-
Non la vedevo, ma potevo
socchiudere gli occhi ed immaginarla sorpresa e
divertita. Era una bella sensazione, tutto quel -…buio.-
- Come, scusa?- mi
chiese. Inizialmente non compresi, poi feci spallucce e ripetei. – Buio. È
bello. Mi piacerebbe vivere nel buio e condividerlo con qualcuno.-
La sentii
muoversi sulle lenzuola, il suo respiro mi carezzò la spalla. Potevo
vederla appoggiata di fianco al mio viso, le braccia conserte ed il mento poggiato ad esse.
- Hai ragione.- la sua
voce, un sussurro che riecheggiava nel mio orecchio. –Il buio è bello perché si
può parlare senza vedere il viso dell’altro. Puoi
approfittare per raccontarmi qualcosa in più di te, no?- insistette
gentilmente, pettinandomi i capelli con le sue sinuose dita.
Mi hai sottomessa, ora ti accontento.
- Sin da quando sono
nata, cercavo qualcosache non si potesse rompere. Lo
trovavo, lo perdevo, forse ho fatto del male a delle persone per questo.
Nonostante il mio forte desiderio, iniziai ad arrendermi.
L’avevo trovato, poi lasciato, fino a far del male a me stessa.
Tutti dicevano
che dovevo essere una bambina forte. C’è stato chi mi
lodava, dicendomi “Devi essere abbastanza forte da non piangere”.
Ma io, no, non volevo quelle parole così cariche di
compassione o presunta tale, e fingevo di non capire.-
Una piccola risata.
No, non ridere di me. Te
ne prego.
- Classiche parole di
consolazione.- il tono ancora allegro.- Anche se…- ora più basso, pensante e
quasi pesante- le persone che le pronunciano non si rendono conto che i bambini
capiscono fin troppo bene.-
Aveva ragione. Tradita
dalla tua medesima fiducia nelle persone a te vicine. La stessa sensazione di
essere rifiutata.
Al tempo, quando ancora
non avevo quella forza tanto decantata, conoscevo troppe cose.
- E
tu, cosa desideri?-
Già, ed io, cosa
desideravo? Avevo una lista lunga e allo stesso tempo
semplice. Il gioco stava nel scegliere una cosa
soltanto, quell’unica che poteva trovare la strada per divenire realtà.
Nonostante le colpe che mi erano state attribuite, sarei stata
perdonata?
Un paio di singhiozzi e
subito due mani a me conosciute mi
coprirono gli occhi, umidi di pensieri che scappavano via. Lei li
raccolse e no, non poterono fare
molta strada.
Ora erano in lei, il mio
dono alla sua persona.
- Se
tu ridessi, anche solo un poco, allora capirei che io ho un senso. Se mi
cercherai, anche solo quel poco, sento che potrò essere accettata.-
Labbra tra i miei
capelli, a cercare quel qualcosa che ancora era lontano e non potevo, non mi
sentivo di donarle. Eppure era lì a sostenermi e
tentare una tenera, magra consolazione.
- Io desidero poterti
dare qualcosa. Forse lo ritieni stupido o ingenuo, ma il solo farti partecipe
dei miei pensieri è molto per me.-
Forse la notte è bella
perché illumina il poco, inutile ed impertinente
sciame di falene che si riversa nelle strade della città, mentre oscura il
silenzioso abbraccio indistruttibile degli insonni, che si sussurrano parole
invisibili, che vomitano la loro angoscia al freddo buio, asciugandosi l’uno le
lacrime dell’altro, cucendo ferite sanguinanti e leccandole con ingordigia per
alleviarne il dolore.
Le sue
mani risciacquarono il mio viso, il suo soffio mi cullava verso la buona notte.
La gonnellina sopra le
ginocchia, blu a pieghe, molto seria per una bambina di tre anni, troppo
frivola se pensi a quanti potrebbero infilarci mani che non sono le tue in
posti che non sono i suoi.
Un golfino di lana rossa ed una camicetta semplice e bianca, molto fine ed elegante,
forse troppo al pensiero che venga l’impetuoso desiderio di strapparla via.
Oggi come domani gli impulsi
animaleschi si fanno più forti di ieri. Esisterà un
futuro in cui tutti torneranno allo stato primordiale di piccole semplici
cellule con il solo scopro di unirsi per combattere la
solitudine, in mezzo a quel nero caos?
Una tenda porpora che
nasconde un tavolo e due sedie di paglia, i muri spogli di un bianco accecante,
che vengono oscurati dall’ombra della sua figura,
sorride, dice stai tranquilla, ora giochiamo, mamma è di là che compra ed io ti
tengo compagnia.
La sedia è di stelo, quello
che scricchiola quando ti siedi, ha una barra diritta tra le gambe di legno e
non è l’unica. Sale a fatica, troppo alta per lei. Lui la prende per i fianchi
e la porta sulle sue ginocchia, sedendosi sull’altra. No, non sta bene, scalcia
e si sforza, fugge e sale sull’altra.
Il gioco doveva ancora
iniziare.
Lui fa una smorfia, poi con
un gesto lento ma sicuro tira fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un
mazzo di carte tenute assieme da uno spesso elastico verde.
- Ora iniziamo. – sorride, altro bianco abbagliante di quei denti, tra quelle
labbra piagate in quel ghigno rassicurante. Passa le carte da una mano all’altra,
toglie l’elastico e lo lascia cadere per terra. Perché lo fa? Senza un legame
nulla sta assieme. Forse quel legame andava cancellato.
- La vedi questa? -mostra un re
altrettanto ghignante, un simbolo regale in mano, tenuto con fermezza da chi sa
che quello è il potere incontrastato. Lei guarda in basso, un altro simbolo
impugnato con sicurezza, roseo e liscio, brillante alla fioca luce che filtra
dalle tende tirate a nascondere un gioco molto curioso.
- Ogni volta che esce il re,
tu dovrai dare un bacio qui.-
Il suo sorriso si fa più
largo, sembra una cosa interessante, scommetteresti che non uscirà mai quel
sovrano egoista a cui tutti si piegano, il suo volere
e potere a farti abbassare, il suo sguardo severo, il suo sguardo paterno.
- Tu mi vuoi bene, non è
vero?-
***********
Riscoprii la terribile
sensazione delle gocce di sudore che, se raggiungono la pupilla, bruciano come
il fuoco. Eppure non sapevo che nella loro composizione vi fossero elementi
tanto fastidiosi. Pare che le lacrime siano salate, ma possono davvero far meno
male di una goccia di sudore?
Non ci credevo.
Mi trovavo in posizione
orizzontale. Diciamo che non riuscivo ancora a capire che ero normalmente
distesa su un materasso. Non il mio. Non la mia stanza. Non il luogo a cui ero devota da un'esistenza, non propriamente il solito
soffitto grigio, monotono grigiore. Non aveva affatto
l'aria di essere quel luogo inospitale a cui le mie membra riportavano i
ricordi. Dove diavolo ero?
Non mi ci volle poi molto a
ricordare gli ultimi avvenimenti, piacevoli o meno che fossero stati. Il tempo
di qualche minuto e tutto mi apparve davanti come le
scene di un vecchio film, flashbacks in bianco e
nero, tutto molto confuso. Solo il mio corpo ricordava bene due mani calde
poggiate sugli occhi, per evitare il duro contatto con la già flebile luce
notturna, ed altrettante braccia confortevoli a
trascinarmi sotto le coperte. Non una domanda, il silenzio come risposta.
Sorrisi lievemente, solo per
nascondere quasi subito quel leggero dispiegamento di labbra. Non dovevo essere
lì. Non avrei dovuto mai esserci. Qualcosa mi aveva spinta a correre in sua direzione, un coltello piantato alla
schiena o una voce tenue a richiamarmi?
Spostai lo sguardo verso la
finestra. Ricordavo perfettamente che filtrasse poca luce di notte. Tra
l'altro, chissà che ora si era fatta, quanto tempo
avevo passato fuori dal luogo della mia segregazione. Scacciai via i pensieri
come mosche fastidiose, le loro voci, i loro visi irati. Erano ben abituati a
vedermi scomparire di tanto in tanto, ed altrettanto
amabilmente abituati a farmi capire quanto questo fosse sbagliato. Non gli sono
mai mancata come quando non è presente qualcuno a te caro e lo vorresti tutto
per te, in quell'esatto momento. Mi hanno pensata, si,
come ad un soprammobile senza il quale non potevano assolutamente guardare la
televisione, cenare e discutere apertamente sui mali del mondo. Oh, la
discussione la conducevano loro solitamente, io avevo l'importantissimo compito
di annuire.
Mosche fastidiose, da schiacciare.
Questa volta mi volsi a
destra, un piccolo comodino bianco con un cassetto troneggiava al fianco del
letto. La curiosità mi pervase per un istante, la voglia di tirare quella
graziosa e semplice maniglia color latte e scoprire cosa celava al suo interno.
Un occhio alla porta. Chiusa, nessun rumore particolare. Una mano da sotto le
lenzuola si mosse in quella direzione, l'anulare stancamente tirò verso
l'esterno ad aprire il cassetto. Nessun segreto svelato, se non la marca della
sua cipria ed un ombretto cinereo.
Il suo profumo.
Un'ampolla liscia, dal collo
allungato e suadente, un bottoncino che rinchiudeva la sua fragranza. Liquido
dorato, un lieve luccichio al movimento. Le dita si mossero prima del pensiero,
prima ancora della razionalità. Avevo il diritto di frugare tra le sue cose,
forse preziose? Ma chiederselo era ormai inutile, già facevo dondolare davanti
al mio viso quel piccolo contenitore vitreo, tenendolo delicatamente tra
pollice ed indice. Troppe impronte avrebbero
annunciato il crimine commesso.
Sollevai lentamente il
piccolo tappo, portandomi il capo della botticina alle narici. Vaniglia, non
insistente, timida ma decisa. Lime, solo un pizzico per non rovinare la
composizione. Fiore di Loto, a pervaderti delicatamente.
Chiusi gli occhi. Un oceano,
lei era un oceano, e mi ci stavo immergendo
gradualmente, fluttuavo nelle sue acque di blu intenso, a perdermi
piacevolmente in una rinascita dei sensi.
Dove spruzzava questo
profumo? In che momento della giornata? Al mattino
contro la luce del sole, uno spruzzo in avanti e poi sui lati del collo. Io,
spettatrice, ad osservarla di schiena. Lei inconsapevole,
ma sorride appena le sfioro la pelle con appena la punta delle dita, labbra
lievi si poggiano nell'incavo tra capo e spalla, naso che le spazzola i piccoli
ciuffi biondi sulla nuca.
Le mani avanzavano, troppo
curiose.
Dischiusi lentamente gli
occhi, la mano ora si spostava intimidita sul ventre, l'altra ancora a tener a
mezz'aria l'ampolla. Ero nella sua casa, sdraiata nel suo letto, pensieri che
ci avevano effettivamente a che fare. Sognar di lenzuola in quel luogo non era
propriamente il caso.
Avvolta nel più soffice
silenzio, il soffitto mi volgeva lo sguardo. Quel bianco dolce ed amaro era un vuoto opprimente che voleva farmi ricadere
ancora più giù, note di pianoforte mesto risuonavano ancora una volta,
bussavano nel cranio come se solo io potessi donar loro un eterno riposo. Si
sbagliavano.
Riposi il profumo nel
cassetto, chiudendolo accuratamente, per poi portar le mani al petto ed intrecciare le dita in un gesto di muta preghiera.
Pregare per chi, o per cosa? Nemmeno per me stessa. Troppo abituata ad intraprendere un cammino in cui i tanti “vai” si
trasformavano in “vieni”. Cosa desideravo da quella
strana e disastrata esistenza? Talvolta mi ritrovavo a chiedermelo, ma non
riuscivo mai a mettere un punto interrogativo al fondo della domanda.
Lei era un oceano, calmo,
calmissimo, d'un piatto che veniva spontaneo temere
un'improvvisa oscillazione.
Io ero un'ondata, un ciclo
continuo, tornavo e distruggevo. Oh, le mie onde erano così pesanti, così
sporche.
Cosa
desideravo, dunque.
Spazzare via ogni cosa,
riportare il tutto ad uno stato primordiale.
Principalmente, ripulire me stessa da scorie infettive che portavano al male
quel che mi stava attorno. Quante persone avranno sofferto, quante hanno fatto soffrire me? Il mio sguardo colmo d'indifferenza deve aver
trafitto molte anime, inconsciamente, poiché loro erano troppo impegnate a
trafiggere me con sottili ma acuminati aghi argentei, spinti a fondo molto
lentamente, delizia per la mente.
Non ci siamo ancora.
Desideravo, dunque.
Calore, un corpo che scotta come
il solo fuoco sa fare, poggiato lievemente, un tocco dolce ed
amaro ancora una volta. Il mio inverno meritava un riposo e pensavo di venirgli
in soccorso aggrovigliandomi tra il cotone di lenzuola corrotte e la seta di
pelli consumate. Non volevo ammettere che dentro avevo
freddo, tanto freddo.
Ricercavo un piacere
continuo, ed allo stesso tempo sentivo che qualcuno
stava violentando il mio cuore.
Ciò che è stato mai più sarà.
Io sono adesso e sono stata, non ho la certezza che sarò. Non sono ancora
sicura se potrò definirmi essere vivente se continuerò a camminare su una
strada di ciottoli e vetro tagliente, senza un'indicazione, anche muta, che mi
riveli il posto a cui sono destinata.
Chiusi gli occhi, un'immagine
si formò davanti alle palpebre scure.
La voglia di raggiungere
quella figura era tale da desiderare proprio in quell'esatto momento di sparire
per sempre. Non avevo debiti in sospeso, non avevo qualcuno di preciso a cui lasciar detto qualcosa, non possedevo nulla che mi
attaccasse così tanto alle radici che mi erano state imposte.
Allora, perché?
Volgendo il viso alla destra,
riaprii gli occhi. Lei era lì, osservante, silente, un abbozzo di sorriso sulle
sue labbra di pesca, occhi di cielo socchiusi dolcemente, uno sguardo che
trafigge come mille aghi argentei, impregnati però di unguento risanante.
Il passo lento in mia
direzione, una tazza colma di liquido nero in mano, la mia bocca che si apriva
senza emettere suoni, la sua che rispondeva mancante di tonalità. Il sorriso
che si allargava, bianchi denti rivolti alla mia persona scintillavano
nell'atmosfera di chiaroscuri della stanza, labbra che si dispiegavano a
disegnare vocaboli e tutto ciò che era loro attorno spariva dalla vista, il
nero lo inghiottiva.
E solo quando fu troppo
vicina, realizzai.
Un tonfo sordo, metallo
contro piastrella. Liquido che avido macchiava ogni centimetro possibile, il
colore a dominare sull'inerme pavimento freddo. Scivolava giù e ancora giù,
probabilmente una piccola pendenza aiutava il suo corso che tutto invadeva.
Nero forse non lo era, ma la consistenza densa ed
apparentemente cremosa lasciavano intendere che il suo incedere era lento ma
senza scampo.
Un suono altrettanto sordo, saliva dentro gola. Un leggero movimento della pelle
che ne fa risuonare l'inghiottimento. Sgomento, stupore, forse paura. Non lo
sapevo spiegare, era un misto di sentimenti simili eppure così diversi tra
loro. Quanto avrei voluto condividere questa sensazione con lei. Forse provava
ciò che provavo io. Avevo solo da chiederlo.
Ma le labbra non si volevano staccare dalle sue.
Cosa
stai facendo?
Non era importante, avrei
pagato qualsiasi conseguenza ma non avrei mai interrotto un momento simile, a meno che non fosse stata lei a respingermi, ricoprirmi di
insulti tra l'altro meritati, e forse altra carne contro carne, un rossore
pulsante in volto, mai quanto quello che avevo nel petto.
Immobili se non per lievi
movimenti, lente e piacevoli carezze, forse insistenti dato che, se prima ero
da sola, ora ci muovevamo in due. Ciglia che si carezzavano a vicenda, respiro caldo batteva sulla pelle della guancia. Le
mani avrebbero voluto agire, avvicinarla ulteriormente, trasmetterle e
condividere così un soffice calore. Sussultai, perché non furono le mie mani a
sfiorare il mio viso.
Un tremito.
Le palpebre ridonarono luce
agli occhi poco a poco, incontrando le sue iridi glaciali, semplice
colorazione, nessun istinto negativo che le rendesse così spietate. Forse si. Ci distaccammo scrutandoci a vicenda, le labbra
perdevano contatto come se l'intera scena fosse stata messa in slow motion. L'urgenza di ritrovare quel contatto perduto da
pochi secondi era fortissima, quanto quella di scappare senza proferir parola.
Una punta di umidità ancora stagnava sulla bocca, se ne poteva scorgere anche
negli occhi di Chiara.
Stai piangendo?
-Scusami...-
Forse non avevo compreso
molto bene, al che le mie palpebre si spalancarono completamente.
Lei stava chiedendo scusa.
Lei, a me. Un'inversione di ruoli che non le toccava. Un semplice vocabolo che
però non lesi
addiceva affatto. Fossi stata io a chiedere il suo perdono sarebbe stato
più plausibile, ma lei non aveva colpa alcuna, a parte forse quella di non aver
reagito conseguentemente.
- Io ho agito d'istinto...
non volevo...- una mano portata alla bocca per serrare
ulteriori suoni, sopracciglia piegate in una smorfia di dispiacere, lacrime a
rigarle le guance e scivolarle sotto il mento, lungo il collo a bagnarle la
maglietta semplice e bianca che stava indossando.
Dalla mia posizione ormai
seduta, protesa verso di lei, sbigottita, una mano
timidamente dal fianco si alza come a volerla raggiungere. E si ferma a
mezz'aria, perché no, non avevo il diritto di calmarla, l'avevo sporcata del
mio io più egoistico e desideroso. Avevo completamente perso il privilegio di
coccolarla e far scomparire i suoi demoni.
L'avevo terrorizzata.
Abbassai lo sguardo al
pavimento, macchiato come avevo ben percepito da quel liquido scuro. Avrei
ascoltato ancora a lungo quel lento scorrere che tutto inghiottiva. Tutto, pur di non sentire i suoi singhiozzi, seppur sommessi.
- Io...-
- No, non c'è bisogno che tu dica niente. – mi anticipò, sorprendentemente – Mi
sono avvicinata troppo, ti ho... stuzzicata, ecco. Si,
stuzzicata...- lo ripeteva come se fosse una verità di cui doveva convincersi
assolutamente, ma non era affatto sicura di ciò che aveva appena detto. Tirava
su col naso, non si asciugava le guance con il dorso delle
mani ma lo passava invece sotto il mento, piccole gocce cristalline cadevano
con un fischio impossibile da udire. Cercava di mantenere un certo
autocontrollo, tremando nel tentativo, per un attimo dispiegò le labbra che
avevo macchiato in un lieve quanto falso sorrisetto, per poi riportare gli
angoli della bocca rivolti verso il basso. La sua prova era fallita.
Anche se le avessi spiegato
che la mia vista si era focalizzata unicamente sulle sue labbra. Anche se le
avessi provato che tutti i miei sensi, oltre alla vista, non stavano facendo il
loro dovere. Anche se le avessi accennato uno dei miei tanti pensieri contorti.
Anche se.
La paura mi stava pervadendo.
Senza replicare e tanto meno
guardarla negli occhi, scesi di fretta dal letto e mi avviai sguardo basso
verso la porta, superandola, evitando perfino di respirare per non provocare
inutile rumore. Lo so, era un ragionamento stupido, come potevo provocare suoni
tangibili con il solo respiro? Ma ad ogni cosa c'è una
spiegazione, nulla è fatto senza motivazione. Si volse verso di me, forse
mormorò qualcosa che non udii intenzionalmente. Entrai nel piccolo soggiorno,
rimasi sorpresa nel vedere i miei jeans e la mia maglietta
ripiegati e poggiati sullo schienale di una sedia. Rimasi per un istante
ferma a fissarli, ma non ci pensai troppo a lungo e li presi bruscamente,
portandoli con me nel suo bagno, in cui mi chiusi.
Esplosione.
Singhiozzi incontrollati,
entrambe le mani a coprire la bocca per evitare la fuoriuscita di suoni
convulsi, colpi di petto che annunciavano una respirazione interrotta ed irregolare. Occhi che bruciavano come carboni ardenti che
avrei volentieri cavato dalle orbite. Speravo con tutta me stessa che la mia
anima fosse un tempio impenetrabile, volevo fare del mio piccolo castello una
fortezza con un unico soldato, talmente imponente che nessuno poteva piùintrufolarcisi.
Ed ancora sbagliavo, mentivo a me stessa, avevo freddo
ed ero nuda davanti ai suoi occhi.
La porta a
sorreggermi e nascondere al di là tutti i suoni della mia distruzione. Non volevo vedere, non volevo
far troppa luce su cos'era accaduto, qualcun altro avrebbe acceso il lume e
riscritto quanto necessario, ma non io, no, sarei sparita. Temere le
conseguenze di qualcosa che non era ancora iniziato
era uno dei mali più terribili che affliggeva la mia persona.
Mi cambiai in fretta
ripiegando i vestiti che mi aveva prestato e
mettendomeli sottobraccio. Buttai lo sguardo allo specchio, il mio stato era
veramente disastroso. Strofinai gli occhi con il dorso della mano per poi
sfregarla nella mia maglietta, tirai le spalle indietro più volte per
sgranchirle, allungai il collo verso l'alto per assumere una posa più o meno degna prima di girare la maniglia ed uscire.
- Questi te li riporto lavati
il prima possibile. - le dissi, trovandomela quasi
davanti appena tornai nel soggiorno. Non la guardai negli occhi,
ma notai nei suoi gesti un timido tentativo di bloccare la mia avanzata,
fallito anche questo forse timorosa di una mia reazione poco gentile, o chissà,
forse voleva semplicemente farmi andare e basta. Ad ogni modo, non replicò alle
mie parole, o meglio è quello che mi parve il suo mugolio, un suono senza alcun
significato particolare.
Scappavo.
Lo ammetto.
Ma sentivo uno strano formicolio alla gola, alle
ginocchia, sulle guance, al petto. Percepivo uno sguardo sulla mia schiena che
mi fece attendere un momento sulla porta, dandole le spalle. No, era solo una
sensazione momentanea, dovevo scrollarmela di dosso, mi avrebbe avvelenata e sopra ogni cosa avrebbe fatto del male a lei.
Anche se odiavo tanto chi voleva decidere della mia vita, in quel momento avevo
scelto che sarebbe stato meglio così, almeno in quella determinata situazione.
Ammetto anche questo.
Ma una volta varcata la soglia la vista si annebbiò di nuovo, forse a causa di ciò
sbattei contro la ringhiera delle scale ed incespicai nel scenderle. Non avevo
equilibrio, non riuscivo a ritrovarlo, la nebbia mi impediva
un cammino sicuro e solo io sapevo cos'avevo nella mente in quegli istanti. La
nebbia scese sulle mie guance, un piccolo grido di dolore lancinante si
abbandonò all'eco dei gradini.
Tutta la forza che avevo
acquisito mi abbandonò come granelli di sabbia al vento.
Domani potrò sorridere con
naturalezza di ciò che è successo oggi, come se nulla fosse realmente accaduto,
un evento senza significato alcuno, un particolare caso della vita.
Ho sempre portato avanti la
mia vita secondo questo ragionamento.
Ma quella volta non riuscivo a gestire il gioco come
desideravo.
Non sentivo la necessità di
frasi fatte che sicuramente l'indomani avrei dimenticato, pensando a ciò che
era accaduto in quegli istanti, cinque minuti di ordinaria frenesia.
Avevo portato avanti quel gioco
più a lungo del solito.
Non c’è problema, sarò
sicuramente capace di crearmene un altro, speravo.
Ti prego, dimmi che questa
fitta è solo un’illusione.
Ti prego, dimmi che non sono
me stessa in questo momento.
Ti prego, dimmelo, perché
nonostante io stia creando volontariamente questo gelo, nonostante mi stia estraniando consapevolmente da questa sensazione, il
mio cervello necessita l’adrenalina che solo tu gli sai donare.
Pensavo tutto ciò, ma non ero
più in grado di riconoscere un sentimento così devastante.
*******
Lunghi fili amaranto tra le
dita, come intricate trame di un tappeto orientale. Finissima qualità, ultimi
pezzi, prezzo stracciatissimo. Anche la dignità si svende a basso costo. La
fiera dell’impassibilità.
Nuvole d’alito di lieve grigio
vestite invadevano l’aria. E volteggiavano, e volteggiavano.
La mano tesseva le trame, ne tirava i legamenti con audacia e non poco sadismo.
Sorriso, poi un lamento. La stretta si faceva più forte, le labbra si
allargavano, talvolta si bagnavano, un calore rinnovato, nuotare nel fuoco
liquido e tirare ancora.
Ritrovarsi poi a osservare il
buio davanti a sé ed essere consapevoli che quella seta filante aveva un
principio, ritrovarne i lineamenti nell’oscurità, vederne le fauci assetate
spalancate ed immaginarne la saliva scivolare agli
angoli della bocca. Cristalli di acqua espulsi con eleganza
dalla pelle della fronte, percorrerla fin a morire sulla federa del cuscino.
Tentare di dimenticare,
mentire ed accantonare, desiderio di cancellare
definitivamente. Forse stavo esagerando, ma almeno tentavo di farlo con dannata
eleganza ed un certo oscuro fascino.
La vittima si adagiava sul
giaciglio, distendeva mollemente i muscoli fino a poco prima tesi allo stremo.
I sussulti cessarono, il collo si riposava dopo la tensione, fili rubino
scivolavano dalle mani per ricadere sulla nuda schiena martoriata da lividi di
una battaglia che pareva ormai lontana. Una collina che si alza a ritmo
sostenuto d’un soffio di fiato, la mano si scostava
dalla trincea invasa dal fiume impetuoso che l'aveva violata. Agognata pace dei
sensi.
L’immutevole ghigno, bianco
avorio che luccicava nel buio delle mie labbra, i capelli ad
oscurarmi ulteriormente il volto, lo sguardo nascosto ma divertito, di chi
osserva la vittima della propria libidine, del proprio capriccio, della propria
fuga dal mondo. Appoggiare le labbra su quelle bianche spalle tremanti
provocava un pungente senso di nausea.
- Pensavo volessi staccarmi
la testa.- una lamentela ancora scossa, ansimante, potevo percepire l’ira
penetrante di quelle parole mista ad una punta di
orgasmico lontano piacere, sul suo volto, contratto sotto il palmo della mia
mano che andava a carezzarla come magra consolazione.
Un gesto furtivo e le dita
tornano alla testa, l’afferrano e la tirano indietro
come se fosse stata una palla montata su di una molla, un giocattolino da
strapazzare a piacimento. Un acuto gridolino, labbra sottili a sussurrare al
suo orecchio.
-Se avessi voluto, l’avrei
già fatto.-
L’immagine dei suoi occhi
spalancati a perdersi nel terrore mi invase la mente.
Era forse quella una minaccia? Un avvertimento scherzoso e gratuito?
Sicuramente per nulla al mondo richiesto. Come potevo trovare divertente
spaventare una creaturina innocente che si abbandonava in abbracci sbagliati,
quasi del tutto assenti di emozioni?
Stringere le braccia ad un blocco di pietra non porta altro che la disperazione
nello scoprire che non ha nemmeno una briciola di quel calore ricercato.
Pioggia, nudità, voluttà, tre
vocaboli che potevano essere così imparentati come estranei totali tra loro, in
quel momento. Tutti concentrati in quella stanza invasa dal calore d’estate e
dall’odore penetrante di umidità, di qualsiasi genere. Un odore rivoltante. In
fondo, perché lamentarsene? La vita è effimera. Come le nuvole, è solo un
passaggio. Una danza macabra vorticante, l’occhio del ciclone
prima o dopo ti verrà a prendere con le sue catene arrugginite. Quindi perché lamentarsi?
La mia malattia rendeva
instabile qualsiasi pensiero di senso compiuto.
Tanto valeva cogliere
l'attimo.
Mi trascinai sulle lenzuola
come un verme portato via dalla corrente, oh quella corrente
che ancora non giungeva. Le membra sempre più stanche, riempite di un calore
insufficiente.
Non mi
sentivo affatto calda.
Mi diressi lentamente verso
la finestra, il legno del pavimento scricchiolava sotto i miei piedi scalzi,
pareva quasi che alcune schegge si conficcassero nelle palme, lente nel
penetrarle quanto il mio passo a calpestare quel percorso di chiodi. Sarebbe
stato un doloroso seppur meritato calvario.
Ma vi era veramente dolore anche quando si ritrovava
piacere nel più sordido dei passatempi?
Anche il rimuovere
necessitava la sua anestesia, in qualsiasi modo essa fosse somministrata.
Poggiai le mani sul piccolo
davanzale interno, una decina di centimetri di marmo sporgente. Grigiore puro,
della pietra stessa, niente fumo questa volta ad
intossicarne le venature. Era maledettamente puro, nato in quello stato, non
desiderato, naturale. Cenere di luna che gli piove addosso, coriandoli spenti e
mesti, triste volteggio, fruscio di fogliame smosso dal vento all’esterno.
Pallida luce abbattersi sul mio viso, ondata lattea a delineare
i contorni di un’espressione tra il compiaciuto e l’impassibile. Non si sa per
cosa, non si sa perché, o meglio non ne capivo io
stesso il motivo per entrambi.
Denti sulla mia spalla, forti
nella carne, prepotenza ed ingordigia, un rivolo
porpora lento scese lungo il braccio come un vecchio stanco che vorrebbe
fermarsi a riposare, ma sa che manca poco, veramente poco all’arrivo. Morsi il
labbro inferiore, strinsi le palpebre quasi in ricerca di un pelo di
concentrazione che oscurasse quel dolore. Ma ve n’era
uno anche più grande, sopito in qualche antro profondo. - Questa è la punizione
per prima.- sorrise, il viso tagliato in due nette parti dalla luce lunare,
lingua ingorda che corre lungo il collo, mani a tenermi fermo il viso in avanti
obbligato a vedere il grande globo fluorescente galleggiare nel cielo.
Il dolore andava lentamente
dissolvendosi, le labbra a distendersi. Incantata
nell'osservazione del satellite, parassita dell'oceano stellare, specchio del
pensiero fisso. Speravo se ne fosse spontaneamente andato, invece era
ancora lì, guardingo, pronto a riaffiorare scivoloso e candido. Rifletteva il
sorriso di quell'immagine che desideravo ricacciare, il sorriso che ho distorto
in un lacrimare con il mio gesto impellente. Ed ora
era lì, flashback come luce di una stella che brillava forzatamente prima di
andare a spegnersi in un clamoroso bang, nel silenzio dell'universo.
- Bè, non dici nulla? Sei
molto diversa da qualche minuto fa. – le mani scivolavano sul seno e
proseguivano sul ventre, a pochi passi dalle porte dell'inferno, la fonte della
mia brama di potere, il meccanismo che accendeva il mio gelo – Ti facevo molto
più... calda.-
- La luna è una menzogna.-
- Eh? -
Non pretendevo che capisse,
né che rispondesse in modo quantomeno ragionato. Non potevo permettermi il
lusso di pretendere qualcosa da lei. Non rappresentava niente e non era nelle
mie mire, se non quelle più basse. Non avevo di fronte qualcuno in grado di
comprendere, forse prendendomi gioco di quella creatura desideravo la sua
confusione.
Vedevo una ferita, la
cicatrice del tempo. Leggermente aperta, totalmente asciutta.
Il paradiso è un luogo, un
sogno o una squallida bugia?
La luna mi inondava
il viso, ma non vi era traccia alcuna di lei.
************
Cercando solo cose belle e
vedendo solo cose false e vuote, come potevo non
lamentarmi della realtà? Era dura ammettere che ero arrivata al margine, al
punto di non ritorno e, sorprendendo me stessa guardare in basso, quell'abisso
mi sembrò troppo profondo e mi coprii gli occhi con le mani.
Ma anche il fermarmi mi spaventava. Non aveva una logica
compiuta stare sul bordo ed aspettare che qualcuno
costruisse un ponte per me. Potevo udire quella soffice voce appena sussurrata,
una carezza all'orecchio che diceva: Essere tristi equivale
all'arrendersi.
Più mi avvicinavo al confine
e più sembravo comprendere, più fingevo di non vedere. Era una barriera
sottile, nylon soffocante, palpabile perfino nell'aria per quanto era spesso.
Quale aria, poi? Soffocavo.
Esitavo nel compiere un
apparente semplice passo avanti.
**********
Due messaggi non letti.
Una chiamata senza risposta.
A forza di giocare a
nascondino in dimore semi-sconosciute avevo perso la strada di casa. Non ne ero
molto distante, ma la voglia di tornare al nido era pari allo zero. I lampioni
della via illuminavano ben poco la strada, attorniati da sciami d'insetti
goduriosi per l'emissione di quella pallida, seppur calda, luce.
Il traffico era normale per
essere una sera del fine settimana, qualche
motociclista allegro ma non troppo, una manciata di automobilisti che
viaggiavano in tutta tranquillità verso mete ignote, sicuramente più interessanti
della mia. Coppiette a braccetto, ragazzine schiamazzanti e ragazzi perplessi
per i loro comportamenti infantili, qualche anziano in comitiva che predicava
sulla società moderna ed i classici giovinastri.
Sospirai. Non vi era nulla di
eclatante in quell'umanità deambulante. Ormai nemmeno
più i vecchi saggi sapevano a cosa attaccarsi: i giovani, le donne, la droga,
le tasse, la guerra. Adoravo ascoltare la nonna parlare per ore instancabili di
moda dei suoi tempi e musica che fece realmente la storia, non certo i moderni
loop dello stesso patetico, rimbombante suono. Quelli si che erano argomenti
potenziali per migliorare la giornata di un giovane stanco della vita.
Una sigaretta e via, seguita
da un'altra e ancora un'altra. Il sapore di tabacco bruciato aleggiava nella
mia bocca soavemente, mi immergeva in una nube
elegante che danzava amabilmente, potenzialmente tossica, suoni blues in
sottofondo accompagnati dallo sfrecciare delle luci notturne. Apatia e
pesantezza s'impadronirono presto del mio corpo, lo lasciai andare ad un passo
lento e dondolante, come una vecchia ubriaca cantilenante.
Una luce più vicina delle
altre.
- Cosa diavolo stai facendo
qui?-
Le membra si
irrigidirono all'udire quella voce nota. Quel tono pesante e grave non
lasciava trapelare sentimento alcuno, se non scherno e rimprovero, misti in un cocktail micidiale. Sentii ripetere le medesime
parole, possibilmente più forti e vive, più irritate. Un invito a salire in
macchina. Invito? Ma che dico, l'ordine senza mah né
bah. Fu in quel momento che i miei piedi scattarono, ma in avanti,
l'espressione intraducibile di chi temeva qualcosa, qualsiasi cosa. Ancora urla
e gli astanti a voltarsi e mormorare le frasi del caso, parole d'indignazione,
bisbigli così lievi che arrivarono perfino alle mie orecchie.
Ordini, ordini,
solo ordini. Il registro non cambiava con la situazione, l’assenza della
ribelle doveva essere colmata con l’ansia alitata sul collo, denti attanagliati
alle carni e non un sol grido di dolore, pena la morte psicologica. Oh, ironia,
come se ci fosse ancora qualcosa in me che potesse definirsi vivo.
La gabbia,
era quella la mia strada.
Varcata la soglia di casa, un
braccio rosso ed a tratti violaceo tenuto da una mano
pesante con la stretta dolorosa, volgare, a trascinare il bambino cattivo che
aveva fatto una marachella più grossa di lui. Trascinata, un sonoro schiaffo
sulla nuca, il tempo di girare la chiave nella serratura ed ero già testimone
del volo di tante mani, e della loro irrimediabile caduta a ripetizione. E sempre
dolcemente trattenuta fui chiusa letteralmente in quel
luogo di dolore dal materasso di granito, i mobili macabri e lo schermo tetro
che rifletteva la mia immagine trasandata. Clack clack, fece la chiave nella
serratura arrugginita, bam bam fece il pugno con la porta a dimostrazione di
quanto era stata irritante la mia trasgressione.
- Una puttana! Ti giuro! Una
puttana! Ma se la becco ancora una volta l'ammazzo!
Con tutto quello che facciamo per lei le trova tutte
pur di infangare il nostro nome! -
Magari avessi esercitato quel
simpatico lavoretto per davvero. Almeno qualche soldo in tasca ce l’avrei avuto e bye bye a tutti quanti, chi s'è visto s'è
visto. L'asfalto emanava sicuramente più calore di loro due messi assieme.
- Sarebbe stato meglio se fosse
morta quel giorno! -
Si, bye bye.
Cinque messaggi non letti.
Sette chiamate senza risposta.
Grigie
nuvole abbondavano sul soffitto, fluenti fiumi incolori attraversavano la
stanza e dannazione, era anche la mia ultima sigaretta. Il pacchetto accartocciato
giaceva sullo sghembo comodino al mio fianco, troppo alto per un uso normale,
abbastanza per sbatterci il cranio durante il sonno.
Ormai vedevo tutto attorno solo cattiveria
architettata su misura per la mia persona in ogni minuzioso dettaglio, atroce
giudizio che aveva poco di divino e fin troppo di umano. Anche il letto
scricchiolante di modeste dimensioni doveva aver a che fare con una qualche
spedizione punitiva di quando il mio essere aveva varcato la prima volta la
soglia di questa casa.
Le
luci della vita saettavano attraverso le tapparelle, vagonate di luccichii
apparivano e sparivano contro le pareti. Quando si dice propensione naturale,
ecco che rispondevo alzando la mano: la sensazione di essere una lucciolatormentava le mie
notti, e non di quel tipo di presenza notturna a cui ero stata paragonata.
Curiosa la vita di un insetto il cui unico pregio è emettere flebile luce
nell’oscurità estiva dei giardini. Soffice presenza per nulla scomoda e
totalmente pacifica ad abbellire i sogni dei bambini per i quali, secondo
leggenda, dovevano esaudire un semplice desiderio.
La
mia luce è tutto meno che flebile.
E’
interna, nascosta agli occhi della gente comune, essenza preziosa ed a tratti per nulla gradita a chi gestiva la sua
sopravvivenza con semplicità e disinteresse. Nessuno aveva colto quella
sostanza luminescente o meglio, bugiarda, una persona l’aveva colta, la
prima in assoluto.
Hai l’aria di essere una
persona che soffre molto. Sembri spavalda e sicura di te, ma è la malinconia
che ti attanaglia.
Quella
persona, chissà come si chiamava. Una delle tante. L’unico prezioso ricordo che
ho di lei è questa constatazione a cui avevo risposto
con un no secco del capo ed un sano mutismo. Perché poi le sue braccia mi
avevano avvolta, pelle contro pelle, ancora non me lo
spiego. E di nuovo mi riscopro bugiarda, ma era più facile non ammetterlo.
Quella stretta consolatoria era scomoda e toccante, grande
motivo di rifiuto verso di lei e soprattutto verso me stessa.
Ho
sempre creduto che le persone infelici avessero solo due possibilità: trovare a
tutti i costi la motivazione portante all’appagamento
completo o condurre un’esistenza empia addossandosi ogni colpa del mondo. In
entrambi i casi, è comunque un morire.
Una
vibrazione improvvisa, l’ennesima. Alzai il capo e lo voltai in direzione del
cellulare. Altro messaggio, altro rifiuto, ma andava bene anche così. Se il mio
desiderio era annullarmi totalmente per alcuni soffici istanti, il controllare
il mittente di tal ricerca mi avrebbe dato una luce di speranza o forse
un'altra pedata sulle dita attaccate all’orlo del baratro.
Perché
rischiare?
Tanto
valeva auto lesionarsi con la negazione totale verso quella luce che non mi
apparteneva. Avrei semplicemente fatto prima a spegnerla del tutto e svuotare il
cervello di frasi ridondanti e rumorose.
Maledetto
doveva essere il mio masochismo.
Pigramente
mi alzai dalla postazione e presi il posacenere, frugando al suo interno alla
ricerca di qualche cicca spenta a metà. Per mia fortuna ve ne erano parecchie, per
consapevole che sarebbero durate poco rispetto ad una
normale boccata completa. Con la smania di trovare il cancerogeno tesoro
rovesciai il contenuto sopra la coperta, spulciando una ad
una le probabili vittime della mia frenesia, che di vittima reale facevano loro
me. Scartando i mozziconi inutilizzabili scelsi con cura il recuperabile ed una due tre quattro, in un colpo già finivano con le
anime delle loro sorelle verso il paradiso nebbioso del soffitto. Osservai
stanca la cenere sulle lenzuola per qualche istante, labbro penzoloni ed occhi socchiusi come solo un tossicodipendente avrebbe
fatto ed effettivamente mi stavo anche tenendo il braccio, unghie nella carne,
un ritorno alla realtà oppure un lento riportarmi nelle tenebre?
Notte,
sii più lenta, liberatoria. Lascia che mi vesta del mio telo trasparente,
lasciami volteggiare in un balletto di luci acrobate, sono già il pagliaccio
danzante di questo circo di maschere, non devi far altro che darmi il La. Ogni
cosa di me è difetto, ogni piccola vibrazione fa incrinare il mio cuore di
cristallo cinereo. A chi non vive realmente non
importa di cosa accadrà domani. Questi individui non ruberanno mai l’emblema
dei vivi, la sfera cocente delle giornate d’agosto. A chi tiene basso lo
sguardo, la visione ombreggiata del terreno è l’unica fonte amica di conforto.
Un
gesto secco e mischiai una lacrima ai residui di luna sulla
lenzuola, ci scarabocchiai una casa, una montagna, un fiume. Per un istante
tornai bambina e tentai di addomesticare l’assurdità del mondo con il gioco
arcano dell’immaginazione.
Il suo problema
principale era di fare tutto di fretta. Alzarsi, vestirsi,
prendere decisioni e anche andarsene. Non ho mai smesso di crederlo. Era
costantemente pervasa da una scossa elettrica che in brevissimo tempo collegava
i neuroni al resto del suo corpo. Prenderla? Macché, avrebbe trasmesso la sua
corrente anche a me.
Per questo ora mi intrometto senza invito scritto.
Dal momento in cui decise
di fuggire, avevo già in mente di correrle dietro per quanto il fiato me
l’avesse permesso. Lei correva e preferiva lasciare una grande voragine in
questa storia, o forse cancellarla completamente.
Ma io no, non ne avevo nessuna intenzione.
********
Non osavo fermarla anche se avrei potuto, ma non necessariamente
voluto. Avevo ancora in mano i vestiti che mi aveva restituito quando, una
volta chiusa la porta dell’appartamento, potevo sentirla correre di fretta giù
per le scale, alcuni singhiozzi, l’ingresso del condominio aperto con tanta
forza ed abbandonato così com’era. Avrei preferito
sentirlo sbattere con violenza.
Potevo semplicemente
precipitarmi alla finestra di camera mia per poterla scorgere da basso, urlarle
di fermarsi, di non aver paura, che non l’avrei odiata, che non c’era una
ragione precisa per prendersela. Avrei facilmente mentito a me stessa.
E mentre abbassavo lo
sguardo, osservando distrattamente la maglietta da lei usata, pensavo a quanto dev’esserle stato stretto quel capo. Non mi ero soffermata
troppo sulla sua corporatura, non rientrava nel mio interesse. Ricordavo però
che la stoffa tirava molto sulla sua schiena e probabilmente anche il colletto
era troppo stretto. Soffocante. Era umida di ricordi scivolati dagli occhi e
dal corpo, ed in quel momento contribuivo poco
volentieri ad inumidirlo.
C’era un grande perché a
tutto questo, scritto con caratteri cubitali, sottolineato,
in grassetto. Preferivo scacciarlo perdendo lo sguardo nella maglietta, anche
se non la stavo osservando veramente. Quando c’è nebbia, gli occhi non
funzionano a dovere.
Non ero arrabbiata. Come
ho già detto, non esisteva un valido motivo per esserlo. La sensazione era ben
diversa, le stavo dando un nome ma sarebbe stato
troppo precoce parlare di.
Di. Nemmeno il cervello voleva saperne di
pronunciarlo, non sarebbe stato veritiero. Ero curiosa, questo lo posso
ammettere con tranquillità e forse era l’unica certezza del momento. Talmente
incuriosita da quell’essere freddo che preferii girare i tacchi verso il bagno,
riporre i vestiti nel portabiancheria e sciacquarmi la faccia. Volevo vedermi
allo specchio e constatare quanto nulla fosse
cambiato, ma la paura di ritrovare le sopracciglia piegate in un’espressione
turbata era troppa.
Mi recai in camera ed iniziai a sfogliare distrattamente un tomo scolastico,
seduta alla scrivania ancora colma di boccette colorate. Le guardai
distrattamente per notarci il riflesso distorto del letto alle mie spalle. Le
lenzuola erano macchiate di caffè, probabilmente alcune gocce erano schizzate
verso l’alto quando lasciai andare la tazza. Il letto non è interessante, pensai,
volgendomi di nuovo sulle scritte del libro. Alcuni elementi come blablabla
usati nelle aziende Vattelappesca potevano portare gravi conseguenze alla
salute della popolazione adiacente la zona di scarico.
Che bella cosa, estremamente interessante: quasi tutte
le sostanze, in certe dosi o in determinate circostanze possono essere
tossiche, con le più disparate conseguenze che vanno dal banale mal di stomaco
al decesso.
La saliva di Sara era decisamente tossica.
Scossi la testa, alcune
ciocche di capelli ricaddero sulla mia fronte pungolandola. Ripresi la lettura
sfogliando a caso un altro volume: le endorfine svolgono azioni di
coordinazione e controllo delle attività nervose superiori, tanto da poter
eventualmente instaurare patologie del comportamento, nel caso in cui il
rilascio divenisse incontrollato. Euforia o stanchezza. Altre informazioni
molto interessanti, che non aiutavano il mio stato d’animo.
Richiusi l’ennesimo libro
con uno scatto d’ira, come se la carta potesse assorbire il mio nervosismo. Forse
desideravo che i fogli mi tagliassero le dita, per darmi una buona ragione di
collera e dolore. Poggiai la fronte al bordo della scrivania, lasciando le
braccia a penzolare lungo i miei fianchi. Le sopracciglia erano piegate verso
l’interno, gli occhi assottigliati e gli angoli delle labbra puntavano verso il
mento.
Le labbra, già.
Disidratate e scocciate da quella sensazione. Non avevo alcuna intenzione di
bagnarle con alcun tipo di saliva, meritavano quel
deserto più di qualunque altra parte del mio corpo. Frustrante sentirle
implorare “ancora” e non capire precisamente che diavolo desiderassero.
Un richiamo silenzioso e
volsi appena lo sguardo verso il letto alle mie spalle. Sopracciglia piegate.
Perché quel pezzo di arredamento mi desse così tanto fastidio
era fin troppo ovvio, anche se cercavo risposte alternative. Più che fastidio,
mi sentivo estranea a quelle lenzuola in cui avevo
dormito per circa un paio d’anni. Potevo eliminare facilmente il problema
lavandole o cambiandole. L’aria, in compenso, avrebbe avuto la stessa
pesantezza.
La prima volta che incontrai Sara mi sembrava una ragazza molto sicura di sé,
determinata nel suo lavoro e nelle sue affermazioni. Ero entrata per puro caso
nel gruppo di giovani artisti che esponeva nella struttura dove lavorava,
avendo ascoltato dei ragazzi della mia facoltà parlarne piuttosto bene. Non era
necessario essere Leonardo per vedere il proprio pezzo esposto in una delle tanti pareti di quel luogo e la cosa mi attratta
parecchio, non essendo troppo entusiasta del mio corso di studi. Affiancare la
ricerca ad un hobby, forse entrambe le strade non mi
avrebbero portata ad un impiego sicuro. Perché non tentare, mi chiesi
all’epoca, e così entrai in contatto con quei giovani e lei. Le sue mansioni
erano semplici per quel che mi aveva spiegato: prendere nota delle quote di iscrizione, pubblicare su un sito internet informazioni
riguardanti nuove mostre, entrare in contatto con chi aveva intenzione di
mostrare ad uno scarso pubblico la propria opera.
Mettere a proprio agio
gli autori dilettanti era una delle cose che le
riusciva meglio, per esperienza personale e per sentito dire. Elogiava chi
andava elogiato e stroncava con gentilezza chi andava
stroncato, pur dando una concreta possibilità futura di esporre. Cordiale
nell’elargire speranze, non avrei mai creduto sarebbe
venuta a chiedermi di strofinarmi a lei in giochi notturni.
Ecco, era quello il suo scopo, sin dall’inizio.
Ma c’era dell’altro. L’avevo vista sorridere
raramente nel periodo in cui ci siamo frequentate. Quando mi ha avanzato quel
timido modo di scusarsi, subito dopo la proposta oscena, mi sono detta che
potevo perdonarla, non c’era nulla per cui essere arrabbiati, si poteva
risolvere. Le stesse frasi che pensavo dopo che aveva
preferito fuggire. Cosa che d’altronde avevo tentato io stessa quando, nel
locale dove ci siamo in seguito incontrate, aveva nuovamente palesato il suo
interesse per me.
Chissà che tipo di interesse,
poi.
E nonostante le avessi
concesso questa possibilità di “conoscenza approfondita”, non sembrava molto
felice. Lo era, sicuramente, ma quando mi rivolgeva lo sguardo
non potevo far altro che trovarlo spento, assente. Mi guardava, ma non guardava me. Osservava al di là di
me. In tutta risposta, io cercavo di vedere dentro di lei ma il buio era tanto
e non pareva aver voglia di aprirmi alla sua luce. Mi spaventava, forse, ma
amavo questo brivido e nacque la curiosità.
Pensavo a tutto questo
osservando intensamente il mio letto. L’estraneità non era ancora cessata, ma
potevo metterla a tacere, se solo avessi avuto
abbastanza forza di volontà. Sospirai, la posizione che avevo assunto mi aveva
intorpidito braccia e gambe e dovetti per forza alzarmi per scuotermi.
Non c’era niente per cui
valesse la pena arrabbiarsi. Tutto si poteva risolvere. Me lo ripetevo come una
sorta di preghiera, anche se ancora poco convinta. Camminai lentamente in
direzione del letto, osservandolo con aria di superiorità, mordendo l’interno
della mia bocca. Anche se le macchie di caffè saltavano
immediatamente all’occhio, prima ancora vedevo una distesa di bianco.
Presi il telefono cellulare dalla tasca dei jeans e, mentre prendevo
posto sul materasso, mandai un messaggio al numero di Sara. Non risponderà
subito, pensai, è ovvio che sia ancora scossa. Forse pensa che io la odi. Anche
se…
La odiavo?
Il messaggio non mi
bastava. Egoisticamente volevo sentire la sua voce e ripeterle la preghiera con
cui io stessa mi convincevo che andava tutto bene. Dopo aver composto il
numero, attesi per un minuto intero che premesse il tasto per accettare la
chiamata. Attesa vana. Non dev’essere lontana, forse
ha spento il cellulare. Non che questi pensieri estinguessero la voglia di
sentirla. Vederla. Abbracciarla?
Le labbra erano davvero
esauste di quel deserto che le avevo imposto. Anche la lingua, a forza di
rimanere rinchiusa nella gabbia di denti, desiderava prendersi una boccata
d’aria in tutti i sensi. Tante piccole scosse la attraversarono quando andarono
a bagnare l’esterno, corrente elettrica che non mi apparteneva. Poi il black out.
******
Le lezioni universitarie
mi tormentavano, dal momento in cui ogni messaggio ed
ogni chiamata era un buco nell’acqua. Prendevo pochissimi appunti e ciò non
avrebbe giovato ai miei prossimi esami, ma non riuscivo a tranquillizzarmi finchè qualcuno non avesse risposto a quei piccoli
richiami. Mi bastava anche un “no” scritto di fretta, forse era una pretesa
troppo grande per esaudirla.
Il professore del corso
enunciava i benefici dell’usare determinate sostanze piuttosto che altre.
Agitava la mano per rendere meglio l’idea che no nono, facendo così boom!,
e se invece avremmo agito in modo diverso ok! Alle scuole superiori, la
consulente psicologa per gli studenti mi aveva spiegato di fare molta
attenzione al linguaggio del corpo, perché poteva nascondere informazioni non
udibili. L’unico dato che captavo riguardo quel docente è che gli avrei
volentieri chiuso la bocca con il tomo di chimica. La mia sopportazione a
qualsiasi cosa era davvero allo stremo, temevo di rendermi troppo ostile verso
chiunque a causa dei miei tormenti.
- Allora? – bisbigliò la
mia compagna di banco, cogliendomi di sorpresa e facendomi sussultare. Mi
voltai verso di lei, alla mia destra, osservando con la coda dell’occhio che il
professore non notasse la nostra disattenzione. Aggrottai le sopracciglia,
scuotendo la testa e chiedendole: - Cosa? -. Il suo sorriso di
allargò ancora di più. Prese in mano il telefonino che avevo posato sul
banco, scuotendomelo davanti al naso come un pendolo, probabilmente aveva notato
che l’avevo tenuto d’occhio negli ultimi giorni. – Allora… quando ci presenti
il tuo ragazzo?-
- Il mio che?!- sbraitai richiamando l’attenzione degli altri studenti
in aula. Afferrai subito una matita e finsi di scrivere intensamente sul mio
quaderno di appunti, tenendo lo sguardo basse per non
far notare il rossore che stava sovrastando il mio volto. Qualche risatina
bassa fece il suo ingresso nell’imbarazzante silenzio creato dopo il mio grido,
forse trovavano divertente (soprattutto alla mia
destra) il mio aver interrotto la spiegazione interessantissima della lezione.
Alzai di poco lo sguardo per incontrare quello del professore dietro la sua
cattedra, con aria interrogativa ed evidentemente scocciata. Abbassai
nuovamente gli occhi sul mio quaderno, pasticciandolo di linee senza senso dal nervoso.
La lezione riprese
pacatamente e presto fu tutto dimenticato. Solo le guance non volevano saperne
di scottare meno. La mia compagna di banco ancora giocherellava con il mio
cellulare, almeno finché non glielo strappai di mano prima che avesse accesso
alla rubrica. Sorrise anche a questo gesto, come se avesse trovato il giocattolino divertente con cui ammazzare il tempo di una
noiosa lezione. – Mi sembrava strano che di recente uscissi con qualcuno. Tu,
tanto dedita allo studio… - ironizzò a bassa voce, conoscendo bene la mia
scarsa vita sociale ed altrettanto poco entusiasmo
verso l’università. Si portò una mano sotto il mento, osservando con occhi
assottigliati le file di banchi oltre i nostri e dubitavo cercasse di sbirciare
gli appunti degli altri. Con la mano sinistra mi prese il braccio per
richiamare la mia attenzione, con la destra indicò un ragazzo nella seconda
fila. – E’ lui, ne sono certa, andavate alle superiori assieme. –
Mi liberai con uno strattone
dalla sua presa, assumendo uno sguardo irritato. Il fatto che uno dei nostri
compagni di classe fosse tale anche alle superiori non aveva alcun significato,
le probabilità che mi avesse seguita dopo erano vicine
allo zero. Ci mancava effettivamente poco, dato che talvolta si rendeva
insistente nel chiedermi un ripasso assieme a casa sua o tentava di offrirmi un
aperitivo ogni volta che ne aveva l’occasione. Questo genere di ragionamenti potevano fare solo parte della mia fantasia e di quella
delle pettegole: non ero ingenua di fronte alle relazioni, mi mancava
semplicemente la pratica. Da quando frequentavo una certa fuggitiva, certe
logiche parevano ancor più lampanti.
- No, ti sbagli. – scossi
semplicemente la testa, fingendo ancora una volta attenzione verso il blaterare
del professore. Come poteva passarle per la testa che una testa
calda come me avesse la benché minima intenzione di uscire con un tizio come
quello? Era gentile, ben educato, a suo modo divertente e si,
aveva anche un bel fisico. Tutti quei muscolaccinon si addicevano affatto al nostro percorso di studi, si
sarebbe piazzato meglio a scienze motorie. Il suo modo ebete di sorridere mi infastidiva, come se i denti sarebbero stati risucchiati
dalle gengive da un momento all’altro. Le sue battutelle
da quattro soldi strappavano un sorriso ma nei suoi occhi non vedevo nulla che
brillasse.
Ben le avessi esposto
questi ragionamenti, la compagna di banco non avrebbe rinunciato allo scoop. A
chi scrivessi, con che umore lo facessi e la ragione che mi faceva prendere in
mano il telefono una decina di volte all’ora non le
interessava. Non avevo alcuna intenzione di accontentarla: non avevo ancora
ottenuto la risposta che desideravo, mi costava troppa fatica spiegarle tutta
la storia. Sempre che mi avesse sinceramente creduto. Sempre che non le facesse
ribrezzo il fatto di aver catturato le attenzioni di un’altra donna. Sperava
vuotassi il sacco, convincendomi con l’assillante pungolare delle sue dita sul
mio braccio.
Mi costava molto dire la verità?
O forse mi costava ancor
di più raccontarmi una bugia.
Con la mano sinistra le
fermai quelle dita fastidiose, stringendole per un momento. Era ben diversa
dalla stretta con cui mi aveva intrappolata Sara quel
giorno delle scuse; i sentimenti erano ben differenti, volevo semplicemente
zittire quella mosca fastidiosa. – Non è lui. – bisbigliai, lanciando
un’occhiata verso il ragazzo da lei prima indicato. Mi fermai un attimo per
riflettere, e la riflessione mi portò a sorridere.
- La persona con cui sto
è decisamente più affascinante.-
********
La mia affermazione non
era del tutto errata. Forse non era all’altezza delle modelle più conosciute
nel mondo, né credo le interessasse farne parte. Aveva un certo fascino nel
modo di camminare, di gesticolare, di osservare, di parlare. Quella leggerezza
che accompagnava le sue mani, mentre si agitavano nell’aria, sembrava dovesse
crollare da un momento all’altro, frantumarsi in mille pezzi e mai più
ricomporsi. Il suo sguardo era sempre intenso e pensieroso, che osservasse un
filo d’erba o un’opera preziosa. La sua voce era bassa e le parole essenziali,
accompagnate spesso da minime contrazioni facciali da cui si poteva comprendere
se dicesse sul serio o meno. Non che tutto ciò che diceva fosse ben chiaro,
anzi spesso il suo pareva un linguaggio arcano che guardava ad altre ere, ad
altre persone. Nel complesso, era davvero una persona affascinante.
Con il solo piccolo,
insignificante fatto che non stavamo assieme.
Mentii a lezione, e mentii anche molto bene. La mosca fastidiosa smise
immediatamente di svolazzarmi attorno, facendomi sorridere esultante più per il
fatto di averla stupita che di averla fermata. Nella pausa pranzo la notai avvicinarsi ad altre sue amiche ed iniziare a
bisbigliare anche con loro, gossip dai sapori orientali, notizie piccanti che
saltavano dalla punta della lingua. Ogni tanto lanciavano un’occhiata a me,
scuotevano la testa e poi riprendevano i loro segretissimi discorsi. In tutta
risposta sorridevo, a me stessa e non a loro. Ero raggiante ed
orgogliosa.
Ma di cosa?
Di aver preso in giro una
curiosa seccatrice? Di aver dato a tutta la sua compagnia degli argomenti con
cui divertirsi per qualche giorno? Di aver dimostrato a parole che non sono
l’ingenua ragazzina che non sa stare con nessuno? O tutto ciò messo assieme?
Non dovevo certo fornir loro prove tangibili, dal momento in cui quelle persone
non significavano qualcosa di particolare per me, inoltre non ne avevo nemmeno.
Potevo essermi riferita a qualsiasi individuo e non necessariamente a Lei.
Avevo parlato di “persona” senza determinare il sesso di questa, ho fornito
solo una sua caratteristica e su questa ero seria.
Eppure mi sentivo ancora
orgogliosa. Associavo le mie affermazioni alla fuggitiva senza
ombra di dubbio, fermandomi e chiedendomi se fosse giusto quel
collegamento, per poi constatare poco dopo che era la soluzione migliore. Forse
per il semplice fatto che non avevo nessun altro di
così importante su cui poter mentire. Del resto non avevo alcun diritto di
usare la sua persona per salvarmi dalle situazioni imbarazzanti della mia
quotidianità. Volevo servirmene come una piccola vendetta per la sua fuga.
Non ero totalmente
soddisfatta. Il cellulare non dava ancora segni di vita, della sua vita. Dubitavo fortemente avesse compiuto un gesto estremo,
del resto non l’avevo né rifiutata né accettata, ma non potevo prevedere cosa
le passasse per il cervello. Camminando in direzione di casa controllai più
volte ma senza risultati. Ricacciai il telefono in tasca e tentati di non
pensarci più, fallendo. Se solo avessi saputo dove abitava
potevo assicurarmi di persona in che stato fosse, magari trovandola sorridente
ed in buona compagnia al di là delle mie aspettative. Quell’immagine mi innervosiva.
In compenso lei sapeva benissimo dove abitavo: un giorno le chiesi se era
disponibile ad accompagnarmi per delle commissioni e lei accettò; mi diede una
mano nel portare le borse fino alla fermata dell’autobus ma non si fermò una
volta arrivate, anzi proseguì la strada. Le dissi che eravamo arrivate e poteva
lasciarmi il tutto, il tragitto sarebbe stato breve ma insistette, osservandomi
stupita ma mai quanto me. Conosceva la strada e voleva portarmi le borse fino
alla soglia del condominio. Effettivamente avevo usato la scusa dell’autobus
proprio per non farle ancora vedere dove abitavo, il tempo di nemmeno una
fermata ed ero arrivata. Non diede spiegazioni riguardo la
sua sospettosa conoscenza del posto, anzi farfugliò scuse strane come “me lo
sentivo, ti avevo vista una volta passare di qui, è l’istinto” anche se era
difficile crederle. Ripercorse poi la stressa strada
da cui eravamo arrivate al contrario, salutandomi con un sorriso, senza troppi
convenevoli.
Non era molto affettuosa
a gesti, se non quelli delle palpebre che si socchiudevano spesso
nell’osservarmi, creando in me un inaspettato imbarazzo. Cercavo di ritrovare
l’autocontrollo facendo constatazioni infantili sul tempo e l’ambiente
circostante, oppure proponendo un argomento di attualità semplice da svolgere. Mi
sentivo molto la maestrina che ha a che fare con un bambino asociale, che
preferisce stare nel suo angolo con le costruzioni piuttosto che partecipare ai
giochi di gruppo. Dovevo prenderla per mano, non in
senso letterale. Fu lei ad essere più fisica per prima,
abbracciandomi il giorno in cui piombò ferita a casa mia. Ancora adesso mi
chiedo cosa diavolo le fosse successo, la scusa di essere inciampata e
ruzzolata per terra non reggeva da nessun lato, anche se l’avevo ideata io per
giustificare il suo silenzio.
Perché era venuta a
cercare proprio me in quelle condizioni? Probabilmente
ero la persona più vicina fisicamente, forse casa sua era molto lontana dal
luogo del suo misterioso incidente, oppure altre mille ipotesi che scacciavano
quella più romantica che potesse venirmi in mente:
nessun altro si poteva prendere cura di lei, solo io avevo quel potere, solo io
potevo farla sentire a proprio agio evitando rimproveri, domande fastidiose o
che altro. Ah, la romanticheria non poteva addirsi ad
una povera ingenuotta come me.
Forse avevo tremendamente
sbagliato a curarmi di lei. Avrei dovuto chiamare la guardia medica e farla
venire da me, oppure farmi spiegare cosa andava fatto
per via telefonica. Preferii invece mettere in pratica le mie scarse conoscenze
mediche sulla mia prima cavia al di fuori del laboratorio scolastico. Non si
ribellò e ne fui soddisfatta, averla sottomessa così facilmente non rientrava
nelle mie aspettative ma nemmeno curarla così
amorevolmente, così… morbosamente, come se dovessi assolutamente conquistare la
sua fiducia grazie a quei gesti lievi per non farle bruciare ulteriormente le
ferite. Il suo abbraccio, in seguito, l’avevo interpretato come un
ringraziamento silente senza pretese, ma estremamente
timido. Per una bambina che amava il suo angolino esclusivo, dev’essere stato un enorme sforzo uscirne e subentrare nei
giochi di un’altra sua simile.
Quella stessa notte, il
suo sgattaiolare nelle mia camera da letto, facendo
attenzione a non svegliarmi pur essendo già sveglia, lo trovavo molto tenero.
Si sentiva sola senza padroncina da fissare nel buio, respirando piano,
restando semplicemente immobile per gustarsi al meglio quella mia parvenza di
sogno. Mi faceva piacere quel suo fare misterioso, non temevo potesse saltarmi
addosso da un momento all’altro ma ammetto di aver
avuto paura di averla addomesticata sul serio. un
gatto randagio, per quanto ti sforzi ad insegnargli i concetti della vita
casalinga, rimarrà sempre selvaggio. Con notevole sforzo mi aprì il suo cuore, ma nulla di ciò che diceva aveva un reale senso,
almeno non per me. Lo accettai ugualmente, vista la sua reazione, aveva
sofferto per qualcosa a me sconosciuto e non me la sentivo di abbandonarla con
il viso inumidito di ricordi a me estranei, la accolsi gentilmente e si
aggrappò al mio richiamo, raggomitolandosi sotto le lenzuola, stringendosi a sé stessa e mai a me. Fui io a stringerle le braccia attorno
al corpo.
Poi tutto accadde
all’improvviso, ebbi paura e ne scorsi nel sguardo.
Non trovavo le parole giuste, sempre se esistevano, addossandomi la colpa di
tutto. Colpa della mia curiosità e del mio senso di colpa.
Per questo scappò, ne ero certa.
Riflettendo su questi
avvenimenti mi ritrovai sulla porta dello stabile in cui abitavo. Lentamente
girai la chiave nella serratura, come se la voglia di rientrare in quel luogo
mi avessero abbandonata. Che senso aveva, dopotutto,
sentirmi sola due volte? Lo ero costantemente, ed ora
anche l’unica presenza calorosa che avevo era scomparsa. Calore strano, il suo,
visto che si celava in un contenitore freddo. Salii le
scale con altrettanta lentezza, trascinandomi alla porta di casa ed aprendo anche quella. La chiusi
sbattendola, per poi poggiarmici con la schiena.
Quando ero ancora una
bambina e vivevo con i miei genitori in una cittadina di periferia, avevamo una
gatta. Aveva una splendida pelliccia a macchie bianche e nere, dei grandi occhi
dorati ed una coda molto folta.Ci era
stata regalata da un’amica di mia madre perché non poteva tenere l’intera
cucciolata in casa sua. Dato che avevamo un grande cortile pensò bene ci
potesse far piacere un animaletto da compagnia, anche se non ne avevamo mai
posseduti e non sapevamo bene cosa comportava avere un nuovo componente nella
famiglia. Nonostante i primi dubbi, riuscimmo a cavarcela e crescere quella
splendida palla di pelo come se fosse una figlia, per mio padre e mia madre, ed
una sorella minore, per me.
Quella gatta mi svegliava
la mattina ancor prima della sveglia e mi “rimboccava” le coperte la sera,
appallottolandosi vicino al mio cuscino, come a ricordarmi che era ora di
spegnere il cervello. Aveva stranamente imparato i ritmi di vita degli esseri
umani e conviveva quasi perfettamente con noialtri. Era un ottimo orologio,
sapeva meglio di noi a che ora bisogna riempire lo stomaco per tutta la
famiglia e quando miagolare per ricordarci che iniziava il programma alla
televisione, soprattutto il suo. Amava starsene seduta davanti allo schermo ad
osservare i cartoni animati serali, li osservava come se da un momento
all’altro sarebbero usciti e diventati reali. Ma non si metteva mai in
posizione di attacco, con la coda arrotolata attorno alle zampe si gustava lo
spettacolino in tutta serenità.
Pretendeva molte
attenzioni quando e se le richiedeva, mentre cercava di sfuggire da abbracci e
coccole non desiderate. Ero piccola ed insistevo spesso per tenerla in braccio
ed arruffarle il pelo, rischiando graffi e morsi che, fortunatamente, non mi
erano quasi mai spettati. Spalancava gli occhi in preda ad una sorta di
terrore, non scalciava ma al primo allentamento della stretta spingeva con le
zampe posteriori e saltava, trovando la sua libertà. Mi osservava per un
attimo, come a dirmi “scusa ma non mi va” e poi si rintanava sotto il mio
letto.
Un giorno, nel nostro
cortile, penetrò silenziosamente un gatto randagio e si portò via la nostra
gatta. Tornò da sola pochi giorni dopo e nel giro di un paio di mese i miagolii
aumentarono, da uno a tre. Una pallina grigio cenere con occhietti blu ed
un’altra nera con un simpatico ciuffo bianco sul petto. La loro mamma, però,
non pareva molto contenta dei nuovi arrivati ed inizialmente associammo i suoi
comportamenti ad una sorta di gelosia: spesso abbandonava i gattini per
andarsene a spasso in luoghi ignoti; se i piccoli vagavano per la casa, lei
prima li osservava poi si metteva a giocare per conto proprio; quando
miagolavano, anche molto forte, spesso lei se ne stava sdraiata sul balcone a guardare
l’orizzonte. Eppure non l’avevamo privata delle attenzioni iniziali, era ancora
la seconda figlia dei miei genitori e la mia amata sorellina.
Nessun gatto randagio ci
fece più visita da quell’unica volta, ma fu lei ad andare in cerca di suoi
simili ripetutamente, trascurando i suoi doveri di madre. Quel gatto ce l’aveva
portata via, in qualche modo, ne eravamo convinti. E ci convincemmo ancora di
più quando, dopo una notte di solfeggi miagolanti, non fece più ritorno.
I suoi cuccioli furono
cresciuti fino a che diventarono ingestibili e decidemmo di darli in regalo,
proprio come era giunta la loro madre in principio. Fu una separazione dolorosa
ma non eravamo più in grado di curarci di quegli esseri ribelli.
Questi ricordi mi
riportano a lei, alla mia lei presente, alla lei che talvolta pareva più felina
che umana.
Non ho mai desiderato che
lasciasse il suo nuovo nido.
********
Una settimana era
plausibile, tre insopportabili.
La mia routine
giornaliera proseguiva senza troppi intoppi, andavo a lezione e tornavo a casa
come avevo imparato a fare da più di un anno. Certo, talvolta potevo
permettermi il lusso di staccare gli occhi dai fogli e concedermi qualche ora
di relax, tra videogiochi, internet, passeggiate e la spesa. Il frigo era
spesso vuoto, il mio stomaco non richiedeva molte attenzioni né gliene
concedevo extra, non sono mai stata ossessionata dal corpo, mantenevo
semplicemente un regime molto basilare. Le visite non erano mai attese e quindi
non mi preoccupavo di far rifornimenti, tranne una sola volta.
Una era bastata per
aspettarmene altre, da un momento all’altro, da farmi comprare anche in
eccedenza.
Il cellulare continuava
testardamente a non dare segni di vita, nonostante l’apparecchio non ne potesse
niente. La destinataria dei messaggi e delle chiamate sembrava scomparsa nel
nulla, così pian piano smisi di tormentarla a vuoto. In compenso la sua
presenza si era diffusa, verbalmente, tra le mie compagne di classe e, se prima
ne andavo insolitamente orgogliosa, stava cominciando a snervarmi. Giusto quel
giorno un gruppo di amiche (forse sarebbe il caso di definirle conoscenze)
aveva deciso di farmi visita, “per prepararci tutte assieme all’esame” avevano
detto sorridendo entusiaste, ma le loro intenzioni primarie erano ben altre.
Potevo anche accontentarle, sperando in una loro resa, ma si sa che il gossip
negato è l’arma migliore per screditarti alle spalle.
Tre in punto, quanto le
settimane della sua assenza. Il campanello suonò insistente anche dopo che
avevo aperto, forse lo trovavano estremamente eccitante, pigiare il bottoncino
per annunciare la loro presenza altrettanto su di giri. Andai ad aprire la
porta di casa poco dopo, attendendole sul pianerottolo. Quattro ragazze
agghindate a festa, una sfilata di minigonne di jeans, trucchi, borsette e
collanine entrò disordinatamente a rovinare la quiete di casa. Erano già state
un paio di volte con serie intenzioni scolastiche, che bene o male andavano
scemando verso pettegolezzi interessanti solo per loro, visto che la
sottoscritta era troppo secchiona per poter penetrare i loro discorsi. Non che
volessi rendermi partecipe a tutti i costi, ma dovevo pur fare un po’ di quella
cosa chiamata socializzazione.
- Chiaretta, te l’ho mai
detto che hai un soggiorno favoloso? – sì, il giorno del mai, pensai ma mi
limitai ad annuire sorridendo. Quel genere di complimenti di circostanza erano
davvero pessimi, ma farglielo notare sarebbe stato il fiammifero acceso per un
bell’incendio. La stessa che aveva parlato si mise a guardarsi in giro,
osservando ad occhi stretti tutto ciò che le capitava a tiro: i quadri appesi,
i foglietti attaccati al frigo, le tende alla finestra della cucina, come se
fosse la prima volta che vedeva questo strano scenario. Buttò anche una rapida
occhiata alla porta socchiusa della camera da letto, forse aspettandosi che
qualcuno comparisse dal nulla a spaventarla. Con le sopracciglia aggrottate ed
un’espressione di sufficienza, girò su sé stessa e si mise a sedere sulla
poltroncina, mentre le altre ancora si guardavano attorno sorridenti ed
incuriosite prima di prendere posto al tavolo. Probabilmente erano pervase da
una malattia contagiosa.
Dopo aver portato in
soggiorno un vassoio con dell’aranciata, mi sedetti anche io nell’ultima sedia
disponibile, altrettanto sorridente per sembrare il più possibile amichevole.
Una paresi facciale che speravo svanisse in fretta. – Allora, qualcuno ha
portato gli appunti della scorsa lezione? - - Gli appunti? Sei fuori?- fu così
liquidata la mia domanda, suscitando l’ilarità nelle presenti. Feci loro
compagnia con scarsa naturalezza, dando infine un colpo di tosse ed aprendo un
libro che avevo messo in precedenza sul tavolo. Mi fu subito sottratto e
richiuso, la ragazza che l’aveva ora in mano faceva segno con un dito sulla
tempia. Ero matta, incredibilmente matta a voler davvero ripassare per l’esame
in gruppo. Non mi dispiaceva averle terrorizzate con quella terribile proposta.
- Se non avete intenzione
di tirar fuori gli appunti, vuol dire che siete più preparate di me. - dissi
tranquillamente, incrociando le braccia e poggiandole al tavolo. I loro sguardi
passarono dallo sconcertato al divertito, anche se non mi pareva aver detto
qualcosa di poco sensato o ironico. No, aspettate, l’ironia c’era eccome e non
poca. – Sembra che quella più preparata ed esperta sia tu, tra tutte noi. – se
la ridacchiò la ragazza seduta alla mia sinistra, inclinandosi in mia direzione
per farmi pervenire meglio le sue parole, o forse il suo sguardo carico di
intesa che avrei voluto non cogliere. Assunsi uno sguardo falsamente confuso,
scuotendo il capo per farle capire che le sue parole mi suonavano nuove.
Dev’essere bello essere esperti in qualcosa che non si conosce, ma la curiosità
mi spingeva a scoprire questa capacità innata.
Un’altra ragazza alla mia
destra si avvicinò al mio orecchio, con una mano a coprirle la bocca, parlando
però con un tono percepibile da tutte le altre. - E com’è fatto, lui?- disse
per poi tornare a sedere normalmente, ridacchiando con tutte le altre a
seguito. Diamine, si trattava veramente di universitarie o si erano fermate ai
primi anni delle superiori, dove qualsiasi cazzata era buona per occupare il
tempo, specie se riguardava fatti di terzi? Le loro risatine isteriche mi
snervavano quanto bastava per tirar loro una testata in piena fronte, ma non
ero il tipo da simili colpi di testa, in tutti i sensi. Preferivo assecondarle
con tutta la calma possibile, anche perché del resto era quello che si
aspettavano. – Di media altezza, occhi nocciola, fisico asciutto, capelli
lunghi…- - Oddio, è un rockettaro o cosa?- chiese una terza, e giù altre grasse
risate. La voglia di prendere le loro testoline poco pensanti e sbatterle tra
di loro, come frutta marcia che si sfracellava al suolo, vagava pericolosamente
nella mia mente e fortunatamente rimase lì. Annuii per accontentarle, spiegando
che spesso li teneva sciolti e raramente li legava con elastici scuri in una
cosa semplice, che in tal caso amava tenerli ben stretti per non far scappare
nessun ciuffo selvaggio e se capitava li strappava direttamente.
Si, mi era capitato solo un paio di volte di
vederla coi capelli legati. Le sue chiome scure le ricadevano ai lati del viso
e sulle spalle dolcemente, come a formare una cornice di quella stupenda opera
che era il suo sguardo.
Alla domanda sulla sua
età, provai un brivido freddo. La risposta era ignota pure a me ma dovevo pur
inventarmi qualcosa di plausibili, così dissi che aveva un paio di anni più di
noi, sperando mentalmente di averci azzeccato. Se avessi detto che era più
giovane mi avrebbero considerata una che adesca ragazzini perché disperata,
stessa cosa se l’ipotetico fidanzato avesse avuto più di dieci anni di
differenza da me. Troppo vecchio, ed io troppo disperata. Sicuramente Sara non
poteva avere meno di vent’anni, benché molte giovani della nostra epoca
sembrino decisamente più adulte. Ma il suo modo di parlare, di osservare il
mondo e me lasciavano intendere che la sua maturità mentale accompagnava anche
quella fisica. Se mai l’avessi rintracciata, sarebbe stata una delle prime domande
che avrei voluto farle, anche se non la più importante.
Anche se era imprudente come una bambina sfrontata
che vuole conoscere il mondo al di là della siepe ed, allo stesso tempo, troppo
prudente ed insicura al punto da temere semplici parole. Il suo timore era
qualcosa che ancora non comprendevo, ma sentivo che avrei dovuto tenderle la
mano. Ed abbracciarla. E consolarla. E.
- Che lavoro fa il tuo
bel fusto?- altro giro, altra ironia non richiesta. Quel singolare modo di
chiamare il mio lui di fantasia, però, mi destò una punta di orgoglio e sorrisi
sinceramente inarcando le sopracciglia. Stavano inconsciamente dicendo che Sara
era affascinante e su questo non potevo che concordare; inoltre il loro
pensiero di vedermi affiancata ad un uomo ben piantato elevava automaticamente
anche me ad una sorta di regina della scena, rara sensazione nella mia vita.
Dovevo approfittarne. – Lavora in una galleria d’arte come tuttofare, mansioni
di segretariato, cose simili…- annuii ad ogni ammissione, gesticolando per mimare
lo scrivere sui fogli o sulla tastiera di un computer, il disporre volantini,
tutto quel genere di cose che farebbero in un ufficio o quel che era. Spiegai
che anche io avevo esposto dei quadri lì e che mi aveva aiutata a prendere
contatto con il proprietario delle sale, anche se la notizia le lasciava
piuttosto indifferenti, era decisamente di vitale importanza conoscere un poco
della vita privata di questo fidanzatino che degli interessi della loro
compagna di studio. Del resto non mi aspettavo si interessassero a me al di là
dei suggerimenti per gli esami.
Invece lei si interessava eccome, osservava da
ogni possibile angolazione i miei lavori come se dovesse entrare nel colore e
prenderne parte, farlo scorrere nelle vene, ed il suo sguardo scorrere in me.
Le ragazze non sembravano
aver ancora esaurito le loro piccole curiosità, quindi continuarono a domandare
riguardo aspetti privati della nostra relazione, tra cui cose che non
riporterò. Alcune erano decisamente imbarazzanti ed altre difficili da
rispondere, o entrambe allo stesso momento, la mia praticamente nulla
esperienza sul campo non facilitava certo la situazione e talvolta mentire
risultava estremamente sforzato. Lo potevo notare dai loro sguardi che
credevano si e no a poche delle mie affermazioni, ma continuavano a sorridere
ed annuire interessate. La ragazza, che dall’inizio si era accomodata sulla
poltroncina, non aveva ancora chiesto nulla in merito né commentava, se ne
stava ben comoda con una mano a reggersi il mento ed il gomito poggiato al
bordo, le gambe accavallate e gli occhi a fissarmi senza tregua, mettendomi non
poco a disagio. La consideravo la leader del gruppo, una sorta di pastore che
guidava le sue pecore ma le lasciava razzolare, almeno fin quando non avesse deciso
di farle smettere di belare. Iniziarono poi i paragoni con i ragazzi delle
altre: chi era alto e muscoloso come un modello professionista, chi con gli
occhiali e l’apparenza di importante studioso, chi dotato di capacità che lo
rendevano speciale e chi ancora sognava il bel principe tenebroso in sella ad
un nero destriero. L’importante, notai, era che tutti questi fantomatici
compagni di vita, o di giornate, fossero molto più interessanti della presenza
fantasiosa al mio fianco. Almeno i miei racconti avevano un largo fondo di
verità.
Ma la verità principale, quella davvero di fondo,
era che la sua timida presenza si faceva aspettare e non lo sopportavo. L’aria
non aveva lo stesso odore né la stessa consistenza senza i suoi rari sorrisi
discreti e le sue movenze proludenti quando mi era attorno. L’agitazione che mi
provocava la sua mancanza era ormai intollerabile ed avrei dato evidenti segni
di irrequietezza di lì a poco, se non avessi avuto sue notizie. Ed il motivo
era palese e non così tanto scontato.
Il loro allegro
disquisire su chi fosse il ragazzo migliore con cui intrattenersi fu interrotto
improvvisamente. – Sei stata furba, Chiara. – disse finalmente la leader,
rompendo il suo silenzio di contemplazione. Le dedicai il mio sguardo,
scuotendo leggermente il capo per farle capire che non capivo di che stava
parlando. Sorrise e cambiò mano a sorreggerle il volto, appoggiandosi all’altro
capo della poltrona. – Ci siamo cascate tutte quante. E dire che pensavamo
fossi lesbica.-
Avete presente quel genere
di domande che ti aspetteresti da persone e situazioni del genere, ma che speri
o meglio ti convinci con tutta te stessa che non ti porranno mai?
Era quel caso.
Sorrisi imbarazzata, le
guance mi tradivano. – Figurati… - dissi mostrando quanto più bianco dei denti
potessi, accompagnando il disagio con un gesto della mano come a scacciar via
quel brutto, bruttissimo suo pensiero. – E poi, anche fosse? – le chiesi
paonazza in volto, cercando di mantenere un tono allegro e canzonatorio. Si
sbagliava, si sbagliava tremendamente e doveva convincersene, dovevano
accettare tutte il fatto che il suo presentimento fosse errato. Di fatto
ridacchiarono tra di loro, commentando non troppo a bassa voce il fatto che una
come me “così mascolina, i capelli perennemente corti, sbadatella e restia ad
uscire con il suo compagno delle superiori, sempre interessata allo studio e
così poco ai ragazzi dell’aula” dovesse nascondere un qualche importante
segreto, ma no, avevo appena dimostrato a tutte che anche questa piccola ingenua
ci sapeva fare. – Dai, ci pensate? Dovremmo stare attente quando andiamo in
bagno o quando usciamo dall’università! Anche in classe, qualsiasi gesto
potrebbe essere frainteso! – scherzò poco amabilmente una al tavolo, suscitando
ilarità generale con tanto di risate fino alle lacrime. Ed io annuivo e ridevo
con loro, poggiandomi con violenza allo schienale della sedia e buttando
indietro il capo, tenendomi il ventre con le mani.
Il soffitto bianco mi
guardava e sembrava diventare pian piano grigio cenere.
Il sorriso rimase ben
aperto sulle mie labbra, emettendo di tanto in tanto qualche piccolo suono di
falso divertimento.
Cosa c’era che non andava
in quel soffitto? L’avevo ridipinto qualche mese prima, tenevo spesso le
finestre aperte per far filtrare l’aria in modo che le pareti non ne
risentissero, inoltre nessuno fumava quindi non c’era motivo perché si
ingrigisse.
Poi l’aria divenne
pesante, satura di fumo invisibile, irrespirabile, ed anche i muscoli del volto
non riuscivano più a mantenere quell’espressione, rilassandosi lentamente,
andando a piegare gli angoli della bocca verso il basso e le sopracciglia verso
il centro. Le orecchie si rifiutarono di sentire suoni sgraditi e si formò una
cupola di silenzio nella mia mente, con me sola protagonista seduta nel nulla.
Potevo osservare quel grigio all’infinito ma nessuna immagine o colore vi si
formavano.
Provai a rimettere
diritta la testa ed osservare ciò che mi circondava. Ero consapevole ci fossero
oggetti e persone in quella stanza, ma ce n’era un’altra che si sovrapponeva
ricoprendo tutto di nebbia. Nulla di ciò che mi circondava nella realtà era
realmente indispensabile. Decorazioni, fastidiose decorazioni, allora dov’era
ciò che era realmente importante?
Una fitta
sull’avambraccio mi bastò a riportarmi alla realtà.
La ragazza seduta al mio
fianco, per sincerarsi che non fossi crepata dalle risate, mi aveva appena
pizzicato la pelle, volgendomi il suo sguardo ebete e ancora singhiozzante dal
tanto visibilio. Che gesto carino, riportarmi alla realtàe distrarmi dal mio mondo interiore, o forse
voleva semplicemente altre barzellette con cui dilettarsi. Ma il fenomeno da
baraccone aveva ormai capito che era ora di finirla con quella farsa che nulla
riempiva, né le tasche di monete lanciate dalla folla né lo spirito di
sentimenti travolgenti.
La mano che mi aveva
destata era ancora ferma sul mio avambraccio. Non era fastidiosa né pesante,
semplicemente inconsistente, fredda, come se non esistesse. Non suscitava
nemmeno sensazioni sgradevoli; del resto come può risultare repellente qualcosa
di incorporeo per la mente?
Conoscevo qualcosa di
molto più elettrizzante, che faceva sentire tutto il suo dolce pesantore, la
sua calda presenza al di là di quella parete esterna di fine ghiaccio. E
naturalmente tutte quelle sensazioni piacevoli che ne scaturiva.
Dovevo veramente mettere
un freno a quella farsa, a partire da chi vi stava partecipando, a partire
dagli ospiti sgraditi, per poi dedicarmi interamente all’ultima attrice.
- Bene. – dissi
schiarendomi la voce con un colpo di tosse – Si è fatto un po’ tardi, se non vi
dispiace adesso vorrei studiare. - Come mi aspettavo, le reazioni furono
terribili come all’inizio della visita. Presero a guardarsi tra di loro
sconcertate, allargando le mani e girandole verso l’alto, come a chiedere la
grazia di aver interpretato male le mie parole. – Che fretta hai? In fondo gli
esami sono ancora lontani e ormai non abbiamo più voglia di studiare. – chiese
una del tavolo, ostentando un sorriso tremante. Ne sfoggiai anche io uno, molto
più convinto. – Intendevo da sola. – e gli sguardi divennero più morbidi e
decisamente meno preoccupati. Mi proposero di rimanere a chiacchierare mentre
io scribacchiavo e mi divertivo con il mio strano passatempo, ma la mia
risposta fu negativa. Il mio soggiorno non era più un salotto, se mi è concesso
il gioco di parole. A parlare di trucchi, vestiti, scarpe e zone anatomiche mi
stufavo in fretta, specie se le argomentazioni erano pressoché nulle. Che
andassero dai loro formidabili ragazzoni a subissarli di simili discorsi, non
ero interessata e specialmente non lo ero in quel momento.
Con evidente stizza ma
con altrettanta moderazione, si alzarono e riposero le sedie sotto il tavolo,
riprendendo in mano le loro care borsette e guardandosi ancora intorno come in
principio, evidentemente avevano scordato qualche particolare su cui criticarmi
una volta uscite di casa. Per ultima si alzò la ragazza della poltrona,
spolverandosi la minigonna ed aggiustandosi bracciali e collanine. Da come si
comportava, sembrava fossero decenni che non si alzava da quel posto e doveva
ritornare perfetta per qualche evento interessante. Sfoggiarono tutte ampi e
falsi sorrisi, salutandomi a turno con i classici baci sulle guance e piegando
istericamente le dita delle mani più volte, facendo scintillare anellini e
smalto alla luce che illuminava le scale. Aspettai qualche istante sull’uscio
per vederle scomparire in processione, capitanate dal loro pastore, e sentire
il portone due piani sotto sbattere, rimbombando fino ai piani superiori.
Chiusi infine la porta.
Mancava l’ultima attrice.
Ero costretta a sbatterla fuori a calci nel didietro, se non avesse
collaborato.
Mi recai in bagno ed
accesi la luce incorporata nello specchio. Aprii la valvola dell’acqua fredda
del lavandino e, mettendovi sotto le mani a conca, mi inondai il viso
abbondantemente. Il liquido colò velocemente lungo il collo e le spalle, fino a
bagnare la maglietta nella zona del petto. Poggiai quindi le mani sui bordi del
lavandino, tenendo il capo chinato ed ansimando, come se avessi appena scampato
l’annegamento. Ripresi fiato per poi, finalmente, alzare lo sguardo in
direzione della figura che mi osservava al di là del vetro. Dovevo farle un bel
discorsetto.
- Tu.
Ammettilo.
Tutte quelle menzogne…
insomma, dove volevi arrivare? Potevi liquidarle dicendo semplicemente che non
erano fatti loro, invece hai preferito nutrirle, come si butta le briciole di
pane ai piccioni.
Sei soddisfatta? Cos’hai
risolto, a parte l’avergli fornito ottime informazioni sugli affari tuoi?
Che poi, in sostanza,
sono affari tuoi?
O hai usato una persona
nemmeno presente per fare bella figura?
Perché proprio quella
persona? Non ce n’era un’altra adatta alla parte? Sicuramente c’era ma tu hai
scelto proprio quella. Ti sei fermata ed hai pensato hey, lei sembra proprio
adatta per ispirarsi e rispondere alle curiosità di terzi! Ci sono persone che
conosci ancora meglio e che, volendo, ti sono ancor più vicine ma lei ti era
più congeniale.
E tu lo sai perché, vero?
Lo sai, allora dimmelo. –
Ma nel momento di doverlo
ammettere, mi fermai.
La me stessa nello
specchio mi guardava diritta negli occhi, le labbra semiaperte, le sopracciglia
aggrottate ed un insolito tic al naso. Un bruciore, più che altro. Quel genere
di fastidio che si sente nella parte superiore delle narici quando stai per
piangere.
Mi sentivo davvero idiota
a parlare guardandomi nello specchio, eppure aveva la sua utilità. Mi urlavo
contro esattamente quello che non riuscivo a dire davanti ad altre persone,
specialmente quelle verso cui erano indirizzati i miei pensieri. Potevo
insultarmi, farmi la predica, spaccarmi la faccia in senso letterale se solo
non avessi una fottuta paura del sangue e dei probabili tagli che potevo
infliggermi con le schegge di vetro. Mi terrorizzava vedere il liquido che
scorreva dentro la mia carne. Per certi versi, mi terrorizzava anche dover
sputar fuori la vera me stessa.
Il pizzicore al naso si
fermò per qualche istante, quindi ripresi a parlare a quell’altra, davanti a
me.
- Ok, non vuoi dirlo. Hai
le tue paure, è lecito. Hai paura di confonderti con qualcosa di veramente
grosso. Ti era mai capitato prima? Forse il soggetto non era propriamente
quello del tuo presente, anzi, forse non si potrebbe nemmeno parlare di
sincerità. All’epoca in cui ti accadde una cosa simile, fosti sicura, non era
quello che pensavi. Per fortuna, direi, avresti fatto una scelta terribile.
E da allora? Ti sei
chiusa in te stessa? No, non si tratta di questo.
Sei disinteressata. Non
ti vedi come possibile preda, né tenti di essere un predatore. Non hai
interesse per nessuno in particolare né cerchi di renderti interessante. Chi
potrebbe mai volgere lo sguardo verso di te, mh?
Eppure qualcuno ora c’è.
–
Ed il formicolio al naso
si fece risentire.
- Si… qualcuno ora c’è.
Perché ti interessi tanto
di dov’è finito quel qualcuno? E’ una presenza cara, ma non solo.
Ti rode forse essere
stata abbandonata all’improvviso, senza una particolare ragione?
L’hai capito, ormai, cosa
passa nella testa di quella ragazza. Hai capito che le servi. No, non si tratta
di sfruttamento, si tratta di qualcosa di più profondo. Sei indispensabile.
…sei indispensabile per
qualcuno, renditene conto.
E lei? Lei è
indispensabile per te?
Ammettilo, ammettilo che ti
stai interessando, che ti stai…-
E nemmeno qui riuscii a
proseguire. Il concetto era troppo forte per essere spiegato in un dialogo
simile, non potevo affrontarlo da sola, avevo assoluta necessità di trovarmi di
fronte alla persona per la quale provavo quella che definivo confusione. Ero
confusa? No, non lo ero realmente. Avevo solo bisogno di respirare, anche
perché le lacrime che mi solcavano il viso sembravano gocce di sangue che
uscivano da una ferita aperta lentamente. Ed io avevo il terrore del sangue.
Era ormai inutile cercare
approvazione nella figura dello specchio, non mi serviva più un confronto così
diretto, era chiaro. Seppur certa di quelle sensazioni, dovevo necessariamente
vedermela davanti e confermare una volta per tutte. Oh, come se la conferma non
ci fosse già, ma non era ancora definitiva ed ammetto anche di essere stata
disturbata da quel genere di…cosa. Non avevo interessi per nessuno in
particolare, e nemmeno per nessuna. Nel corso della mia esistenza, più mi
guardavo più ritenevo che non fosse necessario, alla mia vita, provare
malesseri simili. Secondo la mia visione ed anche senza alcuna esperienza,
l’unica cosa certa è che prima di raggiungere quel benessere, si dovesse
necessariamente passare per un terribile periodo di dolore. Potevo tentare
ugualmente ma non ne avevo alcuna voglia, né speravo che qualcuno mi toccasse
la spalla da dietro, così abituata a veder la gente correre senza mai fermarmi
a guardarmi.
Quella situazione era
strana: ero io a voltarmi ma non indietro, guardavo semplicemente al mio
fianco. E lì c’era una persona ad osservarmi silente ma, nella paura, fare
qualche passo più in là. La sua mano era rigida e ferma lungo il suo fianco, la
mia incerta.
Mi asciugai il viso
strofinandolo sul bordo basso della maglietta, spensi la luce dello specchio e
mi diressi verso la camera da letto. C’era un telefono cellulare che mi
attendeva, ancora muto. Lo presi e composi il solito numero. Avevo bisogno di
risposte e di ulteriore calore, come se il mio non bastasse più. Nessuna
risposta, come sospettavo, e con violenza lo gettai sul materasso, buttandomi
sopra né distesa né seduta. Riguardai lo schermo nero del telefonino, lo
sguardo snervato. Sentivo il mio corpo intollerante a qualsiasi superficie,
anche all’aria. Soffocavo. Per evitare quella sensazione di apnea forzata,
dovevo assolutamente riprovare la chiamata.
Non mi costava molto,
bastava cliccare il tasto rosso quando l’operatore telefonico mi avvisava del
trasferimento alla segreteria. Era l’attesa di quei pochi secondi di speranza
che non potevo più tollerare.
In fondo di trattava solo
di convincere quella mano indecisa ad avviarsi verso quell’altra mano rigida e
timorosa.
La ragione per cui volevo
ricongiungermi a te era di quelle più semplici: sentivo come se ogni cosa che
osservavamo fosse dolce. Avevi messo del miele anche in quel tuo sguardo
triste, prima di fuggire.
Se non torni qui, nel
nostro luogo segreto, cosa ci lasceremo indietro e cosa perderemo in futuro?
La ragione per cui volevo
far tacere le tue paure ed abbracciarti era la più luminosa: avremmo visto cose
abbaglianti e piene di calore. Avevi acceso un piccolo fuoco in un corpo che
non era il tuo, rimasto poi senza alimentazione.
Ero ancora lì, sola, a
pensare quale fosse la cosa più giusta da fare, priva di rassegnazione.
Forse desidero troppo.
Sarebbe già abbastanza poter stare vicine.
*******
- Pronto?-
Eppure c’era qualcosa che
non mi tornava.
Dopo tre settimane mi
aspettavo una qualche sua notizia, positiva o negativa, un saluto veloce, un
come stai. L’emozione di risentirla mi rese incapace di rispondere subito;
d’altro canto non era il genere di risposta che mi aspettavo. Il mio numero non
era più memorizzato sul suo cellulare? Mi aveva cancellata definitivamente?
Visto che c’era poteva anche bloccarmi le chiamate, contando che non sarei
stata in grado di sapere se i messaggi erano deviati o meno, mentre se avesse
fatto la stessa cosa per le chiamate l’operatore mi avrebbe segnalato
l’impossibilità a contattarla. Quindi no, teoria da escludere. Aveva risposto
senza vedere il mittente? Forse era di fretta e ha schiacciato il primo tasto
che le capitava a tiro, sbagliando. Ma non sembrava fosse affannata, dalla
voce. Anzi era piuttosto apatica, come se si fosse appena svegliata.
- Hey? Pronto?- ripeté la
voce senza troppa insistenza, non sembrava così importante avere una risposta
pronta al suo richiamo. Era tardi ormai, non le importava più nulla di me. O
almeno era questo il pensiero più furbo che mi veniva in mente, anche se
definirlo furbo lo è ancora meno. Le restanti frasi che frullavano nel cervello
non erano ben composte, si cacciavano l’un l’altra, poi tornavano e litigavano
ancora, non si decidevano a proclamarne una vincitrice. Se non si fossero date
una mossa da sole, sarei dovuta intervenire io.
- Uh… ecco, ciao. -
farfugliai atona, guardandomi attorno come se fosse presente e mi stesse
osservando, me e la mia pietosa figura. Sentivo le guance diventare calde e
piccole gocce di sudore formarsi sulle tempie. Non ero tranquilla, ma la sua
risposta poteva tranquillizzarmi, se solo fosse arrivata. Tardava, c’era
silenzio dall’altra parte. Forse era il momento sbagliato, forse la stavo scocciando,
forse non sapeva come dirmi di non farmi più sentire. Forse. Erano tutte teorie
plausibilissime ed in quel momento né lei né altri potevano dirmi il contrario,
o non volevano.
Potevo sentire dei
mormorii, uno sbadiglio ed un lieve movimento di labbra ma nessuna parola.
Erano le sei di sera e non mi pareva un orario così discutibile per telefonare,
anche se qualsiasi cosa poteva essere messa in discussione data la mia
insicurezza. Per una volta i ruoli erano ribaltati e non ne ero affatto felice.
L’ennesimo sbadiglio. – Sei un’amica di Sara? –
Il sospetto che non
avesse risposto lei mi era parso banale, ma a quanto pare avrei dovuto tenerlo
in considerazione.
E’ a casa di qualcuno?
Un’altra sua amica? Chi sarà ad averle donato un nuovo nido? E soprattutto,
perché sta rispondendo lei al posto suo? Aveva dimenticato il cellulare a casa
sua oppure era lì ad ascoltare, con la voglia di sentirmi praticamente nulla?
- Mh, si, non è
disponibile? – le chiesi ostentando la maggior calma possibile, del resto non
potevo sapere come avrebbe reagito la nuova arrivata. In risposta ottenni un
mugugno che interpretai come scocciato, del dialogo, dei movimenti non meglio
identificati ed un sonoro clack. Tu tu tu tu.
Osservai il cellulare
come se fosse stato l'apparecchio più disgustoso del mondo.
Cercai di rimettere in
ordine i suoni che avevo percepito: sicuramente il telefonino era passato di
mano, con parecchia fretta, delle dita avevano fatto scorrere i tasti per poi
premere quello di spegnimento. Tutto ciò era stato condito con “che stai
facendo… non ti permettere… ma chi ti ha detto che…” se non ricordavo male. Non
sembrava molto contenta, quell’altra voce né lo ero io, se non per l’aver
constatato che si trattava di una voce familiare. Per un attimo sorrisi, per poi
scuotere la testa e tornare a fissare il vuoto, spenta.
Non ero gradita.
Ma mi ci vollero un paio
di minuti prima di assimilare per bene quel messaggio, nonostante nulla fosse
stato esplicitato e ancor meno reso implicito. Solo il suono continuo della
linea telefonica mi parlava con il suo insistente ripetermi che la chiamata era
stata interrotta. Non ero affatto soddisfatta, del resto non avevo nemmeno
avuto modo di sentire direttamente la destinataria ma almeno sapevo che era in
qualche modo raggiungibile. Mi chiedevo se fosse veramente necessario gioire di
quel fatto, quando sembrava non ci fosse volontà di dialogo dall'altra parte
della cornetta.
Non aveva nemmeno senso
stare con il telefono appoggiato sull'orecchio senza reagire, visto che il
suono pulsante non cessava e dovevo ricominciare l'operazione da capo. Ne avevo
sinceramente voglia? Visto che avevo passato le ultime settimane a tormentarla,
era abbastanza ovvio che trovassi il coraggio per scocciarla ancora. Peccato
che non tutte le ovvietà di questo mondo si realizzano quando uno se le
aspetta. C'era però dell'ovvio in negativo, ovvero una mia molto probabile
reazione violenta a quella specie di affronto, cosa che realizzai solo in parte
lanciando il telefono sul letto. Non avevo nemmeno la forza di assumere uno
sguardo irritato, nonostante la domanda che mi ronzava in testa.
Chi diavolo era
quell'altra?
E' ridicolo, pensai, sono
diventata improvvisamente gelosa. Poteva essere chiunque, sicuramente non
esistevo solo io nel suo mondo, non ero il perno su cui girava la sua vita. Non
ero la persona più importante, ne ero convinta. Del resto non mi aveva parlato
molto delle altre sue conoscenze, solo piccoli cenni per mettere a tacere
frettolosamente la mia curiosità. Frequentava talvolta dei colleghi della
galleria d'arte, altre volte prendeva un caffè con gli studenti dell'accademia
del posto, nulla di impegnativo né sul fronte tempo né su quello dell'amicizia.
Per quel che ne sapevo non aveva rapporti molto stretti e duraturi, piuttosto
si poteva dire che avesse più conoscenze obbligatorie che veri e propri amici,
anche quei pochi li frequentava di rado. Evidentemente non amava stringere
troppi rapporti ma piuttosto alcuni essenziali. Questo metteva a largo rischio
anche il mio rapporto con lei, se avessi voluto analizzare la cosa in maniera
ben poco positiva. Tutto ciò, però, non rispondeva alla mia domanda.
Chi diavolo era quella?
Il cellulare mi fissava,
schermo nero, tastiera usurata. C'era qualcos'altro di usurato: quelle lenzuola
sul quale era poggiato, quelle lenzuola nelle quali avevo dormito con lei.
Sarebbe più corretto definirle usate, ma tutto mi dava la sensazione che il
tempo avesse consumato anche quelle, sebbene il passaggio di una notte non
poteva rovinarle più di tanto. E c'era dell'altro, rovinato. Un battito
accelerato nel mio petto, un'ansia che mi pervadeva. Tenevo lo sguardo basso a
fissare quel giaciglio, quasi ossessivamente, non era confortante né provavo
piacere nel rivolgergli lo sguardo ma mi sentivo in dovere di farlo. Avevo
bisogno di risposte che si facevano attendere anche troppo.
- Dormirò. - dissi ad
alta voce al nulla, almeno quello ascoltava senza dar cenno di negazione. Mi
permetteva tutto ed era ciò di cui avevo bisogno. Viziata in quel silenzio, la
testa obbedì e si posò sul cuscino. Anche quello, del resto, mi pareva
consumato. Il suo respiro e la sua pelle lo avevano reso vecchio e inospitale,
anche se più semplicemente volevo immaginarlo così a causa della sua assenza
ingiustificata. Non era il solo a sentire la mancanza di alimentazione.
Mi ritrovai a fissare il
soffitto, ancora una volta, quel bianco innaturale non rifletteva alcuna
immagine interessante. Non avevo nemmeno voglia di abbassare le tapparelle per
creare un po' di ombra: avevo troppa paura di ritrovarmi il suo volto dipinto
in quell'oscurità. Lei non era luce perché la nascondeva anche a sé stessa,
anche se ne aveva, ne ero certa. Il buio avrebbe solo richiamato ricordi che
preferivo mettere a tacere e conservare in un cassetto, in attesa di poterli estrarre
al momento giusto.
Provai a girarmi sul
lato. A destra lo scenario di una scrivania su cui avevo passato le passate
settimane, nel tentativo morboso di farmi entrare parole e formule pur di
scacciare altri pensieri. Evidentemente non era il momento giusto, avevo
fallito miseramente anche in quella prova di forza mentale contro me stessa. La
sedia era vuota e spostata dal tavolo, un paio di libri aperti su pagine che
non ricordavo, una matita in equilibrio precario sull'orlo. Non che questo
paesaggio richiamasse chissà quale ricordo importante. Richiamava solamente il
mio tempo perso a cimentarmi in lavori che non ero mentalmente in grado di
affrontare.
Mi rimanevano due
opzioni: il lato sinistro, dove solo il muro regnava sovrano con la sua penombra,
ed il cuscino dove affondare il viso. Soffocare, affondare, annegare. Non erano
pensieri da me, probabilmente appartenevano a qualcun altro che ci aveva posato
il capo con serenità dopo un intenso pianto. Lacrime di cui non avevo ancora
capito il significato. La penombra del muro, del resto, avrebbe sortito lo
stesso effetto se avessi creato oscurità nella stanza. Avevo deciso di dormirci
su, per l'ennesima volta, e l'avrei fatto con un muro o l'altro. Il muro più
spesso ed invalicabile era formato solo dalla barriera di quel cellulare
abbandonato sulle lenzuola.
Chi era quella donna con
lei? Con chi si stava facendo compagnia? Qualcuna l'aveva catturata a mia
insaputa? ...a mia insaputa, poi. Eravamo libere di farci catturare, nessun
impegno, nessun legame verbale né di catene, nessuna promessa. Però sentivo le
mie ali incapaci di spiccare il volo e speravo che anche le sue fossero nelle
mie condizioni. Non amavo pensarla chiusa in una gabbia, ma avrei preferito che
se proprio dovesse accadere fosse stata...
Il pensiero si fermò. Non
c'era alcuna immagine riflessa su quel muro. Fissavo il solito noioso bianco e
quel che vedevo non era altro che solito noioso bianco. Non c'erano spiriti ad
infestarlo né manifestazioni scaturite dalla mia mente. Forse il pensiero si
era spinto per l'ennesima volta troppo in là. Un rischio che preferivo non
correre finché non avrei guardato non il bianco di un muro ma quello dei suoi
occhi. Alcune probabilità talvolta sembrano certezze assolute, ma in quel caso
era meglio camminare con cautela: avevo appurato che la mia ossessione non era
verso la sua presenza ma verso la sua totale persona. Avevo ipoteticamente
pestato i piedini per terra per l'avermi privata di qualcosa di caro, ma prima
di affermare che fosse un sentimento diverso dovevo avere delle prove dal vivo.
La mia gabbia era ancora
vuota, pronta ad accogliere il primo coinquilino dopo una prova di resistenza
delle sbarre. Se non erano abbastanza solide si sarebbero spezzate, e con esse
il mio essere. Chissà se l'ospite di cui dovevo accertarmi sarebbe riuscito a
rimanere in quel rifugio con la porticina aperta o avrei dovuto rinchiuderlo a
forza, rendendolo triste per l'eternità.
La maledizione che cadeva
sugli amanti rende il tutto inizialmente delicato, per poi tramutarli in
predatori ossessionati.
Non potevo ancora
definirmi tale, ma la mancanza era così terribile da farmi diventare una belva.
D'un tratto, un suono
squillante e fastidioso.
Aprii gli occhi, quelli
fisici. Sbattei le palpebre a più riprese, stavo osservando il soffitto. Non mi
ero girata? Forse no. Il torpore aveva preso il sopravvento prima del previsto,
ma non mi aveva di certo fatta rilassare. Le orecchie non sopportavano quella
musichetta irritante, rimbombava dentro la testa ancora assopita e con lei gli
occhi, fortunatamente aiutati dalla parziale oscurità che si era formata col
passare del tempo. Erano quasi le otto di sera, il sole stava lentamente
andando a riposare. Fortunello lui. Io avrei dovuto invece affrontare la
provenienza di quel suono.
Il cellulare, oltre a
suonare, vibrava e lampeggiava ogni secondo vicino alle mie gambe. Mi sedetti
incrociandole, sfregandomi gli occhi con i palmi delle mani. Dovevo farlo
tacere ma i sensi non rispondevano molto bene e poteva fottersi, lui ed il
mittente della chiamata. Mi piegai in avanti per leggere con la vista
annebbiata il nome del chiamante. Li spalancai e mi affrettai a confermare la
chiamata.
Poggiai il telefono
sull'orecchio sinistro, pronta a chiedere chi fosse, pur avendolo appena letto.
Aprii la bocca per farlo, peccato che il fiato mi si spezzò in gola.
L'entusiasmo aveva compiuto il suo dovere per pochissimi secondi, l'ansia era
tornata a farmi visita, compagnia poco piacevole. Non sapevo cosa dire
esattamente, se un “finalmente” o far finta di niente, o attendere, che pareva
la scelta presa anche dall'altra parte. Sentivo il respiro regolare dell'altra
persona, sperando fosse quella scritta poco prima sullo schermo. Attesi.
- Ciao.- fu la risposta
atona e timida che ricevetti. La cosa non mi fece sorridere come mi aspettavo,
ma almeno la voce era quella che volevo sentire. Trassi alcuni profondi respiri
prima di rispondere un altrettanto piatto: – Ciao.-
- Come stai? - una
domanda difficile, questa volta attesa, evidentemente voleva portare il
discorso su toni normali senza parlare del punto focale della situazione. -
Bene, e tu?- mentii, non ero né felice né triste, almeno finché non avessi
avuto le notizie che desideravo. La risposta si fece attendere, ne aspettavo
una simile alla mia per non metterci entrambe in difficoltà al primo incontro
vocale dopo settimane di assenza. Avevo domande molto più intelligenti da
porle, rimbalzavano nel cervello in modo fastidioso ma non volevano ancora
uscire dalle labbra. Passarono un paio di minuti in completo silenzio, la
situazione stava diventando imbarazzata e non eravamo ancora pronte per un
colloquio serio, o almeno era la mia sensazione. Cominciai a diventare nervosa,
mordendomi l'interno bocca con ingordigia, sentendo diversi liquidi mescolarsi
tra lingua e denti, mentre con l'indice della mano destra andavo a grattare gli
angoli dell'unghia del pollice. Avessi avuto sotto mano carta e penna avrei
fornito ad uno psicologo materiale per un'analisi approfondita sulla mia
persona.
- Ti va di uscire stasera?
-
Se mi andava di uscire?
No, non proprio. Un'altra domanda difficile ed inattesa, totalmente spiazzante
da farmi assumere uno sguardo ben poco vivace. Tra tutte le cose di cui
potevamo parlare, tra tanti argomenti che avevano sicuramente la precedenza,
proprio di uscire dovevamo discutere. Non ero tipo da andare in giro per locali
di sera, le rare volte che ci avevo provato ero rimasta basita dal
comportamento della tribù notturna e non mi eccitava stare davanti ad un
cocktail a parlare. Il mio genere erano le caffetterie nel primo pomeriggio,
per ritirarmi nel nido verso l'imbrunire. - Perché vuoi uscire? - ma potevo più
semplicemente chiedere dove voleva portarmi. Amavo le difficoltà.
- Così... - disse a bassa
voce, abbastanza da percepirla chiaramente. La immaginai alzare le spalle
mentre me lo proponeva. - Per vederci. Se vuoi. Se ti fa piacere. - continuò
poco dopo, con la stessa tonalità. Non sembrava affatto entusiasta, una
proposta simile fatta da altri con questo tono l'avrei subito rifiutata, se non
mi si coinvolge in un primo momento difficilmente avrei seguito un invito.
Questa però era un'occasione d'oro da una persona interessante, anche se
ammazzava qualsiasi voglia per il modo in cui l'aveva chiesto. Volevo e mi
faceva piacere, d'altro canto non volevo darle la soddisfazione di mostrarle
queste sensazioni. - D'accordo. Vieni qui da me?-
- No.- fu la risposta
frettolosa. Forse la metteva a disagio stare sul portone del condominio ad
aspettarmi, figurarsi entrare in casa. Forse era proprio me che non voleva
vedere prima di trovarsi in un posto piacevole per lei. Del resto era ormai
sera, sarebbe stato più pratico trovarsi direttamente dove voleva. - Vieni in
quel bar in centro, - qualche secondo di pausa – quello che fa i frappè alla fragola
che ti piacciono tanto.-
Ah, quel locale. Come
poterlo scordare. Molte cose erano iniziate su uno di quei tavoli. Tono a
parte, le parole che aveva scelto per invitarmi mi fecero piegare leggermente
gli angoli della bocca verso l'alto. Era un modo carino per dirmi che il posto
sarebbe stato piacevole anche per me, ne ero convinta e volevo puntare tutto su
questa certezza. - Alle dieci, che ne dici? - le chiesi, sentendo un mh-mh di
risposta. Mi bastava al momento. Ci salutammo senza particolare emozione, il
sonoro clack della chiamata interrotta mi fece tornare alla realtà.
Avevo un appuntamento con
Sara dopo diverse settimane e mi sentivo una ragazzina alla prima uscita con il
proprio fidanzatino, e l'espressione del viso e le mie movenze tradissero questa
sensazione. Cercavo di controllarmi il più possibile senza far gesti come
dondolare le braccia allegramente, saltellare mentre mi dirigevo in bagno e
canticchiare motivetti senza copyright mentre mi sciacquavo il viso. Cose che
avrei potuto fare tranquillamente se non fosse per quella punta di nervosismo
che albergava nei miei pensieri. Mi dovevo comportare come se non fosse
accaduto nulla di che o dovevo mettere in mostra ciò che realmente sentivo?
Dovevo rimanere distaccata e non darle la soddisfazione di aver sentito la sua
mancanza, oppure farle intendere che la sua fuga mi aveva ferita? Sarebbe
bastata l'acqua del rubinetto del bagno a lavar via quelle sgradevoli
sensazioni di insicurezza, se solo fosse stata un potente acido che scioglieva
tutto al suo passaggio. Il liquido trasparente non aveva questo potenziale,
purtroppo.
Optai per una semplice
maglietta senza loghi particolari e dei jeans un po' logori, non dovevo
presentarmi ad un gran galà in abito da sera e non credevo che Sara apprezzasse
più di tanto. Non conoscevo, non ancora, i suoi gusti in fatto di vestiario,
solitamente le sue mise erano piuttosto sportive ed essenziali, nessun fronzolo
particolare. Volevo tentare di abbassarmi ipoteticamente al suo livello, anche
per comprendere meglio il suo essere. Quindi nulla che fosse studiato al
dettaglio, niente che desse nell'occhio. Non sono mai stata al centro
dell'attenzione né volevo esserlo quella sera. Doveva essere una serata
tranquilla e spensierata, senza troppe preoccupazioni.
Era quanto speravo, ma
ciò che mi tormentava più di tutto era come guardarla negli occhi.
***********
Una lunga camminata
attraverso un viale alberato abbastanza illuminato, persone attorno a me che
chiacchieravano animatamente, alcuni schiamazzi di ragazzine ben abbigliate per
una probabile serata in discoteca, coppiette a braccetto. La normale
popolazione di un sabato sera, ed io che mi mimetizzavo tra tutti loro. Non
appartenevo a quella folla, li osservavo di sfuggita disinteressata, avevo un
luogo in cui dirigermi e la mia mente era completamente assorbita dal percorso
più breve da prendere. Nessuna particolare fretta, un leggero groppo allo
stomaco che riuscivo a stento ad ignorare ma che sarebbe sparito, o aumentato,
appena sarei arrivata al locale. La luna faceva capolino al di sopra delle alte
case popolari, il rumore delle macchine e della poca natura circostante
riusciva ancora a troneggiare su tutte quelle voci estranee, ciò era un bene
considerando che talvolta mi distoglievano dal mio pensiero fisso. Dopo tre
settimane ed una chiamata andata in porto, il cervello non aveva ancora
elaborato un buon piano di fuga da quel tormento. Forse sarebbe accaduto
qualcosa nel momento in cui l'appuntamento sarebbe cominciato.
Il cielo era sgombro di
nuvole, solo un leggerissimo vento soffiava con pause irregolari ma non era
fastidioso. Con me avevo solo il cellulare ed il portafoglio, volevo credere
più all'istinto che all'annunciatore meteo che prometteva piogge serali in zone
isolate. Mai fidarsi dell'omino del tempo quando sei cresciuta in campagna e
sei ben abituata a scrutare l'orizzonte. Quella era l'unica sicurezza del
momento, inutile ma abbastanza per farmi smettere di pensare anche solo di poco
al mio essere in anticipo. Forse ritardare non sarebbe stata una cattiva idea,
del resto avevo atteso tanto e poteva far bene anche a lei stare un po' in
pensiero. Purtroppo non ero portata ad essere così vendicativa ed odiavo dover
accampare delle scuse per non essere arrivata in orario.
Il viale si apriva su di
una piazzetta, da cui svariate strade prendevano vita. Destra per qualche
metro, poi sinistra: conoscevo bene il tragitto, non si trattava del mio locale
preferito ma mi era rimasto abbastanza impresso da ricordarne il percorso.
Notai che diverse persone andavano nella mia stessa direzione, altri allegri
gruppi di giovani sorridenti ma meno rumorosi. Non stetti ad osservarli più di
tanto, anche se tra di loro poteva nascondersi il mio bersaglio. La via non era
pedonale ed i marciapiedi stretti, passavano poche vetture nel mezzo e molti
camminavano direttamente in mezzo alla strada, non curanti del possibile
pericolo. L'insegna lampeggiante del locale era ormai ben visibile, si potevano
leggere indistintamente le lettere che ne formavano il nome, luce bianca e rossa
ad intermittenza.
Mi fermai a pochi metri
dalla porta d'ingresso, estraendo il cellulare e provando una chiamata.
Sospirai scoprendo che il mittente aveva spento il telefonino, in parte
aspettandomelo ed aspettandomi anche la mia resa di fronte a quella situazione.
Forse sarebbe spuntata da un momento all'altro alle mie spalle, facendomi
sobbalzare dallo spavento e poi dalla crisi nervosa per la mia incapacità ad
affrontarla. Forse non si sarebbe affatto presentata, presa da tutt'altro
interesse oppure da semplice timore che la tormentassi anche dal vivo, più di
quanto avevo tentato di fare per via telefonica. Tutte probabilità molto
fattibili. Le avrei concesso una mezzora buona per farsi avanti e, nel caso in
cui non si fosse fatta viva, avrei abbandonato la missione per un buon riposo
casalingo.
Attraversai quindi la
strada e mi poggiai al muro. Trascorsero dieci minuti abbondanti. Li contai
mentalmente, secondo per secondo, per passare meglio il tempo. Non mi andava di
allungare l'orecchio verso i discorsi dei miei vicini di marciapiede, né stare
ad osservare chi entrava e chi usciva dal locale. Mani in tasca e piede che
batteva il tempo sull'asfalto, mi passò completamente la voglia di aspettare
ancora e stavo seriamente mettendo in conto di girare i tacchi verso casa,
anche se l'idea di trovarmi da sola là dentro non era certo migliore della
solitudine di quegli istanti in mezzo a tanti sconosciuti. Pregai me stessa di
portare ancora un poco di pazienza, tenendo impegnata la mente immaginandomi attaccar
bottone con un gruppo di ragazzi in attesa di entrare. Ah, come sarebbe stato
bello essere un po' più sociale e molto meno misantropa in certi momenti. Non
che odiassi realmente chi mi stava attorno, ma non mi servivano letteralmente a
qualcosa o, almeno, al qualcosa di cui avevo più bisogno. Desideravo solo un
po' di pace, senza necessariamente evitare un conflitto di qualsiasi genere,
ero pronta ad uno scontro di sguardi nudo e crudo da far atterrire almeno una
delle due parti.
Lo scontro non si fece
attendere più, nove metri di distanza dall'altra parte della strada. Pareva che
fosse cominciato da tempo ed ero l'unica a non essersene accorta. Sara stava
lì, appoggiata al muro e mani in tasca, a fissarmi con occhi stranamente vivi
senza staccare il contatto visivo per un momento. Cosa che invece feci io
appena mi accorsi della sua presenza, fissando interessata il marciapiede in
basso a sinistra, subito dopo aver spalancato le palpebre per lo stupore.
Intrecciai le mani tra loro, non tremavano ma le dita erano inquiete e
premevano la pelle, formando diverse pieghe come increspature dell'acqua. Il
piede che batteva il tempo si fermò e premette contro il terreno, come a
volercisi aggrappare facendo sprofondare il tallone e la punta. Sicuramente il
suo sguardo continuava a rimanere fisso sulla mia persona e ciò, no, non
aiutava di certo l'ansia che faceva capolino. Avevo paura di constatare la mia
sensazione, ma dovevo pur prendere coraggio ed attraversare la strada.
- Hai freddo?- chiese una
voce improvvisamente vicina a me. Ciò che non ero riuscita a fare per la mia
mancata audacia l'aveva fatto lei, fortunatamente e stranamente. Era a circa
mezzo metro di distanza da me, le mani ancora in tasca, il resto non lo
scorgevo perché tenevo insistentemente lo sguardo basso. I marciapiedi sono
estremamente interessanti se si
osservano a lungo, si
possono scoprire tante piccole crepe che paiono riproduzioni in miniatura dei
mosaici dipinti da Klimt, solo che mancava il suo classico tocco dorato.
Ripassare storia dell'arte era l'attività meno indicata per levarmi dallo
stomaco quel masso invisibile. - Si, un po'. Entriamo?- chiesi abbozzando un
sorriso nel bel mezzo del mio volto imbarazzato. Anche le sue scarpe
catturavano l'attenzione, oh come erano coinvolgenti i laccetti bianchi su
quella forma di tela nera. Si, ok, dovevo smetterla ed in fretta. Sempre con lo
sguardo basso, la sorpassai e constatando che non arrivassero automobili
attraversai la strada, aspettandola davanti alla porta d'ingresso.
Se stavolta scappo io,
non la riprendo mai più.
Sentii dei passi dietro
di me, così mi girai verso sinistra ma di lei nessuna traccia. Non poteva
essere scappata, altra sicurezza non ancora contraddetta, così sbirciai
all'intero del locale. Le luci erano soffuse tranne che all'angolo bar, si
sentiva la musica anche all'esterno, non era rumore insensato ma qualche pezzo
storico anni Ottanta. Sorrisi senza sforzo questa volta, era di mio gradimento.
Ai tavoli si potevano vedere i gruppi che mi avevano preceduta, alcuni sedevano
in coppia, altri erano si erano accomodati ai divanetti negli angoli dietro
lunghe tavolate imbandite di cocktails e aperitivi. C'era però qualcosa di
insolito che non mi spiegavo: l'atmosfera non era poi così diversa dai rari
locali in cui ero stata e le persone che lo popolavano non avevano nulla di
così particolare, ma non riuscivo a capire bene al di là del vetro. Mi
incuriosiva quella folla animata, nonostante il mio essere restia dal buttarmi
in mezzo a così tanta umanità.
Una mano sulla spalla destra
mi destò dal mio osservare. - Ti dà fastidio?- mi chiese Sara, cogliendomi
impreparata sulla risposta. Cosa c'era di fastidioso? La sua mano che mi
richiamava all'attenzione? Il vento che si era alzato e mi pizzicava la pelle?
Nessuna delle due ipotesi, nemmeno il suo sguardo intenso ma quieto diritto nei
miei occhi. I miei spalancati, invece, mi mettevano enormemente a disagio. Non
era la reazione che desideravo, non nei suoi confronti, l'avermi presa alla
sprovvista però non aiutava quella sensazione sgradevole al petto. Scossi il
capo, roteando lo sguardo a destra ed a sinistra prima di tornare sul suo che
non accennava a distaccarsi. Per un attimo si volse verso la vetrata, per poi
tornare su di me. - Allora vieni, - disse con il suo solito tono pacato,
facendo scivolare la mano dalla spalla alla mia – ti faccio conoscere un po'
del mio mondo.-
Era calda come la
ricordavo, pelle contro pelle, una stretta gentile a guidarmi all'interno, il
viso rivolto in avanti, la sua schiena a farmi da scenario. Un brivido, questa
volta non di freddo, ad attraversarmi la colonna vertebrale. Non ricordavo mi
avesse mai donato una sensazione simile, seppur involontariamente; era una
sorpresa piacevole e mi lasciai inebriare senza opporre resistenza. Trattenni a
stento l'ennesimo sorriso sentito, volevo mostrarglielo guardandola
direttamente e soprattutto non in quel momento. La vista era concentrata tutta
sulla sua persona di spalle ed i pensieri sul suo fare premuroso e l'incedere
lento in mezzo ai tanti tavoli. Mi lasciai sfuggire uno sguardo piuttosto
veloce al di fuori della sua figura, per evitare di perdermi lo spettacolo che
mi forniva, e purtroppo fui subito assorbita dal resto del panorama.
Il fastidio a cui si
riferiva riguardava l'interno del locale. Non ai cocktails, non
all'arredamento, ma ai suoi abitanti. Ai tavoli vi erano esattamente le persone
che avevo osservato da fuori, ma più da vicino potevo vedere chiaramente
ragazzi che si tenevano per mano tra loro, donne che si scambiavano lievi
carezze mentre ridevano con altri amici, abbracci affettuosi tra persone dello
stesso sesso in punti ben illuminati e non nell'ombra degli angoli più nascosti
ed intimi. Ciò che mi era sfuggito all'esterno e che tentavo di capire era ora
lampante e travolgente: il luogo a cui ero abituata si era trasformato in una
serata a tematica omosessuale e non ne ero entusiasta. O meglio, non trovavo
nulla di così raccapricciante che mi facesse scappare via urlando, non ero
semplicemente abituata ad una situazione simile, anzi ero una completa neofita.
Nessuna delle mie conoscenze aveva mai proposto un'uscita simile, ne avevo
certamente sentito parlare ma trovarmici nel mezzo mi metteva quel poco di
soggezione che si prova ad ogni nuovo evento inaspettato.
Sara continuava ad
avanzare verso il fondo dell'ampia stanza di ristoro ed io volevo frenare la
sua corsa in qualche modo, cosa che non mi riuscì affatto. Volevo spiegazioni.
In verità non ne avevo bisogno. Mi sentivo come una bambina a cui avevano
promesso il parco giochi con lo zucchero filato e invece veniva portata al
cinema coi pop corn. A me era stato promesso un frappè alla fragola. Bè, in
qualche modo l'avrei ottenuto anche se condito con quella sorpresa.
Una ragazza fermò Sara
nel bel mezzo della stanza: - Ciao! Da quanto tempo! Come mai non sei più
venuta?- le chiese tutta sorrisi e bacetti sulle guance, osservandola raggiante
ed attendendo una risposta. - Ho avuto da fare.- non la fece tardare ed ammetto
una punta di fastidio nel notare che il tono usato con quella era molto più
vivo di quando si rivolgeva a me. La ragazza continuò il suo discorso a senso
unico condendolo con degli “uffa” e dei “però” su quanto fosse mancata e non
mancata, di come la serata non era la stessa senza di lei e via dicendo, finché
non notò che c'era qualcuna aggrappata alla sua mano e mi volse il sorriso. -
Oh, sei in compagnia, - disse rivolta a Sara ma con lo sguardo su di me – e
questa carina dove l'hai trovata?-
Me lo chiedevo anche io,
ma non feci in tempo a formulare una risposta adeguata che sentii uno strattone
alla mano e la mia accompagnatrice riprese il cammino da dove ci eravamo
fermate. Ricambiai imbarazzata il sorriso, vedendo quello della nuova arrivata
sciogliersi come se la mia presenza non fosse gradita, o forse era delusa dal non
essermi fatta presentare dalla sua conoscenza. Mi ero messa il cuore in pace e
ormai potevo aspettarmi anche quel genere di mosse, pur non sapendo come
reagire.
Arrivammo dunque ad un
tavolo libero nella penombra, proprio in uno di quegli angoli che definivo
intimi e fuori dalla portata di occhi indiscreti. Non temevo chissà quale
intenzione per l'aver scelto un luogo così appartato, avevo fiducia nel suo
voler semplicemente parlare con tranquillità senza troppe scocciature. Lo
speravo, almeno, visto che pareva abbastanza conosciuta in quel luogo, qualche
sventolio di mani in segno di saluto l'avevo notato anche se non ci eravamo
fermate a ricambiare tutti. Soprattutto tutte.
- Ti conoscono in tanti,
qui dentro. - dissi cercando di mantenere un tono piacevole, mentre prendevo
posto sul divanetto a ridosso del muro. Il suo sguardo era altrove, basso,
mentre il mio era direzionato a metà tra il suo viso ed il suo collo, non
riuscendo ancora a fissarla negli occhi e non sapendo bene cosa guardare per
non sembrare troppo scortese. Esitò nel sedersi davanti a me su di uno sgabello
di pelle nera imbottita, osservando il posto al mio fianco, per poi prendere
per buono il posto iniziale. - Già, - dopo essersi seduta, mise le mani
incrociate sotto il mento ed i gomiti sul tavolo – purtroppo.-
- Perché purtroppo?-
insistetti. Come da mia analisi personale, non pareva una persona molto dedita
alla socializzazione, ma addirittura soffrire l'essere riconosciuta e
conosciuta da qualche persona in un locale mi sembrava un'esagerazione. E lo
pensava una che non riusciva a sopportare nemmeno le compagne di università,
tra l'altro.
Prese il menù delle
bevande che era poggiato sul tavolo, sfogliandolo distrattamente. Con una mano
lo teneva dal retro e con l'indice dell'altra scorreva sui nomi scritti in
caratteri corsivi all'interno. - E' noioso. - sembrava essersi fermata su una
scritta in particolare al fondo della pagina, muovendo le labbra lievemente nel
leggerne il nome. - Attirare l'attenzione di persone insignificanti in un
ambiente simile, è noioso. - chiuse dunque il libretto, poggiandolo nuovamente
sul tavolo e facendolo scorrere verso di me, tenendo le dita ancora premute
sulla copertina. Sguardo basso su di essa, probabilmente in attesa che dessi
un'occhiata anche io. Sinceramente mi interessava più osservare lei che una
lista di miscugli che gradivo a stento. Le mie labbra erano semiaperte in
attesa che una qualche domanda intelligente facesse la sua comparsa, ma si
trattava più che altro di curiosità personali, non volevo metterla in
difficoltà per soddisfare la mia sete di conoscenza riguardo il suo modus
vivendi. Ero bugiarda nei miei stessi confronti, volevo conoscere il suo
pensiero a riguardo ma preferivo attendere che fosse lei stessa a proseguire.
Alzò il capo in mia
direzione, il suo viso era assolutamente rilassato ma non si poteva certo dire
fosse sereno. Gli occhi erano socchiusi quanto la bocca, le spalle cadevano
mollemente e le braccia non avevano muscoli tesi, la mano posta sopra il menù
aveva allentato la sua pressione. - Che ne pensi? - chiese in tono basso, che
percepii con difficoltà a causa della musica che rimbombava nella stanza. La
domanda lasciava aperte diverse interpretazioni, stava soltanto a me scegliere
quella giusta: poteva riguardare le persone insignificanti da lei menzionate, o
la noia di essere conosciuta, o l'ambiente stesso. Tentai una risposta
riassuntiva: - Credo non si possa pretendere di conoscere solo chi ci serve
realmente. Tutti, a modo nostro, contribuiamo alla formazione del prossimo. In
ogni caso, posso immaginare che sia fastidioso essere richiamati da chi non ci
fa piacere, specie in un ambiente a noi congeniale.-
Speravo di averla
soddisfatta, anche se ritenevo di essere stata fin troppo filosofica e di aver
usato parti di frasi fatte che io stessa odiavo. Essere ovvi e scadere nei
cliché lo ritengo terribile, seppur talvolta inevitabile, ed io ci ero cascata
in pieno. In tutta risposta ricevetti uno scuotimento di capo. - Intendevo qui.
- indicò con il pugno chiuso ed il pollice teso verso le sue spalle – Come ti
sembra questo posto?-
Mi guardai attorno prima
di rispondere. La musica si era lievemente abbassata e potevo sentire meglio il
chiacchiericcio dei ragazzi al tavolo. Evitai di soffermarmi ad osservare le
varie coppiette, avevo già visto abbastanza ed in fondo non c'era nulla da
analizzare come cavie da laboratorio. - C'è un bel clima, qui. Non me
l'aspettavo, cioè, non pensavo diventasse così... di sera. - e, non sapendo più
cosa aggiungere, feci un gesto a spirale con la mano ad intendere che il locale
aveva subito una sorta di trasformazione. Mi sfuggì un sorriso a labbra
strette, la mia teatralità era imbarazzante e pensavo fosse stata quella a far
ridacchiare Sara sommessamente. Non feci in tempo a chiederle il motivo di quel
guizzo di divertimento che il cameriere si presentò per prendere le
ordinazioni. Le uniche cose ovvie della serata erano il mio frappè ed il suo
caffè, tutto il resto era ancora un grande mistero.
Il ragazzo segnò il tutto
su un block notes e scomparve, non prima di averci promesso l'arrivo immediato
delle bevande con un grande sorriso. Risposi in modo altrettanto gentile, per
poi rivolgermi nuovamente alla mia interlocutrice appena se ne andò. Aveva
assunto una posizione diversa nel mentre, le gambe accavallate molto larghe, un
braccio allungato e poggiato su di esse e l'altro con il gomito sul tavolo e la
mano vicina alle labbra, un dito morso tra i denti. Sorrideva guardando
l'angolo formato dalla parete alle mie spalle. Sembrava molto più a suo agio di
quando ci eravamo incontrate sul marciapiede. Volse poi lo sguardo a me, senza
girare il capo, togliendosi il dito dalle labbra e poggiando l'intera mano a
sostegno della mascella. - Non c'è stata alcuna trasformazione. - si fermò,
roteando gli occhi per poi tornare ad osservarmi – Questo locale è sempre stato
un ghetto. -
Quelle parole mi
ferivano, pur non essendo la vittima diretta di tanto cinismo. O forse si.
Sicuramente non ero stata io a decidere di ideare dei luoghi appositi per gli
incontri omosessuali, ma non avevo nemmeno contribuito a fare in modo che non
esistessero. Né l'avevano fatto i clienti stessi di questi ritrovi. Più di
tutto mi aveva sconcertata il fatto che il locale che tanto amavo fosse un
recinto per animali socialmente inaccettabili. Peccato che i veri animali si
nascondevano su entrambi i fronti, pronti a disturbare la quiete per puro
piacere dell'odio. Ed io non ci vedevo nulla di male in tutto ciò, pur provando
quel momento di disorientamento alla notizia, pur non capendo come quel luogo
potesse essere quel che stavo vedendo a tutte le ore del giorno. Ero l'unica
vera estranea e non avevo il diritto di criticare, ma prima di tutto avrei
fatto un torto a Sara, ai proprietari del locale, alle persone presenti.
Ed in parte anche a me
stessa.
- Sebbene concordi con il
definirlo un ghetto, pensavo fossi più entusiasta di essere circondata da
persone con il tuo stesso pensiero. - cercai di smorzare i toni con una
constatazione amichevole, ma non pareva fosse dello stesso parere. - Io
entusiasta? Non so che film tu abbia visto. Ti ho portata qui solo per farti
conoscere una parte di ciò che mi ha cresciuta, non per farti assaporare
quest'atmosfera. - prese una lunga pausa, piegando un tovagliolo di carta
estratto dal contenitore metallico sul tavolo, dandogli una forma indefinita.
La mia reazione si faceva attendere, quindi proseguì, alternando lo sguardo
alla sua piccola opera ed al mio viso: - Un tempo frequentavo questo genere di
luoghi per sentirmi a posto con me stessa, fuggire dal bigottismo di tutta
quella gente là fuori e ritrovarmi in una grande famiglia allargata. Pensavo
fosse l'unico modo... - ulteriore pausa, questa volta fissò intensamente il
tovagliolo spiegazzato, passandoselo lentamente di mano in mano come se il gesto
potesse donarle maggior concentrazione - ...l'unico modo per sentirmi
apprezzata ed imparare ad apprezzare.Almeno finché non sono resa conto che buona parte di questi simili, da
me, cerca il solito monotono divertimento.-
Il suo essere per la
seconda volta molto loquace, da quando la conoscevo, mi elettrizzava su più
fronti. Avevo una piccolissima dose del suo cuore in mano, ma poteva anche
essere l'ultima goccia. Ero terrorizzata dal suo aprirsi, sembrava piuttosto
naturale ma era l'ennesima cosa a cui non ero abituata, poteva celare una
notizia sconcertante come quella di confidarmi i suoi ultimi pensieri prima di
allontanarmi definitivamente. Positività, vieni a me. Avrei davvero desiderato
diventare la paladina dell'ottimismo anche solo per un attimo, pur di rendere
meno enigmatiche le sue affermazioni. Avevo compreso buona parte di ciò che mi
aveva detto, sul cosa desiderassero da lei certi individui, sul perché si
sentisse a proprio agio e poi la noia che l'aveva colta a causa della
ripetitività di attività poco sentimentali. Quel che ancora rimaneva al buio, e
non solo di quell'angolo di stanza, era il motivo per cui dovesse sentirsi
apprezzata. Non pareva il genere di persona che avrebbe scalato un grattacielo
solo per poi buttarsi da basso se nessuno avesse riconosciuto il suo valore,
anche se in quella famosa notte mi aveva confidato il suo sentirsi bene per il
solo fatto di avere il mio ascolto disimpegnato. Forse aveva imparato molto
dalle sue esperienze passate, che non conoscevo direttamente, e ultimamente
aveva un enorme bisogno di ritrovare stabilità. Non potevo permettermi di
traballare di fronte alle sue affermazioni.
- Dunque, cosa desideri
da me?- le chiesi con un tono piuttosto serio, incrociando le braccia e
poggiandole a bordo tavolo, avanzando col petto in sua direzione. Una domanda
così spregiudicata ed allo stesso tempo così semplice: avrebbe avuto il
coraggio di zittirla o sarebbe scappata nuovamente, non in senso fisico? Il
risultato iniziale fu un suo spalancare di occhi e l'inclinazione delle labbra
verso il basso. Troppo, troppo audace. Quella piccoletta biondina aveva
sorpassato la sua linea di difesa e la stava disarmando completamente,
controllandola con lo sguardo ed un punto interrogativo molto impegnativo.
Avevo tutto il diritto di comportarmi così, del resto sono sempre stata
schietta con lei, pur nascondendo talvolta le vere domande che volevo
rivolgerle. Ormai il gioco era durato a lungo, non volevo porgli un fine ma
semplicemente lanciare una buona mano di dadi per sbloccare la situazione.
Il suo sguardo rimase
teso ancora per qualche istante, finché si ammorbidì con una punta di
esitazione. Le mani continuavano a trovare interessante il gioco con il povero
foglietto di carta, senza mai stropicciarlo con cattiveria, mentre si poteva
notare altrettanta incertezza nel suo respiro irregolare. L'avevo decisamente
turbata e non mi dispiaceva, la necessità di conoscere le sue intenzioni era
prima perfino all'evitare di metterla a disagio. Mi osservò ancora per un
attimo, per tornare ad osservare il tovagliolino con occhi socchiusi.
- Sai, mi fa male
risponderti perché non ho una risposta soddisfacente. - riportò lo sguardo a me
e lo abbassò nuovamente, deglutendo – Non credo di essere in grado di fornirti
una spiegazione completa, l'unica certezza è che mi fa male. - Sembrava non
saper bene in che direzione guardare, incurvando le spalle verso il petto come
a proteggersi. Mi aspettavo che le circondasse con le mani, tanto la sua figura
era fragile in quel momento. Desideravo insistere, lo volevo fortemente, ma il
suo inclinare ulteriormente il capo verso il basso fece arretrare qualsiasi
crudeltà nei suoi confronti. Ovviamente non comprendevo il dolore di cui
parlava, se fisico o spirituale, ero solo certa della mia improvvisa voglia di
avvicinarla a me e troncare ogni possibile domanda. - Tu, invece, perché mi hai
cercata?-
Interessante, pensai.
Rispondere ad una domanda con un'altra domanda, evitando la prima. Sicuramente
non aveva reagito volontariamente, non dava l'impressione di voler fuggire
almeno in quella situazione e la voglia di domandarle perché l'aveva fatto in
precedenza tornò insistente. Ma era davvero troppo piazzarla in uno status
peggiore di quello. - Eri fuggita senza una ragione rilevante e mi sentivo in
dovere di fermarti. Tu eri fuggita, e mi avevi abbandonata. Non ti odio per
questo ma, lo ripeto, tu eri fuggita. - e nascosi così una domanda implicita
nel mio insistere su quel punto.
- Sono fuggita perché
temevo di perderti. -
Il peso allo stomaco si
fece più grave.
Deglutii più volte,
fissandola con occhi spalancati. Correva via da me mentre ero io quella che,
potenzialmente, avrebbe potuto scappare. Aveva messo le mani avanti per
proteggermi, o forse proteggere se stessa. O entrambe. No, ne ero ormai sicura,
aveva agito non per lei, non me per, ma per Noi. Un Noi che ancora non si era
formato ma che era in qualche modo cresciuto da quell'istante, sebbene non
volessi ancora accettarlo pur avendolo appurato nel confronto con me stessa. Un
gesto estremamente dolce.
Mi sporsi più avanti,
alzandomi di poco dal divanetto, catturando la sua mano sinistra libera. La
tirai verso di me con gentilezza, suscitando un deciso turbamento nella sua
persona che esitò inizialmente, per poi avviarsi docilmente dove avevo intenzione
di posizionarla, al mio fianco, più vicina al corpo e alla vista. Feci il tutto
senza un'espressione particolare ma, quando fu piccola ed insicura alla mia
portata, le sorrisi. Probabilmente si aspettava una qualche mossa altrettanto
audace e dovette attendere davvero molto perché questa non arrivò. La volevo
semplicemente coccolare con una presenza più tangibile, più calorosa. - Se non
vuoi perdermi davvero, allora cerca di starmi più vicina. Ho avuto freddo in
queste tre settimane.- mi avvicinai di più al suo viso, sorridendo
ulteriormente al suo imbarazzo, per poi accostare le labbra al suo orecchio –
E' stato terribile senza te.-
- Anche se ho tradito il
tuo abbraccio?- chiese a tono basso, ma abbastanza da poterlo sentire da quella
distanza. La musica del locale era ormai lontana dal nostro piccolo nucleo
invisibile ed i suoi occhi timidi, che mi guardavano da lato, non facevano
altro che aumentare la fortezza di quella barriera. Passai un braccio attorno
alle sue spalle, appoggiando la fronte all'incavo del suo collo. Non si mosse
di un centimetro, ora potevo sentire indistintamente il suo sangue pulsare in
modo accelerato ed il suo respiro per nulla regolare soffiare sul mio collo. -
Ti dovrei uccidere per questo ma non ne ho il potere. Posso sentirmi solo
estremamente gelosa? - chiesi, sperando che non percepisse il calore provocato
dal rossore delle mie guance.
Altra saliva percorse
duramente la sua gola, accompagnata da leggeri movimenti di mascella e di
labbra. Lo percepivo dal fatto che erano parzialmente appoggiate al fianco del
mio viso. Alzò lentamente il braccio libero in direzione della mia schiena,
titubante, per poi optare ad appoggiare la mano tra il fianco e la coscia. Quel
tocco era delicato e premuroso, come se un solo movimento errato potesse ferire
la mia carne. Tutto quello scrupolo continuava a renderla fragile e amorevole
allo stesso tempo e, in tutta risposta, sfregai lentamente il capo contro il
suo collo per rassicurarla, anche se una mossa simile poteva essere facilmente
fraintesa. - Ho cercato conforto altrove, - rispose scandendo bene le parole –
ma mi rendo conto che non mi tranquillizzava quanto stai facendo tu ora. -
Inclinò quindi il capo verso la mia spalla, portando finalmente quella timida
mano sulla mia schiena, stringendomi forte ma senza levarmi il fiato. Avrei
sentito la maglietta inumidirsi da un momento all'altro o l'avrei fatto io con
la sua? Trattenersi sembrava un enorme sforzo per entrambe.
Era una dichiarazione in
piena regola, seppur implicita, ma ancora non ci bastava.
- E poi, - intervenne
improvvisamente, alzando il viso e scostandomi in modo che anche io la
guardassi – se mi ammazzi adesso risolveresti un sacco di problemi. Quella che
mi ha salutato quando siamo entrate, ogni tanto si fa sentire. Non so quanto ti
convenga tenermi in vita.-
Spalancai gli occhi. Sara
stava scherzando così naturalmente davanti a me, con quell'espressione
tranquilla ed il tono decisamente più vivo del solito. Dovevo aspettarmi
un'imminente invasione aliena, uno stormo di cavallette o la spaccatura del
terreno sotto i piedi? Cercai di scacciare lo stupore e le immagini
catastrofiche per quel suo insolito comportamento, pur non sapendo che cosa
rispondere. Le labbra mimavano delle parole che suonavano come “ma” ed anche un
“che cazzo stai dicendo” anche se non riuscii a dar loro dei suoni tangibili.
In breve tempo mi ripresi e le pizzicai la guancia, aggrottando le sopracciglia
in una falsissima espressione furibonda, fissandola dritta nelle pupille. -
Questo è un avvertimento. Non te lo permetterò più, siine consapevole.-
minacciai con tono piuttosto serio, digrignando i denti ed assottigliando gli
occhi per migliorare quella farsa. Ottenni una reazione simile alla mia nei
confronti della sua iniziale battuta, per poi notare piacevolmente che i suoi
tratti facciali si rilassarono compiaciuti e sereni, sfoggiando un lieve ma
sincero sorriso. Ricambiai, con l'impulso incontrollabile di avvicinarmi
ulteriormente e non sembravo l'unica a non sapersi controllare. Lentamente ci
ritrovammo a pochi centimetri di distanza, viso contro viso, un leggero fremito
da parte di entrambe che si stabilì quasi subito.
- Andiamo a casa mia. -
proposi annuendo senza aver ancora ricevuto un responso. - Vorrei chiederti
tante cose. Questo non è il luogo adatto. - mossi ancora il capo in segno di
approvazione. Sara fece lo stesso poco dopo, senza muoversi dalla posizione che
avevamo assunto. Eravamo in sintonia e sembrava piacerci, al di là di tutte le
altre situazioni che parevano far piacere solo a me. - E le ordinazioni?-
chiese voltando lo sguardo verso il nostro tavolo vuoto ed al bancone.
Probabilmente non era serata per il mio amato frappè. Feci spallucce, mi
scostai dal nostro singolare abbraccio per poi alzarmi, tirando i lembi della
maglietta verso il basso ed aggiustandomi i jeans ai fianchi. Senza guardarla,
feci il giro del tavolo e le feci gesto di seguirmi.
- Che si fottano. -
C'erano cose molto più
importanti di un dannatissimo frappè alla fragola.