Stand My Ground

di Sabu_chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

PROLOGO

 

 



- Allora, ti piace?-

 

Fissavo il soffitto che sovrastava la piccola stanza, gli occhi fermi e stanchi, quasi stufi di dover vedere quel panorama in continuazione, una visione davvero monotona. Quel bianco sporco, così impregnato del fumo grigio di sigaretta, sembrava implorare una rinascita, una nuova mano di colore. Poco più in là il poster di un modello regnava sulla parete, l’ennesimo uomo che sprecava la propria immagine per conquistare delle ragazzine che imperterrite compravano il suo nuovo libro, pregno di menzogne ed esagerazioni che si sostituivano alla sua vita altrimenti anonima. Quell’uomo aveva dopotutto un fisico scolpito (come lo abbia ottenuto non era di certo affar mio) e poi, si, dovevo ammetterlo, dei begli occhi di un azzurro intenso. I miei invece erano di un castano scuro tendente al nero e nonostante tutto molte donne trovano più affascinanti le mie scure iridi rispetto a quelle quasi stellate.

Forse era solo colpa dei miei occhi se più spesso mi trovavo con persone sbagliate, nei letti sbagliati.

- Ehi, mi stai ascoltando?- ripeté quella voce femminile con tono seccato, ansioso di ricevere risposta. Spostai lo sguardo verso di lei, i capelli biondi le coprivano sensualmente il volto, oscurato dall’ombra creata dalle tapparelle abbassate quel tanto che bastava per illuminare un filo di pavimento. La lunga frangia le percorreva i lineamenti delle spalle e del collo, il petto s’alzava e si abbassava con il suo irregolare respiro. Le braccia allungate e poggiate sulle mie spalle, le dita delle mani stretta sulla mia pelle, le gambe a cavalcioni sul mio ventre.

Scossi la testa. – No. - fu la mia risposta secca, seppur appena sussurrata.

- Vuol dire che nemmeno questa volta…?- lasciò la domanda a metà, forse notando che oltre ad aver smesso di guardarla non la stavo neppure ad ascoltare, avendo voltato il viso alla mia sinistra. Notai il suo sguardo solo per una manciata di secondi: si, aveva capito, anche quel giorno non mi andava di continuare. Tanto è inutile che mi guardi così, pensavo, sai bene che il tuo modo di far la sgualdrina non mi eccita affatto. Dopotutto l’hai avuta tu, l’idea di indossare quell’orrida mise, ora te ne becchi le conseguenze.

Mi alzai sui gomiti per scomodare la povera creatura dalla sua pur comoda posizione. Svogliatamente, si spostò al fondo del letto senza fiatare. Scesi lentamente con un piede e poi con l’altro sul tappeto, ed altrettanto comodamente mi accinsi a riaccendere il mozzicone di sigaretta che avevo spento a metà. Nonostante il metodo poco salutare era la via più facile per aiutarmi a calmare la bestia del nervosismo. Poggiai la parte arancione del filtro sulle labbra e con l’altra mano tentavo di far funzionare un accendino, regalo sgradito di una persona. Appena avesse smesso di funzionare l’avrei gettato nel primo tombino per strada.

Inspirai della sostanza nella mia bocca, mentre lei si stava riagganciando il reggiseno il più velocemente possibile, come a coprire un brutto errore appena commesso. Lasciai che il fumo scivolasse fuori andandosi ad attaccare al grigio soffitto. La procedura era monotona come sempre.

La sentii avvicinarsi, strisciando sulle lenzuola, portandomele addosso con la mano sinistra, poggiando il mento sulla mia spalla e baciandomi il collo. Il suo rossetto lasciava una sgradevole sensazione ed ebbi quasi l’istinto di strofinar via il suo residuo unto in quel punto.

L’istinto prese il sopravvento.

Uno schiaffo.

- Come ti permetti?! Dopo tutte le volte che mi hai usata, hai anche il coraggio di comportarti in questo modo?? E dire che ti considero più di un’a..!-

Le mie dita si mossero da sole, poggiate su quella bocca innocente ma sporca di troppa saliva altrui, tanto quanto di servizi molto arditi. Premetti il pollice sul labbro inferiore, tenendole il mento con l’indice, mordendola con ingordigia. Che mi costava, dopotutto, accontentarla? Le mie energie mentali si erano ormai esaurite per lei.

- Non ho mai chiesto di usarti.- sussurrai gentilmente, sorridendo un poco e guardandola negli occhi. –E non ti considero nient’altro che quella che sei. Nient’altro.- Poggiai la mia fronte alla sua scostandole i capelli dal viso. Pensavo che le sue sopracciglia si piegassero corrucciate ed offese, ma mai in un’espressione così stupita. I suoi occhi parevano tristi e, a mio parere, pateticamente dispiaciuti. , capita di sbagliarsi. Infatti cambiò espressione in pochi secondi, spingendomi lontana da lei e stringendosi le spalle con le mani incrociate al petto, guardando altrove.

- Ed ora cosa hai intenzione di fare?- chiese sottovoce, ammutolita e ridotta alla condizione di indifesa ragazzina, senza corazza a proteggerla. Già, in quel modo era davvero carina, forse la stessa causa che mi aveva attratta quando la conobbi tempo prima. Le misi un braccio attorno alle spalle e la feci poggiare al mio fianco.

- Nessuno ha la cifra adatta a comprarmi, e nemmeno la giusta valuta. Tu non l’hai mai avuta eppure hai provato a prendermi.-

Mentre dicevo ciò, inclinai il capo verso il suo viso, che era poggiato al mio tatuaggio: un codice a barre senza cifre.

- Ora cercherò qualcuno in grado di acquistare il mio cuore.-

 

*******

 

- Allora ti piace!-

 

Quell’esclamazione viva e giovane riecheggiò nei corridoi della galleria d’arte moderna. Era una struttura vecchia sia fuori che dentro, ridipinta recentemente di un colore rosa salmone molto chiaro che dava un senso di ariosità e lucentezza. Ogni parete era alta circa cinque metri ma ristretta in larghezza, così da poter contenere solo due quadri, tre se di media grandezza.

Il quadro che stavo osservando era di modeste dimensioni, con una cornice argentata semplice senza ornamenti particolari. L’immagine era divisa in due momenti: nella prima parte era ritratto uno scorcio di mare mosso, da cui si ergeva una mano di colore. Dall’altro lato una mano bianca che si allungava in direzione della prima, dandole forse aiuto. Perché forse? , nella seconda parte si poteva capire indistintamente che la mano bianca non voleva affatto aiutare quella nera. Infatti si ritrae, mentre la prima scompare tra le onde, risucchiata dalla schiuma dell’acqua.

La ragazza stessa che l’aveva dipinto mi aveva chiesto un parere personale. In quanto dipendente della galleria, molte volte artisti emergenti mi domandavano commenti sulle loro opere, ma i più copiavano quadri già esistenti e, se li creavano loro stessi, erano ideazioni banali o poco concrete. Quella invece era stata un’opera semplice ma ben ideata, sebbene si notasse bene che in alcuni punti il tratto era inesperto.

- Qui. - toccai lievemente con la punta dell’indice, là dove, accanto agli scogli, si potevano notare delle screziature in rilievo, incrostazioni bianche che stavano a rappresentare la schiuma delle onde. – Cos’hai usato?-

- Ah quello…- ebbe un attimo di esitazione, quasi imbarazzata – è bianchetto!-

- Bianchetto?!-

- E-ehi calma! Ecco…mi mancava l’acrilico bianco e poi…-sembrava cercasse una scusa- …volevo dargli un tocco di realtà!-

Realtà o finzione? Quell’incrostazione era talmente toccabile con mano che pareva voler uscire dalla tela. Fuggire. Mai più tornare.

Si, decisamente mi piaceva.

- Ok, vorrà dire che chiederò un favore al padrone della baracca. Magari potrebbe spostare questa opera d’arte in una zona più esposta.- dissi lentamente, portandomi una mano al mento con fare da esperta critica, senza guardarla in viso.

Era tremendamente carina.

- Opera d’arte? Wow! Che paroloni! Non avevo mai sentito un commento del genere!- strepitò tutto d’un fiato, gonfiandosi d’orgoglio.

Sorrisi un poco alla sua esultanza, poi mi voltai su me stessa e mi diressi verso un’altra stanza, senza illuminazione. Appena vi entrai, poggiai la testa al primo muro a disposizione, abbandonandomi ad esso con svogliatezza. Accesi un mozzicone di sigaretta che avevo conservato all’entrata della struttura e buttai la cenere per terra con non curanza, poi mi poggiai completamente di schiena e mi lasciai scivolare seduta a terra. Sapevo bene che stavo per farlo, mi conoscevo abbastanza bene da poter scommettere sulla mia possibile prossima mossa.

Sentii i passi della ragazza di poco prima avvicinarsi, quasi di fretta, fermandosi a poco centimetri da me. Correva saltellando, un gesto tipico dei bambini che si avviano alla mamma. Si piegò nella mia direzione, portandosi le mani sulle ginocchia.

- Per caso non stai bene?- mi domandò un poco sottovoce, avviando ed incrociando il suo sguardo al mio. Socchiusi gli occhi, buttando fuori il fumo davanti a me, non badando se c’era o meno lei, ma parve non lamentarsi.

- Ti andrebbe di dividere il letto con me, stasera?-

Ecco. L’avevo fatto. Mi ero di nuovo lasciata prendere la mano da istinti impulsivi e non attinenti alla situazione. Avevo già previsto come avrei agito, per questo ho cercato almeno di prevenire la situazione, allontanandomi. Pareva invece che il mio intento sia andato a vuoto.

Lei sorrise.

- Pare invece che tu stia bene, anzi, direi benissimo. Vedrò di chiedere personalmente al padrone della galleria se vorrà spostare il mio quadro.-

Detto questo si alzò spolverandosi i pantaloni e girò l’angolo, ma prima di sparire totalmente fece un passo indietro, guardandomi di lato.

- Alla prossima, ragazza egoista.-

 

Era bionda, ma si capiva che in realtà il suo colore naturale era un altro.. Mi chiedevo come facessero i suoi capelli a superare la forza di gravità, forse l’effetto era dato dall’enorme quantità di cera che usava sulle sue chiome. Le punte più ardue puntavano verso il cielo, mentre altre le cadevano sugli occhi. Chiare iridi innocenti e spensierate.

Mascolina d’aspetto quanto di carattere. Non si faceva mettere sotto i piedi da nessuno, anche se più delle volte si rattristava per un nonnulla.

Era decisamente carina.

Tremendamente carina.

Da quando mi aveva lasciato sola in quella stanza, quel giorno famoso, mi era rimasto impresso il suo modo di fare. Certo, non sfrontato come il mio. Qualcosa in lei mi aveva colpito ed avevo deciso di seguirla. Conoscevo la zona dove abitava ed i suoi orari. Lo ammetto: questo si chiama stalking e dovrei essere arrestata per ciò, ma dopotutto non nocevo alla sua privacy tra le mura di casa. Ora era al parco pubblico, contornata da un paio di ragazze. Va bene, va bene, ammetto anche questo: le sue amiche erano decisamente più dotate di lei, in tutti i sensi. Ma non era ciò a cui miravo.

- Ti dico che la formula è questa!- puntava il dito sulla pagina di un libro di chimica, pieno di numeri sospetti, continuando a puntare in quel punto - Visto? Se aggiungi questo elemento, non credo che il professore sarà contento di dover spostare tutto in un laboratorio nuovo!-

Le altre non erano molto convinte del ragionamento, ma cedettero presto alla sua insistenza. Un comportamento impeccabile, seppur a tratti odioso. Le altre annuivano, forse fingevano mera comprensione, poi presero le loro cartelle, posandovi dentro i libri, la salutarono e se ne andarono.

La ragazza fece un cenno di saluto mentre si allontanavano, poi sbuffò vistosamente e portandosi le mani dietro la testa si accomodò per bene sulla panchina.

- Posso sedermi?-

Forse la sorpresi, tanto che sobbalzò al mio arrivo, spostandosi verso l’altra sponda della panchina.

- Oh… prego, si sieda…- fingeva disastrosamente di non conoscermi, dandomi quasi le spalle, prendendo distrattamente a leggere il suo libro pieno di formule per me incomprensibili.

- Ti infastidisco forse?- chiesi.

- …no…è che… non farti venire strane idee su di me.-

Ridacchiai, estraendo il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, aprendolo e tirandone fuori un biglietto un po’ spiegazzato. Mi avvicinai a lei, ma notando il mio movimento si alzò di scatto cercando una via di fuga lontana da quella che sembrava una trappola.

- No, aspetta. - si fermò subito alle mie parole, volgendosi solo un poco. Le porsi il biglietto.- Il capo ha detto che forse potrebbe darti una mano, dato che ti conosco…-

- Tu non mi conosci affatto. - prese il biglietto sgarbatamente, leggendone il contenuto.

- … e vorrei anche farmi perdonare. -

- …- ci pensò un attimo, poi si volse totalmente, fissandomi dritta negli occhi. Un sguardo che non potevo facilmente evitare, per quanto fosse carico di diffidenza e con una punta di… era rabbia, quella? Così pareva. Forse era ancora adirata per la mia proposta tutt’altro che simpatica.

- Basta che tu non mi inviti a condividere le tue lenzuola.-

- Senz’altro.-

 

*********

 

- Allora?! Ti piace?!-

 

No. Mi fa letteralmente schifo.

Non risposi così però, nonostante fosse quello che realmente pensavo in quell’istante. Continuai a girare il cucchiaio nel piatto, stracolmo di passato di verdura, che aveva un colore per nulla invitate: un verde oliva schizzato da macchioline bianche qua e là. Che fossero residui di sedano che si era rifiutato di esser triturato con i suoi compagni ortaggi? Tutto poteva essere. Stava di fatto che mi rifiutavo di mangiare una simile schifezza.

Non l’avrei mai assaggiata.

La trangugiai con discrezione, silente, senza alzar ciglio verso la televisione che parlava o al rumore sommesso delle pagine di giornale che venivano girate con notevole cura da dita talmente grossolane. Quando posai il piatto sulla tavola e mi accinsi a far lo stesso col cucchiaio, lasciai sfuggire un’occhiata alla notizia che sovrastava la copertina. Un altro caso di stupro. Inghiottii la saliva, ma non per coda di paglia. La cosa mi intimoriva, quante donne dovevano ancora soffrire per far capire alla gente che era il caso di porre fine a tutto ciò? Bella domanda, senza risposta.

- Cos’hai da guardare? - freddo quesito, quasi un’affermazione celata dal punto interrogativo. Non dovevo guardare, non dovevo impicciarmi dei loro affari, non dovevo uscire dal mio mondo, dovevo semplicemente stare alle regole, muta, cieca, ma non sorda. Ed il solo fatto di sbirciare il giornale era un reato punibile seduta stante.

Scossi la testa, come per dire “no, nulla”. Se avessi parlato sarebbe iniziata una nuova questione. La mia trasgressione. Il mio comportamento. La mia maleducazione.

Finalmente poggiai sulla tovaglia il cucchiaio che tenevo ancora in mano. Mi osservava ancora, fessure con le quali poteva tenermi buona come e quando voleva. Poteva farmi e dirmi quello che voleva. Anzi, mi stava proprio facendo ciò che voleva. Mi sottometteva con il solo sguardo, come se lo meritassi. Come se lo meritassi.

Non lo meritavo.

Spostai la sedia e mi accinsi ad andarmene nella stanza adiacente, posando il tovagliolo al fianco del mio piatto. Rimisi la sedia al suo posto, sotto il tavolo, il più tranquillamente possibile, il più silenziosamente immaginabile. Mi voltai e feci pochi passi verso la porta.

Dove stai andando?- non risposi.

Devi finire di mangiare.- non risposi.

-Quando capirai che devi portarci rispetto?-

Risposi, voltandomi, senza guardarlo in faccia, senza fare una piega, senza proferir parola. È così che funzionava, dopotutto ero in debito con loro, no? Se non mi avessero accolta nella loro casa non avrei avuto angolo, ponte o stazione dove vivere. Se solo i miei veri padroni fossero ancora in questo mondo non sarei stata trattata come un’orfanella qualsiasi. Li avrei rispettati, e sarei stata rispettata. Loro, per i quali la mia vita era un tremendo peccato. Loro, per cui la mia vita era un disonore. Io vivevo, per cui dovevo andarmene. Ero un fastidio. Un grande intoppo. Un soprammobile non gradito, che si poteva togliere in qualsiasi momento. Ma la legge a qualcosa serve, a farmi stare con qualcuno. Possibilmente non loro, ma sono pur sempre qualcuno. Per questo, restando, dovevo sopportare.

Mi sedetti sul divano, sempre garbatamente, continuando il mio silenzio esteriore. Oh, se solo i pensieri fossero suoni tangibili esternamente. Sarebbe stato bellissimo. Avrei potuto dire ciò che non avrei mai osato dire. Avrei visto facce che non avrei mai avuto modo di vedere. Che belle sensazioni.

Silenzio.

-Alzati e aiutami.- Semplice comando al quale dovevo scattare. Vicino al lavabo c’era una pila di piatti, uno straccio e lo sportello dell’armadietto aperto. Compresi. Mentre li asciugavo, ascoltavo il rumore del traffico fuori dalla finestra e lo stridio della sedia a dondolo alle mie spalle. A mio zio piaceva, nonostante quel suono talmente acuto. Pazienza, dovevamo sopportarlo. Era la legge.

- Dimmi te,sti deficienti…- con la coda dell’occhio osservai ed ascoltai – Quegli assurdi finocchi truccati e le loro puttanelle! Se solo potessero mandarli in prigione a calci in culo, ‘sti disgraziati, depravati, malati!-

- Gli omosessuali non fanno male a nessuno…- mormorai sommessamente tra me e me.

Errore. Dovevo tacere.

- I gay non sono sani! Devono nascondersi! -

Già, si nascondono. Si rifugiano, cacciati dalla società, hanno paura di essere giudicati per quello che sono, anzi, per quello che provano. Cosa c’è di diverso in un gay se non il destinatario del loro amore? Null’altro. Oh, mi sbaglio. C’è tutto di sbagliato in un gay. Sono gli oppositori della Chiesa e della società, sono degli schifosi pervertiti, rovina famiglie, manifestanti abusivi e violenti.

Certe volte mi chiedo perché mi piacciono le donne.

Perché mi piacciono?

Mi piacciono.

Non c’è molto da dire. Non mi nascondo. Ok, la verità è tutt’altra e neppure io posso oppormi al modo di pensare della gran parte della popolazione. Cosa non farei per far sapere a tutti cosa provo, cosa sento, come soffro per quel che sono. Anche se effettivamente provo una certa delizia a corteggiare una donna che non capisce il mio modo di pensare, e devo dire che è un gioco a cui mi presto molto spesso. La cosa si fa divertente quando capiscono che ci sto provando e si risolve tutto con una risata. O un’espressione indignata. O una passata di letto. Molti credono che la mia mente sia limitata, purtroppo non sono brava a parole e la cosa che mi riesce meglio è esprimere i vocaboli in gesti. Quanto vorrei poter fare qualcosa per questo mio maledetto modo di fare.

Qualcuno mi metta un freno.

Ciao sono io, Chiara. Mi avevi detto di volerti farti perdonare no? Su, allora, precipitati qui in centro che devo farti vedere delle mie nuove creazioni! Non sai quanto sia contenta che il capo mi abbia dato questa possibilità, ora potrò esporre altri quadri! Ok ok è anche merito tuo ma…non dimenticarti, oggi offri tu! Sennò non ti perdono :-P

Mi buttai fiaccamente sul letto della mia camera. Il materasso non era mai stato tanto soffice, le coperte sembravano fatte di dolce cotone ed il cuscino di vere piume. Mi guardai in giro, attenta ad ogni particolare, concentrata su ogni suono, scricchiolio del legno del pavimento, delle molle del letto.

Mi coprii la bocca con le mani, i miei occhi divennero fessure piccole piccole.

Sorridevo, e lo nascondevo al mondo.

Quel sorriso lo volevo dedicare solo a me stessa.

 

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Capitolo 2
*** 1 ***


1

1



I vecchi ricordi, che erano scivolati via silenziosamente nel fiume del tempo, iniziavano a farmi male. Li misi a tacere, nascondendoli al mio cuore tremante e sforzandomi di sorridere. Lo immaginavo come un agglomerato scomposto, formato da sentimenti di convenienza, intaccato dalla ruggine, da ferite cicatrizzate male che talvolta sanguinavano ancora, lambite da venti tempestosi e dall’orgoglio che mi invadeva. Non era liscio e bianco come la candida porcellana, ma grigio e bruciato come la cenere delle sigarette che fumavo mal volentieri. Ardente di passione, innocente e perso nell’incertezza. Paura di far del male amando, e paura di essere amato. Paura di provocare dolore e riceverne. Perché conosceva bene il significato di essere preso a schiaffi.

Piano piano realizzavo che il mio passato non mi aveva mai aiutata a guarire la malattia che perseguitava insistentemente il mio essere. Non aveva senso avere paura di un futuro a cui non potevo sfuggire. Il mio era un cancro incancellabile. Dolore.




- Mi spiace per essermi comportata in quel modo l’altro giorno, per questo ti chiedo scusa e sono qui anche perché vorrei rimediare alle mie parole.-

- Altro da dichiarare?-

- Nient'altro, direi.-

- Bene! Allora…un frullato alla fragola ed un bicchiere d’acqua. E’ tutto, grazie!-

Il cameriere rimase un attimo interdetto, lo sguardo perplesso, ma prese ugualmente il menù dalle mani di Chiara e segnò l’ordinazione sul blocchetto di fogli rigati. Si girò su se stesso, borbottando misteri e segreti, e dirigendosi verso il bancone principale.

Il locale era piccolo e carino, come qualcosa di prezioso. I tavoli neri e le sedie bianche, non una sporca, né rovinata in alcun modo. Anche i quadri appesi ad ogni parete ritraevano scenari incolori o combinazioni di immagini visionarie. Quella perdita di colore e vivacità era in perfetta sintonia con le persone che abitavano quel luogo ogni giorno o quasi. Ragazzi e ragazze che parlavano di politiche e padroni del mondo, vecchie signore che si lamentavano della società moderna e le guerre giuste o circa, distinti signori che leggevano notizie dal mondo della disperazione. Era decisamente un clima pacifico e potevo finalmente riporre l’accendino nel cassetto.

- Senti, senti…- mi richiamò alla realtà, sventolando la sua mano davanti agli occhi, persi poco prima nella contemplazione del suo decolleté. E dire che pensavo avesse capito i miei gusti ma evidentemente mi sbagliavo. Ringrazio la natura per avermi fatta nascere donna.

- Come ti dicevo, ho portato degli schizzi che ho fatto di recente. Li ho messi in questa cartellina.- me la porse, sfilandola dalla borsa. Le mie dita sfiorarono le sue se non per pochi secondi, nell’attimo di transizione. La sua pelle era ruvida, ma non potevo esserne del tutto certa avendola toccata per così poco tempo.

Aprii la cartellina e sfogliai uno ad uno i fogli in esso contenuta: paesaggi di montagna a carboncino, ritratti di persone e abbozzi di nature morte. Tracce lievi e sottili che parevano volersi dissolvere nel nulla. Le idee erano semplici, forse copiate da qualche parte. Che importava? Alle prime armi ci si aggiusta come si può, e ricordavo volentieri l'improvvisazione di una ragazza che aveva usato del bianchetto per creare la schiuma delle onde.

Poggiò le mani sotto il mento ed i gomiti sulla tavola, attendendo probabilmente un mio giudizio, completo o meno. Se era davvero quello che si aspettava, osservandomi esaminare i suoi disegni, , aveva proprio capito male. Non intendevo dare alcun giudizio sul suo tratto personale. L’anima del disegnatore è concentrata nel matita che ne traccia le linee, non di certo nei giudizi di un terzo che non deve mettere il naso nella relazione tra i due.

- Studi illustrazione?- le chiesi semplicemente, senza staccare gli occhi dai fogli. Dire che la domanda l’ha lasciata un po’ stupita e delusa era abbastanza per descrivere il suo sguardo. Era una domanda così strana e di difficile risposta?

- Veramente no…sono appena al secondo anno di scienze e tecnologie chimiche.- fu la sua risposta frettolosa, non rivolgendomi lo sguardo come stavo facendo io nei suoi confronti, solo che a differenza mia cercava di guardare altrove, sempre più distante con gli occhi e la mente.

- Però. Complimenti nonostante questo. Hai un buon tratto, un po’ pesante in alcuni punti, ma volendo puoi rimediare, se vorrai naturalmente.- un attimo di pausa, sperando di catturare la sua attenzione – Avrei dovuto capirlo.-

- Cosa?- si voltò finalmente, regalandomi tutta la sua attenzione. I suoi occhioni spalancati erano pieni di curiosità, quasi devozione, o forse semplice interesse. Azzurri, pastello, mare, acqua della barriera corallina. Senza accorgersene congiunse le mani alle mie, che le avevano catturate silenziosamente come solo un abile predatore sa fare.

- Sono ruvide. Non era solo un’impressione.- le strinsi alle mie, osservando ancora i suoi occhi.- Si può sentire e capire che ti dai alla sperimentazione.-

Non vuoi sperimentare con me?

Le sue labbra semiaperte cercavano insistentemente di formulare delle parole con significato, ma le corde vocali si rifiutavano di vibrare. I miei occhi parlavano senza bisogno di emettere suoni e mescolando lentamente i colori per creare il rossore delle sue guance, le sue pupille attingevano immagini dalle mie come se nulla fosse. Visioni esplicite.

No.

Non volevo.

Non dovevo.

Allora perché lo facevo, ancora, morbosamente?

Certo che poteva aiutarmi, in qualche modo, iniziando a ritrarsi.

Egoista.

Lo so, grazie. Non ricordarmelo. Non ricordarmi cosa sono. Conosco me stessa, non voglio farmi rimproverare proprio da lei. Da me. Da tutti. Da coloro che puntano il dito e, con la semplicità estrema di bere dell’acqua, formulano parole che scalfiscono ancora e ancora, senza fermarsi. Non ne ho bisogno. Vi ringrazio di esservi preoccuparti per cos’è giusto e per cosa è sbagliato, per me. Ma credo sia meglio iniziare a preoccuparsi ognuno per se stessi. Io a cominciare da Me.

- Direi…che sono abbastanza brava…- farfugliò lentamente senza staccare né sguardo né mani.

Perchè non mi mostri la tua bravura?

- …smettila, per favore…-

- Non ti sto facendo nulla.- dissi pacatamente, assottigliando gli occhi e prendendo ad accarezzarle il dorso delle mani. Era confusa, forse. Era imbarazzata, anche. Direi che non si era mai trovata prima ad essere corteggiata da un’altra ragazza. O forse non era mai stata corteggiata. Sembrava così pura e semplice, nonostante il carattere sbarazzino e decisamente estroverso. Le impressioni che mi dava erano essenzialmente due: la prima, che aveva alcune esperienze alle spalle; la seconda, che era stata fregata. Puntavo tutto sulla seconda, che mi pareva la più lampante. Presi la personale decisione di volerla coccolare come si doveva.

- Non mi stai facendo nulla, è vero,- disse ad un tratto, spostando i miei pensieri- …ma mi spiace dirti che non capisco perché stai… ammettilo, ci stai provando con me.-

- Hai un ragazzo?-

- Cosa?-

- Ho chiesto se hai un ragazzo.-

- No…-

- L’hai mai avuto?-

- Ma che stai dicendo-

- L’hai mai avuto?-

- …mai…-

Le lasciai le mani, portandomele sotto il mento, assumendo la posizione che aveva lei poco prima. Non le ritirò, sembrava aspettare una prossima mossa.

- Allora si, ci sto provando con te.-

Il rossore la colse improvvisamente e non fece nulla per nasconderlo. Nello stesso momento arrivò il cameriere, oserei dire finalmente, e posò l’ordinazione sul tavolino, piegando in due lo scontrino e ponendolo sotto il tazzone del frappè alla fragola, che ricordava tanto il colore di Chiara in quel momento. Si allontanò e quasi ci avventammo sulle bibite appena portate. Pareva che non bevessimo da tantissimo tempo, tanta era la foga. O era solo la gola secca dalla sorpresa che aveva suscitato in lei la voglia matta di bere?

Girai il cucchiaio nel mio bicchiere, lentamente, osservandola ancora. Sorrisi del suo imbarazzo e nello stesso tempo mi spiaceva averglielo causato. Tolsi il cucchiaio bagnato e lo poggiai al fianco del piattino bianco con il contorno nero. Bevvi, e infine posai con calma il bicchiere vuoto sullo stesso piatto.

- Mi spiace, sono fatta così. Non volevo spaventarti. Forse per te tutto ciò è nuovo.-

- E’ decisamente nuovo…- mugolò, osservando con minuzia il tovagliolino di carta davanti a lei. Lo presi e lo spostai in alto. Lei seguì perfettamente il percorso, così da guardarmi in faccia ancora una volta.

- Ti andrebbe di uscire con me qualche volta?-

-…perché no?-

Strano, mi dissi internamente. Che voglia provare nuove formule o concetti chimici? O forse avevo scatenato in lei una certa emozione e voleva porre fine alla dolce tortura? Queste cose le conoscevo bene, ahimè oserei dire.

Non c’è nulla di più pericoloso di una pozione d’amore.



Poi torno in quel luogo e ricomincio a pensare. Al passato. Al presente. Mai al futuro. Sento che se voglio posso dimenticare le cose legate a ieri, se ho abbastanza forza di volontà posso liberarmi delle cose inutili e mantenere per me ciò che è realmente necessario e significativo. Tutto il resto è principalmente una decorazione. Una maschera, forse. Mi preoccupo di tutto e niente. Mi faccio carico di ogni cosa e nulla. Ho la testa piena di sentimenti a cui non so attribuire né nome né causa né effetto. Era ciò che determinava la mia malattia? Essere piena di ogni sorta di cose, tutte inutili a me, alla mia vita, alla mia anima. Al mio cuore.

Mi manca forse l’orgoglio di rinunciare a ciò che mi ha formata, per poter vedere il futuro?

Mi sento un oggetto valutato da tutti. Ho valore o no? Decidetevi a darmi una risposta. Se fossimo tutti oggetti a cui attribuire un prezzo, allora che significato avrebbe la vita? Come posso aprire la porta al mio futuro se non me ne si da la possibilità? Non ho sogni né cose particolari a cui credere, non ho nulla di certo su cui fermarmi a pensare.

Ci sarà un luogo dove posso recarmi e far riposare il mio corpo stanco, forse. E penso anche che quel luogo si stancherà di esistere prima che prenda velocità e lo raggiunga.

Quante volte mi sono trovata davanti ad un bivio, e quante volte ho dovuto scegliere una via da seguire. Decisione dettata dal cuore? Tra la strada gioiosa e quella facile, ho sempre percorso la seconda. Anche se non mi portava necessariamente a sorridere.

 

Il letto ultimamente emetteva dei cigolii quasi sinistri. Sarebbe ora di cambiarlo, pensavo. Illusa, lo sai che non te lo cambierebbero mai.

Esattamente. Da parecchio tempo avevo quella dimora, quell’unico angolo dove rifugiarmi stanca, afflitta e annoiata. Del mondo, di tutti. Del mondo di tutti. Di mio, nulla.

Il sentir proclamare in continuazione le mie colpe, le colpe di una persona che non riconoscevo, mi faceva diventare fiacca ogni volta, talmente tanto che la voce mi mancava e le forze anche. Anche se in quel momento non avevo stranamente ricevuto complimenti di sorta, ero semplicemente stufa di quel luogo. Mi buttai su quel materasso talvolta duro, altre volte flaccido ed inconsistente. Sembrava che il mio corpo giocasse con le sensazioni che mi davano le cose che toccavo. In quel preciso momento il materasso era invisibile, con lui le molle, le doghe, le lenzuola. Ero caduta per terra ed avevo sbattuto la testa su di un pezzo di marmo freddo, che si scaldava lentamente man mano che passava il tempo in cui riposavo, o tentavo tal inutile sforzo.

Aveva una storia quel letto. Ne aveva più di una, ma con ordine, dal principio vero e proprio, ne ha sempre avuta una ed una soltanto. La crescita di un corpo che cercava il riposo sin dai suoi primi vagiti, rincorrendo sogni belli che sono arrivati ad altri. Egoisticamente parlando quel corpo esigeva tutti per sé, non voleva lasciarne nemmeno uno in pasto a chi pretendeva il potere sul suo corpo e la sua mente. Poi crebbe e crebbe ancora. Ora quel corpo tentava di trovare un sonno deciso e prorompente. Era un corpo che si accontentava e che non desiderava più.

Poi, , ci sono le altre storie. Ma sono molto più noiose ed ordinarie della principale. Romanzi di scrittori inesperti che narravano aggrovigliamenti di lenzuola, cuscini che cadono a terra, mani che si intrecciano e bocche che prendono avidamente aria nei loro polmoni dilatati. Storie semplici nella narrazione e nella credenza. Forse l’unica cosa complicata era il fatto di credere che fossi io una delle protagoniste delle svariate storie.

Stavo poco a poco prendendo la ferma decisione di buttare veramente tutto alle mie spalle. Il mondo che mi aveva costruita, e con esso chi mi aveva costruita. Tutto. Chiudendo i ricordi con una chiave arrugginita che girando produceva un rumore stridulo, come a rammentare che è difficile serrare una porta che dà alle tenebre.

Talvolta desideravo essere luce per brillare nei miei momenti oscuri e illuminare le notti insonni di chi entrava nel mio cuore e nel mio corpo.

Talvolta desideravo diventare il male in persona, racchiusa in un portagioie. Un prezioso cofanetto che scatena un potere nero a piacimento.



- E’ pronta la cena. Alza il culo da lì e muoviti.-

Agli ordini, padrona.

E così dovetti alzare il mio culo da lì e portarlo dove mi venne ordinato. Luogo in cui passavo solo una manciata di minuti al giorno. Sedersi a tavola in loro compagnia per me era una sofferenza fisica oltre che spirituale. Star gomito a gomito con esseri che non potevano né soffrirmi né tantomeno vedermi era un dolore sotto il costato che non è spiegabile a parole. Forti fitte che mi trapassavano da lato a lato ogni volta che dovevo sedermi su quella dannata sedia. Avrei voluto vomitare quello che avevo nel cervello ogni qualvolta che aprivano bocca per riferirmi aggettivi e surrogati che meritavo. Secondo loro.

Mi sedetti, tranquillamente, guardando in basso, silenziosamente, ponendo il tovagliolo sulle gambe, lentamente. La prassi era pressoché quella. Rendermi invisibile ai loro occhi e alle loro orecchie. Solo così potevo in sperare un epiteto in meno, ed una ferita sanguinante un po’ meno aperta.

Mi venne buttato davanti al naso il piatto, a cui non potevo storcere il naso. Guai a farlo. Quello per me era un convento di clausura, ed io ero la piccola ignobile suora rinchiusa dietro le sbarre, non potevo uscire senza permesso e potevo solo sognarmi un pasto che fosse ad un livello più elevato del solito che mi spettava.

Mangiai la foglia, e non solo in senso metaforico. E tacqui. Tacqui e tacqui ancora. Non proferii una sola singola parola. Aspettai ansiosamente la fine di quella sevizia e quindi raccolsi i piatti e le stoviglie, portandole dove le aspettavano e recandomi poi alla mia camera.

Una mano mi impedì il cammino, trattenendomi in modo amorevolmente distorto.

- Ehi, dove sei stata oggi?-

Ehi, questo è il mio nome per ora. Ehi. Non mi chiamo più Sara. Non esiste il mio nome. Ehi. È anche più corto, sono solo tre lettere. È facile da pronunciare e non da problemi ai linguaggi orientali. Ehi. L’anagrafe deve aver sbagliato qualcosa perché sono cresciuta con questo nome, o almeno, da quando sono diventata il cane di questi padroni.

- Sono andata in giro.- dissi tranquillamente, l’espressione incolore, i movimenti labiali lenti ma precisi.

- Dove?- ancora chiese, tenendomi ferma il braccio, impugnandolo con avidità. Ehi ha male. Ehi non vuole essere presa. Ehi…si chiama auto-ironia, vero?

- Sono andata in centro.- risposi ancora pacatamente, senza cambiare una sola posizione dei muscoli del mio viso.

- Chi è quella ragazzina che era con te?-

- Un’amica.-

Scoppiò in una tremenda risata perforante. Mi sentii male, veramente, nel corpo e nella testa. Assunsi una smorfia di vero dolore sulle mie labbra, e lo stesso feci capire con la mano libera che poggiai sul petto. Scoppiavo. Volevo scoppiare. Proprio come era scoppiata lei in quella rovente risata.

- TU hai amiche?- chiese divertita, marcando il tono sulla prima parola. Si, io. Lo so che può sembrare strano ma cara, è la realtà. Ho amiche. E amanti. E tu non lo verrai mai a sapere. Per ora voglio lasciarti il dolce dubbio che io ne abbia veramente, anzi, la certezza che io non abbia nessuno oltre a voi. Che io non possa vivere al di fuori di queste quattro mura. Che io non possa mantenere questo corpo trafitto e dolorante, stanco e morente, senza le vostre parole soavi e le vostre pacche di incoraggiamento sulla schiena.

Sapete, mi sto stancando di questo posto.

Le parole soavi sono coltelli acuminati che nascondete dietro la schiena ogni volta che volete essere gentili con me.

Le pacche che mi date bruciano la mia pelle, marchiandola a fuoco.

Sono un animale. Il vostro animale.

Ancora per poco.

 

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Capitolo 3
*** 2 ***


CAPITOLO SECONDO

2



Uno schiaffo.

Carne contro carne. Testa contro muro.

Sentii il fluido scendere dalla parte posteriore del capo alla nuca, poi giù giù a toccare ogni frammento della spina dorsale. Viscido e lento scorreva e macchiava tutto ciò che trovava sul suo cammino, non gli importava di essere indesiderato, anzi si faceva largo oltre la maglia, aprendosi un varco a colorare il freddo cemento, un intenso color pastello. Era il padrone.

Lo ammiravo.

- Non ti permettere mai più di mettere le mani addosso alla mia ragazza! E’ mia, è mia, è solo mia! Frocia del cazzo, stai lontana da lei!-

Non capivo molto bene quello che mi diceva. Non che non volessi capirlo. Mi era proprio estraneo l’argomento a cui faceva riferimento. Sentivo solo che mi sollevava e per poco non mi strozzava, la collottola della maglia si abbracciava teneramente al mio collo con grinta micidiale.

Ti odio.

Stai ridendo. Ti vedo, sei dietro di lui. Non sai far altro che rifugiarti alle spalle del più forte, basta fornirgli ciò che desidera ardentemente e guarda chi spunta, lo scemo di turno che cade come cadono le tue mutande. Il momentaneo salvatore.

E tu, schifosa, che prima mi offri bere e poi mi trascini nel tuo nido di cotone, dove ti senti protetta e appagata da uno dei tuoi tanti poveri illusi amanti.

Anche da me.

Ma no, ora no, hai capito che è inutile continuare a giocare e che fai? Ti senti ferita, cerci conforto tra braccia più salde del poveraccio precedente che ha osato respingerti. Povero perdente, non merita nemmeno una parola di compassione.

Vendetta.

Solo schifosa vendetta.

Ti piace giocare, non è forse vero?

Adori quando il gioco si fa duro, perché ti senti come una regina con  i suoi schiavetti agli ordini. Perché le difficoltà non le incontri tu, no. Come ora. Non sei capace di venirmi a sputare in faccia un “non farti più vedere stammi alla larga non trovarti sulla mia strada sennò ti ammazzo”. Non sei nemmeno capace di pensarlo. Lo lasci pensare agli altri, che compensati a dovere eseguono ordini invisibili agli occhi ed impercettibili alle orecchie. Sanno già cosa devono fare.

Vendetta vendetta vendetta.

Un pugno nello stomaco. Doveva proprio avergli dato fastidio l’abbozzo di sorriso che stavo disegnando sulle mie labbra. Che ci posso fare, il volermela far pagare aveva un non so che di ridicolo. Anzi no. Divertente.

In quel momento il fluido porpora scendeva dall’angolo della bocca. Scorri fiume, prima di trovare lo sbocco sul mare ne farai, di strada…o forse no, non molta. Ricordarsi vecchie canzoni non aiutava sicuramente la sensazione di vomito che mi stava salendo alla gola. Trattenni ed inghiottii, tutto quanto. Liquidi, pensieri, sentimenti. I capelli spazzavano il terreno, le ginocchia cedettero e lo toccarono gentilmente, come è gentile dare un pugno ad un blocco di cemento. Le mani furono troppo lente nel frenare la caduta, i gomiti stridettero all’atterraggio. Un piede, non il mio, alzò il mio viso appoggiandosi al mento.

Sorridevo.

Hai visto?

Mi volevi vedere strisciare ai tuoi piedi. Al momento non strisciavo ma ero comunque ai tuoi piedi. Schiavo e padrone. Il costume era quasi completo, gli stivali neri col tacco alto e la gonnellina pressocchè inesistente alzavano la mano all'appello, ma mancava il frustino. Eri quasi perfetta.

Perfezione, che cosa tremendamente assurda. Deve essere stressante aver la precisione e l’ordine in pugno, interiormente ed esteriormente. Mi chiedevo talvolta perché si deve seguire le leggi dettate dalla società. Esatto, si deve. Dopotutto se non segui il fiume non avrai mai la possibilità di arrivare al mare.

Si accontentò di vedermi piegata a terra, le mani al ventre, una smorfia sulle labbra che pareva un sorriso, forse lo era. Il ragazzo mi ringhiò contro parole confuse. Non sentivo, non vedevo, non parlavo. Pregavo. Pregavo qualcosa o qualcuno che se ne andassero. Che mi lasciassero sola, non meritavo la loro cara compagnia.

Dopotutto io ero nessuno.

Nessuno è perfetto.

 

Forse ero presuntuosamente perfetta.

************

Ancora uno schiaffo.

Parola contro viso. Testa contro cuscino.

Mi lasciai cadere su quel materasso talvolta morbido talvolta duro. Quella volta più del solito. Le ossa scricchiolavano come pietriccio sull’asfalto su cui era passato un camion. Sembravano scomporsi come pezzi di puzzle di livello avanzato. Milioni di pezzi sparsi nella carne insofferente al dolore, alle sensazioni, alle gentili provocazioni.

- Sei ridotta da far schifo! Non posso credere di averti ancora in casa, dopo averti vista…così!- e non trovava parole per confortarmi meglio, o peggio definirmi. Si può dire che le facevo già abbastanza schifo. Uno zigomo gonfio, lo stomaco ricoperto d’un livido grigio fumo e sangue raggrumato alla bocca e sulla maglia. Vaghi ricordi di persone che volevano prestarmi soccorso, e ancor più vaghe immagini di altre persone che si allontanavano spaventate o troppo nobili d'animo per prestare attenzione ad una passante qualunque che si trascinava per strada poggiata al muro.

I capelli impolverati spazzavano ora la federa del cuscino, bianco come nuvole di un cielo poco promettente. Perché so di certo che la pioggia si presenta celata da un velo innocente, guardinga a non farsi scoprire. Eppur si rivela per quello che è: una traditrice sfuggente, che passa e che va, lasciando dietro di sé solo umidi ricordi.

Oh, a proposito, mi scese una lacrima.

E no, non ero triste.

Ero furente.

La persona che più odiavo in quel momento era là. Mi guardava. Aveva i capelli scombinati, un volto impassibile, occhi sottili e spenti. Ed uno zigomo gonfio e sangue raggrumato agli angoli della bocca. Mi ero fatta fregare ancora. Mi veniva quasi da ridere, per non piangere, per non suscitarmi ulteriore compassione.

Scappa.

Ed effettivamente mi alzai. Scansai con fatica vocaboli di troppo che mi venivano sputati contro, letteralmente. Mi sentivo così inondata di quelle parole che avvertivo la necessità di lavarle via, acqua e sapone, nitroglicerina.

Scappa.

Ed effettivamente mi recai in bagno, meno strisciante e più energica di prima. Lo volevo. Lo pretendevo. Un getto d’acqua che risciacquasse via ogni cosa, ogni traccia, trucco polvere sangue. La porta alle mie spalle si chiuse con un tonfo, ne rigirai la chiave, altri insulti e poi solo lo scroscio impertinente di chi voleva trascinarmi con sé nella corrente. Si, prendimi e portami via.

Scappa.

Un’altra porta si chiudeva rumorosamente, tacchi giù per le scale, borse che sbattevano, parole non per me ma per chi era al di là della scatoletta parlante. Discorsi molto interessanti sul perché e per come una povera disgraziata fosse tornata al nido con la faccia tumefatta.

Ora.

***********

Niente schiaffi.

Viso contro gamba. Labbra contro guancia.

- Ahia…- replicai quasi in silenzio, un sussurro pressoché inutile. Non perché non venne percepito. Mi mancava, ne volevo ancora. Era una lamentela a scopo di lucro. La sensazione di sentirsi bene è certo la più bella al mondo, e lo è ancora di più se stai bene con te stessa.

E con lei.

- Scusa… ti brucia così tanto?- domandò altrettanto silenziosamente, un soffio nell’orecchio. Ancora. La tua mano sul mio fianco, l’altra a stringere la mia, la mia testa sulle tue gambe, le mie distese sul tuo letto. Ancora. Fammi sentire la tua voce qui, dentro il cervello, in ogni angolo del mio corpo. Risana le mie ferite in questa camera. Mi accontento della tua voce.

- Mi sei entrata in casa infradiciata, pesta e col fiatone…mi pare che fuori non piova ma, a parte questo, scommetto che ti sei messa a correre e sei anche caduta, vero?-

Non importa, non importa.

Come mi sia procurata queste ferite, non importava.

Perché io ero bagnata dalla testa ai piedi, non importava.

Importavano te e la tua voce, mille volte più efficace di qualunque acqua purificatrice. Il tuo tono allegro in ogni momento alleviava il mio dolore. Nemmeno si può immaginare la sensazione vibrante che mi provocavi ovunque, in angoli e cunicoli segreti. Oh, eri il suono ed io la tua chitarra elettrica.

- Vado a prenderti qualcosa da bere. Fa come se fossi a casa tua. - mi sorrise, la voce squillante di una ragazzina che giocava con l’amichetta. Mi fece scostare e mi abbandonò momentaneamente lì. Il letto era duro, non mattone. Era abbastanza confortevole. Sul comodino erano poggiati dei fogli ed alcuni libri di cui scorsi i titoli. Sembravano romanzi crime di autori poco conosciuti o presunti geni. Fidiamoci, dissi a me stessa, passando oltre.

Poco distante un tavolo con svariati bicchieri. Alzai di poco il capo e scorsi in essi acqua e diverse tinte, alcuni avevano ancora pennelli e spatole sporche. Le tele erano riposte al fianco delle gambe della sedia, alcune piccole ed altre medie. Poi vi era uno sgabello, non pareva molto stabile, dava l’idea di essere stato molto usato.

Ai muri appesi poster di cantanti metal. Per un attimo provai un brivido di contentezza: molti li conoscevo, alcuni perfino di persona. Sorrisi all’idea della sua faccia se l’avesse saputo, sarebbe stata uno spettacolo.

Ancora appesa una pianola, o quel che pareva. Allora non usa le mani solo per dipingere, pensai, osservandola meglio. Questa pareva molto più nuova di tutto il resto. Forse aveva perso interesse. Male.

D’un tratto sentii una mezza imprecazione venire dall’altra stanza. Timidamente mi alzai e mi avventurai in direzione del suono. La vidi con la mano sinistra sotto il getto dell’acqua, una scodella rovesciata sul tavolino della cucina. Mi avvicinai, cercai dei fogli di carta per asciugare il tutto. Appena sentì il rumore della scodella che avevo spostato vicino al lavello, si voltò di scatto, sorpresa.

- Ah…grazie.- mi sorrise gentilmente, un sorriso quasi di circostanza. Non importava.

- Forse…è meglio se usi l’acqua fredda…- mormorai, notando appunto che aveva girato il rubinetto sbagliato. Santa ragazza, era proprio distratta. Mi apprestai a cambiare la temperatura dell’acqua, quando lei si mise a ridacchiare.

- Sai, ho le mani ricoperte di tempera. Prima che arrivassi stavo per dipingere qualcosa, qualunque cosa, e non trovando ispirazione ho iniziato a pasticciare con i colori. Solo che non sono andata subito a lavarmi.- prese una pausa, poi mi guardò- Ho le mani insensibili ora come ora, ma tra poco torneranno apposto. Ecco perché non mi sono resa conto che l’acqua era calda.-

Pochi momenti per pensare.

Mani tra le mani, a sciacquare via tutto quanto. La polvere delle mie dita mescolate al colore delle sue. Un abbraccio, da dietro, a premerla contro il lavello. Il mio mento appoggiato alla sua spalla.

Non un fremito, non un vai via, non una mossa. Solo dita che si intrecciavano e che giocavano tra loro, e noi a fissare il loro gioco.

E forse una buona parola, una carezza, un bacio...

No, non forziamo le cose.

Stiamo così ancora un po’.

E’ questo che mi rende completa.

 

Perfetta.

 

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Capitolo 4
*** 3 ***


CAPITOLO 3

3





Se le tenebre mi prendessero con loro, avvolgendomi e cullandomi in un dolce sonno eterno, credo che mi lascerei portar via senza il minimo contrasto. Non potevo sapere se quella che percorrevo era la via giusta da seguire. Potevo chiedere a chiunque e nessuno avrebbe avuto la risposta. Sopita da qualche parte in me, si rifugiava quando la richiamavo, poiché il destino è già segnato e non c’è modo per combatterlo. La certezza è ora. Dopo è il buio.

Mentre nella mia mente si susseguivano forti rumori di costruzione di qualcosa sconosciuto perfino a me stessa, mi sentivo come se dovessi collassare da un momento all’altro, trafitta da mille lame mal appuntite, atte a graffiar non la pelle, non la carne ma qualcosa di più profondo.

Ed incapace di muovermi, potevo solo attendere.

Stavo bruciando. Nell’aria se ne poteva sentire l’odore vivido che si infiltrava in ogni dove, per far sapere a tutti che ero lì. Ogni cosa accadeva come la fine di un sogno, e l’inizio di tutto. Ciò che volevo raggiungere appariva ai miei occhi così splendido, che poco a poco si allontanava e brillava ancor di più.

Raccoglievo i pezzi del mio sogno frantumato più e più volte. Cos'aveva di sbagliato? Potevo ricomporlo mille e più volte, e continuava a sbriciolarsi come se il collante che usavo non sortisse il dovuto effetto. Per far rinascere un sogno, non basta forse il solo desiderio che ciò accada?

Poi sei piombata all'improvviso, senza annunciarti. Quella luce smise di indietreggiare.

Vorrei poter essere i tuoi occhi, anche solo per un momento. Come sarà lo scenario che vedi? Riusciresti a scorgere l’abisso che ci separa e la mia mano che si tende verso di te? E se la vedessi, ti sporgeresti per accoglierla?

Questo sentimento ti raggiungerà?

Nessuno poteva saperlo con certezza. Solo la mia mente vedeva questo scenario.

Se la mia vita avesse la durata di un fiore, allora vorrei fiorire pienamente al tuo fianco. E dopo aver visto il tuo sorriso, cadere da sola, lentamente.

Queste cose, forse, avrei dovuto dirtele esplicitamente.

*****

Mi chiese se ero impegnata, quella sera.

Certo che no, non lo ero. Per quale ragione avrei dovuto essere occupata? Nessuno mi aspettava e nulla aveva priorità assoluta in quel momento. Ero fuggita e sarebbe stato piacevole se la cosa fosse continuata ancora un po’. Tornare in quella prigione rumorosa avrebbe solamente giovato all’annientamento dei miei neuroni. I pochi ancora in funzione mi servivano per restare coi piedi per terra, per ragionare, per vivere. Gli altri ormai si erano rassegnati al fatto che la loro padrona stava crollando.

- Perfetto! Allora ti andrebbe di restare qui per cena?- domandò con il suo solito tono vivace, sarebbe stato difficile rinunciare al suo invito proprio a causa della sua voce. Forse sarebbe stato meglio evitare di intrattenermi a casa sua, dopotutto era la prima volta che ci entravo, tra l’altro senza nemmeno preavviso. L’educazione è stata una delle cose che mi fu imposta al di sopra di ogni altro insegnamento, stranamente, e sapevo bene che presentarsi a casa degli altri comportava una certa discrezione. Che non avevo avuto, per ragioni puramente interiori.

Forse avendo notato il mio disagio, mi rassicurò che non creavo alcun disturbo, era anzi contenta di avere un’ospite dopo tanto tempo. Mi fece fare un giro dell’appartamento per soddisfare una mia probabile curiosità, che effettivamente avevo. Vi erano in tutto quattro camere, due separate da un tendone, una aperta al pubblico e l’ultima più privatamente chiusa da una porta. Ogni stanza aveva un che di particolare, forse decretato dai variopinti quadri che qua e là apparivano sulle pareti. Curioso, nella sua camera non vi era tappezzeria, ma le mura erano state dipinte e decorate a mano. Probabilmente un’altra delle sue opere, ma preferii non chiederglielo.

Il piccolo soggiorno era composto da un tavolo circolare nel centro e quattro sedie intorno, il tutto completamente in legno. Una specie di comodino accanto alla porta con sopra un vaso di fiori, qualche boccetta qua e là, probabilmente un suo esperimento per l’università. Non domandai.

La cucina era subito di fianco, composta da un mobile con lavabo incorporato, una parte dove riporre le stoviglie, un microonde ed un frigorifero con tante calamite corredate da foglietti. Probabili appuntamenti o orari di lezione. Tacqui, ma mi avvicinai per constatare che avevo in parte ragione. Pareva aver un orario piuttosto fluido e poco pesante, qualche ora al mattino e un paio al pomeriggio, corsi serali di specializzazione. La maggior parte di queste informazioni le avevo acquisite nel mio breve periodo da stalker. Questa era la cosa che più dovevo tacere.

La stanza chiusa era, come sospettavo, il bagno. Era perfettamente in ordine, ogni cosa al suo posto. Nonostante la visita improvvisa, tener pulita la casa era una delle cose che le riusciva bene, sempre. Nulla di interessante, a parte i sanitari e la doccia. Piastrelle bianche. Lo notai per ultimo sebbene fosse la cosa che veniva prima all’occhio sia riguardo il colore che la luce: le altre stanze erano scure, sia dal fattore colore che da quello luce. Quella stanza invece risplendeva di un bianco quasi fastidioso.

Fu l’ultima che visitai, e ne uscii contenta. Le altre stanze avevano le persiane chiuse, creavano un’ombra soffusa molto piacevole. Mi sedetti ad una delle sedie della tavolata e mi asciugai i capelli con l’asciugamano che mi aveva dato. Dovevo segnarmi una nuova regola: mai balzare in casa altrui se si è bagnati fradici. Non che il procedimento di asciugatura avesse levato il peggio, ma almeno ero leggermente meno bagnata di prima. Il precipitarmi per strada appena tolta da sotto la doccia doveva aver decisamente suscitato scalpore tra i passanti, che non notai, che non volevo notare.

- Senti, sei gentile, davvero, ma non posso restare.- le dissi, lo sguardo puntato al pavimento, nessuna voglia di guardarla in faccia.

Si sedette anche lei. – Devi chiedere permesso ai tuoi per lasciarti qui?- ridacchiò. Anche io ridacchiai, in maniera un po' più ironica della sua risatina.- Sì.- fu la mia unica secca risposta. Spostai lo sguardo su di lei, lateralmente, per osservare il suo viso. In quel momento aveva assunto un’espressione indecifrabile, ma sicuramente qualcosa di molto vicino allo stupito e incredulo. Dirle che era la pura verità forse l’avrebbe fatta ridere.

- Uhm, ok, non importa…quand’è che verrai a farmi un po’ di compagnia allora?- chiese senza la minima intenzione di approfondire i vari perché che non mi permettevano di rimanere da lei. Ci pensai un attimo, ma non vedevo molta via di scampo. Di solito lo zio ritornava per ora di cena, mentre la zia era andata a far compere o spargere in giro belle parole riguardanti me con le sue amiche. E dovevo tornare. Non che mi segregassero in casa, se non vi ero all’ora stabilita. Semplicemente avevo il cervello saturo delle loro parole, non volevo sentirne di extra per un insulso ritardo. Ma sinceramente non avevo neppure voglia di vederli. Anche gli occhi erano stanchi di trovarsi davanti sempre le stesse persone.

Tutto ciò non giovava alla mia salute traballante.

Forse era ora di fare una pazzia.

- Potrei ripensarci riguardo la tua proposta? Credo che potrei rimanere…sempre se non ti sono di impiccio.- le rivolsi finalmente lo sguardo, sfoggiando un lieve sorriso. Lei fece altrettanto, apparentemente felice della mia presa di posizione. Si guardò attorno irrequieta, come una bimba che non vede l’ora di scartare il pacco regalo. A quanto pare, lei desiderava tutto meno che ad aprire nuovi regali. Si alzò di scatto e si precipitò verso il frigo, lo aprì e vi frugò dentro. Imprecò talmente sottovoce che potevo sentire chiaramente le frasi colorite che diceva. Si fermò davanti alla porta aperta e si mise una mano nei capelli. Poi si voltò verso di me, lo sguardo preoccupato. – Ti va un uovo diviso a metà con me e delle carote?- domandò sarcasticamente. Evitai di rispondere, capii che probabilmente non aveva fatto la spesa recentemente. Alzai le spalle.

- Credo proprio che dovrò andare al supermercato. – diede uno sguardo all’orologio che sovrastava la porta d’ingresso.- Cavoli, è pure tardi! Le sei e mezza! Devo proprio sbrigarmi.- si avvicinò a me e batté le mani sul tavolo. Il suo sguardo semi-serio non le si addiceva proprio, eppure l’aveva assunto con molta semplicità.- Senti, lì dentro ci sono i piatti, i bicchieri e le varie cose. Io scappo e torno, tu intanto potresti restare e preparare la tavola, per favore?-

La sua richiesta mi lasciò letteralmente spiazzata. Ma come, ti vengo per la prima volta in casa e ti fidi a lasciarmi da sola? Non pensi che io possa aver voglia di frugare in giro e collezionare qualche tuo aggeggio? Chissà, potrei anche uscirmene e lasciare l’appartamento incustodito! Sei così sicura di volermi dare queste possibilità? Vendi così facilmente la tua fiducia?

Ovviamente non avevo alcuna di queste intenzioni. Non ero il tipo talmente curioso da aprire cassetti, spalancare ante, sbirciare sotto i letti altrui. Eppur esistono tali persone, e alcune di esse sono chiamate cugini. Irrequieti parenti che non vedono l’ora di ficcare il naso in posti che non siano il fazzoletto, e le mani in posti che non siano le tasche, o…tanti altri posti dove sarebbe lecito che facessero un viaggio, una volta ogni tanto, anzi, molto spesso. La sola idea che le parole si tramutino in fredda realtà ha un che di sinistro, ed interessante. Perché no, anche parecchio divertente. Fortunatamente di cugino ne avevo uno soltanto, era già laureato e lavorava abbastanza lontano. Era una brava persona, a dispetto del fatto che fosse il figlio dei miei attuali tutori.

La guardai preoccupata senza motivo, ma la rassicurai che avrei fatto ciò che mi era stato chiesto di fare. In fondo non mi costava nulla accontentarla, avevo già intenzione di disubbidire completamente ad un ordine imposto, tanto valeva fare anche quelle piccole cose senza significato che potevano rendere la giornata un po’ più allegra. La cosa parve tranquillizzarla, quindi mi sorrise, prese una borsa a caso da un angolo della cucina ed uscì, lasciandomi il compito di chiudere la porta.

Silenzio.

Un dolce e tiepido silenzio.

Diversissimo da ogni altra assenza di suoni, era come un caldo abbraccio di fredde mura senza che mi scalfisse la pelle né il cuore. Era così rilassante essere soli in quell’angolo di pace ed era allo stesso tempo soffocante al punto da desiderare mani amiche che potessero donarti sollievo, strappandoti dal collo quelle mani invisibili che stringevano con ingordigia. Un controsenso delizioso e micidiale.

Tra sedie e poltroncine, preferii la scomoda comodità del pavimento. Si, in tanti mi dicono che sono un controsenso vivente. Lo adoro. Poggiandomi a terra sentii qualcosa che premeva contro la schiena, subito arrivai al punto con la mano sinistra e trovai il mio fidato portafoglio. Pelle marrone scuro un po’ graffiato dal tempo e dall’uso. Un contenitore ed amico fidato che conservava per me tanti ricordi, tra cui biglietti del cinema, di qualche viaggio col treno, un paio di autobus di città diverse, fotografie e disegni.

Sospirai. Non era il momento di farsi azzannare dai ricordi. Bruciavano e sanguinavano. No, meglio di no.

Tanto valeva buttare la testa indietro e chiudere gli occhi.

Il mio cervello aveva conservato meglio di qualunque pellicola le immagini della mia vita.

*******

Basta, finitela, tacete. Ora.

Un attimo di silenzio.

Ascoltiamo il rumore scricchiolante dell’anima. Con questa quiete è possibile distinguere due suoni distinti: la ruggine crepitante di due barre di ferro che sfregano tra loro, un carillon dolce ed armonioso che non termina il suo canto sinfonico.

Quali dei due preverrà sull’altro?

Quale naufragherà, sopraffatto dalla violenta prepotenza ed egoismo dell’altro?

Quale soffocherà, con le mani dell’altro al collo?

Il mio carillon si era fermato molto presto.

Anche durante i sogni riuscivo a sentire la mancanza di una presenza a me molto cara.

Se oggi non troverò una motivazione che mi renda felice, domani ti raggiungerò.

 

Sognavo questa possibilità ma no, non era ancora giunto quel momento.

*********

Uno scialle addosso, un cuscino sotto il capo. Luce flebile che mi batteva sul petto, incapace di destarmi dal sonno battendomi sugli occhi.

Intontita alzai la testa e la scossi, i capelli a battermi sulle spalle come piccole sottili fruste. I miei sogni erano stati, come norma, degli agglomerati di visioni surreali e ricordi dolorosi, molte volte relazionati tra loro, simbologia che avrei evitato volentieri.

Per terra, davanti a me, un biglietto di carta.

Ho tentato di svegliarti ma non ne volevi proprio sapere. Io intanto vado a nanna ;) Puoi stare qui stanotte, la poltroncina è un quasi comodo letto apribile. Buonanotte ^_^”

Orientarsi al buio era una delle mie specialità, nonostante quella casa fosse nuova al mio senso di orientamento. Sbattei a destra ed a manca contro qualche mobiletto, sbagliai camera non meno di due volte. Cosa non accade a gattonare in circolo. Per alzarmi in piedi forse era ancora presto, la testa non voleva starsene al suo posto ed ero ancora abbastanza intontita.

Decisa di provare ancora una volta a caso, senza un valido motivo, aprii l’ennesima porta.

Dormiva serena, le spalle rivolte verso di me, il viso al muro. La porta ora era aperta ed un gattino infreddolito alla ricerca di quel calore quasi materno era entrato curioso di osservare la padrona di casa nel lieto e profondo sonno.

Luna a tre quarti, luce soffocante.

Nessuna zampa, ma una mano a scostare la tenda. Buio completo, se non per un quadro formato da tesserine fosforescenti, che andavano a formare un unicorno che cavalcava cieli e stelle, rubate dall’esterno per decorare quel piccolo angolo di paradiso.

Freddo pavimento. I pantaloncini che mi aveva prestato non tenevano molto caldo, tra l’altro mi erano stretti: i miei fianchi erano spigolosi e tonici, i suoi…

Desiderai accarezzarli, sfiorarli anche solo per un momento. Come una bambola di porcellana della quale vorresti scoprire il segreto di quella così bianca e pura superficie. Ma sai che puoi sporcarla con le tue impronte o che questa potrebbe rompersi. Non la sfiori nemmeno, la paura è tanta.

La mia amicizia con Chiara era una bambola di porcellana: lei sapeva di me ed io sapevo di lei. Aveva paura che le mie intenzioni fossero spinte da ben altro interesse, io avevo paura che l’avvicinarmi troppo l’avrebbe allontanata.

Mi ero vista scivolare via tante cose tra le dita delle mani, come sabbia al vento che andava ad aggiungersi ad altra sabbia. Sapevo che non avrei potuto recuperarla: mi sarebbe sfuggita ancora e ancora.

Rabbia, dolore, amarezza. Pochi granelli a sporcarmi le mani. I semi cattivi che fecero germogliare il frutto della mia distruzione interna.

Zampettai fino al suo giaciglio, sporgendomi per osservarle il viso. Occhi chiusi dolcemente e labbra semi aperte, una mano al fianco della guancia e l’altra a tenerle il polso, come per assicurarsi un lieto riposo. Un’immagine preziosa da non scomporre per motivo alcuno.

Le lenzuola erano bianche come neve appena caduta e dalla consistenza parevano per il periodo invernale. Era primavera, ma le notti fredde non erano ancora terminate. Sali e scaldala. Dai, che aspetti? Forza, ce la puoi fare, che ti prende?

No, non potevo. E’ preziosa al punto che temevo di spezzarla.

- Vuoi salire?

- No, grazie.

- Dai, c’è posto…

- Ho detto no.

- Vuoi carta bollata per il permesso?

- Non posso.

Risposi subito, al termine di ogni domanda, senza il minimo indugio. Prendere le persone alla sprovvista sembrava la cosa che le veniva meglio, se non il suo passatempo preferito. Ammetto che anche il fingere le riusciva piuttosto bene, poiché mi ero avvicinata incurante al suo giaciglio con la ferma convinzione che stesse dormendo. Mi aveva completamente imbrogliata.

Per un momento la scorsi guardare la finestra e, per personale interpretazione, fissare oltre di essa, il cielo che le avevo nascosto.

Distolsi lo sguardo. Il luogo che osservava non mi apparteneva.

Forse uno spiffero di vento venuto da una parete vecchia e fallata mi fece rabbrividire, mi strinsi a me stessa nella ricerca di un minimo calore che consolasse la mia spina dorsale infreddolita. Una coperta calata sulle mie spalle, una mano tra i capelli che mi spinse ad appoggiare la testa al bordo del materasso. Come un cane ubbidiente seguii l’ordine silenzioso della mia padrona. Intanto la fioca luce emessa dal quadro fosforescente era diminuita, a momenti il buio avrebbe avuto il sopravvento.

Il soffice abbraccio dell’oscurità, che tutto avvolge ed ogni suono fa tacere.

Vorrei che mi fissassi negli occhi e dicessi il mio nome.

Vorrei che mi tenessi la mano e mi dicessi che va tutto bene.

Cercavo solo una semplice parola.

Desideravo che me la concedesse.

- Scusa. -

Un momento.

Non era questo che mi aspettavo di sentire.

- Tempo fa sono stata dura con te, non era mia intenzione.- una pausa- Sai, stavo valutando la possibilità di conoscerti meglio di quanto abbia fatto finora. In fondo è da molto che usciamo assieme ma so solo poche cose di te. Non ti andrebbe di…?-

Scossi la testa nel buio, la sua mano a lisciarmi i capelli sicuramente aveva percepito il mio movimento, ma insistentemente, amichevolmente, non mollò la presa. Una grande forza d’animo.

Mi opprimeva.

Mi sentivo così piccola a confronto, minuscolo puntino pronto a sparire, sovrastato da tutto ciò che lo circondava. Lei poteva sottomettermi, aveva questo inconsapevole potere dalla sua parte.

Forse ero lì per imparare da lei.

- Se solo uno dei tuoi desideri potesse divenire realtà, cosa sceglieresti?-

Che domanda impertinente, pensai subito dopo averla formulata. La curiosità uccide, anche se mai come in quel momento avrei temuto la morte.

Attese un momento prima di rispondere. – Penso che come prima cosa vorrei finire l’università, poi trovare un buon lavoro, comprare una bella casa e…- si fermo, poi esclamò- Oh no! Sono troppi, solo uno, vero?-

Non la vedevo, ma potevo socchiudere gli occhi ed immaginarla sorpresa e divertita. Era una bella sensazione, tutto quel -…buio.-

- Come, scusa?- mi chiese. Inizialmente non compresi, poi feci spallucce e ripetei. – Buio. È bello. Mi piacerebbe vivere nel buio e condividerlo con qualcuno.-

La sentii muoversi sulle lenzuola, il suo respiro mi carezzò la spalla. Potevo vederla appoggiata di fianco al mio viso, le braccia conserte ed il mento poggiato ad esse.

- Hai ragione.- la sua voce, un sussurro che riecheggiava nel mio orecchio. –Il buio è bello perché si può parlare senza vedere il viso dell’altro. Puoi approfittare per raccontarmi qualcosa in più di te, no?- insistette gentilmente, pettinandomi i capelli con le sue sinuose dita.

Mi hai sottomessa, ora ti accontento.

- Sin da quando sono nata, cercavo qualcosa che non si potesse rompere. Lo trovavo, lo perdevo, forse ho fatto del male a delle persone per questo.

Nonostante il mio forte desiderio, iniziai ad arrendermi. L’avevo trovato, poi lasciato, fino a far del male a me stessa.

Tutti dicevano che dovevo essere una bambina forte. C’è stato chi mi lodava, dicendomi “Devi essere abbastanza forte da non piangere”.

Ma io, no, non volevo quelle parole così cariche di compassione o presunta tale, e fingevo di non capire.-

Una piccola risata.

No, non ridere di me. Te ne prego.

- Classiche parole di consolazione.- il tono ancora allegro.- Anche se…- ora più basso, pensante e quasi pesante- le persone che le pronunciano non si rendono conto che i bambini capiscono fin troppo bene.-

Aveva ragione. Tradita dalla tua medesima fiducia nelle persone a te vicine. La stessa sensazione di essere rifiutata.

Al tempo, quando ancora non avevo quella forza tanto decantata, conoscevo troppe cose.

- E tu, cosa desideri?-

Già, ed io, cosa desideravo? Avevo una lista lunga e allo stesso tempo semplice. Il gioco stava nel scegliere una cosa soltanto, quell’unica che poteva trovare la strada per divenire realtà.

Nonostante le colpe che mi erano state attribuite, sarei stata perdonata?

Un paio di singhiozzi e subito due mani a me conosciute mi coprirono gli occhi, umidi di pensieri che scappavano via. Lei li raccolse e no, non poterono fare molta strada.

Ora erano in lei, il mio dono alla sua persona.

- Se tu ridessi, anche solo un poco, allora capirei che io ho un senso. Se mi cercherai, anche solo quel poco, sento che potrò essere accettata.-

Labbra tra i miei capelli, a cercare quel qualcosa che ancora era lontano e non potevo, non mi sentivo di donarle. Eppure era lì a sostenermi e tentare una tenera, magra consolazione.

- Io desidero poterti dare qualcosa. Forse lo ritieni stupido o ingenuo, ma il solo farti partecipe dei miei pensieri è molto per me.-

Forse la notte è bella perché illumina il poco, inutile ed impertinente sciame di falene che si riversa nelle strade della città, mentre oscura il silenzioso abbraccio indistruttibile degli insonni, che si sussurrano parole invisibili, che vomitano la loro angoscia al freddo buio, asciugandosi l’uno le lacrime dell’altro, cucendo ferite sanguinanti e leccandole con ingordigia per alleviarne il dolore.

Le sue mani risciacquarono il mio viso, il suo soffio mi cullava verso la buona notte.

 

Forse in quel momento ero diventata forte.

 

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Capitolo 5
*** 4 ***


- Facciamo un gioco

4

 

 

 

- Facciamo un gioco.

La gonnellina sopra le ginocchia, blu a pieghe, molto seria per una bambina di tre anni, troppo frivola se pensi a quanti potrebbero infilarci mani che non sono le tue in posti che non sono i suoi.

Un golfino di lana rossa ed una camicetta semplice e bianca, molto fine ed elegante, forse troppo al pensiero che venga l’impetuoso desiderio di strapparla via.

Oggi come domani gli impulsi animaleschi si fanno più forti di ieri. Esisterà un futuro in cui tutti torneranno allo stato primordiale di piccole semplici cellule con il solo scopro di unirsi per combattere la solitudine, in mezzo a quel nero caos?

Una tenda porpora che nasconde un tavolo e due sedie di paglia, i muri spogli di un bianco accecante, che vengono oscurati dall’ombra della sua figura, sorride, dice stai tranquilla, ora giochiamo, mamma è di là che compra ed io ti tengo compagnia.

La sedia è di stelo, quello che scricchiola quando ti siedi, ha una barra diritta tra le gambe di legno e non è l’unica. Sale a fatica, troppo alta per lei. Lui la prende per i fianchi e la porta sulle sue ginocchia, sedendosi sull’altra. No, non sta bene, scalcia e si sforza, fugge e sale sull’altra.

Il gioco doveva ancora iniziare.

Lui fa una smorfia, poi con un gesto lento ma sicuro tira fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni un mazzo di carte tenute assieme da uno spesso elastico verde.

- Ora iniziamo. – sorride, altro bianco abbagliante di quei denti, tra quelle labbra piagate in quel ghigno rassicurante. Passa le carte da una mano all’altra, toglie l’elastico e lo lascia cadere per terra. Perché lo fa? Senza un legame nulla sta assieme. Forse quel legame andava cancellato.

- La vedi questa? -  mostra un re altrettanto ghignante, un simbolo regale in mano, tenuto con fermezza da chi sa che quello è il potere incontrastato. Lei guarda in basso, un altro simbolo impugnato con sicurezza, roseo e liscio, brillante alla fioca luce che filtra dalle tende tirate a nascondere un gioco molto curioso.

- Ogni volta che esce il re, tu dovrai dare un bacio qui.-

Il suo sorriso si fa più largo, sembra una cosa interessante, scommetteresti che non uscirà mai quel sovrano egoista a cui tutti si piegano, il suo volere e potere a farti abbassare, il suo sguardo severo, il suo sguardo paterno.

- Tu mi vuoi bene, non è vero?-

 

***********

 

Riscoprii la terribile sensazione delle gocce di sudore che, se raggiungono la pupilla, bruciano come il fuoco. Eppure non sapevo che nella loro composizione vi fossero elementi tanto fastidiosi. Pare che le lacrime siano salate, ma possono davvero far meno male di una goccia di sudore?

Non ci credevo.

Mi trovavo in posizione orizzontale. Diciamo che non riuscivo ancora a capire che ero normalmente distesa su un materasso. Non il mio. Non la mia stanza. Non il luogo a cui ero devota da un'esistenza, non propriamente il solito soffitto grigio, monotono grigiore. Non aveva affatto l'aria di essere quel luogo inospitale a cui le mie membra riportavano i ricordi. Dove diavolo ero?

Non mi ci volle poi molto a ricordare gli ultimi avvenimenti, piacevoli o meno che fossero stati. Il tempo di qualche minuto e tutto mi apparve davanti come le scene di un vecchio film, flashbacks in bianco e nero, tutto molto confuso. Solo il mio corpo ricordava bene due mani calde poggiate sugli occhi, per evitare il duro contatto con la già flebile luce notturna, ed altrettante braccia confortevoli a trascinarmi sotto le coperte. Non una domanda, il silenzio come risposta.

Sorrisi lievemente, solo per nascondere quasi subito quel leggero dispiegamento di labbra. Non dovevo essere lì. Non avrei dovuto mai esserci. Qualcosa mi aveva spinta a correre in sua direzione, un coltello piantato alla schiena o una voce tenue a richiamarmi?

Spostai lo sguardo verso la finestra. Ricordavo perfettamente che filtrasse poca luce di notte. Tra l'altro, chissà che ora si era fatta, quanto tempo avevo passato fuori dal luogo della mia segregazione. Scacciai via i pensieri come mosche fastidiose, le loro voci, i loro visi irati. Erano ben abituati a vedermi scomparire di tanto in tanto, ed altrettanto amabilmente abituati a farmi capire quanto questo fosse sbagliato. Non gli sono mai mancata come quando non è presente qualcuno a te caro e lo vorresti tutto per te, in quell'esatto momento. Mi hanno pensata, si, come ad un soprammobile senza il quale non potevano assolutamente guardare la televisione, cenare e discutere apertamente sui mali del mondo. Oh, la discussione la conducevano loro solitamente, io avevo l'importantissimo compito di annuire.

Mosche fastidiose, da schiacciare.

Questa volta mi volsi a destra, un piccolo comodino bianco con un cassetto troneggiava al fianco del letto. La curiosità mi pervase per un istante, la voglia di tirare quella graziosa e semplice maniglia color latte e scoprire cosa celava al suo interno. Un occhio alla porta. Chiusa, nessun rumore particolare. Una mano da sotto le lenzuola si mosse in quella direzione, l'anulare stancamente tirò verso l'esterno ad aprire il cassetto. Nessun segreto svelato, se non la marca della sua cipria ed un ombretto cinereo.

Il suo profumo.

Un'ampolla liscia, dal collo allungato e suadente, un bottoncino che rinchiudeva la sua fragranza. Liquido dorato, un lieve luccichio al movimento. Le dita si mossero prima del pensiero, prima ancora della razionalità. Avevo il diritto di frugare tra le sue cose, forse preziose? Ma chiederselo era ormai inutile, già facevo dondolare davanti al mio viso quel piccolo contenitore vitreo, tenendolo delicatamente tra pollice ed indice. Troppe impronte avrebbero annunciato il crimine commesso.

Sollevai lentamente il piccolo tappo, portandomi il capo della botticina alle narici. Vaniglia, non insistente, timida ma decisa. Lime, solo un pizzico per non rovinare la composizione. Fiore di Loto, a pervaderti delicatamente.

Chiusi gli occhi. Un oceano, lei era un oceano, e mi ci stavo immergendo gradualmente, fluttuavo nelle sue acque di blu intenso, a perdermi piacevolmente in una rinascita dei sensi.

Dove spruzzava questo profumo? In che momento della giornata? Al mattino contro la luce del sole, uno spruzzo in avanti e poi sui lati del collo. Io, spettatrice, ad osservarla di schiena. Lei inconsapevole, ma sorride appena le sfioro la pelle con appena la punta delle dita, labbra lievi si poggiano nell'incavo tra capo e spalla, naso che le spazzola i piccoli ciuffi biondi sulla nuca.

Le mani avanzavano, troppo curiose.

Dischiusi lentamente gli occhi, la mano ora si spostava intimidita sul ventre, l'altra ancora a tener a mezz'aria l'ampolla. Ero nella sua casa, sdraiata nel suo letto, pensieri che ci avevano effettivamente a che fare. Sognar di lenzuola in quel luogo non era propriamente il caso.

Avvolta nel più soffice silenzio, il soffitto mi volgeva lo sguardo. Quel bianco dolce ed amaro era un vuoto opprimente che voleva farmi ricadere ancora più giù, note di pianoforte mesto risuonavano ancora una volta, bussavano nel cranio come se solo io potessi donar loro un eterno riposo. Si sbagliavano.

Riposi il profumo nel cassetto, chiudendolo accuratamente, per poi portar le mani al petto ed intrecciare le dita in un gesto di muta preghiera. Pregare per chi, o per cosa? Nemmeno per me stessa. Troppo abituata ad intraprendere un cammino in cui i tanti “vai” si trasformavano in “vieni”. Cosa desideravo da quella strana e disastrata esistenza? Talvolta mi ritrovavo a chiedermelo, ma non riuscivo mai a mettere un punto interrogativo al fondo della domanda.

Lei era un oceano, calmo, calmissimo, d'un piatto che veniva spontaneo temere un'improvvisa oscillazione.

Io ero un'ondata, un ciclo continuo, tornavo e distruggevo. Oh, le mie onde erano così pesanti, così sporche.

Cosa desideravo, dunque.

Spazzare via ogni cosa, riportare il tutto ad uno stato primordiale. Principalmente, ripulire me stessa da scorie infettive che portavano al male quel che mi stava attorno. Quante persone avranno sofferto, quante hanno fatto soffrire me? Il mio sguardo colmo d'indifferenza deve aver trafitto molte anime, inconsciamente, poiché loro erano troppo impegnate a trafiggere me con sottili ma acuminati aghi argentei, spinti a fondo molto lentamente, delizia per la mente.

Non ci siamo ancora.

Desideravo, dunque.

Calore, un corpo che scotta come il solo fuoco sa fare, poggiato lievemente, un tocco dolce ed amaro ancora una volta. Il mio inverno meritava un riposo e pensavo di venirgli in soccorso aggrovigliandomi tra il cotone di lenzuola corrotte e la seta di pelli consumate. Non volevo ammettere che dentro avevo freddo, tanto freddo.

Ricercavo un piacere continuo, ed allo stesso tempo sentivo che qualcuno stava violentando il mio cuore.

Ciò che è stato mai più sarà. Io sono adesso e sono stata, non ho la certezza che sarò. Non sono ancora sicura se potrò definirmi essere vivente se continuerò a camminare su una strada di ciottoli e vetro tagliente, senza un'indicazione, anche muta, che mi riveli il posto a cui sono destinata.

Chiusi gli occhi, un'immagine si formò davanti alle palpebre scure.

La voglia di raggiungere quella figura era tale da desiderare proprio in quell'esatto momento di sparire per sempre. Non avevo debiti in sospeso, non avevo qualcuno di preciso a cui lasciar detto qualcosa, non possedevo nulla che mi attaccasse così tanto alle radici che mi erano state imposte.

Allora, perché?

Volgendo il viso alla destra, riaprii gli occhi. Lei era lì, osservante, silente, un abbozzo di sorriso sulle sue labbra di pesca, occhi di cielo socchiusi dolcemente, uno sguardo che trafigge come mille aghi argentei, impregnati però di unguento risanante.

Il passo lento in mia direzione, una tazza colma di liquido nero in mano, la mia bocca che si apriva senza emettere suoni, la sua che rispondeva mancante di tonalità. Il sorriso che si allargava, bianchi denti rivolti alla mia persona scintillavano nell'atmosfera di chiaroscuri della stanza, labbra che si dispiegavano a disegnare vocaboli e tutto ciò che era loro attorno spariva dalla vista, il nero lo inghiottiva.

E solo quando fu troppo vicina, realizzai.

Un tonfo sordo, metallo contro piastrella. Liquido che avido macchiava ogni centimetro possibile, il colore a dominare sull'inerme pavimento freddo. Scivolava giù e ancora giù, probabilmente una piccola pendenza aiutava il suo corso che tutto invadeva. Nero forse non lo era, ma la consistenza densa ed apparentemente cremosa lasciavano intendere che il suo incedere era lento ma senza scampo.

Un suono altrettanto sordo, saliva dentro gola. Un leggero movimento della pelle che ne fa risuonare l'inghiottimento. Sgomento, stupore, forse paura. Non lo sapevo spiegare, era un misto di sentimenti simili eppure così diversi tra loro. Quanto avrei voluto condividere questa sensazione con lei. Forse provava ciò che provavo io. Avevo solo da chiederlo.

Ma le labbra non si volevano staccare dalle sue.

Cosa stai facendo?

Non era importante, avrei pagato qualsiasi conseguenza ma non avrei mai interrotto un momento simile, a meno che non fosse stata lei a respingermi, ricoprirmi di insulti tra l'altro meritati, e forse altra carne contro carne, un rossore pulsante in volto, mai quanto quello che avevo nel petto.

Immobili se non per lievi movimenti, lente e piacevoli carezze, forse insistenti dato che, se prima ero da sola, ora ci muovevamo in due. Ciglia che si carezzavano a vicenda, respiro caldo batteva sulla pelle della guancia. Le mani avrebbero voluto agire, avvicinarla ulteriormente, trasmetterle e condividere così un soffice calore. Sussultai, perché non furono le mie mani a sfiorare il mio viso.

Un tremito.

Le palpebre ridonarono luce agli occhi poco a poco, incontrando le sue iridi glaciali, semplice colorazione, nessun istinto negativo che le rendesse così spietate. Forse si. Ci distaccammo scrutandoci a vicenda, le labbra perdevano contatto come se l'intera scena fosse stata messa in slow motion. L'urgenza di ritrovare quel contatto perduto da pochi secondi era fortissima, quanto quella di scappare senza proferir parola. Una punta di umidità ancora stagnava sulla bocca, se ne poteva scorgere anche negli occhi di Chiara.

Stai piangendo?

-  Scusami...-

Forse non avevo compreso molto bene, al che le mie palpebre si spalancarono completamente.

Lei stava chiedendo scusa. Lei, a me. Un'inversione di ruoli che non le toccava. Un semplice vocabolo che però non le  si addiceva affatto. Fossi stata io a chiedere il suo perdono sarebbe stato più plausibile, ma lei non aveva colpa alcuna, a parte forse quella di non aver reagito conseguentemente.

- Io ho agito d'istinto... non volevo...- una mano portata alla bocca per serrare ulteriori suoni, sopracciglia piegate in una smorfia di dispiacere, lacrime a rigarle le guance e scivolarle sotto il mento, lungo il collo a bagnarle la maglietta semplice e bianca che stava indossando.

Dalla mia posizione ormai seduta, protesa verso di lei, sbigottita, una mano timidamente dal fianco si alza come a volerla raggiungere. E si ferma a mezz'aria, perché no, non avevo il diritto di calmarla, l'avevo sporcata del mio io più egoistico e desideroso. Avevo completamente perso il privilegio di coccolarla e far scomparire i suoi demoni.

L'avevo terrorizzata.

Abbassai lo sguardo al pavimento, macchiato come avevo ben percepito da quel liquido scuro. Avrei ascoltato ancora a lungo quel lento scorrere che tutto inghiottiva. Tutto, pur di non sentire i suoi singhiozzi, seppur sommessi.

- Io...- - No, non c'è bisogno che tu dica niente. – mi anticipò, sorprendentemente – Mi sono avvicinata troppo, ti ho... stuzzicata, ecco. Si, stuzzicata...- lo ripeteva come se fosse una verità di cui doveva convincersi assolutamente, ma non era affatto sicura di ciò che aveva appena detto. Tirava su col naso, non si asciugava le guance con il dorso delle mani ma lo passava invece sotto il mento, piccole gocce cristalline cadevano con un fischio impossibile da udire. Cercava di mantenere un certo autocontrollo, tremando nel tentativo, per un attimo dispiegò le labbra che avevo macchiato in un lieve quanto falso sorrisetto, per poi riportare gli angoli della bocca rivolti verso il basso. La sua prova era fallita.

Anche se le avessi spiegato che la mia vista si era focalizzata unicamente sulle sue labbra. Anche se le avessi provato che tutti i miei sensi, oltre alla vista, non stavano facendo il loro dovere. Anche se le avessi accennato uno dei miei tanti pensieri contorti. Anche se.

La paura mi stava pervadendo.

Senza replicare e tanto meno guardarla negli occhi, scesi di fretta dal letto e mi avviai sguardo basso verso la porta, superandola, evitando perfino di respirare per non provocare inutile rumore. Lo so, era un ragionamento stupido, come potevo provocare suoni tangibili con il solo respiro? Ma ad ogni cosa c'è una spiegazione, nulla è fatto senza motivazione. Si volse verso di me, forse mormorò qualcosa che non udii intenzionalmente. Entrai nel piccolo soggiorno, rimasi sorpresa nel vedere i miei jeans e la mia maglietta ripiegati e poggiati sullo schienale di una sedia. Rimasi per un istante ferma a fissarli, ma non ci pensai troppo a lungo e li presi bruscamente, portandoli con me nel suo bagno, in cui mi chiusi.

Esplosione.

Singhiozzi incontrollati, entrambe le mani a coprire la bocca per evitare la fuoriuscita di suoni convulsi, colpi di petto che annunciavano una respirazione interrotta ed irregolare. Occhi che bruciavano come carboni ardenti che avrei volentieri cavato dalle orbite. Speravo con tutta me stessa che la mia anima fosse un tempio impenetrabile, volevo fare del mio piccolo castello una fortezza con un unico soldato, talmente imponente che nessuno poteva più intrufolarcisi.

Ed ancora sbagliavo, mentivo a me stessa, avevo freddo ed ero nuda davanti ai suoi occhi.

La porta a sorreggermi e nascondere al di là tutti i suoni della mia distruzione. Non volevo vedere, non volevo far troppa luce su cos'era accaduto, qualcun altro avrebbe acceso il lume e riscritto quanto necessario, ma non io, no, sarei sparita. Temere le conseguenze di qualcosa che non era ancora iniziato era uno dei mali più terribili che affliggeva la mia persona.

Mi cambiai in fretta ripiegando i vestiti che mi aveva prestato e mettendomeli sottobraccio. Buttai lo sguardo allo specchio, il mio stato era veramente disastroso. Strofinai gli occhi con il dorso della mano per poi sfregarla nella mia maglietta, tirai le spalle indietro più volte per sgranchirle, allungai il collo verso l'alto per assumere una posa più o meno degna prima di girare la maniglia ed uscire.

- Questi te li riporto lavati il prima possibile. - le dissi, trovandomela quasi davanti appena tornai nel soggiorno. Non la guardai negli occhi, ma notai nei suoi gesti un timido tentativo di bloccare la mia avanzata, fallito anche questo forse timorosa di una mia reazione poco gentile, o chissà, forse voleva semplicemente farmi andare e basta. Ad ogni modo, non replicò alle mie parole, o meglio è quello che mi parve il suo mugolio, un suono senza alcun significato particolare.

Scappavo.

Lo ammetto.

Ma sentivo uno strano formicolio alla gola, alle ginocchia, sulle guance, al petto. Percepivo uno sguardo sulla mia schiena che mi fece attendere un momento sulla porta, dandole le spalle. No, era solo una sensazione momentanea, dovevo scrollarmela di dosso, mi avrebbe avvelenata e sopra ogni cosa avrebbe fatto del male a lei. Anche se odiavo tanto chi voleva decidere della mia vita, in quel momento avevo scelto che sarebbe stato meglio così, almeno in quella determinata situazione.

Ammetto anche questo.

Ma una volta varcata la soglia la vista si annebbiò di nuovo, forse a causa di ciò sbattei contro la ringhiera delle scale ed incespicai nel scenderle. Non avevo equilibrio, non riuscivo a ritrovarlo, la nebbia mi impediva un cammino sicuro e solo io sapevo cos'avevo nella mente in quegli istanti. La nebbia scese sulle mie guance, un piccolo grido di dolore lancinante si abbandonò all'eco dei gradini.

Tutta la forza che avevo acquisito mi abbandonò come granelli di sabbia al vento.

 

Avevo il cuore che scoppiava di calore.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** 5 ***


CAPITOLO QUINTO

5

 

 

 

Domani potrò sorridere con naturalezza di ciò che è successo oggi, come se nulla fosse realmente accaduto, un evento senza significato alcuno, un particolare caso della vita.

Ho sempre portato avanti la mia vita secondo questo ragionamento.

Ma quella volta non riuscivo a gestire il gioco come desideravo.

Non sentivo la necessità di frasi fatte che sicuramente l'indomani avrei dimenticato, pensando a ciò che era accaduto in quegli istanti, cinque minuti di ordinaria frenesia.

Avevo portato avanti quel gioco più a lungo del solito.

Non c’è problema, sarò sicuramente capace di crearmene un altro, speravo.

 

Ti prego, dimmi che questa fitta è solo un’illusione.

Ti prego, dimmi che non sono me stessa in questo momento.

Ti prego, dimmelo, perché nonostante io stia creando volontariamente questo gelo, nonostante mi stia estraniando consapevolmente da questa sensazione, il mio cervello necessita l’adrenalina che solo tu gli sai donare.

 

Pensavo tutto ciò, ma non ero più in grado di riconoscere un sentimento così devastante.

 

*******

 

 

Lunghi fili amaranto tra le dita, come intricate trame di un tappeto orientale. Finissima qualità, ultimi pezzi, prezzo stracciatissimo. Anche la dignità si svende a basso costo. La fiera dell’impassibilità.

Nuvole d’alito di lieve grigio vestite invadevano l’aria. E volteggiavano, e volteggiavano. La mano tesseva le trame, ne tirava i legamenti con audacia e non poco sadismo. Sorriso, poi un lamento. La stretta si faceva più forte, le labbra si allargavano, talvolta si bagnavano, un calore rinnovato, nuotare nel fuoco liquido e tirare ancora.

Ritrovarsi poi a osservare il buio davanti a sé ed essere consapevoli che quella seta filante aveva un principio, ritrovarne i lineamenti nell’oscurità, vederne le fauci assetate spalancate ed immaginarne la saliva scivolare agli angoli della bocca. Cristalli di acqua espulsi con eleganza dalla pelle della fronte, percorrerla fin a morire sulla federa del cuscino.

Tentare di dimenticare, mentire ed accantonare, desiderio di cancellare definitivamente. Forse stavo esagerando, ma almeno tentavo di farlo con dannata eleganza ed un certo oscuro fascino.

La vittima si adagiava sul giaciglio, distendeva mollemente i muscoli fino a poco prima tesi allo stremo. I sussulti cessarono, il collo si riposava dopo la tensione, fili rubino scivolavano dalle mani per ricadere sulla nuda schiena martoriata da lividi di una battaglia che pareva ormai lontana. Una collina che si alza a ritmo sostenuto d’un soffio di fiato, la mano si scostava dalla trincea invasa dal fiume impetuoso che l'aveva violata. Agognata pace dei sensi.

L’immutevole ghigno, bianco avorio che luccicava nel buio delle mie labbra, i capelli ad oscurarmi ulteriormente il volto, lo sguardo nascosto ma divertito, di chi osserva la vittima della propria libidine, del proprio capriccio, della propria fuga dal mondo. Appoggiare le labbra su quelle bianche spalle tremanti provocava un pungente senso di nausea.

- Pensavo volessi staccarmi la testa.- una lamentela ancora scossa, ansimante, potevo percepire l’ira penetrante di quelle parole mista ad una punta di orgasmico lontano piacere, sul suo volto, contratto sotto il palmo della mia mano che andava a carezzarla come magra consolazione.

Un gesto furtivo e le dita tornano alla testa, l’afferrano e la tirano indietro come se fosse stata una palla montata su di una molla, un giocattolino da strapazzare a piacimento. Un acuto gridolino, labbra sottili a sussurrare al suo orecchio.

-Se avessi voluto, l’avrei già fatto.-

L’immagine dei suoi occhi spalancati a perdersi nel terrore mi invase la mente. Era forse quella una minaccia? Un avvertimento scherzoso e gratuito? Sicuramente per nulla al mondo richiesto. Come potevo trovare divertente spaventare una creaturina innocente che si abbandonava in abbracci sbagliati, quasi del tutto assenti di emozioni?

Stringere le braccia ad un blocco di pietra non porta altro che la disperazione nello scoprire che non ha nemmeno una briciola di quel calore ricercato.

Pioggia, nudità, voluttà, tre vocaboli che potevano essere così imparentati come estranei totali tra loro, in quel momento. Tutti concentrati in quella stanza invasa dal calore d’estate e dall’odore penetrante di umidità, di qualsiasi genere. Un odore rivoltante. In fondo, perché lamentarsene? La vita è effimera. Come le nuvole, è solo un passaggio. Una danza macabra vorticante, l’occhio del ciclone prima o dopo ti verrà a prendere con le sue catene arrugginite. Quindi perché lamentarsi?

La mia malattia rendeva instabile qualsiasi pensiero di senso compiuto.

Tanto valeva cogliere l'attimo.

Mi trascinai sulle lenzuola come un verme portato via dalla corrente, oh quella corrente che ancora non giungeva. Le membra sempre più stanche, riempite di un calore insufficiente.

Non mi sentivo affatto calda.

Mi diressi lentamente verso la finestra, il legno del pavimento scricchiolava sotto i miei piedi scalzi, pareva quasi che alcune schegge si conficcassero nelle palme, lente nel penetrarle quanto il mio passo a calpestare quel percorso di chiodi. Sarebbe stato un doloroso seppur meritato calvario.

Ma vi era veramente dolore anche quando si ritrovava piacere nel più sordido dei passatempi?

Anche il rimuovere necessitava la sua anestesia, in qualsiasi modo essa fosse somministrata.

Poggiai le mani sul piccolo davanzale interno, una decina di centimetri di marmo sporgente. Grigiore puro, della pietra stessa, niente fumo questa volta ad intossicarne le venature. Era maledettamente puro, nato in quello stato, non desiderato, naturale. Cenere di luna che gli piove addosso, coriandoli spenti e mesti, triste volteggio, fruscio di fogliame smosso dal vento all’esterno. Pallida luce abbattersi sul mio viso, ondata lattea a delineare i contorni di un’espressione tra il compiaciuto e l’impassibile. Non si sa per cosa, non si sa perché, o meglio non ne capivo io stesso il motivo per entrambi.

Denti sulla mia spalla, forti nella carne, prepotenza ed ingordigia, un rivolo porpora lento scese lungo il braccio come un vecchio stanco che vorrebbe fermarsi a riposare, ma sa che manca poco, veramente poco all’arrivo. Morsi il labbro inferiore, strinsi le palpebre quasi in ricerca di un pelo di concentrazione che oscurasse quel dolore. Ma ve n’era uno anche più grande, sopito in qualche antro profondo. - Questa è la punizione per prima.- sorrise, il viso tagliato in due nette parti dalla luce lunare, lingua ingorda che corre lungo il collo, mani a tenermi fermo il viso in avanti obbligato a vedere il grande globo fluorescente galleggiare nel cielo.

Il dolore andava lentamente dissolvendosi, le labbra a distendersi. Incantata nell'osservazione del satellite, parassita dell'oceano stellare, specchio del pensiero fisso. Speravo se ne fosse spontaneamente andato, invece era ancora lì, guardingo, pronto a riaffiorare scivoloso e candido. Rifletteva il sorriso di quell'immagine che desideravo ricacciare, il sorriso che ho distorto in un lacrimare con il mio gesto impellente. Ed ora era lì, flashback come luce di una stella che brillava forzatamente prima di andare a spegnersi in un clamoroso bang, nel silenzio dell'universo.

- Bè, non dici nulla? Sei molto diversa da qualche minuto fa. – le mani scivolavano sul seno e proseguivano sul ventre, a pochi passi dalle porte dell'inferno, la fonte della mia brama di potere, il meccanismo che accendeva il mio gelo – Ti facevo molto più... calda.-

- La luna è una menzogna.-

- Eh? -

Non pretendevo che capisse, né che rispondesse in modo quantomeno ragionato. Non potevo permettermi il lusso di pretendere qualcosa da lei. Non rappresentava niente e non era nelle mie mire, se non quelle più basse. Non avevo di fronte qualcuno in grado di comprendere, forse prendendomi gioco di quella creatura desideravo la sua confusione.

Vedevo una ferita, la cicatrice del tempo. Leggermente aperta, totalmente asciutta.

Il paradiso è un luogo, un sogno o una squallida bugia?

La luna mi inondava il viso, ma non vi era traccia alcuna di lei.

 

************

 

Cercando solo cose belle e vedendo solo cose false e vuote, come potevo non lamentarmi della realtà? Era dura ammettere che ero arrivata al margine, al punto di non ritorno e, sorprendendo me stessa guardare in basso, quell'abisso mi sembrò troppo profondo e mi coprii gli occhi con le mani.

Ma anche il fermarmi mi spaventava. Non aveva una logica compiuta stare sul bordo ed aspettare che qualcuno costruisse un ponte per me. Potevo udire quella soffice voce appena sussurrata, una carezza all'orecchio che diceva: Essere tristi equivale all'arrendersi.

Più mi avvicinavo al confine e più sembravo comprendere, più fingevo di non vedere. Era una barriera sottile, nylon soffocante, palpabile perfino nell'aria per quanto era spesso. Quale aria, poi? Soffocavo.

Esitavo nel compiere un apparente semplice passo avanti.

 

**********

 

Due messaggi non letti. Una chiamata senza risposta.

 

 

A forza di giocare a nascondino in dimore semi-sconosciute avevo perso la strada di casa. Non ne ero molto distante, ma la voglia di tornare al nido era pari allo zero. I lampioni della via illuminavano ben poco la strada, attorniati da sciami d'insetti goduriosi per l'emissione di quella pallida, seppur calda, luce.

Il traffico era normale per essere una sera del fine settimana, qualche motociclista allegro ma non troppo, una manciata di automobilisti che viaggiavano in tutta tranquillità verso mete ignote, sicuramente più interessanti della mia. Coppiette a braccetto, ragazzine schiamazzanti e ragazzi perplessi per i loro comportamenti infantili, qualche anziano in comitiva che predicava sulla società moderna ed i classici giovinastri.

Sospirai. Non vi era nulla di eclatante in quell'umanità deambulante. Ormai nemmeno più i vecchi saggi sapevano a cosa attaccarsi: i giovani, le donne, la droga, le tasse, la guerra. Adoravo ascoltare la nonna parlare per ore instancabili di moda dei suoi tempi e musica che fece realmente la storia, non certo i moderni loop dello stesso patetico, rimbombante suono. Quelli si che erano argomenti potenziali per migliorare la giornata di un giovane stanco della vita.

Una sigaretta e via, seguita da un'altra e ancora un'altra. Il sapore di tabacco bruciato aleggiava nella mia bocca soavemente, mi immergeva in una nube elegante che danzava amabilmente, potenzialmente tossica, suoni blues in sottofondo accompagnati dallo sfrecciare delle luci notturne. Apatia e pesantezza s'impadronirono presto del mio corpo, lo lasciai andare ad un passo lento e dondolante, come una vecchia ubriaca cantilenante.

Una luce più vicina delle altre.

- Cosa diavolo stai facendo qui?-

Le membra si irrigidirono all'udire quella voce nota. Quel tono pesante e grave non lasciava trapelare sentimento alcuno, se non scherno e rimprovero, misti in un cocktail micidiale. Sentii ripetere le medesime parole, possibilmente più forti e vive, più irritate. Un invito a salire in macchina. Invito? Ma che dico, l'ordine senza mah né bah. Fu in quel momento che i miei piedi scattarono, ma in avanti, l'espressione intraducibile di chi temeva qualcosa, qualsiasi cosa. Ancora urla e gli astanti a voltarsi e mormorare le frasi del caso, parole d'indignazione, bisbigli così lievi che arrivarono perfino alle mie orecchie.

Ordini, ordini, solo ordini. Il registro non cambiava con la situazione, l’assenza della ribelle doveva essere colmata con l’ansia alitata sul collo, denti attanagliati alle carni e non un sol grido di dolore, pena la morte psicologica. Oh, ironia, come se ci fosse ancora qualcosa in me che potesse definirsi vivo.

La gabbia, era quella la mia strada.

Varcata la soglia di casa, un braccio rosso ed a tratti violaceo tenuto da una mano pesante con la stretta dolorosa, volgare, a trascinare il bambino cattivo che aveva fatto una marachella più grossa di lui. Trascinata, un sonoro schiaffo sulla nuca, il tempo di girare la chiave nella serratura ed ero già testimone del volo di tante mani, e della loro irrimediabile caduta a ripetizione. E sempre dolcemente trattenuta fui chiusa letteralmente in quel luogo di dolore dal materasso di granito, i mobili macabri e lo schermo tetro che rifletteva la mia immagine trasandata. Clack clack, fece la chiave nella serratura arrugginita, bam bam fece il pugno con la porta a dimostrazione di quanto era stata irritante la mia trasgressione.

- Una puttana! Ti giuro! Una puttana! Ma se la becco ancora una volta l'ammazzo! Con tutto quello che facciamo per lei le trova tutte pur di infangare il nostro nome! -

Magari avessi esercitato quel simpatico lavoretto per davvero. Almeno qualche soldo in tasca ce l’avrei avuto e bye bye a tutti quanti, chi s'è visto s'è visto. L'asfalto emanava sicuramente più calore di loro due messi assieme.

- Sarebbe stato meglio se fosse morta quel giorno! -

Si, bye bye.

 

 

Cinque messaggi non letti. Sette chiamate senza risposta.

 

 

Grigie nuvole abbondavano sul soffitto, fluenti fiumi incolori attraversavano la stanza e dannazione, era anche la mia ultima sigaretta. Il pacchetto accartocciato giaceva sullo sghembo comodino al mio fianco, troppo alto per un uso normale, abbastanza per sbatterci il cranio durante il sonno. Ormai vedevo tutto attorno solo cattiveria architettata su misura per la mia persona in ogni minuzioso dettaglio, atroce giudizio che aveva poco di divino e fin troppo di umano. Anche il letto scricchiolante di modeste dimensioni doveva aver a che fare con una qualche spedizione punitiva di quando il mio essere aveva varcato la prima volta la soglia di questa casa.

Le luci della vita saettavano attraverso le tapparelle, vagonate di luccichii apparivano e sparivano contro le pareti. Quando si dice propensione naturale, ecco che rispondevo alzando la mano: la sensazione di essere una lucciola  tormentava le mie notti, e non di quel tipo di presenza notturna a cui ero stata paragonata. Curiosa la vita di un insetto il cui unico pregio è emettere flebile luce nell’oscurità estiva dei giardini. Soffice presenza per nulla scomoda e totalmente pacifica ad abbellire i sogni dei bambini per i quali, secondo leggenda, dovevano esaudire un semplice desiderio.

La mia luce è tutto meno che flebile.

E’ interna, nascosta agli occhi della gente comune, essenza preziosa ed a tratti per nulla gradita a chi gestiva la sua sopravvivenza con semplicità e disinteresse. Nessuno aveva colto quella sostanza luminescente o meglio, bugiarda, una persona l’aveva colta, la prima in assoluto.

Hai l’aria di essere una persona che soffre molto. Sembri spavalda e sicura di te, ma è la malinconia che ti attanaglia.

Quella persona, chissà come si chiamava. Una delle tante. L’unico prezioso ricordo che ho di lei è questa constatazione a cui avevo risposto con un no secco del capo ed un sano mutismo. Perché poi le sue braccia mi avevano avvolta, pelle contro pelle, ancora non me lo spiego. E di nuovo mi riscopro bugiarda, ma era più facile non ammetterlo. Quella stretta consolatoria era scomoda e toccante, grande motivo di rifiuto verso di lei e soprattutto verso me stessa.

Ho sempre creduto che le persone infelici avessero solo due possibilità: trovare a tutti i costi la motivazione portante all’appagamento completo o condurre un’esistenza empia addossandosi ogni colpa del mondo. In entrambi i casi, è comunque un morire.

Una vibrazione improvvisa, l’ennesima. Alzai il capo e lo voltai in direzione del cellulare. Altro messaggio, altro rifiuto, ma andava bene anche così. Se il mio desiderio era annullarmi totalmente per alcuni soffici istanti, il controllare il mittente di tal ricerca mi avrebbe dato una luce di speranza o forse un'altra pedata sulle dita attaccate all’orlo del baratro.

Perché rischiare?

Tanto valeva auto lesionarsi con la negazione totale verso quella luce che non mi apparteneva. Avrei semplicemente fatto prima a spegnerla del tutto e svuotare il cervello di frasi ridondanti e rumorose.

Maledetto doveva essere il mio masochismo.

Pigramente mi alzai dalla postazione e presi il posacenere, frugando al suo interno alla ricerca di qualche cicca spenta a metà. Per mia fortuna ve ne erano parecchie, per consapevole che sarebbero durate poco rispetto ad una normale boccata completa. Con la smania di trovare il cancerogeno tesoro rovesciai il contenuto sopra la coperta, spulciando una ad una le probabili vittime della mia frenesia, che di vittima reale facevano loro me. Scartando i mozziconi inutilizzabili scelsi con cura il recuperabile ed una due tre quattro, in un colpo già finivano con le anime delle loro sorelle verso il paradiso nebbioso del soffitto. Osservai stanca la cenere sulle lenzuola per qualche istante, labbro penzoloni ed occhi socchiusi come solo un tossicodipendente avrebbe fatto ed effettivamente mi stavo anche tenendo il braccio, unghie nella carne, un ritorno alla realtà oppure un lento riportarmi nelle tenebre?

Notte, sii più lenta, liberatoria. Lascia che mi vesta del mio telo trasparente, lasciami volteggiare in un balletto di luci acrobate, sono già il pagliaccio danzante di questo circo di maschere, non devi far altro che darmi il La. Ogni cosa di me è difetto, ogni piccola vibrazione fa incrinare il mio cuore di cristallo cinereo. A chi non vive realmente non importa di cosa accadrà domani. Questi individui non ruberanno mai l’emblema dei vivi, la sfera cocente delle giornate d’agosto. A chi tiene basso lo sguardo, la visione ombreggiata del terreno è l’unica fonte amica di conforto.

Un gesto secco e mischiai una lacrima ai residui di luna sulla lenzuola, ci scarabocchiai una casa, una montagna, un fiume. Per un istante tornai bambina e tentai di addomesticare l’assurdità del mondo con il gioco arcano dell’immaginazione.

Tutto il resto non aveva l’onore del mio sguardo.

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
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Il suo problema principale era di fare tutto di fretta. Alzarsi, vestirsi, prendere decisioni e anche andarsene. Non ho mai smesso di crederlo. Era costantemente pervasa da una scossa elettrica che in brevissimo tempo collegava i neuroni al resto del suo corpo. Prenderla? Macché, avrebbe trasmesso la sua corrente anche a me.

Per questo ora mi intrometto senza invito scritto.

Dal momento in cui decise di fuggire, avevo già in mente di correrle dietro per quanto il fiato me l’avesse permesso. Lei correva e preferiva lasciare una grande voragine in questa storia, o forse cancellarla completamente.

Ma io no, non ne avevo nessuna intenzione.

 

********

 

Non osavo fermarla anche se avrei potuto, ma non necessariamente voluto. Avevo ancora in mano i vestiti che mi aveva restituito quando, una volta chiusa la porta dell’appartamento, potevo sentirla correre di fretta giù per le scale, alcuni singhiozzi, l’ingresso del condominio aperto con tanta forza ed abbandonato così com’era. Avrei preferito sentirlo sbattere con violenza.

Potevo semplicemente precipitarmi alla finestra di camera mia per poterla scorgere da basso, urlarle di fermarsi, di non aver paura, che non l’avrei odiata, che non c’era una ragione precisa per prendersela. Avrei facilmente mentito a me stessa.

E mentre abbassavo lo sguardo, osservando distrattamente la maglietta da lei usata, pensavo a quanto dev’esserle stato stretto quel capo. Non mi ero soffermata troppo sulla sua corporatura, non rientrava nel mio interesse. Ricordavo però che la stoffa tirava molto sulla sua schiena e probabilmente anche il colletto era troppo stretto. Soffocante. Era umida di ricordi scivolati dagli occhi e dal corpo, ed in quel momento contribuivo poco volentieri ad inumidirlo.

C’era un grande perché a tutto questo, scritto con caratteri cubitali, sottolineato, in grassetto. Preferivo scacciarlo perdendo lo sguardo nella maglietta, anche se non la stavo osservando veramente. Quando c’è nebbia, gli occhi non funzionano a dovere.

Non ero arrabbiata. Come ho già detto, non esisteva un valido motivo per esserlo. La sensazione era ben diversa, le stavo dando un nome ma sarebbe stato troppo precoce parlare di.

Di. Nemmeno il cervello voleva saperne di pronunciarlo, non sarebbe stato veritiero. Ero curiosa, questo lo posso ammettere con tranquillità e forse era l’unica certezza del momento. Talmente incuriosita da quell’essere freddo che preferii girare i tacchi verso il bagno, riporre i vestiti nel portabiancheria e sciacquarmi la faccia. Volevo vedermi allo specchio e constatare quanto nulla fosse cambiato, ma la paura di ritrovare le sopracciglia piegate in un’espressione turbata era troppa.

Mi recai in camera ed iniziai a sfogliare distrattamente un tomo scolastico, seduta alla scrivania ancora colma di boccette colorate. Le guardai distrattamente per notarci il riflesso distorto del letto alle mie spalle. Le lenzuola erano macchiate di caffè, probabilmente alcune gocce erano schizzate verso l’alto quando lasciai andare la tazza. Il letto non è interessante, pensai, volgendomi di nuovo sulle scritte del libro. Alcuni elementi come bla bla bla usati nelle aziende Vattelappesca potevano portare gravi conseguenze alla salute della popolazione adiacente la zona di scarico. Che bella cosa, estremamente interessante: quasi tutte le sostanze, in certe dosi o in determinate circostanze possono essere tossiche, con le più disparate conseguenze che vanno dal banale mal di stomaco al decesso.

La saliva di Sara era decisamente tossica.

Scossi la testa, alcune ciocche di capelli ricaddero sulla mia fronte pungolandola. Ripresi la lettura sfogliando a caso un altro volume: le endorfine svolgono azioni di coordinazione e controllo delle attività nervose superiori, tanto da poter eventualmente instaurare patologie del comportamento, nel caso in cui il rilascio divenisse incontrollato. Euforia o stanchezza. Altre informazioni molto interessanti, che non aiutavano il mio stato d’animo.

Richiusi l’ennesimo libro con uno scatto d’ira, come se la carta potesse assorbire il mio nervosismo. Forse desideravo che i fogli mi tagliassero le dita, per darmi una buona ragione di collera e dolore. Poggiai la fronte al bordo della scrivania, lasciando le braccia a penzolare lungo i miei fianchi. Le sopracciglia erano piegate verso l’interno, gli occhi assottigliati e gli angoli delle labbra puntavano verso il mento.

Le labbra, già. Disidratate e scocciate da quella sensazione. Non avevo alcuna intenzione di bagnarle con alcun tipo di saliva, meritavano quel deserto più di qualunque altra parte del mio corpo. Frustrante sentirle implorare “ancora” e non capire precisamente che diavolo desiderassero.

Un richiamo silenzioso e volsi appena lo sguardo verso il letto alle mie spalle. Sopracciglia piegate. Perché quel pezzo di arredamento mi desse così tanto fastidio era fin troppo ovvio, anche se cercavo risposte alternative. Più che fastidio, mi sentivo estranea a quelle lenzuola in cui avevo dormito per circa un paio d’anni. Potevo eliminare facilmente il problema lavandole o cambiandole. L’aria, in compenso, avrebbe avuto la stessa pesantezza.

La prima volta che incontrai Sara mi sembrava una ragazza molto sicura di sé, determinata nel suo lavoro e nelle sue affermazioni. Ero entrata per puro caso nel gruppo di giovani artisti che esponeva nella struttura dove lavorava, avendo ascoltato dei ragazzi della mia facoltà parlarne piuttosto bene. Non era necessario essere Leonardo per vedere il proprio pezzo esposto in una delle tanti pareti di quel luogo e la cosa mi attratta parecchio, non essendo troppo entusiasta del mio corso di studi. Affiancare la ricerca ad un hobby, forse entrambe le strade non mi avrebbero portata ad un impiego sicuro. Perché non tentare, mi chiesi all’epoca, e così entrai in contatto con quei giovani e lei. Le sue mansioni erano semplici per quel che mi aveva spiegato: prendere nota delle quote di iscrizione, pubblicare su un sito internet informazioni riguardanti nuove mostre, entrare in contatto con chi aveva intenzione di mostrare ad uno scarso pubblico la propria opera.

Mettere a proprio agio gli autori dilettanti era una delle cose che le riusciva meglio, per esperienza personale e per sentito dire. Elogiava chi andava elogiato e stroncava con gentilezza chi andava stroncato, pur dando una concreta possibilità futura di esporre. Cordiale nell’elargire speranze, non avrei mai creduto sarebbe venuta a chiedermi di strofinarmi a lei in giochi notturni.

Ecco, era quello il suo scopo, sin dall’inizio.

Ma c’era dell’altro. L’avevo vista sorridere raramente nel periodo in cui ci siamo frequentate. Quando mi ha avanzato quel timido modo di scusarsi, subito dopo la proposta oscena, mi sono detta che potevo perdonarla, non c’era nulla per cui essere arrabbiati, si poteva risolvere. Le stesse frasi che pensavo dopo che aveva preferito fuggire. Cosa che d’altronde avevo tentato io stessa quando, nel locale dove ci siamo in seguito incontrate, aveva nuovamente palesato il suo interesse per me.

Chissà che tipo di interesse, poi.

E nonostante le avessi concesso questa possibilità di “conoscenza approfondita”, non sembrava molto felice. Lo era, sicuramente, ma quando mi rivolgeva lo sguardo non potevo far altro che trovarlo spento, assente. Mi guardava, ma non guardava me. Osservava al di là di me. In tutta risposta, io cercavo di vedere dentro di lei ma il buio era tanto e non pareva aver voglia di aprirmi alla sua luce. Mi spaventava, forse, ma amavo questo brivido e nacque la curiosità.

Pensavo a tutto questo osservando intensamente il mio letto. L’estraneità non era ancora cessata, ma potevo metterla a tacere, se solo avessi avuto abbastanza forza di volontà. Sospirai, la posizione che avevo assunto mi aveva intorpidito braccia e gambe e dovetti per forza alzarmi per scuotermi.

Non c’era niente per cui valesse la pena arrabbiarsi. Tutto si poteva risolvere. Me lo ripetevo come una sorta di preghiera, anche se ancora poco convinta. Camminai lentamente in direzione del letto, osservandolo con aria di superiorità, mordendo l’interno della mia bocca. Anche se le macchie di caffè saltavano immediatamente all’occhio, prima ancora vedevo una distesa di bianco. Presi il telefono cellulare dalla tasca dei jeans e, mentre prendevo posto sul materasso, mandai un messaggio al numero di Sara. Non risponderà subito, pensai, è ovvio che sia ancora scossa. Forse pensa che io la odi. Anche se…

La odiavo?

Il messaggio non mi bastava. Egoisticamente volevo sentire la sua voce e ripeterle la preghiera con cui io stessa mi convincevo che andava tutto bene. Dopo aver composto il numero, attesi per un minuto intero che premesse il tasto per accettare la chiamata. Attesa vana. Non dev’essere lontana, forse ha spento il cellulare. Non che questi pensieri estinguessero la voglia di sentirla. Vederla. Abbracciarla?

Le labbra erano davvero esauste di quel deserto che le avevo imposto. Anche la lingua, a forza di rimanere rinchiusa nella gabbia di denti, desiderava prendersi una boccata d’aria in tutti i sensi. Tante piccole scosse la attraversarono quando andarono a bagnare l’esterno, corrente elettrica che non mi apparteneva. Poi il black out.

 

 

******

 

Le lezioni universitarie mi tormentavano, dal momento in cui ogni messaggio ed ogni chiamata era un buco nell’acqua. Prendevo pochissimi appunti e ciò non avrebbe giovato ai miei prossimi esami, ma non riuscivo a tranquillizzarmi finchè qualcuno non avesse risposto a quei piccoli richiami. Mi bastava anche un “no” scritto di fretta, forse era una pretesa troppo grande per esaudirla.

Il professore del corso enunciava i benefici dell’usare determinate sostanze piuttosto che altre. Agitava la mano per rendere meglio l’idea che no no no, facendo così boom!, e se invece avremmo agito in modo diverso ok! Alle scuole superiori, la consulente psicologa per gli studenti mi aveva spiegato di fare molta attenzione al linguaggio del corpo, perché poteva nascondere informazioni non udibili. L’unico dato che captavo riguardo quel docente è che gli avrei volentieri chiuso la bocca con il tomo di chimica. La mia sopportazione a qualsiasi cosa era davvero allo stremo, temevo di rendermi troppo ostile verso chiunque a causa dei miei tormenti.

- Allora? – bisbigliò la mia compagna di banco, cogliendomi di sorpresa e facendomi sussultare. Mi voltai verso di lei, alla mia destra, osservando con la coda dell’occhio che il professore non notasse la nostra disattenzione. Aggrottai le sopracciglia, scuotendo la testa e chiedendole: - Cosa? -. Il suo sorriso di allargò ancora di più. Prese in mano il telefonino che avevo posato sul banco, scuotendomelo davanti al naso come un pendolo, probabilmente aveva notato che l’avevo tenuto d’occhio negli ultimi giorni. – Allora… quando ci presenti il tuo ragazzo?-

- Il mio che?!- sbraitai richiamando l’attenzione degli altri studenti in aula. Afferrai subito una matita e finsi di scrivere intensamente sul mio quaderno di appunti, tenendo lo sguardo basse per non far notare il rossore che stava sovrastando il mio volto. Qualche risatina bassa fece il suo ingresso nell’imbarazzante silenzio creato dopo il mio grido, forse trovavano divertente (soprattutto alla mia destra) il mio aver interrotto la spiegazione interessantissima della lezione. Alzai di poco lo sguardo per incontrare quello del professore dietro la sua cattedra, con aria interrogativa ed evidentemente scocciata. Abbassai nuovamente gli occhi sul mio quaderno, pasticciandolo di linee senza senso dal nervoso.

La lezione riprese pacatamente e presto fu tutto dimenticato. Solo le guance non volevano saperne di scottare meno. La mia compagna di banco ancora giocherellava con il mio cellulare, almeno finché non glielo strappai di mano prima che avesse accesso alla rubrica. Sorrise anche a questo gesto, come se avesse trovato il giocattolino divertente con cui ammazzare il tempo di una noiosa lezione. – Mi sembrava strano che di recente uscissi con qualcuno. Tu, tanto dedita allo studio… - ironizzò a bassa voce, conoscendo bene la mia scarsa vita sociale ed altrettanto poco entusiasmo verso l’università. Si portò una mano sotto il mento, osservando con occhi assottigliati le file di banchi oltre i nostri e dubitavo cercasse di sbirciare gli appunti degli altri. Con la mano sinistra mi prese il braccio per richiamare la mia attenzione, con la destra indicò un ragazzo nella seconda fila. – E’ lui, ne sono certa, andavate alle superiori assieme. –

Mi liberai con uno strattone dalla sua presa, assumendo uno sguardo irritato. Il fatto che uno dei nostri compagni di classe fosse tale anche alle superiori non aveva alcun significato, le probabilità che mi avesse seguita dopo erano vicine allo zero. Ci mancava effettivamente poco, dato che talvolta si rendeva insistente nel chiedermi un ripasso assieme a casa sua o tentava di offrirmi un aperitivo ogni volta che ne aveva l’occasione. Questo genere di ragionamenti potevano fare solo parte della mia fantasia e di quella delle pettegole: non ero ingenua di fronte alle relazioni, mi mancava semplicemente la pratica. Da quando frequentavo una certa fuggitiva, certe logiche parevano ancor più lampanti.

- No, ti sbagli. – scossi semplicemente la testa, fingendo ancora una volta attenzione verso il blaterare del professore. Come poteva passarle per la testa che una testa calda come me avesse la benché minima intenzione di uscire con un tizio come quello? Era gentile, ben educato, a suo modo divertente e si, aveva anche un bel fisico. Tutti quei muscolacci non si addicevano affatto al nostro percorso di studi, si sarebbe piazzato meglio a scienze motorie. Il suo modo ebete di sorridere mi infastidiva, come se i denti sarebbero stati risucchiati dalle gengive da un momento all’altro. Le sue battutelle da quattro soldi strappavano un sorriso ma nei suoi occhi non vedevo nulla che brillasse.

Ben le avessi esposto questi ragionamenti, la compagna di banco non avrebbe rinunciato allo scoop. A chi scrivessi, con che umore lo facessi e la ragione che mi faceva prendere in mano il telefono una decina di volte all’ora non le interessava. Non avevo alcuna intenzione di accontentarla: non avevo ancora ottenuto la risposta che desideravo, mi costava troppa fatica spiegarle tutta la storia. Sempre che mi avesse sinceramente creduto. Sempre che non le facesse ribrezzo il fatto di aver catturato le attenzioni di un’altra donna. Sperava vuotassi il sacco, convincendomi con l’assillante pungolare delle sue dita sul mio braccio.

Mi costava molto dire la verità?

O forse mi costava ancor di più raccontarmi una bugia.

Con la mano sinistra le fermai quelle dita fastidiose, stringendole per un momento. Era ben diversa dalla stretta con cui mi aveva intrappolata Sara quel giorno delle scuse; i sentimenti erano ben differenti, volevo semplicemente zittire quella mosca fastidiosa. – Non è lui. – bisbigliai, lanciando un’occhiata verso il ragazzo da lei prima indicato. Mi fermai un attimo per riflettere, e la riflessione mi portò a sorridere.

- La persona con cui sto è decisamente più affascinante.-

 

 

********

 

 

La mia affermazione non era del tutto errata. Forse non era all’altezza delle modelle più conosciute nel mondo, né credo le interessasse farne parte. Aveva un certo fascino nel modo di camminare, di gesticolare, di osservare, di parlare. Quella leggerezza che accompagnava le sue mani, mentre si agitavano nell’aria, sembrava dovesse crollare da un momento all’altro, frantumarsi in mille pezzi e mai più ricomporsi. Il suo sguardo era sempre intenso e pensieroso, che osservasse un filo d’erba o un’opera preziosa. La sua voce era bassa e le parole essenziali, accompagnate spesso da minime contrazioni facciali da cui si poteva comprendere se dicesse sul serio o meno. Non che tutto ciò che diceva fosse ben chiaro, anzi spesso il suo pareva un linguaggio arcano che guardava ad altre ere, ad altre persone. Nel complesso, era davvero una persona affascinante.

Con il solo piccolo, insignificante fatto che non stavamo assieme.

Mentii a lezione, e mentii anche molto bene. La mosca fastidiosa smise immediatamente di svolazzarmi attorno, facendomi sorridere esultante più per il fatto di averla stupita che di averla fermata. Nella pausa pranzo la notai avvicinarsi ad altre sue amiche ed iniziare a bisbigliare anche con loro, gossip dai sapori orientali, notizie piccanti che saltavano dalla punta della lingua. Ogni tanto lanciavano un’occhiata a me, scuotevano la testa e poi riprendevano i loro segretissimi discorsi. In tutta risposta sorridevo, a me stessa e non a loro. Ero raggiante ed orgogliosa.

Ma di cosa?

Di aver preso in giro una curiosa seccatrice? Di aver dato a tutta la sua compagnia degli argomenti con cui divertirsi per qualche giorno? Di aver dimostrato a parole che non sono l’ingenua ragazzina che non sa stare con nessuno? O tutto ciò messo assieme? Non dovevo certo fornir loro prove tangibili, dal momento in cui quelle persone non significavano qualcosa di particolare per me, inoltre non ne avevo nemmeno. Potevo essermi riferita a qualsiasi individuo e non necessariamente a Lei. Avevo parlato di “persona” senza determinare il sesso di questa, ho fornito solo una sua caratteristica e su questa ero seria.

Eppure mi sentivo ancora orgogliosa. Associavo le mie affermazioni alla fuggitiva senza ombra di dubbio, fermandomi e chiedendomi se fosse giusto quel collegamento, per poi constatare poco dopo che era la soluzione migliore. Forse per il semplice fatto che non avevo nessun altro di così importante su cui poter mentire. Del resto non avevo alcun diritto di usare la sua persona per salvarmi dalle situazioni imbarazzanti della mia quotidianità. Volevo servirmene come una piccola vendetta per la sua fuga.

Non ero totalmente soddisfatta. Il cellulare non dava ancora segni di vita, della sua vita. Dubitavo fortemente avesse compiuto un gesto estremo, del resto non l’avevo né rifiutata né accettata, ma non potevo prevedere cosa le passasse per il cervello. Camminando in direzione di casa controllai più volte ma senza risultati. Ricacciai il telefono in tasca e tentati di non pensarci più, fallendo. Se solo avessi saputo dove abitava potevo assicurarmi di persona in che stato fosse, magari trovandola sorridente ed in buona compagnia al di là delle mie aspettative. Quell’immagine mi innervosiva.

In compenso lei sapeva benissimo dove abitavo: un giorno le chiesi se era disponibile ad accompagnarmi per delle commissioni e lei accettò; mi diede una mano nel portare le borse fino alla fermata dell’autobus ma non si fermò una volta arrivate, anzi proseguì la strada. Le dissi che eravamo arrivate e poteva lasciarmi il tutto, il tragitto sarebbe stato breve ma insistette, osservandomi stupita ma mai quanto me. Conosceva la strada e voleva portarmi le borse fino alla soglia del condominio. Effettivamente avevo usato la scusa dell’autobus proprio per non farle ancora vedere dove abitavo, il tempo di nemmeno una fermata ed ero arrivata. Non diede spiegazioni riguardo la sua sospettosa conoscenza del posto, anzi farfugliò scuse strane come “me lo sentivo, ti avevo vista una volta passare di qui, è l’istinto” anche se era difficile crederle. Ripercorse poi la stressa strada da cui eravamo arrivate al contrario, salutandomi con un sorriso, senza troppi convenevoli.

Non era molto affettuosa a gesti, se non quelli delle palpebre che si socchiudevano spesso nell’osservarmi, creando in me un inaspettato imbarazzo. Cercavo di ritrovare l’autocontrollo facendo constatazioni infantili sul tempo e l’ambiente circostante, oppure proponendo un argomento di attualità semplice da svolgere. Mi sentivo molto la maestrina che ha a che fare con un bambino asociale, che preferisce stare nel suo angolo con le costruzioni piuttosto che partecipare ai giochi di gruppo. Dovevo prenderla per mano, non in senso letterale. Fu lei ad essere più fisica per prima, abbracciandomi il giorno in cui piombò ferita a casa mia. Ancora adesso mi chiedo cosa diavolo le fosse successo, la scusa di essere inciampata e ruzzolata per terra non reggeva da nessun lato, anche se l’avevo ideata io per giustificare il suo silenzio.

Perché era venuta a cercare proprio me in quelle condizioni? Probabilmente ero la persona più vicina fisicamente, forse casa sua era molto lontana dal luogo del suo misterioso incidente, oppure altre mille ipotesi che scacciavano quella più romantica che potesse venirmi in mente: nessun altro si poteva prendere cura di lei, solo io avevo quel potere, solo io potevo farla sentire a proprio agio evitando rimproveri, domande fastidiose o che altro. Ah, la romanticheria non poteva addirsi ad una povera ingenuotta come me.

Forse avevo tremendamente sbagliato a curarmi di lei. Avrei dovuto chiamare la guardia medica e farla venire da me, oppure farmi spiegare cosa andava fatto per via telefonica. Preferii invece mettere in pratica le mie scarse conoscenze mediche sulla mia prima cavia al di fuori del laboratorio scolastico. Non si ribellò e ne fui soddisfatta, averla sottomessa così facilmente non rientrava nelle mie aspettative ma nemmeno curarla così amorevolmente, così… morbosamente, come se dovessi assolutamente conquistare la sua fiducia grazie a quei gesti lievi per non farle bruciare ulteriormente le ferite. Il suo abbraccio, in seguito, l’avevo interpretato come un ringraziamento silente senza pretese, ma estremamente timido. Per una bambina che amava il suo angolino esclusivo, dev’essere stato un enorme sforzo uscirne e subentrare nei giochi di un’altra sua simile.

Quella stessa notte, il suo sgattaiolare nelle mia camera da letto, facendo attenzione a non svegliarmi pur essendo già sveglia, lo trovavo molto tenero. Si sentiva sola senza padroncina da fissare nel buio, respirando piano, restando semplicemente immobile per gustarsi al meglio quella mia parvenza di sogno. Mi faceva piacere quel suo fare misterioso, non temevo potesse saltarmi addosso da un momento all’altro ma ammetto di aver avuto paura di averla addomesticata sul serio. un gatto randagio, per quanto ti sforzi ad insegnargli i concetti della vita casalinga, rimarrà sempre selvaggio. Con notevole sforzo mi aprì il suo cuore, ma nulla di ciò che diceva aveva un reale senso, almeno non per me. Lo accettai ugualmente, vista la sua reazione, aveva sofferto per qualcosa a me sconosciuto e non me la sentivo di abbandonarla con il viso inumidito di ricordi a me estranei, la accolsi gentilmente e si aggrappò al mio richiamo, raggomitolandosi sotto le lenzuola, stringendosi a stessa e mai a me. Fui io a stringerle le braccia attorno al corpo.

Poi tutto accadde all’improvviso, ebbi paura e ne scorsi nel sguardo. Non trovavo le parole giuste, sempre se esistevano, addossandomi la colpa di tutto. Colpa della mia curiosità e del mio senso di colpa. Per questo scappò, ne ero certa.

Riflettendo su questi avvenimenti mi ritrovai sulla porta dello stabile in cui abitavo. Lentamente girai la chiave nella serratura, come se la voglia di rientrare in quel luogo mi avessero abbandonata. Che senso aveva, dopotutto, sentirmi sola due volte? Lo ero costantemente, ed ora anche l’unica presenza calorosa che avevo era scomparsa. Calore strano, il suo, visto che si celava in un contenitore freddo. Salii le scale con altrettanta lentezza, trascinandomi alla porta di casa ed aprendo anche quella. La chiusi sbattendola, per poi poggiarmici con la schiena.

Ancora nessuna chiamata. Ancora nessuna risposta.

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Capitolo 8
*** 7 ***


7

7

 

 

 

Quando ero ancora una bambina e vivevo con i miei genitori in una cittadina di periferia, avevamo una gatta. Aveva una splendida pelliccia a macchie bianche e nere, dei grandi occhi dorati ed una coda molto folta.  Ci era stata regalata da un’amica di mia madre perché non poteva tenere l’intera cucciolata in casa sua. Dato che avevamo un grande cortile pensò bene ci potesse far piacere un animaletto da compagnia, anche se non ne avevamo mai posseduti e non sapevamo bene cosa comportava avere un nuovo componente nella famiglia. Nonostante i primi dubbi, riuscimmo a cavarcela e crescere quella splendida palla di pelo come se fosse una figlia, per mio padre e mia madre, ed una sorella minore, per me.

Quella gatta mi svegliava la mattina ancor prima della sveglia e mi “rimboccava” le coperte la sera, appallottolandosi vicino al mio cuscino, come a ricordarmi che era ora di spegnere il cervello. Aveva stranamente imparato i ritmi di vita degli esseri umani e conviveva quasi perfettamente con noialtri. Era un ottimo orologio, sapeva meglio di noi a che ora bisogna riempire lo stomaco per tutta la famiglia e quando miagolare per ricordarci che iniziava il programma alla televisione, soprattutto il suo. Amava starsene seduta davanti allo schermo ad osservare i cartoni animati serali, li osservava come se da un momento all’altro sarebbero usciti e diventati reali. Ma non si metteva mai in posizione di attacco, con la coda arrotolata attorno alle zampe si gustava lo spettacolino in tutta serenità.

Pretendeva molte attenzioni quando e se le richiedeva, mentre cercava di sfuggire da abbracci e coccole non desiderate. Ero piccola ed insistevo spesso per tenerla in braccio ed arruffarle il pelo, rischiando graffi e morsi che, fortunatamente, non mi erano quasi mai spettati. Spalancava gli occhi in preda ad una sorta di terrore, non scalciava ma al primo allentamento della stretta spingeva con le zampe posteriori e saltava, trovando la sua libertà. Mi osservava per un attimo, come a dirmi “scusa ma non mi va” e poi si rintanava sotto il mio letto.

Un giorno, nel nostro cortile, penetrò silenziosamente un gatto randagio e si portò via la nostra gatta. Tornò da sola pochi giorni dopo e nel giro di un paio di mese i miagolii aumentarono, da uno a tre. Una pallina grigio cenere con occhietti blu ed un’altra nera con un simpatico ciuffo bianco sul petto. La loro mamma, però, non pareva molto contenta dei nuovi arrivati ed inizialmente associammo i suoi comportamenti ad una sorta di gelosia: spesso abbandonava i gattini per andarsene a spasso in luoghi ignoti; se i piccoli vagavano per la casa, lei prima li osservava poi si metteva a giocare per conto proprio; quando miagolavano, anche molto forte, spesso lei se ne stava sdraiata sul balcone a guardare l’orizzonte. Eppure non l’avevamo privata delle attenzioni iniziali, era ancora la seconda figlia dei miei genitori e la mia amata sorellina.

Nessun gatto randagio ci fece più visita da quell’unica volta, ma fu lei ad andare in cerca di suoi simili ripetutamente, trascurando i suoi doveri di madre. Quel gatto ce l’aveva portata via, in qualche modo, ne eravamo convinti. E ci convincemmo ancora di più quando, dopo una notte di solfeggi miagolanti, non fece più ritorno.

I suoi cuccioli furono cresciuti fino a che diventarono ingestibili e decidemmo di darli in regalo, proprio come era giunta la loro madre in principio. Fu una separazione dolorosa ma non eravamo più in grado di curarci di quegli esseri ribelli.

Questi ricordi mi riportano a lei, alla mia lei presente, alla lei che talvolta pareva più felina che umana.

Non ho mai desiderato che lasciasse il suo nuovo nido.

 

********

 

Una settimana era plausibile, tre insopportabili.

La mia routine giornaliera proseguiva senza troppi intoppi, andavo a lezione e tornavo a casa come avevo imparato a fare da più di un anno. Certo, talvolta potevo permettermi il lusso di staccare gli occhi dai fogli e concedermi qualche ora di relax, tra videogiochi, internet, passeggiate e la spesa. Il frigo era spesso vuoto, il mio stomaco non richiedeva molte attenzioni né gliene concedevo extra, non sono mai stata ossessionata dal corpo, mantenevo semplicemente un regime molto basilare. Le visite non erano mai attese e quindi non mi preoccupavo di far rifornimenti, tranne una sola volta.

Una era bastata per aspettarmene altre, da un momento all’altro, da farmi comprare anche in eccedenza.

Il cellulare continuava testardamente a non dare segni di vita, nonostante l’apparecchio non ne potesse niente. La destinataria dei messaggi e delle chiamate sembrava scomparsa nel nulla, così pian piano smisi di tormentarla a vuoto. In compenso la sua presenza si era diffusa, verbalmente, tra le mie compagne di classe e, se prima ne andavo insolitamente orgogliosa, stava cominciando a snervarmi. Giusto quel giorno un gruppo di amiche (forse sarebbe il caso di definirle conoscenze) aveva deciso di farmi visita, “per prepararci tutte assieme all’esame” avevano detto sorridendo entusiaste, ma le loro intenzioni primarie erano ben altre. Potevo anche accontentarle, sperando in una loro resa, ma si sa che il gossip negato è l’arma migliore per screditarti alle spalle.

Tre in punto, quanto le settimane della sua assenza. Il campanello suonò insistente anche dopo che avevo aperto, forse lo trovavano estremamente eccitante, pigiare il bottoncino per annunciare la loro presenza altrettanto su di giri. Andai ad aprire la porta di casa poco dopo, attendendole sul pianerottolo. Quattro ragazze agghindate a festa, una sfilata di minigonne di jeans, trucchi, borsette e collanine entrò disordinatamente a rovinare la quiete di casa. Erano già state un paio di volte con serie intenzioni scolastiche, che bene o male andavano scemando verso pettegolezzi interessanti solo per loro, visto che la sottoscritta era troppo secchiona per poter penetrare i loro discorsi. Non che volessi rendermi partecipe a tutti i costi, ma dovevo pur fare un po’ di quella cosa chiamata socializzazione.

- Chiaretta, te l’ho mai detto che hai un soggiorno favoloso? – sì, il giorno del mai, pensai ma mi limitai ad annuire sorridendo. Quel genere di complimenti di circostanza erano davvero pessimi, ma farglielo notare sarebbe stato il fiammifero acceso per un bell’incendio. La stessa che aveva parlato si mise a guardarsi in giro, osservando ad occhi stretti tutto ciò che le capitava a tiro: i quadri appesi, i foglietti attaccati al frigo, le tende alla finestra della cucina, come se fosse la prima volta che vedeva questo strano scenario. Buttò anche una rapida occhiata alla porta socchiusa della camera da letto, forse aspettandosi che qualcuno comparisse dal nulla a spaventarla. Con le sopracciglia aggrottate ed un’espressione di sufficienza, girò su sé stessa e si mise a sedere sulla poltroncina, mentre le altre ancora si guardavano attorno sorridenti ed incuriosite prima di prendere posto al tavolo. Probabilmente erano pervase da una malattia contagiosa.

Dopo aver portato in soggiorno un vassoio con dell’aranciata, mi sedetti anche io nell’ultima sedia disponibile, altrettanto sorridente per sembrare il più possibile amichevole. Una paresi facciale che speravo svanisse in fretta. – Allora, qualcuno ha portato gli appunti della scorsa lezione? - - Gli appunti? Sei fuori?- fu così liquidata la mia domanda, suscitando l’ilarità nelle presenti. Feci loro compagnia con scarsa naturalezza, dando infine un colpo di tosse ed aprendo un libro che avevo messo in precedenza sul tavolo. Mi fu subito sottratto e richiuso, la ragazza che l’aveva ora in mano faceva segno con un dito sulla tempia. Ero matta, incredibilmente matta a voler davvero ripassare per l’esame in gruppo. Non mi dispiaceva averle terrorizzate con quella terribile proposta.

- Se non avete intenzione di tirar fuori gli appunti, vuol dire che siete più preparate di me. - dissi tranquillamente, incrociando le braccia e poggiandole al tavolo. I loro sguardi passarono dallo sconcertato al divertito, anche se non mi pareva aver detto qualcosa di poco sensato o ironico. No, aspettate, l’ironia c’era eccome e non poca. – Sembra che quella più preparata ed esperta sia tu, tra tutte noi. – se la ridacchiò la ragazza seduta alla mia sinistra, inclinandosi in mia direzione per farmi pervenire meglio le sue parole, o forse il suo sguardo carico di intesa che avrei voluto non cogliere. Assunsi uno sguardo falsamente confuso, scuotendo il capo per farle capire che le sue parole mi suonavano nuove. Dev’essere bello essere esperti in qualcosa che non si conosce, ma la curiosità mi spingeva a scoprire questa capacità innata.

Un’altra ragazza alla mia destra si avvicinò al mio orecchio, con una mano a coprirle la bocca, parlando però con un tono percepibile da tutte le altre. - E com’è fatto, lui?- disse per poi tornare a sedere normalmente, ridacchiando con tutte le altre a seguito. Diamine, si trattava veramente di universitarie o si erano fermate ai primi anni delle superiori, dove qualsiasi cazzata era buona per occupare il tempo, specie se riguardava fatti di terzi? Le loro risatine isteriche mi snervavano quanto bastava per tirar loro una testata in piena fronte, ma non ero il tipo da simili colpi di testa, in tutti i sensi. Preferivo assecondarle con tutta la calma possibile, anche perché del resto era quello che si aspettavano. – Di media altezza, occhi nocciola, fisico asciutto, capelli lunghi…- - Oddio, è un rockettaro o cosa?- chiese una terza, e giù altre grasse risate. La voglia di prendere le loro testoline poco pensanti e sbatterle tra di loro, come frutta marcia che si sfracellava al suolo, vagava pericolosamente nella mia mente e fortunatamente rimase lì. Annuii per accontentarle, spiegando che spesso li teneva sciolti e raramente li legava con elastici scuri in una cosa semplice, che in tal caso amava tenerli ben stretti per non far scappare nessun ciuffo selvaggio e se capitava li strappava direttamente.

Si, mi era capitato solo un paio di volte di vederla coi capelli legati. Le sue chiome scure le ricadevano ai lati del viso e sulle spalle dolcemente, come a formare una cornice di quella stupenda opera che era il suo sguardo.

Alla domanda sulla sua età, provai un brivido freddo. La risposta era ignota pure a me ma dovevo pur inventarmi qualcosa di plausibili, così dissi che aveva un paio di anni più di noi, sperando mentalmente di averci azzeccato. Se avessi detto che era più giovane mi avrebbero considerata una che adesca ragazzini perché disperata, stessa cosa se l’ipotetico fidanzato avesse avuto più di dieci anni di differenza da me. Troppo vecchio, ed io troppo disperata. Sicuramente Sara non poteva avere meno di vent’anni, benché molte giovani della nostra epoca sembrino decisamente più adulte. Ma il suo modo di parlare, di osservare il mondo e me lasciavano intendere che la sua maturità mentale accompagnava anche quella fisica. Se mai l’avessi rintracciata, sarebbe stata una delle prime domande che avrei voluto farle, anche se non la più importante.

Anche se era imprudente come una bambina sfrontata che vuole conoscere il mondo al di là della siepe ed, allo stesso tempo, troppo prudente ed insicura al punto da temere semplici parole. Il suo timore era qualcosa che ancora non comprendevo, ma sentivo che avrei dovuto tenderle la mano. Ed abbracciarla. E consolarla. E.

- Che lavoro fa il tuo bel fusto?- altro giro, altra ironia non richiesta. Quel singolare modo di chiamare il mio lui di fantasia, però, mi destò una punta di orgoglio e sorrisi sinceramente inarcando le sopracciglia. Stavano inconsciamente dicendo che Sara era affascinante e su questo non potevo che concordare; inoltre il loro pensiero di vedermi affiancata ad un uomo ben piantato elevava automaticamente anche me ad una sorta di regina della scena, rara sensazione nella mia vita. Dovevo approfittarne. – Lavora in una galleria d’arte come tuttofare, mansioni di segretariato, cose simili…- annuii ad ogni ammissione, gesticolando per mimare lo scrivere sui fogli o sulla tastiera di un computer, il disporre volantini, tutto quel genere di cose che farebbero in un ufficio o quel che era. Spiegai che anche io avevo esposto dei quadri lì e che mi aveva aiutata a prendere contatto con il proprietario delle sale, anche se la notizia le lasciava piuttosto indifferenti, era decisamente di vitale importanza conoscere un poco della vita privata di questo fidanzatino che degli interessi della loro compagna di studio. Del resto non mi aspettavo si interessassero a me al di là dei suggerimenti per gli esami.

Invece lei si interessava eccome, osservava da ogni possibile angolazione i miei lavori come se dovesse entrare nel colore e prenderne parte, farlo scorrere nelle vene, ed il suo sguardo scorrere in me.

Le ragazze non sembravano aver ancora esaurito le loro piccole curiosità, quindi continuarono a domandare riguardo aspetti privati della nostra relazione, tra cui cose che non riporterò. Alcune erano decisamente imbarazzanti ed altre difficili da rispondere, o entrambe allo stesso momento, la mia praticamente nulla esperienza sul campo non facilitava certo la situazione e talvolta mentire risultava estremamente sforzato. Lo potevo notare dai loro sguardi che credevano si e no a poche delle mie affermazioni, ma continuavano a sorridere ed annuire interessate. La ragazza, che dall’inizio si era accomodata sulla poltroncina, non aveva ancora chiesto nulla in merito né commentava, se ne stava ben comoda con una mano a reggersi il mento ed il gomito poggiato al bordo, le gambe accavallate e gli occhi a fissarmi senza tregua, mettendomi non poco a disagio. La consideravo la leader del gruppo, una sorta di pastore che guidava le sue pecore ma le lasciava razzolare, almeno fin quando non avesse deciso di farle smettere di belare. Iniziarono poi i paragoni con i ragazzi delle altre: chi era alto e muscoloso come un modello professionista, chi con gli occhiali e l’apparenza di importante studioso, chi dotato di capacità che lo rendevano speciale e chi ancora sognava il bel principe tenebroso in sella ad un nero destriero. L’importante, notai, era che tutti questi fantomatici compagni di vita, o di giornate, fossero molto più interessanti della presenza fantasiosa al mio fianco. Almeno i miei racconti avevano un largo fondo di verità.

Ma la verità principale, quella davvero di fondo, era che la sua timida presenza si faceva aspettare e non lo sopportavo. L’aria non aveva lo stesso odore né la stessa consistenza senza i suoi rari sorrisi discreti e le sue movenze proludenti quando mi era attorno. L’agitazione che mi provocava la sua mancanza era ormai intollerabile ed avrei dato evidenti segni di irrequietezza di lì a poco, se non avessi avuto sue notizie. Ed il motivo era palese e non così tanto scontato.

Il loro allegro disquisire su chi fosse il ragazzo migliore con cui intrattenersi fu interrotto improvvisamente. – Sei stata furba, Chiara. – disse finalmente la leader, rompendo il suo silenzio di contemplazione. Le dedicai il mio sguardo, scuotendo leggermente il capo per farle capire che non capivo di che stava parlando. Sorrise e cambiò mano a sorreggerle il volto, appoggiandosi all’altro capo della poltrona. – Ci siamo cascate tutte quante. E dire che pensavamo fossi lesbica.-

Avete presente quel genere di domande che ti aspetteresti da persone e situazioni del genere, ma che speri o meglio ti convinci con tutta te stessa che non ti porranno mai?

Era quel caso.

Sorrisi imbarazzata, le guance mi tradivano. – Figurati… - dissi mostrando quanto più bianco dei denti potessi, accompagnando il disagio con un gesto della mano come a scacciar via quel brutto, bruttissimo suo pensiero. – E poi, anche fosse? – le chiesi paonazza in volto, cercando di mantenere un tono allegro e canzonatorio. Si sbagliava, si sbagliava tremendamente e doveva convincersene, dovevano accettare tutte il fatto che il suo presentimento fosse errato. Di fatto ridacchiarono tra di loro, commentando non troppo a bassa voce il fatto che una come me “così mascolina, i capelli perennemente corti, sbadatella e restia ad uscire con il suo compagno delle superiori, sempre interessata allo studio e così poco ai ragazzi dell’aula” dovesse nascondere un qualche importante segreto, ma no, avevo appena dimostrato a tutte che anche questa piccola ingenua ci sapeva fare. – Dai, ci pensate? Dovremmo stare attente quando andiamo in bagno o quando usciamo dall’università! Anche in classe, qualsiasi gesto potrebbe essere frainteso! – scherzò poco amabilmente una al tavolo, suscitando ilarità generale con tanto di risate fino alle lacrime. Ed io annuivo e ridevo con loro, poggiandomi con violenza allo schienale della sedia e buttando indietro il capo, tenendomi il ventre con le mani.

Il soffitto bianco mi guardava e sembrava diventare pian piano grigio cenere.

Il sorriso rimase ben aperto sulle mie labbra, emettendo di tanto in tanto qualche piccolo suono di falso divertimento.

Cosa c’era che non andava in quel soffitto? L’avevo ridipinto qualche mese prima, tenevo spesso le finestre aperte per far filtrare l’aria in modo che le pareti non ne risentissero, inoltre nessuno fumava quindi non c’era motivo perché si ingrigisse.

Poi l’aria divenne pesante, satura di fumo invisibile, irrespirabile, ed anche i muscoli del volto non riuscivano più a mantenere quell’espressione, rilassandosi lentamente, andando a piegare gli angoli della bocca verso il basso e le sopracciglia verso il centro. Le orecchie si rifiutarono di sentire suoni sgraditi e si formò una cupola di silenzio nella mia mente, con me sola protagonista seduta nel nulla. Potevo osservare quel grigio all’infinito ma nessuna immagine o colore vi si formavano.

Provai a rimettere diritta la testa ed osservare ciò che mi circondava. Ero consapevole ci fossero oggetti e persone in quella stanza, ma ce n’era un’altra che si sovrapponeva ricoprendo tutto di nebbia. Nulla di ciò che mi circondava nella realtà era realmente indispensabile. Decorazioni, fastidiose decorazioni, allora dov’era ciò che era realmente importante?

Una fitta sull’avambraccio mi bastò a riportarmi alla realtà.

La ragazza seduta al mio fianco, per sincerarsi che non fossi crepata dalle risate, mi aveva appena pizzicato la pelle, volgendomi il suo sguardo ebete e ancora singhiozzante dal tanto visibilio. Che gesto carino, riportarmi alla realtà  e distrarmi dal mio mondo interiore, o forse voleva semplicemente altre barzellette con cui dilettarsi. Ma il fenomeno da baraccone aveva ormai capito che era ora di finirla con quella farsa che nulla riempiva, né le tasche di monete lanciate dalla folla né lo spirito di sentimenti travolgenti.

La mano che mi aveva destata era ancora ferma sul mio avambraccio. Non era fastidiosa né pesante, semplicemente inconsistente, fredda, come se non esistesse. Non suscitava nemmeno sensazioni sgradevoli; del resto come può risultare repellente qualcosa di incorporeo per la mente?

Conoscevo qualcosa di molto più elettrizzante, che faceva sentire tutto il suo dolce pesantore, la sua calda presenza al di là di quella parete esterna di fine ghiaccio. E naturalmente tutte quelle sensazioni piacevoli che ne scaturiva.

Dovevo veramente mettere un freno a quella farsa, a partire da chi vi stava partecipando, a partire dagli ospiti sgraditi, per poi dedicarmi interamente all’ultima attrice.

- Bene. – dissi schiarendomi la voce con un colpo di tosse – Si è fatto un po’ tardi, se non vi dispiace adesso vorrei studiare. - Come mi aspettavo, le reazioni furono terribili come all’inizio della visita. Presero a guardarsi tra di loro sconcertate, allargando le mani e girandole verso l’alto, come a chiedere la grazia di aver interpretato male le mie parole. – Che fretta hai? In fondo gli esami sono ancora lontani e ormai non abbiamo più voglia di studiare. – chiese una del tavolo, ostentando un sorriso tremante. Ne sfoggiai anche io uno, molto più convinto. – Intendevo da sola. – e gli sguardi divennero più morbidi e decisamente meno preoccupati. Mi proposero di rimanere a chiacchierare mentre io scribacchiavo e mi divertivo con il mio strano passatempo, ma la mia risposta fu negativa. Il mio soggiorno non era più un salotto, se mi è concesso il gioco di parole. A parlare di trucchi, vestiti, scarpe e zone anatomiche mi stufavo in fretta, specie se le argomentazioni erano pressoché nulle. Che andassero dai loro formidabili ragazzoni a subissarli di simili discorsi, non ero interessata e specialmente non lo ero in quel momento.

Con evidente stizza ma con altrettanta moderazione, si alzarono e riposero le sedie sotto il tavolo, riprendendo in mano le loro care borsette e guardandosi ancora intorno come in principio, evidentemente avevano scordato qualche particolare su cui criticarmi una volta uscite di casa. Per ultima si alzò la ragazza della poltrona, spolverandosi la minigonna ed aggiustandosi bracciali e collanine. Da come si comportava, sembrava fossero decenni che non si alzava da quel posto e doveva ritornare perfetta per qualche evento interessante. Sfoggiarono tutte ampi e falsi sorrisi, salutandomi a turno con i classici baci sulle guance e piegando istericamente le dita delle mani più volte, facendo scintillare anellini e smalto alla luce che illuminava le scale. Aspettai qualche istante sull’uscio per vederle scomparire in processione, capitanate dal loro pastore, e sentire il portone due piani sotto sbattere, rimbombando fino ai piani superiori. Chiusi infine la porta.

Mancava l’ultima attrice. Ero costretta a sbatterla fuori a calci nel didietro, se non avesse collaborato.

Mi recai in bagno ed accesi la luce incorporata nello specchio. Aprii la valvola dell’acqua fredda del lavandino e, mettendovi sotto le mani a conca, mi inondai il viso abbondantemente. Il liquido colò velocemente lungo il collo e le spalle, fino a bagnare la maglietta nella zona del petto. Poggiai quindi le mani sui bordi del lavandino, tenendo il capo chinato ed ansimando, come se avessi appena scampato l’annegamento. Ripresi fiato per poi, finalmente, alzare lo sguardo in direzione della figura che mi osservava al di là del vetro. Dovevo farle un bel discorsetto.

 

- Tu. Ammettilo.

Tutte quelle menzogne… insomma, dove volevi arrivare? Potevi liquidarle dicendo semplicemente che non erano fatti loro, invece hai preferito nutrirle, come si butta le briciole di pane ai piccioni.

Sei soddisfatta? Cos’hai risolto, a parte l’avergli fornito ottime informazioni sugli affari tuoi?

Che poi, in sostanza, sono affari tuoi?

O hai usato una persona nemmeno presente per fare bella figura?

Perché proprio quella persona? Non ce n’era un’altra adatta alla parte? Sicuramente c’era ma tu hai scelto proprio quella. Ti sei fermata ed hai pensato hey, lei sembra proprio adatta per ispirarsi e rispondere alle curiosità di terzi! Ci sono persone che conosci ancora meglio e che, volendo, ti sono ancor più vicine ma lei ti era più congeniale.

E tu lo sai perché, vero? Lo sai, allora dimmelo. –

 

Ma nel momento di doverlo ammettere, mi fermai.

La me stessa nello specchio mi guardava diritta negli occhi, le labbra semiaperte, le sopracciglia aggrottate ed un insolito tic al naso. Un bruciore, più che altro. Quel genere di fastidio che si sente nella parte superiore delle narici quando stai per piangere.

Mi sentivo davvero idiota a parlare guardandomi nello specchio, eppure aveva la sua utilità. Mi urlavo contro esattamente quello che non riuscivo a dire davanti ad altre persone, specialmente quelle verso cui erano indirizzati i miei pensieri. Potevo insultarmi, farmi la predica, spaccarmi la faccia in senso letterale se solo non avessi una fottuta paura del sangue e dei probabili tagli che potevo infliggermi con le schegge di vetro. Mi terrorizzava vedere il liquido che scorreva dentro la mia carne. Per certi versi, mi terrorizzava anche dover sputar fuori la vera me stessa.

Il pizzicore al naso si fermò per qualche istante, quindi ripresi a parlare a quell’altra, davanti a me.

 

- Ok, non vuoi dirlo. Hai le tue paure, è lecito. Hai paura di confonderti con qualcosa di veramente grosso. Ti era mai capitato prima? Forse il soggetto non era propriamente quello del tuo presente, anzi, forse non si potrebbe nemmeno parlare di sincerità. All’epoca in cui ti accadde una cosa simile, fosti sicura, non era quello che pensavi. Per fortuna, direi, avresti fatto una scelta terribile.

E da allora? Ti sei chiusa in te stessa? No, non si tratta di questo.

Sei disinteressata. Non ti vedi come possibile preda, né tenti di essere un predatore. Non hai interesse per nessuno in particolare né cerchi di renderti interessante. Chi potrebbe mai volgere lo sguardo verso di te, mh?

Eppure qualcuno ora c’è. –

 

Ed il formicolio al naso si fece risentire.

 

- Si… qualcuno ora c’è.

Perché ti interessi tanto di dov’è finito quel qualcuno? E’ una presenza cara, ma non solo.

Ti rode forse essere stata abbandonata all’improvviso, senza una particolare ragione?

L’hai capito, ormai, cosa passa nella testa di quella ragazza. Hai capito che le servi. No, non si tratta di sfruttamento, si tratta di qualcosa di più profondo. Sei indispensabile.

…sei indispensabile per qualcuno, renditene conto.

E lei? Lei è indispensabile per te?

Ammettilo, ammettilo che ti stai interessando, che ti stai…-

 

E nemmeno qui riuscii a proseguire. Il concetto era troppo forte per essere spiegato in un dialogo simile, non potevo affrontarlo da sola, avevo assoluta necessità di trovarmi di fronte alla persona per la quale provavo quella che definivo confusione. Ero confusa? No, non lo ero realmente. Avevo solo bisogno di respirare, anche perché le lacrime che mi solcavano il viso sembravano gocce di sangue che uscivano da una ferita aperta lentamente. Ed io avevo il terrore del sangue.

Era ormai inutile cercare approvazione nella figura dello specchio, non mi serviva più un confronto così diretto, era chiaro. Seppur certa di quelle sensazioni, dovevo necessariamente vedermela davanti e confermare una volta per tutte. Oh, come se la conferma non ci fosse già, ma non era ancora definitiva ed ammetto anche di essere stata disturbata da quel genere di…cosa. Non avevo interessi per nessuno in particolare, e nemmeno per nessuna. Nel corso della mia esistenza, più mi guardavo più ritenevo che non fosse necessario, alla mia vita, provare malesseri simili. Secondo la mia visione ed anche senza alcuna esperienza, l’unica cosa certa è che prima di raggiungere quel benessere, si dovesse necessariamente passare per un terribile periodo di dolore. Potevo tentare ugualmente ma non ne avevo alcuna voglia, né speravo che qualcuno mi toccasse la spalla da dietro, così abituata a veder la gente correre senza mai fermarmi a guardarmi.

Quella situazione era strana: ero io a voltarmi ma non indietro, guardavo semplicemente al mio fianco. E lì c’era una persona ad osservarmi silente ma, nella paura, fare qualche passo più in là. La sua mano era rigida e ferma lungo il suo fianco, la mia incerta.

Mi asciugai il viso strofinandolo sul bordo basso della maglietta, spensi la luce dello specchio e mi diressi verso la camera da letto. C’era un telefono cellulare che mi attendeva, ancora muto. Lo presi e composi il solito numero. Avevo bisogno di risposte e di ulteriore calore, come se il mio non bastasse più. Nessuna risposta, come sospettavo, e con violenza lo gettai sul materasso, buttandomi sopra né distesa né seduta. Riguardai lo schermo nero del telefonino, lo sguardo snervato. Sentivo il mio corpo intollerante a qualsiasi superficie, anche all’aria. Soffocavo. Per evitare quella sensazione di apnea forzata, dovevo assolutamente riprovare la chiamata.

Non mi costava molto, bastava cliccare il tasto rosso quando l’operatore telefonico mi avvisava del trasferimento alla segreteria. Era l’attesa di quei pochi secondi di speranza che non potevo più tollerare.

In fondo di trattava solo di convincere quella mano indecisa ad avviarsi verso quell’altra mano rigida e timorosa.

 

- Pronto? -

 

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Capitolo 9
*** 8 ***


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La ragione per cui volevo ricongiungermi a te era di quelle più semplici: sentivo come se ogni cosa che osservavamo fosse dolce. Avevi messo del miele anche in quel tuo sguardo triste, prima di fuggire.

Se non torni qui, nel nostro luogo segreto, cosa ci lasceremo indietro e cosa perderemo in futuro?

La ragione per cui volevo far tacere le tue paure ed abbracciarti era la più luminosa: avremmo visto cose abbaglianti e piene di calore. Avevi acceso un piccolo fuoco in un corpo che non era il tuo, rimasto poi senza alimentazione.

Ero ancora lì, sola, a pensare quale fosse la cosa più giusta da fare, priva di rassegnazione.

Forse desidero troppo. Sarebbe già abbastanza poter stare vicine.

 

 

*******

 

- Pronto?-

 

Eppure c’era qualcosa che non mi tornava.

Dopo tre settimane mi aspettavo una qualche sua notizia, positiva o negativa, un saluto veloce, un come stai. L’emozione di risentirla mi rese incapace di rispondere subito; d’altro canto non era il genere di risposta che mi aspettavo. Il mio numero non era più memorizzato sul suo cellulare? Mi aveva cancellata definitivamente? Visto che c’era poteva anche bloccarmi le chiamate, contando che non sarei stata in grado di sapere se i messaggi erano deviati o meno, mentre se avesse fatto la stessa cosa per le chiamate l’operatore mi avrebbe segnalato l’impossibilità a contattarla. Quindi no, teoria da escludere. Aveva risposto senza vedere il mittente? Forse era di fretta e ha schiacciato il primo tasto che le capitava a tiro, sbagliando. Ma non sembrava fosse affannata, dalla voce. Anzi era piuttosto apatica, come se si fosse appena svegliata.

- Hey? Pronto?- ripeté la voce senza troppa insistenza, non sembrava così importante avere una risposta pronta al suo richiamo. Era tardi ormai, non le importava più nulla di me. O almeno era questo il pensiero più furbo che mi veniva in mente, anche se definirlo furbo lo è ancora meno. Le restanti frasi che frullavano nel cervello non erano ben composte, si cacciavano l’un l’altra, poi tornavano e litigavano ancora, non si decidevano a proclamarne una vincitrice. Se non si fossero date una mossa da sole, sarei dovuta intervenire io.

- Uh… ecco, ciao. - farfugliai atona, guardandomi attorno come se fosse presente e mi stesse osservando, me e la mia pietosa figura. Sentivo le guance diventare calde e piccole gocce di sudore formarsi sulle tempie. Non ero tranquilla, ma la sua risposta poteva tranquillizzarmi, se solo fosse arrivata. Tardava, c’era silenzio dall’altra parte. Forse era il momento sbagliato, forse la stavo scocciando, forse non sapeva come dirmi di non farmi più sentire. Forse. Erano tutte teorie plausibilissime ed in quel momento né lei né altri potevano dirmi il contrario, o non volevano.

Potevo sentire dei mormorii, uno sbadiglio ed un lieve movimento di labbra ma nessuna parola. Erano le sei di sera e non mi pareva un orario così discutibile per telefonare, anche se qualsiasi cosa poteva essere messa in discussione data la mia insicurezza. Per una volta i ruoli erano ribaltati e non ne ero affatto felice. L’ennesimo sbadiglio. – Sei un’amica di Sara? –

Il sospetto che non avesse risposto lei mi era parso banale, ma a quanto pare avrei dovuto tenerlo in considerazione.

E’ a casa di qualcuno? Un’altra sua amica? Chi sarà ad averle donato un nuovo nido? E soprattutto, perché sta rispondendo lei al posto suo? Aveva dimenticato il cellulare a casa sua oppure era lì ad ascoltare, con la voglia di sentirmi praticamente nulla?

- Mh, si, non è disponibile? – le chiesi ostentando la maggior calma possibile, del resto non potevo sapere come avrebbe reagito la nuova arrivata. In risposta ottenni un mugugno che interpretai come scocciato, del dialogo, dei movimenti non meglio identificati ed un sonoro clack. Tu tu tu tu.

Osservai il cellulare come se fosse stato l'apparecchio più disgustoso del mondo.

Cercai di rimettere in ordine i suoni che avevo percepito: sicuramente il telefonino era passato di mano, con parecchia fretta, delle dita avevano fatto scorrere i tasti per poi premere quello di spegnimento. Tutto ciò era stato condito con “che stai facendo… non ti permettere… ma chi ti ha detto che…” se non ricordavo male. Non sembrava molto contenta, quell’altra voce né lo ero io, se non per l’aver constatato che si trattava di una voce familiare. Per un attimo sorrisi, per poi scuotere la testa e tornare a fissare il vuoto, spenta.

Non ero gradita.

Ma mi ci vollero un paio di minuti prima di assimilare per bene quel messaggio, nonostante nulla fosse stato esplicitato e ancor meno reso implicito. Solo il suono continuo della linea telefonica mi parlava con il suo insistente ripetermi che la chiamata era stata interrotta. Non ero affatto soddisfatta, del resto non avevo nemmeno avuto modo di sentire direttamente la destinataria ma almeno sapevo che era in qualche modo raggiungibile. Mi chiedevo se fosse veramente necessario gioire di quel fatto, quando sembrava non ci fosse volontà di dialogo dall'altra parte della cornetta.

Non aveva nemmeno senso stare con il telefono appoggiato sull'orecchio senza reagire, visto che il suono pulsante non cessava e dovevo ricominciare l'operazione da capo. Ne avevo sinceramente voglia? Visto che avevo passato le ultime settimane a tormentarla, era abbastanza ovvio che trovassi il coraggio per scocciarla ancora. Peccato che non tutte le ovvietà di questo mondo si realizzano quando uno se le aspetta. C'era però dell'ovvio in negativo, ovvero una mia molto probabile reazione violenta a quella specie di affronto, cosa che realizzai solo in parte lanciando il telefono sul letto. Non avevo nemmeno la forza di assumere uno sguardo irritato, nonostante la domanda che mi ronzava in testa.

Chi diavolo era quell'altra?

E' ridicolo, pensai, sono diventata improvvisamente gelosa. Poteva essere chiunque, sicuramente non esistevo solo io nel suo mondo, non ero il perno su cui girava la sua vita. Non ero la persona più importante, ne ero convinta. Del resto non mi aveva parlato molto delle altre sue conoscenze, solo piccoli cenni per mettere a tacere frettolosamente la mia curiosità. Frequentava talvolta dei colleghi della galleria d'arte, altre volte prendeva un caffè con gli studenti dell'accademia del posto, nulla di impegnativo né sul fronte tempo né su quello dell'amicizia. Per quel che ne sapevo non aveva rapporti molto stretti e duraturi, piuttosto si poteva dire che avesse più conoscenze obbligatorie che veri e propri amici, anche quei pochi li frequentava di rado. Evidentemente non amava stringere troppi rapporti ma piuttosto alcuni essenziali. Questo metteva a largo rischio anche il mio rapporto con lei, se avessi voluto analizzare la cosa in maniera ben poco positiva. Tutto ciò, però, non rispondeva alla mia domanda.

Chi diavolo era quella?

Il cellulare mi fissava, schermo nero, tastiera usurata. C'era qualcos'altro di usurato: quelle lenzuola sul quale era poggiato, quelle lenzuola nelle quali avevo dormito con lei. Sarebbe più corretto definirle usate, ma tutto mi dava la sensazione che il tempo avesse consumato anche quelle, sebbene il passaggio di una notte non poteva rovinarle più di tanto. E c'era dell'altro, rovinato. Un battito accelerato nel mio petto, un'ansia che mi pervadeva. Tenevo lo sguardo basso a fissare quel giaciglio, quasi ossessivamente, non era confortante né provavo piacere nel rivolgergli lo sguardo ma mi sentivo in dovere di farlo. Avevo bisogno di risposte che si facevano attendere anche troppo.

- Dormirò. - dissi ad alta voce al nulla, almeno quello ascoltava senza dar cenno di negazione. Mi permetteva tutto ed era ciò di cui avevo bisogno. Viziata in quel silenzio, la testa obbedì e si posò sul cuscino. Anche quello, del resto, mi pareva consumato. Il suo respiro e la sua pelle lo avevano reso vecchio e inospitale, anche se più semplicemente volevo immaginarlo così a causa della sua assenza ingiustificata. Non era il solo a sentire la mancanza di alimentazione.

Mi ritrovai a fissare il soffitto, ancora una volta, quel bianco innaturale non rifletteva alcuna immagine interessante. Non avevo nemmeno voglia di abbassare le tapparelle per creare un po' di ombra: avevo troppa paura di ritrovarmi il suo volto dipinto in quell'oscurità. Lei non era luce perché la nascondeva anche a sé stessa, anche se ne aveva, ne ero certa. Il buio avrebbe solo richiamato ricordi che preferivo mettere a tacere e conservare in un cassetto, in attesa di poterli estrarre al momento giusto.

Provai a girarmi sul lato. A destra lo scenario di una scrivania su cui avevo passato le passate settimane, nel tentativo morboso di farmi entrare parole e formule pur di scacciare altri pensieri. Evidentemente non era il momento giusto, avevo fallito miseramente anche in quella prova di forza mentale contro me stessa. La sedia era vuota e spostata dal tavolo, un paio di libri aperti su pagine che non ricordavo, una matita in equilibrio precario sull'orlo. Non che questo paesaggio richiamasse chissà quale ricordo importante. Richiamava solamente il mio tempo perso a cimentarmi in lavori che non ero mentalmente in grado di affrontare.

Mi rimanevano due opzioni: il lato sinistro, dove solo il muro regnava sovrano con la sua penombra, ed il cuscino dove affondare il viso. Soffocare, affondare, annegare. Non erano pensieri da me, probabilmente appartenevano a qualcun altro che ci aveva posato il capo con serenità dopo un intenso pianto. Lacrime di cui non avevo ancora capito il significato. La penombra del muro, del resto, avrebbe sortito lo stesso effetto se avessi creato oscurità nella stanza. Avevo deciso di dormirci su, per l'ennesima volta, e l'avrei fatto con un muro o l'altro. Il muro più spesso ed invalicabile era formato solo dalla barriera di quel cellulare abbandonato sulle lenzuola.

Chi era quella donna con lei? Con chi si stava facendo compagnia? Qualcuna l'aveva catturata a mia insaputa? ...a mia insaputa, poi. Eravamo libere di farci catturare, nessun impegno, nessun legame verbale né di catene, nessuna promessa. Però sentivo le mie ali incapaci di spiccare il volo e speravo che anche le sue fossero nelle mie condizioni. Non amavo pensarla chiusa in una gabbia, ma avrei preferito che se proprio dovesse accadere fosse stata...

Il pensiero si fermò. Non c'era alcuna immagine riflessa su quel muro. Fissavo il solito noioso bianco e quel che vedevo non era altro che solito noioso bianco. Non c'erano spiriti ad infestarlo né manifestazioni scaturite dalla mia mente. Forse il pensiero si era spinto per l'ennesima volta troppo in là. Un rischio che preferivo non correre finché non avrei guardato non il bianco di un muro ma quello dei suoi occhi. Alcune probabilità talvolta sembrano certezze assolute, ma in quel caso era meglio camminare con cautela: avevo appurato che la mia ossessione non era verso la sua presenza ma verso la sua totale persona. Avevo ipoteticamente pestato i piedini per terra per l'avermi privata di qualcosa di caro, ma prima di affermare che fosse un sentimento diverso dovevo avere delle prove dal vivo.

La mia gabbia era ancora vuota, pronta ad accogliere il primo coinquilino dopo una prova di resistenza delle sbarre. Se non erano abbastanza solide si sarebbero spezzate, e con esse il mio essere. Chissà se l'ospite di cui dovevo accertarmi sarebbe riuscito a rimanere in quel rifugio con la porticina aperta o avrei dovuto rinchiuderlo a forza, rendendolo triste per l'eternità.

La maledizione che cadeva sugli amanti rende il tutto inizialmente delicato, per poi tramutarli in predatori ossessionati.

Non potevo ancora definirmi tale, ma la mancanza era così terribile da farmi diventare una belva.

D'un tratto, un suono squillante e fastidioso.

Aprii gli occhi, quelli fisici. Sbattei le palpebre a più riprese, stavo osservando il soffitto. Non mi ero girata? Forse no. Il torpore aveva preso il sopravvento prima del previsto, ma non mi aveva di certo fatta rilassare. Le orecchie non sopportavano quella musichetta irritante, rimbombava dentro la testa ancora assopita e con lei gli occhi, fortunatamente aiutati dalla parziale oscurità che si era formata col passare del tempo. Erano quasi le otto di sera, il sole stava lentamente andando a riposare. Fortunello lui. Io avrei dovuto invece affrontare la provenienza di quel suono.

Il cellulare, oltre a suonare, vibrava e lampeggiava ogni secondo vicino alle mie gambe. Mi sedetti incrociandole, sfregandomi gli occhi con i palmi delle mani. Dovevo farlo tacere ma i sensi non rispondevano molto bene e poteva fottersi, lui ed il mittente della chiamata. Mi piegai in avanti per leggere con la vista annebbiata il nome del chiamante. Li spalancai e mi affrettai a confermare la chiamata.

Poggiai il telefono sull'orecchio sinistro, pronta a chiedere chi fosse, pur avendolo appena letto. Aprii la bocca per farlo, peccato che il fiato mi si spezzò in gola. L'entusiasmo aveva compiuto il suo dovere per pochissimi secondi, l'ansia era tornata a farmi visita, compagnia poco piacevole. Non sapevo cosa dire esattamente, se un “finalmente” o far finta di niente, o attendere, che pareva la scelta presa anche dall'altra parte. Sentivo il respiro regolare dell'altra persona, sperando fosse quella scritta poco prima sullo schermo. Attesi.

- Ciao.- fu la risposta atona e timida che ricevetti. La cosa non mi fece sorridere come mi aspettavo, ma almeno la voce era quella che volevo sentire. Trassi alcuni profondi respiri prima di rispondere un altrettanto piatto: – Ciao.-

- Come stai? - una domanda difficile, questa volta attesa, evidentemente voleva portare il discorso su toni normali senza parlare del punto focale della situazione. - Bene, e tu?- mentii, non ero né felice né triste, almeno finché non avessi avuto le notizie che desideravo. La risposta si fece attendere, ne aspettavo una simile alla mia per non metterci entrambe in difficoltà al primo incontro vocale dopo settimane di assenza. Avevo domande molto più intelligenti da porle, rimbalzavano nel cervello in modo fastidioso ma non volevano ancora uscire dalle labbra. Passarono un paio di minuti in completo silenzio, la situazione stava diventando imbarazzata e non eravamo ancora pronte per un colloquio serio, o almeno era la mia sensazione. Cominciai a diventare nervosa, mordendomi l'interno bocca con ingordigia, sentendo diversi liquidi mescolarsi tra lingua e denti, mentre con l'indice della mano destra andavo a grattare gli angoli dell'unghia del pollice. Avessi avuto sotto mano carta e penna avrei fornito ad uno psicologo materiale per un'analisi approfondita sulla mia persona.

- Ti va di uscire stasera? -

Se mi andava di uscire? No, non proprio. Un'altra domanda difficile ed inattesa, totalmente spiazzante da farmi assumere uno sguardo ben poco vivace. Tra tutte le cose di cui potevamo parlare, tra tanti argomenti che avevano sicuramente la precedenza, proprio di uscire dovevamo discutere. Non ero tipo da andare in giro per locali di sera, le rare volte che ci avevo provato ero rimasta basita dal comportamento della tribù notturna e non mi eccitava stare davanti ad un cocktail a parlare. Il mio genere erano le caffetterie nel primo pomeriggio, per ritirarmi nel nido verso l'imbrunire. - Perché vuoi uscire? - ma potevo più semplicemente chiedere dove voleva portarmi. Amavo le difficoltà.

- Così... - disse a bassa voce, abbastanza da percepirla chiaramente. La immaginai alzare le spalle mentre me lo proponeva. - Per vederci. Se vuoi. Se ti fa piacere. - continuò poco dopo, con la stessa tonalità. Non sembrava affatto entusiasta, una proposta simile fatta da altri con questo tono l'avrei subito rifiutata, se non mi si coinvolge in un primo momento difficilmente avrei seguito un invito. Questa però era un'occasione d'oro da una persona interessante, anche se ammazzava qualsiasi voglia per il modo in cui l'aveva chiesto. Volevo e mi faceva piacere, d'altro canto non volevo darle la soddisfazione di mostrarle queste sensazioni. - D'accordo. Vieni qui da me?-

- No.- fu la risposta frettolosa. Forse la metteva a disagio stare sul portone del condominio ad aspettarmi, figurarsi entrare in casa. Forse era proprio me che non voleva vedere prima di trovarsi in un posto piacevole per lei. Del resto era ormai sera, sarebbe stato più pratico trovarsi direttamente dove voleva. - Vieni in quel bar in centro, - qualche secondo di pausa – quello che fa i frappè alla fragola che ti piacciono tanto.-

Ah, quel locale. Come poterlo scordare. Molte cose erano iniziate su uno di quei tavoli. Tono a parte, le parole che aveva scelto per invitarmi mi fecero piegare leggermente gli angoli della bocca verso l'alto. Era un modo carino per dirmi che il posto sarebbe stato piacevole anche per me, ne ero convinta e volevo puntare tutto su questa certezza. - Alle dieci, che ne dici? - le chiesi, sentendo un mh-mh di risposta. Mi bastava al momento. Ci salutammo senza particolare emozione, il sonoro clack della chiamata interrotta mi fece tornare alla realtà.

Avevo un appuntamento con Sara dopo diverse settimane e mi sentivo una ragazzina alla prima uscita con il proprio fidanzatino, e l'espressione del viso e le mie movenze tradissero questa sensazione. Cercavo di controllarmi il più possibile senza far gesti come dondolare le braccia allegramente, saltellare mentre mi dirigevo in bagno e canticchiare motivetti senza copyright mentre mi sciacquavo il viso. Cose che avrei potuto fare tranquillamente se non fosse per quella punta di nervosismo che albergava nei miei pensieri. Mi dovevo comportare come se non fosse accaduto nulla di che o dovevo mettere in mostra ciò che realmente sentivo? Dovevo rimanere distaccata e non darle la soddisfazione di aver sentito la sua mancanza, oppure farle intendere che la sua fuga mi aveva ferita? Sarebbe bastata l'acqua del rubinetto del bagno a lavar via quelle sgradevoli sensazioni di insicurezza, se solo fosse stata un potente acido che scioglieva tutto al suo passaggio. Il liquido trasparente non aveva questo potenziale, purtroppo.

Optai per una semplice maglietta senza loghi particolari e dei jeans un po' logori, non dovevo presentarmi ad un gran galà in abito da sera e non credevo che Sara apprezzasse più di tanto. Non conoscevo, non ancora, i suoi gusti in fatto di vestiario, solitamente le sue mise erano piuttosto sportive ed essenziali, nessun fronzolo particolare. Volevo tentare di abbassarmi ipoteticamente al suo livello, anche per comprendere meglio il suo essere. Quindi nulla che fosse studiato al dettaglio, niente che desse nell'occhio. Non sono mai stata al centro dell'attenzione né volevo esserlo quella sera. Doveva essere una serata tranquilla e spensierata, senza troppe preoccupazioni.

Era quanto speravo, ma ciò che mi tormentava più di tutto era come guardarla negli occhi.

 

***********

 

Una lunga camminata attraverso un viale alberato abbastanza illuminato, persone attorno a me che chiacchieravano animatamente, alcuni schiamazzi di ragazzine ben abbigliate per una probabile serata in discoteca, coppiette a braccetto. La normale popolazione di un sabato sera, ed io che mi mimetizzavo tra tutti loro. Non appartenevo a quella folla, li osservavo di sfuggita disinteressata, avevo un luogo in cui dirigermi e la mia mente era completamente assorbita dal percorso più breve da prendere. Nessuna particolare fretta, un leggero groppo allo stomaco che riuscivo a stento ad ignorare ma che sarebbe sparito, o aumentato, appena sarei arrivata al locale. La luna faceva capolino al di sopra delle alte case popolari, il rumore delle macchine e della poca natura circostante riusciva ancora a troneggiare su tutte quelle voci estranee, ciò era un bene considerando che talvolta mi distoglievano dal mio pensiero fisso. Dopo tre settimane ed una chiamata andata in porto, il cervello non aveva ancora elaborato un buon piano di fuga da quel tormento. Forse sarebbe accaduto qualcosa nel momento in cui l'appuntamento sarebbe cominciato.

Il cielo era sgombro di nuvole, solo un leggerissimo vento soffiava con pause irregolari ma non era fastidioso. Con me avevo solo il cellulare ed il portafoglio, volevo credere più all'istinto che all'annunciatore meteo che prometteva piogge serali in zone isolate. Mai fidarsi dell'omino del tempo quando sei cresciuta in campagna e sei ben abituata a scrutare l'orizzonte. Quella era l'unica sicurezza del momento, inutile ma abbastanza per farmi smettere di pensare anche solo di poco al mio essere in anticipo. Forse ritardare non sarebbe stata una cattiva idea, del resto avevo atteso tanto e poteva far bene anche a lei stare un po' in pensiero. Purtroppo non ero portata ad essere così vendicativa ed odiavo dover accampare delle scuse per non essere arrivata in orario.

Il viale si apriva su di una piazzetta, da cui svariate strade prendevano vita. Destra per qualche metro, poi sinistra: conoscevo bene il tragitto, non si trattava del mio locale preferito ma mi era rimasto abbastanza impresso da ricordarne il percorso. Notai che diverse persone andavano nella mia stessa direzione, altri allegri gruppi di giovani sorridenti ma meno rumorosi. Non stetti ad osservarli più di tanto, anche se tra di loro poteva nascondersi il mio bersaglio. La via non era pedonale ed i marciapiedi stretti, passavano poche vetture nel mezzo e molti camminavano direttamente in mezzo alla strada, non curanti del possibile pericolo. L'insegna lampeggiante del locale era ormai ben visibile, si potevano leggere indistintamente le lettere che ne formavano il nome, luce bianca e rossa ad intermittenza.

Mi fermai a pochi metri dalla porta d'ingresso, estraendo il cellulare e provando una chiamata. Sospirai scoprendo che il mittente aveva spento il telefonino, in parte aspettandomelo ed aspettandomi anche la mia resa di fronte a quella situazione. Forse sarebbe spuntata da un momento all'altro alle mie spalle, facendomi sobbalzare dallo spavento e poi dalla crisi nervosa per la mia incapacità ad affrontarla. Forse non si sarebbe affatto presentata, presa da tutt'altro interesse oppure da semplice timore che la tormentassi anche dal vivo, più di quanto avevo tentato di fare per via telefonica. Tutte probabilità molto fattibili. Le avrei concesso una mezzora buona per farsi avanti e, nel caso in cui non si fosse fatta viva, avrei abbandonato la missione per un buon riposo casalingo.

Attraversai quindi la strada e mi poggiai al muro. Trascorsero dieci minuti abbondanti. Li contai mentalmente, secondo per secondo, per passare meglio il tempo. Non mi andava di allungare l'orecchio verso i discorsi dei miei vicini di marciapiede, né stare ad osservare chi entrava e chi usciva dal locale. Mani in tasca e piede che batteva il tempo sull'asfalto, mi passò completamente la voglia di aspettare ancora e stavo seriamente mettendo in conto di girare i tacchi verso casa, anche se l'idea di trovarmi da sola là dentro non era certo migliore della solitudine di quegli istanti in mezzo a tanti sconosciuti. Pregai me stessa di portare ancora un poco di pazienza, tenendo impegnata la mente immaginandomi attaccar bottone con un gruppo di ragazzi in attesa di entrare. Ah, come sarebbe stato bello essere un po' più sociale e molto meno misantropa in certi momenti. Non che odiassi realmente chi mi stava attorno, ma non mi servivano letteralmente a qualcosa o, almeno, al qualcosa di cui avevo più bisogno. Desideravo solo un po' di pace, senza necessariamente evitare un conflitto di qualsiasi genere, ero pronta ad uno scontro di sguardi nudo e crudo da far atterrire almeno una delle due parti.

Lo scontro non si fece attendere più, nove metri di distanza dall'altra parte della strada. Pareva che fosse cominciato da tempo ed ero l'unica a non essersene accorta. Sara stava lì, appoggiata al muro e mani in tasca, a fissarmi con occhi stranamente vivi senza staccare il contatto visivo per un momento. Cosa che invece feci io appena mi accorsi della sua presenza, fissando interessata il marciapiede in basso a sinistra, subito dopo aver spalancato le palpebre per lo stupore. Intrecciai le mani tra loro, non tremavano ma le dita erano inquiete e premevano la pelle, formando diverse pieghe come increspature dell'acqua. Il piede che batteva il tempo si fermò e premette contro il terreno, come a volercisi aggrappare facendo sprofondare il tallone e la punta. Sicuramente il suo sguardo continuava a rimanere fisso sulla mia persona e ciò, no, non aiutava di certo l'ansia che faceva capolino. Avevo paura di constatare la mia sensazione, ma dovevo pur prendere coraggio ed attraversare la strada.

- Hai freddo?- chiese una voce improvvisamente vicina a me. Ciò che non ero riuscita a fare per la mia mancata audacia l'aveva fatto lei, fortunatamente e stranamente. Era a circa mezzo metro di distanza da me, le mani ancora in tasca, il resto non lo scorgevo perché tenevo insistentemente lo sguardo basso. I marciapiedi sono estremamente interessanti se si

osservano a lungo, si possono scoprire tante piccole crepe che paiono riproduzioni in miniatura dei mosaici dipinti da Klimt, solo che mancava il suo classico tocco dorato. Ripassare storia dell'arte era l'attività meno indicata per levarmi dallo stomaco quel masso invisibile. - Si, un po'. Entriamo?- chiesi abbozzando un sorriso nel bel mezzo del mio volto imbarazzato. Anche le sue scarpe catturavano l'attenzione, oh come erano coinvolgenti i laccetti bianchi su quella forma di tela nera. Si, ok, dovevo smetterla ed in fretta. Sempre con lo sguardo basso, la sorpassai e constatando che non arrivassero automobili attraversai la strada, aspettandola davanti alla porta d'ingresso.

Se stavolta scappo io, non la riprendo mai più.

Sentii dei passi dietro di me, così mi girai verso sinistra ma di lei nessuna traccia. Non poteva essere scappata, altra sicurezza non ancora contraddetta, così sbirciai all'intero del locale. Le luci erano soffuse tranne che all'angolo bar, si sentiva la musica anche all'esterno, non era rumore insensato ma qualche pezzo storico anni Ottanta. Sorrisi senza sforzo questa volta, era di mio gradimento. Ai tavoli si potevano vedere i gruppi che mi avevano preceduta, alcuni sedevano in coppia, altri erano si erano accomodati ai divanetti negli angoli dietro lunghe tavolate imbandite di cocktails e aperitivi. C'era però qualcosa di insolito che non mi spiegavo: l'atmosfera non era poi così diversa dai rari locali in cui ero stata e le persone che lo popolavano non avevano nulla di così particolare, ma non riuscivo a capire bene al di là del vetro. Mi incuriosiva quella folla animata, nonostante il mio essere restia dal buttarmi in mezzo a così tanta umanità.

Una mano sulla spalla destra mi destò dal mio osservare. - Ti dà fastidio?- mi chiese Sara, cogliendomi impreparata sulla risposta. Cosa c'era di fastidioso? La sua mano che mi richiamava all'attenzione? Il vento che si era alzato e mi pizzicava la pelle? Nessuna delle due ipotesi, nemmeno il suo sguardo intenso ma quieto diritto nei miei occhi. I miei spalancati, invece, mi mettevano enormemente a disagio. Non era la reazione che desideravo, non nei suoi confronti, l'avermi presa alla sprovvista però non aiutava quella sensazione sgradevole al petto. Scossi il capo, roteando lo sguardo a destra ed a sinistra prima di tornare sul suo che non accennava a distaccarsi. Per un attimo si volse verso la vetrata, per poi tornare su di me. - Allora vieni, - disse con il suo solito tono pacato, facendo scivolare la mano dalla spalla alla mia – ti faccio conoscere un po' del mio mondo.-

Era calda come la ricordavo, pelle contro pelle, una stretta gentile a guidarmi all'interno, il viso rivolto in avanti, la sua schiena a farmi da scenario. Un brivido, questa volta non di freddo, ad attraversarmi la colonna vertebrale. Non ricordavo mi avesse mai donato una sensazione simile, seppur involontariamente; era una sorpresa piacevole e mi lasciai inebriare senza opporre resistenza. Trattenni a stento l'ennesimo sorriso sentito, volevo mostrarglielo guardandola direttamente e soprattutto non in quel momento. La vista era concentrata tutta sulla sua persona di spalle ed i pensieri sul suo fare premuroso e l'incedere lento in mezzo ai tanti tavoli. Mi lasciai sfuggire uno sguardo piuttosto veloce al di fuori della sua figura, per evitare di perdermi lo spettacolo che mi forniva, e purtroppo fui subito assorbita dal resto del panorama.

Il fastidio a cui si riferiva riguardava l'interno del locale. Non ai cocktails, non all'arredamento, ma ai suoi abitanti. Ai tavoli vi erano esattamente le persone che avevo osservato da fuori, ma più da vicino potevo vedere chiaramente ragazzi che si tenevano per mano tra loro, donne che si scambiavano lievi carezze mentre ridevano con altri amici, abbracci affettuosi tra persone dello stesso sesso in punti ben illuminati e non nell'ombra degli angoli più nascosti ed intimi. Ciò che mi era sfuggito all'esterno e che tentavo di capire era ora lampante e travolgente: il luogo a cui ero abituata si era trasformato in una serata a tematica omosessuale e non ne ero entusiasta. O meglio, non trovavo nulla di così raccapricciante che mi facesse scappare via urlando, non ero semplicemente abituata ad una situazione simile, anzi ero una completa neofita. Nessuna delle mie conoscenze aveva mai proposto un'uscita simile, ne avevo certamente sentito parlare ma trovarmici nel mezzo mi metteva quel poco di soggezione che si prova ad ogni nuovo evento inaspettato.

Sara continuava ad avanzare verso il fondo dell'ampia stanza di ristoro ed io volevo frenare la sua corsa in qualche modo, cosa che non mi riuscì affatto. Volevo spiegazioni. In verità non ne avevo bisogno. Mi sentivo come una bambina a cui avevano promesso il parco giochi con lo zucchero filato e invece veniva portata al cinema coi pop corn. A me era stato promesso un frappè alla fragola. Bè, in qualche modo l'avrei ottenuto anche se condito con quella sorpresa.

Una ragazza fermò Sara nel bel mezzo della stanza: - Ciao! Da quanto tempo! Come mai non sei più venuta?- le chiese tutta sorrisi e bacetti sulle guance, osservandola raggiante ed attendendo una risposta. - Ho avuto da fare.- non la fece tardare ed ammetto una punta di fastidio nel notare che il tono usato con quella era molto più vivo di quando si rivolgeva a me. La ragazza continuò il suo discorso a senso unico condendolo con degli “uffa” e dei “però” su quanto fosse mancata e non mancata, di come la serata non era la stessa senza di lei e via dicendo, finché non notò che c'era qualcuna aggrappata alla sua mano e mi volse il sorriso. - Oh, sei in compagnia, - disse rivolta a Sara ma con lo sguardo su di me – e questa carina dove l'hai trovata?-

Me lo chiedevo anche io, ma non feci in tempo a formulare una risposta adeguata che sentii uno strattone alla mano e la mia accompagnatrice riprese il cammino da dove ci eravamo fermate. Ricambiai imbarazzata il sorriso, vedendo quello della nuova arrivata sciogliersi come se la mia presenza non fosse gradita, o forse era delusa dal non essermi fatta presentare dalla sua conoscenza. Mi ero messa il cuore in pace e ormai potevo aspettarmi anche quel genere di mosse, pur non sapendo come reagire.

Arrivammo dunque ad un tavolo libero nella penombra, proprio in uno di quegli angoli che definivo intimi e fuori dalla portata di occhi indiscreti. Non temevo chissà quale intenzione per l'aver scelto un luogo così appartato, avevo fiducia nel suo voler semplicemente parlare con tranquillità senza troppe scocciature. Lo speravo, almeno, visto che pareva abbastanza conosciuta in quel luogo, qualche sventolio di mani in segno di saluto l'avevo notato anche se non ci eravamo fermate a ricambiare tutti. Soprattutto tutte.

- Ti conoscono in tanti, qui dentro. - dissi cercando di mantenere un tono piacevole, mentre prendevo posto sul divanetto a ridosso del muro. Il suo sguardo era altrove, basso, mentre il mio era direzionato a metà tra il suo viso ed il suo collo, non riuscendo ancora a fissarla negli occhi e non sapendo bene cosa guardare per non sembrare troppo scortese. Esitò nel sedersi davanti a me su di uno sgabello di pelle nera imbottita, osservando il posto al mio fianco, per poi prendere per buono il posto iniziale. - Già, - dopo essersi seduta, mise le mani incrociate sotto il mento ed i gomiti sul tavolo – purtroppo.-

- Perché purtroppo?- insistetti. Come da mia analisi personale, non pareva una persona molto dedita alla socializzazione, ma addirittura soffrire l'essere riconosciuta e conosciuta da qualche persona in un locale mi sembrava un'esagerazione. E lo pensava una che non riusciva a sopportare nemmeno le compagne di università, tra l'altro.

Prese il menù delle bevande che era poggiato sul tavolo, sfogliandolo distrattamente. Con una mano lo teneva dal retro e con l'indice dell'altra scorreva sui nomi scritti in caratteri corsivi all'interno. - E' noioso. - sembrava essersi fermata su una scritta in particolare al fondo della pagina, muovendo le labbra lievemente nel leggerne il nome. - Attirare l'attenzione di persone insignificanti in un ambiente simile, è noioso. - chiuse dunque il libretto, poggiandolo nuovamente sul tavolo e facendolo scorrere verso di me, tenendo le dita ancora premute sulla copertina. Sguardo basso su di essa, probabilmente in attesa che dessi un'occhiata anche io. Sinceramente mi interessava più osservare lei che una lista di miscugli che gradivo a stento. Le mie labbra erano semiaperte in attesa che una qualche domanda intelligente facesse la sua comparsa, ma si trattava più che altro di curiosità personali, non volevo metterla in difficoltà per soddisfare la mia sete di conoscenza riguardo il suo modus vivendi. Ero bugiarda nei miei stessi confronti, volevo conoscere il suo pensiero a riguardo ma preferivo attendere che fosse lei stessa a proseguire.

Alzò il capo in mia direzione, il suo viso era assolutamente rilassato ma non si poteva certo dire fosse sereno. Gli occhi erano socchiusi quanto la bocca, le spalle cadevano mollemente e le braccia non avevano muscoli tesi, la mano posta sopra il menù aveva allentato la sua pressione. - Che ne pensi? - chiese in tono basso, che percepii con difficoltà a causa della musica che rimbombava nella stanza. La domanda lasciava aperte diverse interpretazioni, stava soltanto a me scegliere quella giusta: poteva riguardare le persone insignificanti da lei menzionate, o la noia di essere conosciuta, o l'ambiente stesso. Tentai una risposta riassuntiva: - Credo non si possa pretendere di conoscere solo chi ci serve realmente. Tutti, a modo nostro, contribuiamo alla formazione del prossimo. In ogni caso, posso immaginare che sia fastidioso essere richiamati da chi non ci fa piacere, specie in un ambiente a noi congeniale.-

Speravo di averla soddisfatta, anche se ritenevo di essere stata fin troppo filosofica e di aver usato parti di frasi fatte che io stessa odiavo. Essere ovvi e scadere nei cliché lo ritengo terribile, seppur talvolta inevitabile, ed io ci ero cascata in pieno. In tutta risposta ricevetti uno scuotimento di capo. - Intendevo qui. - indicò con il pugno chiuso ed il pollice teso verso le sue spalle – Come ti sembra questo posto?-

Mi guardai attorno prima di rispondere. La musica si era lievemente abbassata e potevo sentire meglio il chiacchiericcio dei ragazzi al tavolo. Evitai di soffermarmi ad osservare le varie coppiette, avevo già visto abbastanza ed in fondo non c'era nulla da analizzare come cavie da laboratorio. - C'è un bel clima, qui. Non me l'aspettavo, cioè, non pensavo diventasse così... di sera. - e, non sapendo più cosa aggiungere, feci un gesto a spirale con la mano ad intendere che il locale aveva subito una sorta di trasformazione. Mi sfuggì un sorriso a labbra strette, la mia teatralità era imbarazzante e pensavo fosse stata quella a far ridacchiare Sara sommessamente. Non feci in tempo a chiederle il motivo di quel guizzo di divertimento che il cameriere si presentò per prendere le ordinazioni. Le uniche cose ovvie della serata erano il mio frappè ed il suo caffè, tutto il resto era ancora un grande mistero.

Il ragazzo segnò il tutto su un block notes e scomparve, non prima di averci promesso l'arrivo immediato delle bevande con un grande sorriso. Risposi in modo altrettanto gentile, per poi rivolgermi nuovamente alla mia interlocutrice appena se ne andò. Aveva assunto una posizione diversa nel mentre, le gambe accavallate molto larghe, un braccio allungato e poggiato su di esse e l'altro con il gomito sul tavolo e la mano vicina alle labbra, un dito morso tra i denti. Sorrideva guardando l'angolo formato dalla parete alle mie spalle. Sembrava molto più a suo agio di quando ci eravamo incontrate sul marciapiede. Volse poi lo sguardo a me, senza girare il capo, togliendosi il dito dalle labbra e poggiando l'intera mano a sostegno della mascella. - Non c'è stata alcuna trasformazione. - si fermò, roteando gli occhi per poi tornare ad osservarmi – Questo locale è sempre stato un ghetto. -

Quelle parole mi ferivano, pur non essendo la vittima diretta di tanto cinismo. O forse si. Sicuramente non ero stata io a decidere di ideare dei luoghi appositi per gli incontri omosessuali, ma non avevo nemmeno contribuito a fare in modo che non esistessero. Né l'avevano fatto i clienti stessi di questi ritrovi. Più di tutto mi aveva sconcertata il fatto che il locale che tanto amavo fosse un recinto per animali socialmente inaccettabili. Peccato che i veri animali si nascondevano su entrambi i fronti, pronti a disturbare la quiete per puro piacere dell'odio. Ed io non ci vedevo nulla di male in tutto ciò, pur provando quel momento di disorientamento alla notizia, pur non capendo come quel luogo potesse essere quel che stavo vedendo a tutte le ore del giorno. Ero l'unica vera estranea e non avevo il diritto di criticare, ma prima di tutto avrei fatto un torto a Sara, ai proprietari del locale, alle persone presenti.

Ed in parte anche a me stessa.

- Sebbene concordi con il definirlo un ghetto, pensavo fossi più entusiasta di essere circondata da persone con il tuo stesso pensiero. - cercai di smorzare i toni con una constatazione amichevole, ma non pareva fosse dello stesso parere. - Io entusiasta? Non so che film tu abbia visto. Ti ho portata qui solo per farti conoscere una parte di ciò che mi ha cresciuta, non per farti assaporare quest'atmosfera. - prese una lunga pausa, piegando un tovagliolo di carta estratto dal contenitore metallico sul tavolo, dandogli una forma indefinita. La mia reazione si faceva attendere, quindi proseguì, alternando lo sguardo alla sua piccola opera ed al mio viso: - Un tempo frequentavo questo genere di luoghi per sentirmi a posto con me stessa, fuggire dal bigottismo di tutta quella gente là fuori e ritrovarmi in una grande famiglia allargata. Pensavo fosse l'unico modo... - ulteriore pausa, questa volta fissò intensamente il tovagliolo spiegazzato, passandoselo lentamente di mano in mano come se il gesto potesse donarle maggior concentrazione - ...l'unico modo per sentirmi apprezzata ed imparare ad apprezzare.  Almeno finché non sono resa conto che buona parte di questi simili, da me, cerca il solito monotono divertimento.-

Il suo essere per la seconda volta molto loquace, da quando la conoscevo, mi elettrizzava su più fronti. Avevo una piccolissima dose del suo cuore in mano, ma poteva anche essere l'ultima goccia. Ero terrorizzata dal suo aprirsi, sembrava piuttosto naturale ma era l'ennesima cosa a cui non ero abituata, poteva celare una notizia sconcertante come quella di confidarmi i suoi ultimi pensieri prima di allontanarmi definitivamente. Positività, vieni a me. Avrei davvero desiderato diventare la paladina dell'ottimismo anche solo per un attimo, pur di rendere meno enigmatiche le sue affermazioni. Avevo compreso buona parte di ciò che mi aveva detto, sul cosa desiderassero da lei certi individui, sul perché si sentisse a proprio agio e poi la noia che l'aveva colta a causa della ripetitività di attività poco sentimentali. Quel che ancora rimaneva al buio, e non solo di quell'angolo di stanza, era il motivo per cui dovesse sentirsi apprezzata. Non pareva il genere di persona che avrebbe scalato un grattacielo solo per poi buttarsi da basso se nessuno avesse riconosciuto il suo valore, anche se in quella famosa notte mi aveva confidato il suo sentirsi bene per il solo fatto di avere il mio ascolto disimpegnato. Forse aveva imparato molto dalle sue esperienze passate, che non conoscevo direttamente, e ultimamente aveva un enorme bisogno di ritrovare stabilità. Non potevo permettermi di traballare di fronte alle sue affermazioni.

- Dunque, cosa desideri da me?- le chiesi con un tono piuttosto serio, incrociando le braccia e poggiandole a bordo tavolo, avanzando col petto in sua direzione. Una domanda così spregiudicata ed allo stesso tempo così semplice: avrebbe avuto il coraggio di zittirla o sarebbe scappata nuovamente, non in senso fisico? Il risultato iniziale fu un suo spalancare di occhi e l'inclinazione delle labbra verso il basso. Troppo, troppo audace. Quella piccoletta biondina aveva sorpassato la sua linea di difesa e la stava disarmando completamente, controllandola con lo sguardo ed un punto interrogativo molto impegnativo. Avevo tutto il diritto di comportarmi così, del resto sono sempre stata schietta con lei, pur nascondendo talvolta le vere domande che volevo rivolgerle. Ormai il gioco era durato a lungo, non volevo porgli un fine ma semplicemente lanciare una buona mano di dadi per sbloccare la situazione.

Il suo sguardo rimase teso ancora per qualche istante, finché si ammorbidì con una punta di esitazione. Le mani continuavano a trovare interessante il gioco con il povero foglietto di carta, senza mai stropicciarlo con cattiveria, mentre si poteva notare altrettanta incertezza nel suo respiro irregolare. L'avevo decisamente turbata e non mi dispiaceva, la necessità di conoscere le sue intenzioni era prima perfino all'evitare di metterla a disagio. Mi osservò ancora per un attimo, per tornare ad osservare il tovagliolino con occhi socchiusi.

- Sai, mi fa male risponderti perché non ho una risposta soddisfacente. - riportò lo sguardo a me e lo abbassò nuovamente, deglutendo – Non credo di essere in grado di fornirti una spiegazione completa, l'unica certezza è che mi fa male. - Sembrava non saper bene in che direzione guardare, incurvando le spalle verso il petto come a proteggersi. Mi aspettavo che le circondasse con le mani, tanto la sua figura era fragile in quel momento. Desideravo insistere, lo volevo fortemente, ma il suo inclinare ulteriormente il capo verso il basso fece arretrare qualsiasi crudeltà nei suoi confronti. Ovviamente non comprendevo il dolore di cui parlava, se fisico o spirituale, ero solo certa della mia improvvisa voglia di avvicinarla a me e troncare ogni possibile domanda. - Tu, invece, perché mi hai cercata?-

Interessante, pensai. Rispondere ad una domanda con un'altra domanda, evitando la prima. Sicuramente non aveva reagito volontariamente, non dava l'impressione di voler fuggire almeno in quella situazione e la voglia di domandarle perché l'aveva fatto in precedenza tornò insistente. Ma era davvero troppo piazzarla in uno status peggiore di quello. - Eri fuggita senza una ragione rilevante e mi sentivo in dovere di fermarti. Tu eri fuggita, e mi avevi abbandonata. Non ti odio per questo ma, lo ripeto, tu eri fuggita. - e nascosi così una domanda implicita nel mio insistere su quel punto.

- Sono fuggita perché temevo di perderti. -

Il peso allo stomaco si fece più grave.

Deglutii più volte, fissandola con occhi spalancati. Correva via da me mentre ero io quella che, potenzialmente, avrebbe potuto scappare. Aveva messo le mani avanti per proteggermi, o forse proteggere se stessa. O entrambe. No, ne ero ormai sicura, aveva agito non per lei, non me per, ma per Noi. Un Noi che ancora non si era formato ma che era in qualche modo cresciuto da quell'istante, sebbene non volessi ancora accettarlo pur avendolo appurato nel confronto con me stessa. Un gesto estremamente dolce.

Mi sporsi più avanti, alzandomi di poco dal divanetto, catturando la sua mano sinistra libera. La tirai verso di me con gentilezza, suscitando un deciso turbamento nella sua persona che esitò inizialmente, per poi avviarsi docilmente dove avevo intenzione di posizionarla, al mio fianco, più vicina al corpo e alla vista. Feci il tutto senza un'espressione particolare ma, quando fu piccola ed insicura alla mia portata, le sorrisi. Probabilmente si aspettava una qualche mossa altrettanto audace e dovette attendere davvero molto perché questa non arrivò. La volevo semplicemente coccolare con una presenza più tangibile, più calorosa. - Se non vuoi perdermi davvero, allora cerca di starmi più vicina. Ho avuto freddo in queste tre settimane.- mi avvicinai di più al suo viso, sorridendo ulteriormente al suo imbarazzo, per poi accostare le labbra al suo orecchio – E' stato terribile senza te.-

- Anche se ho tradito il tuo abbraccio?- chiese a tono basso, ma abbastanza da poterlo sentire da quella distanza. La musica del locale era ormai lontana dal nostro piccolo nucleo invisibile ed i suoi occhi timidi, che mi guardavano da lato, non facevano altro che aumentare la fortezza di quella barriera. Passai un braccio attorno alle sue spalle, appoggiando la fronte all'incavo del suo collo. Non si mosse di un centimetro, ora potevo sentire indistintamente il suo sangue pulsare in modo accelerato ed il suo respiro per nulla regolare soffiare sul mio collo. - Ti dovrei uccidere per questo ma non ne ho il potere. Posso sentirmi solo estremamente gelosa? - chiesi, sperando che non percepisse il calore provocato dal rossore delle mie guance.

Altra saliva percorse duramente la sua gola, accompagnata da leggeri movimenti di mascella e di labbra. Lo percepivo dal fatto che erano parzialmente appoggiate al fianco del mio viso. Alzò lentamente il braccio libero in direzione della mia schiena, titubante, per poi optare ad appoggiare la mano tra il fianco e la coscia. Quel tocco era delicato e premuroso, come se un solo movimento errato potesse ferire la mia carne. Tutto quello scrupolo continuava a renderla fragile e amorevole allo stesso tempo e, in tutta risposta, sfregai lentamente il capo contro il suo collo per rassicurarla, anche se una mossa simile poteva essere facilmente fraintesa. - Ho cercato conforto altrove, - rispose scandendo bene le parole – ma mi rendo conto che non mi tranquillizzava quanto stai facendo tu ora. - Inclinò quindi il capo verso la mia spalla, portando finalmente quella timida mano sulla mia schiena, stringendomi forte ma senza levarmi il fiato. Avrei sentito la maglietta inumidirsi da un momento all'altro o l'avrei fatto io con la sua? Trattenersi sembrava un enorme sforzo per entrambe.

Era una dichiarazione in piena regola, seppur implicita, ma ancora non ci bastava.

- E poi, - intervenne improvvisamente, alzando il viso e scostandomi in modo che anche io la guardassi – se mi ammazzi adesso risolveresti un sacco di problemi. Quella che mi ha salutato quando siamo entrate, ogni tanto si fa sentire. Non so quanto ti convenga tenermi in vita.-

Spalancai gli occhi. Sara stava scherzando così naturalmente davanti a me, con quell'espressione tranquilla ed il tono decisamente più vivo del solito. Dovevo aspettarmi un'imminente invasione aliena, uno stormo di cavallette o la spaccatura del terreno sotto i piedi? Cercai di scacciare lo stupore e le immagini catastrofiche per quel suo insolito comportamento, pur non sapendo che cosa rispondere. Le labbra mimavano delle parole che suonavano come “ma” ed anche un “che cazzo stai dicendo” anche se non riuscii a dar loro dei suoni tangibili. In breve tempo mi ripresi e le pizzicai la guancia, aggrottando le sopracciglia in una falsissima espressione furibonda, fissandola dritta nelle pupille. - Questo è un avvertimento. Non te lo permetterò più, siine consapevole.- minacciai con tono piuttosto serio, digrignando i denti ed assottigliando gli occhi per migliorare quella farsa. Ottenni una reazione simile alla mia nei confronti della sua iniziale battuta, per poi notare piacevolmente che i suoi tratti facciali si rilassarono compiaciuti e sereni, sfoggiando un lieve ma sincero sorriso. Ricambiai, con l'impulso incontrollabile di avvicinarmi ulteriormente e non sembravo l'unica a non sapersi controllare. Lentamente ci ritrovammo a pochi centimetri di distanza, viso contro viso, un leggero fremito da parte di entrambe che si stabilì quasi subito.

- Andiamo a casa mia. - proposi annuendo senza aver ancora ricevuto un responso. - Vorrei chiederti tante cose. Questo non è il luogo adatto. - mossi ancora il capo in segno di approvazione. Sara fece lo stesso poco dopo, senza muoversi dalla posizione che avevamo assunto. Eravamo in sintonia e sembrava piacerci, al di là di tutte le altre situazioni che parevano far piacere solo a me. - E le ordinazioni?- chiese voltando lo sguardo verso il nostro tavolo vuoto ed al bancone. Probabilmente non era serata per il mio amato frappè. Feci spallucce, mi scostai dal nostro singolare abbraccio per poi alzarmi, tirando i lembi della maglietta verso il basso ed aggiustandomi i jeans ai fianchi. Senza guardarla, feci il giro del tavolo e le feci gesto di seguirmi.

- Che si fottano. -

C'erano cose molto più importanti di un dannatissimo frappè alla fragola.

 

 

 

 

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