Destiny

di Francesca_c
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

Mi svegliai di soprassalto.
Sudata e ansimante.
Come al solito.
Dopotutto non ricordavo nemmeno lontanamente quelle notti felici in cui la mia mente riposava davvero. La notte è creata per dormire, sognare, dimenticare.
Le mie notti invece, erano create per il contrario. Non sapevano cosa significasse dimenticare, andare avanti. Forse neppure io.
Accesi la piccola lampada sul comodino e fui contenta di trovare intorno a me il rassicurante disordine della mia camera avvolto dal bagliore tenue della luce.
Cercai la mia collanina d'oro in mezzo ai capelli arruffati. Di solito la trovavo lì: tra i nodi mattutini.
Anche quella, come tutto il resto del mio corpo, era bagnata di sudore.
Ammirai il metallo puro del ciondolo. Me lo avevano regalato i miei genitori il giorno del mio ottavo compleanno. L'ultimo a cui ebbero occasione di assistere.
Strinsi la collana nella mano destra e mi lasciai cadere sul letto umido. Contai, per la millesima volta forse, i sette raggi del piccolo sole d'oro che tenevo avidamente in mano, come se qualcuno tentasse di portarmelo via.
Mia sorella Shelby mi diceva che a volte urlavo nel sonno e quando veniva in camera nel tentativo di tranquillizzarmi, mi trovava con in mano la collanina. La stringevo cosi forte che i suoi raggi appuntiti mi perforavano la pelle lasciando qualche goccia di sangue sulle dita.
Ogni mattina mi ispezionavo le mani in cerca delle piccole ferite, sperando che Shelby non fosse dovuta venire la notte a calmarmi.
Le sorelle minori non devono prendersi cura delle sorelle maggiori.
Shelby era un'undicenne davvero imprevedibile, che amava i guai e l'avventura.
Ed era anche uno dei pochi membri viventi della mia famiglia di cui mi importasse ancora.
Quella mattina mi accorsi con piacere di non aver sangue sulle mani e quindi di non aver nemmeno strillato come una bambina svegliando mia sorella e tutto il vicinato. Questo non significava però, che non avevo avuto motivi per cui strillare.
Come ogni notte da anni, lo stesso identico incubo che mi perseguitava dal giorno della morte dei miei genitori, aveva occupato il mio sonno facendomi svegliare sudata e con il fiatone. Beh, quella notte non fece di certo eccezione.
Mi stropicciai gli occhi e guardai l'ora sulla sveglia. Le 6.35.
Infilai le ciabatte e aprii le finestre, assaporando il piacevole freddo invernale.
Mi avviai verso la doccia e mi liberai dei vestiti bagnati per sciogliermi sotto l'acqua bollente.
Fantasticavo sull'idea di rimanerci per giorni interi, quando un pensiero allarmante mi attraversò la mente.
<< Oggi. Oggi che giorno è? 1° ottobre. È 1° ottobre! Maledizione me ne sono dimenticata di nuovo! >>
Probabilmente era a causa del mio poco interesse per la scuola che mi ero dimenticata di aggiungere la sveglia scolastica nell'agenda virtuale, perché di solito avevo buona memoria, ma ogni anno era sempre la stessa storia. Mi dimenticavo che iniziasse. Nemmeno il primo giorno riuscivo a ricordare. Accidenti.
Il primo giorno delle Superiori. Non potevo credere di aver già 16 anni.
Non mi piaceva per niente la scuola. Imparare  mi piaceva, ero brava a studiare e ad apprendere velocemente. Non mi piaceva la gente. Per tutti e cinque gli anni delle medie ero stata l'attrazione della classe, anche dei professori. La ragazza orfana che viveva da sola con la sorella.
Fenomeno da baraccone. Ecco che pensavano di me.
Gli altri provavano pietà e se c'era una cosa che mi facesse arrabbiare era proprio quella.            
Non avevo mai desiderato la pietà delle persone. Meglio l'indifferenza.
Uscii dalla doccia più in fretta possibile ma mi rilassai non appena vidi l'ora sulla sveglia. Le 7.10.
C'era ancora tempo. Avvolsi il corpo e i capelli bagnati in due asciugamani e andai a svegliare Shelby.
Con delicatezza. Non le piaceva essere svegliata di colpo e per fortuna lei aveva la possibilità di sceglierlo.
Dopo poco, mi fece un cenno con la testa per dimostrarmi che aveva capito e che si sarebbe alzata.
Quando le dissi che doveva prepararsi per la scuola, mi sorrise ampiamente ma sempre tenendo gli occhi chiusi. A Shelby piaceva la scuola, piacevano le attenzioni in generale e le piaceva ancor di più essere ammirata per la sua forza d'animo.
Non vedeva l'ora di iniziare le Medie e lo sapevamo bene tutte e due, ma aveva sempre amato farsi svegliare da me.
Per prendersela comoda e farsi coccolare di tanto in tanto.
Quando ammise a se stessa di non poter più rimanere a letto, si decise ad aprire gli occhi.
Gli occhi di Shelby erano di un colore che somigliava al grigio perla, ma si potevano notare chiaramente dei riflessi verde chiaro. Glieli avevo sempre invidiati.
Erano uguali a quelli della mamma. Veramente spettacolari. I capelli invece erano uguali ai miei, castano-dorati come li aveva anche papà. I capelli della mamma erano di un biondo intenso.
Era una donna bellissima. Si chiamava Kate Blunt.
Sorrisi pensando a come gli occhi di Shel mi ricordassero lei.
<< Perché sorridi? >> mi chiese Shelby.
<< Sono solo... contenta di essermi accorta in tempo di che giorno è oggi. >>
<< Non vedo l'ora di arrivare in classe e conoscere tutti! >>
<< Bene. Meglio così. >>  Mi sentii sollevata al pensiero che almeno una di noi sarebbe stata felice di affrontare i propri coetanei.
 Sebbene fossi ancora riluttante all'idea della scuola, mi alzai dal letto di Shelby e impostai la mia agenda in modo che fosse aggiornata sul nuovo ordinamento.
Anche se in realtà non era per niente nuovo.
Tre anni fa, il Ministero dell'Istruzione aveva deciso che la scuola non sarebbe più cominciata a settembre, ma il 1° ottobre.
In ogni caso adesso lo sapeva anche la mia agenda. In realtà non avevo affatto bisogno che mi svegliasse: mi svegliavo presto tutte le mattine, con gli incubi.
Shel una volta mi disse che secondo lei ero veramente pazza quando ammisi che mi piaceva alzarmi anche verso le sei solo per guardare il panorama fuori dalla finestra. 
Io le avevo risposto nel mondo erano rimaste davvero poche cose naturali e il silenzio mattutino aiutava a farmele apprezzare ancor di più, se possibile.
Davanti casa nostra infatti, c'era un meraviglioso giardino (uno dei pochi spazi verdi rimasti) che secondo i calcoli degli storici risaliva al 2000.
Prima delle guerre, dell' Era d' Acciaio, della Rinascita. Mi sarebbe piaciuto vivere nel 2000.
Amavo quel giardino. Lo amavo davvero molto.
Una volta la mamma mi disse che un tempo era molto più grande, enorme, sconfinato.
Non avevo mai visto nulla di sconfinato. Se non nei documentari sulla natura.
In televisione avevo visto parecchie volte uno dei più spettacolari doni della natura. L' Oceano.
Avevo sempre desiderato di vederlo con i miei occhi. Veder affondare il Sole nell'acqua, durante il tramonto.
Shelby invece era un tipo più tecnologico, adatto a vivere in questo mondo tecnologico.
Ultimai le impostazioni sull'agenda e scelsi con disattenzione un pantalone e una maglietta.
Infilai le scarpe e selezionai una pettinatura. L' Apparecchio Parrucchiere mi intrecciò due piccole ciocche castane che partivano dalle tempie, fino a legarle insieme dietro la testa fissando i capelli dietro.
7.50. Mandai giù qualche boccone del panino che preparavo sempre per colazione e aspettai Shelby che ancora doveva scegliere cosa mettere.
Quando fummo entrambe pronte e con l'agenda al polso, prendemmo il teletrasporto per far presto. Per prima entrò Shelby.
<< Buona fortuna. >> augurò lei.
<< Già... buona fortuna. >>
E sparì sorridendo.

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

Quando entrai nell' edificio mi resi conto per la prima volta di quanto fosse stupefacente. Ero andata solo qualche volta a visitare la scuola e pensando di non ricavare alcun piacere visivo, ispezionandone le forme e i dettagli, mi ero limitata ad ascoltare la guida che spiegava quali corsi metteva a disposizione.
Quindi quella, era la prima vera volta che la studiavo.
Si accedeva all'edificio attraverso due portoni di vetro sempre aperti. Appena entrati ci si trovava in un ampio atrio il cui pavimento era stato ricoperto con enormi mattonelle color nero pece. Il muro era stato dipinto di un azzurro acceso dove qua e là c'erano delle decorazioni in argento. Un enorme pannello di vetro costituiva il soffitto, sostenuto da una struttura rettangolare di acciaio inossidabile.
Parallele all' entrata, sul lato opposto, si trovavano quattro porte d' acciaio, sopra ognuna delle quali, sul muro azzurro, era stato fissato uno schermo rettangolare che etichettava la funzione della stanza. Sala Professori. Bagno Professori. Presidenza. Archivi.
A sinistra di ogni entrata c' erano dei lettori di impronte digitali che permettevano l' accesso solo alle persone precedentemente registrate.
Davanti alle quattro porte d acciaio c'era un lungo bancone dello stesso materiale, che rappresentava la segreteria, ed era occupata da una ragazza elegantemente vestita che parlava al telefono.
Sul lato sinistro della scuola erano stati posti tre teletrasportatori. Uno per ogni piano.
Sul lato destro invece, si trovava la palestra.
Mi infilai nel teletrasportatore che conduceva al primo piano dove erano state posizionate tutte le classi prime.
Sbirciai nell'agenda per assicurarmi di quale fosse la mia. 1° H. Entrai nell'aula, ero quasi la prima ad arrivare.
C'erano solo due ragazzi e una ragazza che parlottavano tra loro e che si zittirono non appena videro l' insegnante entrare.
Mi diressi verso il banco dove c' era scritto il mio nome. Eravamo stati disposti in ordine alfabetico.
Vicino a me avrebbe preso posto una ragazza di nome Charlie Rice. Sui cartellini davanti a noi invece, c'era scritto a sinistra Jill Shirley, e a destra Virginia Sparks.
La professoressa era ancora occupata con il suo registro ma salutava comunque gli alunni che cominciavano ad arrivare. Li osservavo attentamente tutti quanti.
Dopo qualche minuto arrivò la mia compagna di banco.
Charlie Rice era una ragazza alta, magra con capelli corvini molto corti e un paio di occhiali rettangolari che le decoravano perfettamente il viso.
Quando si girò verso di me, dopo essersi seduta e aver appoggiato il Tablet sul banco, notai i suoi meravigliosi occhi color cioccolato al latte.
<< Ciao, mi chiamo Charlie! >> mi disse porgendomi la mano.
<< Grace, piacere. >>
Dopo esserci presentate Charlie cominciò a scrivere sul suo Tablet e capii che la conversazione era finita.
Mi piaceva. Si faceva gli affari suoi e non parlava troppo. Sentivo che saremo andate subito d' accordo.
Mi accorsi che intanto erano arrivate le due ragazze davanti a noi.
Quella di destra, Virginia Sparks, era seduta sul banco con i piedi sulla sedia e chiacchierava con un ragazzo alla sua sinistra, in una maniera un po' troppo seducente per i miei gusti. Era vestita sfarzosamente e la maglietta aveva un' ampia scollatura a V.  Era una ragazza bassa e bionda e aveva occhi color marrone chiaro. Assomigliava, a parer mio, ad una brutta imitazione di una barbie.
La ragazza di sinistra, stava appoggiata al muro con aria annoiata e fissava il soffitto con dei bellissimi occhi verdi. Aveva una folta massa di capelli rossi e ricci con il tipico ciuffo ribelle che spostava a volte da un lato, a volte dall' altro. Tamburellava le dita sul banco ad una velocità impressionante. Quando si accorse che la stavo guardando, schizzò sulla sedia e si presentò a me e Charlie porgendoci la mano.
<< Piacere Grace. >> mi presentai. << Non ti piace la scuola eh? >>
<< No per niente. La odio. >>
Jill mi stava simpatica. Sorrideva sempre ed era piena di vita.
Quando la professoressa si accorse che tutti i banchi erano stati occupati, smise di digitare sul registro e ci regalò un ampio sorriso; dopodiché si alzò dalla sedia e solo allora notai quanto fosse alta. 
<< Buongiorno a tutti! >> cominciò << Io sono la Professoressa Grey, la vostra insegnante di Progettazione Avanzata e per questi tre anni avremo cinque ore settimanali a disposizione per imparare a lavorare con i computer. Vi siete iscritti alla scuola più difficile di tutte, vi avverto, ma usciti da qua, avrete davanti a voi centinaia di opzioni lavorative ognuna delle quali, vi offrirà tutto quello che potete desiderare da un lavoro nella tecnologia. Detto questo, benvenuti al Liceo Tecnologico Albert Einstein! Vi lascio nelle mani della vostra insegnante di Matematica e Informatica Avanzata. >>
La professoressa Grey ci salutò e al suo posto entrò in classe una donna bassa tanto quella che l'aveva preceduta era alta. Sebbene avesse scarpe col tacco che l' alzavano di almeno cinque centimetri, ero sicura che non mi sarebbe riuscita a guardare negli occhi senza alzare la testa.
Aveva i capelli castani, dei profondi occhi verde- azzurri e delle spalle molto ampie.
Ci sorrideva gentilmente mettendo in mostra dei denti bianchissimi e perfetti.
Era una donna semplice e graziosa. Mi sorpresi a sorridere mentre la studiavo.
<< Dunque >> aveva una voce armoniosa e soave che catturava immediatamente l'attenzione. << come ha già anticipato la mia collega, io sarò la vostra insegnante di Matematica e Informatica Avanzata per i prossimi tre anni. Non ho, anzi, non abbiamo, intenzione di farvi lavorare oggi, perciò occuperemo il nostro tempo in attività più divertenti, vale a dire conoscerci. Nelle prossime ore arriverà la coordinatrice delle classe prime, che vi consegnerà l'orario settimanale, così che da domani potremo incominciare il nostro intenso programma di studio. Io sono la professoressa Mill >> continuò senza smettere un attimo di sorridere << e vi auguro un buonissimo primo giorno di scuola qui al Liceo Tecnologico Albert Einstein! >>
Mentre lo diceva, un' espressione fiera le si dipinse in volto e dopo averci regalato l'ennesimo sorriso a trentadue denti, si accomodò sulla sedia poggiando sulla cattedra il Registro e il Tablet. Con un semplice ed esperto gesto trasportò l'appello dal Registro virtuale fino a farlo arrivare vicino a lei.
L' ologramma conteneva l' elenco di ventiquattro studenti; dodici maschi e dodici femmine.
La professoressa prese a leggerlo ad alta voce chiedendoci di alzare la mano quando venivamo chiamati.
Una volta finito, decise di impiegare il tempo rimasto per presentarci ai compagni.
Fantastico. Magari però non sarei stata costretta a parlare dei miei genitori, e a quel punto avrei anche potuto tenerlo nascosto fino a quando la verità non sarebbe venuta fuori da sola. Si avrei anche potuto. Ma poi mi vennero in mente le parole della mamma.
Quelle che mi ripeteva sempre quando le raccontavo bugie o le nascondevo qualcosa.
Mentire significa debolezza. Debolezza significa aver paura di essere se stessi.
E aver paura significa arrendersi. Arrendersi non è mai giusto.
Bambina mia tu non arrenderti mai.
Non mi piaceva arrendermi. Odiavo le persone deboli, incapaci di lottare.
Quindi se per mia madre mentire equivaleva all' arresa, poteva star certa che sarei stata sincera con tutti fin dall' inizio. Mentre io riflettevo sulle parole di mia madre, la professoressa Mill aveva ascoltato il breve riassunto della vita di due ragazzi e una ragazza, Virginia Sparks.
Ero riuscita a capire solo le ultime parole della conversazione, quelle in cui lei affermava di essere figlia di due noti e ricchissimi Catalogatori statali.
Era il momento di Jill e quella volta feci attenzione alle domande che porgeva l'insegnate.
Faceva alzare chi parlava in piedi, chiedeva nome e cognome, da quale scuola media provenisse, il lavoro dei genitori, eventuali ambizioni per il futuro, il motivo della scelta per il liceo e se qualcuno avesse doti particolari che volesse far conoscere al resto della classe.
Quando Jill ebbe finito, la Mill fece alzare Charlie.
Poi toccava a me.

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

<< Va bene adesso tocca alla ragazza vicino Charlie. >> ricordò la professoressa indicandomi.
Cercai di alzarmi non dando troppo a vedere di essere nel bel mezzo di una simpatica crisi isterica.
Tentativo fallito. O almeno così mi era sembrato.
<< Si professoressa mi chiamo Grace Prior. >> riuscii a dire con una voce inaspettatamente calma e sicura.
<< Grace, che bel nome! Anche mia figlia si chiama Grace! Bene raccontaci un po' di te. >> mi incitò lei.
<< Ecco ho frequentato le medie alla J.K Rowling e ho scelto il liceo tecnologico perche da grande vorrei diventare una Catalogatrice o una Programmatrice. >> non potevo più rimandare. Era arrivato il momento di essere sinceri. << Allora, non ho doti particolari. Forse il fatto di avere buona memoria. Si ecco la mia memoria è abbastanza buona. >>
<< Beh allora direi che la catalogazione è la tua strada! Senti che ci dici dei tuoi genitori? Hai fratelli o sorelle? >>
Ci siamo. Aver paura significa arrendersi.
<< Vivo da sola con mia sorella Shelby. I miei genitori sono morti otto anni fa. >>
Per qualche secondo ci fu solo silenzio. Io continuavo a fissare gli occhi della professoressa ma riuscivo lo stesso a cogliere le espressioni di alcuni compagni.
Pietà, fenomeno da baraccone. Pietà, fenomeno da baraccone.
Queste parole mi ronzavano fastidiosamente in testa. Adesso anche gli occhi della Mill trasudavano compassione. Non sapeva cosa dire, ma chi poteva biasimarla? Dopotutto il mondo era così poco abituato alla morte. Probabilmente nessuno dei miei compagni aveva ancora mai conosciuto e amato una persona poi deceduta. Certo l'aspettativa di vita del 3000 sfidava la morte, quasi vincendola.
Tutti arrivavano tranquillamente fino ai 150 anni senza malattie o problemi gravi. Quindi era un caso più che raro di trovare ragazzi orfani. Dopo quei secondi di silenzio, la Mill si decise a parlare.
<< Oh povera cara! Santo cielo è veramente un' ingiustizia!>>
Sapevo che prima o poi me lo avrebbe chiesto. Era troppo curiosa e anche i miei compagni lo erano.
La domanda era praticamente sospesa nell' aria e vista la tranquillità che senz' altro ero riuscita a spiaccicare sulla mia faccia, la Mill azzardò a chiedere.
<< Cara, che cosa li ha... cioè che cosa li ha fatti... >>
<< Mia madre è morta di cancro >> la interruppi << mio padre tre pallottole nel cuore. >>
<< O santo cielo. Mi, mi dispiace davvero tanto, insomma avevi otto anni quando è successo? >>
Annuii e cercai di sostenere il suo sguardo. Nonostante fosse chiaramente a disagio, riusciva a guardarmi negli occhi. La stimavo per questo.
<< Mi dispiace veramente tanto. >> continuò lei.
<< Non si preoccupi. Entrambi sapevano di dover morire, non è stata una sorpresa. Né per loro, né per me. E poi è stato tanto tempo fa, non si deve preoccupare. Dico sul serio. >> le sorrisi dolcemente.

<< Ma... voglio dire il Governo... tu e tua sorella non potete stare da sole. Il Governo è a conoscenza? Il Governo vi ha... >>
<< Il Governo non c' entra nulla. I miei genitori sapevano che sarei stata in grado di badare a me e mia sorella ed era questo l' importante. Non viviamo clandestinamente. Prima della sua morte, mio padre ha fatto in modo che potessimo vivere da sole senza la tutela di nessuno. Non gli hanno dato retta subito ma alla fine hanno ceduto. Davanti ad una legge scritta che ci permetteva in qualche modo di farlo, effettuando comunque un controllo mensile sul mantenimento della casa e sullo stato di salute di entrambe. Questo è quanto. >> conclusi sedendomi.
Avevo tralasciato il fatto che la disputa tra mio padre e il Governo era durata quasi un anno. E che dopo la sua morte avevo continuato io a lottare presentando quella legge al Consiglio; che alla fine, dopo averci sbattuto in più di cinquanta orfanotrofi (da cui riuscivamo sempre a scappare) aveva ceduto sfinito. 
Arrendersi non è mai giusto. Bambina mia, tu non arrenderti mai.
Aveva ragione. Non mi ero arresa ed ero riuscita a farci vivere in pace proprio come mio padre aveva voluto. Ventiquattro facce allibite mi fissavano.
Quando avevo sentito la Mill nominare il Governo, mi ero agitata e avevo cominciato ad alzare la voce. Odiavo tutto ciò che lo riguardava. I politici si facevano credere giusti e leali. Ma era tutta una messa in scena. Non sapevano affrontare i problemi e avevano approvato ogni singolo progetto di 'civilizzazione della natura' come lo chiamavano loro.
Avevo sentito dire che i politici del Sud Europa erano più giusti e clementi. Io vivevo in quella zona di terra che una volta era chiamata Gran Bretagna.
Ma durante la Quarta Guerra Mondiale (2915-2935) gli Inglesi e gli Americani avevano intrapreso la conquista del mondo, riuscendo a sottomettere gli altri popoli.
Così tutte le altre lingue erano state abolite. Il passato e le culture dimenticate. Gli Inglesi decisero di riunire tutte le nazioni d' Europa sotto un unico governo, annullando i confini tra i paesi e dividendo il continente in tre fasce: Europa del Nord, Centrale e del Sud. E così avevano fatto con gli altri continenti.
Avrei tanto voluto essere nata al Sud. C' era un clima meraviglioso e il mare era caldissimo d'estate. Davvero una meraviglia.
E poi in quella penisola che poneva fine all' Europa del Sud erano rimasti molti spazi verdi.
Quanto avrei voluto vederli... Non mi bastava più rifugiarmi nel mio giardino per leggere i miei libri. Volevo l'avventura, volevo conoscere il mondo. Volevo sapere perché mio padre fosse stato ucciso. Si forse alla fine era questo che mi tormentava. Non sapevo nulla della sua morte, volevo scoprire il motivo dell' assassinio e l' omicida. Era un'idea folle e sconsiderata. Per questo mi attirava. Non ci speravo per niente naturalmente. Dopotutto che cosa avrei mai potuto fare?
Credi sempre in ciò che fai, bambina mia.
Non smettere di sperare e continua a combattere per avere ciò che vuoi.
Credi sempre. Credi e spera.
La speranza è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. La speranza è la nostra vita.
Le sagge parole di mio padre mi risuonavano chiare in testa.
Aveva ragione. Come sempre. La speranza è tutto. Ma non potevo illudermi a tal punto da sperare di conoscere i segreti di papà da un giorno all' altro. Non potevo illudermi e basta. Illudersi è da deboli. Anche sperare lo era? No, io credevo alle parole di mio padre. La speranza è tutta la nostra vita. Lasciai vagare la mente ancora un po' prima di accorgermi che la professoressa stava ascoltando le parole di altri ragazzi. Le domande erano le stesse ma l'atmosfera era del tutto cambiata: era carica di tensione d' imbarazzo.
Poco prima che suonasse la campanella, la Mill si dispiacque nuovamente per i miei genitori.
Però quella volta più serena e sorridente, alleggerendo così il nervosismo della classe.
Gliene fui grata, inizialmente. Però quando uscì dall' aula mi trovai immediatamente al centro dell' attenzione di un gruppo di ragazze e ragazzi che mi chiedevano le cose più stupide e insignificanti sul fatto di vivere da soli. Avevano una bella faccia tosta.
Avrei tanto voluto scappare da tutto quello, ma per mia fortuna l' insegnante dell' ora successiva non ci mise molto ad arrivare.
Poi mi tornò alla mente che lei non sapeva nulla di ciò che avevo detto alla sua collega, così mi infastidii ancora di più.
Nelle seguenti quattro ore, avevo spiegato a ben sei insegnanti (tutte quelle della nostra classe) la mia condizione di ragazza orfana.
Le reazioni erano state quasi tutte come quelle della Mill. Però la professoressa di Elettronica Avanzata era stata la più sfortunata di tutte.
Quando avevo accennato alle tre pallottole nel petto di mio padre stava bevendo acqua da una bottiglietta. Inutile dirlo che per lo shock che le avevo causato, aveva annaffiato i due studenti davanti alla cattedra, sputando tutto per non strozzarsi. Niente male come primo giorno di scuola.

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
Mi guardavo intorno. Ero su una spiaggia deserta. Di preciso come ci ero arrivata non lo sapevo, ma avevo una strana sensazione. Come se il mio cuore avesse dovuto esplodere da un momento all’altro.
La tensione nella mia testa e nel mio corpo era insopportabile. Più mi agitavo e più cresceva.
Dopo qualche secondo,  notai che il cielo era incredibilmente vicino a me e avanzava sempre più per poi ritrarsi di nuovo. Una faccenda davvero bizzarra.
Però guardando attentamente mi resi finalmente conto che l’immensa distesa blu davanti a me non era il cielo. Era l’Oceano.
Appena lo capii fu tutto più chiaro, cominciai a correre verso il mare e una volta toccata l’acqua fui meravigliata di scoprire che la tensione era sparita.
Mi immersi completamente e cominciai a giocare con l’acqua. Anche lei giocava con me. Sentivo di essere completa quando l’Oceano mi accoglieva tra le sue onde. Dopo quei pochi minuti di sollievo, la tensione tornò a tormentarmi, insieme al terrore.
Uscii dall’acqua più in fretta possibile, come temendo di poterla infettare con le mie preoccupazioni.
Mi guardai nuovamente intorno e notai che a qualche chilometro di distanza si trovavano sette figure incappucciate. Avanzai verso di loro, malgrado il mio cervello non avesse ordinato alle gambe di muoversi.
Mi trovai in un lampo davanti alle figure e quando mi mostrarono i loro volti, scoprii di non essere affatto sorpresa di trovarli lì. Non conoscevo quelle quattro donne e quei tre uomini eppure sapevo di essermi dovuta immaginare che sarebbero arrivati. Prima o poi.
Formavano, con i corpi, una barriera a pochi metri da me, stando appiccicati gli uni agli altri. Di colpo si separarono e lasciarono che altre due figure, che però conoscevo bene, mi arrivassero davanti.
I miei genitori erano stati bendati e avevano ginocchia e polsi  legati. Le figure dietro di loro presero a sbendare mio padre e una di esse afferrò un coltello che le si era appena materializzato vicino.
Si avvicinò a papà e gli tagliò un piede, un’ altra figura seguì lo stesso procedimento.
Mio padre e io gridavamo come due dannati. Cercavo disperatamente di andare a salvarlo ma un ostacolo invisibile mi impediva di raggiungerlo. Le figure avevano privato mio padre della maggior parte degli arti e finalmente posero fine alla sua agonia, piantandogli il coltello nel cuore.
Urlavo solo io.
Intanto era arrivata una persona dietro di me che cercava inutilmente di calmarmi. Mi stringeva forte mentre io strillavo disperatamente. Gli assassini si stavano per occupare della mamma. Però fu diverso con lei.
La lasciarono bendata e il coltello la colpì solo una volta,  per toglierle la vita.
Poi ad un tratto, non capii più nulla. Piangevo e urlavo, urlavo e piangevo. Non percepivo più alcun legame con il mondo. Mi sembrava che fossi stata trasformata allo stato liquido, e travasata fino alla nausea.
La mia testa, il mio corpo e la mia anima non erano più legati tra loro.
Li sentivo distanti. Io mi sentivo spezzata, disintegrata.
Riuscii solo ad accorgermi che tutto intorno a me perdeva colore e forma, le immagini si facevano sfocate.
L’ultima cosa che vidi fu una bussola, il cui ago girava freneticamente. Poi si fermò di colpo.
Puntava a Sud.
 
La mia mente venne bruscamente riportata alla realtà alle 6. 27.
Non mi meravigliai di trovare del sangue sulle miei mani quella mattina.
Da troppo tempo non urlavo nel sonno. Quasi tre settimane. Non avevo ancora capito il motivo di questo radicale cambiamento, ma ero certa che non avrebbe avuto lunga vita.
Con quel sangue la mia testa mi stava lanciando un avvertimento. Del tipo:
Ti sto concedendo una tregua ma non metterti troppo comoda. I tuoi genitori sono morti, RICORDATELO.
Cercai di rallentare il battito cardiaco e riacquistare totalmente il controllo del mio corpo.
Mi sedetti sul letto facendo scivolare i piedi in cerca delle ciabatte. Mentre andavo ad aprire la finestra, sentii dei rumori provenienti dalla cucina. Li riconobbi immediatamente. Shelby stava preparando la colazione.
Alle 6.27
Si, l’avevo indubbiamente tenuta sveglia tutta la notte.  
A tal punto che aveva ritenuto saggio non addormentarsi affatto. Decisi di mangiare qualcosa prima di farmi la doccia. Arrivata in cucina trovai mia sorella immersa in una violenta lotta contro il pane che non riusciva a tagliare dritto.
<< Buongiorno. >>
<< Buongiorno. >> disse rivolgendomi un debole sorriso.
Sapevo che non era arrabbiata, dopotutto non poteva essere arrabbiata per una cosa che non controllavo, però sapevo anche che aveva sempre bisogno di un po’ di tempo per tornare sé stessa.
La situazione era difficile per entrambe, ma capiva che tra le due ero stata io quella che aveva sofferto di più. In qualunque circostanza. Quando ottenemmo la libertà di vivere senza nessun nostro parente pazzo a girarci intorno, io avevo solo tredici anni e occuparsi di una sorella a tredici anni, non era stato esattamente semplice. Il suo era una specie di modo per ringraziarmi: si occupava di me quando ne avevo più necessità.
Quindi quello che dovevo fare era aspettare che mi perdonasse senza che io le chiedessi scusa.
Era così tra noi, non c’era bisogno di parlare in questa circostanza, e ci andava benissimo così.
Le tolsi il pane dalle mani e preparai un panino ciascuno. 
Parlammo poco per tutta la colazione ma sentivo che cominciava a sciogliersi già.
<< Beh comunque ti voglio bene, sorellona. >>  disse ad un tratto.
 Le rivolsi un sorriso furbo prima di parlare.
<< Siamo sentimentali, eh? >>
Rise di gusto, contagiando anche me. E così seppi che anche quella volta era passato tutto.
Continuammo a ridere e a parlare con meno disagio per i successivi dieci minuti finché Shelby non si alzò.
Prima di andare a prepararsi mi tirò una ponderosa pacca sulla spalla per rimediare a quella dolce disattenzione che si era lasciata sfuggire.
Se ne andò lasciandomi a pensare che l’amavo con tutto l’amore possibile e che sarebbe stata l’unica persona, per il resto della mia vita, che avrebbe avuto un posto tanto speciale nel mio cuore.
 
Arrivai a scuola dopo una rilassante e lunga passeggiata in tuta e scarpe da ginnastica. Guardai l’orario del giorno sul Tablet. Mi ricordavo le prime due ore (educazione fisica e matematica) così sbirciai le ultime tre.
Progettazione, Architettura e Elettronica avanzata (O MIO DIO).
Arrivai in classe dieci minuti prima l’inizio della lezione. Ovviamente c’erano già ¾ dei miei compagni che parlavano tra di loro. Mentre mi dirigevo verso il banco la mia personale dose umana di buon umore mi bloccò il passaggio. Charlie mi mostrava il suo solito sorriso coinvolgente e mi abbracciava dall’altro del suo metro e settantrè. D’altra parte io, col mio metro e sessantacinque, alzavo la testa per ficcarla nell’incavo tra il suo collo e la spalla.  Avevo legato molto con Charlie nelle ultime tre settimane.
Praticamente da quando era iniziata la scuola. Era una forte ma dolce.
A differenza di come mi era sembrata il primo giorno, era una gran chiacchierona ma se cercavo qualcuno a cui confidare qualcosa,  lei era la persona giusta. Non che io raccontassi i fatti miei ai quattro venti.
Non le avevo mai parlato dei miei genitori e lei con il tempo aveva imparato a non chiederlo.
 Ci piacevano praticamente le stesse cose, leggere in particolar modo, e pensavamo anche le stesse cose.
Quando ebbe deciso che dieci minuti di abbraccio bastavano, mi lasciò e mi rivolse un altro sorriso.
<< Buongiorno! Allora? Pronta per questa leggerissima giornata di scuola? Ma dico, sono pazzi a metterci tre ore consecutive di progettazione,  architettura e elettronica?! >> appunto…
<< Ho pensato la stessa cosa anch’ io venendo a scuola. >>
Intanto erano arrivate Ellen e Delia, due ragazze con cui avevo fatto amicizia più tardi  ma a quanto pareva questo particolare non impedì a Ellen di saltarmi praticamente addosso.
Ellen era un’ esaltata,  impulsiva  in agitazione costante.
Ma queste caratteristiche non avevano affatto un’ influenza negativa sulla mia opinione di lei.
Mi riusciva a stampare un sorriso in faccia senza neanche dire niente.
Era una ragazza piuttosto bassa con capelli un po’ biondi, un po’ castani e occhi un po’ grigi, un po’ celesti e un po’ verdi.
Un paio di giorni prima glielo avevo chiesto, di che colore fossero i suoi occhi. Mi aveva risposto “per gli amici, verdi” ridendo come una pazza. Delia era la sua migliore amica. Bassa quanto lei ma con capelli ricci neri e occhi solamente verdi. Era tutto il contrario di Ellen. Più riservata e meno esaltata.
Anche lei era simpatica ma la conoscevo di meno.
<< Ciao! Come va? >> mi disse Delia scoccandomi due veloci baci sulle guance.
<< Alla grande, tu come… >>
<< Ehi ciao! >> non feci in tempo a terminare la domanda che mi ritrovai una grossa mano piazzata in testa che mi arruffava brillantemente i capelli.
<< Ciao Jeremy. >>  salutai con astio il proprietario della mano, che non avevo fatto fatica a riconoscere grazie al suo tipico saluto. Io e Jeremy avevamo stretto amicizia quasi subito,  era un tipo solare di quelli che sprizzano felicità da tutti i pori. Mi era parso immediatamente simpatico.
<< Senti sabato esco con un paio di miei amici, vuoi venire anche tu?  David,  Jill e Alice vengono. >>
<< Si, d’accordo. >>
<< Bene, ci si vede. >>
<< Disse portando via quel suo fondoschiena da dio… >>
Alice, dietro di me, guardava in un modo non del tutto casto, il fondoschiena di cui parlava.
<< Ma io dico, come fai tu a non sbavargli dietro! >> continuò lei.
<< Sei riuscita a dirgli quello che provi per lui? >>
<< Credi che se l’avessi fatto me ne starei qui ad usare la lingua per parlare? >>
Ad Alice piaceva Jeremy dalla Prima Media.
Si conoscevano da tempo ma lei non aveva mai avuto il coraggio di confidargli i suoi sentimenti e lui non l’aveva  mai vista come più di un’amica d’infanzia. Naturalmente tutto questo me lo aveva raccontato Jill, che a parer mio si faceva un po’ troppo gli affari degli altri. Ma comunque lei ed Alice erano amiche e credevo che lei avesse autorizzato in qualche modo Jill a parlarne. Non con lui, ovviamente.
Alice era una bellissima ragazza.  Aveva lunghi capelli ricci castani e degli occhi azzurro cielo. 
Era appena più bassa di Charlie, e di dieci centimetri più bassa di Jeremy.
Jeremy aveva occhi verdi e capelli scurissimi, un fisico slanciato e muscoloso.
<< GRACE ELISABETH PRIOR dimmi che ti sei portata un cambio per  rimediare a quella tuta orrenda. >>
Jill fece la sua entrata teatrale sottoponendomi alle occhiate divertite dei miei compagni mentre arrossivo come solo io sapevo fare.
<< La Rossa ha ragione Prior, non si viene a scuola in tuta >> Scott Jekins era appena entrato in classe.
E mi rivolgeva un sorrisetto crudele che gli avrei volentieri ficcato nelle orbite.
<< Poi potresti anche… che so, ficcarti una maglietta decente e metterti un po’ di trucco o .. >>
<< No Scott credo che non si sentirebbe abbastanza bella nemmeno vestita decentemente, con me come paragone. >> alla presa in giro si unirono anche Virginia e il suo clan e per me a quel punto era davvero troppo resistere ad un’occasione divertente come quella per lanciare una buona dose di insulti contro le mie valvole di sfogo personali. Ma non mi fu possibile perché qualcun’ altro decise di entrare in classe proprio nel momento in cui aprii la bocca per ribattere.  
<< Buongiorno classe! È arrivata l’anima della festa. >> David si annunciò aprendo le braccia ed entrando nell’aula. << La professoressa ha detto che possiamo andare in palestra. Quindi muovetevi. Oh, ciao! >>
Il nuovo arrivato stava raggiungendo il gruppetto che si era schierato dietro di me contro Virginia & Co. David era stato il primo ragazzo con cui avevo fatto amicizia, in classe. Era uno di quelli con cui non ci si poteva annoiare. Far ridere la gente era la sua specialità. Con un modo tutto suo, naturalmente.
Era alto poco più di me e stava seguendo una dieta ferrea che l’aveva fatto dimagrire di parecchi chili in poche settimane. Aveva dei finissimi capelli castani. Gli occhi erano grossi e marroni,  il naso solo grosso.
Uscimmo dall’aula per andare in palestra e attaccò a parlarmi dei nostri compagni di classe.
Quando entrammo nel teletrasportatore stavo già ridendo per le sue battute su Scott Jekins.

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
 
Quel sabato pomeriggio David arrivò a casa mia con il suo solito ritardo. Io ero già pronta da un pezzo.   
Per uscire con Jeremy e i suoi amici avevo optato per dei jeans chiari strappati, una maglia rossa e una giacchetta blu scura.
Ovviamente, a coronare la mia comodità, erano le mie fantastiche scarpe sportive.
Jill mi avrebbe ucciso appena le avrebbe viste.
Credeva di riuscire a rifilarmi quei suoi tacchi assurdamente alti abbinati ad un vestito la cui misura era meno estesa di quella del tacco. Mi ero categoricamente opposta. Anche se tutte le ragazze presenti avrebbero voluto sfidare la forza di gravità, io ci tenevo a far rimanere i piedi ben fissi al terreno e il mio fondoschiena più lontano possibile da esso.
Andai ad aprire la porta e trovai una gradevole sorpresa sulla soglia. Una sorpresa senza tacchi e minigonna.
<< Ellen! Non sapevo venissi anche tu. >>
<< Infatti non ero stata invitata ma David mi ha praticamente costretto. >>
Rivolsi un sorriso di approvazione a David. Ero contenta che Ellen sarebbe uscita con noi e non solo perché non sarei stata l’unica ad avere qualcosa addosso.
Un paio di minuti dopo, eravamo quasi giunti al punto d’incontro. Parlavamo di Alice e Jeremy.
Beh in realtà David e Ellen parlavano,  io ero totalmente immersa nei miei pensieri e comunque loro sembravano abbastanza a loro agio, senza che io intervenissi nella conversazione. In effetti stavano passando parecchio tempo insieme negli ultimi giorni. Non mi sembrava fosse una situazione puramente casuale, ma non me ne interessai più di tanto.
Arrivammo dagli altri verso le 6.20. Jill e delle altre ragazze che non conoscevo avevano beh…  un abbigliamento molto diverso dal mio e quello di Ellen. 
Alice invece aveva addosso la sua solita e splendida semplicità.
Quando Jeremy ci vide, rivolse un sorriso sincero a me, e uno imbarazzato alla ragazza che non aveva pensato di invitare.
<< Ellen, ciao! Come va? >> iniziò lui credendo di averla offesa.
<< Ciao Jeremy! Alla grande, tu? >> Ellen non apparve minimamente preoccupata dalla situazione.
<< Bene anch’io >> Jeremy si rilassò e prese a presentarci i suoi amici e amiche.
Malgrado avessero tacchi chilometrici, erano quasi tutte alla mia altezza, compresa Jill che quando aveva visto il tipo di scarpe che indossavo mi aveva incenerita con lo sguardo. 
Gli amici di Jeremy erano simpatici. Passai con alcuni di loro ed Ellen parte della serata.
Me ne sarei dovuta andare verso le nove, per arrivare a casa prima di Shelby, che aveva pranzato e cenato a casa di un’amica.
Come da previsione, mi aveva chiamata pregando di poter restare anche a dormire.
Shelby restava spesso a dormire a casa delle amiche, probabilmente a causa della compassione che i genitori nutrivano per la nostra situazione.
Infatti la mamma della ragazza mi aveva assicurato che non si fosse autoinvitata.
“Prenditi un po’ di tempo per te, cara e sta tranquilla.” Mi aveva detto. 
Quindi alle 8.30 non avendo più orari da rispettare, decisi di prolungare la serata fino al tardi, imponendomi comunque di rincasare non dopo le undici.
Per la cena, Jill aveva consigliato il ristorante di un locale alla moda aperto da poco (ovviamente ne aveva scelto uno che avesse anche la discoteca incorporata).
Malgrado il mio stomaco si lamentasse chiassosamente per la fame,  presi la saggia decisione di non sperperare i miei guadagni in quei cibi costosissimi. Per consolarmi del digiuno, mi ripromisi di comprare un libro il giorno seguente, spendendo i miei risparmi per qualcosa di gran lunga più conveniente che di una pizza da dodici sterline.
Da quando avevo compiuto sedici anni, avevo incominciato a svolgere alcuni lavoretti poco impegnativi, sia pubblici che privati. Il lavoro pubblico in cui riuscivo a guadagnare di più, e anche quello che mi occupava più tempo, era quello dell’Organizzazione Riparazioni Cittadine dei danni di guerra (O.R.C).
La ricostruzione del mondo infatti, comunemente chiamata Rinascita, era iniziata a partire dal 2935, vale a dire appena finita la Quarta Guerra Mondiale. Quest’ultima guerra, aveva costretto l’intera umanità veder cadere la maggior parte di tutto ciò che aveva costruito in 2900 anni di storia a causa delle micidiali armi che lei stessa aveva creato. Protagonisti di questa strage che determinò la morte di quasi metà della popolazione mondiale, furono le bombe atomiche e gli “sterminatori satellitari”, aggeggi infernali lanciati nello spazio per provocare una distruzione addirittura più violenta di quella delle bombe.
In ogni caso, dopo l’imprevista pacificazione sotto il dominio inglese, ebbe inizio la difficile fase della Rinascita, in cui il mondo risorse dalle sue ceneri.
A partire dal 3000 quindi, iniziò quel periodo di forte stabilità e solidità chiamato Era d’Acciaio, durante il quale oltre che riparare il pianeta, gli uomini avevano intrapreso anche un lungo viaggio di scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche.
In ogni caso, usanze, costumi, tradizioni erano andati perduti. Il mondo era praticamente ripartito da zero.
Sebbene la maggior parte delle riparazioni dei danni di guerra fossero state iniziate e concluse, la minor parte restava ancora da affrontare, ed era di questo che si occupavano le organizzazioni cittadine.
Noi lavoravamo soprattutto nelle periferie, aree a cui era stata comprensibilmente concessa meno ristrutturazione rispetto ai centri.
Io ero una specie di coordinatrice dei lavori; ci andavo tutte le domeniche da quasi sette mesi ed era veramente importante per me farne parte.
<< Bene gente, adesso che si fa? >> David alzò la voce per farsi sentire da tutti i presenti.
<< Che ne dite di ballare? Restiamo un altro po’ e poi andiamo via. >> propose Jeremy non molto convinto.
<< Si è una splendida idea! E poi adoro questa canzone! >> Jill scattò sulla sedia e si sistemò il trucco, visibilmente impaziente di scendere in pista.
In un batter d’occhio un amico di Jeremy si fece avanti per farle compagnia. David lo imitò invitando Ellen.
Alice, dall’altra parte del tavolo, mi lanciò uno sguardo rassegnato indicandomi il ragazzo che era rimasto seduto senza invitarla. Stavo convincendola a farsi avanti quando un altro amico di Jeremy, Miles, mi invitò a ballare. Accettai la proposta indirizzando poi ad Alice uno sguardo incoraggiante.
Arrivati sulla pista, Miles mi prese in vita e cominciammo a muoverci lentamente. 
Lui sembrava perfettamente a suo agio, io invece, avevo le guance rosse per la vergogna.
Stavo appena incominciando a rilassarmi quando la musica cambiò, diventando sfrenata e assordante. 
Rivolsi un sorriso imbarazzato a Miles e decisi di tornare al tavolo pronta per andar via, a mio parere avevo già ballato abbastanza. 
Trovai Jeremy ancora seduto nello stesso posto con la tipica faccia di uno che sta combattendo una lotta contro sé stesso e Alice che lo guardava da dietro con aria supplicante. Appena mi vide si alzò e comunicò ai presenti il suo desiderio di andarsene subito da quel posto.
Mi trovò perfettamente d’accordo, così andò a cercare Jill e il suo compagno che stavano ancora ballando. 
Quando fummo di nuovo tutti insieme fuori dal locale mi accorsi dell’ora. Le undici passate.
Stanca com’ero, decisi di salutare tutti e infilarmi nel primo teletrasportatore pubblico che trovai.
 
Venti minuti dopo ero in pigiama con i capelli bagnati raccolti in un asciugamano.
Era stata una giornata alquanto pesante ed ero sicura di addormentarmi in un attimo.
Dopo essermi rigirata nel letto per circa un’ ora, dovetti arrendermi all’idea che non fosse andata come avevo previsto.
Decisi di alzarmi e girovagare un po’ per la casa, nel tentativo di stancare quantomeno le gambe.
Un paio di giri più tardi, tornai in camera mia più sveglia di prima e mi sedetti nuovamente sul letto contemplando la mia libreria.
Poi il mio sguardo si posò in un angolino del penultimo scaffale, dove la mia “scatola delle memorie” passava abilmente inosservata.
Accanto alla scatola, si trovava un album fotografico di notevoli dimensioni. Era sicuramente uno degli oggetti più preziosi che possedessi, oltre alla scatola delle memorie, naturalmente.  Me lo aveva regalato mia madre molti anni fa sostenendo che fosse una delle poche cose che i nostri antenati, durante le guerre, fossero riusciti a salvare.
Solo dopo la morte dei miei genitori mi ero resa conto che nascosti all’interno della copertina e nelle pagine stesse, vi fossero documenti, poesie, lettere e parti di libri che neanche conoscevo, risalenti proprio al ventunesimo secolo. Mio padre mi aveva regalato poi, il resto dei cimeli di famiglia arrivati fino a noi, che avevo poi conservato dentro la mia scatola.
Quello a cui tenevo di più, era senz’altro la collanina d’oro a forma di sole. Non sapevo a che era appartenesse, ma non mi appariva poi tanto antica.
 Custodivo anche un bellissimo anello la cui pietra era di uno splendido blu intenso. Dentro quel cofanetto, tenevo inoltre vecchie lettere dei miei genitori, che mi avevano scritto pochi mesi prima la loro morte.
Lo ritirai fuori dal penultimo scaffale e presi ad ispezionarlo per rammentarne il contenuto.
Aprii la prima busta che mi ritrovai sottomano. Guardai il foglio che conteneva per qualche secondo, e poi cominciai a leggere.


Cara Grace, 
ti scrivo questa lettera e le altre che seguiranno, per aiutarti. 
Per aiutarti a non perdere quella determinazione che sempre ha illuminato i tuoi occhi, che sempre ti porterà alla realizzazione dei tuoi obiettivi, che sempre ti condurrà  al coraggio con il quale affronterai pericoli che ancora non conosci.  Stai crescendo, Grace. Stai imparando. Imparando a scegliere cosa è giusto e cosa è sbagliato. Anche se dopotutto, non c’è molta differenza tra le due cose. 
È tutta una questione di logica, alla fine. E a te la logica non è mai mancata.
Anche se in realtà tu non hai mai avuto la possibilità di stare con la testa per aria. Non hai potuto scegliere quando smettere di essere una bambina. Sei dovuta crescere. E anche in fretta. 
Forse ti abbiamo privato della cosa più importante per un bambino. Ti abbiamo privato della fantasia.
Forse è per questo che sei sempre stata così razionale e, logica e ti sei allontanata tanto da questa.
Ma io ti prometto che un giorno sarà la fantasia a ritornare da te. Magari non nel modo in cui ti aspetti, ma prima o poi la fantasia torna a tutti. Anche a quegli adulti indaffarati che una volta  vecchi cominciano a preoccuparsi di ciò che troveranno dopo la morte. Ed è là che la fantasia ritorna. 
È là che ti dà la forza per andare avanti, e per sognare ancora.  Ma  tu non aver mai paura della morte.
La morte non è nulla in confronto alla vita.  È la nostra esistenza che conta. 
L’importante non è vincere, ma partecipare.
La vita non è tanto l’insieme delle cose che ti succede, quanto come reagisci ad esse.
Quindi, bambina mia, non perdere mai la determinazione che tante volte ho visto bloccare le tue lacrime, non perdere quella speranza che tante volte ti conforterà nei momenti difficili, e non arrenderti. Mai.

Con immenso affetto, mamma
18 settembre 3004
 

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