Roses and thistles di marguerite_murcielago (/viewuser.php?uid=54789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: fotografia di un dipinto ***
Capitolo 2: *** L'arrivo di lady Catherine Fitzjohn ***
Capitolo 3: *** Una lettera francese ***
Capitolo 4: *** Fantasmi di conflitto ***
Capitolo 5: *** Vaiolo ***
Capitolo 6: *** Primo squillo di tromba contro la donna ***
Capitolo 7: *** Il cardo e la rosa ***
Capitolo 8: *** Il ratto di Scozia ***
Capitolo 9: *** Il signore di Pontefract ***
Capitolo 10: *** Magia ***
Capitolo 11: *** I farsetti ***
Capitolo 12: *** Un inganno ha dato inizio a questa faida... ***
Capitolo 13: *** ... con un dipinto si conclude questo racconto ***
Capitolo 14: *** Epilogo: Il passato futuro ***
Capitolo 1 *** Prologo: fotografia di un dipinto ***
Questa
storia comincia con…
Il dipinto
– numero di catalogo 423B – custodito nei recessi
della National Gallery di
Edimburgo non è mai stato esposto al pubblico. Per
divertimento dei suoi
proprietari, i maggiori esperti di arte sono stati convocati in gran
segreto
nella stanza: il loro verdetto è stato unanime.
Tutti
riconoscono la cittadella grigia e color seppia sullo sfondo come la
Londra
tudoriana; allo stesso modo conoscono le due dame ritratte: a sinistra,
una
donna altera e pallida dai capelli rossicci; a destra, una fanciulla
più
giovane e più alta, capelli scuri ed occhi ambrati.
-
Elizabeth I Tudor!
-
Élisabeth Ire…
- Elžbieta I.
E…
- Mary,
the Queen of Scots!
- Mary
Stuart…
- Maria
Stuarda.
Ma il vero
fulcro della composizione è il
duello:
due uomini che si fronteggiano in uno scontro all’arma
bianca: il paladino di
Elizabeth indossa una casacca bianca e rossa, i colori della rosa
araldica, il
paladino di Mary è vestito di bianco e azzurro.
Altre
figure, in secondo piano, assistono allo scontro: tra esse,
però, le uniche ben
definite sono quelle di una dama di compagnia ed una guardia di
palazzo.
Ma cosa rappresenta quel dipinto?
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Capitolo 2 *** L'arrivo di lady Catherine Fitzjohn ***
Give me
strength to
face the truth, the doubt within my soul
(The truth
beneath the Rose, Within Temptation)
il
ventiquattro del mese di Giugno dell’Anno Domini 1561
Vostra
Eccellentissima Grazia,
è con il cuore colmo di gratitudine che la vostra
umile e sottomessa servitrice si accinge a partire per Londra, ove la
Vostra
Illustrissima Maestà ha richiesto la mia umile presenza e i
miei ancor più
umili servigi.
Più di quanto le
parole possano esprimere desidero informare Vostra Grazia che ogni
notte prego
per la Vostra salute, felicità e lungimiranza, per Voi che
siete la più grande
Regina mai nata sul suolo d’Inghilterra – e con
altrettanto ardore saluto il
nobile e giusto Marchese di Pembroke, quand’egli
leggerà questa missiva.
Che Dio vi abbia
sempre in gloria, Vostra Maestà.
La
Vostra sottomessa, umilissima
Catherine
Fitzjohn
- Che ne
pensate, Arthur?
- Io non credo che Vostra Grazia desideri conoscere la mia
idea.
- Non vi avrei posto la domanda, se non fossi stata
interessata alla risposta.
- Rimango dell’idea che Vostra Grazia desideri vedermi sul
fondo del mare da quando ha scoperto il ritratto di sua cugina Mary nei
miei
appartamenti. Di conseguenza, Vostra Grazia non ascolterebbe una parola
di ciò
che potrei dire finché un nuovo amore non lenirà
il suo orgoglio ferito.
Elizabeth scoccò un’occhiata in tralice al
cortigiano, che
le dava le spalle per osservare i giardini.
- Io e Leicester potremmo trascorrere un lungo pomeriggio a
disquisire su cosa tu possegga di più affilato: la tua spada
o la tua lingua? –
commentò, abbandonando la forma di cortesia cui era solita.
- Se vostra Grazia smettesse di provocarmi…
- Arthur! – sibilò Elizabeth, zittendolo.
Lui contrasse la bocca, tornando a fissare le aiuole di
Hampton Court.
- Allora, che opinione vi siete fatti di Catherine
Fitzjohn?
Arthur fece un mezzo sorriso.
- Se nessuno dei cortigiani più vicini a Vostra Grazia le
ha rivelato che sono stato investito del titolo di Marchese di
Pembroke, sento
di poter affermare, in tutta sincerità, che è la
prima dama che vi consiglio
caldamente di prendere al vostro servizio.
- Non mi interessano i vostri consigli – affermò
Elizabeth,
scrutando nella tazza di thé.
- Lo so, ma insistevate – rispose Arthur, con sicurezza;
abbandonò la sua postazione, ma prima di uscire dalla
stanzetta si chinò sulla
donna e le sussurrò, con un sorriso mefistofelico dipinto
sulle labbra: - Ho il
diritto di essere geloso della miniatura di Leicester che portate sul
petto?
Wallace si
tolse in fretta la camiciola, gettandosela alle
spalle come uno straccio qualunque.
Scalciò via anche il kilt, digrignando i denti per la
lentezza che stava impiegando; nudo, si tuffò
nell’acqua color ferro del loch,
emettendo al contempo un ansito a
lungo trattenuto. Riemerse.
Nuotava pigramente nell’acqua fredda, studiando con
interesse composto la propria epidermide, bianca come il latte; il loch Katrine era un ambiente familiare,
in cui nuotava fin da bambino e, se solo avesse potuto, avrebbe passato
molto
più tempo in quelle acque che in mezzo a quegli odiosi
nobili…
Fece un sorriso malevolo: - Dopo scriverò a Caino, per
ricordargli la mia esistenza…
Mentre tornava a riva e cercava, imprecando, i vestiti che
aveva lanciato in ogni direzione, pensò che non conosceva
modo migliore per
ritrovare il buon umore che nuotare nel loch
e pensare a come infastidire il suo compagno d’oltre confine
con i suoi commenti
sulla sua sgualdrina.
Mise la camicia senza curarsi di essere ancora bagnato.
Era così personale, il loro rapporto epistolare, che non
valeva la pena di farlo diventare uno scandalo.
- Cosa fate?
Arthur sollevò appena lo sguardo dal libro che stava
leggendo.
- Studio – rispose con ovvia semplicità, mettendo
da parte Moriae Encomium.
Elizabeth lesse il titolo sulla copertina rilegata e un
sorriso delizioso affiorò sulle sue labbra.
- Oh, ricordo che leggevate questo trattato fin da
quand’ero bambina - osservò, prendendolo in mano.
Fece per aprirlo, ma Arthur
glielo strappò dalle mani, mascherando il suo turbamento con
un sorriso.
- Cosa nascondete? Consegnatemelo! – esclamò la
Regina,
allungando la mano.
Reticente, le labbra serrate, il Marchese di Pembroke le
riconsegnò il libro e chinò la testa con aria di
gran contrizione; Elizabeth
osservò la sua espressione, a lungo e con aria sospettosa,
dopodichè aprì il
libro, strappandolo quasi, e scoppiò in una risata volta a
nascondere la sua
irritazione.
- A sir Arthur Cecil,
il mio più grande e amabile sostenitore in questa terra
nemica, Anne Boleyn.
È per questo che vi ho accordato fiducia? Per vedervi
nascondere come un
furfante le tracce di Nan Bullen?
Arthur espirò il fiato dal naso, chiudendo gli occhi.
- Adesso basta, vi farò allontanare da corte una volta per
tutte! – strepitò Elizabeth, correndo verso la
porta. Aveva già la mano sulla
maniglia, quando sospirò e tornò a fronteggiare
il cortigiano, che raddrizzò la
schiena in vista dell’imminente battaglia.
La regina attraversò di nuovo la camera e si
tuffò tra le
braccia di Arthur, afferrandogli il collo.
- Preferivate mia madre, Arthur? E adesso desiderate poter
stringere tra le braccia la bella nipote di mia zia Margaret, non
è così?
Ammettete quanto vi piacerebbe vederla sul trono
d’Inghilterra, così da averla
alla vostra mercè!
Arthur le afferrò i lacci del corpetto, ringhiando qualcosa
contro l’orecchio bianco di lei.
- Rispondetemi, Arthur! Lo esigo! Lo esigo, vi dico!
Lo colpì sul petto con i palmi delle mani, poi bussarono.
I due si separarono, furibondi.
- Milord, la nuova dama di compagnia è…
- Fatela entrare, Tennyson – lo interruppe Elizabeth, con
voce squillante.
La porta si aprì e, nel riquadro luminoso comparve la
ragazza. Lei abbassò subito il capo, inginocchiandosi con
aria molto graziosa;
le guance erano arrossate dalla fatica della cavalcata.
- Sono giunta non appena mi è stato possibile, Vostra
Grazia.
- Vi attendevo con impazienza, lady Fitzjohn. Sono certa
che la vostra presenza mi sarà di gran conforto,
poiché in questi giorni sulla
corte aleggia una certa aria di insubordinazione… -
osservò la Regina,
perfettamente a suo agio, e lasciò il fianco di Arthur per
accogliere la
ragazza.
Le osservò entrambe, fingendosi annoiato: la pallida
Catherine, con i grandi occhi chiari spalancati e le labbra indecise
tra un
sorriso consapevole ed un’aria seria e computa; e poi
Elizabeth.
Indossava un abito leggero, con ricami floreali rosso scuro
su rosso chiaro; e balze, balze color avorio dappertutto. La pesante
collana di
granati e oro aveva lasciato un segno rosa acceso sul collo, tra i
capelli
rossicci vedeva file di perle. Riconosceva la bellezza di Mary Stewart,
solo
uno sciocco non l’avrebbe riconosciuta, ma il suo amore
andava tutto a
Elizabeth.
Catherine
Fitzjohn sembrava una ragazza davvero ammodo,
posata e sobria come il vestito che indossava. Era azzurro pallido,
nella
stessa tinta dei suoi occhi, con una stampa di farfalle.
Gli unici ornamenti era un filo di piccole perle ed un paio
di orecchini dello stesso genere.
In effetti, la sua semplicità quasi stonava
nell’opulenza
propria delle dame e dei cortigiani di Elizabeth.
L’opinione di Arthur nei suoi confronti fu subito positiva,
ma venne cancellata l’istante successivo dalla candida
osservazione della
ragazza: - Marchese di Pembroke, ho già fatto qualcosa per
non meritarmi i
vostri saluti?!
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Capitolo 3 *** Una lettera francese ***
Come into my
world,
See through my eyes.
(See who I am, Within Temptation)
-
Co… cosa avete detto? – balbettò Arthur.
Catherine aggrottò la fronte: - Siete il Marchese di
Pembroke, non sbaglio.
- Non potete permettervi questo tono confidenziale –
osservò, piccato.
- Oh, lady Catherine, è proprio il Marchese di
Pembroke…
imparerete a conoscerlo anche come il personaggio più
scortese della corte –
osservò placidamente Elizabeth, prima di uscire assieme alla
dama. Arthur
rimase a bocca aperta, la sua colorita invettiva troncata sul nascere;
benché
non fosse né violento né sanguigno come molti
altri, bastava molto poco a
infastidirlo.
Elizabeth
sedette su una seggiola di ebano intagliato,
imbottita.
- Dimostratemi che le vostre abilità non sono frutto di
mere chiacchiere, milady…
- E se lo fossero? Cosa mi accadrebbe?
- In tal caso, mi rallegrerei all’idea che non sentirete la
mancanza della vostra testa, dopo avermi dimostrato che ne eravate
priva anche
quando respiravate – prese una ciliegia dal piatto
lì accanto.
- Cosa devo fare per dimostrarvi che non mento?
Elizabeth aggrottò la fronte.
Catherine attendeva la risposta, eppure sentì
l’impulso di
volgerle le spalle, nonostante sapesse e desiderasse fare qualsiasi
cosa fosse
in suo potere per compiacere la sovrana e non attirare la sua ira su di
sé.
Posò di nuovo gli occhi sulla bellezza tizianesca della
donna, gli occhi
scintillanti, il respiro affannato: - Vostra Grazia, fra breve
entrerà da
quella porta un vostro attendente; io non posso forzare il mio potere,
poiché
arriva solo in momenti di grande tensione e secondo un ordine
superiore, ma vi
giuro, sul mio onore di vergine, che d’ora in poi vi
aiuterò e vi sarò accanto.
Elizabeth cercò di replicare, ma un certo fracasso sulla
soglia attirò la sua attenzione.
L’uomo che aveva osato irrompere negli appartamenti reali
senza farsi annunciare doveva essere molto preoccupato, o molto
arrogante, o
molto sciocco; le due donne lo guardarono nello stesso istante, lui non
si
lasciò confondere e si concentrò solo sulla
Regina. Dopo aver deglutito, si
piegò.
- Vostra Maestà.
- Perché lo avete lasciato entrare senza preavviso?
– disse
lei, rivolgendosi a Pembroke.
- Ascoltate ciò che ha da dire, Vostra Grazia –
rispose il
marchese, uno sguardo durissimo negli occhi.
Elizabeth rimase immobile per qualche secondo, bianca in
volto, dopodichè fece un cenno stizzito all’uomo e
prese le distanze da tutte
le altre persone nella camera.
- Cosa dovete dirmi?
- Vostra Grazia… mi trovavo a nord, praticamente sul
confine con la Scozia, quando fermai un uomo che diceva di voler
semplicemente
far visita ad una vecchia zia. Lo lasciai entrare nella casa indicata
con un
nostro compagno, consapevoli che nella casupola viveva solo un vecchio
contadino… frugando nella bisaccia che portava, trovai
questa. So leggere
abbastanza bene il francese, ma sono state solo alcune parole ad
attrarre la
mia attenzione – si schiarì la voce e lesse
– Marie, reine des Ecossais
e la
conception pieuse de Dieu veut le sang de Élisabeth
versé et notre reine sur le
trône d’Angleterre.
Scese un silenzio attonito.
- No, una sciocca, frivola ragazzetta qual è Mary non
salirà mai sul trono che mi spetta – si
voltò verso Arthur e gli scoccò
un’occhiata indecifrabile – Sarai ben lieto, adesso
che anche Mary Stuart potrà
scaldare il tuo letto, il letto dell’amante
di tutte le Regine d’Inghilterra! –
sogghignò, a suo agio.
Arthur la lasciò parlare, avvicinandosi a lei con mosse
furtive; Catherine approfittò dell’ira della
sovrana per distogliere lo sguardo
dalla sua persona; puntò gli occhi sui propri piedi, poi
vagarono, senza
controllo, sul pavimento di pietra, finché non incontrarono
le gambe del
soldato.
Risalirono lungo i pantaloni grigi, la casacca azzurra –
poi, un paio d’occhi scuri.
Lui le fece un sorriso rapidissimo, dopodichè
stornò lo
sguardo.
Catherine pensò solo che fosse molto attraente, anche se il
viso glabro era fuori moda e quasi infantile.
- Devo fare qualcosa per Vostra Grazia? – domandò
il
soldato, sfidando l’irritazione di Elizabeth.
- No, non ancora. Arthur, il trattato è stato firmato da
nemmeno un anno e già i Francesi tramano contro di me?
perché mai?
- Io non considererei colpevoli i Francesi, Vostra Maestà
–
replicò Arthur, stringendo i pugni.
Elizabeth si arrestò e lo fissò con occhi di
brace: - Non
penserai che…
- Wallace è cattolico. E non ha mai fatto mistero del suo
odio per me e… e per voi.
- Wallace!
Arthur abbassò la testa, tentennò per un poco,
poi le prese
una mano; fu un gesto talmente intimo che Catherine e il soldato si
scambiarono
un’altra occhiata perplessa. Stranamente, Elizabeth lo
accettò.
- Uscite, tutti e due. Lady Catherine, vi manderò a
chiamare qualora la Regina desiderasse la vostra compagnia. Henry, voi
portate
quella lettera nei miei appartamenti e rimanete là, vi
raggiungerò fra non
molto – ordinò il marchese; i due si inchinarono e
si congedarono.
- Esca pure, milady – la riprese Henry, in tono per
metà
ironico e per metà angustiato.
- Avete
detto di chiamarvi Catherine?
- L’ha detto il marchese, non io.
- Perdonate la mia sfacciataggine, ma ciò non toglie che vi
chiamiate Catherine.
La dama si fermò in mezzo al corridoio.
Henry continuò a camminare.
-
Io…
- Io cosa?
Arthur si morse il labbro inferiore, dopo aver balbettato
quella parola.
La mano con cui aveva stretto quella di Elizabeth profumava
di lei; la annusò.
La Regina nascose un sorriso dietro la mano.
Sotto le fitte ciglia bionde, i suoi occhi scuri
ammiccarono.
- Voi cosa, Arthur?
- Vi amo, mia Signora.
Lei si appoggiò allo schienale della sedia, massaggiandosi
la tempia.
- Ditelo ancora, Arthur. Ditelo per me. Rendetemi felice,
fatemi dimenticare le congiure.
Fu un lampo fugace, il sorriso di Arthur: - Vi amo, mia
Signora, più di quanto abbia mai amato un’altra
persona; mai e poi mai vi
tradirei, né farei qualcosa per privarmi del vostro amore,
Vostra Grazia.
- Come siete puerile, mio caro… ah, stasera desidero
danzare a lungo con Leicester – lo provocò.
Arthur era attonito: quella donna era incomprensibile anche
per lui, che la conosceva meglio di tutti.
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Capitolo 4 *** Fantasmi di conflitto ***
Think’st
thou, Kate, to put me down
With a “No” or with a frown?
Since Love holds my heart in bands
I must do as Love commands.
(Ballata
di epoca Tudor)
L’incredibile
collezione di gioielli della Regina andava
messa in ordine.
Tutte le damigelle cinguettavano e attiravano l’attenzione
di Elizabeth con osservazioni scherzose e non lesinavano parole di
sincera
ammirazione per i bellissimi ornamenti che si passavano l’un
l’altra.
In mezzo a loro, la sovrana risplendeva di un sorriso
radioso, tuffando la mano tra le gemme e le perle con disinvoltura
perfettamente studiata, come chi esamina dei chicchi d’uva.
Catherine prese in
mano un’elegante filo di perle e smeraldi incastonati in
quadrati d’oro,
stendendola davanti al viso con il fiato sospeso. Poi contrasse le mani
e la
collana cadde ai suoi piedi con un tintinnio.
- C’è qualche problema, lady Catherine?
– domandò Kat
Ashley, incuriosita.
Catherine respirava pesantemente, gli occhi trasparenti
come cocci di vetro e le mani ancora alzate.
Chi era? chi
era?!
Si
premette una mano sullo stomaco.
- Va tutto bene – sussurrò, atona.
Non ebbe la forza di incrociare lo sguardo della Regina; le
avrebbe parlato più tardi.
L’una
Mary Stuart… ma
l’altro? Rosso come sangue, bianco come latte, verde come
erica di brughiera…
-
Vostra… Vostra Grazia, penso che questa collana
farà
scalpore al banchetto di questa sera – osservò,
mostrandole l’oggetto, e al suo
commento fecero coro le opinioni concordanti delle altre damigelle.
- Grazie, lady Catherine.
***
Henry
osservò come tutte le dame del seguito fossero state
prese da qualche ardito ballerino, tutti incoraggiati
dall’entusiasmo della
Regina: solo un cieco avrebbe pensato che non era la migliore
danzatrice
dell’intera corte.
Catherine Fitzjohn, invece, se ne stava in disparte, dopo
che il tentativo di accompagnarsi ad alcune donne era miseramente
fallito; si
fece versare altro vino e l’osservò mentre
declinava la premurosa offerta di
una donna ben vestita, sulla sessantina, e riprendeva a studiare le
proprie
mani e il ricamo della bella gonna, il sorriso che andava rapidamente
spegnendosi.
Gli sembrò terribilmente ingiusto.
Ma forse… forse era la Regina che non voleva sciupare la
novella dama.
La degnò appena di uno sguardo: ballava con il conte di
Leicester, simile ad una foglia nel vento, vestita di verde scuro.
Improvvisamente sicuro, abbandonò il suo posto,
attraversò la vasta sala.
- Volete ballare?
Catherine alzò lo sguardo, stupita.
Non sapeva bene cosa avesse fatto di particolare, ma
qualcosa nel contegno di Catherine cambiò.
- Sì, se lo desiderate.
Henry sorrise e le mise una mano sulla vita, apprezzando il
rossore che le comparve sulle gote; soltanto il giorno prima non
avrebbe avuto
tale reazione. L’idea di scatenare quella reazione nella
fanciulla lo mise a
suo agio; sentiva di avere un nuovo ascendente su di lei.
- Che musica è questa? – Catherine sembrava
imbarazzata.
- Come? Non avete mai ballato la volta? – la
sbeffeggiò.
- Eh?
- Non avete mai ballato la… - ripeté, con voce
stentorea.
- Scusate, non vi seguo – proruppe la sua compagna di
danza, piegando la testa all’inverosimile per seguire le
mosse della Regina.
Henry assottigliò lo sguardo e, abusando della distrazione
di lei e del ritmo
forsennato della danza, la spinse in un angolo.
Lei parve riscuotersi solo sentendo le sue mani sulle
spalle.
- La Regina è in pericolo?
- Non so… - gemette Catherine, torturando la manica
dell’abito.
Poi si mise in punta di piedi, in modo da avvicinare il viso al suo: -
Non so
decifrare quello che ho visto. Ho
visto Mary di Scozia e un uomo con i capelli rossi, la pelle bianca e
gli occhi
verdi… ma non lo conosco, perciò non so dare un
senso alla mia visione.
- Parlatene con Sua Maestà – le
suggerì, ma lei scosse
forte il capo.
- No! Come potrei? Non oserei mai interromperla mentre
balla! – replicò con orrore, il suo viso
sbiadì.
Le mani tremavano: sembrava sinceramente terrorizzata
all’idea di disturbare Elizabeth.
- Andrò io, allora. Non temete.
Catherine riprese a sorridere: - Per quale motivo dovrei
avere a cuore la vostra sorte?
***
Forse aveva
esagerato, con la cortesia.
Chiunque temeva la collera della Regina, chiunque! E lui
andava a scatenarla.
- Vostra Grazia… - fece un bel inchino – mi
concedereste un
ballo?
Lei gli porse la mano con infinita grazia.
La strinse tra le braccia fredde, aggrondato. - Milord,
sembrate molto turbato.
Henry deglutì.
- Vostra Maestà, mi rincresce enormemente dovervi
rattristare con brutte notizie, ma è una questione di vitale
importanza e non
l’avrei sollevata, se lady Catherine non mi avesse reso
partecipe del suo
angustiante dilemma…
- Di cosa state parlando?
Henry si arrestò.
- Lady Catherine ha visto vostra cugina Mary, in compagnia
di un uomo con i capelli rossi.
Elizabeth portò una mano alla bocca: - Non può
essere lui –
ringhiò. Poi fece una risata e gli prese le mani,
costringendolo a seguirla nei
rapidi movimenti della danza: - Nessuno deve pensare che stia accadendo
qualcosa di strano, è chiaro? – sibilò,
a voce molto bassa. Henry annuì e
riprese il controllo.
L’improbabile coppia volteggiò ancora,
finché la musica non
cambiò. Allora Elizabeth lo prese per mano e, nello stupore
generale, lo condusse
da lady Catherine, che attendeva torcendosi le mani, pallida in volto.
Ma
nessuno immaginò che ci fosse qualcosa, un segreto tra le
due donne, nel vedere
la Regina concedere la mano del suo cavaliere alla sua dama di
compagnia.
- Crediamo che sir Henry non abbia ballato con voi
abbastanza a lungo da dimostrarsi un buon cavaliere… alea iacta est –
scherzò, poco prima di essere reclamata da un
altro ballerino ansioso di mettersi in mostra. Si allontanò
senza degnarli più
di uno sguardo: la mano delicata di Catherine era nella sua, gli occhi
della
fanciulla fissavano tutto e niente, come impazziti.
- Allora? desiderate ancora ballare?
- Con chi altro potrei ballare, stasera? – ribatté
Catherine: di nuovo gli sembrò che sotto
quell’ammissione di solitudine ci
fosse altro, ma non se curò più di tanto. La
prese comunque.
***
A tarda
notte, anche i ballerini più tenaci abbandonarono
la sala, scuotendo pigramente la testa per combattere la stanchezza.
Dopo aver
esitato, pensando che Elizabeth volesse chiarimenti da lei, Catherine
aveva
dovuto abbandonare gli appartamenti reali; Kat Ashley chiuse la porta
con aria
molto solenne e tutte cercarono un giaciglio.
Semidistesa su un divanetto, la dama sentiva le palpebre
pesanti e desiderava solo addormentarsi… le gambe
formicolavano per la fatica
del ballo… era stata una serata davvero
spettacolare… sbadigliò, già prossima
a
scivolare tra le braccia di Orfeo, quando vide una figura scura
muoversi
nell’ombra e avvicinarsi alla maniglia; alla luce timida di
una candela,
riconobbe il marchese di Pembroke.
Provò un torpido senso di meraviglia, poiché
credeva che il
legame tra il marchese e la Regina si esaurisse al momento di soffocare
la luce
delle torce – credeva, sì, che condividesse il
letto solo con il conte di Leicester.
Tentò di alzare la testa per avvertire almeno mistress
Ashley, ma scoprì che
anche lei osservava l’ampia schiena di Arthur con aria
sorniona.
Allora emise un timido sospiro e si addormentò.
***
Arthur
lasciò uno spiraglio nella porta: se fosse giunto
qualcuno l’avrebbe udito subito.
Per un lungo, luminoso istante ammirò le volute del
baldacchino arrotolate attorno alle colonnine come nuvole impalpabili.
In mezzo
a loro, volutamente sobria e candida, c’era Elizabeth.
Trattenne il fiato.
Lei lo guardò in faccia e soffocò una risatina
dietro la
mano sottile.
- Vi faccio ridere come quand’eravate piccola –
affermò il
marchese, compiaciuto, liberandosi degli stivali. Con le sole calze
addosso
camminò verso la Regina, mollemente rannicchiata sulle
coperte.
Venne il turno del mantello, poi della camicia.
Leggermente ansimante, a petto nudo, lasciò che fosse lei
ad ammirarlo, per una volta.
- Venite da me, milord – lo pregò Elizabeth, dando
una
pacca al copriletto damascato.
- Mia Signora, attendevo di sentirvelo dire! –
balzò sul
letto, inseguendo le rosse labbra di Elizabeth con le proprie; alla
fine, però,
dovette stringerle la testa con una mano per impedirle di sfuggirgli
ancora.
- Ho un dubbio – gli disse infine, stesa sotto di lui con i
capelli allargati come una pozza di rame sciolto e le guance dipinte di
un rosa
tenue, come quando correva da giovinetta.
- Quale sarebbe? – non si chinò a baciarla ancora.
- Avrei dovuto prestare attenzione a Catherine – se si
fosse trattato di chiunque altro avrebbe pensato che la nota
più stridula che
vibrava nella sua voce squillante fosse panico, a stento trattenuto.
- Che dici? Che diavolo vai farneticando? – la
redarguì,
sollevandosi sulle braccia.
Elizabeth lo squadrò per un mezzo secondo, poi gli diede una
pacca sul braccio: - Spostatevi.
Lui non si mosse. Lei digrignò i denti, cercando di
trattenere la furia.
- Spostatevi – ripeté e non lo minacciò
né aggiunse nulla;
era cosciente del fatto che a parlare era la Regina
d’Inghilterra e neppure il
Marchese di Pembroke aveva tanta autorità da disubbidire ad
un suo esplicito
ordine, senza subirne le conseguenze. Arthur, infatti,
sbuffò e si fece da
parte, coprendosi l’inguine con una mano, come nulla fosse.
Elizabeth si alzò e indossò una vestaglia di seta
rosso
cremisi, legandosela in vita.
- Vestitevi, prima che faccia entrare lady Catherine –
Arthur raccattò i propri vestiti, facendosi in quattro per
infilarne quanti più
possibile, intanto la Regina chiamava un’insonnolita lady
Catherine.
- Milady, l’ora è tarda, nessuno ci
ascolta… è il momento
migliore per parlare.
Lady Catherine portò le mani all’acconciatura,
preoccupata
forse all’idea che si fosse disfatta.
- Buona sera, lady Catherine – la salutò Arthur,
seduto su
una sedia nell’angolo più lontano della stanza;
abbastanza lontano, sperava, da
non farle notare il suo insano colorito e il disordine delle vesti.
La ragazza spostò gli occhi trasparenti su di lui, senza
assumere una particolare espressione, e celò un sorrisino
contraendo appena gli
angoli della bocca. Certo, era sciocco sperare che una veggente non se
ne
accorgesse, così sorrise di rimando e le fece un cenno con
la mano.
- Sir Henry mi ha detto che avete avuto una delle vostre
visioni e che non avete osato disturbarmi…
- È così, Vostra Grazia.
- Ditemi cos’avete visto, e siate precisa.
Catherine aggrottò le sopracciglia, concentrata.
- C’erano una donna… lei era molto giovane, ho
ragione di
credere fosse vostra cugina Mary e si accompagnava ad un uomo che non
conosco,
mi è rimasto particolarmente impresso perché
aveva una pelle molto chiara,
perfino più della vostra, mia Signora, con capelli di un
rosso molto acceso e
cupo e un paio d’occhi verdi… come quelli di sir
Arthur – nel pronunciare
l’ultima affermazione lo guardò.
- Il suo nome è Wallace… quanto al cognome, non
è
importante – disse quest’ultimo, a bassa voce.
- Lo conoscete?
- Ahimé, è mio cugino. Mia Signora, dovete
parlarne al
Consiglio.
Elizabeth non rispose; diede le spalle agli interlocutori e
intrecciò le mani davanti al volto.
- No.
- Come?!
- Vostra Grazia, dovreste…
- Il Consiglio non sa mettersi d’accordo nemmeno
sull’orario della riunione; dovremmo aspettare ore prima di
ottenere una
dichiarazione logica e, cosa più importante, utile alla
nostra causa.
Aspettiamo.
Arthur serrò i denti: - Vostra Grazia, io non credo
che…
- Ciò che credete voi non è importante, sir.
- Anche le Regine più abili devono ascoltare i loro
collaboratori, di tanto in tanto.
- Perché sanno quando i collaboratori vanno ascoltati: questo non è uno di quei casi.
Arthur dovette mandar giù la bile.
- Quindi, cosa pensate di fare?
- Nulla – rispose lei, scrollando le spalle.
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Capitolo 5 *** Vaiolo ***
Through the
mist I see the face
Of an angel, calls my name
I remember you're the reason I have to stay
(Pale,
Within Temptation)
I mesi
passarono in relativa tranquillità; le spie di Cecil
e di Pembroke non scoprirono altri focolai di sommossa, né
Catherine ebbe più
angoscianti visioni di cospiratori. Prese confidenza con la vita di
corte, a
cui non era mai stata introdotta, e con il temperamento volubile della
Regina.
Attraverso il chiacchiericcio delle altre dame aveva
scoperto molto più di quanto ritenesse necessario: per
quello, parlava con
Arthur il meno possibile e lo evitava, ogni volta che si incontravano
nelle
lunghe gallerie del palazzo. Ogni donna timorata di Dio avrebbe fatto
lo
spesso.
Lady Margaret ne parlava un uggioso pomeriggio, mentre la
sovrana riposava nella stanza adiacente, per combattere un brutto mal
di testa:
- Sapete, lady Catherine, se la Regina udisse i nostri discorsi
s’infurierebbe
enormemente… lo coccola come se fosse suo figlio, o il suo
amato consorte – qui
le scoccò un’occhiata allusiva – e lo fa
accedere a luoghi segreti per
chiunque…
- Voi credete che Sua Grazia e sir Arthur…?
- Ovviamente no. Girano strane voci, su di lui. Quando sono
arrivata qui, quattro anni fa, incontrai una donna che lavorava per la
famiglia
reale da più di quarant’anni e lei stessa mi
rivelò di essere stata la giullare
favorita da lady Mary, la sorella di Sua Grazia, per tutta la sua
infanzia e la
sua adolescenza.
- Quindi? – incalzò Catherine, accostando il viso
a quello
di lady Margaret.
- Ebbene, Jane doveva avere sessanta, forse sessantacinque
anni all’epoca: e ancora ricordava che il Marchese di
Pembroke aveva condiviso
il letto con la madre di Sua Grazia e con altre mogli di re Henry.
Catherine era rimasta di sasso.
- Certo, non può essere possibile…
- Aspettate! La cosa più strana è ciò
che Jane mi disse
alla fine dell’incontro: “In verità,
lady Margaret, provo ancora timore e
preoccupazione se ci incontriamo in una stanza vuota,
benché, se Dio vuole,
morirò prima che decida di farmi tacere!
Quell’uomo è un servo del Demonio,
glielo dico io, perché dev’essere stato lui a
mettere in testa a quella Boleyn
l’idea di far invaghire il Re. Non sottovaluti il Marchese di
Pembroke, perché
non ho mai visto un suo capello farsi bianco, né una ruga
deturpare il suo bel
volto da giovinetto!”
***
Nell’ottobre
del 1562, la Regina si ammalò.
In un primo momento, Catherine sperò che si fosse
semplicemente raffreddata, poi tra le cameriere e gli inservienti,
prima ancora
che tra i cortigiani, cominciarono a serpeggiare voci di qualcosa di
più grave,
finché non fu chiaro che Elizabeth aveva contratto il vaiolo.
Pallida come un cencio, Catherine abbandonò il lavoro di
cucito e camminò in fretta verso gli appartamenti reali, che
le erano stati
preclusi da quasi una settimana, rassettandosi le vesti man mano.
- Desidero… vedere Sua Maestà – chiese
alla guardia che
presiedeva l’uscio.
- Temo che non sia possibile – rispose quello, un vago tono
di minaccia.
- Lasciatela entrare, Barrington. È una delle sue dame.
Conosceva quella voce dalle vocali aperte. Henry la salutò
con un mezzo inchino molto negletto, compensato dal sorriso apertamente
cordiale
e amichevole che le rivolse. Superò la guardia e, dopo
averle sfiorato un
gomito, la condusse nella stanza da letto della sovrana.
L’odore
nella stanza era pesante, molto pesante.
La sorprese, e non poco, scoprire che la Regina la fissava
dal letto, bianca come il cuscino su cui poggiava le spalle, con
l’accenno di
un sorriso soddisfatto sulle labbra screpolate. Se ne rese conto dopo
un paio
di secondi, così si inchinò in ritardo.
- Oh, sembrava proprio la vostra voce, quella che ho udito!
– esclamò Elizabeth, felice.
- Sì, Vostra Grazia, era pronta a litigare con
l’uomo di
guardia per entrare ed assistervi.
Catherine si avvicinò all’ampio letto, non senza
titubanza.
- Come vi sentite, Vostra Maestà?
- Fiacca. Lo trovo molto fastidioso – osservò la
sovrana,
tentando di sollevare un braccio; non riuscendovi, ricadde contro il
cuscino
con un profondo sospiro di disappunto.
- Vi assisterò io, milady – propose Catherine, di
getto;
Elizabeth la guardò con disapprovazione.
- Non se ne parla nemmeno! Voi siete molto importante, la
mia Cassandra, non posso permettervi di star vicino ad una donna
affetta da
vaiolo, nemmeno se quella donna sono io! Da parte mia, sono certa di
sopravvivere, ma voi? Sarebbe sicuro lasciarvi avvicinare? No,
perché non so se
vivrete – le scoccò un’occhiata
penetrante; l’aveva fatta tacere, perché era
nel giusto.
- Vostra Maestà – replicò Catherine,
infatti, ma con la
voce indurita dal dispiacere e dal disaccordo.
La osservò, mentre leggeva con occhi stanchi una missiva
appena arrivata dal continente; non l’aveva più
degnata di uno sguardo, in più
si sentiva vagamente perplessa nel ripensare al modo in cui
l’aveva chiamata. La mia Cassandra.
Sospirò, decise di
uscire da là.
- Ah, sir Henry – Elizabeth alzò la testa dalla
pergamena –
accompagnate lady Catherine ai suoi alloggi. E in futuro, per quanto
sia
comprensibile il vostro desiderio di non contrariare la mia dama,
cercate di
ubbidire ai miei ordini, prima che a quelli del vostro istinto.
- Perdonatemi, Vostra Grazia – mormorò lui,
chinandosi,
dopodichè poggiò una mano sulla spalla di
Catherine e la condusse fuori, mentre
il soldato di guardia le sorrideva, vittorioso ed impertinente.
- La Regina sta male.
- Me ne sono accorto – ringhiò Henry,
sospingendola di
malagrazia in un’altra ala del palazzo.
- Non vi sembra un motivo più che plausibile per…
- Per avere a cuore la sua sorte, magari? – la
rimbeccò
lui. Riuscì a zittirla.
Catherine sospirò, allargando le dita delle mani: - Se
morisse, mancherebbe di un erede…
- E si scatenerà una guerra civile – concluse il
soldato,
massaggiandosi le nocche della mano sinistra.
- E voi non temete che questo accada?
- Ho fiducia nella tempra della nostra signora; milady, non
temete per lei: se desidera sopravvivere lo farà –
fece un sorriso ironico –
nemmeno il Padreterno riuscirebbe a convincerla, in tal senso.
La ragazza annuì, timida ma un poco rassicurata.
- Dovete essere forte, lady Catherine – si congedò
Henry,
dinnanzi alla porta del suo appartamento, toccandosi il capello con due
dita. Lei
annuì legnosamente, arrovellandosi per trovare una frase
adatta.
- Buon pomeriggio, sir Henry – bisbigliò, seria,
prima di
intrufolarsi nello spiraglio che aveva aperto.
Premette la schiena contro la porta finché non
udì i passi
dell’uomo allontanarsi.
***
Lady Mildred
aveva fatto fronte alla sua ignoranza mondana
solo un mese prima.
Lei, lady Margaret e lady Mildred passeggiavano nei
giardini di Hampton Court, quando Margaret aveva osservato, con voce
maliziosa:
- Milady, non potete convincermi di essere la sventurata donnicciola di
campagna che vi dichiarate, perché ieri vi ho visto
conversare a lungo con sir
Henry Sidney!
- Oh, io… - non ebbe il tempo di rimediare,
poiché Mildred
scoppiò in una risata sgradevole.
- Sir Henry Sidney? Spero che voi stiate scherzando, Marge
– le sorrise con aria accondiscente.
Catherine rimase interdetta. – Perché, di grazia?
- Sir Henry Sidney è abbastanza noto a corte; come farvelo
capire? Per la maggior parte delle dame di corte è quello
che il conte di
Leicester è per la Regina: che siano mogli, vergini o
vedove, tutte lo guardano
con la bramosia di cornacchie affamate e lui non si tira certo
indietro, quando
gli si propongono. Se voi, milady, provate un sentimento forte e serio
per sir
Henry, avete tutta la mia pietà; sarebbe per voi molto
più onorevole, per
quanto doloroso, dimenticarlo e non farvi ferire da lui.
- Io non sono affatto infatuata di sir Henry, lady Mildred,
ma seguirò il vostro consiglio, prima che le lingue della
sua fiamma mi
lambiscano la pelle – rispose, la voce neutra, il viso
imperscrutabile.
***
Un paio di
settimane più tardi, dagli appartamenti reali
arrivò la notizia che Elizabeth stava soccombendo alla forte
febbre, che non
aveva accennato ad abbassarsi durante l’ultima settimana.
Catherine si ritirò nei suoi appartamenti, fiduciosa nella
possibilità che la sovrana potesse rimettersi, comunque
timorosa – se Elizabeth
fosse morta, i consiglieri avrebbero potuto condannarla a morte come
eretica e
posseduta dal Demonio, o uno di essi poteva prenderla e farne la sua
schiava.
Temeva i consiglieri, quasi tutti, così come diffidava
delle velenose dame della Regina.
Temeva anche il Marchese di Pembroke, che avrebbe avuto la
precedenza su di lei: non c’era nessuno di cui potesse
fidarsi; doveva tornare
assolutamente a Canterbury, se Elizabeth… bussarono.
Catherine fissò la porta con occhi spiritati, accarezzando
l’idea di non aprire nemmeno, ma i colpi si ripeterono ed una
voce fastidiosa
ed irritata prese a chiamarla e a dirle che “sapeva che era
lì”.
- Buongiorno – salutò, la mano sulla maniglia,
quando
Arthur la fulminò con lo sguardo.
I suoi occhi verdi lampeggiavano di rabbia perché
l’aveva
fatto attendere a lungo, ma sembravano anche stanchi e annoiati, come
se si
fosse costretto ad andare da lei, come se fosse
stato costretto.
- Badate bene di non ignorare un pari d’Inghilterra, quando
è alla vostra porta.
- Sono mortificata, milord, stavo solo…
Arthur la interruppe con uno sguardo sprezzante.
- Sua Maestà si è svegliata, ha finalmente
mangiato
qualcosa e adesso dorme – la informò.
- Questa notizia mi rallegra più di quanto voi possiate
immaginare – sospirò Catherine, sedendosi. Arthur
sorrise, un sorriso minuscolo
e quasi nascosto dietro le dita di una mano, ma tutto il suo volto si
era illuminato,
e quello non poteva certamente nasconderlo. Lei lo osservò
di sottecchi e le fu
chiaro che, per quanto malvagia ed innaturale poteva rivelarsi
l’essenza di
Pembroke, ciò che provava per Elizabeth andava oltre la
fedeltà, forse persino
oltre l’amore.
- Avete bisogno di qualcosa, in particolare? –
domandò lei,
con delicatezza, nel timore di interrompere le sue riflessioni. Il
marchese
inarcò le sopracciglia e parve fin troppo sorpreso: - Solo
di parole.
- Ditemi, vi ascolto.
- Sua Grazia mi manda a chiedervi se le vostre visioni
possono essere controllate.
Catherine si irrigidì. – No, non è mai
stato possibile. Non
è in mio potere.
- Avete già tentato?
- Non è in mio potere.
Arthur socchiuse le palpebre, inquisitorio, dopodichè si
mosse in fretta, per impedirle di reagire: in un attimo, la sedia di
Catherine
si rovesciò e lui le prese i polsi e la trascinò
bruscamente nella stanza da
letto.
- Siete
davvero ostinata, milady – le soffiò sul volto,
beffardo.
- Cosa state facendo?- boccheggiò lei, intrappolata dalle
sue gambe e dal suo bacino; alzando la testa, si rese conto di non
sentire
alcuna pressione in corrispondenza
del proprio bacino, ma lo sguardo di Arthur era di per sé
così crudele e
spaventoso che era sull’orlo delle lacrime.
Singhiozzò.
- Avete già tentato di avere visioni volontarie? –
domandò
ancora, chinandosi su di lei.
Le torse il polso destro, al punto di farle emettere un
piccolo lamento, a poggiò la bocca sul suo palmo;
incredibilmente, nonostante
la paura e l’incredulità, sentì un
formicolio, rivelatore e imbarazzante,
all’altezza dell’inguine.
- No, non ho mai tentato nulla di simile –
ribatté, il
fiato corto, nella speranza che Arthur si accontentasse della sua
risposta e
smettesse di gravarle addosso. Speranza vana, perché il
Marchese sospirò contro
la sua mano e allargò le labbra in un sogghigno: - Non vi
credo.
Lei impallidì.
- Vi prego, non fatemi del male… - implorò,
pigolante. Lui
fece risalire le labbra lungo le sue dita.
- Ditemi la verità e non vi toccherò
più, ma non vi farò
comunque del male – promise.
Le chiuse la punta dell’indice tra le labbra chiare e
soffici, carezzandole il dorso bianco della mano con le dita callose.
Catherine
si morse le labbra ed esalò un sospiro rumoroso, molto
inconsueto. Arthur… ma
era diverso da quello che si era fugacemente prima di essere spinta sul
proprio
letto; mentre lo guardava sfiorarle la pelle nei punti in cui era
più
sensibile, esperto come se fossero stati amanti di lunga data, non
vedeva i
suoi occhi verdi e sarcastici né i capelli biondo oro, nulla
di tutto ciò.
Era sicura di vedere un corpo bianco e roseo, liscio e
perfetto come seta, delle ciglia lunghe, un sorriso largo e disarmante
e poi la
sua bocca rosa si aprì per dirle: - Catherine, rammentate
un’occasione in cui
avete sforzato il vostro occhio per vedere quello che doveva venire?
Avete mai
forzato il Caso?
- Oh, Henry… - bisbigliò, rapita –
l’ho fatto, ma lo sforzo
per poco non mi uccise.
- Ecco, era così difficile? –
all’improvviso, la voce era
quella di Arthur, che indietreggiò sulle ginocchia.
Catherine cercò di colpirlo con il collo del piede.
- Siete un malfattore, un disonesto! – strillò, il
volto
arrossato dalla rabbia, mentre lui sghignazzava come uno sciocco: - A
nostro
modo, siamo stati entrambi baciati dalla Magia, per quanto voi siate
una
Cassandra ed io un Hermes di bassa lega – ammiccò,
sull’uscio – Oh, wie ich
ihn liebe, meinen Apollo!
- Uscite subito!
***
Non era
giusto.
Arthur l’aveva circuita, le aveva strappato le parole di
bocca – ancora peggio era il fatto che la Regina avesse,
probabilmente, dato il
suo benestare all’utilizzo di certe pratiche su di lei.
Trattata come una
cagna, come… sgranò gli occhi.
Guardo il
pavimento
rosso, disegni geometrici; non debbo temere, questa è la
volontà di Nostro
Signore e del suo inviato sulla Terra, Pio IV. Signore, guida la mia
mano,
affinché possa colpire il cuore dell’Inghilterra
eretica… presto finirò questa
scismatica e bastarda Gezabele! Le porte degli appartamenti reali.
Ancora poco.
Ancora poco.
-
Sua Grazia! Attentano alla vita di Sua Grazia! – si
lanciò nel corridoio strillando a pieni polmoni; subito
alcuni uomini a
seguirono, mentre si precipitava negli appartamenti di Sua
Maestà senza curarsi
della guardia che la richiamava indietro, ignara di quanto stava
accadendo.
- Fermatevi! – puntò il dito contro un servitore
vicino
alla parete, che reggeva un calice dorato nelle mani sporche di terra;
lui
sussultò e lasciò cadere la coppa, che
rimbalzò sul pavimento schizzando
ovunque vino e acqua. Prima che potessero fermarlo, saltò
sul letto reale,
mentre Elizabeth si appiattiva sul cuscino, troppo debole per potersi
difendere. Cercò di scattare in avanti, ma le guardie lo
fermarono. Nella
concitazione del momento, nessuno si accorse di Catherine, che
scivolò lungo lo
stipite della porta, sfiancata dalla corsa sotto gli abiti pesanti e
dal mal di
testa.
- Andiamo, sudicio papista! Andiamo!
- No, voi non potete capire! Siete anime corrotte, le capre
di Satana e quello è il grembo putrefatto che cova
l’Anticristo! Ascoltatemi,
credetemi! – sbraitava il sicario, impotente nella morsa dei
soldati regi.
- Voi siete pazzo! – replicò Elizabeth, pallida e
sdegnata,
e con un cenno lo fece portar via.
Catherine scivolò più in basso, fin quasi a
sedersi sul
pavimento. Era sollevata, perché ce l’aveva fatta.
- Lady Catherine, vi par maniera di comportarvi in nostra
presenza? – la sovrana la riproverò in tono duro,
mentre lei annaspava, tra le
risatine soffocate delle sue compagne, per avere un portamento
decoroso. Restò accanto
alla porta, un soffio costante le rinfrescava la pelle calda della
nuca.
- Perdonatemi, Vostra Maestà – chinò la
testa.
Lei la guardò a lungo. – Tornate in camera,
milady: avete
un aspetto talmente disfatto che temo grandemente avervi vicino
– rivelò con
grande semplicità, senza preoccuparsi di ferirla.
- Sì, Vostra Grazia – abbandonò la
sala, avendo dimenticato
anche l’orribile comportamento di Arthur.
***
Sonnecchiava
nel suo letto, mezza vestita, avvertendo un
forte calore al volto e alla bocca in particolare. Era molto stanca,
così non
si preoccupò nemmeno di quel calore febbricitante,
assolutamente certa – o tremendamente
speranzosa, secondo i punti di vista – che non avesse
contratto il morbo fatale.
Dopo la sopraffazione di Arthur e lo smascheramento del
sicario, sentiva di aver diritto ad un po’ di riposo.
Dormì a lungo e di gusto,
finché non venne l’alba successiva. A lungo, da
quel giorno, avrebbe faticato
ad addormentarsi, e a lungo avrebbe atteso di poter dormire
tranquillamente.
|
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Capitolo 6 *** Primo squillo di tromba contro la donna ***
I am
immortal, I have inside me blood of kings - yeah - yeah
I have no rival, no man can be my equal
Take me to the future of you all
(Princes of
the
Universe, Queen)
La testa
dell’uomo rotolò sul legno grezzo e umido di
pioggia.
- Non era un sicario di Filippo.
- No, mia Regina.
- Era di Mary.
- Sì, mia Regina.
Elizabeth guardò Arthur con la coda dell’occhio,
corrucciata.
Lui replicò con un leggero sorriso serafico, prima di
applaudire con garbo al boia che si ritirava.
- Ha continuato ad urlare a lungo, un’ammirabile abitudine
dei martiri cattolici.
- Che tono didattico usate adottare in queste circostanze!
– rise Elizabeth, tranquilla.
La folla che attorniava il patibolo cominciò a dissiparsi
come uno stormo di piccioni quando sopraggiunge il falco. Alcuni
guardarono
sfacciatamente in alto, laddove un millantatore li aveva avvertiti che
la
Regina e il suo misterioso famiglio avevano assistito alla barbara
uccisione.
Arthur sorrideva, crogiolandosi nel sottile piacere che la
crudeltà gli instillava.
- Non credevo sarebbe stato così difficile –
sussurrò la
Regina.
- Vostra Grazia, ve lo dico adesso, sebbene lo sappiate
già: se ci sarà una guerra, io non
potrò alzare la mano sui vostri sudditi
riottosi, né sulle truppe scozzesi. Potrò
affrontare Wallace e Wallace
soltanto.
Lei tossicchiò. – Lo so, Arthur. È per
questo che dobbiamo
agire subito; tu sei il più grande tra i miei difensori,
starà a te impedire lo
scoppio di una sommossa e di una guerra.
Arthur intanto aveva portato avanti la testa, così da
colpire
il vetro della finestra con il naso.
- Così tanto sangue… - disse. Le scale di legno
che
conducevano alla stanza scricchiolarono.
- Signore! – l’ufficiale scattò
sull’attenti, dopo essersi
gentilmente inchinato per Elizabeth.
- Arriverò fra poco, Joaquin. Aspettatemi di sotto
– lo
liquidò con un semplice cenno della mano.
- Sissignore.
I gradini tornarono a scricchiolare.
- Perché avete detto che non potrete affrontare i ribelli
inglesi? Mi avevate detto che il Patto impediva a Wallace di colpire e
uccidere
gli abitanti dell’Inghilterra; e voi non potevate colpire e
uccidere gli
scozzesi! Anche il vostro coraggio vacilla…
Arthur rispose: - Come potrei? Come potrei colpire
l’Inghilterra?
Poi tacquero e rimasero in silenzio, osservando i cavalieri
allontanarsi dalla Torre per appendere i tristi rimasugli del traditore
alle
porte della città. Il patibolo restò vuoto, nero
di acqua e rosso di sangue.
***
Cadeva la
neve sul palazzo di Greenwich.
Elizabeth sedeva nella stanza delle udienze, compita.
I bei capelli rossi acconciati con nastri di seta blu e
perle e diamanti.
Indossava un abito blu notte, con la gonna ampia e le
maniche adorne di gioielli.
- Vi abbiamo fatto chiamare… - esordì, la testa
alta, la
voce stentorea – perché la situazione si
è resa insopportabile; nostra cugina,
non paga di dover fare i conti con il suo stolto matrimonio e la
crescente
opposizione dei pari scozzesi, accarezza ancora l’idea di
spodestarci dal trono
che è nostro per diritto, in modo da poter governare questo
Paese prima che la
sua Scozia. Tuttavia, ammiriamo la sua costanza nel perseguire un
obbiettivo
che è al di fuori della sua portata!
Arthur soffocò una risata cattiva. Elizabeth lo
fissò
rapita fin troppo a lungo, prima di alzarsi e dirigersi verso
l’arcobaleno di
colori pastello alle sue spalle, le sue sei, timide damigelle di
compagnia.
- Lady Catherine, venite avanti – ordinò,
tendendole una
mano.
Lei accettò la mano diafana della Regina, a capo chino e
con le guance rosse, e si lasciò condurre al centro del
salone. Elizabeth, con
materna premura, le spostò un ciuffo di capelli neri che le
copriva l’occhio.
- Questa bambina – esordì, benché
Catherine non avesse più
di un paio d’anni in meno di lei –
ricoprirà un ruolo molto importante nei
nostri piani. Speriamo che voi siate uomini di spirito, non come certi
bigotti
che hanno l’ardire di sedere nel mio Parlamento, e che
guarderete alle sue
notevoli qualità con occhio imparziale.
- Vostra Grazia è davvero troppo buona –
mormorò Catherine,
ormai rossa fino alla punta del naso.
Elizabeth rise, tenne stretta la sua mano: - Adesso,
lasciate che sia lord Pembroke a parlarvi.
***
- For auld lang syne,
my dear, for auld lang syne, we'll tak' a cup o' kindness yet for auld
lang
syne.
L’uomo era ancora più alto di Henry, con braccia
lunghe e
impacciate, capelli rossi e occhi verde chiaro.
- Cosa cantate?
- Auld lang syne,
bonnie quine – replicò quello, facendole
l’occhiolino. Poi sorrise.
Catherine batté le palpebre un paio di volte.
- Non capisco.
- Ho detto: Auld lang syne, bella fanciulla –
spiegò
l’uomo, chinandosi a raccogliere un catino pieno
d’acqua sporca. Lo sollevò
senza alcuna fatica e lo rovesciò nel cortile,
dopodichè tornò a guardarla.
Lei rimase in silenzio, attonita. Non sapeva cosa dire.
- Io sono Harry, comunque – rimediò lui,
sbrigativamente.
Aveva una strana pronuncia.
- Catherine, molto piacere.
- Avete bisogno di qualcosa, Catherine?
Invece di rispondere, lei scoppiò a ridere. –
Avete un
accento così strano – addusse come spiegazione.
- Ah! È che sono scozzese – disse Harry, ora
intento
a riempire il catino di acqua pulita.
Scese uno strano silenzio, oltre al gorgoglio
dell’acqua che scorreva.
Catherine tacque a lungo, prima di esalare un: - Ah
– monocorde.
Harry alzò lo sguardo, accucciato com’era sul
pavimento coperto di stuoie, divertito: - Non vi spaventate, anche se
siete una
Sassenach non ho certo intenzione
di
divorarvi – ridacchiò.
- Grazie al Cielo.
- Vi serve qualcosa di particolare?
Lei sussultò; si era distratta.
- No, nulla.
- Allora perdonatemi, ma ho molto da fare – si
scusò
Harry, seduto su uno sgabello zoppo.
Catherine annuì, non sapendo cosa dire, non sapendo
neppure perché fosse finita nelle cucine del palazzo,
soprattutto in compagnia
di un servo scozzese. Così annuì ancora,
soprappensiero, e tornò dov’era il suo
posto, al fianco della Regina.
***
- Vorrei
poter vivere per sempre.
- Badate a non farvi udire, Vostra Grazia, o vi
scomunicheranno – rise Arthur.
- Lo faranno comunque; da Piccola che ero, sono
diventata la Grande Puttana che era mia madre.
Il grattare delle penne sulla pergamena si
interruppe quasi nello stesso momento: ai due angoli della stessa
stanza, gli
occhi verdi di Arthur incontrarono quelli scuri di Elizabeth, che
sollevò gli
angoli della bocca in un sorriso enigmatico, come un ritratto del Da
Vinci.
- Non sapete di cosa parlate – replicò lui, con
durezza; decise di tornare a lavorare alla lettera.
- Lo so bene, invece – gelida, provocatoria, la voce
acuta di Elizabeth lo costrinse ad affrontare una disputa che non era
sicuro di
saper vincere. Ma lei aspettava.
- Ne dubito, mia Regina – tracciò
un’altra parola.
Ripose la piuma.
- Vostra madre non era una… una… puttana.
Elizabeth non trattenne una smorfia di scherno: -
Voi dite? Non è forse il vostro – ancora quel
mefistofelico sorriso – un
tentativo di riscattare la vostra persona ai miei occhi?
- Non so di cosa parlate, Elizabeth – strinse i
denti: non la chiamava mai per nome.
Infatti le si illuminò di un sorriso trionfante, che
la rese tanto - più - dolorosamente bella.
- Sottovalutate la mia memoria d’adolescente, Arthur
– e sorridendo riprese a scrivere.
Lui sentiva il calore della vergogna farsi strada
sul suo volto e reagì di conseguenza.
- Cosa intendete dire? – ringhiò.
- Io dovevo essere Regina, milord, e vi vedevo
passare ad Hatfield quasi ogni mese, con noncuranza. Eppure, allo
stesso tempo,
le voci attorno a me dicevano che avevate giaciuto con la mia povera
madre, con
Jane Seymour e la Howard e la Parr. Volevate trattarmi da principessa,
Arthur,
quando ai miei occhi assomigliavate ad un ingordo parassita…
se non altro,
Thomas Seymour dava mostra della sua infatuazione.
- Sua Grazia non ha mai pensato che, forse, mi
recavo ad Hatfield perché ero a mia volta infatuato?
Elizabeth rise, una risata sgradevole che usava solo
per ferire i suoi consiglieri. E lui era già stato
paragonato a quell’idiota di
Seymour, e affondato.
- Sì, a volte l’ho pensato. Come ho pensato che
mia
madre mi amasse.
- Vi amava.
Lei si coprì gli occhi per un istante fugace, come
nulla fosse.
Arthur riprese coraggio, pensò di dirle qualcosa di
più; qualcosa di dolce e destabilizzante, in modo da farla
cadere in pezzi,
così da poterla stringere tra le braccia per mantenerla
integra, per amarla.
Dirle, per fare un solo esempio, che la prima volta
percorreva i giardini di Hatfield senza troppe speranze, sulla scia
della
leggera delusione che provava nei confronti della pia Mary,
finché, sotto il
cielo plumbeo di quella primavera non l’aveva vista, immobile
al centro del
prato, con i capelli rossi sciolti sulle spalle, una veste color mora,
la gola
bianca come panna.
Come lei l’aveva guardato con gli scuri occhi
sospettosi, fino a farlo capitolare.
Una bambina. La figlia di una donna appena
giustiziata, con cui condivideva l’infame opinione.
- Arthur, perdetevi nelle vostre fantasie quando
potrete farlo – lo sgridò Elizabeth,
già intenta a lavorare. Lui scosse la
testa, deluso, prima di fare lo stesso.
***
Mary non era
calma, tantomeno serena.
Per quanto modulasse il respiro e tentasse di
rilassare i muscoli del volto, finiva sempre con lo spaventarsi di
nuovo, e la
facciata di invincibilità che desiderava mantenere andava in
mille pezzi.
La fanciullina che l’aveva seguita fin dalla
Francia, un esserino dalla pelle dorata e gli occhi verdi,
salì su uno sgabello
per pettinarle i capelli ramati.
- Grazie, Mathilde. Puoi andare.
Lei scese dallo sgabello, impacciata dalle ampie
sottane.
Mary stese sulla pelle candida il trucco leggero che
aveva scelto.
- Vattene, sgorbio… sparisci.
- Smettetela di insultare le mie damigelle! –
borbottò, guardando nello specchio il ghigno di Wallace.
- Non farò nulla del genere, Vostra Grazia –
replicò
lui, scrollando le spalle; prese possesso di una sedia, su cui si
accomodò
senza alcun riguardo.
- Siete molto noiosa, talvolta.
Mary, da brava Regina quale agognava essere, lo
osservò con la coda dell’occhio: i capelli
sanguigni, il sorriso sgradevole che
rivolgeva alle sue spalle. Era facile all’ira quanto
screanzato, eppure non poteva
impedirsi di amarlo e di affidarsi a lui.
- Sono infelice, non noiosa.
- Perché? – la sua voce si fece più
calda, amabile.
- Perché… sono stanca di deludervi.
Wallace si alzò e andò a inginocchiarsi dietro di
lei, avvolgendola con le braccia.
- Oh, mia piccola, piccola Mary – mormorò, una
guancia sui suoi capelli, gli occhi chiusi – non potreste
deludermi nemmeno se
tentaste di uccidermi, e sapete perché? Perché
siete la Regina più pura, abile
e bella che esista, voi non potete deludermi.
- Allora – sgranò con innocenza i grandi occhi
ambrati – fareste una cosa, per me?
Wallace sorrise. – Qualsiasi cosa, per la mia bonnie
Mary.
Il sorriso di Mary fu limpido e saldo come il suo
sguardo; aveva la fede di tutta la cristianità negli occhi,
quando parlò: -
Qualsiasi cosa? Uccideresti anche Elizabeth, in modo da salvare tutto
il
cattolicesimo? Lo faresti, Wallace?
L’attesa durò a lungo.
Finalmente Wallace aprì gli occhi, senza spostare la
guancia dai capelli di Mary, e con il palmo della mano le
carezzò il mento
bianco e la gola, appena sopra la gorgiera.
- Sì, lo farei.
|
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Capitolo 7 *** Il cardo e la rosa ***
The princess
knew this and was filled with rage
She called the minister locked in her cage
And said in a soft voice to not be heard
"Make sure the green country is badly stirred."
(Daughter
of Evil, Vocaloid)
il
diciassette del mese di Dicembre dell’Anno Domini 1562
Alla
giustamente somma, giustamente potente e giustamente temibile
principessa
Elizabeth, prima di quel nome, sovrana d’Inghilterra e
Irlanda, da Sua cugina
Mary, sovrana di Scozia e delle Isole.
Eccellentissima
cugina, non abbiamo mai amato la violenza, ma la Vostra condotta
è
inaccettabile in ogni angolo della cristianità; sarebbe nel
giusto il Santo
Padre, qualora decidesse di privarVi dell’autorità
reale per mezzo di una
scomunica, ma noi non desideriamo vedere la nostra serenissima cugina
rovesciata
nella polvere.
Vi preghiamo,
dunque, con tutta l’ambascia del nostro cuore, a preservare
la Vostra persona
attraverso la fiducia nei Vostri medici e la Vostra anima, rientrando
in seno
alla Santa Chiesa Cattolica.
Marie R
***
il
ventiquattro del mese di Dicembre dell’Anno Domini 1562
A Mary, sovrana
di Scozia e delle Isole, da Sua cugina la principessa Elizabeth, prima
di quel
nome, sovrana d’Inghilterra e Irlanda.
La nostra
persona apprezza vivamente i Vostri amabilissimi consigli,
poiché quando, in
questo greve inverno, possiamo scorrerli con gli occhi, la loro vista
ci
rallegra quanto una buona musica. Tuttavia, confidiamo
nell’aiuto di Dio per perseverare
nel nostro intento e voce e inchiostro altrui andrebbero sprecati.
Che Dio Vi
protegga, in questo Santo Natale.
Elizabeth R
- Leggete
anche voi, Wallace! Non vi sembra una
lettera oltraggiosa e oltremodo arrogante?
- Direi che lady Jezabel può aver pensato lo stesso
del vostro invito ad abbandonare la via eretica.
Mary scosse tristemente la testa.
- Mia cugina vorrebbe governare l’Inghilterra come
se fosse la sua casa della bambole.
- Ci sta riuscendo e questo mi preoccupa molto –
aggiunse Wallace, corrugando la fronte; poi, senza una ragione
apparente, un
sorriso feroce si fece strada sul suo volto liscio. Mary ne fu
incuriosita.
- Perché sorridete? – chiese, perplessa, alzando
la
coppa; un uomo si fece avanti e le versò del vino speziato.
Ripose la coppa sul
tavolo e afferrò un panetto morbido, che ruppe in due.
Wallace accettò la metà che gli veniva porta e la
rigirò tra le mani a lungo, prima di rispondere.
- Penso a quanto sarei felice se potessi vedere
Arthur in ginocchio, sotto il mio piede, imbrattato del sangue della
sua
marionetta. La morte di Elizabeth lo devasterebbe – sorrise
ancora, felicissimo.
Mary impallidì un poco, in maniera quasi
impercettibile, così alzò la coppa per bere e
celare il proprio turbamento. Quand’era
più piccola, Wallace era stato un buon amico e tutore e non
aveva mai dato
segno di possedere un’indole tanto violenta e sanguinaria.
- Non abbiate paura di me, Vostra Grazia. È la mia
natura, non posso distorcerla.
- Sì, ne sono consapevole e non vi rimprovero
niente…
è che… - si riscosse e fissò il buio
oltre la finestra. Una campana lontana
suonò otto volte, portando l’eco del ritardo nella
stanza.
- Mia cugina ci attende – e si alzò, controllando
l’abito
rosso.
***
La camera
che avevano affittato in quell’occasione
era scura, le candele volutamente insufficienti per rischiarare
quell’enorme
ambiente. Sotto il soffitto dipinto e indorato le ombre si agitavano e
facevano
smorfie alla Regina scozzese, seduta su uno scranno al centro della
stanza.
Una porta si aprì con gran fracasso e Elizabeth fece
il suo ingresso.
Teneva un piatto e una candela in mano e sorrideva,
remissiva, apparendo molto più giovane e dolce di quanto in
realtà non fosse. Mary
fu sconvolta da quella sobria sceneggiata, così come
dall’abito che la sovrana
indossava sotto un pesante mantello da viaggio: era bianco, con inserti
dorati,
le maniche e il colletto ricoperti all’inverosimile di
gioielli e pietre
preziose.
- Buonasera, cugina.
Mary replicò con un duro cenno del capo. Elizabeth si
accomodò su una sedia gemella, distratta.
- Ho pensato che fosse doveroso portare la gioiosa
solennità del Natale anche in quest’incontro.
Curioso modo di scambiarsi i doni
di Capodanno, in verità.
- Non credevo che sareste venuta davvero –
considerò
Mary, in tono piatto.
- Ci sono persone di cui è impossibile dubitare –
replicò Elizabeth, con sicurezza. Si guardò
attorno.
- Credevo che avrei visto Wallace accanto a voi –
sospirò – sembra che non si fidi di me.
- Non lo fa, in effetti. Così come credo che il
Marchese di Pembroke non si fidi di me.
Elizabeth fece aderire le spalle allo schienale
della sedia e raddrizzò la testa, imperiosa.
La stoccata andò a segno: - Pembroke non ha
insistito per intromettersi negli affari di famiglia perché
non ha ragione di
essere apprensivo; lui è consapevole della mia
maturità… - a quel velato
affronto Mary espirò con forza: come osava insinuare che
fosse troppo giovane e
insicura per fronteggiare sua cugina senza il sostegno di Wallace?
- Così pensate, ma non è dei vostri…
intimi amici
che desidero parlare. Avete giustiziato uno scozzese.
- Uno scozzese che ha tentato vilmente di
ammazzarmi, lady Mary – ringhiò Elizabeth,
chiudendo i pugni sui braccioli
della sedia. Mary illividì, compiaciuta dalla propria frase
e offesa dal
denigrante appellativo che le era stato rivolto.
- Usate un tono più appropriato con me, Vostra
Grazia!
- Allora dirò che un vostro sicario, Vostra
Maestà,
ha tentato di uccidermi mentre riposavo!
Entrambe trattennero il fiato; il silenzio scese di
nuovo su di loro, interrotto dal crepitare delle fiammelle. Elizabeth
si alzò e
camminò in fretta fino alla finestra; Mary rimase immobile.
- Io sarò Regina d’Inghilterra –
sussurrò.
- Per la morte di Dio! siete una bambina, viziata
dai languori francesi e dal bigottismo papista! Non cederò
mai il mio regno a
voi, finché non dimostrerete di essere rispettosa e inglese!
Quello era un affronto troppo pesante per essere
tollerato.
- Sapete qual è la differenza tra la vostra rosa e
il mio cardo? Entrambi possiedono spine e foglie; forse la rosa
d’Inghilterra è
più bella e delicata di un cardo, ma non può
certo resistere alla pioggia e al
maltempo, quando i suoi petali si strappano per un alito di vento! Il
cardo
resiste e la resistenza lo porterà ad essere migliore!
- Anche la gramigna è tenace, ma il buon coltivatore
sa estirparla – sospirò Elizabeth e
abbandonò la sala, senza concederle nemmeno
una riverenza. Mary rimase sola, le guance arrossate, poi
scostò l’arazzo che
copriva la parete di fondo.
Wallace la squadrò con aria indecifrabile.
***
- Avete
detto questo alla Regina di Scozia? –
proruppe Catherine, turbata. Elizabeth era appena tornata a Richmond,
stanca e
affaticata dalla cavalcata che l’aveva condotta
all’incontro con Mary. Massaggiandosi
le tempie e la fronte, annuì e sospirò, mentre la
dama la spogliava dell’abito
pesante.
- Riposate, domani parlerete con lord Pembroke. Domani.
- Domani potrebbe essere troppo tardi per quello che
ho in mente – replicò la sovrana, stancamente
– Mandatelo a chiamare, per
favore. Dite che è questione di vita o di morte; lui
verrà.
Catherine annuì, uscendo dagli appartamenti.
Tornò poco dopo. – Intendete muovere guerra alla
Scozia? – chiese, titubante, sciogliendole i nodi
dell’acconciatura. Elizabeth fece
una risata forzata, emise un suono sprezzante: - No.
Le mani di Catherine si muovevano sempre più piano,
fredde come rametti ghiacciati.
- Allora, cosa volete fare? Se posso permettermi
questa domanda, Vostra Maestà.
- Voglio che voi andiate da lord Sidney, che so
molto dispiaciuto per il vostro cipiglio, milady.
Catherine rimase a bocca aperta: forse non aveva
capito bene. Doveva essere molto stanca.
- Su, che aspettate? Gli ho detto di attendervi nel
giardino, considerato il bel tempo.
E le fece un cenno di indiscutibile impazienza.
***
- Oh,
eccovi.
- Buongiorno… milord.
Henry sorrideva, di buonumore; indossava un farsetto
rosso acceso e giocherellava con un sasso.
Lei si sentì stranamente accaldata, visto che la
giornata, per quanto tersa e luminosa, era abbastanza rigida. Era
sempre più
imbarazzata, ma non potè fare a meno di rispondere al
sorriso di Henry.
Lui assunse una strana posizione per prenderle la
mano e farla sedere sulla panca, al suo fianco.
- Sapete, stanotte vi ho sognata – rivelò,
allegro,
continuando a toccarle le dita, il palmo, il dorso della mano; era
così –
stupendamente – a suo agio!
- E cosa avete sognato?
- Ho sognato che eravamo entrambi muti, ma sentivamo
lo stesso le parole altrui. Ad un certo punto, dicevate qualcosa sul
genere “a
me va bene non parlare e non sentire, se possiamo farlo
assieme”.
Catherine avvampò. – Sì, è
il genere di sciocchezza
che potrei dire – ammise.
- È una buona sciocchezza – disse Henry, a voce
più
bassa; lei alzò lo sguardo per la prima volta.
- Grazie – sussurrò. Erano vicini, davvero vicini:
se non fosse stato per le parole di Mildred, lei avrebbe anche
voluto… o potuto…
se solo le avesse dimostrato qualcosa di serio…
- Ah, siete qui! Vi cercavo, Henry – Arthur sostava,
torvo e trionfante, al centro del sentiero.
Henry lo guardò con aria distratta.
- Sì, milord. Mi avete trovato. Se non vi dispiace,
però, potreste attendere dietro quella siepe?
Arthur strabuzzò gli occhi. – Spero che voi stiate
scherzando.
- Non so quanto giocosa possa essere la mia voce, ma
la mia era una precisa richiesta – ribatté Henry,
al limite dello sgarbo. Catherine
si azzardò a stringergli l’avambraccio, per
avvisarlo, ma Arthur sbuffò e fece
quanto gli era stato chiesto, per incredibile che fosse.
- Mi state toccando, finalmente – sorrise il
soldato, gli occhi fissi sulla mano di Catherine.
- Uh… sì, stavate esageran…
do… - ancora mentre
parlava, la prese per le spalle e la fece alzare; lei teneva le mani
mollemente
sul petto, gli occhi sbarrati dalla paura. Lui le diede un bacio sulla
guancia
sinistra, poi uno sulla guancia destra e poi, quando lei si
scostò un poco, le
disse: - Aspetta – ma Catherine mosse comunque la testa,
così che le loro
labbra si sfiorarono.
In quel momento, sentendo le gambe farsi deboli, dovette
per forza mettergli le mani sulle spalle.
- Allora, lord Sidney, avete altri sgradevoli
approcci da fare?
- Sì – sospirò lui.
I due uomini si allontanarono assieme e Catherine li
seguì, poco dopo, macerandosi nella felicità.
|
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Capitolo 8 *** Il ratto di Scozia ***
I was
looking for the breath of a life
A little touch of a heavenly life
But all the choirs in my head say no, oh oh
(Breath
of life, Florence And The
Machine)
- Portare il
cardo a Londra dimostrerà quanto ho
asserito a Capodanno, cioè che la Scozia è
fragile e violabile quanto la sua
Regina – così Elizabeth congedò Arthur
ed i suoi uomini, e Catherine riuscì a
malapena a non tradire l’angoscia che quel noncurante
egocentrismo le causava.
Per la Regina, quell’incursione, quell’azione da
guerriglia era un fine per chiarire la sua predominanza su Mary, non si
curava
molto di chi avrebbe dovuto compiere quel gesto. Henry, nel frattempo,
si chinò
a baciare la bianca mano della sovrana e, ben interpretando il gesto
nervoso
che Catherine le rivolse, la raggiunse.
- Milady! – esclamò, gradevolmente sorpreso.
- Sono uscita solo per darvi questo… nella speranza
che gradiate avere con voi qualcosa che vi ricordi… che
dovete tornare –
balbettò lei, ficcandogli nel palmo della mano un anello
d’argento smaltato.
- Spero che nessuna bellezza dai capelli rossi vi
rapisca, lassù – aggiunse con un sorriso.
- Non riesco a credere di incontrare qualcuno che
possa affascinarmi, in Scozia.
- Io mi fido di voi – affermò Catherine,
candidamente.
Henry raggiunse i compagni, già a cavallo; non si
voltò a salutarla.
***
Lady
Margaret rideva.
- Non fingete! A palazzo non si fa che parlare di
voi; lady Mildred è furiosa, mentre lady Amy è
precipitata in un mutismo
disperato. Siete una delle gentildonne più chiacchierate di
corte.
- Scherzate, vero? – Catherine sospirò.
- Potete chiederlo a lady Amy di persona – replicò
Margaret, indicando la giovane, che si nascose dietro i lunghi capelli
biondo
cenere e si allontanò, con passo sconsolato.
- Credete che sir Henry sia semplicemente infatuato?
- Quello che penso, è che voi lo conosciate meglio
di me. Io non gli interesso e lui non interessa a me, di questo potete
esserne
certa – fece una smorfia. Catherine aprì il libro
che aveva in grembo,
aggrondata.
La camera
della Regina era piccola e affollata,
mancava l’aria.
Elizabeth era inquieta, torturava un fazzoletto
sbiadito, ogni tanto colpiva una delle dame con uno schiaffo, oppure
rimproverava aspramente i consiglieri che avevano l’ardire di
varcare la
soglia.
Solo William Cecil era indenne da questi scoppi
d’ira: era stato lui a raccontare che la Regina aveva di
nuovo la febbre, in
modo da scoraggiare eventuali approcci e convincere la cugina scozzese
che non
aveva né la forza, né la possibilità
di ardire complotti e trame contro di lei.
Invece lei rimaneva rinserrata nei suoi appartamenti,
torturata dall’ansia, circondata dalle dame e da una cospicua
guardia armata.
Era ovvio che, in quest’atmosfera, i cattivi
pensieri potessero germogliare come gemme a primavera.
- Lady Catherine, perché non parlate?
- Lady Catherine, è vero che lord Sidney vi ha
giurato eterno amore?
- Milady, perché siete così pallida?
- State bene? Siete per caso…
Impazziva, pensando anche ai pericoli che correvano
Arthur ed Henry, a Nord.
Passò quasi una settimana, prima che arrivasse un
messaggero.
***
- Lord
Arthur Cecil mi manda a dirvi che hanno
raggiunto la guarnigione di Berwick e che non potrà mandarvi
altri messaggi
finché non oltrepasserà nuovamente il confine
inglese. Vi dice anche di non
preoccuparvi, perché non esiste “un
solo
dannatissimo scozzese che possa impedirmi di andarmene a gozzovigliare
in un
pub di Londra”, sue precise parole.
- Non si smentisce mai. Grazie, milord… qualcuno lo
accompagni e gli dia cibo e bevande!
Elizabeth abbandonò la stanza, prontamente seguita
da Catherine, che sapeva di doverla seguire.
- Sembrate angustiata, eppure lord Pembroke è
assolutamente convinto di potervi compiacere senza che accada nulla di
irreparabile… - tentò di rassicurarla posandole
una mano sull’avambraccio, ma
lei la fece scostare con uno schiaffo. Era la prima volta che la
trattava in
maniera tanto sgarbata, capì che, forse per la prima volta,
era davvero
sconvolta e preoccupata.
- Cosa posso fare per rendervi meno amara
quest’inezia? – la domanda era retorica.
- In cucina lavora uno scozzese che ha nome Harry…
lo rammentate? Ha partecipato… - perse la voce, lo sguardo
smarrito che vagava
oltre il vetro della finestra, per appuntarsi sul cielo nuvoloso.
- L’ho conosciuto, Vostra Grazia – disse Catherine,
nella speranza di farla tornare alla questione.
- Davvero? Comunque sia, andate da lui e ditegli di
far preparare tre cavalli: il mio e altri due tra i più
giovani e freschi per
voi e per lui. Ditegli anche di prendere con sé delle armi,
sarà la mia unica
scorta.
Catherine era incredula: ciò che le stava dicendo la
Regina era pericoloso e irragionevole.
- Ma Vostra Maestà… perché
dovrà far sellare i
cavalli?
- Dovremo andare incontro ad Arthur… ci sposteremo a
Pontefract, in gran segreto.
- Qualcuno potrebbe scoprire che viaggiate con un
solo uomo a proteggervi, e allora…
Elizabeth sospirò, irritata. – Il castello di
Pontefract è governato da un uomo di incrollabile
lealtà – disse a denti
stretti; la ragazza capì di essersi spinta troppo oltre.
Scusandosi, si inchinò
e si apprestò a raggiungere Harry, per riferirgli il penoso
messaggio.
***
In cielo si
addensavano nuvole opache e pesanti, che
gettavano la galleria che stava percorrendo in una deprimente penombra.
Catherine camminava velocemente, la fronte aggrottata: un'altra piccola
scala e
sarebbe arrivata alle cucine.
Un primo lampo si riflesse sul pavimento in legno,
cogliendola di sorpresa.
Si fermò un attimo, tendendo l’orecchio per
sentire
il tuono, invece dall’esterno arrivarono voci alte e
concitate, tra cui
risaltava quella acuta e stentorea del Marchese di Pembroke. Il cuore
cominciò
a batterle forte e dovette appoggiarsi ad una bassa credenza, prima che
le
gambe cedessero; erano già tornati!
Con il cuore in gola si avventò sul chiavistello
della porta più vicina, la spalancò e corse nel
cortile polveroso; ebbe appena
il tempo di notare che non c’era nessun cavallo, nessun
Marchese, che il lampo
le entrò negli occhi, riflettendosi nelle iridi cristalline,
per farle guardare
un altro cielo cupo e pregno di pioggia.
Lontano, a Nord. In Scozia.
***
Il tuono
riecheggiò nelle orecchie di Catherine, che
scoprì di essere carponi, assistita da lady Margaret e lady
Kat Ashley, madida
di sudore e pioggia. Le due donne le avevano coperto le spalle con uno
scialle.
- Cos’avete visto? – Kat la scosse, facendole
ondeggiare la testa avanti e indietro.
- Hanno… hanno il cardo… Arthur è
ferito, ma ce la
faranno – rispose, serrando gli occhi.
La pioggia le scorreva lungo le tempie, ma pur
consapevole che raccontare cos’aveva visto
l’avrebbe liberata dall’incubo della
visione non disse nulla: ad Elizabeth sarebbe importato solo di Arthur.
- Ne siete sicura? Non vi condurrò dalla Regina
finché non ne sarete certa! – gridò
Kat, mentre le sue labbra tremavano.
Cercò l’appoggio di lady Margaret, ma gli occhi
marroni della donna erano freddi: - Ha ragione.
Come poteva spiegare loro che non sapeva nemmeno
cosa temeva di più, se l’innegabile sofferenza
fisica di ricercare una visione
o la consapevolezza che quello che avrebbe visto…
- No, io non posso – gemette, ma le due donne la
fissarono prive di pietà.
Lady Margaret le asciugò il naso con un fazzoletto:
- Provateci, milady. È il vostro compito.
Catherine alzò la testa, fissando il vuoto ad occhi
sbarrati; come una fiammella nella notte, cercava qualcosa che forse
non
avrebbe mai visto, mentre il dolore nella sua testa aumentava,
diventava nausea
e debolezza e febbre.
Uno schiocco nelle orecchie.
Una luce negli occhi.
Fili
d’erba contro un
lato del volto, il cielo blu e giallastro… le ciglia si
avvicinano,
s’intrecciano.
Inspirò
pesantemente, inarcando la schiena; le mani
tremavano come quelle di un vecchio.
- Cosa sta succedendo?
Era la voce di Harry, che la studiava da sopra le
spalle di lady Kat.
Lo guardò, stolidamente stupita dalla sua aria
preoccupata.
- Cos’avete visto? Stanno davvero tornando a casa?
- Henry è morto.
***
Elizabeth
spostò lo sguardo dalla sua vecchia
governante a lady Margaret a Harry, che sosteneva Catherine in modo da
non
farla crollare al suolo. Lei non riuscì a ricambiare lo
sguardo, assomigliava
ad un piccolo cumulo di indumenti fradici, sotto cui solo per caso era
finita
una ragazza. Piangeva.
- Cos’è successo? – domandò
in tono ragionevole,
rivolta a lei.
A parlare, però, fu lady Margaret.
- Lady Catherine non è in grado di rispondervi,
Vostra Grazia; l’abbiamo costretta a forzare…
- Cos’ha visto? – la interruppe la sovrana. Ci fu
un
attimo di penoso silenzio.
- Lady Catherine ha detto di aver visto lord
Pembroke e gli altri che fuggivano attraverso i monti
scozzesi… ma sono stati
raggiunti da un certo William…
- Wallace – la corresse Elizabeth, piccata.
- Wallace. Ha visto che Arthur è stato ferito ad una
gamba, altri uomini uccisi dagli scozzesi, e stava per essere
assassinato anche
lui, quando gli altri soldati sono intervenuti per proteggerlo. Sono
riusciti a
farlo salire su un cavallo, però… -
lanciò un’occhiata indecisa a Catherine,
che si afflosciò ancora di più contro il fianco
di Harry. Sospirò, come per
darsi la forza di continuare: - Dice che lord Sidney è stato
ucciso nel
confronto.
Elizabeth sgranò gli occhi e proprio allora
Catherine emise un lungo gemito, coprendosi il volto con le mani, e si
afflosciò tra le braccia dello scozzese, che
riuscì a reggerla senza grandi
difficoltà.
- Che Dio abbia pietà delle loro anime –
sussurrò la
sovrana e si fece il segno della croce. Poi si rivolse a lady Margaret:
-
Conducete Harry alla stanza di lady Catherine, così che
possa riposare. Solo il
Signore sa quanto ne abbia bisogno, ora.
Harry stese
la damigella sul letto, ancora vestita e
fradicia.
- Credete che risentirà di tutto questo? –
domandò.
Lady Margaret faticò a nascondere il nervosismo.
- Nessuno è così forte da sopportare un patimento
del genere senza vacillare nemmeno un attimo.
- Mi dispiace così
tanto per lei.
Lady Margaret le stese sopra una coperta, dopo
averle tolto almeno le scarpe e le calze.
- Potete passarmi quella salvietta, per favore? – le
asciugò il viso e la fronte.
Harry rimase in piedi accanto al letto per qualche
minuto, prima di ricordare che aveva molti compiti da assolvere. Si
congedò e
lasciò sole le due donne: - Se n’è
andato?
- Siete già sveglia? – Catherine socchiuse le
palpebre.
- Non riuscirò a dormire a lungo, temo – sorrise
debolmente.
- Posso fare qualcosa per alleviare la vostra
sofferenza?
La dama chiuse di nuovo gli occhi. – Infusi di
melissa e lavanda. Mi aiutano a combattere l’insonnia.
Lady Margaret le accarezzò la fronte: - Potreste
aver sbagliato, o visto qualcosa di incompleto.
- Mi piacerebbe così tanto aver sbagliato.
***
Il forte di
Berwick apparve all’orizzonte, lucido
sotto il pallido sole.
Arthur poteva vedere già gli uomini che si
affaccendavano sulle mura; sentì un sorriso nascergli sul
viso, nonostante i
muscoli induriti dalla fatica e dal dolore; il ginocchio mandava fitte
violente
ad ogni sobbalzo del cavallo, ma non aveva intenzione di fermarsi.
Sperò che Elizabeth avesse deciso di muoversi verso
Pontefract: il messaggio in codice doveva essere arrivato
già da qualche
giorno. Si guardò alle spalle per assicurarsi di non essere
seguito da alcuno;
solo i suoi uomini lo tallonavano, i loro cavalli non erano prestanti
quanto il
suo.
- Mi spiace, Hermes – ne accarezzò il collo caldo
e
sudaticcio e lui scosse il muso coperto di bava, poi affondò
le caviglie nei
suoi fianchi, costringendolo a galoppare a rotta di collo lungo il
pendio
erboso.
- Ha! Ha! – anche gli altri cavalieri seguirono il
suo esempio, diretti al confine inglese.
***
Wallace
colpì il muro con la mano, trattenendo a
stento le lacrime.
- Maledizione! Maledizione! Perfino nel morire
riuscite a trascinarmi nel vostro fango.
- Cosa vai dicendo? – Mary gli accarezzò le guance
umide di pianto. Wallace scosse il capo.
- Sono riusciti a portarsi via il mio cardo più
bello… non sono riuscito a far altro che uccidere un
soldato, sono venuto meno
al mio giuramento e adesso dovrò andare a Londra per
affrontare mio cugino in
duello! Come farò? Sono stato uno stupido, mi sono lasciato
trascinare dalla
soddisfazione.
Mary lo strinse a sé, lasciando che le inzuppasse il
colletto dell’abito con la sua disperazione.
- Non andrete… starete qui con me – promise,
passando le dita tra i suoi capelli sanguigni.
Wallace negò. – Cose tremende usciranno dal ventre
della terra e pioveranno dal cielo se non manterrò la mia
promessa; orribili
calamità colpiranno la Scozia, è dunque mio
compito impedirlo!
- Ma… potresti morire!
Le sorrise, accucciato sulle sue ginocchia come un
bambino: - Non sarà un inglese a uccidermi.
***
Catherine
era scivolata in un oblio lilla e giallo,
deliziosamente sereno, quando sentì un tocco leggero, di
piuma, sullo zigomo. Aprì
gli occhi e vide che si trattava di Harry, vestito con un mantello di
feltro.
- Perdonatemi, milady, ma Sua Grazia mi ha
incaricato di svegliarvi e condurvi alle scuderie. Ci muoviamo per
Pontefract e
non ha intenzione di ritardare la partenza per consentirvi di
assimilare la
brutta notizia. Davvero, mi spiace.
Ancora intontita Catherine gettò da parte le
coperte, tuffandosi nello spogliatoio; indossò un abito
grigio tortora, robusto
e comodo, confezionato apposta per eventuali viaggi invernali.
Uscì.
Lo scozzese continuava a guardarla con aria
preoccupata.
- Non temete, Harry – lo rassicurò, montando in
sella – sto e starò bene fino a Pontefract.
Elizabeth l’attendeva in sella al suo castrato
bianco, la bocca ridotta ad una cicatrice sottile.
- Oh, finalmente – si mise il cappuccio.
I tre, vestiti come semplici viandanti, oltrepassarono
i cancelli di Richmond, i cavalli al passo.
Prima di sparire dalla vista delle sentinelle
passarono al trotto, inoltrandosi nelle strade di campagna; qualche
miglio dopo
spronarono i cavalli al galoppo, con Elizabeth che conduceva il gruppo,
il
volto bianco come una maschera rivolto alla strada fangosa che scorreva
sotto
gli zoccoli del cavallo.
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Capitolo 9 *** Il signore di Pontefract ***
Saying this
ain't the day that it ends
Cause there's no white light
(White
light, George Michael)
Quando
giunsero a Pontefract, il padrone del
castello li attendeva sull’imponente scalinata
d’ingresso.
Era bruno e attraente, ma meno raffinato degli
aristocratici che frequentavano la corte.
Elizabeth smontò da cavallo con una piccola smorfia
di insofferenza; l’uomo scese i gradini lisi e le
baciò la mano.
- Sono anni che Vostra Grazia non mi fa visita –
fece notare in tono secco.
Lei sbadigliò, leggermente accigliata da
quell’irriverenza: - Sono qui solo perché
è necessario.
- Non desidero infatti puntualizzare sulle
motivazioni che vi hanno condotta qui.
- Allora tacete, lord Sidney.
Catherine, che stava a sua volta smontando da
cavallo, per poco perse la presa.
Elizabeth si tolse il pesante mantello dalle spalle,
rivelando un abito rosso e bianco.
- Entriamo – disse, spiccia, spingendo il nobiluomo
oltre la porta. Catherine e Harry la seguirono.
Quando
compresero la disposizione delle stanze e
trovarono la Regina e il suo ospite, questi erano già seduti
uno di fronte
all’altra e chiacchieravano del più e del meno, e
in apparenza non un pensiero
segnava i lineamenti della Regina. Eppure, quando fece il suo ingresso
– Harry
era fuggito quando lei aveva aperto la porta – vide i suoi
occhi scuri scattare
nella sua direzione, ansiosi, prima di posarsi di nuovo sul suo
interlocutore.
Andò a sedersi alle spalle della sovrana, muta.
Il signore di Pontefract la osservò con aria
indecifrabile per una frazione di secondo, ma poi rivolse nuovamente la
sua
attenzione alla Regina: - Come vi invidio, Vostra Grazia!
- Come mai, milord? – Elizabeth sorrideva, sapeva
già dove voleva arrivare.
- Tutte queste graziose fanciulle!
- Oh, siete davvero una persona terribile, proprio
come… vostro fratello – Catherine alzò
la testa: solo lei aveva avvertito quella
minuscola esitazione? Quindi registrò le sue parole. Vostro fratello.
Sussultò. – Vostro fratello?
Elizabeth voltò appena il capo nella sua direzione,
non abbastanza da guardarla direttamente.
- Sì, il nostro cortese ospite è Joaquin Sidney,
signore di Pontefract e fratello di sir Henry.
- Sono onorata di fare la vostra conoscenza – disse
a bassa voce, piegandosi in maniera che neppure il suo viso fosse
visibile
all’uomo; si posò le mani sullo stomaco, nel
tentativo di frenare l’onda.
Joaquin se ne accorse comunque, facendole desiderare di scomparire.
- State bene, milady?
Cercò di sorridere. – Sì, milord,
grazie.
Guardò la nuca di Elizabeth, ma lei non si voltò
a
sincerarsi che stesse davvero bene.
- Milady… ciò che sto per fare vi
addolorerà, vi
avviso fin d’ora.
Joaquin sembrava interdetto e ne aveva ben donde.
Catherine intuì cosa stava per accadere, così
tuffò la mano in una manica, alla
ricerca del fazzoletto di batista, incatenata dagli occhi castani
dell’uomo.
- Milord, ho commesso l’errore di mandare vostro
fratello in Scozia e là, per proteggere il suo comandante,
è stato vilmente
assassinato da uno scozzese.
Joaquin balzò in piedi, fissandola con occhi di
brace, le narici dilatate; non disse nulla.
Poi guardò la dama con aria accusatoria.
Catherine si fece rossa in volto, le labbra lucide
tese nella smorfia del pianto e serrò le palpebre,
così che le ciglia nere
scomparvero nella piega della pelle, ma non un suono uscì
dalle sue labbra,
eccezion fatta per un sibilo quasi inudibile.
- Henry? Morto?!
- Non rimarrà invendicato – promise Elizabeth, con
voce glaciale, ancora seduta.
L’uomo si passò una mano sul viso, stancamente,
dopodichè abbandonò la sala.
***
Aveva
lasciato la guarnigione di Berwick qualche ora
dopo il corriere che aveva inviato a Pontefract e da allora non si era
più
fermato: galoppava attraverso le campagne, evitando le città
più popolose, il
destriero andava molto più veloce di quanto si aspettasse,
poiché le strade
erano indurite dal gelo.
Perdette del tempo solo per controllare lo stato
della sua gamba, i pantaloni fradici di sangue: continuava a provare
dolore, ma
non aveva ancora la febbre, perciò non doveva preoccuparsi.
Strinse più forte le redini, piegato sul collo
dell’animale nonostante la schiena dolorante.
- Ve l’ho promesso, milady, di esservi accanto fino
alla fine della vostra vita – sibilò.
***
- Vostra
Maestà, questa è mia moglie: lady Eleanor
Bainbridge.
La donna non era una bellezza; indossava un abito
modesto, i capelli raccolti sotto una cuffia bianca, e gli occhi verdi
che posò
sulla Regina erano sciapi e fin troppo mansueti. Mostrò la
dovuta deferenza a
Elizabeth, poi tornò a sedersi accanto a Joaquin; Catherine
vide che teneva la
mano sulla sua.
- Oh, milady, questa è una dama di compagnia di Sua
Grazia… lady Catherine.
Si sorrisero leggermente, prima di accomodarsi.
Il pranzo fu servito.
- Vostra
Grazia, è appena arrivato un messaggero;
viene da Berwick, dice che può parlare solo a voi!
-
Perché non posso accompagnarvi?
- Perché io ve lo ordino! Non contradditemi, milady,
o la vostra bella testa finirà con il consumarsi su un ponte
di Londra! Seguite
lady Bainbridge e non azzardatevi ad origliare, per i seni di
sant’Agata!
Catherine si fermò in mezzo al passaggio, stringendo
le labbra fino a farle sbiancare, mentre Elizabeth perdeva interesse
per lei e si
avviava a lunghi passi verso la stanzetta in cui era stato fatto
accomodare il
messo.
- Ma, Vostra Maestà…
La Regina allontanò la mano dalla maniglia della
porta, cerea.
- Adesso basta! Smettete di importunarmi, sparite
dalla mia vista! – pestò un piede a terra, ma poi
dovette posarsi una mano sul
petto e respirare a fondo per calmarsi e riprendere un po’ di
colore.
Lady Ann Bainbridge l’attendeva in fondo alla
galleria, ostentando un pudore quasi verginale.
- Venite, milady.
Senza dire nient’altro la condusse in una stanza
riparata, senza finestre, e lì Catherine si sedette.
***
- Milord di
Pembroke ha sostato al castello di
Berwick per il tempo necessario a redigere questa lettera e fasciarsi
la gamba
ferita, prima di far sellare uno dei nostri migliori cavalli,
così da poter
giungere a sua volta a Pontefract.
- Quanto impiegherà? – domandò
Elizabeth, srotolando
il messaggio di Arthur.
Fate preparare
una stanza ben riscaldata, un letto pulito e i migliori medici che si
trovino a
poca distanza da Pontefract. Tenete Harry e Catherine con voi.
-
Sarà qui in poco meno di tre ore, se maltratterà
l’animale
come ha fatto fino ad ora.
Elizabeth strinse la lettera nel palmo, al fine di
stropicciarla e renderla illeggibile.
Scordò perfino di salutare il messaggero.
- Preparate
una stanza ben riscaldata, un letto
pulito e chiamate il vostro medico.
Joaquin sembrò interdetto, ma non impiegò molto
per
riprendere il controllo e prometterle che avrebbe fatto quanto
richiesto. Lady Eleanor
non aprì bocca, ma uscì per chiamare il
connestabile del palazzo.
- Mando a chiamare lady Catherine.
- No – la risposta di Elizabeth lo gelò
– Lei non
dovrà sapere nulla di quanto sta per accadere.
- Come Vostra Maestà desidera.
***
Bussarono
alla porta: colpi veloci e sommessi.
Ann Bainbridge, sorella minore di Eleanor, mise da
parte il lavoro di cucito con cui si stava intrattenendo da tempo per
andare ad
aprire, le guance rosse per l’emozione. Si sistemò
i capelli.
- Che ci fate qui, milord?! Vi avevo detto di non
venire!
- Non potevo farne a meno, Ann. Dovevo vedervi anche
oggi – replicò una voce maschile, ansiosa; Ann si
guardò fugacemente alle
spalle, per controllare che la sua prigioniera non stesse origliando.
Lei fece
finta di nulla, gli occhi fissi sulle proprie mani e la propria gonna.
- Siete un pazzo – mormorò allora, allungando una
mano nel riquadro scuro della porta.
- Non l’ho mai negato. Non ho mai rimpianto di
esserlo.
Un attimo di silenzio, un sospiro affrettato da
parte di Ann.
Catherine alzò appena lo sguardo.
- Comunque, cosa ci fate qui?
- Uhm, lord Sidney mi ha incaricato di preparare la
camera in fondo al corridoio.
Un singulto sorpreso. – Come mai? – la fanciulla
non
sembrava preoccupata all’idea di non ottemperare ai suoi
doveri di guardiana. Catherine
mise da parte il lavoro di cucito e cominciò a spostarsi.
- Non saprei… Ralph del panificio ha detto che deve
arrivare un nobiluomo da Nord, uno in fuga. Sciocchezze, a dire il
vero, una
storia inventata di sana pianta per mettersi in mostra tra la
servitù.
Ann non ebbe il tempo di replicare alcunché,
poiché
Catherine l’afferrò per le spalle e la costrinse a
spostarsi, dopodichè schivò
l’uomo attonito sulla soglia e, sollevando le gonne, si
lanciò in una folle
corsa attraverso la galleria.
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Capitolo 10 *** Magia ***
Fallen angel,
Tell me why
What is the reason,
The thorn in your eye?
(Angels, Within Temptation)
L’imponente
portone era spalancato e la luce del
tramonto vi entrava a fiotti.
Catherine sentì una mano invisibile, ma fortissima
serrarle la gola mentre rallentava l’andatura;
fissò la prima cosa che le
capitò sotto gli occhi, ovvero la chioma lussureggiante di
Elizabeth, ritta ed
immobile sull’ultimo gradino come una sentinella, o una Dea
pagana.
Poi, trattenendo il fiato in attesa del colpo finale,
spostò il viso sull’uomo che saliva faticosamente
la scalinata: capelli
indorati dal sole, ma occhi di un verde cupo, Arthur zoppicava e
guardava lei.
Ma lei, lei era fatalmente attratta dal fagotto che
teneva tra le braccia forti: un mantello di feltro, sgualcito e
macchiato di
sangue e fango, quasi indurito dalla sporcizia e una mano grigia
abbandonata
tra le pieghe scure.
- Dio! oh Dio!
Lui si fermò di fronte a lei per un attimo, mentre le
lacrime le inondavano le guance e il sangue colava in un rivolo sottile
dall’angolo della bocca, essendosi morsa la lingua durante la
corsa. Dentro di
lei nacque il desiderio di bestemmiare e di farsi uccidere da Dio nel
medesimo
istante, perché era tremendo
che
Henry fosse morto e che Arthur le avesse portato, memento
mori, il suo corpo.
***
Lo
cercò nei meandri più oscuri e vuoti del
castello,
chiamandolo a gran voce.
- Arthur! Arthur! Arthur! – trovò la stanza che
era
stata preparata per lui solo perché ne vide uscire una fila
impressionanti di
luminari della medicina, che borbottavano e scuotevano la testa con
aria irata.
- Farci trattare così!
Li schivò ed entrò nella stanza. In un angolo un
braciere mandava una luce calda, mentre Arthur si affannava a
raccogliere
oggetti in giro per la camera, zoppicando vistosamente. –
Entrate, milady.
Dietro di lui c’era un letto, ai piedi del letto un
mucchio di stoffa lercia che lei riconobbe subito.
- Catherine, avvicinatevi. Guardatelo – le
sussurrò con
voce morbida, ancora mosso da quella frenesia innaturale. Lei
deglutì e si portò
accanto al letto; allora, il suo cuore prese un ritmo irregolare.
Lui giaceva sotto le coperte di lana, ottenebrato dalla
febbre alta che gli coloriva orribilmente le guance, ma il viso era
sfatto e la
pelle grigia e sudata: gli occhi contornati da pesanti occhiaie, le
palpebre
per metà abbassate.
Arthur l’affiancò e scostò le lenzuola,
rivelando una
ferita sporca e infiammata.
- I medici non possono fare più niente – le disse
a
bassa voce. Lei tremò.
- Voi potreste
aiutarmi, solo se giurate che non mi fermerete, qualunque cosa io
faccia.
- Lo giuro – rispose subito Catherine. Arthur
annuì
gravemente e posò una mano sulla ferita di Henry; Catherine
faticò a trattenere
un conato di vomito: c’era carne gonfia e pus e acqua
giallastra.
- No, no. Guardatemi. Dovete guardarmi, perché guarisca.
Ho bisogno di sentire la Magia che scorre tra noi… - lei
distolse lo sguardo
dagli occhi opachi di Henry (era solo una sua idea, o vi ballava un
bagliore
verde?) e lo rivolse, a malincuore, al Marchese.
- Lord Henry Sidney – scandì lui con voce tonante
– la
Magia può salvarvi. Rivelate dunque, sinceramente, che
credete in questa Magia
che scorre nei nostri due corpi?
- Non può rispondervi – disse Catherine,
osservando il
modo irregolare in cui il suo petto si sollevava.
- Ma lo farà - e
così dicendo Arthur premette la mano contro la ferita: del
sangue gli schizzò
tra le dita ed Henry inspirò violentemente, rivolgendogli
gli occhi stralunati.
Il Marchese di Pembroke ripeté la domanda e lui
annuì.
- Adesso potete udirmi – continuò Arthur
– e mi direte
se volete essere salvato!
- Vi pre… go… - Henry chiuse gli occhi di nuovo.
- Parlate! La vostra vita dipende dalle vostre risposte!
– ruggì l’altro e affondò le
dita nella carne, senza alcuna pietà. Catherine
provò l’impulso di fermarlo, ma era trattenuta in
quella posizione da una forza
incredibile, che le schiacciava le spalle e le appesantiva le gambe.
Si rese conto che non avrebbe potuto far niente per
fermare la pazzia di Arthur.
Henry gemette, il pomo d’Adamo che andava su e giù
nei
singulti, le lacrime gli scorrevano sulle tempie e la schiena si
inarcava, nel
tentativo disperato di sottrarsi a quella lenta tortura. –
Io… voglio… ah!
Arthur l’afferrò per i capelli, rabbioso.
– Parlate! –
tuonò.
- Vi prego, milord… farò tutto quel che volete,
ma non
fatelo soffrire così!
- Taci, Catherine!
- Vi prego, milord. Vi prego! – giunse le mani tremanti
davanti al volto.
Le sembrava ormai chiaro che l’agonia di Henry era
giunta al termine: la sua resistenza era minima. Secondo lei, non
poteva
neppure più comprendere gli ordini e gli improperi
lanciategli da Arthur.
Alla fine, emettendo quello che pareva un sospiro
affranto, lui rantolò: - Sì – e si
afflosciò contro il cuscino.
-
Sapete molto di me, milady?
Catherine negò.
- Allora, sarà meglio che vi racconti la verità,
non una delle solite fuorvianti bugie.
E
continuate a guardarmi. Sono nato nell’anno del Signore
millequarantacinque, di
modo che nel millesessantasei, l’anno in cui giunse Guglielmo
il Conquistatore
avevo venticinque anni… ma, per una serie di eventi a cui
nemmeno una persona
come voi crederebbe, acquisii un potere… - si perse nei
ricordi per un attimo,
poi tornò a sorriderle – Non
c’è più bisogno di tremare,
starà bene. Avete la
mia parola.
Lei si lasciò massaggiare le spalle, ancora scossa da
quanto era appena accaduto.
- Capita spesso di sentirsi deboli dopo uno spreco di
magia – continuò lui.
- Pensavo che l’aveste ucciso.
- Un pensiero logico; ma sta bene, milady. Henry sta
bene.
Si coprì gli occhi con le mani, sentendo ancora le
ginocchia deboli per il terrore.
- Siete un mostro ed un eretico – affermò
meccanicamente. Lui rise allegramente.
Si alzò, poggiandosi ad un bastone intagliato: -
Farò
portare dell’ulmaria per la febbre.
Con la sua andatura irregolare, raggiunse la porta,
prima che lei lo trattenesse.
- Milord?
Arthur si voltò, incuriosito.
Catherine indugiò, temendo di essere troppo indiscreta con
le sue parole.
- Quello che mi avete raccontato era una… fuorviante bugia?
Il Marchese sorrise.
- Milady, queste sono domande assurde, che non dovreste porvi.
- Ma…
- Ascoltate le parole dei giullari, celano più
verità di quanto crediate.
***
La
pergamena
su cui stava scrivendo slittò sotto la penna e
svolazzò in alto.
- Umilmente e affranta vi scrivo, Vostra Santità,
affinché possiate
dispensare il mio amato e buon suddito… dall’ombra
di un omicidio assolutamente
involontario, perpetrato nel nome della giusta dottrina…
dispensarlo da un
orribile duello, ovviamente voluto da un eret e qui si
interrompe la vostra
commovente missiva per il Santo Padre – concluse Wallace,
irrisorio.
Mary arrossì e tentò di strappargli il foglio
dalle mani, cosa peraltro non
impossibile per una donna della sua altezza, ma lui lo nascose sotto il
farsetto. La Regina lo afferrò per la gola con le mani
delicate.
- Vi chiuderò nelle segrete come un volgarissimo criminale,
se tenterete di
andare in Inghilterra!
- Mi minacciate, Vostra Grazia! Mi minacciate! – Wallace rise
crudelmente,
premendosi una mano sul petto, come a simulare un mancamento, ed emise
un
sospiro svenevole.
***
Harry
vergò
le prime parole con tratti incerti e, in una certa misura, reticenti.
- Non posso farlo, milord. Non posso.
Arthur spostò la gamba ferita con una smorfia, per
avvicinarsi a lui.
- Harry… da quanti anni lavorate a corte?
- Non so che risposta vogliate, milord.
Il Marchese intinse la penna nel calamaio, fece asciugare
l’inchiostro
eccedente e gliela passò di nuovo. Non aveva la solita
espressione supponente,
né lo apostrofò con parole crude e insofferenti.
Harry indicò il ginocchio rigido dell’uomo e il
bastone intarsiato con cui
camminava.
- E come farete, quando Wallace giungerà ad affrontarvi?
Arthur sospirò.
- In qualche modo ce la farò.
- Allora, trovate consono quanto ho scritto? Nella giornata
di ieri milord
il Marchese è tornato dalla missione che l’aveva
impegnato; poiché mi è stato
ingiunto di partire con la Regina, mi trovavo nelle scuderie di
Pontefract,
quando mi è stato affidato il cavallo del Marchese.
Ora
egli se
ne va in giro proclamando a gran voce un duello imminente, e sia lui
che la
Regina si mostrano assai dispiaciuti nei confronti del signore di
Pontefract,
che ha visto arrivare in un feretro improvvisato il corpo del fratello.
- Non potevate fare di meglio, Harry. Adesso potete spedirla di
nascosto,
sperando che io o uno dei miei agenti la intercetti prima che raggiunga
Edimburgo – scherzò Arthur.
- Ho una sola domanda, milord!
- Ditemi pure, vi ascolto.
- Pensate di uccidere vostro cugino come se nulla fosse?
Arthur finse di rifletterci. Poi disse, serio: - Farò quello
che Dio comanda.
***
-
Non hai mai fatto richieste in merito alla dote di
nostra madre – osservò Joaquin, spiccio.
Henry sollevò a fatica la testa dal cuscino: era ancora
debilitato dalla febbre.
Lady Eleanor gli rivolse un’occhiata di glaciale
rimprovero e lo stesso fece suo fratello. – Sta’
giù.
- Non ho più sette anni e soprattutto non ho più
la
febbre – osservò Henry, stizzito. I due non gli
prestarono la benché minima
attenzione: Joaquin svolse il minuscolo pacchetto che aveva portato e
lady
Eleanor gli versò un’altra coppa di vino
annacquato.
- Trattala bene – commentò mettendogliela in mano;
la
spilla era grande, le perle e il grande cuore di lapislazzuli che la
decoravano
emettevano un bagliore delicatissimo. Henry ricordava molte occasioni
in cui
aveva potuto ammirarla, appuntata sul petto di sua madre.
- Meravigliosa – soffiò, sfiorandola appena con la
punta
delle dita.
Lady Eleanor scoppiò in una risata argentina: - Quando
Joaquin me la mostrò, credo che avrei potuto praticare un
buco nel legno della
scatola per l’ardore e l’intensità con
cui desideravo che quella spilla fosse
mia. È una fortuna che mi abbia detto che era parte della
vostra eredità –
scosse benevolmente il capo, come se quanto era accaduto non
più di cinque anni
prima facesse parte di un passato tanto remoto che non valeva la pena
rivangarlo.
- Volete che faccia venire qui lady Catherine? –
continuò compita, lisciandosi la gonna marrone.
Henry scosse la testa. – Non sono nemmeno in grado di
star seduto – mormorò – non è
il momento.
***
-
Milady? Milord Henry mi ha incaricato di riferirvi che
si sente molto meglio e desidera godere della vostra compagnia il prima
possibile – Catherine fissò lady Ann, che appariva
sconvolta quanto si sentiva
lei, intimamente. Mise da parte i dolcetti che stava piluccando
nell’attesa che
Sua Maestà uscisse dalla stanza in cui si era rinchiusa
assieme ad Arthur, con
gli occhi scuri che lampeggiavano di stizza.
- Davvero? – sussurrò evitando il suo sguardo.
- Sì, milady. L’ho trovato molto ansioso
– disse l’altra,
in tono confidenziale.
- Mi volevate? – bussò piano sullo stipite. Henry,
seduto allo scrittoio, le rivolse un sorriso abbacinante.
- Certo che vi volevo – rispose con voce suadente,
battendo le nocche contro una scatolina di legno intagliato che stava
tra loro.
Catherine raccolse un ricciolo scuro, che le era piovuto
sulla tempia, e si sedette davanti a lui, abbastanza discosta da non
poter
essere toccata con facilità. Lui sembrò
leggermente incupito.
- Perché mi volevate, milord?
- Per consegnarvi una cosa – Catherine sgranò gli
occhi
pallidi, le guance improvvisamente rosate.
Con un “clic” la serratura brunita della scatola
scattò
e il coperchio si sollevò; Henry la prese con due dita per
lato e la sollevò
completamente.
Lei trattenne bruscamente il fiato.
- Milord… io… non so cosa dire.
- Non è necessario che diciate nulla: poche cose al
mondo sono belle e delicate come questa spilla –
corrugò la fronte pallida,
eppure non smise di sorridere – o come voi, milady.
***
-
Gli amanti si donano anime e pegni d’amore. E voi,
Arthur, portate guerra e oro.
Arthur chinò la testa, incassando quella stoccata in
ammirevole silenzio.
Elizabeth rimase con lui, comunque, ad osservare gli
ultimi bagliori sanguigni del tramonto.
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Capitolo 11 *** I farsetti ***
God, I can't be forgiven for this sin
That I committed with these hands
(Moonlit
Bear,
Mothy)
Le
pietre inargentate dalla luna.
Le macchie scure, viola marrone
rosso, brillii metallici.
I suoi infidi artigli contratti
dall’ira, il sangue tra le dita.
Giù, giù, giù, fino a creare
un’altra
piccola macchia.
- Caino,
la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!
– la voce
riecheggiò fino all’alto soffitto, mentre la sua
gola sembrava dilaniarsi e i
brandelli di carne volare fuori dalla sua bocca con il sangue.
- Caino, Caino, se sono Caino il
ladro è Abele: è stato il primo a peccare!
– picchiò i pugni feriti a terra.
Poi vennero i singulti, l’ardente
speranza che qualcuno venisse a fermarlo; Abramo, Gesù
Cristo, aveva bevuto
troppo per potersi permettere simili paragoni biblici.
- Che la tua verminosa marionetta
possa bere il veleno sulle tue labbra e insieme a te morire!
- Perché, odiosissimo cugino, non
torni all’Inferno a cui ti hanno strappato?
Sputò sul pavimento lercio, colpì i
bicchieri ai suoi piedi, asciugandosi il viso con una tovaglia sporca
di vino.
Lì soffocò gli ultimi accenni di pianto e paura
infantile, poi la lasciò cadere
in un mucchio opaco.
Afferrò la spada, posta sullo
scranno, mentre si avviava verso l’uscita buia.
Gli uomini sulle mura salutarono con
le armi sguainate l’uomo con la casacca blu e bianca.
Mary
corse nel salone in camicia da
notte, i lunghi capelli ramati che le ondeggiavano sulla schiena.
- Dov’è Wallace? Dov’è
finito? –
gridò ad alta voce, aggirandosi lungo il perimetro delle
pareti come uno
spettro, nella speranza che si fosse nascosto dietro gli arazzi, dove
la luce
della luna non arrivava.
Abbandonò la ricerca, dopo aver
scostato i pesanti tendaggi con frenesia.
E sempre frettolosa, nervosa, il
rosso labbro inferiore che tremava di paura, si mise a guardare il
festino a
terra: vino rosso, piccole macchie di sangue, la tovaglia
accartocciata, posate
e bicchieri sparpagliati ovunque.
- Allora, dov’è? – ripeté,
impaziente. Con l’alluce nudo colpì un coltello.
Si ferì.
- Vostra Maestà, vi siete fatta male!
– ricacciò indietro la dama sollecita.
- Sì! e con ciò? Ho fatto una
domanda. A tutti voi.
Il capo delle guardie si strinse
nelle spalle: - Wallace è uscito dalla porta Sud ore fa.
- Non l’avete fermato?
- No, Vostra Grazia. Non ci è stato
ordinato.
Se n’era andato, alla fine, se n’era
andato lo stesso; anche se gli aveva ordinato di non farlo, anche se
gli aveva
promesso di trovare una soluzione, un’assoluzione…
fece un mezzo sorriso.
- Uscite tutti, per favore.
- Vostra Grazia, io non credo…
- Per favore, uscite – implorò e li
congedò con un gesto stanco.
Voltando loro le spalle, attese
immobile che abbandonassero la sala.
Poi portò una mano alla testa, di
lato, affondando le corte unghie nel cuoio capelluto, trattenendo
gemito di
frustrazione, perché Wallace l’aveva abbandonata
prima ancora che potesse
salutarlo e trattenere nelle narici e nella memoria il suo profumo
freddo.
E contorse la bocca come una bambina
piangente.
- No, Wallace, non farlo, no, no…
***
-
Sta venendo da me – annunciò
Arthur, la testa rivolta verso la finestra.
Elizabeth sedeva nuda contro il
vetro, la sua bellezza asciutta e inquieta divinizzata dalla luce
fredda.
Uno scatto, un battito di ciglia
opalescenti: - Come fai a saperlo?
- Non attenderebbe mai più di quanto
non ha già fatto.
La Regina lo fissò con occhi brucianti.
– Raccontami cos’è accaduto in Scozia
– disse.
Arthur raccolse i pensieri.
- Conoscevo la casa di Wallace;
sapevo che aveva un orto sul retro e che nel muro c’era una
vecchia porticina
che dava direttamente sul fianco della montagna. Dissi a
metà del gruppo di
aggirare il paese, senza farsi notare, e di attendere con i cavalli
oltre
quella porticina.
Presi con me i restanti soldati e
forzai la serratura. La casa era vuota.
Uscimmo e trovammo il cardo, così
tenero e vulnerabile, proprio in mezzo alla terra nera… fu
così semplice
prenderlo, che non pensai a quanto potesse
essere vecchia quella porticina: in breve, fece un fracasso incredibile
perché
i cardini erano duri come pietre che scorrevano. Wallace era nella casa
affianco e prima che potessimo scappare ci raggiunse con un drappello
di
guardie.
Allora… ci gettammo letteralmente
fuori dalla porta, arrampicandoci sul monte, ma vidi che il contingente
che
doveva aspettarci non c’era, ancora. Sfoderai la spada, ma
loro avevano gli
archi e in un batter di ciglia gli uomini che avrebbero dovuto
ubbidirmi, ma
stavano fuggendo, caddero. Mio… cugino mi colpì
al ginocchio, come puoi vedere.
Mi sovrastò, deciso a strapparmi il cardo dalle mani e ad
uccidermi, ma ebbe la
malaugurata idea di insultarvi. Insultare voi! Come poté
osare, quel vigliacco,
insultare la mia Bess? E così lo colpii, volevo gettarlo
indietro ed essere io ad affondare
la spada fino all’elsa
nella sua pancia!
Impazzivo dal dolore, quando vidi che
aveva la freccia incoccata e puntata su di me… Dio, quanto
mi odiò in
quell’istante… arrivarono gli altri…
sir Henry si piazzò davanti a me, di
sua volontà, perché Wallace non
potesse colpirmi! In effetti, lo fece ruzzolare ancora più
in basso, sull’erba
viscida, ma lui desiderava troppo uccidermi, era la prima volta da
molto tempo
che mi aveva in suo potere, e dimenticò di essere in
precario equilibrio. Mi
sentii così… quando vidi la corda vibrare sotto
il braccio di Wallace ed ero su
un cavallo grigio ed Henry sussultò, guardai le sue mani
mentre lasciava andare
le redini e quasi cadeva di sella.
Lo afferrai e lo portai via. Wallace
non sbraitò più alcun ordine, né
tentò di uccidermi.
-
Era convinto di aver ucciso lord
Sidney.
Arthur annuì. – Sì e lo crede ancora.
- Pensi di ucciderlo veramente?
- Non è affar mio se mi sfida a
duello; anche se non ha infranto il giuramento, pur andandoci molto
vicino,
verrà pur sempre qui a Londra per uccidermi, non importa
quale sia la
motivazione. Io accetterò e ci batteremo… e Dio
solo sa chi tra noi vincerà.
Elizabeth strinse le labbra,
disapprovava quella linea di pensiero, ma lui non se ne curava.
In quel momento, non provava niente
tranne quando Elizabeth, disinvolta, piegava il corpo perlaceo per
prendere
un’arancia e la sbucciava con le mani, sbeffeggiando
l’etichetta cui avrebbe
dovuto sottostare.
- Arthur, sembrate molto… felice – lo
schernì.
- Felicissimo – con un sospiro
rimarcò la sua leggera delusione per il ritorno alla forma
di cortesia.
Elizabeth gli mandò un bacio,
ironica, accavallando le gambe.
- Come va il vostro ginocchio?
- Meglio – ripose Arthur, laconico.
- Meglio non è sano.
- No, non lo è, ma sto abbastanza
bene – scrollò le spalle.
La Regina gettò in un piatto vuoto le
bucce d’arancia e si sporse ancora in avanti per scegliere
qualcos’altro da
mangiare; nel contempo si asciugò il mento e il labbro
inferiore con il mento,
in un gesto innocente ma, in maniera da lei imprescindibile, sensuale.
- Se lo state facendo a bella posta
per me, sappiate che ci state riuscendo – gracchiò
Arthur.
Elizabeth gli rivolse un’occhiata
furbesca, infilandosi un bonbon in bocca.
***
Piangeva?
Perché piangeva?
Si asciugò gli occhi con la manica
dell’abito; avevano la stessa radice delle lacrime che gli
riempivano gli occhi
quand’era ancora un mocciosetto e qualcuno di più
forte di lui lo zittiva e lo
costringeva all’impotenza.
Auld Will doveva aver percepito la
tensione del suo padrone, perché il suo galoppo era
più rabbioso che mai;
quando fosse sorto il sole, l’avrebbe portato a riposare
nella macchia. Gli
batté una mano sul collo.
- Non vogliamo che i Sassenach ci
trovino, vero? – l’apostrofò.
– Ormai il confine sarà lontano.
Percorrere le strade ed i sentieri
che appartenevano a suo cugino gli diede un leggero brivido: era come
se il
calore della sua mano permeasse in quelle regioni, anzi,
nell’Inghilterra
tutta.
- Sei così piccola, sei così piccola
Mary… per questo non ti ho detto nulla: sarai anche una
grande Regina, ma ai
miei occhi sei ancora così vulnerabile che non posso farti
soffrire anzitempo…
Auld Will perse il ritmo, ma poi si
spinse in avanti con impeto ancora maggiore.
- Non posso…
***
Herbert
scoprì, con troppa ingenuità,
il fianco sinistro e Arthur, gli occhi aperti come quelli di un falco,
si
allungò in avanti, la punta della spada già
vicina al bersaglio.
Gli parve perfino di udire nelle
orecchie lo strappo, là in basso: aprì la mano e
la spada volò via, rimbalzando
rumorosamente sul selciato. Arthur vacillò,
guardò giù come se si aspettasse di
vedere i pantaloni lacerati, cadde sul ginocchio destro: non
osò piegare
l’altro. Posò i palmi a terra.
- Rivelate la verità a Wallace,
Arthur! – strepitò Elizabeth, dall’alto
balcone.
Lui chinò la testa, evitando
volutamente il suo sguardo ansioso e irato.
- No! Non lo farò! Preferisco morire per
mano sua che rimandarlo a casa… furioso… pronto a
tutto per spodestarvi e farvi
uccidere come una qualunque delinquente. Potrei accettarlo? No.
Guarirò –
strinse i denti, zoppicante, strappò l’arma dalle
mani di Herbert, che si
ritrasse.
- Ancora. Avanti, Herbert, ancora! –
si gettò su di lui.
- Ancora, ancora, ancora! – lo
costrinse a indietreggiare, trascinando la gamba come uno storpio.
- Vedete, Vostra Grazia? Ce la farò
comunque – esclamò, la punta della lama che
ondeggiava a pochi centimetri dalla
gola di Herbert, caduto supino. Aveva il volto pallido rivolto in alto,
dove
Elizabeth scosse la testa con un sospiro: - Qual è quella
follia che vi fa
comportare così?
***
-
Questo andrà bene
– il sarto annuì sbrigativamente, affannandosi per
togliergli di dosso il
modello.
- Sarà pronto in men
che non si dica, milord! Davvero un buon gusto, milord, non sono molti
i suoi
pari che si compiacciono di tali tinte e tali tessuti, ma
d’altronde voi siete
un intenditore, non è vero, milord?
- Smettetela, per
l’amor del Cielo! – ruggì Arthur,
agitandogli un pugno davanti al volto.
Il sarto scappò nel
retrobottega, accampando come scusa l’inettitudine
dell’apprendista, e lasciò
Arthur da solo con il proprio riflesso. Il riflesso di un cavaliere
distinto,
vestito con i colori dei Tudor, i lineamenti tanto alteri quanto
aristocratici.
***
Wallace
si spogliò e ripose gli abiti
sul ramo di un albero.
Auld Will, scuro nella macchia scura,
sbuffò e nitrì; il suo padrone si
chinò sul ruscello, massaggiandosi con vigore
le braccia striate di fango; poco dopo, gocciolante, condusse il
cavallo ad
abbeverarsi.
- Sì, direi che questo è un buon
posto per passare la notte… abbastanza isolato, davvero.
Stese una coperta nel punto in cui il
terreno era più regolare.
Era pronto ad addormentarsi, quando
il farsetto penzolante attrasse la sua attenzione.
- Ti mancherò, quando Arthur mi avrà
fatto a pezzetti? – commentò scherzosamente; il
suo sorriso, però, vacillava e
si disintegrò completamente quando mise mano alla spada per
riporla al suo
fianco.
- È
giusta quella guerra che scaturisce da una scelta obbligata.
|
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Capitolo 12 *** Un inganno ha dato inizio a questa faida... ***
The Bell has been
raised,
From it's watery grave...
Do you hear its sepulchral tone?
(Hoist the colours, Pirates of the Caribbean)
Uno
scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Arthur,
solo nella lizza di
Westminster, meditava sulla spada che teneva in mano.
Uno
scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Elizabeth
congedò con aria annoiata
Leicester e il suonatore di virginale che la stava intrattenendo.
Uno
scozzese
solo si avvicina alle mura di Londra.
Wallace
si asciugò i palmi sudati sui
pantaloni e benedì la foschia che gli raffreddava il viso.
Uno
scozzese solo si avvicina alle mura di Londra.
Mary
si strinse le braccia attorno al
corpo, guardando smarrita la città di Edimburgo.
Conducete
lo scozzese alla lizza di Westminster.
***
Wallace
entrò nel recinto silenzioso,
aguzzando la vista attraverso la nebbia fitta.
Il suo cavallo pareva nervoso,
scuoteva la criniera e tendeva a indietreggiare.
- Arthur, dove sei? Fatti vedere! –
gridò lo scozzese, l’arma in mano.
In alto, alla sua sinistra, un
movimento, un fantasma vestito di grigio si mosse.
Rivolse gli occhi a quella figura:
Elizabeth emerse dalla foschia, ma Wallace non diede particolare
rilievo all’abito
dalla profonda scollatura che indossava, né alla gorgiera
che le serrava il
collo magro, né tantomeno ai capelli acconciati secondo
l’ultima moda.
No, la fissò negli occhi neri come
quelli di uno spettro.
A suo modo, dovette ammettere a se
stesso, la Regina d’Inghilterra e Irlanda aveva un portamento
ed uno charme molto più
sottile ed enigmatico
della sua sovrana; ma non era lì per lei, e lei stessa non
sembrava voler
pronunciare una parola.
- Vostra Maestà – gridò allora
–
dov’è il vostro paladino? Arthur è
troppo vigliacco per staccarsi dalle sottane
della sua rossa giumenta? – sapeva che a
quell’affronto Arthur non avrebbe
saputo resistere.
Infatti, preceduto dal ticchettio
degli zoccoli sui sassi, comparve davanti a lui, altero.
Wallace trattenne il cavallo nervoso
e gli indirizzò un sorriso.
- Eccoti qua – sussurrò.
Arthur era totalmente silenzioso,
evento rarissimo che capitava solo quando era troppo preso dalle sue
emozioni
per abbassarsi al gridare improperi; vide che estraeva la spada con un
solo
gesto fluido.
All’improvviso gli venne a mancare lo
stimolo per affrontarlo: lui non era nel giusto, lui aveva rotto il
patto, lui aveva ucciso un innocente.
- Oggi finirai di insultare la mia signora.
Finalmente, delle parole. Il tono
seccato e stentoreo della voce di Arthur lo aiutò,
incredibilmente, a
riemergere dalla sua tenebra di desolazione: gli ricordò
quanto odiava quel
ragazzetto così simile a lui.
- Se lo dici tu, cugino, non sei mai
stato un bravo bugiardo.
- Se
lo dici tu – lo scimmiottò lui,
dondolando la testa in maniera strana.
- Lo dico io – ringhiò, smontando da
cavallo.
Stava per sorgere il sole e la luce
giallastra diradò, almeno un poco, la nebbia fitta.
Odiò il gesto molle con cui Arthur
fece lo stesso, abbandonando il suo cavallo grigio dopo una pacca
rilassata, e
si fece avanti nel grande spazio vuoto. Sentì la gola
seccarsi senza un buon
motivo.
Facciamolo,
Arthur, non si sa mai: magari la Divina Provvidenza ucciderà
te.
Arthur venne verso di lui,
lentamente, il braccio che reggeva la spada abbandonato lungo il
fianco, finché
lui non riuscì a distinguere le sue iridi verde brillante;
allora, senza
curarsi di lui, suo cugino voltò la testa a destra,
invitandolo a fare
altrettanto.
Ubbidì. I suoi occhi passarono senza
intoppi sul viso pallido della damina che li fissava, dietro una
recinzione, ma
si soffermarono a lungo sull’uomo che
l’accompagnava, una mano sulla sua
spalla.
- No! Non può essere lui
– sbottò, ma quel viso attraente e
aggrondato l’aveva stampato in testa: a dispetto delle sue
parole, sapeva che
era il soldato che credeva di aver ucciso.
Tornò a fronteggiare il Marchese di
Pembroke.
- Tu…
Arthur fece un gesto strano, alzando
il braccio sinistro con una certa rigidità; forse era
ferito, o tentava di
fargli un cenno in particola… Bang.
Continuò a fissare il cugino e la cosa che teneva in mano,
che ora esalava un
rivolo di fumo perlaceo che volava via, nell’aria mattutina.
- Mi hai ingannato – urlò.
- Sì, un inganno ha dato inizio a
tutto questo, un inganno l’ha terminato –
replicò l’altro, atono.
Sentì il sangue colargli lungo il
braccio, la mano aprirsi contro la sua volontà: la spada
cadde.
- Arthur, tu… - bang.
Cominciò a indietreggiare, tentando di sfuggire alla sua
mira
terribilmente precisa. Ci provò, quantomeno,
perché un attimo dopo le gambe
cominciarono a tremare e cadde in ginocchio, le dita immobili che
sfioravano il
terriccio. Chiuse gli occhi.
Stava perdendo la sensibilità al
braccio, come presto avrebbe perso i sensi e la vita.
- No! No! Johann, presto! – la voce
di Arthur sembrò impaziente, perfino preoccupata.
Sentì che gli sollevava le braccia
ferite, le avvolgeva con bende morbide, ma non poteva crederci.
- Per… - biascicò, confuso.
- Taci, per l’amor di Dio, stupido
che non sei altro!
- Ma perché… perché mi hai ingannato?
Perché non mi uccidi? – domandò,
sembrando, contro la sua volontà, fin troppo
lagnoso e arrendevole. Arthur non replicò, dopo aver emesso
un singulto
stizzito.
Lo sollevarono, facendolo protestare
per il dolore.
- Mastro Ravenclaw, avvicinatevi: il
lupo è addomesticato.
Wallace si trovò davanti un ometto
basso, magro, con i capelli e i baffi biondicci e gli occhi di un
azzurro
slavato: quello sostenne il suo sguardo per una frazione di secondo,
poi
cominciò a tratteggiare qualcosa sul mucchio di fogli che
stringeva nella mano
sinistra, come se nulla lo interessasse di più.
- Ho fatto, milord.
Arthur rivolse un cenno ai suoi
aguzzini e quelli lo trascinarono al suo cavallo.
- Scortatelo fino in Scozia, dove
potrà ricongiungersi con la sua adorata bimbetta!
– lo prese in giro.
- Lasciatemi! Io devo ammazzare quel
verme…
- Nessuno dovrà dire alcunché di
sgradevole sulla mia signora, Wallace. Soprattutto tu.
Volse un’ultima occhiata a Elizabeth,
colpito dal suo viso bianco e delizioso come un chicco di riso; lei
sospirò e
disse, con voce squillante: - Così
si
conclude questa storia.
***
Paul
Ravenclaw si inginocchiò davanti
al trono.
- Oh, Arthur, non vedete come lo
spaventate? – scherzò Elizabeth, rivolgendo un
cenno di finto rimprovero al suo
cortigiano. Lui si strinse nelle spalle, impassibile, prima di
allontanarsi da
lui.
Il pittore sgusciò fuori dalla stanza
delle udienze.
- Lady Catherine disattende diversi
suoi impegni, mi pare.
- Sì, le ho concesso qualche giorno
per… scherzare in
compagnia di lord
Sidney.
Arthur si sedette su uno sgabello,
accanto a lei. – Siete stata straordinariamente generosa.
- Grazie, Arthur – Elizabeth sorrise
gentilmente e gli sfiorò una guancia con la punta delle dita.
Catherine
era cieca.
Per la prima volta, era cieca e
poteva sperare di dormire sonni tranquilli.
Nella superficie lucida dello
specchio, poteva sprofondare nelle proprie iridi in tutta
tranquillità: in quel
mare celeste non c’erano più ombre di disgrazie
future, poteva respirare e
tornare negli appartamenti reali con il cuore pulito.
La vita di corte avrebbe ricominciato
a scorrere.
***
-
Vostra Grazia, ci sono tre messi
inglesi che vi chiedono udienza!
Mary voltò la testa di scatto, come
un serpente, si rassettò i pizzi della veste e li
invitò ad entrare, talmente
nervosa da non poggiare quasi la schiena contro la spalliera dello
scranno
imbottito.
- Sua Maestà, la giustamente somma,
giustamente potente e giustamente temibile Elizabeth I, Regina
d’Inghilterra ed
Irlanda, porge i suoi omaggi alla sua nobilissima cugina Mary, sovrana
di
Scozia e delle Isole – esordì il primo messo, con
voce brillante.
Lei accettò quelle formalità con un
cenno del capo.
- Sua Maestà si augura che Vostra
Grazia apprezzerà e comprenderà quale grandissima
pietà si cela dietro la sua
volontà di farvi un dono che spera sarà
graditissimo ai vostri occhi – aggiunse
il secondo messo, mostrandole una pergamena sigillata che teneva nel
palmo della
mano.
- Datemela – ordinò Mary, perentoria.
Strappò il sigillo di ceralacca e la
srotolò.
Cugina, i
nostri legami di sangue e di predestinazione divina ci impediscono di
attentare
volgarmente alla Vostra vita. Desideriamo, tuttavia, che sappiate che
questo
singolare gesto di pietà non si ripeterà, essendo
anche un chiaro invito a
desistere dai vostri osceni propositi di uccisione. E dunque addio.
-
Allora, qual è questo gesto di
pietà su cui tanto vi soffermate? –
sibilò, rossa e stravolta in viso dalla
rabbia. Il primo messo fece un mezzo sorriso e le voltò le
spalle per aprire la
porta e far entrare due soldati semplici, che trainavano una gabbia
smaltata d’oro.
Al suo interno, ringhiante e pallido
per le ferite, stava Wallace: le braccia avvolte in due stracci sporchi
di
sangue, i polsi chiusi da ceppi. Nell’incontrare lo sguardo
allibito della sua
Regina, abbassò la testa.
- Sua Maestà si premura anche di
avvertirvi che vi spedirà presto un dono che spera vi sia
altrettanto gradito,
affinché possiate ricordare qual è la posizione
che dovete mantenere.
E mentre Mary arrossiva come uno
scolaretto rimbeccato dal maestro, si congedarono.
|
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Capitolo 13 *** ... con un dipinto si conclude questo racconto ***
I
used to roll the dice
Feel the fear in my enemy's eyes
Listen as the crowd would sing:
Now the old king is dead! Long live the king!
(Viva
la vida,
Coldplay)
Con
la Londra elisabettiana sullo
sfondo, tratteggiata in colori pallidi e tristi, i ritratti
più che veritieri
di Wallace, il Marchese di Pembroke, Elizabeth e Mary assumevano
un’importanza
straordinaria: benché i colori non fossero chiassosi e
malamente accostati, in
quelle figure c’era perfino una parvenza di vita.
Erano stati utilizzate lamina d’oro e
polvere di smeraldi, non curandosi, il richiedente, di quanto sarebbero
costati.
Quel dipinto, giunto alla sua corte
assieme ad un biglietto vergato dallo stesso Marchese di Pembroke, era
il segno
tangibile della prima sconfitta della sovrana scozzese da parte della
Regina
d’Inghilterra.
Nell’appenderlo nell’angolo più buio
e impolverato della sua stanza da letto, nel castello di Stirling, Mary
Stuart
sentì la gola bruciare, come quando, da bambina, tratteneva
le lacrime per una
percossa.
- Potete sempre distruggerlo – le
aveva biascicato Wallace quando gliel’aveva mostrato; la
donna sapeva che, se
non fosse stato costretto a letto dalle ferite non ancora rimarginate,
l’avrebbe
allontanata con un balzo e l’avrebbe squarciato,
foss’anche a mani nude.
Lei riteneva, invece, che fosse una
maniera apprezzabile per ricordarsi, in futuro, di come aveva rischiato
di
perdere la dignità, un fido consigliere e forse anche il suo
regno, per una
vanità giovanile.
- Perché mai? Non m’interessa
dell’egocentrismo di Elizabeth, quando dovrei concentrarmi su
come governare al
meglio il mio regno – aveva risposto, mantenendo una facciata
cortese e
distaccata.
Tirò la tenda e celò così al mondo il
profilo sprezzante di sua cugina.
***
-
Posso farvi una domanda? – domandò
Henry, fissando il vino chiaro nel calice.
Catherine sorrise, inarcando un
sopracciglio. Lui la guardò con le palpebre socchiuse, come
un gatto.
- Quando vi siete innamorata di me?
La prima volta che ci incontrammo mi guardaste con aria gentile, ma
assolutamente disinteressata: i vostri occhi sembravano ghiaccio.
Le guance pallide di Catherine
colorirono.
- Quella volta in cui… abbiamo
partecipato entrambi ad una festa e voi siete venuto da
me, chiedendomi di ballare. Temo proprio che abbiate
fatalmente
conquistato il mio cuore – scherzò.
- Perché? – insisté Henry.
- L’avete detto anche voi: anche
coloro che non sanno nulla del mio potere mi stanno alla larga, mi
temono, farebbero
di tutto per evitarmi. È fastidioso e, per quanto le persone
che avevo
conosciuto fino ad allora fossero più o meno meschine e
squallide, mi sentivo
triste. Ma voi…
- Io? – le soffiò sul viso,
prendendole la testa tra le mani lisce.
- Voi… - abbassò le palpebre, nella
speranza che lui annullasse la leggerissima distanza tra loro.
- Io credo che voi siate molto bella
e che non esista qualcuno di altrettanto attraente in tutto il mondo.
- Lady Mildred tenterà di
avvelenarmi, quando saprà cosa avete detto.
Henry ridacchiò. – Non mi è mai
piaciuta, non può che dolersi per questo!
***
-
Finalmente! – Arthur rideva, da
tempo non si sentiva così bene. Quasi un anno, in effetti.
D’altronde, come poteva rimanere
serio e accigliato, quando Elizabeth sorrideva, distesa sotto di lui,
attorcigliandosi un ciuffo di capelli rossi attorno
all’indice delicato? Quando
abbandonava la sua maschera arrogante e ciononostante seducente, quando
metteva
da parte i suoi schemi e la trama intricata di sentimenti e reazioni
che
propinava a chiunque si rapportasse con lei, la sua bellezza e la sua
innocenza
diventavano quasi infantili.
- Finalmente?
- Non sopporto di starvi lontano
tanto a lungo.
Elizabeth fece una smorfia di finta
ira. – Siete identico a tutti gli altri uomini: non
desiderate che una sola
cosa da noi povere donne: vi lascio immaginare cosa…
- Siete perfida, lo sapete? Ve ne
rendete conto? – sibilò e abbassò il
viso su di lei.
- Certo che me ne rendo conto,
Arthur. Voi mi amate, perciò mi sento libera di poter
scherzare con voi.
Arthur si avvicinò ancora di più alla
sua bocca rosea: - E voi mi amate quanto vi amo io?
Elizabeth rise sulle sue labbra. –
Ditelo ancora, Arthur! Ditemi che mi amate!
- Prima voi, non mi piace sprecare il
mio amore per chi non lo corrisponde – mentì.
Avrebbe sprecato il suo ingegno,
avrebbe consumato la sua anima e il suo corpo per poter essere ammesso
alla
presenza della sua Bess.
- Anche io vi amo e mi fa impazzire
che abbiate amato altre prima di me… e amerete chi mi
succederà.
- La mia natura mi impedisce di fare
altrimenti, ma qui – si sfiorò una tempia, con un
sorriso velato di tristezza –
rimarrà il nome non di vostra madre, né di vostra
sorella: solo il vostro,
nessun’altro.
Avrebbe potuto, e voluto, dire
qualcosa di ancora più altisonante, ma Elizabeth
impegnò la sua bocca con qualcosa
di molto più tiepido e urgente.
|
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Capitolo 14 *** Epilogo: Il passato futuro ***
Questa
dunque è la storia del dipinto
423B; è una storia vecchia e pochi la ricordano.
È anche Storia, ma non ci sono
scritti o testimonianze di altra natura che possano chiarire eventuali
punti
oscuri; dopotutto, i fatti sono stati un poco romanzati. Ma che ne
è stato di
tutti i protagonisti di quel quadro?
***
In
my heart I know I can let go.
In the end I will find some peace inside.
New wings are growing tonight.
(The
swan song,
Within Temptation)
Elizabeth
regnò sull’Inghilterra per
molti anni ancora, fino a spegnersi agli albori del diciassettesimo
secolo,
dopo una vita straordinaria per durata e intensità.
Nonostante la salute
cagionevole e i sicari inviati nel tempo, riuscì a
scongiurare un’invasione da
parte della potenza spagnola e pose le basi per quello che, nei secoli
a venire,
sarebbe diventato l’Impero Britannico.
Non si sposò mai, anche se più volte
si trovò sul punto di compiere quel passo.
L’età del suo regno verrà definita the Golden Age, l’Età
dell’oro.
***
You're
gone, gone, gone away,
I watched you disappear.
All that's left is a ghost of you.
(Little
talks, Of monsters and men)
Mary
dovette fronteggiare, negli anni
successivi agli eventi qui narrati, la crescente opposizione da parte
del
popolo e dei pari protestanti nei confronti di una Regina cattolica.
Dopo due
matrimoni tremendi, circondati da omicidi, ripicche, stupri e
rapimenti, suo
figlio James venne proclamato Re di Scozia, e il fratellastro di lei
reggente
in suo nome.
La Regina fuggì in Inghilterra, dove
visse per molti anni come prigioniera della cugina, che ne
ordinò, dopo diversi
complotti, l’esecuzione. Morì nel castello
di Fotheringhay nel 1587.
***
Most
of my sweet memories were buried in the sand
The fire and the pain will now be coming to an end
(Wasteland,
Woodkid)
Catherine
ed Henry ottennero una
dispensa regia per potersi sposare.
Lei continuò a servire la Regina nei
momenti di pericolo, mentre lui fu promosso al ruolo di capitano delle
guardie
di palazzo. Ebbero una figlia, che succedette alla madre come damigella
d’onore
di Elizabeth negli ultimi anni di vita della sovrana.
***
This
steady burst of snow is burning my hands.
I'm frozen to the bones, I am.
A million mile from home, I'm walking away.
I can't remind your eyes, your face.
(Iron,
Woodkid)
Del
Marchese di Pembroke, invece, si
persero quasi completamente le tracce.
Dopo la morte di Elizabeth, che lo
lasciò prostrato a lungo, tanto da tentare il suicidio,
lasciò l’Inghilterra. L’ambasciatore
italiano disse di aver ricevuto una lettera da un amico palermitano, in
cui
erano state raccolte i racconti che circolavano su un misterioso
inglese, che
era stato visto salire le pendici innevate dell’Etna; alla
ricerca, si diceva,
dell’anima della sua Regina, gettata là da Satana
in persona. Altri, di ritorno
dalle Americhe, parlarono della famigerata nave corsara Fair
Bess, da cui arrivavano ai porti inglesi ingenti carichi di
oro e pietre preziose, ma il suo capitano, da molti definito
“il più elegante
farabutto che abbia mai solcato i mari” non scese mai a
terra, e molti lo
ricordano come un giovane dai capelli biondi che si allontanava dal
molo.
***
This
world has only one sweet moment set aside for us
Who wants to live forever?
Who dares to love forever
When love must die?
(Who
wants to live
forever, Queen)
E
Wallace?
Wallace prese il posto di Arthur,
diventando l’amante e il consigliere di tutte le Regine
succedutesi negli anni.
Disse sempre di aver compreso il terribile senso di perdita di Arthur,
e di
averlo sostituito per quello; e per avergli risparmiato la vita.
Ma,
se
davvero voleste sapere qualcosa di più, perché
non guardate bene l’uomo dai
capelli rossi che vi ha condotto davanti al dipinto 423B?
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