Memento

di Melian
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


MEMENTO


CAPITOLO I

Gaugamela, 331 a. C.

Riposa, Alessandro…”
Alessandro sedeva, immobile come la statua di un dio, sul bordo del proprio giaciglio.
La testa bassa, il volto adombrato dai capelli biondi, gli avambracci posati sulle ginocchia, il giovane Re rifletteva.
Sollevò il capo solo quando gli sembrò di aver udito una voce lieve, appena udibile; aggrottò le sopracciglia pensando di averla soltanto immaginata.
Alessandro estrasse da sotto al cuscino un piccolo rotolo che aprì lentamente, osservando la fine calligrafia di Aristotele, e cominciò mentalmente a leggere antiche parole in greco:
«Canta, o Musa, l’ira di Achille Pelide,
rovinosa, che infiniti dolori inflisse agli Achei,
gettò in preda all’Ade molte vite gagliarde
d’eroi, ne fece bottino dei cani,
di tutti gli uccelli » consiglio di Zeus si compiva »
da quando prima si divisero contendendo
l’Atride signore d’eroi e Achille glorioso.»


Quelle parole, il sapore d’atavico di cui erano permeate e che Alessandro sentiva proprie, avevano il potere di evocare potenti sensazioni nel cuore del giovane re macedone.
Achille era una figura che, da quanto Alessandro poteva ricordare, era sempre stata presente nella sua vita. Quante volte aveva udito sua madre chiamarlo col medesimo nome di quell’eroe? Quante volte Olimpiade gli aveva ripetuto che nelle sue vene scorreva il sangue glorioso di quel semidio?
Il sangue di Achille nelle sue stesse vene…
Alessandro si chiedeva, ogni volta muoveva per una battaglia, se il destino del Pelide coincidesse col suo: se anche lui, per ottenere la gloria imperitura, per innalzarsi al di sopra di tutti gli altri uomini e sedere nelle aule degli Dèi, alla fine, avrebbe dovuto compiere la più impensabile e la più grande delle imprese e poi morire giovane, lasciandosi dietro tutto ciò che aveva conquistato con desiderio e fatica. Si domandava il perché sua madre si fosse tanto ostinata a volerlo rendere un secondo Achille.
Ricordò quando, ancora adolescente, si era ritrovato a parlare con Aristotele del suo antenato.
Col senno di poi, Alessandro trovava la risposta offertagli una lezione fondamentale. Aristotele non lo aveva mai deluso. Gli aveva insegnato a porre le giuste domande, per poter ottenere le risposte desiderate.
Alessandro fissò la fiamma di una lucerna che rischiarava l’interno della sua tenda e gli parve che una mano gentile e invisibile si posasse sulla sua spalla e si sentì riportare indietro nel tempo da una forza irresistibile.
***


Liceo di Mieza. Alcuni anni prima.


Seduto sul bordo di una vasca rettangolare nei giardini rigogliosi, Aristotele osservava i suoi allievi in silenzio, indovinando esattamente i loro pensieri. I suoi occhi acuti e saggi si fermavano progressivamente su ogni giovinetto: Tolomeo, Cassandro, Nearco, Laomedone, Perdicca, Cratero, Leonnatos, Erigyios, Efestione e, infine, Alessandro.
Il filosofo s’avvide ben presto che il principe macedone era troppo silenzioso anche per essere Alessandro, e che il suo volto era oscurato e pensoso.
«Molto bene.» finalmente Aristotele parlò, calamitando su di sé l’attenzione di tutti i ragazzi chini sui loro ostraka. «Per oggi abbiamo concluso. Potete andare, dato che è ora del pasto. Ma, ricordatevi, non fatevi vincere dalla golosità e dalla pigrizia.»
I ragazzini si alzarono, sbadigliarono e si stiracchiarono.
«Finalmente, non vedevo l’ora! Ho una fame!», ammise sottovoce Nearco, un ragazzetto dalle guance paffute.
«E quando mai!», lo canzonò Tolomeo con la sua aria da furbastro impenitente, dandogli una pacca sulla schiena e trascinandolo lungo il colonnato tra le risate del gruppo.
Efestione, un ragazzino snello dai capelli scuri e maltagliati, ciondolò per qualche passo e indugiò quando si accorse che mancava qualcuno dei suoi compagni all'appello. Si voltò e chiamò: «Vieni, Alessandro! Aspettiamo solo te.»
Ed effettivamente Alessandro era rimasto nella medesima posizione di prima. Il principe gli spedì una occhiata pensierosa, come se fosse imprigionato in un sogno da cui non voleva svegliarsi.
«Tra poco. Voi andate.», gli mormorò in tutta risposta, con cipiglio deciso.
Efestione sapeva quanto fosse inutile tentare di smuoverlo: Alessandro era testardo e volitivo e non c'era verso di fargli cambiare idea, fino a che non avesse ottenuto soddisfazione. Quindi s’affrettò a condurre via il gruppo di ragazzi che ancora attendeva, allontanandosi fra gli schiamazzi generali.
Gli occhi di Alessandro e quelli di Aristotele s’incontrarono.
Il filosofo si meravigliava nel trovare sempre qualcosa di nuovo nello sguardo del figlio di Filippo: era come se quegli occhi avessero visto molto più di quanto si potesse pensare, come se fossero lo specchio di antichi e inconsapevoli ricordi che li faceva apparire più adulti del previsto, quasi come se Dei e Daimon si contendessero l'anima di quel risoluto ragazzo.
Aristotele si deliziava di quella singolare caratteristica di Alessandro ed era dell’avviso che essa non fosse l’unica che avesse a disposizione.
«Dimmi, Alessandro, cosa ti rende tanto pensoso?», la voce del filosofo era bonaria e ne traspariva l’affetto sincero che il greco provava.
Alessandro, quindi, raggiunse il suo maestro, si sedette accanto a lui e lo guardò seriamente.
«Ieri sera, prima di dormire, leggevo di Omero.»
Aristotele annuì, compiaciuto. «Omero? Bene, molto bene! Che te ne pare?»
Alessandro sembrò pensarci un po’ su, come se non riuscisse davvero a formulare un pensiero univoco o a trovare le parole adatte. Infine, mormorò: «È l’esaltazione bella e terribile della gloria e della caduta di eroi e di una città che si credeva inconquistabile.», ma sembrò pentirsi subito dopo di quell'affermazione e, infatti, scosse la testa, aggiungendo in fretta: «È un panegirico di Achille, in realtà. Tutto ruota attorno a lui, per merito suo tutto si muove. Il fulcro della storia non è Elena, né Troia, nemmeno gli eroi, né gli Dèi, neppure Ettore o Agamennone, ma Achille! Questa è la verità.»
Aristotele sorrise, sornione, quasi avesse già indovinato quella risposta così accorata e altro non facesse che indagare a fondo, sfiorando corde segrete per provare ad ascoltare quale suono avrebbe prodotto l'anima di Alessandro. «Ne deduco che Achille abbia la tua preferenza…», insinuò.
Alessandro sembrò tentennare a quella constatazione. Era davvero così visibile quanto Achille lo avesse colpito? In realtà, non sapeva se l’eroe mirmidone gli avesse fatto un'impressione positiva o negativa. Da una parte, Alessandro era spinto ad ammirarlo, dall’altra si sentiva quasi schiacciato da quella figura che sua madre gli profilava sempre come modello e ispirazione, il grande antenato dalla fama spropositava che minacciava di oscurarlo, fagocitarlo e sputarlo. Alessandro sentiva insieme il senso di oppressione e di rivalità per il continuo confronto con la fama di Achille.
«Mh. E come mai Achille ti ha così interessato?», insistette Aristotele con voce bassa, conciliante, ma lo sguardo intenso e attento.
«Perché è lui il grande protagonista.», rispose di colpo Alessandro con la voce che cresceva di intensità e calore. «Lui con la sua collera così grande, immensa e travolgente che nulla può resistere al suo passaggio. Achille è al di sopra di tutti gli altri uomini, di ogni altro eroe di cui viene narrato, è il più vicino agli Dèi. E poi combatte per la gloria, va a Troia non per ubbidire al volere di Agamennone, ma per un suo bisogno, come se potesse realizzarsi solo nella guerra e nel prestigio che le imprese sul campo di battaglia gli portano.»
«Sai qual è stato il Fato di Achille?»
«Ha acquistato la gloria più alta, ma è morto giovane.», rispose Alessandro più cauto, perché sapeva che a quella domanda ne sarebbe seguita un’altra più complicata.
Aristotele annuì e non tardò ad argomentare: «Ma Achille non aveva, forse, la facoltà di scegliere? Non avrebbe potuto vivere molto più a lungo?»
Alessandro aggrottò le sopracciglia e s’infiammò, scattando in piedi di colpo, il respiro trattenuto e il lampo di collera che gli accendeva lo sguardo.
«Una serena vecchiaia al posto della gloria? Diventare vecchio senza poter compiere grandi imprese, sprecare il tempo che gli Dèi offrono nell’ozio e finire nell’oblio? No! Achille non avrebbe mai potuto accettarlo! Che valore può avere la vita se essa non la si vive a fondo? Che senso hanno i nostri giorni se il nostro cuore brucia per un sentimento sconosciuto ma irresistibile e noi non lo ascoltiamo?», vociò Alessandro e strinse il pugno con foga. «Se non obbediamo a noi stessi, ai desideri del nostro cuore, a chi dovremmo obbedienza? Achille, in realtà, non è mai morto: vive ogni qual volta si canta della caduta di Ilio, vive ogni volta che un coraggioso sfida il mondo intero per affermare se stesso, vive poiché si è acquistato una gloria immortale, che lo rende immortale a sua volta! La gloria e la volontà di essere grande contraddistinguono Achille, come il suo semplice pensiero e il suo agire secondo un codice morale ben preciso, cioè il suo!»
«D’accordo, d’accordo!» replicò Aristotele pacato, facendo segno al principe di Macedonia di risiedersi e accennando ad un sorriso vispo e genuino che gli ringiovaniva nettamente il volto. «Adesso calmati, Alessandro. Parli d’Achille proiettando su di lui molto di ciò che ti appartiene.»
Alessandro rimase immobile a fissarlo, colto da un fremito che gli faceva tremare appena i pugni ancora serrati, evidentemente turbato. «Cosa ne pensi di Achille, maestro?», chiede improvvisamente, per cambiare discorso.
Aristotele chiuse gli occhi per un momento, riflettendo prima di schiudere le labbra. Si sfiorò la radice del naso con la punta delle dita, in un gesto tipicamente suo.
Alessandro, invece, fece vagare lo sgurdo per il giardino del Nymphaion: all’ombra degli alberi che allungavano i propri rami sulla vasca dove nuotavano i pesci rossi, il principe ascoltò il proprio cuore battere più veloce e il sussurro del vento profumato di olivo.
«Per quanto mi riguarda, Achille è un egoista.», asserì infine il filosofo.
Alessandro rimase spiazzato: «Egoista?»
«Pensaci…», soggiunse Aristotele, «La sua ira, la sua guerra, il suo amore per Patroclo, la sua schiava Briseide. Suo, suo, tutto suo! L’egoismo di Achille fa sentire i suoi effetti anche quando si allontana dalla battaglia: a causa del suo orgoglio Ettore fa strage di Achei.»
Alessandro soppesò quelle parole e dovette riconoscere che erano vere, ma si rabbuiò, ribelle.
«Eppure, Achille può essere ammirato proprio per quello di cui tu hai parlato.», lo rassicurò subito Aristotele. «Ma vedi, Alessandro, per essere un buon re, non c’è solo bisogno del braccio, né soltanto del coraggio, né della determinazione o dell’orgoglio e nemmeno dell’egoismo. Un buon re, un re amato, si preoccupa dei propri amici e tiene in grande considerazione i propri nemici.»
Il filosofo fece una pausa e iniziò a passeggiare lungo il sentiero e facendo segno al ragazzo di seguirlo, prima di intrecciare le mani dietro la schiena. Ne approfittò per continuare il suo discorso:
«Un giorno sarai Re e questa è una lezione da imparare. Non bisogna soltanto essere Achille, ma occorre essere anche come Odisseo.»
Aristotele sorrise come chi svela un grande segreto.
«Vuoi dire che c’è bisogno anche dell’astuzia e dell’eloquenza?», si affrettò a rispondere Alessandro.
«Per essere un buon stratega e un buon comandante sono doti essenziali.»
Aristotele si sistemò il chitone con un gesto distratto della mano, camminò lungo il colonnato del Nymphaion, dove il sole faceva allungare le ombre delle alte colonne rastremate e dalle cucine spirava il profumo del pane appena sfornato, un profumo genuino che conquistava chiunque.
Alessandro camminava accanto al filosofo in silenzio, il suo volto d’adolescente divenne imperscrutabile.
«Alessandro, ricorda ciò che sto per dirti. Ognuno di noi porta in sé il Molteplice, eppure è Uno. Non devi temere il Molteplice della tua anima, devi solamente comprenderlo.»
Il ragazzo si fermò e deglutì, prese un profondo respiro e continuò ad ascoltare in perfetto silenzio, teso come la corda di un arco.
«Se senti in te lo stesso ardore che spingeva Achille in battaglia, non è certo un male. Ma l’ira, Alessandro, l’ira non sempre è la giusta risposta.», Aristotele fece una pausa e si fermò, poggiandosi contro una colonna e gettando uno sguardo ai monti Bermion in lontananza, al profilo aguzzo delle pietre contro il cielo. «Un giorno tornerai a Pella e prenderai il posto di Filippo, ed è importante che tu comprenda chi sei e cosa desideri, prima che questo accada.»
«Non esiste verità assoluta, specialmente su se stessi.», replicò Alessandro con voce bassa, un po' cupa. Sembrava afflitto. «Ma ho appreso che la vera armonia deve derivare da noi stessi, non può essere imposta. Chi sono io? Ancora non lo comprendo. Tutti non fanno altro che chiamarmi principe, erede al trono, figlio di re. Per tutti sono il figlio di Filippo e nessuno mi vede come Alessandro, sembra che a nessuno importi che io sia innanzitutto Alessandro! Nessuno ancora mi ha chiesto cosa voglio, ma tutti vogliono fare di me qualcosa di diverso: un guerriero, un sovrano, un sapiente, un servitore degli Dèi, un secondo Achille. Ma io non voglio morire giovane, non voglio essere un secondo Achille, a dire la verità. Non voglio essere un secondo qualcuno!»
Aristotele posò una mano sulla spalla di Alessandro e sentì i suoi muscoli contratti, la tensione dei nervi, persino l'affanno del respiro. «Cosa vuoi, allora?»
Alessandro fissò gli occhi del filosofo e sembrò rilassarsi, sentì che poteva abbandonarsi, che il suo maestro gli ispirava fiducia. «Voglio sapere chi sono, voglio capire cosa c’è al di là della linea dell’orizzonte, voglio scoprire dove si nasconde il sole durante la notte, voglio prendere il largo su una barca e attraversare il mare, perché non sono mai andato oltre il litorale. Voglio viaggiare e scoprire e capire e trovare qualcosa di nuovo. Voglio essere Alessandro e basta, niente titoli, né ruoli determinati, né ordini. Voglio essere libero!»
Aristotele soppesò il giovane; aveva ragione: demoni e dèi si agitavano nell’anima di Alessandro, demoni e dèi che avrebbero annientato chiunque altro con quel fuoco divorante, ma non lui.
Era diverso, Alessandro, da qualsiasi altro allievo Aristotele avesse mai avuto, il più valido, quello era certo, ma anche il più difficile da equilibrare. Un animo fatto di un raffinato gioco di bilance e contrappesi: Alessandro sarebbe potuto divenire il più grande condottiero che il mondo avesse mai potuto conoscere, oppure avrebbe potuto distruggere quello stesso mondo.
Tutto dipendeva dal suo equilibrio interiore e dal fatto che imparasse a pareggiare il peso sulle sue bilance.
«Continui ad interrogarti su te stesso, sul tuo destino, e ti sembra che le risposte siano troppo lontane. In realtà, esse sono molto più vicine di quanto ci si possa aspettare: tu le troverai, Alessandro, e io ti aiuterò a farlo.», gli promise Aristotele.
***


La fiamma della lucerna tremò e Alessandro tornò alla realtà. Mise da parte il rotolo contenente l’Iliade di Omero regalatagli proprio dal suo precettore e si alzò. Quanti ricordi in una sola, semplice pergamena!
Osservò la propria corazza lucente, gli schinieri, l’elmo, tutti oggetti che avrebbe dovuto indossare l’indomani nella battaglia decisiva che avrebbe potuto spalancargli le porte di Babilonia.
Alessandro non era tranquillo. Demoni e Dèi si agitavano nella sua anima e si divertivano a farne campo di battaglia, come se non ce ne fossero abbastanza su cui schierarsi.
Riposa, Alessandro…”
Ancora la medesima voce, una voce di donna. Ma non era quella di Olimpiade, né quella di sua sorella Cleopatra; sembrava piuttosto una voce ultraterrena, come di Ninfa o di Dea.
“Chi sei?”, si ritrovò a pensare.
La voce dei tuoi ricordi…”, sentì proncuniare quelle parole distintamente al proprio orecchio, come se fossero dirette alla sua coscienza. “Il mio nome è Mnemosine.”
“La dea della Memoria? Perché sei qui?”
È necessario che tu ricordi, è necessario che non dimentichi.”, gli rispose Mnemosine “Senza passato, il futuro non ha senso. Domani si deciderà il Destino di molti e tu, Alessandro, figlio di Zeus che è Amon, devi essere pronto, devi soppesare ogni cosa che ti ha portato qui, a questa notte.”
“Il Destino, il Fato.”, ribatté prontamente Alessandro, in un muto dialogo fatto di pensieri fugaci. “La Moira. Ineluttabile, sconosciuta, una forza alla quale non possiamo sottrarci, qualcosa che abbiamo in noi da sempre, che richiede il sacrificio di noi stessi e di quanti abbiamo intorno.” Alessandro gettò uno sguardo all’entrata della sua tenda. “Il Destino ha condotto tutti fino a questa vigilia? Il Destino e non Alessandro stesso?”
Il suo interrogativo non ebbe risposta, perché un lembo della tenda venne sollevato e comparve Efestione avvolto in un manto blu.
«Alessandro, come pensavo sei sveglio.»
Alessandro sorrise spontaneo, abbandonando i propri pensieri, quel muto dialogo con la propria Memoria, e si volse ad accogliere il suo migliore amico, il suo capace di indurgli il buon umore in qualsiasi circostanza.
«Mi conosci bene, Patroclo. Prima di una grande battaglia, non riesco a starmene tranquillo. Quali notizie mi porti?», chiese poi, avvicinandosi ad Efestione fino ad averlo a un passo di distanza.
«I sacerdoti sono pronti per i sacrifici e gli aruspici. Come hai ordinato!», rispose Efestione con un che di diligente.
Alessandro gli pose una mano sulla spalla «Bene! Andiamo allora, non c’è motivo per farli attendere oltre.»
Prese il suo manto color porpora e se lo gettò sulle spalle, nascondendo la leggera tunica color avorio e la spada che cingeva ai fianchi. Lasciò la tenda accompagnato da Efestione e assaporò il corroborante tocco del vento freddo della notte sul viso.


__________________________________________
NOTE

Nello scrivere questa storia mi sono basata principalmente sulla “Vita di Alessandro” di Plutarco e varie fonti storiche. Quindi, alcuni episodi e alcune parole ricalcano quanto Plutarco riporta nella sua biografia, e ho preferito restarci fedele.
La storia si svolge nella notte prima della battaglia di Gaugamela, avvenuta il 1° ottobre del 331 a.C. Siamo, quindi, nella notte del 30 settembre.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


CAPITOLO II

Il campo macedone non era silenzioso come ci si poteva aspettare alla vigilia di una battaglia importante.
Al contrario, i soldati, anziché riposare, erano riuniti attorno ai fuochi e bevevano vino, cantando le loro canzonette con voci rudi. Forse bevevano e ridevano per scacciare via la preoccupazione e la paura, o forse perché erano sicuri di vincere, poiché a guidarli v’era Alessandro.
Quando giunse l’ora prestabilita, quella in cui le sentinelle si davano il cambio, gli ufficiali dell’esercito macedone si raccolsero al centro dell’accampamento.
Lì attendeva, già vestito per il sacrificio, Aristandro, il sacerdote ritenuto più esperto nell'arte divinatoria.
Alessandro, assieme ad Efesione, attraversò l’accampamento e i suoi soldati, scattando sull’attenti, lo salutavano amichevolmente. Lo consideravano uno di loro e Alessandro sapeva davvero ispirarli come prima di lui Filippo; i più anziani tra loro, infatti, ritenevano che quel ragazzo avesse ereditato tutto il talento paterno, vestendolo con la passione e l'audacia tipica di una personalità forte e giovane.
I generali accolsero Alessandro in rispettoso silenzio. C’erano tutti: Tolomeo, Leonnato, Perdicca, Cratero, Seleuco, Lisimaco, Cassandro, Laomedone, Nearco, Filota e i veterani Parmenione, Antipatro e Clito il Nero. Assistevano, come sempre, Callistene ed Eumene, i due storici della spedizione incaricati di trascrivere fedelmente i fatti, cosa su cui Alessandro era piuttosto puntiglioso.
Aristandro fece segno agli schiavi di portare un bue completamente bianco, senza alcuna macchia che ne deturpasse il candore, proprio al centro del cerchio che gli uomini avevano formato.
«Al tuo comando, mio signore, inizieremo la cerimonia.», disse il sacerdote, sollevando una lama affilata posta sull’altare in pietra, costruito appositamente per quell’evento.
Alessandro s’avvicinò al bue e lo esaminò, il suo sguardo si soffermò sui fiori e suoi nastri che ornavano la vittima sacrificale; gli batté una mano sul collo poderoso, sussurrandogli qualcosa che nessuno riuscì ad udire; poi fece un paio di passi indietro.
«Comincia pure, Aristandro.», ordinò il re.
Il Sacerdote allora levò la sua preghiera, invocando Zeus, Ares e Apollo. Con dell’acqua si lavò le mani e le braccia, poi se ne versò sul capo, com’era consuetudine nel rito lustrale.
Infine si avvicinò al toro con la lama affilata in pugno e tagliò la gola dell’animale con un gesto preciso e sicuro. Il sangue rosso vivo zampillò, macchiò le vesti di Aristandro e schizzò su quelle di Alessandro. Lentamente gocciolò sul terreno, dove s'allargo in una pozza. Mentre il bue piegava le ginocchia con un muggito soffocato, uno dei sacerdoti ausiliari si affrettò a raccogliere il resto del sangue in un bacile d'argento. Infine, l'animale sacrificato rimase immobile, riverso al suolo.
Al bagliore del fuoco, Alessandro appariva imperscrutabile: luci e ombre si rincorrevano sul suo viso e nei suoi occhi, incendiandoli di un lampo quasi selvaggio. Il re non si mosse nemmeno quando sentì il sangue del toro scorrergli lungo le gambe, anzi, lo osservò esalare l’ultimo respiro.
Sollevò pensoso lo sguardo spingendolo nel buio, oltre il cerchio dei suoi uomini, in un punto ombroso dell’accampamento.
Alessandro notò una figura di donna camminare lentamente nella sua direzione, fasciata con un lungo abito greco bianco, ornato d’oro; sul capo portava un lungo velo che un vento improvviso fece volteggiare.
Un solo battito di ciglia e Alessandro non la vide più. Si voltò e restò per un momento senza fiato quando s’accorse che un velo bianco si agitava dinanzi al suo viso. Una voce di donna, la stessa che aveva udito nella sua tenda, gli sussurrò: “Un sacrificio per ogni viaggio e per ogni battaglia: sei devoto agli dèi, Alessandro.” Una breve pausa e Alessandro sentì il velo bianco carezzargli la pelle: Mnemosine era praticamente accanto a lui.
“Gli dèi ti sono accanto e tu stesso sei stato salutato come il Figlio del Dio, proprio come Achille. Ricordi, Alessandro? Ricordi il deserto? Ricordi com’è stato difficile trovare la strada? Eppure, giunto al santuario di Amon, che è Zeus, hai trovato la risposta a una delle tue innumerevoli domande. Ricordi?”
 
***

Il sole era alto e l'afa insopportabile, tanto che l'aria – se si osava osservare la linea dell'orizzonte – tremolava e si sfocava, come in un miraggio. Le dune di sabbia rossa si stagliavano contro il cielo, gigantesche montagne semovibili che ammonivano severamente gli incauti viaggiatori. Il deserto, antico quanto la terra stessa, era il padrone della vita e della morte, un padre severo e, allo stesso tempo, pericoloso: era il dominio di Seth, dio di Ombos.
«Forse non avremmo dovuto prendere la strada che partiva da Paretonio,», osservò lo storico Callistene guardandosi in giro, madido di sudore, in sella ad un cavallo che proseguiva stancamente con il muso basso.
«Perché mai? Non si saremo mica persi?», chiese Tolomeo cavalcandogli al fianco, in tono sarcastico.«Come potremmo mai perderci in una infinita distesa di sabbia, senza nemmeno una scorda d'acqua bastante per tutti?»
«O forse, come avevo detto io, avremmo dovuto chiedere a qualcuno giù in città di farci la guida.», rispose Callistene in tono offeso.
«Non sprecate fiato! Invece di dire banalità, cerchiamo di ritrovare la strada.», li rimproverò Efestione. Affrettò l'andatura del suo cavallo e raggiunse Alessandro alla testa del drappello.
Alessandro, senza badare a nient’altro, avanzava in groppa a Bucefalo. Né la sete, né il lungo errare nel deserto lo aveva distolto dal suo obiettivo: era fin troppo ostinato ma era proprio grazie a quell'ostinazione che riusciva ad ottenere tutto quello che desiderava.
«Alessandro!», lo chiamò Efestione. «Hai idea di dove stiamo andando?», non ricevendo risposta, insistette: «I soldati sono allo stremo, alcuni si sono perduti e non sappiamo dove andare: dovremo fermarci!»
Il Re teneva gli occhi puntati sul sentiero appena sbozzato, ogni tanto gettava occhiate a destra e sinistra per vedere se ci fossero le pietre che segnavano la via. Non rispose subito ed Efestione attese.
«Io so che questa è la strada giusta. So che il dio che vado a visitare ci aiuterà. So che i miei uomini mi seguiranno fino alla fine: ho fiducia in loro. Non devono dubitare proprio ora, né perdersi d'animo, perché io credo fermamente che raggiungeremo la nostra meta e troverò ciò che cerco. L'Egitto ha tanti segreti, ma mi è stato predetto che ne avrei disvelato uno proprio al tempio di Amon-Ra.», ribattè Alessandro estremamente serio, armato di fiducia e tenacia.
Quando sorrise al suo migliore amico, tutta l'incertezza di Efestione scomparve e il vento bollente che spazzolava il deserto acquistò una voce familiare alle sue orecchie: se Alessandro era così convinto e ispiritato da una volontà superiore, allora non avrebbero mai potuto fallire.
«Sia, mio Re! Sai bene che ti seguirei anche nell’Ade, mio Achille!»
«Non ne avevo dubbi, Patroclo!»
Alessandro si fermò all’improvviso, facendo arrestare la marcia di quanti venivano dietro. Levò il capo al cielo, chiuse gli occhi e respirò a fondo.
«Cosa c’è?», domandò Efestione corrugando le sopracciglia.
Alessandro gli fece segno di stare in silenzio e poi sussurrò: «Non lo senti?»
Efestione scosse il capo. «Cosa dovrei sentire oltre alla calura?»
Alessandro carezzò Bucefalo, il quale aveva preso a sbuffare, eccitato, come se avvertisse qualcosa nell’aria.
«Bucefalo l’avverte…» mormorò ancora Alessandro, come se non volesse spezzare l'incantesimo in cui si sentiva proiettato. «E anch’io.»
«Non capisco.», insistette Efestione e, mentre stava per aggiungere altro, delle gocce d’acqua gli bagnarono la pelle.
La pioggia prese a cadere, cavalli e uomini furono investiti da un temporale tanto improvviso quanto a lungo desiderato: la calura venne scacciata e la sabbia, impregnata d'acqua, divenne più compatta.
Con il capo inclinato in quella sua particolare posizione, Alessandro sorrideva intanto che la pioggia gli bagnava i capelli biondi e gli scivolava lungo il collo, mentre anche la criniera di Bucefalo stillava acqua. E il suo sorriso si trasformò in riso, il riso felice e sicuro di chi sa di aver avuto ragione fin dall’inizio.
Aristandro, subito chiamato, decretò che quello era certamente un segno divino: Alessandro, senza dubbio, godeva della protezione degli dei d'Egitto.
Quando la pioggia cessò, dopo aver rinfrescato l'aria e placato la sete degli uomini, si riprese il cammino e questa volta un gracchiare di corvi segnò la strada. Il primo a scorgerli fu Callistene che, più tardi, avrebbe annotato egli stesso quel particolare evento nel diario reale.

La marcia riprese alle prime luci dell’alba e al pomeriggio, finalmente, le guide scorsero il profilo imponente dell’unica costruzione in pietra che si ergeva al centro di un’oasi lussureggiante.
Era, quello, il tempio di Amon, in cui risiedeva l’Oracolo, più antico di quello di Apollo a Delfi.
Alessandro smontò, lasciando Bucefalo nelle mani di Seleuco e s'affrettò ad entrare nel santuario.
Attraversò le fresche sale ombrose, illuminate notte e giorno dalle lucerne, mirò gli splendidi affreschi dipinti molti e molti anni prima che in Grecia sorgessero le prime polis. Osservò la lingua sacra egizia – i geroglifici – incisi nella pietra e traboccanti di un potere che solo i sacerdoti potevano ambire ad imbrigliare e tremò di un piacere senza nome, un fremito che gli fece balzare il cuore nel petto. Era nel cuore religioso di tutto il vasto Egitto e sentiva su di sé lo sguardo attento delle divinità dipinte a colori vivaci sui muri di pietra secoli.
Nella sala più interna del tempio, Alessandro trovò la Voce dei Dio: il sacerdote era intento a fare offerte ad Amon, la cui statua troneggiava imponente, simile a quella del greco Zeus, con gli occhi di preziosa diorite nera che imprigionava il riflesso delle lanterne e apparivano incredibilmente vivi. Il fumo dell'incenso saliva in larghe spirali, avvolgendosi attorno ai piedi della statua e accarezzandola soavemente.
«Salute a te, Figlio del Dio, hai attraversato il deserto e sei giunto alla casa di Amon come avevo previsto. L’Oracolo di Amon si inchina dinanzi al nuovo Re delle Due Terre, Horo d’Oro, Figlio di Ra, Colui che regna sul Giunco e sull’Ape, Scelto da Ra, Amato da Amon.», lo salutò il sacerdote, inchinandosi riverentemente fino a toccare il pavimento con la fronte. Lo aveva appellato alla maniera dei Faraoni senza battere ciglio, come se la voce non gli appartenesse davvero e fosse solo un mero tramite tra Alessandro e Amon. «Sei qui per porre delle domande: falle.»
Alessandro, che prima era rimasto immobile sulla soglia della cella della divinità e che aveva ascoltato in silenzio quelle parole di saluto, avanzò, mentre udiva l'eco dei suoi passi e avvertiva il cuore accelerare. Era profondamente turbato. Era stato salutato come Figlio di Amon, eppure, era lì per scoprire la verità su Filippo, un uomo mortale, che aveva sempre considerato il suo unico e autentico padre, nonostante Olimpiade si affannasse a rivendicare per lui una discendenza divina.
«Mio padre è stato ucciso. Sono qui per chiedere ad Amon se tutti i suoi assassini sono stati puniti o se c’è ancora qualcuno che è riuscito a sfuggirmi.»
Alessandro smise di parlare,; aveva stranamente la gola secca, gli parve di essere osservato, che qualcuno gli scrutasse le pieghe più intime dell'anima e sentiva gli occhi della statua di Amon fissi su di sé, penetranti.
Il Sacerdote, però, lo ammonì: «Bada, Re dei Macedoni!Tuo padre non può essere ucciso, poiché Egli non è mortale! »
Alessandro restò interdetto: ancora una volta gli veniva ribadito che il sangue che gli correva nelle vene era divino. Di nuovo dli tornarono alla mente le parole di sua madre che gli ripeteva che un giorno Alessandro avrebbe avuto prova tangibile della veridicità delle sue parole. Sembrava che quel giorno fosse ormai giunto.
«Allora la mia domanda è questa. Voglio sapere se tutti gli uccisori di Filippo sono stati puniti. E, in più, voglio sapere cosa ne sarà del mio Impero. Voglio sapere se riuscirò ad estenderlo fino ai confini del mondo, se riuscirò a riunire sotto un’unica egida tutti i popoli.»
Improvvisamente un forte vento penetrò nella sala: le fiamme delle lucerne traballarono, gli occhi della statua di Amon sembrarono vivi ed Alessandro udì un sibilo di serpenti.
Mentre respirava il forte odore dell'incenso e delle altre erbe che ardevano nei bracieri, il profeta di Amon pareva in preda a un'estasi profonda; poi la sua voce divenne profonda come fosse quella del Dio.
«Nessuno degli assassini di Filippo il Macedone è scampato alla tua ira, figlio!Ti offro il dominio del mondo e di tutte le genti che in esso vivono! Tu sarai la luce nel buio della barbarie; la tua ascesa è quella della stella più bella nel firmamento. Devi andare incontro al tuo Destino: quale esso sia.»
Quel giorno segnò una svolta definitiva nella vita del condottiero macedone, Alessandro figlio di Zeus, proprio come Achille.
La sua divinità riconosciuta dall’Oracolo di Amon lo innalzava ancor più in alto di quanto non fosse già. Una tale consapevolezza era per Alessandro anche la risposta ad altre domande, quelle che si era posto già da adolescente, quando ancora era a Mieza.
Adesso che era stato riconosciuto come Figlio di Amon, Alessandro comprendeva il perché si fosse sentito così profondamente diverso da quanti lo circondavano; comprendeva che la solitudine provata in certe occasioni era, forse, naturale, poiché un dio è diverso da un mortale e non può essere compreso. Aveva trovato risposta al vuoto che, da ragazzino, sembrava divorarlo durante le notti insonni, spese a riflettere: adesso quel vuoto era colmato.
Turbato e lieto assieme, Alessandro s’avvicinò alla statua di Amon e gli fece splendide offerte, pregandolo in silenzio affinché gli assicurasse la sua protezione per tutto il tempo in cui lui sarebbe vissuto, per ognuna delle sue azioni.
Quando uscì dal tempio, Alessandro era ancora stordito da quelle rivelazioni. Nella sua anima si agitavano e si scontravano forze arcane. Sapeva solo che, ora, era veramente pronto a lanciare la sua grande sfida, a volgere i propri passi nel profondo Oriente, per inseguire il sogno che era stato di Filippo e che aveva fatto suo, ampliandolo e migliorandolo con la propria determinazione e il proprio ingegno: la Persia.
Esistono uomini grandi capaci di compiere grandi imprese. Esistono uomini dal sangue divino capaci di innalzarsi al di sopra di ogni altro uomo grande e di rivaleggiare con gli Dèi stessi: Alessandro era il migliore tra questi. Esistono guerrieri dal coraggio inimmaginabile e poeti che ne cantano le gesta, come Omero aveva fatto per la guerra di Troia.
Esistono Re di uomini dal potere irresistibile che nessun poeta è in grado di cantare, poiché nessuna parola potrebbe esprimere la gloria delle loro splendide imprese: Alessandro era il più grande condottiero di uomini.
Esistono, infine, molti uomini che potrebbero distinguersi ma che cadono nei vizi e nella totale miseria. Esistono pochi uomini equilibrati nell’anima e nella mente, illuminati dalla luce degli Immortali: Alessandro era il Molteplice e l’Uno assieme, come diceva Aristotele.
Ma Alessandro era di più, era l’Eccezione, era l’Astro che ardeva nel buio del remoto Oriente, destinato a rischiarare quelle terre lontane e a ricondurre le genti che vi vivevano sotto il medesimo segno.
Era il Figlio di Zeus che è Amon, a cui niente e nessuno poteva resistere, che affascinava e soggiogava con un semplice sguardo, una parola, un sorriso.
Alessandro era già a pieno titolo sovrano indiscusso di Macedonia ed Egitto ma il suo impero si sarebbe esteso ancora più in là. Ognuna delle sue azioni sarebbe stata considerata di ispirazione divina e proprio per questo motivo inoppugnabile.
Adesso, un dio camminava tra i mortali, come gli antichi Faraoni, e quei mortali l'avrebbero seguito anche oltre i confini del Mondo conosciuto.
Era scesa la sera. I soldati avevano montato le tende e acceso fuochi. I Sacerdoti del tempio avevano portato loro acqua e cibo per ristorarli. Alessandro non era ancora tornato ma nessuno aveva osato entrare nel tempio di Amon per cercarlo.
Il Re dei Macedoni varcò l’uscita del santuario quando la luna s’era già affacciata nel cielo.
«Cosa ti ha detto l’Oracolo?», domandò Efestione una volta che Alessandro lo ebbe raggiunto.
Alessandro non rispose, preferì serbare per sé quanto gli era stato detto: non era ancora il momento per rivelarlo, egli stesso doveva ancora meditare a lungo. «Adesso so.», si limitò a dire.
Si sedette davanti a un fuoco e bevve un sorso di vino e dichierò: «Domani torneremo a Menfi. Ho intenzione di fondare una nuova città, che sarà la nuova capitale d’Egitto.»
I suoi generali s’erano raccolti attorno a lui e lo ascoltavano in silenzio, stupiti, scambiandosi qualche occhiata interrogativa.
«Una città?», ripeté Filota.
«La prima città di molte altre che fonderò lungo il nostro cammino in Oriente. Le darò il nome di Alessandria.»
 
***

Il fumo del sacrificio gli giunse alle narici e Alessandro riaprì gli occhi, ritrovandosi nuovamente dinanzi al fuoco, durante la cerimonia.
Aristandro aveva prelevato le interiora del toro, le aveva posate sull’altare di pietra e le stava esaminando, mentre il sangue, le ossa e il grasso dell’animale venivano bruciati su una pira funeraria, affinché il fumo salisse fino alle case degli Dèi.
Alessandro si passò una mano sugli occhi e si guardò attorno, alla ricerca di Mnemosine: voleva chiederle perché gli facesse ricordare proprio quegli eventi: non riusciva a comprenderne il senso, non ancora.
Efestione s’avvicinò al Re discretamente e gli pose una mano sulla spalla. «Va tutto bene?», gli chiese sottovoce.
Alessandro annuì rassicurante, quindi s’avvicinò all’altare e si rivolse al sacerdote: «Allora, Aristandro, cosa vedi? Che segni ci inviano gli Dèi?»
Il sacerdote palpeggiò le interiora calde e le esaminl con espressione concentrata, infine levò il capo e osservò il sovrano con cipiglio intenso, severo e risoluto. «Il responso è chiaro, mio signore.Una grande vittoria ti attende. Gli Dèi sono con noi.» e per fugare ogni ombra di dubbio aggiunse: «Domani, la piana risuonerà del clangore delle armi e la terra berrà il sangue dei Persiani!»
Alessandro annuì, soddisfatto di quel responso. Assistette alla conclusione del rito e poi si separò dai suoi generali; riattraversò da solo il campo, con passo lento, contemplando l'oscuro cielo notturno. Fermò i suoi passi quando giunse nel recinto dov’era sistemato il suo Bucefalo. Il cavallo si avvicinò immediatamente al suo padrone e gli strofinò il muso contro il collo. Alessandro gli carezzò la criniera.
«Ti vedo così pensoso.»
«Lo sono.»
Efestione si affiancò ad Alessandro, poggiandosi contro il recinto e rifilando una pacca a Bucefalo a sua volta.
«Non vuoi dirmi il perché?»












__________________________________________
NOTE



Per quanto riguarda la fondazione di Alessandria, gli studiosi sono discordi nell’affermare se questa avvenne prima o dopo la consultazione dell’Oracolo di Amon: io ho preferito collocare l’edificazione di Alessandria dopo.
Il titolo con la quale l’Oracolo di Amon si rivolge ad Alessandro è quella con cui si appellavano realmente i Faraoni.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


CAPITOLO III


Alessandro si mosse piano, al buio: un’ombra tra le ombre.
Afferrò una spazzola per la strigliatura e la passò sul manto nero di Bucefalo, delicatamente e lentamente, un movimento che, oltre a rilassare il cavallo, sortiva il medesimo effetto anche su di sé.
«Questa notte sembra molto più lunga di altre notti.»
Efestione, oramai abituato all’oscurità, osservò i gesti del giovane uomo. «Non dirmi che sei nervoso per la battaglia di domani! Non è da te.», esclamò ironicamente.
Alessandro smise di spazzolare Bucefalo e replicò con serietà. «Non si tratta di questo. È che molti ricordi mi tornano alla mente, alcuni recenti, altri risalenti ad anni fa.».
Di colpo, Alessandro si mosse: non riusciva a stare fermo, aveva troppe energie che cercavano una valvola di sfogo.
Efestione si vide costretto a seguirlo ancora, non contento di quelle risposte enigmatiche.
Quando il re fu nuovamente dinanzi all’ingresso della propria tenda, Efestione lo fermò con un mano sulla spalla. «Ma si può sapere cos’hai davvero? C'è qualcosa che non ti quadra della nostra strategia? Devi dirmelo, Alessandro, poiché c'è in gioco la vita di tutti noi.»
Alessandro gli rivolse uno sguardo eloquente, che voleva significare che c’erano troppe orecchie attente, pronte ad ascoltare conversazioni che non le riguardavano. «Vieni dentro.», lo invitò il Re seccamente, sollevando un lembo della tenda ed entrando.
Alessandro si sedette sul suo seggio di legno dopo essersi slacciato la clamide ed averla gettata sul letto. Il Condottiero si passò una mano sugli occhi e tra i capelli, infine puntò lo sguardo su Efestione, fermo nel tipico atteggiamento di chi cerca risposte esaurienti. Lui era testardo, ma Efestione rivaleggiava con lui anche in quello.
«Se insisto nel chiederti cos’hai, è solo perché voglio assicurarmi che tu stia bene e che, domani, tu sia in grado di affrontare la battaglia.», spiegò allora Efestione, in tono preoccupato. «Sai che non ti lascerei mai scendere in campo qualora ci fosse qualcosa che ti impedisse di essere pronto e lucido. Non rischierei la tua vita per nulla al mondo. »
Il tono era accorato e sincero, Efestione s’inginocchiò davanti al suo sovrano. Alessandro si sporse in avanti e gli baciò la fronte.
«Patroclo.», sussurrò Alessandro, senza aggiungere altro, poiché sapeva che l'amio avrebbe inteso quanto gli fosse grato per quelle parole pregne d’amicizia e affetto.
Poi, poggiandosi nuovamente contro lo schienale del seggio, Alessandro s’affrettò a chiarire tutto.
«La battaglia di domani è fondamentale. Io guiderò il mio esercito ad ogni costo. Sono in grado di farlo, come sempre, e lo farò. Ma ciò che accade questa notte, penso che sia strano eppure importante. Forse, prima che sorga il sole, gli dèi vogliono che comprenda qualcosa, affinché sia pronto a portare i miei uomini alla vittoria», spiegò a voce bassa, sfiorandosi le palpebre con la punta delle dita. «Ricordi il tempio di Amon? », domandò ad un tratto.
Efestione annuì, senza interromperlo.
«Da allora sono stato considerato invincibile in virtù delle parole dell'Oracolo. In Egitto, dove toccavano la terra con la fronte al mio passaggio come facevano con i Faraoni, sono stato visto come un dio inavvicinabile, da adorare. Sai, avrei potuto abituarmici sul serio e pretendere che tutti, dalla Grecia, alla Macedonia, all’Egitto, mi considerassero una divinità dinanzi alla quale inchinarsi. Ma è stata proprio l’Ellade a farmi ricordare che sono un uomo, oltre che un dio, se è vero quanto l’Oracolo di Amon ha detto. In Grecia non accettano con molta leggerezza che ci si dichiari figli di Zeus, ci vanno sempre molto cauti e sono sempre pronti a sottolineare che i culti orientali sono troppo oscuri e lontani dalle loro menti illuminate.», c'era una punta di ironia, ma poi Alessandro tornò serio: «Ma è un bene. La Grecia mi ricorda che quello che mi scorre nelle vene è sangue, e che sono fatto di carne che può essere ferita. Il ruolo di Faraone, Horus incarnato, può richiamare a me il cuore degli egizi e non è mia intenzione offendere loro e gli Dei della Terra Nera rifiutando tale titolo. Ma poi rischierei di rimanere solo e infelice circondato da quell'alone di insondabile divino a cui mia madre è tanto affezionata. Mi sono sempre chiesto chi fossi e, Efestione, io non sono davvero convinto di essere il Dio che tutti osannano. Io sono un uomo, semplicemente un uomo che vuole spingersi sempre oltre i propri limiti. Non è un peccato di Hýbris, non è vero?»
«Ti conosco da quand’eravamo bambini.», interloquì allora Efestione, ancora inginocchiato accanto al seggio e con un sorriso fiducioso che gli incurvava le labbra. «C’è sempre stato qualcosa di diverso e particolare in te, amico, se ne accorgevano tutti. E io non so cosa sia davvero, Alessandro. Eppure, se è vero che sei Figlio di Zeus, io sono convinto che, oltre alla divinità, è l’uomo ad essere sempre vivo e ad agire, a pensare, a decidere. È Alessandro a condurvi avanti, sempre più avanti e nessun altro.»
«Sai, la cosa interessante è che a ricordarmi che sono fatto di carne ed ossa sono solo due cose: le donne e il sonno.», ribatté divertito, scoppiando a ridere e suscitando anche l'ilarità dell'amico.
Tuttavia, dopo quella parentesi ironica, Alessandro ridivenne serio; l'inquietudine tornò ad impadronirsi di lui e mormorò: «Dividersi tra immortalità e umanità: ci si aspetterebbe che ogni mia azione fosse perfetta, mirata a un fine supremo che nessuno, a parte me, può comprendere. In realtà, non posso dimenticare i miei sbagli e i miei eccessi che hanno ben poco di divino. È stato anche l’uomo a commettere degli errori che non credo mi perdonerò mai.»
 
***
 
336-335 a.C. Pella, Macedonia.

Filippo, morendo, aveva lasciato nelle mani del ventenne Alessandro un regno minacciato da pericoli da ogni parte, nonché da odi e invidie.
La situazione nell’Ellade, poi, non era tra le più felici: le poleis erano agitate dai movimenti filo-macedoni che si contrapponevano a quelli conservatori e le ferite subite durante la battaglia di Cheronea continuavano a bruciare. I Greci non accettavo ancora di buon grado l’essere sottomessi a un re considerato, dalla maggior parte dei cittadini, poco più che un barbaro.
Le tribù dei Triballi e degli Illiri, inoltre, avvicendavano guerre intestine ad audaci spedizioni ai danni della Macedonia.
Alessandro, come nuovo Re, era costretto a far fronte a una situazione squilibrata e a tratti torbida; doveva decidere il da farsi con prontezza e oculatezza, senza perdere tempo. In più, non poteva abbassare la guardia nemmeno per quanto accadeva all'interno della sua corte.
Ripensando a queste cose, Alessandro misurava con lunghi passi la sala del trono.
Al tavolo degli ufficiali sedevano i suoi giovani compagni, la Guardia personale del Re, e i vecchi generali che erano stati al servizio di suo padre. Tutti erano silenziosi, in attesa che il nuovo sovrano annunciasse le proprie decisioni.
Infine, Alessandro s’arrestò, raggiunse il trono che era stato di Filippo e ci si sedette. I suoi occhi vagarono per tutta la sala: gli tornarono alla mente i consigli di guerra presieduti da suo padre e nei quali, da bambino, si infiltrava a dispetto di Olimpiade, che non voleva che si mescolasse a “quei rozzi guerrieri”. Filippo lo accoglieva ridendo e se lo sistemava sulle ginocchia, mentre Antipatro gli regalava qualche affettuoso buffetto. Adesso, però, Antipatro gli appariva invecchiato e non era più il tempo delle fughe bambinesche.
«Ho pensato molto alle possibili soluzioni per risolvere la situazione critica che ci ritroviamo ad affrontare», cominciò Alessandro in tono pacato.
Seguì ancora un silenzio carico d’attesa. La tensione degli ufficiali si tagliava con un coltello. Alessandro, però, spezzò quel silenzio irreale, catapultando tutti verso il pensiero di una nuova spedizione.
« Ho deciso che ci muoveremo. Giungeremo fino all’Istro e metteremo fine alle scorrerie dei barbari. Faremo in modo che ci giurino fedeltà e, se non vorranno farlo in modo pacifico, impugneremo le armi.»
Alessandro non udì alcuna risposta. S’aspettava degli assensi, delle critiche, delle controproposte, qualsiasi cosa, tranne che il silenzio.
«Ebbene? on avete nulla da dire?»
Antipatro e Clito si scambiarono un’occhiata. Antipatro, i capelli brizzolati e la corporatura solida, il volto verace solcato da vecchie cicatrici, s’agitò sulla sedia come se non stesse comodo.
«In verità Qualcosa da dire l'avrei.»
«Parla, allora! Hai sempre consigliato bene mio padre e reputo lo farai anche con me.», Alessandro lo incoraggiò prontamente.
Antipatro si alzò e fece un paio di passi in avanti, i suoi occhi cercarono quelli Alessandro senza alcuna vergogna, in modo diretto, pragmatico. «-Credo che non sia una buona idea. Prima di lanciarti in queste avventure dovresti guardare alla Macedonia. Lascia perdere la Grecia: che si azzannino tra di loro, i Greci! E i barbari frenali con mitezza, senza ricorrere alle armi.»
Alessandro s’incupì, divenne imperscrutabile. Fu come assistere al repentino annuvolarsi di un cielo estivo e i giovani Compagni del Re se ne accorsero, sopratutto Efestione che si smosse inquieto mentre Antipatro, incurante, continuava ad arringarli.
«Non è conveniente rivolgere i propri pensieri al di là dei confini fino a che non si sarà sicuri che la situazione si sia pacificata nella propria casa, Questi sono consigli che ti sono già stati dati, tuttavia sembra che tu abbia preferito ignorarli. Per Zeus! Filippo era testardo, ma almeno dava ascolto ai suoi amici!»
Alessandro non rispose. Restò immobile a scrutare il suo ufficiale: il volto aveva assunto un colorito più intenso ed Efestione s’accorse che Alessandro era in preda ad un eccesso d’ira pronto a scoppiare come un bubbone.
«Io non sono Filippo! Non sono mio padre, anche se porterò avanti quanto lui ha cominciato!», tuonò Alessandro: detestava quel genere di paragoni. «Accetto di buon grado di essere consigliato, ma non accetto che le cose mi vengano imposte. Se ho preso una decisione simile è perché ho ben riflettuto e ho le mie buone ragioni.»
«Quali sarebbero, se ci è dato saperle, sire?», interloquì Clito il Nero in tono duro.
Alessandro raggiunse il tavolo attorno al quale c’erano i suoi generali. Camminò con passo nervoso, come un leone in una gabbia che, però, non ha perso la sua ferocia.
«Se i Greci o le tribù barbare dovessero pensare che indugio nel prendere delle decisioni e che lascio che facciano quello che vogliono, allora mi riterranno debole e si sentiranno autorizzati ad assalirmi. E io non ho nessuna intenzione di apparire come un debole e inesperto ragazzino che gioca a fare il condottiero!», tuonò in risposta. «o sono il Re! E un Re fa precisamente quello che ritiene giusto in concordanza con la sua indole naturale; non sono debole, né sprovveduto. Dovranno imparare a conoscermi tutti, fin dall’inizio. Ecco perché mi spingerò fino all’Istro!», e batté la mano sul tavolo, il tono autorevole e appassionato. che non ammetteva repliche


Atene, Grecia.

L’agorà era affollata.
Ancora una volta i cittadini di Atene erano stati convocati in assemblea. I fatti da discutere erano, però, sempre gli stessi: si trattava di capire che politica intraprendere nei confronti della Macedonia.
Erano passati due anni dalla bruciante sconfitta di Cheronea e le speranze del partito anti-macedone si erano riaccese solo recentemente: la morte di Filippo II costituiva, infatti, per Atene l’occasione propizia per riprendere il proprio ruolo di guida dell’Ellade.
Demostene aveva colto l’opportunità per riaccendere nei cuori dei suoi concittadini il desiderio d’indipendenza.
La notizia che il nuovo re, Alessandro, si era lanciato in una spedizione contro i Triballi era subito giunta nella polis e in molti speravano che quella prima avventura fosse anche l’ultima per il giovane erede di Filippo, un cucciolo di leoncino fin troppo ardito.
Demostene si alzò e estrasse due sassolini da un sacchetto che portava sempre con sé, cacciandoseli in bocca: era l’unico sistema che lo aiutasse a correggere il suo difetto di pronuncia. Quindi srotolò la pergamena su cui aveva appuntato il discorso da pronunciare e cercò l’attenzione dei cittadini.
«Ateniesi!»
Ma il vociare era ancora alto e Demostene dovette alzare la voce.
«Cittadini d’Atene! Chiedo la parola!», stavolta gli occhi di tutti si volsero a lui.
Il silenzio perdurò e Demostene comprese che poteva incominciare la sua orazione.
«Miei concittadini, è giunto il momento di prendere una decisione. Filippo, il tiranno che voleva soffocare la nostra libertà, è morto. A prenderne il posto è stato suo figlio, Alessandro, ma è poco più che un giovinetto che crede di sapere tutto del mondo e che gioca a fare la guerra», s’interruppe: era una pausa studiata che faceva parte della sua tecnica oratoria e che usò per far scorrere lo sguardo sull'assemblea. «Io vi dico che è il momento per riprenderci ciò che ci è stato strappato: la dignità e l’indipendenza! No, no, non avete sbagliato, Ateniesi, affrontando il pericolo per la libertà e la salvezza di tutti! Lo dichiaro in nome di quelli che lottarono a Maratona e di quelli che si schierarono a Platea, e di quelli che combatterono sul mare a Salamina e all’Artemisio e di tanti altri valorosi che giacciono in tombe pubbliche, che la città ha seppellito riservando a tutti onori uguali e non soltanto a coloro che avevano riportato il successo e la vittoria.i Adesso, dunque, vi propongo un ultimo sforzo comune! Dobbiamo liberarci dal giogo macedone! Ribelliamoci al barbaro, combattiamo lo straniero!»
Circa la metà degli Ateniesi s’alzò in piedi, assecondando a gran voce quel proposito di sollevazione contro la Macedonia. Demostene sembrava soddisfatto di aver ottenuto un così gran appoggio.
Dal lato opposto dell’agorà, però, una figura restava impassibile, le braccia incrociate al petto e le labbra atteggiate in una smorfia di disapprovazione e disappunto.
«Dimentichi, o Demostene, che il nuovo Re non è certo uno sprovveduto!»
L’oratore udì distintamente quella voce: spiccava, fastidiosa, persino tra quelle di tutti i suoi sostenitori, poiché era sempre la stessa ad essere discordante. L’ampia fronte di Demostene si corrugò e i suoi occhi individuarono il suo avversario.
Eschine si alzò pacatamente per farsi ben vedere da tutti e allargò appena le braccia, con un sorriso sornione e accattivante di scherno.
«Hai forse detto qualcosa, Eschine?», replicò Demostene in tono acido, ostentando una certa diffidenza.
«Ho detto», riprese Eschine «Che corri troppo! Inciti alla ribellione, ma dimentichi con chi hai a che fare. Hai avuto modo di incrociare Alessandro per ben due volte durante le ambascerie presso Filippo e non ti sei accorto di com’è fatto?»
Demostene sembrava infastidito. «Alessandro è solo un moccioso! Che rimanga a trastullarsi tra gli Illiri e i Triballi!Che giochi a fare la guerra tra i barbari suoi pari! Che si rotoli nel fango come fanno tutti i mocciosi barbari, assieme ai cani! Non mi curo di quel ragazzetto.», esclamò di rimando come un serpente che sputa veleno. Poi si volse ai suoi concittadini con solerzia: «Tebe chiede il nostro appoggio per sollevare una rivolta contro la Macedonia: io dico di fornire armi e uomini ai Tebani. Siete con me o no, Ateniesi? Lotterete per la libertà ancora una volta?»
Li incitò, ma tenne per sé il fatto che il Re di Persia gli aveva inviato un enorme quantità di denaro per finanziare quell’insurrezione. Ci furono esclamazioni d’assenso, ma Eschine scosse la testa.
«Te ne pentirai ancora una volta, Demostene.», commentò amareggiato Eschilo e si rimise a sedere, deluso dalla piega che avevano preso gli eventi.

Sirmo, re dei Triballi, era stato vinto nel corso di una grande battaglia. Anche i barbari che vivevano sull’Istro s’erano infine arresi e Alessandro festeggiava la vittoria ottenuta con tutti i suoi compagni.
Nell’accampamento si beveva e si banchettava con l’accompagnamento della musica delle suadenti flautiste.
Alessandro era di buona compagnia e s’intratteneva con i suoi compagni sorseggiando del buon vino greco, ridendo di gusto alle battute. Rimaneva, comunque, piuttosto composto, senza mai davvero abbandonarsi agli eccessi: non si ubriacava mai.
Un messaggero arrivato proprio qualche minuto prima si accostò al Re e gli porse un dispaccio urgente proveniente dagli informatori greci.
Il sovrano lesse la lettera e si rabbuiò. Strappò il foglio di papiro in uno scatto iroso e s’alzò, lasciando il banchetto e precipitandosi nella sua tenda.
Alessandro non poteva ancora credere a quanto aveva letto. Era arrabbiato, deluso, addolorato.
Efestione entrò nella tenda e scrutò allarmato il suo migliore amico. «Cos’è successo? »
Alessandro respirò a fondo, cercando di dominare l'ira che gli incendiava il volto. «Tebe è insorta e Atene l’aiuta. Pensano che io sia morto in battaglia e ne approfittano per ribellarsi. Credono di poter ballare già sul mio cadavere. Si prendono gioco di me!»
Alessandro si prese il capo tra le mani, in preda ad una disperazione che gli lacerava il cuore. «Com’è possibile? Io sono un greco, oltre che un macedone, e loro mi ritengono un tiranno e colgono l’occasione per insorgere. In più, Demostene mi insulta!»
«Cosa intenti fare, allora?»
Alessandro strinse il pugno: «Andremo a Tebe!»


Alessandro contemplò il passo delle Termopili da un’altura.
In quel luogo, nel 480 a.C., Leònida e i suoi trecento Spartani morirono combattendo contro i Persiani. Quando l’esercito giunse nel cuore delle Termopili, Alessandro smontò da cavallo e s’affretto a raggiungere l’ara eretta in commemorazione dei caduti in guerra e lesse l’iscrizione:
 
«Dei morti alle Termopili
è gloriosa la sorte, il fato è bello:
non la tomba, ma un’ara;
non i lamenti, ma il ricordo;
non compianto, ma lode.
Questa funebre veste non la ruggine,
né il tempo oscurerà, che tutto vince.
Il sepolcro ha scelto la sua compagna
La gloria della Grecia.
Leònida lo attesta, il re di Sparta:
grande esempio lascia di valore
e gloria eterna.ii»


Alessandro si portò la mano al cuore. Provava profondo rispetto e ammirazione per Leònida e per quei trecento soldati che erano caduti proprio in quel luogo, sfidando la potenza di un esercito immenso come quello persiano. Nel suo cuore di ragazzo sentiva la commozione crescere, il respiro mancargli al pensiero che fosse esistito un re come quello di Sparta che aveva avuto il coraggio di sacrificarsi, senza mai arretrare dinanzi al nemico.
«Vorrei davvero sapere se ho lo stesso coraggio di Leònida.»
Seleuco, ch’era al suo fianco del Re, gli pose una mano sulla spalla e lo guardò sorridendo. «In verità, amico mio, tu sei l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto, assieme a tuo padre.»
Alessandro gli annuì grato, ma non rispose. Per un momento solo si sentì piccolo dinanzi alla grandezza di Leònida e desiderò la stessa gloria eterna che il re spartano si era conquistato.
Tuttavia lui non sarebbe morto in quel modo, non si sarebbe sacrificato, no. Alessandro avrebbe acquistato la gloria che bramava vendicando i Trecento di Sparta, sconfiggendo il nemico più feroce della Grecia: il Gran Re di Persia.
Dinanzi a quell’ara, Alessandro si sentì balzare il cuore nel petto, il suo orgoglio di greco lo investì e, nel mormorare una preghiera in lode ai caduti, Alessandro giurò che non si sarebbe fermato fino a quando il trono persiano non sarebbe stato suo.

«E ora cosa intendi fare?»
Demostene stringeva la lettera che lo informava dell’attraversamento delle Termopili da parte di Alessandro con un’espressione indefinibile. Si rigirò convulsamente quel foglio tra le mani, le labbra gli tremavano per la rabbia, la fronte era aggrottata e gli occhi erano ridotti a due fessure.
Eschine era di fronte al suo avversario e attendeva una risposta accanto a sé aveva Focione, generale e uomo politico famoso in Atene.
L’oratore fissò i due uomini, riconsegnò la lettera a Focione e cercò di apparire calmo.
«A quanto pare la notizia che Alessandro fosse morto nella terra dei Triballi era falsa.», si limitò a constatare, sistemandosi le pieghe della toga.
«Sul serio vuoi ancora aizzare gli Ateniesi e i Tebani contro la Macedonia?», chiese Focione incredulo.
«Dovrei forse preoccuparmi di quel ragazzo?», replicò Demostene senza celare il suo disprezzo. «È sceso in Tessaglia, e allora? Tebe resisterà e vincerà, soprattutto perché ad appoggiarla vi è Atene.»
«Forse non hai compreso con quanta rapidità Alessandro è giunto alle Termopili.», obiettò Focione. «Lo ripeto: è inutile inimicarsi la Macedonia. Dovremo stipulare un’alleanza anziché impegnarci in una guerra che ci sarà solo sfavorevole.»
Ma Demostene non voleva sentire ragioni. «La maggioranza dei cittadini è con me! Tebe si prepara a destituire il potere macedone dai nostri territori e Atene è con lei. Non intendo smuovermi dalla mia posizione. Prima Filippo il Barbaro e adesso questo ragazzino che pensa di poterci schiacciare? Si fa chiamare Achille.», fece un sorriso di scherno e un cenno della mano, come volesse scacciare una mosca fastidiosa. «Ebbene, io lo chiamo Margite: sciocco!»

Tebe capitolò.
La città venne presa, ma Alessandro era ancora adirato per l’affronto subito.
I morti furono più di sessantamila, i prigionieri circa tretamila. Alessandro volle che tutti i soldati catturati vivi venissero giustiziati e che le donne, i bambini e i vecchi, eccetto i sacerdoti, i filo-macedoni e i discendenti del poeta Pindaro, venissero venduti come schiavi.
Tebe venne rasa al suolo, fu spogliata di ogni sua ricchezza e abbandonata al fuoco dei Focesi e dei Platesi che, più dei Macedoni, si accanirono contro gli sconfitti, lavando nel sangue gli antichi livori.
Mai Alessandro aveva preso una simile decisione. Gli ordini che diede in quell’occasione furono i più spietati in assoluto. Nella caduta di Tebe Alessandro dimenticò la sua pietà, la sua generosità, la sua temperanza, abbandonandosi all’ira e al risentimento.
Il tradimento dei Tebani e degli Ateniesi gli pesava sull’animo e il Re ne era profondamente scosso.
«Voglio la testa di Demostene e di quanti ad Atene hanno appoggiato la rivolta!», urlò mentre ancora stringeva la spada sporca di sangue e si aggirava tra le macerie. Sudato, col voto sporco di polvere e coaguli rossi, i capelli appiccicati alla fronte, Alessandro contemplava la distruzione di Tebe e non ne provava rimorso.
Efestione osservava il Re e sentiva dentro una profonda angoscia. Conosceva abbastanza Alessandro per capire quanto stesse soffrendo, nonostante l’ira lo accecasse, per il fatto che i Greci gli si fossero rivoltati contro, come si fa contro un nemico crudele, contro un oppressore. Il risentimento di Alessandro derivava proprio dal fatto di essere stato considerato un barbaro, uno straniero. Così, lui si vendicava portando la guerra che i Greci avevano tanto desiderato ed acclamato, li mordeva con tutta la sua foga.
Efestione cercò di placarlo. «Alessandro, richiama gli uomini! Torniamo al campo, lì potremo riposare e prendere le giuste decisioni in merito a Tebe. Non affrettare gli ordini, per amor degli dèi!»
Alessandro lo guardò con gli occhi di un leone ferito. «I miei ordini sono gli stessi! Ma sia: Richiama i soldati: torniamo all’accampamento!»
Nella sua tenda Alessandro, aiutato dai servi, si lavò. Assieme alla polvere e al sangue, l’acqua portò via anche il furore che provava. Mentre indossava degli abiti puliti, Alessandro era tornato perfettamente calmo. Rimuginò su quanto aveva appena fatto, su ciò che aveva ordinato con tanta implacabile ferocia e rabbrividì, preda dell'angoscia e del rimorso. Si stava comportando proprio come un tiranno che, non amato o desiderato, annienta coloro che lo osteggiano: aveva appena dato credito alle accuse di Demostene. Aveva assistito a uno scempio di proporzioni enormi da parte dei Traci, dei Focesi e dei Platesi e non aveva fatto nulla per impedirlo, aveva messo a morte i sopravvissuti e reso schiavi la maggioranza della popolazione.
Per un attimo, Alessandro si vide davvero nelle vesti di tiranno e gemette. La sua ira lo aveva accecato, il delicato gioco di bilance del suo animo era stato destabilizzato. Si premette le mani contro il viso e desiderò piangere. Non poteva tornare indietro o avrebbe dato l’impressione di essere un debole indeciso, ma il tormento era insostenibile.
Tolomeo entrò nella tenda e Alessandro dovette ricacciare tutto quell'ombra nel profondo della sua anima.
«Perdonami, ma alcuni Traci chiedono di parlarti».
Alessandro acconsentì con un mero cenno del capo. Uscì dalla tenda e osservò il manipolo di soldati ancora perfettamente armati schierati davanti alla tenda.
«Re, abbiamo qui una prigioniera da sottoporre al tuo giudizio.», spiegò uno dei soldati, il più alto in grado.
«Dov’è il vostro comandate?», domandò anziutto Alessandro.
«Questa donna l’ha ucciso!»
Alessandro aggrottò le sopracciglia, incredulo. «Una donna?»
Due soldati diedero un rude strattone a delle catene che tenevano tra le mani, costringendo la slanciata figura imprigionata ad avanzare.
La donna, però, camminò piano e tenne la testa alta. Aveva gli occhi erano rossi per il molto pianto e le vesti lacere per la violenza subita dai soldati, eppure si mostrava calma, sicura di sé: da lei traspariva una dignità indicibile.
Alessandro fu impressionato dal contegno mostrato da quella tebana, una vera donna greca. Rimase senza parole e sentì i suoi sensi di colpa morderlo più forte. «Chi sei?»
«Timoclea, sorella di Teagene che combattè contro Filippo per la libertà dei Greci e che è caduto a Cheronea come generale.»
Il volto d’Alessandro si schiarì. Sentì una profonda e vera ammirazione per Timoclea e sciolse personalmente le catene che la tenevano prigioniera.
«Prendi i tuoi figli e sii libera. Chiedi ciò che vuoi e te lo darò. Sei saggia e coraggiosa e io ammiro il coraggio e la dignità, così come ammiro chi è capace di essere sincero quanto te. Se ti è stato fatto del male, punirò i colpevoli.»
I Traci rabbrividirono: Alessandro odiava che si alzassero le mani sugli indifesi e si violentassero le donne, infliggeva le peggiori punizioni per questi crimini tanto deplorevoli.
Quando Timoclea fu liberata, Alessandro decise di far condurre alla propria presenza tutti i prigionieri e cercò di riparare alle sue azioni più crudeli con altrettante magnanime.

Era notte fonda ed Alessandro era stanco e spossato. Sentiva su di sé il peso di molte vite gettate in pasto all’Ade e la sua natura generosa e giusta si ribellò.
S’allontanò dall’accampamento rumoroso e stracolmo e raggiunse le mura crollate di Tebe.
Alla luce della luna, il giovane macedone osservò quanto restava della città e cadde preda dello sconforto e del dolore più cupo. Tutte le ombre della sua anima si riversarono fuori e danzarono, orribili e crudeli, davanti ai suoi occhi.
Alessandro pianse, pianse come Achille sul corpo di Ettore.
Pianse straziato dal dolore per le vite stroncante sul campo di battaglia, pianse perché i greci si erano accaniti contro altri greci. Pianse per se stesso, perché la guerra lo stava rapidamente trasformando.
Pianse perché era dimentico dei pomeriggi assolati a Mieza, dei giochi con sua sorella Cleopatra nei giardini del palazzo reale a Pella. Pianse per suo padre, perché Filippo l’aveva lasciato troppo presto.
Alessandro si sentiva in bilico: da un lato, l’età dell’adolescenza si chiudeva e portava via con sé tutti i giorni spensierati, trascorsi a cavalcare nel sole del meriggio in sella a Bucefalo a rincorrere la libertà; dall’altro, s’aprivano per lui le porte di una nuova vita e un nuovo viaggio che non sapeva dove l’avrebbe condotto.
Alessandro si sentì fragile, nauseato dal sangue e dalla morte.
Si sentì solo un uomo.

***
 

_____________________________

Note dell'autrice

Nel testo ci sono alcuni riferimenti ad opere realmente esistenti:
 
i “No… vittoria”: il passo è tratto da un’orazione di Demostene.
ii Frammento dell’encomio di Simonide per i morti delle Termopili.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


CAPITOLO IV

Il racconto di Alessandro era appena terminato e, adesso, lui ed Efestione sedevano in silenzio, l’uno immerso in profonda meditazione, l’altro intento a cogliere le diverse emozioni che si alternavano sul volto del Re.
«Sai cosa mi disse una volta Aristotele?», Alessandro d'un tratto spezzò il greve silenzio.
Efestione rimase in ascolto, spostando lo sguardo sulla superficie di un bacile di rame lì accanto. Il suo riflesso e quello dell'amico erano appena distorti dal metallo lucente.
«“L’ira non sempre è la giusta risposta.” Aveva ragione, ma io mi sono abbandonato all’ira molto più spesso di quanto volessi.», proseguì Alessandro, colto da una fitta di malinconia al pensiero del filosofo di Stagira.
«Non fartene più una colpa. Ciò che accadde a Tebe non si ripeterà più. Ricordi? Lo hai giurato.», ribatté prontamente Efesione, dandogli una pacca sulla coscia.
Alessandro annuì gravemente. «Sì, l’ho giurato. Ma la guerra, Efestione, non potrà far altro che spingermi a spargere sangue. Forse la guerra non avrà mai fine, forse sarò destinato a combattere ogni giorno della mia vita, fino a quando non arriverò ai confini del mondo, e là, magari, avrò pace.»
«Non sarai contento fino a quando non avrai visto ciò che fa solo parte di vecchie leggende e avrai aggiunto l'Asia alla Macedonia e poi ancora oltre?»
Alessandro sorrise appena e si strinse nelle spalle, come a volersi giustificare scherzosamente: «Perchè no? Infondo, anche Dionisio attraversò gli immensi territori asiatici, portandosi dietro le sue Menadi e i suoi Satiri, la sua musica, le sue orge, i suoi misteri…»
Stavolta la sua voce parve diversa: era più bassa e profonda, musicale, aveva lo stesso ton di quuella di Olimpiade mentre era intenta ad officiare i misteriosi riti dionisiaci, nelle stanze più intime del palazzo reale a Pella, o nei santuari arborei nascosti tra i boschi della sua terra natia, l’Epiro.
«Anch’io voglio percorrere la stessa strada, anch’io voglio vedere il profondo Oriente, scoprire il punto in cui si trova l’unica fonte da cui si dipanano i fiumi più grandi del mondo: il Nilo, l’Indo, il Tigri e l’Eufrate. Anch’io voglio spingermi in quei mitici territori, assieme ai miei uomini.», concluse Alessandro con una nota misteriosa e appassionata nella voce, mentre i suoi occhi scintillavano. «Ma il primo passo per far questo è quello di mettere fine al domino di Dario.», concluse: era tornato il Condottiero pragmatico e determinato.
Stava per aggiungere altro, qualcosa sui piani di guerra, quando sentì le voci dei suoi generali all'esterno che chiedevano alla guardia di picchetto di lasciarli passare. Il lembo di stoffa si sollevò e tutti i suoi amici sfilarono all'interno, vestiti di tutto punto per la battaglia.
Parmenione, anche se piuttosto vecchio, era armato di tutto punto, teneva ancora la spada ai fianchi e reggeva l’elmo sotto al braccio; fu lui a prendere la parola.
«Sire, abbiamo visto splendere nella notte migliaia e migliaia di fuochi, lì, nella piana tra il Ninfate e i monti di Gordio. E voci, innumerevoli voci, di centinaia di uomini; voci indistinte, ma pur sempre in numero incredibile. Rumori, rumori come quelli delle onde del mare sugli scogli. Sembra proprio che un mare di guerrieri si estende dinanzi a noi, in numero tale quanti non ne abbiamo mai visti, né al Granico, né a Isso.» Parmenione non aveva certo paura: un veterano come lui aveva imparato a domare da tempo un sentimento come quello; piuttosto, era incredibilmente preoccupato.
Alessandro ascoltò attentamente e, nel frattempo, leggeva lo stesso sentimento di ansia sul volto di tutti i suoi amici e volle tranquillizzarli. «So bene che il nemico ci è superiore per numero. Però, io confido nel valore dei miei uomini: nessuno potrà fermarci.»
«Alessandro, ragazzo, quella che chiedi ai tuoi soldati è un’impresa immane.», brontolò Parmenione. «Non potremo sperare di vincere contro un esercito del genere in pieno giorno. Forse l’unica soluzione che ci resta, se vogliamo limitare i danni e salvare la vita dei nostri soldati, è quella di attaccare ora, col favore delle tenebre: un’azione a sorpresa. Non potranno resistere! Non avranno il tempo per rendersi conto di quello che succede, né di organizzarsi: potremmo riportare una vittoria in tempi relativamente brevi.»
Alessandro serrò con forza le mani attorno ai braccioli del suo seggio, le nocche sbiancarono. Il re s’alzo con relativa calma e propose una risposta estremamente pacata e risoluta accompagnata da un sorriso enigmatico: «Io non rubo la vittoria.»
Quella frase sembrò riecheggiare più e più volte nelle orecchie dei suoi amici e, probabilmente, sarebbe rimasta scolpita nelle loro menti per sempre.
Parmenione restò a bocca aperta. «Tu scherzi, sire. Metti a repentaglio la vita del tuo intero esercito. Perché vuoi mandarlo al massacro?»
«Perché tu non vuoi credere nella nostra vittoria?», replicò allora Alessandro con uno slancio inaspettato, ma privo di risentimento. «Io ti stimo, Parmenione.», gli disse con sincerità e poi la sua voce assunse una nuova intensità, come se i pensieri si agitassero turbinosi nella sua mente e le parole non riuscissero a tenerne il passo. «Ma non pretendere da me azioni che vadano contro la mia stessa natura. Giurai a me stesso che avrei affrontato Dario faccia a faccia, in campo aperto, senza sotterfugi. Se attacco adesso, allora fornirei a Dario una nuova scusa per continuare a battersi, farei in modo che lui creda di aver perso solo perché è notte, come ha fatto a Isso, quando ha incolpato i monti e il mare per essersi dovuto ritirare. Io, invece, voglio che la sua sia una disfatta totale e definitiva. Voglio affrontarlo in duello e vincerlo sotto gli occhi dei suoi uomini. Voglio che comprenda che il suo regno è finito per mano mia. Niente mi impedirà di vincere come voglio. Nessuno deve frapporsi tra me e il mio obbiettivo, nemmeno la notte! Comprendi, Parmenione? »

Alessandro rimase solo. Seduto sul suo seggio rifletteva e, di tanto in tanto, tracciava con la punta della spada dei segni sul terreno: rivedeva le strategie di guerra e le posizioni che aveva assegnato ai reparti dell’esercito. Voleva che tutto fosse perfetto, che nulla sfuggisse alla sua attenzione e minacciasse la sua vittoria.
La notte fuori dalla sua tende invecchiava e infine Alessandro si sdraiò sul suo letto: ora che tutto gli era perfettamente chiaro, aveva intenzione di riposare, finalmente. Mancava poco all’alba e lui voleva giusto dormire per qualche ora, prima di vestirsi per la battaglia. Si accertò che sotto al suo cuscino ci fosse la sua Iliade e il pugnale macedone, e posò la testa sul guanciale.
Fissò un punto indistinto della tenda, la sua mente si svuotò gradatamente e ad Alessandro parve di essere più leggero, quasi di fluttuare.
Una mano delicata si immerse nei suoi biondi capelli, carezzandoglieli dolcemente, con tenero affetto.
Alessandro, le palpebre socchiuse, si rilassò completamente e gli parve d’essere tornato bambino e che Olimpiade lo tenesse stretto tra le sue braccia e lo cullasse piano.
Riposi, infine, Alessandro?”
Malgrado stesse scivolando nel sonno, comprese perfettamene le parole sussurrate al suo orecchio da una voce divenuta ormai familiare.
“Cosa vuoi da me?”, pensò con la mente obnubilata.
Mnemosine, china su di lui, sorrise appena, un sorriso enigmatico di Dea.“Voglio sapere cosa hai compreso fino ad ora ripercorrendo tutti quei ricordi, voglio capire se sei davvero pronto per ciò che ti attende. Perché sei così certo di ottenere la vittoria?”
Alessandro si abbandonò alla dolce sensazione che lo invadeva: andava alla deriva, il sonno gli baciava le palpebre.
“Io so già che vincerò. Domani non dovrò far altro che mostrarlo agli altri. Ciò che ho compreso è che io sono il Molteplice e l’Uno assieme, sono il Figlio di Zeus-Amon, sono il Re dei Macedoni, sono il Faraone d’Egitto, sono il Condottiero dell’Ellade. Ma sono sopratutto un uomo, un uomo che prova dolore, rabbia, odio, stanchezza, ma anche amore, affetto, felicità vera. Un uomo che ha grandi ambizioni, che desidera appagare la propria sete di conoscenza e di conquista, che vuole andare incontro al suo Destino, afferrarlo e forgiarlo a proprio piacimento. Sono un uomo che ha accettato e capito che una parte di sé è divina esattamente come tutti gli altri uomini animati da una profonda passione. Io non sono un secondo Achille, malgrado Achille sia per me fonte di ispirazione. Non sono semplicemente il successore di Filippo. Non sono solo un Re, né solo un guerriero, né solo un sapiente, né solo un servitore degli Dèi. Io sono Alessandro. Innanzitutto, Alessandro.”
Sei pronto.” , gli sussurrò Mnemosine e gli accarezzò ancora i capelli con una dolcezza squisita. “Hai trovato la risposta a una delle tue domande più importanti. Ricordi quando a Mieza, prima di scivolare nel sonno, ti chiedevi chi fossi in realtà? Adesso conosci la risposta.”
Alessandro rimase comodamente disteso, il braccio piegato sulla fronte e un sorriso appena accennato sulle labbra. “Il sonno…” , si disse mentre cercava di tenere il filo dei propri pensieri così incalzanti.“Temevo il sonno, da bambino. Avevo paura che qualcosa, nella mia mente, si muovesse e che mi avviluppasse completamente e che, il giorno dopo, mi sarei svegliato diverso, cosciente di non essere più me stesso. Temevo che il vuoto che avvertivo dentro mi catturasse.”
Mnemosine posò un bacio sulle labbra del giovane Re. “Avevi paura di te stesso. Temevi una parte di te che non conoscevi, poiché laddove splende una possente luce, più fonda è l'oscurità che ne deriva. Non dimenticare una cosa importante, Alessandro!”
“Cosa?”
Ricorda che gli uomini, nonostante la loro grandezza, rischiano costantemente di cadere preda degli eccessi: anche tu, Re dei Macedoni, devi tenerlo a mente, poiché ti basterebbe poco per trasformare tutto ciò che hai conquistato e che conquisterai in polvere. Ti occorrerebbe un nulla per spezzare ogni legame d’amicizia e affetto ed essere preda dell’egoismo e dell’odio. Basterebbe un nulla perché il mondo che tu hai creato si infranga come un vaso di terracotta. Non farti abbagliare dal miraggio di essere indenne dalle pene e dalle sofferenze umane, nonostante tutto. Guardati innanzitutto da te stesso.”, lo ammonì Mnemosine e sembrò che stesse profetizzando il suo futuro.
Alessandro non rispose a quelle parole, demoni e dèi si agitavano ancora nella sua anima.
“Dormi, amato dagli dèi. Hypnos sia benevolo con te e ti offra il ristoro che ti occorre..”, gli augurò la Dea e si pose sul capo il velo bianco, divenendo una presenza sempre più intangibile, fino a che sparì del tutto.
Quella notte Alessandro era stato visitato da una Dea e dai suoi ricordi, dai più gloriosi ai più tenebrosi, ma dormì profondamente e serenamente per la prima volta dopo molto tempo.
Sognò di essere tornato a Pella e che le stanze del palazzo risuonassero delle note d’arpa suonata da sua sorella Cleopatra. Uscendo dalle sue stanze gli parve di scorgere Olimpiade avvolta dalle spire del fumo dell’incenso bruciato dinanzi a un simulacro di Dioniso. Alessandro vide Filippo nella sala del trono intento a discutere coi suoi generali e bere del vino greco da una coppa d’argento.
Sognò di attraversare i cortili del palazzo e di giungere nelle scuderie, quindi di condurre fuori Bucefalo e di saltargli in groppa, lanciandolo infine al galoppo nel sole del meriggio. Gli parve di avvertire il vento tra i capelli e sul viso, e un senso di libertà assoluta invaderlo. Alessandro spronava Bucefalo a correre sempre più veloce, ancora più veloce, fin quasi a spiccare il volo…

All'alba le trombe suonarono la sveglia per l’intero accampamento.
Alessandro, che di solito era il primo a svegliarsi, ancora non si faceva vedere.
I Compagni del Re, allora, decisero di dare ordine ai comandanti di reparto di passare in rassegna gli uomini e di distribuire una colazione frugale che i soldati mangiarono in piedi e armati e muti, tesi.
Parmenione gettò un’occhiata tutt’attorno: l’intero accampamento era in gran fermento e gli uomini avevano bisogno di vedere il loro Re, della loro guida, del loro Condottiero.
«Vado a chiamare il Re.», decise.
Quando lo vide dormire così beatamente, però, Parmenione non ebbe cuore di svegliarlo immediatamente. Parmenione, i modi di un padre affettuoso, chiamò il Re per ben due volte.
Alla terza, Alessandro aprì gli occhi lentamente, riconobbe la voce che lo chiamava con urgenza e si sollevò, scrutando il generale quasi incuriosito dalla sua presenza. «Parmenione? Che ci fai qui?», chiese con voce impastata.
Parmenione tradì una certa sorpresa: possibile che Alessandro non si rendesse conto di quello che li aspettava? Non sembrava lui: era troppo tranquillo, quasi incurante della battaglia che avrebbe dovuto combattere. «Cosa ci faccio qui?! Ragazzo, hai forse dimenticato cosa ci aspetta oggi? Che gli dèi mi stra fulminino! Dormi come se avessi già vinto, come se la Persia fosse già interamente tua! In più, resti comodamente a letto mentre il tuo esercito è pronto da un pezzo e ti aspetta. Non sembri nemmeno Alessandro: dove l'hai nascosto?»
Alessandro sogghignò e si passò una mano tra i capelli biondi, rilassato. «Sono così tranquillo perché… beh, non ti pare che è come se avessimo già vinto? Sì, è così. Ora non siamo più costretti ad inseguire Dario in una terra sconfinata e desolata: questo è il primo passo verso la vittoria. Riferisci pure la nostra conversazione agli altri, di’ loro di tenersi pronti assieme ai soldati: io arriverò tra poco e passerò in rassegna l’esercito.»

Bucefalo nitrì e sbuffò non appena Alessandro gli salì in groppa: il cavallo fremeva e sembrava ansioso di lanciarsi in battaglia.
Alessandro gli diede un buffetto sul collo poderoso e gli sussurrò all’orecchio: «Oggi tu ed io saremo più veloci di Ermes in persona: mi condurrai dinanzi Dario e alla vittoria, amico mio!»
Il sole splendeva sull’immensa piana di Gaugamela. Un vento secco sollevava ondate di polvere finissima e fastidiosa che si attaccava alla gola di chi la respirava. In lontananza si poteva scorgere l’immenso esercito agli ordini di Dario III schierato in perfetto ordine: per i Macedoni e gli alleati Greci fu come ritrovarsi dinanzi a un mare abbagliante di uomini e armi, forti del fatto di trovarsi in un luogo favorevole.
Tuttavia, quando l’esercito macedone vide avanzare Alessandro sentì rinascere la speranza e la volontà di combattere.
Alessandro rifulgeva nella sua armatura: una sottoveste di Sicilia legata alla vita e una corazza doppia di lino presa ad Isso fatta di placche di ferro leggero e lucente come l’argento; sul capo portava un elmo dello stesso metallo a forma di testa di leone con le fauci spalancate e ornato da pennacchi rossi e bianchi; al fianco teneva la spada e nella mano destra una lunga lancia. Infine, dalle sue spalle scendeva un manto di tessuto rosso intrecciato con fili d’oro, dono della città di Rodi.
Alessandro, così vestito, sembrava, allo stesso tempo, Ercole e Achille, e la sua vista fece rifluire in ogni soldato una forza indicibile.
In groppa al suo instancabile Bucefalo, il Re sfilò davanti ai suoi uomini. Li guardò prima senza dir nulla, poi si tolse l’elmo e prese a parlare nel silenzio immobile e pesante della piana di Gaugamela con voce appassionata, con un tono tale che Demostene ne sarebbe stato invidioso.
«Uomini! Macedoni! Alleati Tessali e Greci!», e i soldati fecero sentire la loro voce in un urlo selvaggio e nel cozzare delle lance contro gli scudi. «Dinanzi a noi si estende l’intera potenza persiana. Dario si è finalmente degnato di scendere in battaglia e crede di poter aver ragione di noi. Ma Dario dimentica che per due volte è stato già sconfitto: al Granico e ad Isso. E siamo stati noi a batterlo! Ognuno di voi, miei uomini, vale più di dieci Persiani. Nessuno ha coraggio e forza quanti ne avete voi. Voi siete un esercito imbattuto: dimostrare di essere invincibili anche oggi, dimostratelo a Dario e ai suoi mercenari!Quegli uomini non hanno né famiglia a cui tornare, né patria da difendere, non hanno nulla all’infuori della loro vita, combattono spinti solo dal desiderio di guadagno e di sopravvivenza. Voi, invece, siete uomini che combattono per una giusta causa! Ricordate i vostri padri, le madri, le mogli e i figli che vi aspettano. Ricordatevi della vostra patria che vi attende per tributarvi grandi onori. Ricordatevi del solenne giuramento che faceste quando iniziammo il nostro viaggio!», Alessandro fece una pausa e, con furore, cercò gli occhi dei suoi soldati «Noi siamo i vendicatori di Maratona e delle Termopili, noi siamo i liberatori dell’Oriente dal gioco persiano, oggi anche Filippo II di Macedonia verrà vendicato, poiché fu il Gran Re a volerlo morto! Noi siamo i conquistatori di questa terra, noi le daremo un nuovo ordine e leggi giuste. Troppo a lungo la Persia ha creduto di potersi beffare di noi, troppo a lungo Dario ci è sfuggito. Oggi invece assaporerà la sconfitta per la terza ed ultima volta, e sarete voi che gliela infliggerete!», allora Alessandro sollevò la lancia con la mano destra in un cenno di incoraggiamento. «Non abbiate paura! Perché chi ha paura è destinato alla sconfitta e alla morte. La morte non deve essere temuta, non se si vive con coraggio e onore. Volete essere ricordati, uomini? Volete che su ogni bocca corra il vostro nome?»
I soldati, in tutta risposta, lanciarono il loro grido di battaglia e batterono le lance e le spade contro gli scudi ancora più forte.
Alessandro sorrise, fece voltare Bucefalo in modo da poter contemplare l’esercito persiano e lo indicò con la punta della lancia. «Allora, quello è il vostro nemico, il vostro bersaglio! Combattete come non avete mai fatto, combattete e vincete! Che gli Dèi ci guidino! Che Zeus, se veramente sono suo figlio, conduca tutti noi alla vittoria!»
«Non dubitare di questo, mio signore», interloquì ad un tratto Aristandro, indicando al Re la sagoma scura e netta di un grande rapace che volava in cerchi concentrici sul campo di battaglia e che poi si diresse verso i Persiani velocemente, come se stesse per piombare su una preda «L'aquila di Zeus cavalca i venti: Egli è con te.»
Alessandro ammirò l’aquila e, nel barbaglio del sole, gli parve che gli occhi, il becco e le zampe del volatile brillassero come fossero fatti di metallo; ascoltò il richiamo penetrate dell'aquila e gli sembrò di spiccare a propria volta il volo.

Nel tremendo fragore della battaglia, la polvere si alzava a grandi ondate, sudore e sangue si mescolavano sui corpi degli uomini sfiniti.
Alessandro spronava Bucefalo al galoppo, puntando il carro su cui Dario assisteva alla battaglia.
Alessandro si faceva strada tra i nemici a colpi di spada, sembrava che le Erinni lo accompagnassero tanta era la velocità e la foga con cui avanzava.
Dario, circondato dalla sua guardia personale, lo fissava in apparenza senza alcuna preoccupazione. Il sovrano Persiano era sicuro che il Condottiero Macedone non sarebbe arrivato dinanzi a lui e sarebbe stato fermato prima.
Dovette ben presto ricredersi: Alessandro mulinava la spada mietendo vittime ad ogni passo del suo cavallo e, a folle velocità, si dirigeva verso il cuore dell’esercito persiano, verso il suo nemico.
Dario sgranò gli occhi per la sorpresa, tradendo l’agitazione e l’angoscia: in quel momento ebbe paura.
Vedeva cadere i suoi uomini sotto la foga irresistibile di Alessandro e sentì il cuore accelerare: quell'uomo lo avrebbe ucciso.
Quando Alessandro fu a pochi passi dal carro di Dario frenò improvvisamente la corsa del suo destriero e Bucefalo si impennò e nitrì.
Molti soldati ne furono spaventati e fuggirono, lasciando sguarnita la difesa del Gran Re.
«Dario!», urlò Alessandro con tutto il fiato che aveva in gola.
Lì, nella piana di Gaugamela come ad Isso, gli occhi di Alessandro incontrarono quelli di Dario.
Negli occhi di Alessandro ardeva una forza inimmaginabile, una volontà ferrea e Dario s’accorse ben presto che Alessandro non si sarebbe fermato. Capì che non avrebbe potuto sostenere uno scontro contro il Re di Macedonia e sperare di uscirne vivo. Il Re di Persia si guardò intorno in cerca di un’ultima difesa, ma la sua guardia era caduta, tutto attorno a lui era morte e disfatta.
Dario sentì la paura soverchiarlo. Balzò giù dal carro reale, lasciò le sue armi, il manto e le insegne; volse le spalle al suo avversario. Afferrò le briglie di una cavalla, le saltò in groppa e si diede alla fuga. Scappò senza guardarsi indietro, colto dal terrore, dalla consapevolezza di aver perso quella battaglia e, forse, anche il proprio regno.
Alessandro si ritrovò ad assistette alla fuga del Gran Re e fu preso da un’ira profonda. «Codardo! Torna indietro! Lasci i tuoi uomini a morire e scappi come una donnicciola?!»
Stava per lanciarsi all’inseguimento del Persiano quando fu raggiunto da alcuni messi inviati da Parmenione, chiedendo rinforzi.
Alessandro apparve incerto: poteva ancora vedere Dario mentre si allontanava e poteva ancora raggiungerlo. Eppure, se lo avesse fatto, avrebbe abbandonato i suoi amici e li avrebbe destinati a morte certa. Non poteva permetterlo. «Di’ a Parmenione che sto arrivando!»

Al termine di quella grandiosa e sanguinosa battaglia, la Persia fu messa in ginocchio.
Il millenario nemico della Grecia si era dissolto, l’avversario più spietato di Alessandro era stato vinto.
L’esercito macedone e gli alleati Greci e Tessali si erano dimostrati invincibili ancora una volta e adesso la fatica, il sangue, il dolore, tutto spariva nella gioia della vittoria insperata.
Sembrava che veramente gli Dèi avessero voluto concedere ad Alessandro tutto ciò che egli desiderava e i soldati si sentivano a loro volta invincibili.
Dopo la vittoria di Gaugamela, dinanzi ad Alessandro le porte di Babilonia si spalancarono.

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