Ricominciamo da qui - Storia sulle seconde occasioni

di Kiyomi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Su svolte e routine quasi normali ***
Capitolo 3: *** Wile Coyote è testardo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ricominciamo da qui

Storia sulle seconde occasioni








Prologo


Hayato non ha mai creduto alle seconde occasioni, le ritiene solo un modo per sentirsi un po’ meno perdenti. Ti è andata male? Bene, fattene una ragione, non ti sei sforzato abbastanza. Probabilmente non si tratta neanche di rassegnazione, la sua è solo una visione più cinica e crudele di quel mondo che effettivamente circonda tutti noi, e che qualcuno scambia ancora per la luna. No, per Hayato la luna è lontana, forse anche più distante di quel cielo di cui, in fin dei conti, ha sempre avuto un po’ di paura. Ogni volta che prova anche solo a pensarci gli sfugge dalla mente, e da quelle dita che in realtà non l’hanno mai neanche toccato. È troppo immenso – infinito – per essere contenuto in una mano, e questo non gli piace. Tutto deve avere un inizio e una fine, essere misurabile e non eccedere mai. Come le occasioni. È inutile elargire possibilità su possibilità a persone che non le sfrutterebbero mai. Se hai sbagliato una volta sei destinato a rifarlo fino alla fine, o almeno fino a quando non ti sarai accorto di aver irrimediabilmente corroso te stesso e tutti coloro che ti appoggiavano. E magari anche a quel punto continuerai. Forse però tutti questi bei ragionamenti sono solo scuse, lenti per filtrare – o nascondere, a discrezione di chi guarda – una realtà che a lui, una seconda occasione, non gliel’ha mai concessa. Non che ora si strugga per questo, non sia mai: ha imparato già da molto com’è che gira il mondo,  e cerca solo di tenere il passo, per non essere lasciato indietro. Ha imparato anche quali siano le cose da evitare per non essere rallentato, emozioni per lo più, e quasi tutte ad essere sinceri.

In alcuni momenti però gli sembra tutto troppo lontano, e capisce – solo per qualche secondo, qualche attimo che fugge alla svelta – quanto tutto ciò sia inderogabilmente assurdo. Gli viene l’impulso di fermarsi e mandare a farsi fottere quella vita che continua a correre senza aspettarlo, lasciando affannato e annaspante. Ma poi tutto passa e lui si ritrova sempre nel bel mezzo di quel mondo che lo vuole attento e scattante, proiettandolo in una corsa di cui non vede il traguardo.

Sono poche le circostanze in cui riesce – anche se per poco – realmente a fermarsi, e sono proprio quelle circostanze in cui si lascia trasportare (che gran parolone, forse sarebbe meglio dire accompagnare) dalle emozioni. Strano poi che ciò generalmente avvenga solo con la presenza di una precisa persona. Probabilmente è proprio quel sorriso senza tempo, appartenente a un mondo ancora più distante del cielo, forse alla luna, a fargli riprendere fiato. E quando lo guarda, quando tutto si ferma, può credere ancora alle seconde occasioni.















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Prima di cominciare do un breve avvertimento. Questo è il prologo di una storia che potrebbe piacermi molto e alla quale potrei affezionarmi, ma non assicuro di poterla finire, e anche se così fosse ci metterei un bel po'. Non mi frintendete, ho tutte le buone intenzioni e prometto e ce la metterò tutta, ma non voglio illudere nessuno, e per questo mi scuso con  Hibari Kyoite.

Passando al prologo: lo so, è corto, lo so, non dice praticamente nulla, e lo so, fa abbastanza - scusate per il termine - ammosciare le palle, ma l'idea mi è venuta oggi, e, avendo paura di lasciarla fuggire, l'ho buttata su carta, o meglio, su computer (Cristo santo sono veramente triste). Comunque penso che avrete capito il filo conduttore, e anche se non ho una trama delineata, mi sono venute parecchie idee. Avverto che non sarà una storia con colpi di scena e capitoli eccitanti, prevedevo di fare una cosa semplice, ma spero buona e pulita. Sì, magari...

Chiedo anche scusa per non aver risposto alle recenzioni di "Sguardi dal mondo". Ma ora vi saluto.

Un bacio, Kiyomi.

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Capitolo 2
*** Su svolte e routine quasi normali ***


Capitolo uno

Su svolte e routine quasi normali

 

C’è una teoria molto diffusa che sostiene che ogni azione del nostro presente sia condizionata dai gesti passati. Se non studi finisci a pulire i cessi di qualche autogrill, se cedi alle tentazioni diventi un tossicodipendente, se non ti sforzi abbastanza per quello che ami ti ritrovi a quarant’anni con un’imminente crisi di mezza età, e forse anche solo. L’influenza maggiore la ha però sulle scelte.  Non esiste decisione presa dall’uomo che non comporti prima un’approfondita analisi del proprio vissuto. Siamo talmente ancorati al nostro passato da sembrare prigionieri condannati ai lavori forzati, legati con grevi catene ad un carico che non si vuole staccare.

La cosa più assurda poi, è che varia il suo peso in misura della nostra opinione. Ci hanno concesso la libertà, eppure non sappiamo ancora sfruttarla.

Ogni esperienza, ogni ricordo, costituisce un’inderogabile parte di noi, come mattoni di un palazzo o di un grattacielo che continuerà a crescere, finché la morte non vi porrà sopra il suo tetto. Ripensare continuamente ai vecchi mattoni, quelli ancora alla base, frenerebbe la costruzione e il nostro vivere nel presente. Ogni mattone è a sé stante, unito con gli altri attraverso cemento. Cosa succederebbe però se le fondamenta fossero state distrutte?

*

«Torno in Italia» dice Bianchi dietro un’espressione assente, forse anche troppo per una frase del genere. Hayato non può far altro che fissarla negli occhi, o meglio, nelle lenti scure che – sia ringraziato il cielo – ha ricordato di indossare, con un turbamento sul volto che cela un qualcosa d’indefinito. Gli piacerebbe capire cosa sia, ma non c’è tempo, non ora. Quando la sorella riapre la bocca e pronuncia, tutto d’un fiato, l’ultimatum A casa, sente quel qualcosa farsi più forte. Vede nascere mille domande, tra cui molti perché, e qualcun’altra che non esplicita neanche a se stesso; eppure, l’unica cosa che riesce a chiederle davvero, è solo quanto resterà fuori.

«Un paio di settimane, giusto il tempo per salutare i parenti e gli amici» risponde lei, poi riapre le labbra, come per continuare, ma le parole le muoiono in gola. Hayato le sente quelle parole, ancor prima che nascano, e gli verrebbe quasi da ridere se non fosse per la riconoscenza che riserva al tatto di Bianchi. Difficile a dirsi, ma in fondo lei lo ha sempre capito. Ricorda ogni virgola del discorso fattogli durante la permanenza nel futuro, carico di sfumature amorevoli e insieme critiche che avevano continuato a turbarlo anche a giorni di distanza. Peccato che ora non riesca ancora a guardarla negli occhi, o a tornare a casa per riparlare con un padre che non rivede da anni, ma che resta comunque un padre. Tornare in buoni rapporti col proprio passato non è così facile come aveva previsto. A volte, durante quei giorni uggiosi e malinconici, torna persino a pensarci, al suo passato, eppure non lo vede. Sembra una di quelle vecchie fotografie scolorite in cui non distingui più i volti, o un graffito su un muro corroso dal tempo. Ha dimenticato la voce della cameriera, i giochi nei parchi e l’aspetto degli amici d’infanzia, ma una cosa la ricorda ancora, come quella parte della fotografia – la più importante – ancora ben distinguibile. È la musica, e quelle dita eleganti che la suonavano con una tale maestria da affascinare chiunque. No, quelle sinfonie sono ancora ben impresse nel ricordo di un passato che ha cancellato, rimosso dalla sua vita, ma a cui è ancora inesorabilmente legato. Perché c’è, fisso in qualche vicolo della sua testa. C’è come tutti gli scheletri nell’armadio, come i demoni che non ha esorcizzato, come quel pianoforte inutilizzato nel soggiorno. Ed è inutile vaneggiare o tentare di dimenticare, perché riemergerà. Questo Hayato lo sa bene.

La voce di Bianchi lo riscuote dai suoi pensieri. Non ha capito bene cosa abbia detto, forse che partirà tra una settimana, ma non ne è del tutto sicuro. È sicuro solamente del punto che raggiungerà quella conversazione. Vede infatti la sorella avvicinarsi e infilargli un biglietto nella tasca lacerata dei jeans.

«Pensaci.» dice solo prima di uscire. Dovrebbe tornare indietro anche lui, lo sa bene, è un po’ troppo che è in quella stanza e gli altri potrebbero preoccuparsene. Ma a dirla tutta ora non gliene frega un cazzo degli altri, neanche del Decimo. A volte c’è bisogno di alcuni fottuti momenti per sé, giusto per estraniarsi dal mondo e da tutte le preoccupazioni che durante il giorno arrovellano lo stomaco e il cervello. Momenti in cui la mente si libera da tutto e tu non desideri altro che rimanere così, in quello stato vicino alla veglia, lontano da ogni cosa e da ogni persona. Peccato che poi ci sia sempre qualcosa pronto a interromperli, e quel qualcosa, nel suo caso, ha il suono di pugni leggeri battuti sul legno, che non lasciano neanche il tempo a un risposta prima spalancare la porta. Quel qualcosa ha il nome di Yamamoto Takeshi, e Dio solo sa quanto Hayato odi le interruzioni.

«Oi, Gokudera! Che fine hai fatto? Ti stavamo cercando».

Gokudera si riscuote dai suoi pensieri abbozzando un’espressione irritata. È quel dannato buon umore a farlo andare ogni volta fuori di testa.

«Non mi sento bene, e comunque sto andando. Saluta il Decimo da parte mia»

Yamamoto da dietro lo osserva titubante, e lui vuole sbrigarsi ad uscire per non dirgli la possibilità di pronunciare le parole che ha ormai sono in bocca, pronte a venir fuori.

«Allora vengo anch’io. Il mio vecchio oggi ha chiuso presto il ristorante»

Ma non è mai stato forte nella velocità.

 

È per questo che ora si trova fuori casa Sawada, su una delle tante strade tutte uguali, accompagnato l’ultima persona che, in momenti come questi, vorrebbe anche solo vedere da lontano. Camminano e camminano in silenzio, quasi timorosi che la loro voce possa stravolgere quella precaria tranquillità. Camminano senza guardarsi, conviti che la notte estenda il velo scuro sui loro occhi. Camminano insieme, come estranei, sconosciuti persino a loro stessi. E in questo percorso fatto di silenzi e sguardi persi  non possono far altro che pensare a quell’assurda situazione. Poi accade una cosa  strana, accade che a un certo punto Yamamoto si blocca, così, in mezzo alla strada, senza preavviso, e guarda a terra prima di parlare.

«Senti Gokudera, se hai detto che non ti senti bene puoi venire a dormire a casa mia.»

Anche Gokudera si ferma, a pochi passi da lui. «E perché dovrei dormire a casa tua?» chiede di rimando.

«Dicono che dormire insieme faccia bene»

«Scemo, quello è per i bambini» e quasi non scoppia a ridere dicendolo.

Poi però ci ripensa, si ripete mentalmente quelle parole, e stranamente riesce a trovarne un senso. Riflette su ciò che è lui, su ciò che è il mondo, e su come in fondo siano simili sotto il cielo dell’universo. Due minuscole formiche che hanno tanto da imparare, e tanto ancora da dover scrivere. L’unica differenza è che la Terra ha qualche anno in più, mentre lui, in fondo, è un bambino. Non dice più nulla, ma si gira e continua a camminare, sentendo solo in lontananza l’eco di parole regalate al vento. Quando però, invece di girare per casa sua, continua dritto, il sussulto lo avverte bene, come avverte il sorriso che è nato nel volto dell’altro seguendo un’espressione un po’ turbata. Gokudera non lo guarda, non gli darebbe mai questa soddisfazione, ma continua a andare avanti fino a casa dell’amico, senza mai spostare gli occhi da un orizzonte coperto dalle ombre dei palazzi. Quando si trova sulla porta lo lascia andare avanti, per poi ripetere quei gesti che ha già fatto mille di volte. Due passi prima di togliersi le scarpe, altri cinque per arrivare alla scala, quindici scalini, ancora undici passi, la porta che si chiude ed è nella stanza dell’idiota. Non sa da quando questo sia diventato una routine, né come, semplicemente non riesce a dirgli no. Si è rammollito, e c’è qualcosa di estremamente sbagliato in tutto ciò: percepisce qualcosa, ma ha deciso di non scavalcare la sua siepe questa volta. Ha deciso di non rischiare. Chissà se anche Yamamoto se ne è accorto, che c’è qualcosa che non va, ma questo lui non lo capirà mai, è sempre imperturbabile, anche quando posa la brandina accanto al letto creando un talamo a due piazze, quasi matrimoniale. Anche quando si prepara per una notte insieme e si spoglia di fronte a lui, come se non ci fosse nulla di strano in quelle situazioni. Forse è la routine a spegnere ogni scintilla di malizia, a rendere le cose più noiose, ma Gokudera non riesce a trovare tutto questo poco ambiguo. Sarà colpa sua, e della suo cervello depravato. Vorrebbe dirglielo, Ehi, cretino, abbi almeno la decenza di cambiarti in bagno, ma sarebbe fiato sprecato, fiato sprecato e tempo perso. Il pudore lo mantiene lui per entrambi, chissà poi se con il buon esempio riuscirà ad insegnargli qualcosa, come l’utilità del bagno.

Qualche minuto dopo che sono entrambi pronti – che poi per cosa devi essere pronto quando dormi? – Yamamoto fa una domanda, probabilmente riguardo ai letti, ma Gokudera non gli da neanche ascolto. Si sdraia e si ricopre sperando che le coperte nascondano ogni fibra del suo corpo. E sta bene così, lontano dagli occhi e da ogni possibile luce. Alla luce della luna non ci ha mai dato troppo conto.

«Sei sicuro di non voler venire qui? Guarda che è più largo.»

Si gira appena. «Qui dove?»

«Sul letto.»

«Sono attaccati, non cambierebbe niente.»

C’è una pausa in cui nessuna parla, e quasi potrebbero sentire il rumore delle stoviglie al pian terreno, i passi della gente che ancora cammina per la strada, la finestra che si chiude nella casa al lato opposto. E rimangono aggrappati, per infimi secondi, a quei rumori della notte a cui nessuno da mai ascolto, e che sono lì, in quel momento, solo per loro.

«Fai come vuoi». E nessuno parla più.

Poco a poco, in un atto molto lento, per far abituare tutti, spariscono anche quei suoni inascoltati che per un momento gli sono appartenuti, e Yamamoto e Gokudera rimangono soli, insieme.

Ricorda bene la prima volta in cui è andato a dormire in quella casa, Gokudera, e come mai potrebbe dimenticarla? Si sa che le cose belle non si scordano, e quelle spiacevoli ancor meno, specie se si tratta di dolori intestinali. Poi c’era stata la scomparsa di quella stupida mucca, e la menzogna che, in comune accordo con l’idiota, aveva dovuto dire al Decimo. E da lì è diventato quasi normale per entrambi. Ti va di rimanere a dormire? Tanto già ci sei. Oggi festeggiamo al ristorante, rimani anche la notte. Mi sono dimenticato le chiavi e non voglio svegliare il vecchio, posso dormire qui da te? Ma quasi, perché per il Guardiano della Tempesta, dormire tante volta con un’altra persona non è cosa comune, specie poi se quella persona la si detesta. Specie se durante la notte si finisce uno accanto all’altro, spalla contro spalla, e ci si sveglia come se non fosse stato niente.

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Capitolo 3
*** Wile Coyote è testardo ***


Capitolo due

Wile Coyote è testardo

 

Glielo ha detto sempre il vecchio, non impicciarti che vivi meglio. Glielo ha detto sempre, da quando era bambino, con una certa intonazione, come fosse una filastrocca. E ora lui, ogni volta che ripensa alle sue parole, ha in testa quello strano tono che somiglia alla melodia di una canzone senza testo, o con un testo che nessuno ricorda più. Il vecchio gliel’ha ripetuta tante volte, che ormai quella melodia ha perso il suo significato, è una convenzione, ora, qualcosa da dire quando si esauriscono le parole. Chissà che fine ha fatto la signora Nakayama, è un po’ che non si vede. Non impicciarti che vivi meglio. La cosa più buffa è che lui, poi, quel consiglio non l’ha mai ascoltato. Sarà che  è uno che fa di testa sua, sarà negazione adolescenziale, sarà il suo rifiuto innato all’indifferenza, ma lui, gli affari suoi, non se li riesce proprio a fare. Se sia un bene o un male, non se lo è mai chiesto, ma ora sa che la signora Nakayama rimane a casa per accudire il marito con la polmonite, così il sushi glielo porta a casa. È una vita che si impiccia, e non smetterà di certo ora. Se lo è ripetuto da tutta la mattina, da quando ha trovato sul pavimento della sua stanza quel biglietto un po’ stropicciato, che ha rimesso in tutta fretta nella tracolla dell’amico. Se lo è ripetuto perché appena Gokudera saprà che ha trovato quel biglietto come minimo lo farà saltare in aria. Perché lui è uno che se li fa gli affari propri, e soprattutto non vuole che gli altri si facciano i suoi. Che poi magari saltare in aria è divertente, o se non proprio divertente almeno è una nuova esperienza. In ogni caso, se è per il suo bene, può saltare in aria anche cento volte. Deve solo aspettare che restino soli, poi chiederà a Gokudera perché se ne sta andando.

 

Sarà che è un tipo fortunato, sarà Giove in congiunzione con Saturno, sarà che in fondo le coincidenze avvengono di continuo, e noi ce ne accorgiamo solo quando abbiamo voglia, in ogni caso, qualunque sia la ragione, ci è rimasto solo con Gokudera, solo, sul tetto, e senza Tsuna. Dovrà ringraziare Sasagawa il prima possibile, e magari offrirle del sushi, dopotutto gli ha regalato un’occasione d’oro, e un po’ di sushi non si nega a nessuno. Ma se la invita al ristorante deve chiamare anche Tsuna, che magari ci scappa fuori un appuntamento. D’altronde è a questo che servono gli amici, a combinare appuntamenti e a risolvere problemi, anche si trattasse di trasferimenti.

 

«Promettimi che non ti arrabbi»

Gokudera sputa fuori il fumo, poi si gira stranito. Non si era accorto che fossero così vicini.

«Cosa intenti?»

«Qualunque cosa dica, tu promettimi che non ti arrabbi»

«No. Se non so di che si tratta non posso promettere nulla. Poi mi fai incazzare sempre.»

«Hai ragione, ti incazzi sempre.»

Yamamoto lo guarda sconsolato e per qualche attimo si fissa su di lui. Sul suo corpo incurvato sulla ringhiera, sulla sigaretta stretta tra le dita, sulla bocca che butta ancora fuori fumo, sui i suoi occhi assenti, che guardano lontano, qualcosa che lui probabilmente non vedrà mai. E poi un’illuminazione, un pensiero, di quelli che arrivano e se ne vanno come se non fossero mai passati, senza lasciare tracce, solo la vaga consapevolezza che qualcosa c’è stato, anche se talmente evanescente da non avere forma. Semplicemente si accorge che Gokudera è bello, e si innamora. Si innamora di Gokudera, di quella sua espressione imbronciata e della puzza di fumo, si innamora come fa un temporale estivo, improvviso e veloce. Poi come un temporale estivo se ne va, con la rapidità con cui è arrivato, rimanendo solamente una minuscola parentesi. Come altre mille prima di quella. Sa che questi innamoramenti lampo non gli fanno bene, perché tante parentesi alla fine fanno un discorso, ma alla fine non fa mai niente. È un po’ come la tosse, che ce l’hai, ma non prendi mai sciroppi. E vai uno, e vai due, e vai tre giorni, alla fine ti ritrovi senza voce, e la tosse ce l’hai ancora. Ma lui ora starà attento, non si ammalerà di certo per un po’ di tosse. Quindi continuino anche questi innamoramenti, tanto sono solo pochi attimi, non può andare storto nulla.

«Perché torni in Italia?» gli dice veloce, come fosse un’ unica parola. E capisce subito di aver fatto un grosso errore. Lo capisce perché a Gokudera cade la sigaretta dalle mani, e va a finire nel cortile della scuola, sulla scarpa di una ragazzina con cui probabilmente non ha mai parlato, perché aspetta prima di reagire, perché quando si gira ha stampata in faccia l’espressione peggiore che gli abbia mai visto. Forse doveva evitare di essere così schietto.

«Tu che cazzo ne sai?»

«Ti caduto il biglietto sta mattina, quello per l’aereo. Però te l’ho rimesso a posto»

«Non... non lo dovevi leggere. Non ne avevi il diritto...»

«L’ho trovato per terra, non potevo fare altro»

«Non ne avevi il diritto!»

Nel frattempo la faccia gli è diventata più rossa, si è accesa di rabbia. Yamamoto vede l’amico stingere i pugni sulla ringhiera, ed è sicuro che si sta trattenendo. Lo capisce perché le mani gli tremano e se non fosse per quella ringhiera gli avrebbe già dato un pugno.

«Mi dispiace Gokudera, non volevo farmi gli affari tuoi, ma l’ho trovato sul pavimento».

Usa un tono tranquillo perché con lui non vale la pena arrabbiarsi, basta la sua di rabbia per entrambi. Quindi rimane tranquillo, che magari calma anche Gokudera.

«L’ho trovato sul pavimento e mi sono preoccupato.»

«Io faccio quello che mi pare, non devo certo spiegazioni a un idiota come te»

«Anche Tsuna si preoccuperebbe, soprattutto se partissi senza dire niente»

«Infatti non parto.»

Si è arreso. È stato più facile del previsto, si aspettava un’interminabile discussione, magari anche qualche pugno, credeva che dopo qualche esplosione, lo avrebbe mandato a quel paese lasciandolo solo, invece si è semplicemente seduto e si è arreso. Si siede anche lui, proprio accanto Gokudera, e lo sbircia con la coda dell’occhio. Sì, si è davvero arreso, ha il tipico sguardo basso di chi ha perso una guerra.

«E perché avevi il biglietto?»

«Me l’ha dato mia sorella, per tornare qualche settimana a casa, ma io non ci vado.»

Scatta qualcosa, la situazione si capovolge, Yamamoto cambia subito umore. Ha fatto un errore, nessun trasferimento, nessun grande viaggio, solo una piccola innocua vacanza. Si sbriga a scusarsi e a dire che aveva frainteso. Se devi tornare dai tuoi cambia tutto, i parenti son pur sempre parenti, poi tanto torni.

«Ti ho detto che non ci vado, ma sei stupido?»

«Come non vai? E la tua famiglia?»

«Chi se ne frega.»

Non poteva pretendere che fosse tutto rosa e fiori tra Gokudera e la sua famiglia, l’aveva sentita la storia da Bianchi, ma comportarsi così è esagerato. Va bene discutere, ma la parola non si nega a nessuno! Poi stiamo parlando della famiglia. Devi tornare!

«E tu devi farti i cazzi tuoi, stupido maniaco del baseball»

«Lo dico per te, è assurdo non voler ritornare a casa propria!»

«E’ assurdo che non ti abbia ancora fatto saltare in aria»

«Cavolo, Gokudera, ma è casa tua! Non puoi comportarti così con le persone che ti hanno cresciuto»

«Stai superando il limite»

«A volte non ti capisco proprio, hai dei comportamenti assurdi»

«Ti sto avvertendo»

Poi ha detto l’ultima frase, quella che non doveva dire, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Perché Yamamoto è uno che gli affari suoi non li sa fare, ma non ne aveva mai assaggiato il lato negativo. Alla Signora Nakayama farà pure piacere ricevere il sushi a casa, ma Gokudera... Gokudera è tutta un’altra storia. Gokudera non è una vecchietta che deve accudire il marito, Gokudera è un’esplosione, un uragano di umori diversi. E lo sa bene, lo sapeva da prima di quella discussione, come sapeva di dover rimanere tranquillo e di non dover alzare i toni, ma si è fatto prendere, non ci può far nulla, quando si tirano in ballo certi argomenti per lui è impossibile star zitto. Però, forse però questa volta ha esagerato, non ha saputo controllarsi. Gokudera è un’esplosione, e dirgli che deve finirla di scappare da tutto l’ha acceso. L’ha acceso come si accendono i fuochi a capodanno, avvicini un po’ la fiamma e vai che vola in cielo, vola in cielo e poi esplode, ha i suoi dieci secondi di gloria e si spegne soffocato dal buio, si spegne e chi se ne frega. Yamamoto sente il pugno arrivare, lo sente ancor prima che le nocche tocchino il suo zigomo, e ancor prima che il dolore gli arrivi al cervello è sicuro che gli farà male. Lo incassa, se lo è meritato, ma subito dopo gli prende le mani e lo blocca. Ha acceso la miccia e ora non vuole che il fuoco si spenga. Al diavolo i dieci secondi, al diavolo il buio. Non vuole che il fuoco si spenga, quindi lo bacia.

*

«Poi gli ho dato un altro pugno»

Shamal ha in mano una piccola scatola di medicinali. Non sa cosa ci sia dentro, e a dir la verità neanche gli interessa. L’ha presa da qualche scaffale senza un reale motivo, e ora se passa e se la ripassa tra le mani. Forse l’aveva da prima che entrasse Hayato, ma di questo non ne è certo.

«Cosa altro avrei dovuto fare?»

Posa la scatolina sulla scrivania e comincia a girarsi i pollici. Più che girarseli pare che ci giochi, li fa muovere con gesti irregolari, sconclusionati, come se ballassero.

«Diamine, di’ qualcosa!»

O forse stanno solamente facendo l’amore.

«Cosa dovrei dirti?»

«Non lo so, qualcosa, qualunque cosa! Vengo qui, ti racconto una cosa del genere e tu te ne stai zitto?»

«Non so cosa ti aspetti. Vuoi una paternale o qualche consiglio materno? Ti conosco da quando eri alto quanto una bottiglia di Whiskey, diciamo che qualche idea sulla tua identità sessuale me l’ero fatta»

«Sulla... mia identità sessuale?»

Ora le mani se le porta alle tempie e comincia a massaggiarle con piccoli movimenti circolari. Lenti, sempre più lenti. Poi le ritira giù e riabbassa la testa. Ha lo sguardo annoiato e gli occhi fissi su quelli di Hayato. L’espressione di quel ragazzino però è davvero spettacolare, con la bocca aperta, le sopracciglia incurvate, avrebbe fatto prima a scrivere su un cartello “Sorpreso!” e poi ad incollarselo in faccia. Che poi quale motivo abbia di essere sorpreso non l’ha ancora capito.

«Non prendiamoci in giro. Non hai cinque anni, con tutte le ragazze che ha questa scuola avresti dovuto fidanzarti da un pezzo.»

«Di cosa cazzo stai parlando?»

«Non devi scaldarti, ti sto facendo ragionare»

«Stai cercando di farmi incazzare, come sempre»

«Dici sempre che le donne ti fanno schifo...»

«Ma non intendo quello!»

«Cosa intendi allora?»

Hayato ha staccato dalla faccia il cartello, ne ha preso un altro e ci ha scritto “Incazzato”. Non arrabbiato, o furibondo, proprio incazzato, con tutta la volgarità che ne consegue. Per qualche strano motivo gli ricorda incredibilmente uno di quei cartoni animati con gli animali, quello col coyote e lo struzzo blu. Ma questo preferisce non dirglielo.

«Non intendo quello!»

Alla fine si è sempre ritrovato a prendere le parti del coyote, che per quanto sfigato non si è mai arreso, neanche con un masso in testa, neanche col mondo addosso.

«E il bacio, quello col tuo amico, come è stato? Non mi dirai mica che ti sei staccato subito, no?».

Non si è mai arreso, neanche di fronte all’evidenza.











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Note sul punto di crisi

Solo a me gli ultimi capitoli di Reborn sembrano molto più shonen-ai?

Caspita però, sono addirittura riuscita ad aggiornare, sarà la pioggia , o le giornate così ad avermi sempre ispirata.

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