Forbidden Kids

di candycotton
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First Act ***
Capitolo 2: *** Gabriel -- Sweet and Sour ***
Capitolo 3: *** Don't lean on me ***



Capitolo 1
*** First Act ***


|| Forbidden Kids ||

ragazzi proibiti

 

 

Cassandra si sentiva distrutta. Faceva fatica a riprendere il respiro regolare. Aprì gli occhi e si condensò davanti a lei il soffitto bianco di quella stanza di ospedale. Attorno, un gran numero di persone vestite di camice. Probabilmente non erano più di tre, ma a lei sembravano infinite.

Sentiva la fronte imperlata di sudore e le gambe, così lontane, mancarle.

Ora il respiro stava tornando normale. Si portò una mano al cuore, e prese atto della fatica che gli procurò quel gesto.

Uno di quelli in camice che le stava accanto le toccò un braccio e le sorrise, dietro la mascherina bianca.

«È andato tutto bene, signora», le disse.

Cassandra lo fissò finché le sue orecchie furono invase dal pianto di un bambino, poco distante da lei.

Subito qualcosa si fece strada nella sua mente, strinse con forza il braccio del dottore, prima che lui la lasciasse.

«È una femmina?», gli chiese, sgranando gli occhi, speranzosa fino al limite.

Il dottore aggrottò la fronte, poi le sorrise di nuovo e le fece allentare la presa sul suo braccio. «È un maschietto, signora», disse.

Il dottore picchiettò sul suo braccio affettuosamente e si allontanò.

La voce di quelle parole risuonò nella mente di Cassandra ancora per qualche secondo.

Un maschio. Era un altro maschio.

La sua faccia si piegò gradualmente in una smorfia disumana, mentre la sua testa realizzava quell’idea. Lanciò un grido che squarciò l’aria e fece sussultare le persone nella stanza.

Ma il bambino piangeva ancora. E sua mamma piangeva con lui.

 

 

 

In quel piccolo paese sperduto nelle foreste canadesi, tutti parlavano di tutti e nessuno si faceva mai fatti suoi. Non c’erano argomenti a sufficienza, così si prendevano sotto esame le storie dei singoli abitanti, che loro lo volessero o meno.

«Hai più visto in giro Cassandra?», domandò un giorno Gisela, una delle tante vecchie pettegole.

«Da quando ha partorito, non si è più fatta viva», le rispose prontamente Aya.

«E… e sai che cosa è venuto fuori questa volta?», continuò Gisela, sgranando gli occhi, curiosa.

«Pare un altro maschio».

«Ah! Ecco perché non esce di là! Lei li odia, gli uomini!».

«Ma è suo figlio!».

«Forse tu non la conosci bene, Aya. Voglio darti un consiglio, nel caso un giorno ti ritrovassi a passare davanti a casa sua: tira dritto e non guardare verso la casupola, non fermarti nemmeno ad osservare il paesaggio attorno! Cassandra è pazza. Non ci sta con la testa! Ha avuto un sacco di amanti, e le volte che gli è andata male ha partorito sempre e solo maschi! Lei li odia, li ha sempre odiati, sin da quando era piccola così», fece un breve gesto con la mano, sospesa a mezz’aria, «non vorrei essere nei panni di quei poveretti dei suoi figli, si dice che sia una strega e che gli faccia il malocchio».

Aya rimase basita, davanti all’espressione agghiacciante che aveva assunto Gisela. «Ma saranno voci di corridoio», la ammonì.

«Io non credo, mia cara. Hai mai visto i suoi figli in giro, in città?».

La vecchia interlocutrice parve pensarci un istante, poi scosse il capo, lentamente.

«E cosa pensi sia successo a loro?».

Aya rimase immobile, trattenne il respiro, in attesa che Gisela desse la risposta alla sua stessa domanda.

«Si dice che li abbia uccisi, a forza di incantesimi».

 

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Capitolo 2
*** Gabriel -- Sweet and Sour ***


|| Gabriel ||




 

 

 

sweet and sour

 

 

 

 

 

 

Gabriel aveva già esplorato il negozio in lungo e in largo. Non c’erano molte cose economiche che poteva permettersi, percui, alla fine, non aveva comprato tutto quello che desiderava.

Ma sapeva accontentarsi ugualmente. Prese un bel respiro e si diresse a pagare.

Immediatamente il cassiere lo guardò dall’alto al basso, scandagliando ogni centimetro degli abiti che aveva appoggiato sul bancone. Il motivo era semplice: erano tutte cose da donna.

Gabriel aveva nove anni e appariva a tutti come un specie d’angelo. Il suo aspetto innocente ed etereo faceva pensare che fosse un bambino d’oro, benvoluto dai suoi amici e familiari, amato da tutti.

Ma la realtà era ben diversa. Gabriel non era voluto da nessuno. A scuola non aveva amici e i suoi familiari non lo potevano vedere, anzi, sua madre nemmeno ci pensava, di guardarlo.

E tutto solo perché era nato maschio.

«Sono per mia sorella», disse Gabriel in tono brusco, in risposta alle occhiate del cassiere.

La sua bugia era ovvia, dato che quegli abiti erano troppo piccoli per sua sorella, che aveva cinque anni in più di lui. E in quel paese, tutti conoscevano tutti; quell’uomo avrebbe certamente inteso la bugia di Gabriel e chissà che idee si stava facendo.

Ma il ragazzino cercò di non pensarci, lui lo faceva per sé, non voleva preoccuparsi del parere di nessun altro.

Pagò e tornò a casa di fretta, mantenendo lo sguardo basso, per non incontrare gli occhi di nessuno.

Si chiuse nella sua camera, stretta e grande quanto un ripostiglio. Si vestì velocemente, ma cercando di aver cura per l’abbigliamento.

Sua madre era una figura passiva, in quella casa. Non usciva mai di là: a volte dormiva addirittura tutto il giorno, o sul divano del salotto o sul letto nella sua stanza.

Gabriel prese un altro bel respiro profondo, come aveva fatto poco prima al negozio e aprì lentamente la porta del salotto, cosa che non faceva quasi mai. Si affacciò nella penombra della stanza e diede un’occhiata intorno.

Scorse sua madre stesa sul divano, il capo coperto dalle braccia sotto cui Gabriel notò la solita espressione tesa e incazzata, che tanto lo faceva andare in bestia.

«Mamma», la chiamò, con la voce flebile e acerba, come quella di una bambina.

Sua madre alzò un braccio da sopra il capo e si guardò attorno, gli occhi pesanti. «Chi è?»

«Gabriel…, Gabrielle, sono io mamma, Gabrielle», fece il ragazzino, disperato, cercando lo sguardo di sua madre nella semioscurità.

Cassandra lo guardò scandalizzata, gli occhi sgranati, terrorizzati. «Va’ via! Vattene!», gridò.

«No, mamma…»

Cassandra fece per alzarsi dal divano, spostando di mezzo Gabriel.

«Mamma…»

La donna si allontanò scomparendo nell’ombra, mentre mugugnava ancora tra sé e sé: «Vattene, vattene…»

«Mamma», la chiamò ancora una volta Gabriel. «Aspetta, mamma», disse ancora. «Mamma», la sua voce si era ridotta ad un sussurro, mentre si confondeva tra le lacrime.

 

 

 

Gabriel non aveva mai capito veramente chi o cosa fosse.

Era stata tutta colpa di sua madre, che lo aveva sempre allontanato, non lo aveva mai voluto, era indegno di essere venuto al mondo. Sua madre aveva la fissa delle femmine, avrebbe tanto voluto che tutti i suoi figli fossero nati donne. Ma il destino gli aveva dato due maschi, e Gabriel era stato l’ultimo.

Anche se aveva sentito dire in giro che in realtà Cassandra aveva dato alla luce altre creature prima di lui, di suo fratello e di sua sorella. Ma Gabriel non ci credeva: la gente trovava sempre il modo di parlare a sproposito.

Fino a qualche anno prima era addirittura arrivato a travestirsi da donna, per provare a piacere a sua madre, senza successo. Ora che aveva dodici anni e che con suo fratello e sua sorella aveva cambiato città, si sentiva una persona nuova, si sentiva di poter ricominciare tutto daccapo, di potersi lasciare il suo tenebroso passato alle spalle.

Eppure, quando Gabriel aveva tentato di baciare Andreas, non gli era affatto sembrato di poter essere una persona diversa. Si era di nuovo visto come quel povero bambino vestito da donna che chiamava invano il nome di sua madre, e la guardava voltargli le spalle.

«Guai a te se ti azzardi a toccarmi! Hai capito brutta checca?», gli urlò contro Andreas, davanti a quasi tutto il resto della scuola. Poi era corso via e aveva raggiunto i suoi amici, preoccupandosi di avvolgere le sue lunghe braccia attorno al collo di qualche cheerleader, come se volesse metter in chiaro che lui non aveva niente a che fare con quel genere di cose.

Gabriel lo guardò in lontananza, mentre rideva a crepapelle con i suoi amici, sicuramente di lui.

“L’ho visto saltarmi addosso, mi sono preso un colpo!” gli lesse sulle labbra.

“È meglio che mi lasci in pace, altrimenti la riempio di botte, quella checca inutile!”

Gabriel represse a forza le lacrime, mentre vedeva passarsi davanti gli altri studenti. E, mentre se ne stava imbambolato in mezzo al corridoio, con lo sguardo fisso nel vuoto a pensare a cosa ne sarebbe stato di lui, una ragazza gli si avvicinò, fissandolo.

«Tu hai i capelli d’oro» disse con voce lieve.

Gabriel stropicciò gli occhi e, ancora con la fronte aggrottata, rivolse uno sguardo alla ragazza.

Aveva una chioma rosso fuoco, ardente, e gli occhi più belli che Gabriel avesse mai visto. Erano chiarissimi, come cristalli, azzurri e bianchi. Il suo viso era piuttosto emaciato, lei magrissima. Quell’espressione curiosa rimase impressa nella mente di Gabriel, non aveva mai visto nessuno così interessato a lui.

«I tuoi sono di fuoco», fece lui, sorridendole.

La ragazza scoppiò a ridere. «Sono nata così»

Gabriel alzò le sopracciglia. «Anche io sono nato così»

Lei fece un mezzo sorriso, scrutandolo negli occhi, senza distogliere lo sguardo. «Mi chiamo Marion»

«Gabriel»

Marion sorrise un’altra volta. Sembrava che quell’espressione serena non potesse mai andarsene dal suo volto. Mosse un passo verso Gabriel, aprì le braccia verso di lui e lo strinse a sé.

Il ragazzino restò immobile.

Marion si staccò e lo guardò un’altra volta. Occhi negli occhi. «Mi sembrava che ne avessi bisogno».

Gabriel la fissò, incredulo. Sì, era proprio quello che gli serviva.

 

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Capitolo 3
*** Don't lean on me ***


|| Gabriel ||




 

 

 

don’t lean on me

 

 

 

 

Gabriel aveva diciassette anni e non riusciva a spiegarsi come mai non riuscisse a staccare gli occhi di dosso a quel tipo.

«Scusa, non era libero?» fece il ragazzo, indicando la sedia accanto alla sua, dietro al banco.

Erano forse i suoi capelli tinti ad attirarlo? Oppure il suo sguardo color dell’oceano? Quel viso gli piaceva già da morire.

Gabriel scrollò il capo. Il ragazzo capì male e fece per alzarsi. «Ehi, è libero» intervenne Gabriel, bloccandolo prima che se ne andasse.

Lui si rimise a sedere, rivolgendogli uno sguardo confuso.

«Chi… come ti chiami?» mugugnò Gabriel, incerto sulle parole da usare.

Il ragazzo si voltò di nuovo verso di lui, dopo essersi messo a sedere. «Rei»

Gabriel lo guardò, lo fissò intensamente. Fin troppo.

«Ehi?» sentì Rei dire.

Gabriel si destò, e gli rivolse uno sguardo perso. «Come?»

«Tu chi sei?» ripeté Rei, che gli aveva fatto la stessa domanda poco prima, ma che lui non aveva capito.

«Ah, sono Gabriel»

Rei annuì, incrociando le braccia sul banco.

«Il banco delle checche» un ragazzo passò loro accanto, borbottando ai suoi compagni in tono perfettamente udibile.

Rei roteò gli occhi, con un’espressione dura. Gabriel, quando si rese conto di quello che aveva appena sentito, sgranò gli occhi, ed ebbe un terribile flashback.

«Lascia perdere» mormorò Rei, vedendo la sua faccia.

Gabriel lo guardò, con l’intenzione di dire qualcosa, ma non gli uscì niente.

«Sono solo dei coglioni» la voce di Rei gli risuonò ancora lontana. Cercò di tornare pienamente alla realtà.

Aprì la cerniera del suo zaino e ne estrasse una bottiglietta di plastica. Bevve un’abbondante sorso di quella che avrebbe dovuto essere acqua, ma che non lo era. Ingoiò con una smorfia e sentì la trachea infiammarsi dalla vodka pungente. Si voltò verso Rei; senza esitazione si avvicinò a lui, facendo incontrare le loro labbra. Gli mise una mano tra i capelli, tenendolo stretto.

Rei non si ritrasse, anzi parve piacergli. Si lasciò trasportare, baciando quel ragazzo che non aveva mai visto prima, che non conosceva, di cui non sapeva un cazzo di niente.

 

Gabriel uscì dal bagno ridendo, la musica alle sue spalle proveniva a tutto volume.

Si diresse in camera e prese a spalmarsi il gel sui capelli, sui suoi nuovi capelli bianchissimi. E dritti, se li stava facendo con le dita.

Sorrideva senza alcun preciso motivo, semplicemente per aver fatto finalmente qualcosa che voleva da tempo: cambiare la sua immagine, poter essere finalmente sé stesso. Canticchiò la canzone che proveniva dal bagno, muovendo il capo a tempo.

Uscì di casa di fretta, con una sigaretta già pronta tra le dita.

Svoltò oltre l’angolo; Rei lo stava aspettando nella semi-oscurità. Si scambiarono un bacio, e si toccarono sotto la maglia strappata. Gabriel gli sorrise spontaneamente.

«Che figo che sei», esclamò Rei.

Gabriel tirò dalla sigaretta, senza smetter di fissare Rei.

«Le hai portate per me?», gli chiese.

Gabriel annuì, mostrando di sbieco un pacchetto che gli pendeva dalle tasche.

«Muoviamoci allora», concluse Rei. Appoggiò il braccio sulle spalle di Gabriel e insieme si avviarono lungo il marciapiedi, canticchiando Suffraggete City.

 

Era un pomeriggio come gli altri. Gabriel stava tornando a casa dopo una lunga giornata di scuola. Per fortuna che c’era Rei, ad alleggerirla. Si chiudevano in bagno durante la ricreazione e si baciavano, sopra il gabinetto. Ormai lo facevano quasi tutti i giorni.

Solo al pensiero, Gabriel sentiva ancora il calore di Rei sulla sua pelle, il suo buon profumo, il suo respiro…

Alzò lo sguardo varcando il cancelletto e avviandosi su per il viale ghiaioso fino alla porta d’ingresso.

«Lia» esclamò, soffocando un grido di spavento. Sua sorella era immobile, le braccia intrecciate sul petto, i capelli castani piatti ai lati del viso, gli occhi colmi di lacrime. Si guardarono per un lungo istante, ma prima che Gabriel potesse formulare una frase, qualcuno apparve sulla soglia della cucina.

 

Non poteva essere vero.

 

Eppure era proprio lei.

 

Marion.

 

 

Gabriel la fissò a bocca aperta. In un baleno, un fiume di pensieri gli inondò la testa. C’erano tutto e niente. Tanti bei ricordi, concentrati in un lasso di tempo troppo breve.

Marion era rimasta in città per meno di un anno, da quando si erano conosciuti. Ciò significava che era lontana da Vancouver da più di due anni.

Era più bella che mai. Con gli stessi capelli rosso fuoco e gli occhi azzurri come il cielo senza nuvole. Era come la ricordava, a quindici anni.

Oh, Marion.

La sua Marion era proprio lì, davanti a lui.

«Ciao, Gabriel» disse in un soffio.

«Ciao» rispose Gabriel.

«Se te lo stessi chiedendo, l’ho chiamata io, Gabriel. Ho pensato che fosse l’unica in grado di farti ragionare» fu Lia a parlare, in tono secco, arrabbiato.

Gabriel le lanciò un’occhiata.

«Io non ci sono riuscita» concluse sua sorella, abbassando il capo.

«Ti va di parlare?» chiese Marion. Allungò una mano verso di lui, accogliendo la sua in una stretta calda e morbida.

Uscirono di casa e raggiunsero un fazzoletto di erba con qualche panchina. Marion prese posto e lasciò che Gabriel le si sedesse accanto.

«I tuoi capelli…» sussurrò lei.

«Li ho appena ossigenati»

«I tuoi capelli dorati» ricordò lei, con un moto di malinconia.

«Marion, lascia perdere»

Si guardarono a lungo negli occhi, fissandoli uno in quelli dell’altra.

«Che ci fai qui?» ripeté lui, sottovoce.

«Mi ha telefonato Lia, ha detto che era una cosa urgente che ti riguardava»

Gabriel abbassò il capo.

«Mi ha spaventata, e sono subito corsa qui, lo sai che ti voglio bene»

Gabriel alzò lo sguardo su di lei, cercando le sue labbra, per baciarla. Ma Marion non si fece trovare, muovendo il capo dall’altra parte.

«Perché te ne sei andata, allora?»

«Ti ho già spiegato che tu non c’entravi niente. Dovevo trasferirmi con i miei genitori, ma lo sapevi che non sarei andata troppo lontano, sapevi che ero laggiù, a pochi passi… E non sei mai venuto a trovarmi»

Gabriel non rispose.

«Non sono mai riuscita a capire veramente se fossi interessato a me o meno. Gabriel» lo chiamò, attirando la sua attenzione. Si guardarono negli occhi. «Sei sicuro che non ti piacciano più… le femmine?»

Lo sguardo di Gabriel si indurì.

«Sai che non lo dico per offenderti, ma vorrei solo che mi dicessi la verità, tutto qui, niente di più, solo la verità»

«Io non lo so, Marion. Non riesco a capirmi neppure io, figuriamoci se possono farlo gli altri. Mi dispiace, Marion, mi dispiace fottutamente da morire»

Marion annuì appena. «Ma io ti son mai piaciuta?»

«Marion, lo sai che ti ho sempre amata, questo lo sai» Gabriel si avvicinò a lei e la baciò. Questa volta lei non si tirò indietro.

«Promettimi che non ti rovinerai» mormorò Marion, ad un soffio dalle sue labbra amare.

Ma quel dannato silenzio che seguì, non era per nulla rassicurante.





Scusate per il ritardo della pubblicazione, quasi due mesi.. spero che il capitolo sia di vostro gradimento!

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