Say hello to Heaven

di margherIce46
(/viewuser.php?uid=196835)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le prime incertezze ***
Capitolo 2: *** Misses Suit ***
Capitolo 3: *** Il tre è un dato di fatto ***
Capitolo 4: *** Il tre è un numero dispari ***
Capitolo 5: *** Il tre è un numero pari ***
Capitolo 6: *** Il tre è un numero a parte ***
Capitolo 7: *** Le perfezioni provvisorie ***
Capitolo 8: *** A New York le coincidenze non esistono ***
Capitolo 9: *** Il tre e i tanti ***
Capitolo 10: *** Il tre non è mai stato un numero, perché è l'angoscia e la sua ombra ***
Capitolo 11: *** Cheryl o della vendetta ***
Capitolo 12: *** Say hello to Heaven ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Le prime incertezze ***


 Questa è la prima fanfiction che noi due (siamo Icegirl46 e margheritanikolaevna, ci avevate riconosciute?) abbiamo scritto insieme, cimentandoci in un esperimento a quattro mani.
Hai visto, cara Nike87? Il momento è arrivato…
Questi personaggi non appartengono a noi, ma a chi ne detiene tutti i diritti e ovviamente questa fic non è scritta a fini di lucro.
Grazie mille a chi avrà voglia di leggere e lasciare un commento.
 
 
Capitolo 1.
 
Le prime incertezze
 
“Si prevedono temperature basse e piogge diffuse per la serata di domani…”.
Elizabeth stava cucinando uno dei piatti preferiti di Peter mentre ascoltava le previsioni meteorologiche alla televisione;  quel pomeriggio non era stata impegnata con il catering e aveva così pensato di approfittarne per preparare qualcosa di buono per l’uomo che tanto amava e programmare una piacevole e romantica serata insieme. Una delle poche che riuscivano a concedersi, dati i rispettivi impegni e soprattutto il lavoro pesante del marito, che a volte lo teneva impegnato per giorni senza lasciargli un attimo di respiro. Per fortuna, però, quella settimana sembrava essere stata piuttosto tranquilla per la migliore squadra che l’FBI potesse vantare e, sapendo che suo marito sarebbe riuscito a tornare a casa per cena, lei voleva approfittarne per coccolarlo un po’.
E, per iniziare al meglio, bisognava innanzitutto mettere in tavola una cenetta coi fiocchi… non c’è migliore strategia che viziare il proprio marito con manicaretti deliziosi!
Quando udì la porta di casa aprirsi e la voce di Peter rivolgersi a Satchmo, subito accorso scodinzolando ad accogliere il padrone finalmente tornato a casa, si affrettò a asciugarsi le mani in uno strofinaccio e uscire dalla cucina per andare ad abbracciarlo. Gli si avvicinò circondandolo con le braccia mentre lui appendeva la giacca all’attaccapanni accanto alla porta e lo baciò amorevolmente sul collo.
“Ciao tesoro !” la salutò lui, ricambiando il bacio ma sciogliendosi subito dall’abbraccio, cosa che non sfuggì a Elizabeth, dato che di solito quei piccoli gesti teneri fra loro erano sempre molto apprezzati dal marito, che non se ne lasciava sfuggire uno appena ne aveva l’occasione.
“Tutto a posto? E` successo qualcosa al lavoro?” gli domandò allora, perplessa per il suo strano comportamento e preoccupata che i suoi sforzi dell’intero pomeriggio andassero sprecati a causa di un nuovo caso imprevisto.
“Cosa?”  le chiese di rimando lui, distratto - altra caratteristica insolita per un uomo abituato, per lavoro e carattere, a non lasciarsi sfuggire il più piccolo indizio, la più insignificante prova e che adesso al contrario sembrava essere caduto dalle nuvole davanti alla domanda preoccupata della moglie.
“Ti ho chiesto se va tutto bene amore, se c’è qualcosa che non va…” ripeté  Elizabeth.
“Ah, no El, tesoro, sta’ tranquilla. Sono solo un po’ stanco, quest’ultima settimana è stata così… pesante, faticosa” le disse.
Strano: fino alla sera precedente Peter si lamentava per i noiosi casi d’archivio che erano stati obbligati a riesaminare in mancanza di indagini fresche da portare avanti... Si trattava soprattutto di frodi allo stato e truffe di basso livello, per lo più noiose, tanto che suo marito aveva detto di desiderare quasi che a New York arrivasse un’ondata di nuovi criminali per poter allontanare la monotonia di quei giorni!
Era persino arrivato ad affermare che sperava che Neal facesse qualche sciocchezza, pur di avere qualcosa di diverso da fare e di non morire di noia, e ora invece si lamentava della stanchezza e della fatica?! No, qualcosa decisamente non tornava, e lei era determinata a vederci chiaro.
“Tesoro, ieri sei tornato a casa dicendo che non ce la facevi più a stare seduto in ufficio a riesaminare vecchie scartoffie e avevi il dorso che si stava fondendo con lo schienale della sedia della tua scrivania, e ora invece mi dici che sei molto stanco… sei sicuro che non sia successo nulla e vada tutto bene?” ritentò, perplessa.
“No, El, tutto a posto davvero: i ragazzi stanno bene e il lavoro è sempre lo stesso” disse di nuovo, questa volta abbracciandola come a sottolineare come tutto fosse, apparentemente, normale. Poi si staccò ancora una volta da lei e salì in camera per andare a mettersi abiti più comodi.
Elizabeth rimase per un attimo ferma davanti alle scale, fissandolo.
No, qualcosa definitivamente non andava, Peter era strano nel suo comportamento e non solo: qualcosa aveva fatto scattare i suoi sensi sull’attenti. Le era sembrato infatti di sentire un leggero profumo su di lui, quando per la seconda volta la aveva stretta a sé; una fragranza cui inizialmente non aveva fatto caso, troppo entusiasta all’idea di una piacevole cena a sorpresa insieme a Peter, ma che ora, con l’occhio critico e attento tipico di ogni brava moglie, non le era sfuggita.
Molto strano.
Eppure - pensò subito dopo la parte più razionale di lei - non era il caso di preoccuparsi così tanto;  in fondo, magari, Peter era solo terribilmente annoiato, un uomo dinamico e attivo come lui costretto al lavoro d’ufficio per una settimana. Probabilmente era questo che lo aveva sfinito. Si`, decisamente.
E per quanto riguardava quella scia di profumo, poteva essere di chiunque; magari di un collega, con cui lui aveva a che fare ogni giorno, o di qualche recluta che era stata temporaneamente assegnata alla squadra e alla sua supervisione. Non poteva essere altrimenti!
Scrollò  le spalle come a scacciare definitivamente tutti quei pensieri e dandosi della sciocca tornò in cucina a dare gli ultimi tocchi alla torta oramai quasi pronta, fermamente decisa a godersi la sua cenetta e far concentrare il marito su tutt’altro che il lavoro.
 
***
 
Alla fine, tutto sembrava essere andato per il verso giusto e la serata era passata piuttosto tranquillamente.
Peter ed Elizabeth si erano goduti una cena favolosa a lume di candela, avevano chiacchierato del più e del meno - anche se in realtà a parlare era stata soprattutto Elizabeth che si era dovuta accontentare dei cenni di assenso e dei pochi monosillabi del marito; lui alla fine si era complimentato per l’ottima cucina e aveva persino scelto spontaneamente di rinunciare alla sua fedele birra, sostituendola con un buon bicchiere di vino. Era stata una piacevole sorpresa per Elizabeth, evidentemente Peter aveva apprezzato molto la sua idea di una cena romantica.
Non le erano sfuggite però le sue frequenti occhiate al cellulare che, seppur in maniera discreta, si erano ripetute per tutto il tempo, insinuando di nuovo in lei quel vago senso di fastidio.
Dopo cena, Elizabeth aveva insistito per vedere qualcosa alla televisione insieme. Dopo avere inserito nel lettore dvd uno dei loro film preferiti, che entrambi amavano molto perché  vi associavano i felici ricordi di uno dei loro primi appuntamenti, si era seduta sul divano accanto al marito, lasciandosi coinvolgere dalle immagini che scorrevano sullo schermo. Peter si era messo comodo, passando un braccio dietro alle spalle della moglie, stringendola a sé quando arrivavano le immagini più crude e soprattutto durante quelle scene strappalacrime che Elizabeth adorava e davanti a cui si commuoveva sempre, ma in realtà la sua testa era altrove e lei lo poteva sentire.
Peter la teneva stretta al suo corpo senza staccare gli occhi dallo schermo del televisore, ma non stava veramente osservando il susseguirsi dell’azione e lei poteva percepire questa distanza che sembrava esserci fra loro anche se, agli occhi di qualsiasi osservatore esterno, sarebbero apparsi come una felice coppietta normale. Ogni tanto sentiva il suo corpo tendersi e fremere accanto al proprio e ogni volta che ciò accadeva lei notava il suo sguardo che si rivolgeva veloce al cellulare appoggiato al tavolino basso del salotto, per poi tornare allo spettacolo televisivo. Questo le aveva provocato un po’ di irritazione, ma allo stesso tempo sentiva che Peter stava facendo del suo meglio per accontentarla e stare lì con lei nonostante avesse altro in mente, per mostrarsi come sempre interessato a ciò che a lei piaceva.
Forse semplicemente era stanco e desideroso di andare a letto e farsi una bella dormita; o magari aveva voglia di passare il resto della sera a letto, ma non a dormire, e questo pensiero la fece sorridere maliziosamente fra sé e sé.
Per fortuna mancava poco alla fine dello spettacolo, perché era lei ora che fremeva e faceva fatica a stare ferma su quel divano: sì, senza dubbio, avrebbe terminato quella serata riuscendo ad allontanare dalla testa del marito qualsiasi pensiero la stesse tenendo occupata in quel momento.
 
***
 
Una volta a letto, invece, le cose non erano andate esattamente come si aspettava: sì, certo, Peter le aveva dato la sua buona dose di coccole e baci e non solo, dopo un’infinità di dolci carezze avevano fatto l’amore, poi lui si era addormentato accanto a lei che era rimasta ad ascoltare il suo respiro regolare fino a quando a sua volta non era caduta fra le braccia di Morfeo… ma qualcosa in quell’atto le era sembrato stonato, come una nota fuori posto in una melodia altrimenti perfettamente riuscita.
Come sempre, infatti, era stato fantastico essere stretta fra le braccia forti di Peter, sentire quel corpo tonico e muscoloso sul suo, dentro al suo. Lui era stato dolce e attento, l’emblema dell’uomo che ogni donna potesse desiderare e che lei, fortunata, poteva vantare.
Erano una coppia da dieci anni ma ancora lui sapeva farla sognare ogni volta, portarla al limite, e lei lo adorava per questo; amava quei dolci momenti fra loro.
Quella sera, però, c’era stato di nuovo quel qualcosa a disturbarla, quel profumo che aveva potuto - e in un certo senso anche dovuto - annusare ancora, distintamente, sul collo del marito, mentre lo stringeva a se`, mentre lo baciava. Non riusciva proprio a impedire al suo naso di inspirarlo profondamente, non poteva fare a meno di notarlo nemmeno se si sforzava di non farlo; aveva provato a non pensarci, a far finta che non ci fosse, ma non ci era riuscita. Quella sottile fragranza sembrava avere impregnato anche i suoi pensieri oltre alla pelle di Peter, e lei non aveva potuto evitare di ritrovarsi a chiedersi a chi appartenesse, e come mai, soprattutto, fosse finita sul collo del marito. Era qualcosa che la infastidiva e allo stesso tempo la inquietava, anche se non riusciva a capire razionalmente la ragione di tutto ciò. In fondo, si trattava di un semplice profumo.
Inoltre, anche mentre erano stretti l’uno all’altra, a Elizabeth era proprio sembrato che qualcosa non andasse come avrebbe dovuto e non perché Peter avesse sbagliato in qualche suo gesto.
Si conoscevano troppo bene e da troppo tempo per non sapere che cosa desiderava l’altro nei loro momenti di intimità; semplicemente, suo marito non sembrava essere davvero lì con lei in quel momento mentre le accarezzava il seno, lei lo sentiva di nuovo distante, come quando era rientrato in casa, come quando distratto non aveva badato alle sue domande, come quando lo aveva visto annuire svogliato sentendo i suoi discorsi durante la cena, come quando l’aveva sorpreso a osservare quel maledetto cellulare nel corso dell’intera serata.
Eppure, come prima, si trattava solo di una sensazione e nient’altro, nulla di tangibile; anzi quella sera era stato tutto molto bello e alla donna venne il dubbio di essere soltanto un po’ paranoica. Probabilmente il fatto che Peter si fosse mostrato così stranamente svagato appena tornato a casa l’aveva colpita, e turbata, più di quanto credesse, ma lei ora non era intenzionata a far rovinare un momento così bello fra loro a causa di una sua sciocca impressione. Aveva deciso che per quella sera, per quel momento, avrebbe solo smesso di pensarci, anche perché i pensieri che si stavano formando nella sua mente non le piacevano per nulla, e si era finalmente lasciata andare del tutto, completamente.
Aveva archiviato tutte quelle domande che le stavano affollando la mente come un segno della sua stessa stanchezza e si era abbandonata alle spinte di Peter, godendosele fino all’apice del piacere, scacciando finalmente ogni altro pensiero, e alla fine addormentandosi accanto a lui.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Misses Suit ***


 Capitolo 2.
 

 
Misses Suit
 
La mattina dopo, Elizabeth si era svegliata con un bacio sulla guancia datole dal marito. Mentre Peter si alzava per andare a farsi una doccia, lei era scesa in cucina a preparare la colazione per entrambi; come ogni altra giornata, avevano bevuto caffè e succo d’arancia con pancake e brioches. Come sempre si erano scambiati il giornale e avevano letto le previsioni meteorologiche. Come di consuetudine, lui le aveva dato un bacio augurandole la buona giornata prima di uscire di casa e lei aveva ricambiato il saluto con un sorriso.
Tutto poteva sembrare normale a prima vista, ma la verità era che qualcosa di inconsueto si agitava sotto quella superficie di calma apparente: le cose non erano andate per davvero come gli altri giorni. Il bacio era stato veloce, appena sfiorato, il suo sorriso era meno solare del solito; Peter era sembrato stranamente smanioso di andarsene, lei aveva provato un inaspettato e indesiderato sollievo nel vederlo uscire, potendo finalmente restare sola. Si`, decisamente qualcosa non andava.
E quel qualcosa non le piaceva. Per nulla.
 
***
 
Mentre andava al lavoro, destreggiandosi fra il traffico folle e caotico della città di New York, non era riuscita a impedire a se stessa di mettersi a rimuginare ancora su quanto strana fosse la situazione, almeno dal suo punto di vista.
Aveva provato ad accendere l’autoradio per distrarsi, ma come sempre aveva sentito più pubblicità che canzoni, e questo non l’aveva aiutata per nulla, anzi era diventata ancora più nervosa di prima; allora aveva deciso di inserire un cd nell’apposito lettore, ma nemmeno quello era riuscito a farle pensare a qualcosa che non riguardasse Peter per più di due minuti. Si era imposta di smettere di rimuginare su  ciò che le sembrava stesse accadendo in casa sua, con suo marito, ma anche in questo aveva fallito.
Era come se i suoi pensieri fossero attratti dalla forza invincibile di una calamita e questa calamita aveva il nome di Peter, il cognome di Burke e l’aspetto di una nuvola nera che andava a formarsi in un orizzonte che sembrava stranamente vicino. E lei non poteva evitare di riflettere su ciò che invece desiderava con tutta se stessa di poter ignorare.
Sapeva, in fondo, che la sera precedente non era accaduto nulla di catastrofico: con un’analisi razionale, lei stessa ammetteva che Peter aveva solo avuto un atteggiamento un po’ diverso dal solito e che questo poteva spiegarsi in mille e più modi, essere solo una manifestazione di stress, stanchezza o Dio solo poteva sapere che altro, ma nulla di più, nulla di cui preoccuparsi forse.
Eppure i piccoli particolari, quell’essere così distratto, il sembrare distante… lei non poteva fare a meno di constatarli, di notarli.
Le occhiate rivolte al telefono, di continuo, e nemmeno tanto di nascosto; di chi stava aspettando notizie con tanta smania? E poi quel maledetto profumo di chi era, da dove veniva? E perché si trovava sul collo del marito, ne aveva impregnato la pelle? Com’era finito lì?
Una parte di lei desiderava non avere risposta a queste domande, desiderava solo dimenticarsene, poter schiacciare il tasto di riavvolgimento di quel nastro che erano le loro vite per mandarlo indietro alla sera prima e ripartire da lì come se nulla fosse mai accaduto. Non chiedeva altro che di scordarsi di quelle sottili ma significative stranezze, eppure non poteva, non riusciva.
Perché un’altra parte di lei, la parte più forte del suo carattere, quella più cocciuta e testarda, le imponeva di mantenere i sensi in allerta, da quel momento in avanti. Le diceva di stare ben attenta, di tenere gli occhi aperti e non permettersi distrazioni.
Una parte di lei voleva sapere, non era disposta a vivere nel dubbio, nel tormento o peggio ancora nell’inconsapevolezza. Avrebbe sofferto, se le sue paure fossero risultate vere; ne era certa, sarebbe stata malissimo, avrebbe pianto e sperato che nulla di tutto ciò fosse vero.
Ma, d’altro canto, se i suoi sospetti si fossero rivelati infondati - e lei lo sperava con tutte le sue forze, con ogni fibra del suo corpo - allora avrebbe potuto vivere serena, piena di fiducia nei confronti del marito come era sempre stato fino a quel giorno e archiviare per sempre quei pensieri in un angolo buio della sua mente, come se mai fossero esistiti.
Ma per poterlo fare, doveva sapere. Aveva deciso. Da quel momento in poi, Elizabeth sarebbe diventata la migliore detective di casa Burke, come ogni moglie sa nel profondo di essere.
 
***
 
Da quella mattina in cui aveva finalmente deciso di non chiudere gli occhi ignorando la realtà ma di affrontarla di petto, non si era lasciata sfuggire nemmeno il minimo dettaglio nei comportamenti del marito. E aveva notato molto. Forse, troppo.
Prima  aveva visto le sue occhiate sempre più insistenti al display del telefono: non passava serata senza che se lo portasse ovunque, persino al bagno, in attesa di chissà cosa, chissà chi, anche se a lei diceva sempre che non era nulla a cui fare caso, semplicemente temeva di ricevere qualche improvvisa chiamata dall’ufficio. Rimaneva imbronciato fino a quando andava a letto se lo schermo non si illuminava annunciando una chiamata in entrata.
Il sorriso che invece gli illuminava il volto quando lo sentiva vibrare era impagabile, doveva ammetterlo: non ricordava un’espressione di estasi e gioia simile dai loro primissimi appuntamenti. Ogni volta che riceveva quelle oscure telefonate poi, Peter non rimaneva in casa a parlare, ma con la scusa che si trattava di telefonate di lavoro usciva sul retro oppure, mentre teneva l’apparecchio appoggiato all’orecchio, le faceva un muto cenno con la mano, facendole capire che avrebbe preso il guinzaglio e portato fuori Satchmo, ovviamente sempre continuando la conversazione.
Non era mai riuscita a capire chi fosse al telefono, nemmeno aveva potuto provare a riconoscere il numero, perché ogni volta Peter era così svelto a rispondere e portare il cellulare all’orecchio che non le aveva mai lasciato il tempo di leggere il nome che compariva. E lei era certa che ogni volta fosse sempre, immancabilmente lo stesso. Ma di chi?
Un altro dettaglio che aveva notato - e sarebbe stato impensabile che così non fosse - era stato un vistoso cambiamento nel suo modo di vestire: Peter Burke, che probabilmente era l’agente più famoso del ventunesimo piano del palazzo dell’FBI non perché  aveva catturato uno dei truffatori più abili dell’intero pianeta, ma per le orribili cravatte che era in grado di scegliersi, aveva iniziato a comprarne di nuove, abbinandole poi a camicie e giacche con risultati sorprendenti.
Non c’era mattina senza che lei stessa si stupisse del buon gusto che sembrava avere sviluppato da un giorno con l’altro ed era sicura che anche sul lavoro se ne fossero accorti tutti; era certa che persino Neal, che aveva l’occhio più critico di uno stilista di professione, gli avesse fatto i complimenti. Diamine, la settimana precedente Peter l’aveva accompagnata ad uno degli eventi da lei organizzati ed era vestito meglio lui dell’influente uomo politico, che era un candidato sindaco di New York!
Una sera le aveva detto che l’avrebbe portata fuori a cena e lei ne era stata molto felice: sperava di poter finalmente affrontare l’argomento con Peter, in un bel ristorantino intimo, con calma. Ci aveva già provato un paio di giorni prima, ma era stato come parlare a un robot programmato solo per rispondere “Non c’è nulla che non vada tesoro” e anche “Davvero, non preoccuparti, è tutto a posto El” a ogni singola domanda.
Alla fine ci aveva rinunciato, sentendosi ancora più confusa di quanto già non fosse e anche un pochino sciocca a dire la verità, dato che era lei quella che sembrava strana, a detta del marito. In ogni caso, dopo avere sentito la sua proposta di un’uscita a cena, aveva davvero sperato di poter provare nuovamente a parlare, ma il luogo in cui l’aveva portata l’aveva spiazzata, completamente.
Il suo Peter, che sceglieva piccoli locali che servivano buona cucina tradizionale, aveva prenotato un tavolo in un rinomato ristorante in centro: erano entrati in quell’ampio locale con tavolini coperti da tovaglie color panna abbinate a tende dello stesso colore. Pavimenti in legno e maniglie dorate alle porte completavano un’atmosfera che, in qualsiasi altra situazione, lei stessa non avrebbe esitato a definire “da sogno” ma che in quel momento le fece provare un senso di claustrofobia così forte da dover scusarsi quasi subito, chiedendo indicazioni poi a un cameriere per sapere dove fosse il bagno.
Quando era tornata al tavolo lui le aveva chiesto se si sentisse male e volesse andare a casa, se qualcosa non andasse, senza accorgersi che il problema era proprio lui con i suoi strani atteggiamenti; quella sera, per la prima volta da quando lei lo aveva conosciuto, Peter aveva preso il menù, letto con cura la carta dei vini e infine ordinato uno dei più pregiati.
Ma ciò che l’aveva distrutta, annientata completamente, era stato il suo patetico, inutile tentativo di comportarsi come se nulla fosse cambiato fra loro, quando in verità ogni cosa era ormai diversa: da più di una settimana, infatti, la chiamava sempre a metà pomeriggio dicendole che era sorto un imprevisto al lavoro, c’era un nuovo caso urgente, Neal aveva combinato qualche disastro oppure doveva stare fuori per un appostamento in quel puzzolente furgone e quindi non sarebbe tornato per cena.
Ogni sera tornava un po’ più tardi, spesso quando lei era già andata a letto, le dava un veloce bacio sulla guancia e poi andava a dormire augurandole la buona notte. Ma lei, sdraiata a letto senza prendere sonno, mentre osservava il suo profilo nella semioscurità` della loro camera da letto, sapeva che le sue erano solo scuse ed era certa che non avrebbero potuto reggere ancora a lungo.
Sapeva che in realtà non c’era nessun appostamento, anche se una parte di lei ancora desiderava di potergli credere e non poteva fare a meno di concedergli il beneficio del dubbio. La mattina, però quando provava a chiedere spiegazioni, dopo avere accampato di nuovo varie scuse, la sua risposta era sempre a stessa: “Tesoro, non parliamo del mio lavoro almeno qui a casa, per piacere. Quando sono con te voglio pensare solo a quanto io sia fortunato ad avere una moglie bella e comprensiva come te. Non c’è nulla che non vada, te l’assicuro!”.
Invece tutto non andava e lei aveva deciso: era giunto il momento della prova del nove, avrebbe scoperto la verità.
 E sapeva perfettamente a chi avrebbe chiesto aiuto: l’unica persona che aveva sempre diffidato, anche se per ragioni diverse, di suo marito e che forse (in quel momento parve rendersene conto) aveva avuto anche ragione.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il tre è un dato di fatto ***


Già il titolo di questo capitolo ne svela in parte il contenuto…
Grazie a Nike87 e a DeAnna in particolare ma anche, ovviamente, a chi ha voglia di continuare a leggere questa pazza pazza fanfiction!
 
 
 
Capitolo 3
 
Il tre è un dato di fatto
 
Il suono del campanello fece sobbalzare Elizabeth, strappandola alle malinconiche elucubrazioni in cui si era immersa, sprofondata sul divano, con un cuscino stretto al petto come una corazza e il muso umidiccio di Satchmo posato sulla coscia a darle conforto. 
Nemmeno il sorriso allegro di Mozzie, che fece capolino quando aprì la porta d’ingresso, servì a tirarla su: il tarlo crudele del dubbio si era insinuato nella sua anima, il sospetto scavava nel suo cervello come una termite e lei non avrebbe trovato pace fino a quando non avesse saputo la verità. Anche se la verità le avrebbe spezzato il cuore.
“Piccola, sono venuto appena ho letto il tuo messaggio!” esclamò Moz, posando sul tavolo del salotto una bottiglia di vino che aveva “preso in prestito” dalla riserva personale di Neal pensando che - data la stranezza del comportamento di Elizabeth e considerato il tono singolare della sua richiesta di incontrarlo - un po’ di alcol avrebbe impresso una direzione più rilassata alla loro conversazione.
Poi, notando il pallore dell’amica, la sua aria preoccupata e le occhiaie scure che rivelavano come avesse trascorso una brutta nottata, aggiunse: “Ma…stai bene? Hai una faccia…”.
“Siediti, ti prego” rispose solo El.
Andò in cucina e dopo un minuto fu di ritorno con un cavatappi e due ampi calici di cristallo; prima che Moz potesse fare un solo gesto per aiutarla, aprì la bottiglia quasi con rabbia e si riempì il bicchiere fino all’orlo. Poi lo trangugiò tutto d’un fiato e se ne versò subito dopo un altro, ugualmente colmo.
A questo punto, il truffatore fu certo che qualcosa non andava e vedere Elizabeth, di solito così allegra e gentile, sull’orlo di una crisi di nervi lo mandò a sua volta in tilt.
Senza sapere esattamente cosa dire, si limitò a osservare con dispiacere il livello del pregiato Cabernet-Sauvignon calare molto più velocemente di quanto avrebbe voluto, poi il suo calice ancora vuoto e infine l’espressione stravolta di El.
“Ho bisogno del tuo aiuto!” esclamò infine la donna, dopo avere vuotato anche il secondo bicchiere di vino.
L’uomo si sporse verso di lei e si preparò ad ascoltare.
 
***
“Non è possibile!” fece Moz inclinando leggermente la testa e spalancando le braccia “Ti stai sicuramente sbagliando, Mister Suit non ti tradirebbe mai!”.
“Oh Dio, Moz…” replicò Elizabeth, con gli occhi ancora lucidi di pianto e la voce incrinata “Non hai idea di quanto vorrei sbagliarmi, ma ci sono troppi indizi…troppi! All’apparenza il suo comportamento è del tutto normale, Peter è gentile con me e affettuoso come al solito, ma io sento che c’è qualcosa che non va! Quando crede che non lo guardi assume un’aria distratta, come se la sua mente fosse altrove, come se non gli interessasse fare ciò che sta facendo in quel momento ma stesse immaginando di trovarsi altrove…con qualcun’altra…”.
“E poi” proseguì, passandosi solo per un istante la mano sul volto pallido e sofferente “torna sempre più tardi dal lavoro, a volte deve stare fuori anche nel week-end e quando è a casa ha l’aria di non sentirsi completamente a suo agio, fissa in continuazione il cellulare e sembra sempre in attesa di qualcosa…”.
“Beh, magari è solo molto impegnato” ribatté Moz “forse Neal gli dà più problemi del solito…”.
El sbuffò leggermente.
“Magari si trattasse solo di Neal!” replicò.
Poi, dopo averci pensato su un istante, aggiunse: “Ma Neal non ti ha accennato niente? Non ti ha detto se lui e Peter stanno seguendo un caso particolarmente impegnativo, oppure se mio marito ha qualche problema?”.
Moz scosse la testa con un sorrisetto: “Mi dispiace deluderti, ma Mister Suit non è certo l’argomento di conversazione principale tra me e Neal!”.
Tuttavia, dopo avere fissato ancora un volta il viso segnato dell’amica, all’improvviso il piccoletto si alzò e le prese le mani.
“Sai quanto mi costa ammetterlo” continuò, assumendo per la prima volta un tono serio “ma tuo marito è una brava persona…per quanto può esserlo un servitore del governo, ovviamente. Io ti aiuterò, se vuoi, ma sono certo che ti stai preoccupando per niente!”.
 
***
 
Sistemare con l’aiuto di Moz una microcamera invisibile che riprendesse ciò che avveniva all’interno della sua stanza da letto era stato relativamente facile per Elizabeth Burke.
Molto più difficile fu dover mentire a Peter, inventandosi un inesistente viaggio di lavoro a San Francisco che l’avrebbe tenuta lontana per due giorni e una notte: glielo disse a cena, giocherellando nervosamente con la forchetta e senza riuscire a guardarlo in faccia.
La sua reazione, tuttavia, non solo non la rassicurò ma anzi ebbe l’effetto di trasformare i suoi sospetti più angoscianti quasi in bruciante certezza: Peter infatti invece di brontolare, come avrebbe fatto in passato, perché lei lo lasciava a casa tutto solo, non batté ciglio e non tentò di dissuaderla. Anzi, ebbe come l’impressione che il marito avesse trattenuto a stento, e con notevole difficoltà, un sorriso di gioia quando lei gli aveva annunciato la sua partenza.
Fino a non molto tempo prima lui si sarebbe accorto subito che sua moglie era a disagio perché gli stava nascondendo una cosa tanto importante, avrebbe insistito affinché gli aprisse il suo cuore…adesso, al contrario, pareva quasi contento di avere campo libero per una notte!
 
***
 
Sistemare la videocamera perché riprendesse il suo letto coniugale era stato piuttosto semplice, mentire a Peter decisamente più difficile; resistere un giorno e una notte tappata in hotel fingendo di trovarsi a San Francisco, soffocata dall’incertezza e dall’ansia, fu invece quasi insostenibile per Elizabeth.
Peter, nonostante stesse lavorando, l’aveva chiamata più volte nell’arco della giornata e lei non riusciva a capire cosa ci fosse dietro il suo atteggiamento: si trattava di nostalgia o piuttosto di sensi di colpa? E se, addirittura, volesse sincerarsi che lei effettivamente si trovasse lontano da New York?
Adesso, sdraiata sul letto, incapace di pensare ad altro, fissava il soffitto bianco latte dell’anonima stanza d’albergo desiderando con tutte le sue forze che la notte passasse il più velocemente possibile.
“Peter, Peter… dove sei adesso? Con chi sei? Cosa stai facendo? È possibile che tu abbia una storia con un’altra donna? Tu, proprio tu… Tu che sei sempre stato il migliore dei mariti, il più gentile, il più sincero?”.
“Quante volte mi sono sorpresa a pensare che a noi non sarebbe mai capitato, che noi due non eravamo come tutte le altre coppie…che il nostro amore aveva qualcosa di unico, di speciale!”.
“Quante volte, confortando un’amica in lacrime, ho detto a me stessa che tu non mi avresti mai fatto una cosa del genere, perché noi eravamo felici…felici davvero…”.
“E invece eccomi qua, anche io come tutte le altre, anzi più disperata perché mi sono sempre fidata ciecamente di te…”. 
Elizabeth si era imposta di non chiamarlo, di lasciarlo completamente libero…e invece a mezzanotte passata non ne poté più e compose il suo numero di telefono, temendo, e al tempo stesso sperando, di svegliarlo. Invece, dopo che il cellulare aveva squillato a lungo e quando lei stava quasi per riattaccare, Peter aveva risposto.
La sua voce non era né assonnata né infastidita: sembrava perfettamente sveglio. Sorpreso e, allo stesso tempo, comunque felice di sentirla.
Era a casa, le disse.
Insieme a Neal, che aveva cenato lì per fargli compagnia e adesso lo stava aiutando con i fascicoli di alcuni casi insoluti che si era portato appresso dall’ufficio, come faceva spesso quando lei rimaneva fuori per lavoro. Neal davvero era a casa con Peter, aveva sentito la sua voce mentre parlava a telefono con lui… allora non le aveva mentito! E se suo marito trascorreva la notte a lavorare in compagnia del suo giovane consulente, allora certo non poteva avere un’altra donna!
Fu come se l’ago sottile e appuntito che nelle ultime settimane le era penetrato nel cuore fino alla cruna improvvisamente venisse sfilato via da una mano gentile; le si inumidirono gli occhi per la felicità e il sollievo e non trattenne un ampio sorriso, il primo da chissà quanti giorni.
Li salutò con una battuta scherzosa, raccomandano loro di non fare troppo tardi su quelle scartoffie, e prima di chiudere la comunicazione lasciò al marito un “Ti amo” sussurrato a voce così bassa che forse lui non lo sentì, dato che non le rispose “Anch’io”, ma soltanto “Buona notte”.
 
***
 
Il mattino dopo la sicurezza di Elizabeth era scomparsa, si era miseramente disciolta come neve al sole.
Vero, Peter aveva trascorso la serata a lavorare insieme a Neal, ma poi? Non poteva avere nessuna certezza su cosa avesse fatto, o non fatto, dopo.
E se avesse chiesto al truffatore di coprirlo? E se invece fosse stato lui a coinvolgerlo in qualcuno dei suoi affari poco puliti? Magari in compagnia di una delle ragazze, bellissime e con pochi scrupoli, che gli giravano intorno?
Si era sempre fidata del marito, però non poteva negare che ultimamente Peter stava trascorrendo tantissimo tempo in compagnia di Neal…Neal sempre così seduttivo, impeccabile, brillante, come circondato da un’aura di sensualità che attirava irresistibilmente ogni donna con la quale entrava in contatto. Nessuna sembrava potergli resistere e lui certo non era tipo da soffrire di solitudine tra le lenzuola…
E se fosse stato proprio lui a portarlo sulla cattiva strada? E se lo avesse contagiato con i vizi e le bassezze dell’ambiente nel quale era vissuto per anni?
Elizabeth voleva bene a Neal Caffrey, le era simpatico e l’aveva accolto a braccia aperte a casa propria; anche lui, del resto, sembrava provare affetto nei suoi confronti. Possibile che, invece, fosse stato così vile da spingere suo marito a tradirla? Possibile che gli avesse facilitato le cose, procurato una ragazza, coperto le spalle?
Insomma, Elizabeth era più angosciata che mai e fu con questa disposizione d’animo che a metà mattinata, dopo avere fatto squillare una ventina di volte il telefono di casa per assicurarsi che non ci fosse nessuno, entrò nel suo appartamento col cuore in gola. Senza degnare di uno sguardo Satchmo che, appena lei varcò la soglia, le trotterellò allegramente incontro aspettandosi di ricevere qualche coccola, salì di corsa le scale e si precipitò in camera.
Lì, almeno in apparenza, era tutto come doveva essere: il letto coperto alla bell’e meglio, come faceva sempre Peter, le sue scarpe abbandonate a casaccio, una sotto il comodino e l’altra dietro la tenda. Niente fuori posto o di sospetto.
Tranne - ed Elizabeth se ne rese conto con cuore prima ancora che con l’odorato -  un vago, vaghissimo sentore sconosciuto che ancora aleggiava nella tiepida penombra della stanza: seppe con assoluta, subitanea, certezza che si trattava del medesimo odore sconosciuto che aveva sentito addosso al marito quando aveva fatto l’amore con lui qualche sera prima.
Si accasciò sul letto- la vista annebbiata, il respiro vacillante - spezzata dal dolore.
Dunque, era vero.
Tutti i suoi più atroci sospetti trovavano conferma: Peter la tradiva. La tradiva in casa loro, nel loro letto coniugale…
Ma con chi? Chi era quella squallida sgualdrina che lui aveva osato scoparsi nel letto che per anni aveva diviso con lei? Nel tabernacolo, ormai profanato, del loro amore? E se fosse qualcuna che conosceva? Diana certamente no, per ovvi motivi… forse allora un’altra collega? O qualcuna delle amichette di Neal?
Doveva saperlo, doveva assolutamente saperlo!
Come una furia, tirò fuori la microcamera che Moz l’aveva aiutata a nascondere.
Era sotto shock, le tremavano le mani e respirava affannosamente ma riuscì comunque a estrarre la pen-drive con la registrazione digitale delle immagini che l’aggeggio aveva catturato la notte precedente e a infilarla nel suo pc.
Non riusciva a rimanere seduta e, divorata dall’ansia, attese in piedi davanti al comò che il video partisse.
All’inizio nella penombra si distinguevano soltanto le sagome familiari dei mobili; i minuti scorrevano senza che avvenisse nulla ed Elizabeth, follemente, si sorprese a sperare ancora una volta di essersi sbagliata.
Poi, all’improvviso, si udì il cigolio della porta della stanza aperta con energia e tutto fu atrocemente chiaro.
Inequivocabile e, al tempo stesso, incredibile.
La qualità delle riprese non era eccezionale, ma non poteva avere dubbi su ciò che stava guardando: davanti ai suoi occhi scorrevano le immagini di Peter e Neal insieme.
Elizabeth sbatté le palpebre, incapace di reggere anche quel colpo: non solo suo marito la tradiva, ma non con una donna, bensì con un uomo! E per di più con lui, con Neal…    
Strinse convulsamente le dita al bordo del cassettone ma non poté impedire alle sue ginocchia di cedere: scivolò piano sul pavimento, scossa da conati di vomito.
Guardarli faceva un male cane, eppure non riusciva a smettere: le mani di suo marito sul corpo di Neal, tra i suoi capelli, sul suo sesso. Le loro gambe strettamente allacciate, i corpi frementi, scossi da sussulti, i movimenti frenetici nel momento del piacere più intenso. Le bocche premute una sull’altra in baci insaziabili, il suono dei loro gemiti che riempivano l’aria.
E poi il silenzio, rotto da respiri confusi e affannosi.
Lo schiocco di un bacio sonoro.
Un mugolio, una risata soffocata.
E il buio, fuori e dentro di lei.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il tre è un numero dispari ***


Capitolo 4
 
Il tre è un numero dispari
 
Bastò un innocuo rumore proveniente dalla strada sottostante per far trasalire Elizabeth: terrorizzata e sconvolta all’idea che Peter potesse tornare a casa all’improvviso e sorprenderla lì, in quello stato, chiuse di scatto il pc, afferrò la borsa che aveva gettato sul letto e corse giù per le scale precipitosamente.
Sulla soglia si guardò intorno. Il suo mondo era in apparenza intatto: il divano, il caminetto con i ninnoli sulla mensola, il tavolo al quale lei e il marito avevano innumerevoli volte cenato serenamente, riso e chiacchierato…Eppure, sotto la superficie inalterata delle cose tutto era irrimediabilmente cambiato; nulla sarebbe più stato come prima, Elizabeth ne era consapevole. Tornare indietro impossibile, fingere che non fosse accaduto inaccettabile.
Con le lacrime agli occhi, fissò uno per uno gli oggetti che le erano stati così familiari rendendosi conto all’improvviso che nulla in quella casa parlava più di lei, che nulla le apparteneva veramente.
Poi, in silenzio, si volse e uscì.
***
 
Quante volte, chiusa in hotel, aveva guardato quel maledetto video? Tante che alla fine aveva imparato a memoria ogni singolo gesto, ogni inquadratura, ogni movimento, ogni suono. Quelle immagini un po’ sfocate le ballavano senza sosta davanti agli occhi, anche adesso che finalmente era riuscita a spegnere il computer.
Distesa sul letto, nella penombra satura dell’inconfondibile odore che hanno tutte le camere d’albergo - un misto di detergenti e solitudine - Elizabeth pensava e pensava. Pensava e ogni tanto, esausta per il troppo pensare, scivolava in un sonno inquieto e fortunatamente senza sogni.
Guardarli era stato un tormento, ovviamente: c’era una parte di lei che odiava Peter con tutte le sue forze perché aveva osato infrangere il loro sogno, violare il loro sacro vincolo, gettare alle ortiche tutti i loro progetti di vita insieme. Perché era così, inutile girarci intorno: se l’avesse tradita con un’altra, con una donna come lei, avrebbe potuto considerarla una “sbandata” senza futuro e senza passato, un errore dimenticabile e perdonabile.
Ma così… no, così era infinitamente peggio.
Il fatto che Peter avesse desiderato tanto ardentemente Neal da portarselo in casa, nel loro letto, approfittando di un suo momento di assenza implicava delle ben precise conseguenze e la costringeva a mettere in discussione tutta la sua esistenza, fin dalle fondamenta.
Così, doveva rassegnarsi a perdere suo marito? Fino a qualche giorno prima non avrebbe saputo neanche lontanamente concepire la sua vita senza di lui: aveva investito tutto nella loro storia, credendo fermamente che lui fosse l’uomo giusto, l’uomo col quale avrebbe trascorso i suoi anni “in salute e in malattia, in ricchezza e povertà”, come aveva detto solennemente il sacerdote sull’altare durante il loro matrimonio.
 “Finché morte non vi separi”.
Già, considerò con amarezza, la morte o, più piacevolmente, un bellissimo ragazzo sfrontato...   
Però l’idea di perdere Peter era troppo troppo dolorosa, non era pronta ad affrontarla, non sarebbe riuscita reagire…e allora? Mentire, abbozzare, fare finta di nulla come altre donne avrebbero fatto, era un compito superiore alle sue forze; la sua natura schietta si sarebbe ribellata avvelenandole il sangue giorno dopo giorno.
Se invece l’avesse costretto a scegliere tra lei e Neal, non era affatto sicura di quale decisione avrebbe preso Peter: certo lei era sua moglie, la sua compagna, ma ciò che aveva visto in quel filmato parlava chiaro… Peter era soggiogato da Neal, aveva perso la testa per lui e non l’avrebbe lasciato andare facilmente. Per non parlare di Neal, che certo non avrebbe accettato di essere rifiutato; non si sarebbe arreso e alla fine, se lo sentiva, gliel’avrebbe portato via del tutto.
E se invece la soluzione fosse ancora diversa? Pur di non perdere Peter, di non rinunciare alla vita che avevano costruito e alla felicità che avevano condiviso, sarebbe stata capace di accettare anche Neal? E, in fondo, farlo sarebbe stato poi così terribile?
Elizabeth sospirò e si mosse, inquieta, sul copriletto spiegazzato alla ricerca di una posizione più comoda.
La sua mente, come una molla che dopo essere stata tesa innumerevoli volte torna sempre nella posizione di partenza, non cessava di rievocare quelle scene…era una tortura, ma non solo.
C’era come un piacere perverso che la spingeva a ripensare in continuazione a quei due che si rotolavano tra le lenzuola, l’umiliazione e la rabbia si mescolavano a qualcosa che assomigliava terribilmente a…eccitazione.
Già, proprio così, eccitazione: per quanto strano, depravato, potesse sembrare in fondo guardarli era stato perfino eccitante. L’aveva sentito con incredibile chiarezza proprio lì, in mezzo alle gambe, dove adesso la sua mano si posava sfiorando la seta della sottoveste color avorio.
Cosa le stava succedendo?
Si era sempre considerata una donna “normale”, con una vita sessuale ordinaria e delle fantasie tutto sommato comuni, non particolarmente trasgressive; e invece adesso si sorprendeva a desiderare di essersi trovata lì insieme a loro, in mezzo a loro, a condividere quelle sensazioni così intense da costringerli a infrangere regole e tabù di un’esistenza assolutamente regolare.
Qualcosa di lei spingeva in quella direzione, che fino a poche ore prima le sarebbe sembrata una folle perversione, mentre la sua parte razionale la invitava a calmarsi, a ragionare, a non peggiorare ancora le cose.
E poi c’era la rabbia: una rabbia sorda che la trafiggeva all’improvviso come una pugnalata. Durava solo un istante e subito lei la ricacciava via, nei sordidi abissi dai quali era spuntata; eppure essa continuava a combattere nel suo cuore, più bruciante del desiderio, più irresistibile dell’amore, scavando in silenzio dentro di lei.
 
***
 
Una volta presa la sua decisione, la prima mossa fu noleggiare un’auto; la parcheggiò di fronte a casa sua, non proprio vicinissimo in modo da non destare sospetti ma abbastanza per poter avere una buona visuale delle scale e della porta d’ingresso.
La seconda mossa fu chiamare Peter al cellulare e, tentando di mantenere un tono di voce normale nonostante l’agitazione che la possedeva in quegli attimi, mentirgli di nuovo, dicendogli che il suo soggiorno a San Francisco si sarebbe prolungato di un’altra notte. Il tono deluso del marito quando lo seppe la colpì al cuore e lei dovette chiamare a raccolta tutte le sue residue energie per non tradirsi.
Il terzo passo, sicuramente il più difficile da compiere, fu appostarsi dentro l’auto e aspettare immobile che il marito e il suo giovane amante facessero ritorno a casa. Non le sfuggiva la crudele ironia della situazione: appostarsi in silenzio chiusi in auto faceva parte integrante del lavoro di Peter e chissà quante volte lui e Neal l’avevano fatto, lamentandosi e bisticciando tra loro. Chissà, forse era nato tutto così, forse erano stati complici la vicinanza prolungata in uno spazio stretto, il silenzio forzato e la noia…
Elizabeth s’impose di non lasciarsi trascinare nel gorgo torbido e doloroso di pensieri del genere; per fare ciò che doveva, aveva bisogno di essere perfettamente lucida.
All’improvviso, vide l’inconfondibile sagoma della Taurus di Peter fermarsi proprio davanti al palazzo; vide lui e Neal scendere e dirigersi senza fretta verso casa. Se non fosse stato così accecato dalla presenza di Neal - pensò con una fitta di dolore al petto - forse suo marito si sarebbe guardato intorno come faceva di solito (“deformazione professionale” la chiamava, quando lei lo prendeva in giro per quei suoi atteggiamenti da sbirro anche quando era fuori servizio) e forse avrebbe fatto caso a lei.
Invece adesso salivano le scale disinvolti e rilassati, senza che nulla nel loro atteggiamento lasciasse immaginare cosa sarebbe avvenuto una volta che la porta d’ingresso si fosse richiusa alle loro spalle; una folata di vento fresco portò ad Elizabeth il frammento di una risata, l’eco di un sospiro sfuggente…o forse fu solo la sua immaginazione.
Comunque, non dovette attendere molto.
Dopo nemmeno dieci minuti, vide illuminarsi la finestra del piano superiore: evidentemente non volevano perdere tempo…desideravano godersi appieno la notte che lei aveva concesso loro con tanta generosità.
Attraversò la strada a passo svelto e aprì la porta cercando di non fare rumore; la richiuse, sperando che Satchmo stesse già dormendo e non le saltasse addosso per farle le feste vanificando così la sorpresa che aveva in mente di fare a Peter e al suo amichetto.
Nell’oscurità della stanza distinse la sagoma della giacca del marito gettata disordinatamente sul divano, il cappello di Neal posato sul tavolo; sulla mensola del camino, illuminata da un tenue raggio proveniente dalla finestra, baluginava di un riflesso metallico la pistola di Peter. 
La risata rumorosa che proveniva dal piano superiore attraversò la casa silenziosa scavando un solco nello stomaco di Elizabeth, le rimescolò l’anima e le fece ribollire ancora una volta il sangue nelle vene.
Deglutì, senza distogliere lo sguardo dalla pistola.  
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il tre è un numero pari ***


Capitolo 5
 
Il tre è un numero pari
 
In piedi accanto al letto, Peter baciò Neal tenendogli il viso fermo con le mani come se la sua bocca fosse una coppa dalla quale bere grandi sorsate di nettare lieve per dissetarsi.
Un bacio lungo, appassionato e dolcissimo.
D’improvviso i due uomini sentirono un rumore, entrambi nello stesso istante, e s’interruppero, allontanandosi bruscamente l’uno dall’altro.
Sulla soglia stava Elizabeth che li fissava senza una parola.
Neal, che era già completamente nudo, raccattò la camicia appallottolata che aveva gettato sul pavimento pochi minuti prima e tentò invano di coprirsi almeno un po’, mentre Peter fece un passo verso la moglie, le braccia tese in avanti quasi a proteggersi dalla sua possibile reazione.
“Elizabeth…non…” biascicò, senza avere il coraggio di guardarla in faccia.
Ma lei si avvicinò ai due; il suo tono li sorprese perché non era furibondo come si sarebbero aspettati, bensì carezzevole, suadente, morbido come il velluto.
“Non è come pensi?” disse, posando una mano sul petto nudo del marito. Sorrise e inclinò appena la testa di lato.
“Stavi per dire questo, amore mio?” continuò, volgendo lo sguardo verso Neal e squadrandolo con intenzione dalla testa ai piedi.
“Ehm…io…noi…” bofonchiò Peter, sempre più in imbarazzo. Neal, dal canto suo, non staccava gli occhi dai due, tentando di capire cosa avesse in mente Elizabeth.
“Beh, devo dire che invece è proprio come penso…non è forse così?” disse.
“Non sei arrabbiata?” trovò finalmente il coraggio di chiedere Neal, più lucido, dato che l’altro sembrava completamente paralizzato per la vergogna.
“Arrabbiata…” fece lei, accarezzando appena il volto pallido e stravolto del marito “Arrabbiata perché non mi avete invitata alla vostra festa…non vi sembra forse una cattiveria escludermi dal vostro divertimento?”.
“Ricordi, Peter, cosa ci siamo promessi il giorno del nostro matrimonio? Stare sempre insieme, dividere tutto…” continuò. Guardò ancora Neal, che aveva già compreso e se la rideva sotto i baffi nel vedere il suo amico in una situazione tanto folle e assurda.
“Ma proprio tutto…”.
***
 
Il primo a muoversi fu Neal, che fece scivolare la mano delicatamente sotto la gonna di Elizabeth e per poco non rimase senza fiato nel toccare la sua pelle nuda, laddove si aspettava invece di trovare la biancheria. Poi lei iniziò a svestirsi con lentezza, facendo cadere gli abiti sul pavimento; le sue cosce bianche e sottili splendevano nell’oscurità, mentre il pube era una macchia oscura e ancora nascosta.
Peter provò su se stesso il morso crudele della gelosia: ogni carezza che faceva a sua moglie, lei la rendeva identica a Neal. Le baciava la bocca piena e subito lei si girava verso il giovane e gli prendeva, voluttuosamente, le labbra tra le sue.
Era strano, per Neal, quel bacio: strano sentire in bocca il sapore di Elizabeth mischiato a quello di Peter…era come baciare entrambi nello stesso momento, baciare il presente di Peter e insieme il suo passato, ciò che era stato con lei prima che le loro vite si incrociassero.
Quando la mano di Peter scese più in basso accarezzando il seno di Elizabeth, questa attirò a sé Neal egli toccò il torace e i fianchi, lasciandolo bruciante sotto le sue dita calde e decise.
Quando Elizabeth slacciò i pantaloni del marito e la cintura metallica tintinnò cadendo sul pavimento, l’uomo chiuse gli occhi e si lasciò andare per sentire meglio i movimenti di quelle mani familiari.
Quando Neal la strinse e la baciò, lei sentì indurirsi i capezzoli e gemette per la prima volta sonoramente.
Quando Peter le accarezzò il sedere, la sua mano incontrò quella di Neal.
Caddero tutti e tre sul letto, contemporaneamente.
Tre corpi in accordo che si muovevano lentamente, strusciandosi l’uno contro l’altro: i seni di Elizabeth contro il torace di Peter, il sesso di Neal premuto le natiche di lei, distesa in mezzo a loro.
Elizabeth che baciava la bocca familiare del marito e poi, girandosi appena, poteva scoprire come fosse piacevole esplorare la bocca sensuale di uno sconosciuto; Elizabeth che percorreva con le mani le linee note del corpo di Peter avvertendo però su di sé il profumo di Neal, che tanto l’aveva turbata tempo prima quando l’aveva sentito addosso al marito.    
Bocche e dita e lingue e sensi.
E mani, mani dappertutto: mani grandi e virili, mani bianche dalle lunghe dita affusolate, mani graziose con unghie laccate di rosa.
Mani intrecciate e curiose, mani delicate e dita indagatrici.
Elizabeth e Neal si scambiarono uno sguardo d’intesa e insieme attaccarono Peter, decisi e farlo impazzire: il federale fu coperto, abbracciato, leccato, baciato, morso fino a lasciarlo senza fiato.
Si sollevò sul letto, ma quattro mani decise lo spinsero di nuovo giù.
Lo saccheggiarono con le mani, le labbra, i denti, la lingua; il corpo accarezzato ovunque, esplorato, graffiato, palpato, bagnato di saliva, segnato da senti aguzzi che lo tormentavano e lo deliziavano.
Ormai implorava di essere soddisfatto, ma gli altri due non avevano nessuna intenzione di porre fine al suo meraviglioso tormento tanto presto: continuarono a torturarlo, interrompendosi ogni tanto per scambiarsi un bacio, lingua contro lingua. Lingue intrecciate sul corpo fremente di Peter.
Ricaddero su di lui e il suo orgasmo arrivò violento, quasi doloroso, così intenso da squassarlo.
Sopra il suo corpo abbandonato, Elizabeth attirò di nuovo Neal a sé, si stese sotto di lui e sollevò le ginocchia, chiudendole sui suoi fianchi snelli.
La penetrò con forza, trovandola arrendevole e bagnata; sentiva i suoi seni schiacciarsi sotto di lui, il ventre dalla pelle d’avorio che si sollevava ritmicamente seguendo i suoi movimenti sempre più rapidi. Poi le sue dita dappertutto e i seni contro le sue labbra.
Peter giaceva accanto a loro, guardandoli ansimante.
Il truffatore scivolava dentro di lei, muovendosi avanti e indietro, il corpo percorso da brividi di piacere. Mentre lui era completamente dimentico di tutto ciò che gli accadeva intorno, invece Elizabeth teneva gli occhi aperti, sforzandosi di non chiudere le palpebre nemmeno quando il piacere diventava troppo intenso; fissava il marito e non smise di guardarlo negli occhi per tutto il tempo.
Ora le sue grida divenivano sempre più selvagge.
Ah, ah, ah, ah, ah.
Peter non l’aveva mai vista comportarsi in quel modo: guardarla contorcersi tra le lenzuola umide, sentirla urlare sotto i colpi di un altro uomo, era sconvolgente ed eccitante al tempo stesso.
Quando venne, Elizabeth gridò come se Neal l’avesse uccisa.
 
***
 
Molto tempo dopo,Elizabeth Burke giaceva ancora sulla schiena, perfettamente sveglia nonostante fosse ormai notte fonda. Non riusciva a prendere sonno e fissava i due uomini sdraiati accanto a lei, invece profondamente addormentati.
Guardava il profilo familiare di Peter, ascoltava il respiro regolare di Neal, raggomitolato su un fianco.
Le braccia incrociate dietro la testa, la mente non più annebbiata dalla febbre dell’eccitazione ma il corpo ancora languido per il recente piacere, fissava il soffitto.
Poteva essere questa la felicità?
La felicità d’ora in poi sarebbe stata un letto grande, l’odore di tre corpi sudati, il rumore dei loro baci confusi?
Quella tra loro sarebbe stata una rara armonia o soltanto un disordine volgare? Un ordine perfetto, oppure la più torbida varietà del caos?
Poteva una donna come lei - una come le altre - vivere così senza vergogna, senza porsi domande, senza bisogno di risposte?
Così: con un uomo, che amava da sempre, da una parte e uno sconosciuto dall’altra… due bocche, due corpi, due sessi per una sola bocca, un solo corpo e un solo sesso, che era il suo.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il tre è un numero a parte ***


Capitolo 6
 
Il tre è un numero a parte
 
Elizabeth passò una mano sullo specchio del bagno così da rimuovere l’alone bianco di vapore che saliva dalla vasca; il suo gesto rivelò un viso pallido, dallo sguardo smarrito, le labbra premute in una linea esangue.
Si avvicinò di più alla liscia superficie di vetro per osservare la nuova piccola ruga che, inequivocabilmente, le era comparsa all’angolo dell’occhio destro: nessun dubbio, il volto che la guardava in quell’istante non era il volto di una persona felice. 
Sospirò, si sfilò la vestaglia e tolse la camicia da notte, che cadde sul pavimento; poi, rabbrividendo, si immerse lentamente nell’acqua tiepida del bagno. Era piacevole e confortante, accogliente come un grembo materno. Elizabeth si sdraiò, chiuse gli occhi, gettò la testa indietro e scivolò piano sul fondo della vasca, lasciandosi sommergere completamente dal liquido schiumoso.
Rimase così, palpebre serrate e labbra strette, come distesa in una bara d’acqua profumata, finché non ce la fece più a trattenere il fiato e fu costretta a riemergere, leggermente in affanno.
La testa posata contro il bordo smaltato, sulle sue guance l’acqua dolce si mischiava all’acqua salata delle lacrime; la solitudine, il silenzio, il liquido tepore avevano abbattuto tutte le sue residue barriere e ora i singhiozzi, per troppo tempo repressi, la scuotevano violentemente. Tremava e sussultava come un alberello agitato dalla tempesta. Non era un pianto quieto, amaramente dolce, di commozione, né di semplice tristezza; no, era il pianto senza risoluzione di una persona disperata, carico di rabbia e di frustrazione.
Eppure, si ritrovò a pensare, per un breve momento era stata felice.
Erano stati tutti e tre molto felici.
La vita era stata davvero un letto grande e affollato, un portico soleggiato, l’odore dell’acquaragia e di tre corpi sudati, il rumore dei baci e delle risate; vivere era stato facile in quel momento, quando essere insieme voleva dire essere la gioia.
Tre vite diverse, ciascuna a suo modo precaria, che sembravano avere trovato l’equazione perfetta nel numero tre: un intreccio di sentimenti e illusioni da una parte, di voracità dall’altra. Tre persone e un’unica vita, nella quale pareva non esserci nulla che valesse la pena di essere goduto così intensamente e con altrettanta curiosità. Tutto il resto svaniva, perché insieme potevano essere una cosa sola armonizzata in tre corpi dispari, nata dalla loro fusione e assolutamente perfetta. 
Era così, ora non poteva avere più dubbi: lei, Peter e Neal si erano lanciati senza paracadute in una storia incredibilmente intensa ma che, alla fine, avrebbe stravolto il loro futuro.
Perché, come un castello di carte viene sconfitto da una raffica di vento, allo stesso modo il numero tre tendeva adesso a scomporsi, a crollare, strappandoli bruscamente dalla dimensione tutta loro che erano riusciti a creare e riportandoli alla realtà.
Elizabeth l’aveva sempre saputo, nel profondo del suo cuore, anche se questa consapevolezza solo recentemente stava venendo fuori: il numero tre non può durare. Quando il piatto della bilancia si sposta a favore di uno non potrà che finire tutto, perché la magia è solo nell’equazione perfetta tra corpi dispari, che sanno completarsi soltanto quando sono uniti in ogni senso.
Al contrario, quando l’amore verso l’uno si fa più forte e l’altro è destinato a diventare un ripiego, un’abitudine, ecco che la magia finisce, i pensieri escono dall’ombra e squarciano con bruciante chiarezza il velo delle illusioni, tirato per coprire ciò che non potrà mai durare.
La sintonia, la lealtà, la comprensione, l’equilibrio inevitabilmente crollano per far posto alla normalità delle cose, al disordine e alla volgare banalità.
Ora la bilancia pendeva decisamente in favore di Neal: la verità era davanti ai suoi occhi e, per quanto lei avesse tentato con tutte le sue forze di ignorarla, di sminuirla, di spiegarla solo come l’effetto di una situazione momentanea, adesso si era fatta talmente evidente che fare finta di nulla sarebbe stato impossibile.
Per prima cosa c’era il lavoro: sebbene Peter e Neal provenissero da due mondi distanti anni luce, infatti, il trascorrere tante ore fianco a fianco, la necessità di confrontarsi continuamente, di condividere delle decisioni importanti, li aveva avvicinati in maniera incredibile.
E allo stesso tempo aveva allontanato Peter da lei.
Per forza di cose era tagliata fuori da questo mondo, nel quale vivevano tanta parte del loro tempo; a volte anche la sera non cessavano di riparlare di casi da risolvere, indizi e sospettati lasciandola completamente in disparte. La loro sintonia era evidente: nonostante gli inevitabili screzi, l’atteggiamento sempre un po’ ambiguo di Neal e la durezza a volte eccessiva di Peter, il legame che avevano creato era diventato incredibilmente forte.
Ed esclusivo, quello era il problema.
Poi veniva il sesso: inizialmente era stato magnifico, coinvolgente, sospeso in un perfetto equilibrio nel quale non esistevano noia, né limiti, né gelosie. Anzi, per un certo tempo quello era stato il suo regno: lei dettava le regole del gioco, prendeva l’iniziativa o si negava, sceglieva cosa fare e con chi.
Poi, pian piano anche lì la magia si era esaurita e sottilmente, ma inequivocabilmente, gli equilibri erano cambiati. Ora Peter faceva sempre l’amore prima con Neal e, talvolta, solo con lui: Elizabeth si ritrovava a guardarli mentre si cercavano, i corpi intrecciati negli spasmi di una lotta incredibilmente piacevole, del tutto dimentichi del mondo circostante, e si sentiva completamente tagliata fuori dal loro piacere, dalla loro intimità.
Quante volte nelle ultime settimane erano sprofondati, esausti, nel sonno ancora strettamente avvinghiati facendola sentire un’intrusa, un incomodo e nulla più? Tante, troppe per dare la colpa alla stanchezza, al lavoro o alla routine.
E lei? Si era illusa di essere stata lei a decidere di oltrepassare il limite, infrangendo l’ultimo tabù della sua precedente vita borghese, ma in realtà era solo stata costretta a farlo. Certo in lei c’era stata curiosità, c’era stata eccitazione, voglia di scoprirsi una volta tanto donna disinibita e non più solo brava ragazza da sposare, ma soprattutto l’aveva fatto perché spinta dal terrore di perdere Peter e dall’illusione che, così facendo, l’avrebbe tenuto comunque legato a sé.
Appunto, illusione.
Perché accettando quella situazione - e anzi contribuendo a crearla - aveva solo ritardato l’inevitabile: suo marito era troppo preso da Neal e non avrebbe mai rinunciato a lui. Se l’avesse costretto a scegliere l’avrebbe perso per sempre e c’era una parte di lei che non sarebbe riuscita a sopportare un’umiliazione così cocente, soprattutto dopo ciò che aveva tollerato in quei mesi.
No, ecco che la rabbia che l’aveva dilaniata appena era venuto fuori il tradimento di Peter, azzittita e anzi soffocata sotto un mare di inebrianti carezze e seducenti illusioni, divampava di nuovo in tutta la sua violenza.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Le perfezioni provvisorie ***


Capitolo 7
 
Le perfezioni provvisorie
     
Elizabeth ci aveva provato davvero.
Aveva tentato con tutte le sue forze di tenere insieme la situazione, ma non ci era riuscita: lei, Peter e Neal insieme avevano affrontato lo squilibrio di tre corpi dispari che non si riconoscevano come tali, fino a quando la gelosia aveva frantumato il loro delicato mondo, fin quando il desiderio di possesso aveva posto fine alle loro illusioni, spezzando l’incanto del numero tre.
Perché adesso era finita, finita per sempre: man mano che quella straziante consapevolezza si era fatta strada dentro di lei, aveva anche compreso cosa doveva fare per ritrovare finalmente il suo equilibrio e la sua serenità.
Trasse il cellulare dalla borsa e lo appoggiò sul cruscotto, accostò e fermò la macchina. Poi, compose un numero di telefono: “E’ tutto a posto?” chiese soltanto, con un tremito appena percettibile nella voce, non appena dall’altra parte risposero.
Ciò che udì la soddisfece; annuì, chiuse la comunicazione e rimase in attesa.
L’aveva capito una settimana prima: era finita e oramai non si poteva più tornare indietro. La sensazione di non essere più al primo posto nei pensieri di Peter ma, anzi, di venire sempre per seconda dopo Neal aveva scavato un solco profondo dentro di lei. Rischiava d’impazzire in quella situazione.
Disperata, aveva cercato di chiarirsi con il marito.
Adesso - le palpebre chiuse e la testa reclinata sul sedile dell’auto - quella scena penosa le passava per la milionesima volta davanti agli occhi.
Neal, con la sua solita aria ammiccante, stava aiutando Peter a fare il nodo alla cravatta; quello a sua volta lo fissava divertito, con le labbra dischiuse in un sorriso. Vicinissimi, complici, occhi negli occhi, sembravano sul punto di baciarsi ancora una volta. 
Elizabeth l’aveva notato e di nuovo il sangue le era montato alla testa per la rabbia e la frustrazione: era diventata un’estranea, un’ospite in casa sua, una presenza ingombrante ma facile da tenere in disparte.
Allora era entrata nella stanza come una furia e aveva detto: “Peter, per favore, ho bisogno di parlare con te…”
“Da sola” aveva aggiunto alla fine volgendo gli occhi su Neal, il quale aveva volutamente ignorato il suo sguardo e la sua richiesta. A sua volta aveva fissato Peter, facendogli capire che se ne sarebbe andato soltanto se fosse stato lui a chiederglielo.
“Ti prego” aveva insistito Elizabeth, notando che il marito esitava “E’ importante, per noi…”.
“Beh” aveva risposto Neal con un sorriso che a lei era parso beffardo, mentre forse era soltanto spavaldo “noi comprende anche me, se non erro…”.
“Ok” aveva detto Peter alla fine, tirandoli fuori da una situazione che stava diventando estremamente incresciosa per tutti e tre “Neal, per favore, dacci un minuto!”.
Non appena il truffatore era uscito dalla stanza, senza abbandonare peraltro la sua aria di sicurezza, Elizabeth aveva iniziato a parlare. Si era ripromessa di essere sintetica e di non annoiare il marito con inutili piagnistei: fare la figura della moglie isterica e lamentosa era l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Invece poi gli occhi le si erano riempiti di lacrime e il tono si era fatto implorante, spezzato, mentre spiegava a Peter quanto stesse male, quanto la situazione fosse diventata per lei insostenibile, straziante.
Sperava di parlare al suo cuore, di riuscire di nuovo, come aveva fatto in passato prima che Neal sconvolgesse il loro matrimonio, a tirare fuori ciò che di più profondo, puro e pulito c’era nella sua anima. Sperava che ricordandogli quanto erano stati felici insieme, tutti i progetti che avevano fatto e i sogni che avevano condiviso, lui sarebbe tornato l’uomo di prima, l’uomo che amava e che aveva sposato, nell’illusione che fosse per sempre.
Ma la delusione era stata cocente: il Peter che aveva sposato certamente non l’avrebbe guardata come una creatura stravagante che dice, con tono accorato, cose senza senso. Non avrebbe sorriso vedendo i suoi occhi umidi di pianto e non le avrebbe detto semplicemente, quasi ansioso di troncare quel discorso scomodo, che si stava sbagliando, che era tutto a posto e che l’amava come sempre. Non le avrebbe detto che si stava comportando come una sciocca, che i suoi dubbi erano indegni di una donna intelligente come lei e che così rischiava di rovinare tutto. 
Rovinare tutto! Come se la sua vita non fosse già rovinata!
All’improvviso gli aveva afferrato le mani incapace di dire altro, schiacciata dalle sue parole banali, prive di sentimento, che sembravano essergli uscite dalla bocca per dovere più che per autentico desiderio di lenire il suo evidente dolore.  
Per una frazione di secondo, il vecchio Peter era tornato. O, almeno, lei si era illusa che lo fosse.
Per una frazione di secondo, guardando nei suoi occhi, aveva creduto di riconoscere ciò che l’aveva fatta innamorare di lui e per quella frazione di secondo erano stati di nuovo uniti come un tempo.
Ma era stato un solo fragile istante, che la voce di Neal che lo chiamava dabbasso ricordandogli che erano in ritardo, aveva spezzato, frantumandolo in mille pezzi.
Lui le aveva deposto un bacio fuggevole sulle labbra, leggero come un soffio di vento e altrettanto freddo, aveva afferrato la giacca e, come se nulla fosse accaduto, le aveva detto: “Buona giornata, tesoro! Ci vediamo a cena”.
A quel ricordo le si riempirono ancora una volta gli occhi di lacrime, ma Elizabeth le ricacciò indietro con esasperazione: basta.
L’aveva amato con tutta l’anima, aveva rischiato serenità, vita ed equilibrio  per lui. E un amore così grande non poteva semplicemente spegnersi, consumarsi lentamente come un fuoco che arde sempre meno vivo fino a che tutto il combustibile non si consuma e poi soffoca lentamente, nel silenzio, invisibile a tutti. Doveva infrangersi, non spegnersi.
No, un amore così grande era destinato a chiudersi in tragedia allorché l’equilibrio instabile si  fosse spezzato sotto il peso della quotidianità, delle gelosie e della brama di possesso.
Adesso che lo aveva perso e non poteva sopportare il peso della sua perdita, doveva scacciarlo - scacciare tutti e due - dai ricordi, esiliando loro e ciò che avevano vissuto insieme in un paese buio e sporco, rimuovendoli quanto poteva per continuare a sopravvivere. Ricoprire di fango ciò che erano stati affinché il male potesse attutirsi, lasciando sotto di sé soltanto le cicatrici, che non sarebbero mai scomparse. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** A New York le coincidenze non esistono ***


Capitolo ottavo
 
A New York le coincidenze non esistono
 
Era mattina inoltrata quando il telefono sulla scrivania di Elizabeth suonò. Quel pomeriggio la Burke Premiere Events avrebbe organizzato due grandi catering per illustri personaggi in città e tutto l’ufficio era in fibrillazione: impiegati correvano a destra e a sinistra, fax arrivavano ogni minuto, continui arrangiamenti dell’ultimo momento, snervanti ordini per piatti a dir poco particolari, poi disdette e ancora di nuovo prenotazioni… dire che quella era una giornata frenetica sarebbe stato dir poco!
Elizabeth dal canto suo era già sfinita così, quando prese il ricevitore e se lo portò all’orecchio, la sua voce risuonò sbrigativa mentre nella sua mente si stava già pregustando una pausa pranzo da passare in assoluto relax.
“Pronto?” chiese.
Dall’altro lato parlò una voce di donna, sottile, bassa, un tantino roca: “Parla Elizabeth?”.
“Sì, sono io” rispose.
“Credo che io e lei dovremmo incontrarci. Abbiamo un affare in comune da portare avanti” le disse la stessa, ignota voce.
“Lei chi è? Con chi sto parlando?” domandò Elizabeth, questa volta un po’ scocciata a causa della stanchezza e delle oscure parole che sentiva e alle quali non riusciva ad associare ne` un senso, ne` il viso di una persona a lei conosciuta; persona che invece sembrava conoscere lei abbastanza bene.
“Non c’è tempo per le presentazioni, al momento. Lei è una donna impegnata; lo sono anche io. Ma abbiamo in comunque un affare di cui sono certa desidera portare a termine la pratica al più presto” la interruppe la stessa voce, questa volta con una nota di irritazione forse dovuta alle sue domande.
“È esatto, non ho tempo da perdere parlando con qualcuno che non conosco e con cui non ho affari da spartire. Arrivederci” esclamò sbrigativa Elizabeth, pronta a riattaccare.
Ma venne fermata dalla voce della donna; appena in tempo.
“D’accordo Elizabeth, come desidera. Sarò breve, poi se vorrà potrà mettere fine a questa conversazione e io non la contatterò più: ho solo un nome per lei. Peter Burke”.
Elizabeth si bloccò all’istante, i sensi in allerta. Chi c’era dall’altro capo del telefono? Cosa voleva da lei e da Peter, quando lei era assolutamente certa di non avere mai sentito una voce simile prima? Di sicuro le sarebbe rimasta impressa nella memoria, visti la cadenza e il suono strano. Ma allora come faceva questa donna misteriosa a conoscerla? A conoscere Peter?
“Chi è lei?”  domandò di nuovo Elizabeth, adesso chiaramente interessata a quanto la voce misteriosa  stava dicendo.
“Una persona che sa quali sono i sui sentimenti verso di lui. E li condivide. Incontriamoci domattina, al Mad46 del Roosevelt Hotel. Lo conosce?”.
“Sì” riuscì solo a dire Elizabeth.
“Parleremo lì faccia a faccia. Le assicuro, non se ne pentirà”.
“Ci sarò” concluse Elizabeth.
Ma non ci fu risposta dall’altro capo, solo il suono di una telefonata portata a termine e poi la linea libera. La donna aveva già riattaccato, come sapendo che lei non avrebbe rifiutato: non aveva nemmeno atteso la sua conferma.
 
***
 
Una grande vetrata mostrava ai clienti una trafficata via di New York, taxi gialli che correvano su e giù, uomini e donne con completi costosi e ventiquattr’ore in mano diretti in ufficio; a un tavolino davanti alla suddetta finestra, due persone stavano sedute l’una di fronte all’altra. Due donne che si incontravano per la prima volta.
Un paio di décolletés beige, attillati pantaloni scuri a fasciare un paio di gambe snelle, una camicetta nera a maniche corte appena aperta a lasciare intravedere il solco fra i seni; un affascinante collo dalla pelle chiara, segnato da una cicatrice evidente. Un bel viso dai lineamenti marcati, capelli chiari raccolti in una coda alta, occhiali scuri a nascondere due intensi occhi nocciola.
Delle semplici ballerine azzurre, un completo chiaro giacca-pantalone color pastello, una camicetta celeste ad avvolgere un corpo morbido e a farne risaltare le forme ben definite; un viso simpatico dai tratti dolci in cui spiccavano due occhi azzurri appena truccati, con dei piccoli ma evidenti cerchi scuri appena sotto e lunghi capelli neri sciolti sulle spalle.
Fra loro, due caffè, un paio di brioches alla crema, un bicchiere di succo d’arancia per Elizabeth e uno di acqua per la donna sconosciuta a completare quella che si potrebbe definire come una perfetta colazione.
Fu Elizabeth la prima a parlare, incapace di sostenere oltre la tensione, desiderosa di sapere chi fosse la donna, cosa volesse da lei, perché avesse richiesto quell’incontro.
“Lei…” non riuscì a finire la frase, subito interrotta.
“Non mi chieda chi sono, Elizabeth. Non è necessario, non ora. E nemmeno prudente. La situazione adesso non le è chiara, ma sono certa che presto capirà il perché di tutto questo mistero. Veniamo subito al dunque: so che cosa le ha fatto Peter, so dei suoi sentimenti verso di lui e… verso quel ragazzo, Neal”.
“Come fa a sapere tutto ciò?” sbottò Elizabeth.
“A sapere che è stata tradita dall’uomo che amava? E anche da un suo carissimo amico? Che i due uomini più importanti della sua vita l’hanno tradita, insieme? O invece a sapere che l’hanno spinta a strisciare ai loro piedi, a elemosinare ancora un po’ di amore e di carezze andando a letto con entrambi perché era l’unico modo che lei aveva per evitare l’immediato fallimento del suo matrimonio? Diciamo che è il mio lavoro, se così lo vuole definire…”.
Lo sguardo perplesso e imbarazzato di Elizabeth spinse la donna a spiegarsi meglio.
“No, si tolga quell’espressione dalla faccia, mia cara. Non sono una sorta di guardona che si apposta con un cannocchiale davanti alle finestre delle case di ignari, comuni cittadini, aspettando che le coppiette si tradiscano fra loro. Non ho bisogno di fare tutta questa fatica”.
“Allora, come?” chiese di nuovo Elizabeth, con enfasi.
L’imbarazzo stava ora lasciando il posto alla paura e alla rabbia. Quella donna aveva ficcato il naso nella sua vita, nei suoi affari. Sapeva di come fosse stata costretta a mettersi in ginocchio per non perdere l’amore della sua vita; l’aveva vista umiliarsi, e questo non poteva sopportarlo, non di nuovo. Erano già troppe le persone che sapevano dei suoi patetici tentativi di salvare una storia che in realtà non poteva essere salvata e ora spuntava anche questa donna.
“Grazie a queste” rispose la bionda, passandole dei fogli di carta.
Elizabeth li aprì e rimase per un attimo impietrita. Non poteva crederci. Quelle erano le sue e-mail a zia Bessie, la sua più cara amica e confidente! Una donna non molto più vecchia di lei, sorella di sua madre, da cui andava sempre a rifugiarsi da ragazzina quando litigava con i genitori o combinava qualche guaio. L’aveva sempre sentita più simile a un’amica che non ad una parente.
Era una persona dalla mente aperta, sempre pronta a dispensare consigli utili senza mai giudicare. Quando erano iniziati i problemi con Peter le aveva confidato le sue paure e i suoi sospetti; quando era andata a letto con Neal e il marito per la prima volta, le aveva raccontato anche quello. Ultimamente, le aveva parlato dell’odio crescente che provava non solo verso di loro, ma anche verso se stessa e che non riusciva più a sopportare. Bessie le aveva detto di non fare cose sciocche, di aspettare, dare loro una seconda occasione o semplicemente prender armi e bagagli e andarsene in attesa che il tempo sistemasse ogni cosa, ma lei aveva intenzione di usare una soluzione molto più rapida: la vendetta.
“Come le ha avute?” scattò “Mia zia sta bene?”.
“Non si preoccupi per sua zia, Elizabeth, se la dovessi incontrare per strada non avrei nemmeno idea della sua faccia. Non l’ho mai incontrata di persona, non è stato necessario. Vede, esistono dei programmi che si chiamano “reverse spider”, che in base a delle frasi e delle parole chiave intercettano tutto ciò che mi serve che fa parte del traffico di e-mail che ogni giorno vengono scambiate nella nostra grande città. Nelle sue e-mail si ripetono spesso le minacce e l’intenzione di vendicarsi di suo marito e io peraltro la capisco benissimo: nessuna donna dovrebbe accettare di vivere una situazione come la sua…”.
Elizabeth rimase muta, ascoltando con attenzione. Notando che non aveva nulla da dire - dunque che evidentemente la mora era molto interessata alla sua proposta anche se cercava di non darlo a vedere apertamente - la donna continuò.
“Lei è alla ricerca di una soluzione ai suoi problemi. Non vuole aspettare oltre, non vuole più umiliarsi. Io sono la sua soluzione. Rapida, vantaggiosa, sicura. Ma non sono a buon mercato, ho il mio prezzo”.
“Quanto?” chiese Elizabeth senza esitazione.
“Diciamo, un paio di milioni di dollari. Che per lei scendono a solo un milione. Non è l’unica a cercare vendetta verso suo marito, quindi lui sarà un lavoretto omaggio, gratuito; detto in altre parole, per me sarà più un piacere personale che un lavoro. Il ragazzo, quel Neal, non so chi sia e nemmeno mi interessa; lui non è gratis ed ecco il perché del mio prezzo”.
“Lei vuole vendicarsi di mio marito, come mai?”.
“Innanzitutto, Elizabeth, smetta di riferirsi a lui chiamandolo “marito”, dopo quello che è successo nell’ultimo periodo non mi sembra proprio il caso! È Neal quello che lo può chiamare così, se proprio vogliamo dirla tutta, e certo non lei. Lo chiami Peter e prenda le distanze. In secondo luogo, ho un affare in sospeso con lui, una partita da chiudere, iniziata tanti anni fa”.
“Non capisco. Lei è stata…” esalò Elizabeth, interdetta.
“Una sua amante? Certo che no mia cara, nemmeno per sogno!” rise la donna e fu una risata bassa, inquietante. Strana.
“Allora cosa?” insisté l’altra.
“Lui, il suo Peter, è la causa della mia voce, del mio collo deturpato, di questa cicatrice rossastra; lui mi ha fatto perdere cinque anni di vita, passati in una cella più adatta a un cane che a una persona. Ora voglio la mia vendetta” concluse.
E per Elizabeth il tempo parve fermarsi in quel preciso istante, mentre la sua mente faceva gli opportuni collegamenti.
***
 
“Amore, io vado allora. Ci vediamo per cena, d’accordo?” le aveva detto Peter.
“Cerca di non fare tardi, ho in serbo per te una bella sorpresina…” gli aveva risposto lei, prima di  baciarlo e dargli una scherzosa pacca sul sedere.
“Non vedo l’ora!” aveva aggiunto lui felice stringendola, uscendo poi dalla porta per dirigersi in ufficio.
Elizabeth lo aveva salutato dalla finestra, poi si era messa a sistemare un po’ la casa. Erano sposati da appena un anno e lei amava suo marito come il primo giorno. Quella sera sarebbe stata speciale, perché Peter il giorno prima era tornato a casa eccitato e felice, annunciando alla moglie che finalmente la sua squadra aveva risolto un caso che li aveva tenuti impegnati per quasi tutto il mese precedente. Si trattava di una serie di rapine in banca.  Una era anche finita male, aveva scoperto lei dai giornali: il malvivente aveva sparato a due guardie giurate che avevano tentato di intervenire. Una di loro era sposata, la moglie incinta aveva avuto un mancamento quando due agenti erano andati a portarle il triste annuncio della morte del marito. Elizabeth aveva quasi pianto, leggendo la notizia sul quotidiano, pensando a quella povera donna e a suo figlio, e aveva sperato con tutta se stessa che Peter trovasse il colpevole e lo consegnasse alla giustizia. Il bambino non avrebbe avuto indietro suo padre, ma la consolazione di sapere che quel criminale avrebbe pagato per le sue colpe, almeno quella sì. E ora che finalmente tutto si era concluso nel migliore dei modi, era davvero sollevata.
Stava spolverando la piccola mensola accanto al camino quando aveva per sbaglio urtato il tavolino basso del salotto, facendo cadere a terra tutto ciò che vi era poggiato sopra. Era stato nel momento in cui si era chinata per raccogliere i vari fogli scivolati a terra che aveva notato la copertina di un fascicolo di Peter. Sapeva di non avere il permesso di leggere il contenuto, si trattava di affari riservati dell’FBI, lei non era un’agente e non era autorizzata a ficcare il naso in faccende come quella, eppure -  pensò - non era mica colpa sua se i fogli erano caduti proprio sotto al suo naso e lei ora li doveva rimettere in ordine!
Si era seduta sul divano, cercando di riordinare il fascicolo e lanciando ogni tanto un’occhiatina curiosa ai vari paragrafi, ma li aveva trovati per la maggior parte incomprensibili e indecifrabili. Sembravano scritti in una lingua propria: “il poliziese” aveva pensato con un risolino. Poi era arrivata a una pagina che sembrava essere un resoconto di un arresto e aveva realizzato che in realtà aveva fra le mani niente meno che il verbale dell’operazione volta a fermare il rapinatore di banche. Si era ritrovata quasi senza accorgersene a leggere dell’arresto, gioendo per la buona riuscita dell’operazione che era stata coordinata dall’FBI con l’aiuto del dipartimento di polizia e infine era rimasta senza fiato davanti a quella che probabilmente era stata una sorpresa non solo per lei, ma anche per gli agenti addetti al caso: il criminale che era stato capace di uccidere a sangue freddo due uomini, era in realtà una giovane donna sui venticinque, ventisei anni. Cheryl Hepsie.
 
***
 
“Lei è Cheryl Hepsie, vero?”  mormorò Elizabeth, che nella sua mente aveva confrontato la fotografia di quella giovane donna e il viso che si trovava davanti a lei in quel momento, notando finalmente le somiglianze. Ora tutto tornava.
La donna si limitò a un cenno di assenso e a un sorriso compiaciuto; evidentemente la moglie del federale era una donna sveglia, più di quanto avesse pensato all’inizio.
“Credevo fosse stata mandata in prigione…” aggiunse Elizabeth.
“E` così, infatti. Da dove pensa provenga questa cicatrice, uh?” rispose di rimando l’altra.
“Come se l’è fatta?”  non poté fare a meno di chiedere la mora, notandone la forma irregolare e  sgradevole a vedersi.
“Il carcere non è un posto per signorine” si limitò a dire Cheryl.
“Perché si trova qui? Ha ucciso due uomini a sangue freddo, credevo le avrebbero dato almeno vent’anni per una cosa simile, anche se evidentemente non è così…” ribatté Elizabeth.
“Chi ha detto che li ho uccisi? Nessuno ha visto in volto quel rapinatore, non fu mai trovata una pistola. Potrei non essere stata io, ci ha mai pensato?” fu l’enigmatica risposta di Cheryl.
“Il fatto che lei sia qui a propormi di uccidere Peter e il suo amante per me, a sangue freddo: questo me lo dice” fece l’altra.
“E il fatto che lei abbia già accettato l’accordo mi dice che lei non è meglio di me, in questo momento, Elizabeth. Perché lei ha già accettato. Ho ragione?” chiese Cheryl.
“Sì…” confermò la mora, senza abbassare lo sguardo.
“D’accordo, lasci che pensi io a tutto. Avrà presto mie notizie; sarà un vero piacere lavorare con lei” concluse Cheryl.
Si alzò, lasciò i soldi della colazione sul tavolo e uscì tranquillamente dal locale, senza mai guardarsi indietro.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Il tre e i tanti ***


Capitolo nono
 
Il tre e i tanti
 
Era una giornata come le altre al Bureau.
Peter e la sua squadra stavano dando la caccia da alcune settimane a un inafferrabile rapinatore seriale, specializzato in furti di opere d’arte, che la fantasia dell’agente speciale Burke aveva soprannominato, con gusto in verità un po’ macabro, Jack The Robber.
Per carità, non si trattava certo di un sanguinario serial killer - altrimenti non sarebbero stati loro a indagare - ma di un abilissimo ladro che in comune con il temibile Jack della Londra di fine ottocento aveva un unico, ma rilevante, elemento: il desiderio di sfidare la polizia.
Infatti, come l’assassino di Whitechapel si divertiva a mandare alle forze dell’ordine lettere di scherno in cui descriveva nei dettagli le atrocità che aveva e che avrebbe commesso, così Jack The Robber amava riprendere le sue malefatte con una microcamera ad alta definizione che portava addosso e inviare i filmati agli agenti che sapeva essere sulle sue tracce.     
Così, due volte nelle ultime settimane Peter e i suoi erano stati costretti ad “ammirare” le gesta del brillante delinquente, a seguirne i movimenti in soggettiva mentre si introduceva indisturbato in gallerie d’arte e case private, dopo aver neutralizzato qualsiasi sistema d’allarme avesse trovato sulla sua strada, tramortiva il personale di sorveglianza eventualmente presente e se ne andava via col suo bottino, tranquillo come se stesse tornando da un pic-nic.
Gli investigatori sapevano che si trattava di un uomo di circa quarant’anni, alto un metro e settantacinque e di corporatura atletica; ovviamente non ne conoscevano l’aspetto, anche perché i testimoni avevano riferito che si travisava con un passamontagna, ma speravano che, guardando e riguardando i filmati, prima o poi sarebbero riusciti a cogliere un dettaglio in grado di metterli sulla pista giusta. Forse un giorno o l’altro Jack avrebbe commesso un errore e il suo esibizionismo l’avrebbe tradito.
Era stato un giorno come gli altri, al Bureau, fino al momento in cui l’agente speciale Diana Berrigan attraversò quasi di corsa tutto l’ufficio, salì precipitosamente le scale ed entrò nella stanza dove Peter stava tentando, insieme a Neal, di capire come diamine avesse fatto l’inafferrabile criminale a eludere gli allarmi l’ultima volta, andandosene indisturbato da una galleria privata di Soho con un Basquiat da due milioni di dollari sotto il braccio.
L’agente speciale era irritato, inutile nasconderlo: nonostante si stessero impegnando tutti al massimo e nonostante le preziose consulenze di Caffrey, brancolavano ancora nel buio e il pensiero che quel delinquente continuasse a prendersi gioco di loro lo mandava in bestia.
Quando Diana irruppe nel suo ufficio per annunciare che un corriere aveva appena consegnato al Bureau un nuovo video firmato Jack The Robber, perciò, Peter - prima ancora di decidere se essere furioso perché il bastardo aveva messo a segno un altro colpo, oppure speranzoso che almeno quella nuova traccia li aiutasse con le indagini - era scattato in piedi e aveva ordinato alla collega di avvisare Hughes e di chiamare a raccolta tutta la squadra in sala riunioni per visionare assieme il filmato.
Lui e Neal furono i primi a entrare nell’ampia sala e a sedersi intorno al  tavolo ovale, seguiti subito dopo dal capo e dagli altri agenti che lavoravano con loro a quel caso. Jones si attardò un attimo sulla soglia, trattenuto da una telefonata al cellulare; durò solo pochi secondi e nessuno prestò attenzione alle due parole che l’uomo pronunciò, con un’espressione indecifrabile sul volto e in tono assolutamente piano: “Tutto ok”.
“Diana” iniziò Peter, quando tutti furono al loro posto “il video è stato recapitato con le stesse modalità delle altre due volte?”.
La donna annuì.
“Si, capo” rispose la donna, posando sul tavolo il piccolo involucro di cartoncino colorato che il corriere aveva consegnato poco prima “hanno prenotato il ritiro con una telefonata in uscita da un cellulare usa e getta irrintracciabile, dando un nome falso e pagando con una carta di credito clonata…l’unica differenza è che stavolta il pacco era indirizzato personalmente a te e non alla White Collar…”.
“Sta diventando un fatto personale…” commentò Neal, fissando sul federale uno sguardo che tutti in quella stanza - tranne uno - interpretarono come carico solo di amichevole preoccupazione.
“Ok” tagliò corto l’altro “Diamo un’occhiata!”.  
 
Penombra, silenzio.
Una stanza da letto ordinata, pulita, borghese; un mazzo di tulipani colorati, appena un po’ sfioriti, nel vaso di cristallo sul comò.
D’improvviso, con un tonfo e un gridolino soffocato, un ragazzo cade pesantemente a faccia in giù sul letto; ha i polsi serrati dalle manette, ma la sua espressione è tutt’altro che preoccupata. L’uomo che lo ha spinto si allenta con un gesto la cravatta e poi si sdraia su di lui.
“Sai che potrei liberarmi di questi affari in pochi secondi vero?” ridacchia il truffatore; la sua voce tradisce l’eccitazione di sentire il corpo del compagno gravare su di lui con tutto il suo peso.
Il poliziotto annuisce e sorride.
“E so anche che non lo farai…” gli dice, allungandosi su di lui.
“Perché adori farlo così” gli mormora subito dopo all’orecchio “almeno quanto lo adoro io…”.
Peter armeggia qualche istante con la cintura dei suoi pantaloni, riuscendo non senza difficoltà ad aprirla; poi, lasciando l’altro ancora immobilizzato sotto di lui, glieli tira giù con energia insieme ai boxer. Si solleva un istante, giusto il tempo necessario per liberarsi della camicia, e poi riprende la posizione di prima.
Lo bacia a lungo, con passione, lasciandolo senza fiato: Neal sente che le sue dita si fanno strada dentro di lui dilatandolo dolorosamente, ma la sua bocca e la sua lingua rendono il tutto decisamente più sopportabile. Si abbandona a quelle carezze ancora per un po’, ma stavolta non vuole che vada come al solito.
Peter è talmente accecato dalla violenza delle sensazioni che sta provando da non rendersi conto che il truffatore è riuscito ad aprire le manette: con un gesto inaspettato lo coglie di sorpresa e lo rovescia sul letto, bloccandogli a sua volta i polsi sopra la testa.
“Allora” esclama il giovane, trionfante, a pochi centimetri della sua faccia “adesso chi è di proprietà di chi?”. 
Peter è senza dubbio il più forte, la presa di Neal non è particolarmente salda e il federale potrebbe liberarsi senza un’eccessiva fatica, eppure non ci prova neanche; almeno per il momento accetta il gioco del suo amante. Il bello del loro rapporto è anche questo: trasgredire le regole, giocare con i ruoli che entrambi ricoprono in pubblico, ribaltandoli a volte nel privato.
Neal continua il suo scherzo provocante: sopra di lui, lo bacia dietro l’orecchio, poi sul collo e poi ancora più giù.
“Hai il diritto di rimanere in silenzio…” bisbiglia, subito prima di prendergli tra le labbra un capezzolo e iniziare a tormentarlo con la lingua, strappando al poliziotto un gemito appena udibile.
“Se rinunci a questo diritto tutto ciò che dirai potrà essere usato contro di te in Tribunale…” mormora dopo qualche decina di secondi, abbassandosi lentamente  fino a raggiungere l’ombelico, che contorna con la lingua e poi penetra piano piano con movimenti allusivi, bagnandolo di saliva. E poi più giù, fino alla sottile linea di peli scuri che dall’ombelico giunge all’inguine.
 
Penombra. Silenzio.
Un ufficio come tanti, ordinato, pulito. Un tronchetto della felicità dall’aria tutt’altro che felice vegeta, sbiadito, in un angolo accanto alla porta. 
Giù in strada, oltre i vetri delle finestre, traffico, clacson impazziti e caos; dentro, il tempo sembra cristallizzato in muto sgomento.
D’improvviso, con un tonfo il fascicolo che Neal teneva tra le mani cade a terra, mentre Diana lancia un gridolino di sbigottimento e si porta le mani alla faccia, solo per un istante.
Peter Burke scatta in piedi come una furia, afferra il telecomando del proiettore e tenta disperatamente di interrompere quell’incubo, ma è evidente che chi ha preparato lo spettacolo ha fatto in modo che non fosse possibile calare il sipario tanto facilmente.
I secondi scorrono interminabili e nell’imbarazzo generale nessuno sa cosa fare, cosa dire, come muoversi, se andarsene o restare: troppo enorme ciò che hanno appena visto, troppo inaspettato e incredibile ciò che stanno continuando a vedere e a sentire.
A sentire…
Gemiti, ansiti soffocati, il cigolio ritmico della rete metallica del letto.
Neal è impietrito, sembra quasi incapace di respirare.
Hughes balza in piedi, si porta una mano al petto e lancia un grido acuto di dolore, subito prima di accasciarsi sulla sedia; è cianotico, il respiro gli muore in gola.
“Peter…Peter…” mormora, prima di chiudere gli occhi “Mio Dio, cos’hai fatto…”
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il tre non è mai stato un numero, perché è l'angoscia e la sua ombra ***


Capitolo decimo
 
Il tre non è mai stato un numero, perché è l’angoscia e la sua ombra
 
“Ahi!” strillò Elizabeth e subito si portò alla bocca il dito che aveva appena rischiato di troncarsi di netto col coltellaccio da cucina che stava maneggiando, procurandosi per fortuna solo un piccolo taglietto. Succhiando via la gocciolina di sangue che era uscita dalla lieve ferita, rimproverò se stessa per la sua distrazione: pensieri troppo tormentosi le affollavano la mente e l’idea di cercare di distendere i nervi cucinando - che prima le era sembrata eccellente - adesso si rivelava del tutto inutile e anzi persino dannosa.
Un’ansia tremenda la attanagliava quel pomeriggio e, del resto, chiunque altro al suo posto sarebbe stato ugualmente turbato, dato che era costretta ad attendere gli eventi senza poter nemmeno avere la conferma che ciò che aveva con tanta cura organizzato fosse andato come doveva. Infatti, come d’accordo si era disfatta del cellulare usa e getta che aveva usato fino a poche ore prima per contattare il suo complice e chiamarlo adesso, con uno dei numeri che Peter avrebbe riconosciuto senza difficoltà se solo avesse controllato i tabulati, sarebbe stata un’imprudenza imperdonabile. 
Certo, Jones al telefono l’aveva rassicurata, ma le sue laconiche parole non erano bastate a far svanire l’angoscia che qualcosa potesse essere andato storto e anzi l’avevano, in qualche modo, persino ingigantita: adesso non poteva più tornare indietro, il primo passo era stato compiuto.
Si era imposta di non lasciare che la sua fantasia immaginasse la scena che si doveva essere già, a quell’ora, consumata davanti allo sguardo fintamente impassibile del giovane investigatore: una parte di lei era, infatti, divorata dai sensi di colpa nei riguardi di Peter e Neal. Di Peter, in particolare, dato che sapeva quanto amasse il suo lavoro e quale immenso dolore gli avrebbe provocato perderlo.
Perché di questo era quasi certa: se la cosa si era svolta come doveva e ciò che avrebbe dovuto rimanere il più inconfessabile dei segreti si era invece trasformato nel più appetitoso scandalo che la storia recente dell’F.B.I. potesse ricordare, l’agente speciale Peter Burke avrebbe sicuramente dovuto dire addio a tutte le sue ambizioni di carriera nel Bureau.
 Sarebbe già stato un miracolo non essere licenziato; sempre che, beninteso, lui accettasse di sopportare - pur di rimanere un federale - il palese disprezzo dei suoi superiori e la quotidiana tortura delle battute volgari, delle risatine dietro le spalle, degli sguardi ironici o pieni di riprovazione dei colleghi.
Nulla gli sarebbe stato risparmiato, questo era chiaro.
Elizabeth lo sapeva e aveva dovuto forzarsi a prendere quella decisione, dopo avere a lungo tentennato e sofferto in silenzio, consapevole dello strazio e dell’umiliazione che avrebbe inflitto all’uomo che ancora, nonostante tutto, non riusciva a smettere di amare.
Lo amava. E ciò che aveva fatto l’aveva fatto per amore, ripeteva a se stessa quasi ossessivamente: per amore di ciò che erano stati insieme lei e Peter fino a pochi mesi addietro, per amore di quel pezzetto di tempo bagnato di felicità che era stata la loro vita prima che vi irrompesse Neal.
Neal…
Tante volte nelle ultime settimane si era chiesta se fosse arrivata a odiare almeno lui e la risposta era stata, inevitabilmente, no: non lo odiava come avrebbe potuto e forse dovuto. Se ne era fidata fin dal primo istante, senza ancora nemmeno conoscerlo, e anzi, a voler essere sottili, era stata proprio lei a rendere possibile la sua liberazione, convincendo il marito a credere nella possibilità di farne un uomo migliore.
Nell’affollata tristezza degli ultimi tempi, si era maledetta all’infinito per averlo fatto! Dio, se avesse taciuto, se non si fosse impicciata nelle questioni di lavoro di Peter, se non avesse lei per prima subito il fascino romantico della storia del giovane truffatore che evade di prigione per inseguire il suo amore inquieto…
Se, come faceva di solito, non si fosse intromessa, magari Peter non avrebbe accettato la proposta di Neal, lui sarebbe rimasto in galera e loro due uniti e felici come un tempo.  
Ormai il dito non le faceva più male ed Elizabeth si sciacquò le mani sotto il rubinetto, poi aprì il forno per controllare la cottura del solenne brasato la cui preparazione l’aveva tenuta impegnata per tutto il pomeriggio e che doveva costituire la sua fonte di distrazione e, al contempo, una specie di rozzo alibi.
Mancava poco, era quasi pronto; si versò un bicchiere di vino rosso, ne prese un sorso e si sedette, sprofondando subito di nuovo nelle sue angosciose elucubrazioni.
Già - rifletté con amarezza - forse era stato il destino a far entrare Neal nelle loro vite, affinché ne fossero sconvolte per sempre.
Non lo odiava, no. Come, del resto, non lo aveva mai amato.
Era affezionata a lui e in qualche maniera ne aveva subito l’incredibile fascino, come del resto capitava a tutti coloro che, per avventura, gli si fossero avvicinati.
Non era una persona cattiva, ne era sicura. Era un ragazzo impulsivo, sfrontato, abituato a ottenere tutto ciò che desiderava subito e senza alcuno sforzo particolare: voleva Peter e se l’era preso, senza pensare al dolore che le stava causando, senza riflettere sulle conseguenze che questo poteva avere sul suo matrimonio. Tradendo la sua fiducia, l’affetto di lei che per prima l’aveva accolto in casa propria con generosa ingenuità!
A quel pensiero, la rabbia feroce e tumultuosa che le aveva fatto ribollire il sangue nelle settimane precedenti e che l’aveva spinta ad accettare l’incontro con una donna come Cheryl tornò prepotentemente ad agitarle la mente. Eppure, in cuor suo Elizabeth ancora dubitava di volere davvero giungere all’ultimo, estremo, passo del cammino tragico che aveva intrapreso e continuato quel pomeriggio.
Quando fosse arrivato il momento, ne sarebbe stata capace? Oppure a vendicarla sarebbe stata sufficiente l’umiliazione che Peter e Neal avevano subito poco prima? 
Forse si era lasciata trascinare dal desiderio di vendetta di quella donna, dall’odio contro Peter che traspariva da ogni suo gesto, da ogni sua singola parola… a ogni modo, c’era ancora tempo: non doveva decidere ora. Avrebbe potuto tornare indietro, si era lasciata una porta aperta: se non fosse stata sicura di voler andare fino in fondo, avrebbe detto a Cheryl che non se ne faceva più niente, che ci aveva ripensato e che se voleva poteva anche tenersi i soldi come prezzo per il suo disturbo.
Ma adesso la priorità era affrontare quei due.
Avrebbe dovuto chiamare a raccolta tutte le energie che le rimanevano per sostenere e portare a compimento il suo piano: lei, che non era mai stata capace di fingere, sarebbe stata costretta a mentire per allontanare i sospetti da sé, sperando di riuscire a ingannare Peter e Neal sul suo ruolo nella diffusione del video.
Non le sfuggiva certo l’estrema difficoltà del compito che si prefiggeva; raggirare con la sua aria innocente un bugiardo di professione e uno che, per lavoro, era addestrato invece a riconoscere e scovare le menzogne!
Poteva solo sperare che i due fossero troppo sconvolti per ragionare lucidamente, che in loro - in Peter, soprattutto - i sensi di colpa e il bisogno di trovare conforto fossero più forti della ragione, che senza dubbio faceva di lei la prima e principale sospettata.
In quell’istante udì la porta di casa aprirsi e subito essere richiusa con violenza; le voci di suo marito e del giovane truffatore, che le giunsero attraverso la porta chiusa della cucina, suonavano concitate e si sovrapponevano in maniera scomposta. Stavano discutendo: dal loro tono, Elizabeth capì che, sebbene fossero entrambi sotto shock, stavano affrontando la cosa diversamente.
La voce di Neal, quasi incrinata dal pianto in alcuni momenti, esprimeva infatti soprattutto paura e vergogna, mentre quella di Peter era carica di rabbiosa disperazione. Suo marito era furibondo; sapeva riconoscerne la collera e, in quel momento, sentiva chiaramente tutta la frustrazione e l’ira che le sue parole rivelavano.
Non riuscì a reprimere un sorriso: forse quella poteva essere una via d’uscita, e proprio quando tutto pareva perduto! Se Peter avesse attribuito al suo giovane amante la responsabilità di averlo trascinato nello scandalo che gli aveva appena distrutto la reputazione e la carriera, magari si sarebbe allontanato da lui, avrebbe compreso il terribile errore in cui era caduto e sarebbe tornato da lei …
Elizabeth sentì il cuore allargarsi come non le accadeva da mesi, mentre dentro di lei si riaccendeva l’esile fiammella della speranza troppo a lungo sopita: forse era ancora possibile superare quell’orrenda situazione e rimettere insieme i pezzi del loro rapporto.
Cullandosi in questa dolce illusione, aprì la porta della cucina e, passandosi nervosamente le mani (del tutto asciutte e pulite, peraltro) sul grembiule, si avvicinò ai due uomini.
Neal e Peter erano talmente presi dalle loro parole che per qualche istante non fecero nemmeno caso al fatto che una terza persona fosse entrata nella stanza; questo concesse a Elizabeth la possibilità di guardare entrambi per un breve momento, studiandone gli atteggiamenti.
Come aveva immaginato, il truffatore pareva sull’orlo delle lacrime, il bel viso pallido e corrucciato, le mani scosse da un tremito appena percettibile. Peter, al contrario, si comportava come un leone in gabbia: i gesti scomposti, il tono di voce alterato, il muoversi inutilmente frenetico da un capo all’altro della piccola camera rivelavano che era fuori di sé.
La donna a un tratto comprese la verità: Neal era terrorizzato all’idea di poter essere nuovamente sbattuto in prigione a causa della relazione impropria con il suo agente di sorveglianza, che avrebbe molto probabilmente mandato a puttane l’accordo che aveva raggiunto con l’F.B.I. Peter, invece, vedeva in ciò che era appena accaduto - oltre a un’umiliazione cocente dalla quale forse non sarebbe mai riuscito a riprendersi - la fine di tutto ciò in cui aveva creduto, a cui aveva dedicato tempo, energia e passione per buona parte della sua esistenza. 
Elizabeth deglutì, trasse un respiro profondo e avanzò verso i due, pregando mentalmente il Dio protettore delle donne tradite di non farle tremare la voce.
“Ragazzi, ma che succede?” esclamò, tirando fuori la migliore espressione sorpresa che fosse riuscita a inventarsi in quel momento. Ciò che non si aspettava - e che paradossalmente, invece di metterla in difficoltà, le fu alla fine di aiuto costringendola a tirare fuori le unghie - fu la reazione che ebbe Neal non appena si accorse di lei.
Entrambi, sentendo la sua voce, emersero dalla sorta di mondo a parte in cui erano stati fino a quel momento rinchiusi e si voltarono di scatto verso di lei, ma il truffatore con un gesto improvviso le si appressò e la prese per un braccio quasi facendole male. Conoscendolo come lo conosceva e sapendolo pressoché incapace di gesti violenti, Elizabeth a quel punto si convinse ancora di più di quanto il ragazzo fosse stravolto e spaventato.
“Vuoi forse dire che non ne sai niente?” la aggredì “Che questo schifo non è stato opera tua?”.
Una crudele soddisfazione s’impossessò di Elizabeth, che dentro di sé sorrise al pensiero di quanto fosse riuscita a spingere vicino al baratro l’uomo che le aveva rovinato la vita; inoltre, era chiaro che l’atteggiamento di Neal andava a suo vantaggio.
Infatti, senza rispondergli e senza cercare di liberarsi dalla sua stretta, si rivolse esclusivamente a Peter, guardandolo negli occhi. “Peter, ma…” biascicò, in una simulazione quasi perfetta di un tono meravigliato e sconvolto “Io non capisco, che cosa sta dicendo? Volete spiegarmi cos’è accaduto e perché Neal se la prende con me?”.
Peter non riuscì a rispondere perché il truffatore lo anticipò, attirandola a sé per il braccio e scuotendola forte.
“Smettila di fingere!” gridò, gli occhi velati di lacrime di rabbia e disperazione “Sei stata tu! Tu eri l’unica a sapere di noi!”.
Elizabeth sollevò ancora una volta sul marito uno sguardo supplice, che riuscì a sembrare innocente, e questa volta ottenne il risultato voluto perché Peter si interpose tra di loro e con un gesto netto la liberò dalla presa di Neal.
“Basta!” disse il federale in tono fermo (ed Elizabeth, conoscendolo, si rese conto dell’immane sforzo di volontà che gli costava mantenersi calmo in quel momento), bloccando il ragazzo con entrambe le mani.
“Basta” ripeté, guardando prima l’uno e poi l’altra “Ti sbagli, non può essere stata lei … perché avrebbe dovuto farlo? Non pensi che quel filmato abbia rovinato anche la sua di vita, oltre alle nostre?”. 
Per un istante, mentre fissava i due uomini che si trafiggevano con gli sguardi in un’atmosfera carica di palpabile tensione, Elizabeth Burke s’illuse che quella sarebbe stata la fine della storia tra suo marito e il giovane delinquente che si era portato in casa.
Aveva funzionato, allora: se lo scandalo era riuscito ad allontanarli, voleva dire che i sentimenti che li avevano uniti non erano saldi nemmeno un decimo di quelli che sapeva esistere ancora tra lei e suo marito. L’avrebbe riconquistato, ora ne era sicura: ce la poteva fare!
Ma il risveglio che colse Elizabeth fu tanto più amaro quanto era stato dolce, anzi dolcissimo, il sogno che aveva coltivato per qualche breve attimo.
Ciò che non si aspettava, infatti, fu di vedere Peter mutare improvvisamente espressione: il suo volto, che un istante prima esprimeva rabbia e delusione, si colorò di compassione e profonda dolcezza. Annullò in un gesto la distanza che lo separava dal truffatore e lo strinse a sé forte come se da questo dipendesse la sua, la loro stessa salvezza; lo tenne tra le braccia, il volto affondato nei suoi capelli, mormorando parole incredibilmente tenere fino a quando il tremito che gli percorreva le membra non si attenuò.
A Elizabeth non occorse altro per capire una volta per tutte la verità; non erano necessarie parole, il sentimento che li legava riluceva davanti a lei in tutta la sua forza. Meravigliosa e insieme tragica.
Quei due non avevano bisogno di nessuno, erano perfettamente bastevoli a loro stessi: non c’era spazio per altri in quella casa, tanto meno per lei.
Incapace di reagire, annichilita dalla rivelazione che l’aveva appena colpita come un macigno, indietreggiò fino alla cucina, si gettò su una sedia e scoppiò in un pianto irrefrenabile.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Cheryl o della vendetta ***


Capitolo undicesimo
 
Cheryl o della vendetta
 
Cheryl non stava nella pelle mentre prendeva la borsetta, lasciava i soldi sul tavolo e usciva dal lussuoso caffè, anche se nessuno avrebbe potuto dirlo. Il suo passo non era affrettato né nervoso, la sue mani erano ferme mentre infilava una giacca per proteggersi dalla leggera arietta mattutina, il suo volto era calmo e disteso, gli occhi nascosti dietro alle lenti scure non lasciavano intravedere la sua eccitazione, grazie anche a tanti anni passati a dissimulare le sue naturali e reali reazioni.
Ma dentro di lei qualche minuscolo e prodigioso omino aveva deciso che quel giorno valeva la pena di essere ricordato con una festa grande e probabilmente, se si fosse potuto guardare nel suo petto, chiunque avrebbe visto Rabbia Vendetta Freddezza Calcolo e Soddisfazione accendere i fuochi d’artificio, correre sulle montagne russe, abbuffarsi di pasticcini alla crema ed infine ubriacarsi di champagne.
Non capita tutti i giorni di coniugare il piacere con il dovere, ma l’opportunità di vendicarsi contro l’uomo responsabile del fallimento di una prospera carriera nel mondo del crimine e di un corpo splendido ora deturpato… beh, questa era un’occasione più unica che rara!
Ora, bisognava solo programmare tutto con mente fredda, nulla doveva andare per il verso sbagliato. Ma non quel giorno, no, quel giorno lo avrebbe passato crogiolandosi nella soddisfazione più assoluta: era festa grande o no?!
 
***
 
Iniziò le sue ricerche come ogni cittadino newyorkese, anzi come ogni cittadino del mondo, avrebbe portato avanti un qualsiasi lavoro di indagine richiesto dalla scuola o dal datore di lavoro: con internet.
Cheryl passò la settimana successiva al suo incontro con Elizabeth documentandosi il più possibile sui suoi obiettivi; a dire la verità, la maggior parte delle sue indagini si concentrarono su Neal Caffrey, dato che dell’agente speciale Peter Burke avrebbe potuto raccontare vita, morte e miracoli se qualcuno glielo avesse chiesto.
Da quando l’aveva arrestata quell’uomo era diventato la sua mania, esercitava su di lei un’attrazione così forte che aveva continuato a seguire i suoi casi anche dalla prigione. Non lo avrebbe ammesso per nessun motivo al mondo, ma quel Burke la intrigava parecchio, era incuriosita dal suo modo di lavorare, di pensare e credeva che, studiandolo attentamente, avrebbe evitato in futuro di commettere gli stessi errori che l’avevano fatta catturare. E in effetti proprio questo era successo, dato che da quando era uscita dal carcere nessun poliziotto si era mai presentato alla sua porta con un mandato d’arresto.
Poi, dopo la lite con un paio di donne che erano come lei ospiti dell’hotel a cinque stelle gentilmente pagato dello Stato, si era ritrovata in infermeria, col collo coperto di bende e dolori acutissimi che la tormentavano, una voce prima inesistente e poi terrificante e, quando le fasciature erano state tolte, anche una cicatrice degna dei migliori film dell’orrore. In quel momento, Peter Burke era diventato la sua ossessione, il pensiero che non riusciva a scacciare mai dalla mente, che la teneva sveglia la notte e le aveva dato la forza di sopravvivere anche agli ultimi mesi di prigione. Quando era uscita, la prima cosa che aveva pensato di fare era stato un omicidio: quello di Peter, ovviamente.
E, sempre ovviamente, questa sua idea non aveva visto una concreta realizzazione. Una vecchia conoscenza l’aveva rintracciata e contattata prima che portasse a termine la sua vendetta e le aveva commissionato l’omicidio di un concorrente in affari di cui voleva sbarazzarsi. Da quel giorno, la sua nuova carriera era iniziata. Aveva avuto a che fare con una serie di persone - nel suo caso clienti- praticamente infinita, da direttori di imprese desiderosi di sbaragliare la concorrenza ad amanti desiderosi di vendetta, a mariti pronti a sbarazzarsi della moglie (e viceversa, ovvio); a volte erano stati loro a trovare lei, attraverso un abile gioco di passaparola, altre volte lei aveva rintracciato vittime e clienti.
E ora finalmente l’occasione di una vita si stava presentando e lei non aveva intenzione di lasciarsela sfuggire, di rovinarla con qualche sciocco errore o imprecisione; ecco perché si era costretta a rileggere ogni file riguardante Peter anche se alcuni li sapeva a memoria. Per fare quello, aveva impiegato non più di due giorni. Durante il resto della settimana, si era invece concentrata su Neal Caffrey. Doveva ammetterlo, il ragazzo sembrava avere talento; non a caso, aveva capito immediatamente, aveva attirato su di sé l’attenzione dell’agente, prima in quanto sospettato e ricercato, poi come collega, pian piano come amico e confidente, infine come amante.
Aveva letto ogni articolo di giornale trovato che lo riguardasse ed era rimasta anche lei affascinata da alcuni colpi geniali che aveva messo a segno, dal talento così evidente che possedeva, dalla mente brillante che aveva intuito essere artefice di alcuni piani perfetti; quel ragazzo era un vero mago della truffa, non a caso Peter aveva impiegato anni a prendere lui e non alcune settimane come era accaduto con lei.
Si`, un ragazzo intelligente a dire poco e con uno charme capace di affascinare chiunque, una cultura che colpiva davvero, una bellezza che non si poteva fare a meno di notare; chissà, forse in un’altra vita sarebbero potuti essere ottimi complici… Peccato che il nuovo giocattolo di Mister Burke sembrasse odiare le armi; se così non fosse stato, avrebbe persino potuto sposarlo! Sarebbero stati davvero una bella coppia, loro due!
Dopo una settimana passata chiusa in casa a leggere e documentarsi, aveva deciso che era giunto il momento di contattare di nuovo Elizabeth e passare alla fase due del suo piano: il lavoro sul campo.
 
***
 
Non avrebbe potuto scegliere giornata migliore per iniziare il suo studio “da vicino” delle prede che le erano state assegnate. Quella mattina fresca e limpida, poco dopo le sette e trenta, con solo un caffè a riscaldarle lo stomaco ancora vuoto, Cheryl si era appostata su un’auto scura poco distante da casa Caffrey. Aveva parcheggiato e spento i fanali, mimetizzandosi con tutte le altre vetture ferme a lato strada, e si era messa a osservare quella sorta di castello in cui Neal pareva vivere; se qualcuno l’avesse vista ancora dentro l’auto, avrebbe semplicemente dedotto che fosse in attesa di qualcuno che ancora doveva uscire di casa per recarsi al lavoro, a fare shopping o chissà dove. Nulla di particolarmente strano, a New York, la città che non si ferma mai.
Aveva aspettato pazientemente che arrivasse Peter Burke a prendere Neal in auto per andare in ufficio e li aveva seguiti per scoprire il loro itinerario abituale. Anche se non aveva intenzione certo di portare a termine il suo incarico la mattina, in mezzo alle affollate e trafficate strade newyorkesi, non voleva perdersi nemmeno un dettaglio della vita di quei due; nulla doveva sfuggire al suo controllo.
Così, mentre guidava tenendo d’occhio la loro auto da una distanza di sicurezza, Cheryl si era ritrovata a canticchiare come una bambina il giorno di Natale e a ridere felice, ricordando la conversazione avuta con Elizabeth meno di ventiquattro ore prima.
Aveva chiamato la donna per accertarsi che fosse ancora convinta della scelta fatta e ne aveva ricevuto la conferma. Poi si era fatta dare l’indirizzo di Neal e aveva scoperto che viveva in una zona molto lussuosa, in un appartamento di un’anziana ricca donna di nome June. Infine, si era stupita per una frase che le aveva detto ridacchiando Elizabeth: “Non meravigliarti se li vedrai procedere lentamente e senza alcuna fretta lungo la strada verso l’ufficio e non temere di essere stata scoperta. Tu non c’entri nulla…”.
Incuriosita, aveva chiesto spiegazioni alla donna, la quale le aveva raccontato della vendetta attuata ai danni del marito che aveva architettato e messo in atto proprio in ufficio: un filmato di Peter e Neal insieme, trasmesso ad alto volume su un monitor del ventunesimo piano dell’edificio dell’FBI. Tutta la squadra di Peter e Neal lo aveva visto, il vecchio capufficio era persino stato colto da malore e i due ora si vergognavano come ladri all’idea di farsi vedere da amici e colleghi.
Se Cheryl aveva inizialmente creduto che quella donna fosse solo una sorta di casalinga frustrata e umiliata, evidentemente depressa, dopo quello che le aveva raccontato aveva cambiato radicalmente idea: Elizabeth Burke non era una di quelle persone che si facevano sottomettere facilmente, l’aveva dimostrato con quel suo gesto, era una donna di spirito in fondo. Per un momento, Cheryl si chiese se non avrebbe deciso di porre fine a tutta la vicenda da sola, nel caso lei non l’avesse scoperta e contattata; in fondo, non dubitava che anche questa fosse una concreta possibilità.
 
***
 
Dopo alcuni giorni di pazienti pedinamenti e ulteriori ricerche, Cheryl aveva finalmente elaborato un piano per porre fine a tutta quella storia. Misses Burke l’aveva contattata tramite e-mail e con un messaggio in codice le aveva detto di avere oramai pronti anche i soldi (Cheryl non sapeva dove li avesse recuperati, e nemmeno la cosa le interessava, a volerla proprio dire tutta) e di essere solo in attesa di una sua comunicazione finale. Ora, con in mano un cellulare usa e getta, la bionda stava proprio componendo il suo numero.
Aveva valutato a fondo ogni possibile scenario per rendere la vendetta il più gustosa e succulenta possibile per Elizabeth e per se stessa; le sarebbe piaciuto organizzare qualcosa di teatrale che finisse sotto gli occhi di tutti per umiliare anche nella morte Peter Burke, ma stava giocando un gioco pericoloso in un campo minato, aveva a che fare con un agente dell’FBI in fondo e non doveva prendere questo fatto sotto gamba. Mai sottovalutare l’avversario, meglio mantenere un basso profilo che garantisse l’anonimato.
Allora aveva pensato a qualcosa di più intimo, solo per lei ed Elizabeth, ma anche tanto tanto sadico, terribilmente perverso, per allungare quel momento di piacere il più possibile: magari un giochino con delle lame… da far scorrere con movimenti lenti e quasi sensuali prima sulla pelle abbronzata e tonica di Peter e poi quella perfetta di Neal.
Delle lame, proprio come quelle che avevano ferito lei; proprio come quelle che Elizabeth aveva detto di avere sentito attraversarle il cuore la prima volta che aveva avuto la certezza che Peter oramai non era più suo.
Ma anche questa idea non era di facile attuazione: per uno scenario simile serviva un posto isolato, mentre Elizabeth aveva detto che il tutto si sarebbe dovuto svolgere in quello che, oramai, era l’unico posto che faceva sentire i due uomini a loro agio, al sicuro. Casa Burke.
Così le era venuta l’Idea, quella con la “i” maiuscola, geniale, diabolica e sottile, la migliore, che le avrebbe anche assicurato che Elizabeth non decidesse all’improvviso di aprire bocca e farla rimandare in prigione.
Non poteva permettersi di ritornare in quel posto. Elizabeth non doveva assolutamente parlare e con questa nuova idea, di sicuro, non lo avrebbe fatto: perché altrimenti la signora Burke sarebbe stata come minimo incriminata a sua volta per complicità in omicidio di secondo grado.
Digitò l’ultimo numero sulla tastiera, portò il telefonino all’orecchio. La linea era libera, dall’altra parte il cellulare di Elizabeth squillava; infine, lo scatto dell’apparecchio e la risposta.
“Pronto?” fece la donna.
“Tutto è pronto. Possiamo iniziare” fu la risposta.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Say hello to Heaven ***


Bene, ragazze, ci siamo quasi: il prossimo sarà l’ultimo capitolo.
Vi aspettavate che la cosa si mettesse davvero così?
Grazie infinite a chi continua a leggere e a commentare e in particolare a Meiousetsuna, che con le sue recensioni così carine ci consola e ci motiva.
 
Capitolo dodicesimo
 
Say Hello to Heaven
 
La porta di casa Burke si aprì; era già sera inoltrata, nelle strade newyorkesi i lampioni erano accesi da un pezzo e Peter e Neal stavano tornando a casa insieme dall’ufficio. Oramai non era più necessario che fingessero di andarsene ognuno per la propria strada dato che tutti sapevano quale fosse in realtà il loro rapporto anche al di fuori del lavoro.
“Ma io davvero non ce la faccio più, Peter!” esclamò il truffatore.
“Ti ho già detto di non lamentarti, Neal. Siamo entrambi nella stessa situazione. Cosa pretendi che faccia?” ribatté il federale.
“Difendermi, magari?” incalzò Neal.
“Santo Cielo, tu proprio non vuoi capire! Non posso fare nulla perché anche io sento commenti e battutine maligne su di me, alle mie spalle! Da parte dei superiori e persino dei sottoposti… persino le reclute e gli stagisti mi snobbano quando chiedo loro di fare qualcosa! Siamo entrambi in questo pasticcio, dopo il filmato. Ma forse tu credi che per me sia facile, dovere ancora richiamare all’ordine i miei uomini dopo che mi hanno visto completamente nudo a letto insieme a te?” sbottò l’altro.
“Ma Peter…” azzardò il ragazzo.
“Niente “ma”, Neal” lo interruppe l’agente “Farei di tutto per te e lo sai, farei qualsiasi cosa pur di vederti felice, qualsiasi cosa pur di non sentire nulla che possa farti stare male… ma ora ho le mani legate, non posseggo una macchina del tempo per far tornare tutto com’era prima di quel maledetto filmato. Tu aspetta e sopporta; non reagire, fa come se nulla fosse. Le cose si sistemeranno da sole, ne sono certo…” aggiunse Peter, abbracciando Neal per confortarlo.
Entrando, erano stati così impegnati a battibeccare che nessuno dei due aveva fatto caso alle candele profumate accese sul tavolo del salotto a creare un gioco di luci ed ombre delicate che avvolgevano tutta la stanza danzando sulle pareti e neppure alla figura sdraiata sul divano in una posa molto sexy che li osservava deliziata; questo, almeno, fino a quando non rivolse loro la parola.
“Peter, Neal…” .
Persino Elizabeth si sorprese dal tono malizioso e lascivo che uscì in modo del tutto naturale dalle sue labbra. Aveva temuto per tutto il pomeriggio che qualcosa andasse storto, di non riuscire a mantenere una facciata che presto si sarebbe finalmente potuta togliere di dosso, ma che in quel preciso momento era necessaria; l’ansia le aveva attanagliato lo stomaco senza darle scampo, tanto che ad un certo punto aveva dovuto ricorrere a un buon bicchiere di vino per riuscire a calmarsi e darsi il coraggio e la forza necessaria.
 Ed ora, eccola lì, sdraiata sul divano, un semplice corpetto nero con lacci rossi e slip sottili come carta velina addosso al suo bel corpo formoso e invitante; rossetto scarlatto, un sottile velo di trucco attorno agli occhi, i lunghi capelli sciolti sulle spalle. Ammiccante, sexy, era bastato pronunciare i loro nomi e farli voltare verso di lei per vederli restare a bocca spalancata per lo stupore.
Peter non riuscì a fare altro che pronunciare il suo nome, deliziato e allo stesso tempo sorpreso da ciò che vedeva. Neal invece aveva un sorrisetto che tutto lasciava intendere già stampato sulla faccia; per quanto sospettasse davvero che Elizabeth fosse la responsabile di quanto accaduto qualche tempo prima con l’oramai celeberrimo filmato, non poteva né voleva resisterle quando la vedeva agghindata in quel modo, solo per il loro piacere.
“Che splendore…” disse Neal in modo molto accattivante.
Elizabeth per tutta risposta si limitò a mettersi seduta, accavallando le gambe con un gesto molto sensuale, oramai certa di averli entrambi ai suoi piedi.
“A cosa dobbiamo questo onore?” chiese il truffatore, avvicinandosi mentre Peter stava ancora impietrito.
“Oh andiamo Neal, non credermi insensibile; sai bene che non lo sono. Vedo quanto voi due siate stressati da tutta questa situazione in ufficio e sapete che non c’è migliore rimedio allo stress di un po’ di buona attività fisica, come ho sempre suggerito a Peter. Dico bene caro?” chiese al marito, passandosi sensualmente la punta della lingua sulle labbra.
Peter, riscossosi finalmente dal suo coma, assentì vigorosamente avvicinandosi a sua volta. Elizabeth allora proseguì con tono fintamente innocente, da scolaretta alle prime armi quasi, sapendo di farli impazzire in quel modo: “Ho pensato di organizzare una piacevole serata fra noi, per farvi stare un po’ meglio. Ho forse fatto male?”.
I due si lanciarono un’occhiata fra loro, annuirono complici e oramai evidentemente eccitati, poi ammiccarono a Elizabeth che semplicemente si alzò e, camminando con tutta calma, salì le scale fino in camera da letto, invitandoli a seguirla con nulla più di uno sguardo.
I due, senza nemmeno preoccuparsi di togliersi le rispettive giacche e scarpe, le andarono dietro, frementi e vogliosi.
Mentre Peter e Neal erano occupati a svestirsi per raggiungerla, Elizabeth si era già sdraiata sul largo letto matrimoniale, le gambe leggermente allargate, e giocava in modo molto sensuale e seducente con i laccetti del corpetto e con l’elastico degli slip. Neal non ci mise molto a raggiungerla, iniziando ad accarezzarla e baciarla; un mano a scendere lungo la sua schiena cercando di togliere quel meraviglioso indumento dal suo corpo, l’altra che incessantemente le accarezzava le cosce. Poi alle sue si aggiunse anche quella di Peter che la sfiorò da sopra le mutandine, facendola tremare di eccitazione e attesa, mentre l’altra andava ad accarezzare la schiena di Neal e la sua bocca baciava il collo del giovane.
Quel gioco fatto di baci e carezze, fruscii di lenzuola e sfioramenti di gambe durò abbastanza a lungo da spingere Peter e Neal al culmine dell’eccitazione. Allora, come spesso accadeva ultimamente fra loro, si staccarono da Elizabeth e iniziarono a concentrarsi l’uno sull’altro, a darsi piacere a vicenda, strusciando i bacini fra loro con piccoli colpi delle anche, ancora fasciati dai boxer, dandosi sollievo e tormento allo stesso tempo.
 
***
 
Elizabeth quellasera avevapreteso Peter con più forza di quanta ne sarebbe stata forse necessaria: aveva fatto l’amore con lui follemente, selvaggiamente, come mai prima.
Lo baciava, lo accarezzava, s’impregnava dell’odore familiare della sua pelle, mentre con la testa era già lontana mille miglia da quella camera da letto e da lui; la consapevolezza che la sua vita stava per cambiare per sempre, la vertiginosa libertà che le si apriva davanti la eccitavano e insieme la sconvolgevano.
Si era stretta al corpo di suo marito sussultante sopra di lei, l’aveva attirato a sé con tutte le sue forze senza smettere di guardarlo in viso, fissando i suoi occhi serrati nel momento culminante del piacere, ascoltando i suoi gemiti come se volesse imprimerseli per sempre nella memoria.
Sapeva che Peter avrebbe creduto che lei col suo comportamento stesse cercando di dimostrare a lui - e anche a Neal - il suo amore, la sua passione, il desiderio di vivere insieme a loro per sempre. Di lenire così la sofferenza e l’umiliazione che stavano provando in quel momento. Chissà - pensò confusamente Elizabeth -  se avrebbero avuto il tempo di rendersi conto che l’aveva fatto, invece, perché sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta?
***
 
Nel buio della stanza, si lasciò sfuggire un lieve sospiro e si levò dal letto cercando di fare meno rumore possibile; aveva atteso con pazienza che si addormentassero entrambi, ma erano così agitati che c’era voluto un tempo che a lei era parso interminabile…
Ora finalmente sentiva i loro respiri regolari.
Li fissò un’ultima volta, prima l’uno e poi l’altro: Neal dormiva profondamente, il viso premuto contro il cuscino, un braccio piegato sotto di esso e l’altro mollemente allungato sul torace di Peter, che giaceva accanto a lui. Suo marito, coperto solo in parte del lenzuolo, le mostrava invece il volto disteso in un sonno apparentemente del tutto sereno.
La pallida luce che filtrava attraverso le tende ne rivelava i lineamenti: Elizabeth si sentì stringere il cuore - e fu l’unica volta quella notte -  al pensiero di tutto ciò che lui era stato per lei, di quello che avevano condiviso e che tra poco sarebbe finito per sempre. Ricacciò indietro il groppo che le si era formato in gola e, senza voltarsi indietro, uscì dalla stanza lasciando la porta socchiusa.
Si vestì in fretta e silenziosamente; la piccola valigia - aveva preso solo l’indispensabile  - l’aveva già preparata e nascosta sotto il divano, in modo che Peter e Neal non la notassero. In pochi minuti finì di prepararsi e come d’accordo accese e spense la luce del bagno tre volte: era il segnale convenuto, quello che avrebbe dato il via libera a Cheryl che attendeva in un’auto parcheggiata di fronte casa.
Scese le scale col cuore in gola, tremando a ogni cigolio dei gradini di legno e riservò un’occhiata fugace a Satchmo che se la dormiva della grossa steso sul tappeto davanti al caminetto.  Poi, lentamente, cercando di non far stridere i cardini, schiuse la porta d’ingresso; il viso di Cheryl che fece capolino immediatamente la rassicurò e al tempo stesso le diede la consapevolezza che ora non sarebbe più potuta tornare indietro. L’espressione della donna, infatti, mostrava piena risolutezza, lucidità e una decisione così netta che lei non sarebbe mai riuscita a trovare nella sua anima.  Confusamente pensò che no, non era giusto attribuire a lei tutta la colpa di ciò che stava per accadere; era stata una sua libera scelta, l’aveva voluto e avrebbe dovuto conviverci per tutto il resto della sua vita.
“È tutto a posto?” sibilò Cheryl con voce appena udibile.
Elizabeth annuì e richiuse piano la porta. La killer era vestita completamente di nero, con una felpa col cappuccio che, una volta sgattaiolata dentro, abbassò; con un gesto fluido e deciso estrasse dalla tasca una pistola di grosso calibro e avvitò il silenziatore sulla canna. Elizabeth non riuscì a guardare né l’arma né le movenze precise dell’altra che rivelavano come quella non fosse certo la prima volta che maneggiava arnesi di quel genere. Satchmo, avvertendo la presenza di un estraneo in casa, aprì pigramente un occhio e sollevò il muso emettendo un guaito assonnato, ma la presenza della padrona e la sua carezza gentile che gli arruffò la pelliccia sul collo furono sufficienti a rassicurarlo, così che il cane abbassò nuovamente la testa sulle zampe davanti, ripiombando subito nel suo sonno innocente.
“È meglio che tu vada adesso…” mormorò Cheryl fissando Elizabeth negli occhi: era pallida e tremante e, per quanto cercasse di contenersi, il suo turbamento era evidente. La fredda, cinica ex galeotta fu attraversata da un moto di compassione per quella donna normale, così diversa da lei, la cui sorte sarebbe stata d’ora in avanti legata indissolubilmente alla propria.
La reazione della signora Burke la sorprese però favorevolmente. Infatti, scosse il capo con decisione e bisbigliò: “No, voglio rimanere fino alla fine…”.
E così, la fragile ragazza borghese si rivelava invece una donna con gli attributi! Cheryl annuì con un sorriso lieve e sui avviò su per le scale precedendola.
Giunte fuori la stanza da letto, sostarono ancora qualche secondo in silenzio, immobili, per assicurarsi che tutto fosse tranquillo;  poi Cheryl aprì silenziosamente la porta e scivolò dentro, richiudendo subito l’uscio dietro di sé.
Elizabeth ebbe a un tratto la sensazione che in tutta la casa non ci fosse più aria a sufficienza per respirare normalmente, mentre il suo cuore martellava così furioso da darle l’impressione che da un istante all’altro avrebbe potuto schizzarle fuori dal petto. Strinse convulsamente i pugni fino a che le nocche non divennero livide per lo sforzo, le labbra pallide premute in una linea esangue. Rimase immobile nel buio, in attesa.
I suoi sensi eccitati, tesi fino allo spasimo, e il perfetto silenzio della notte le consentirono di udire i primi due colpi esplosi in rapida successione; sebbene se lo aspettasse, non riuscì a impedirsi di sussultare e fu costretta a sorreggersi alla parete perché all’improvviso le ginocchia minacciarono di cedere.
Il silenzio che seguì fu anche peggio.
Cosa stava succedendo là dentro? Perché non aveva sentito né un grido né un gemito? Forse Cheryl aveva mancato il suo bersaglio…
Come in risposta ai suoi interrogativi angosciosi, udì un rumore  sordo, seguito subito da quella che riconobbe essere la voce di Peter; non riuscì a distinguere le parole, ma il tono era chiaramente terrorizzato. Poi, il “clic” metallico di un’arma che s’inceppa risuonò, amplificato e distorto, attraverso la porta chiusa: manomettere l’arma di suo marito era stata un’idea di Cheryl, che le aveva anche spiegato come fare dato che da sola non ci sarebbe mai riuscita. Non era stato facile, le mani le tremavano, eppure si rendeva conto che si trattava di una precauzione necessaria …
A Elizabeth pareva d’impazzire, lì fuori impalata. Ma, del resto, sapeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di entrare.
Un nuovo sparo, un gemito e un tonfo seguiti da un ultimo colpo le fecero capire che era finita.
Una lacrima solitaria le rigò il viso, ma lei l’asciugò rabbiosa col dorso della mano. Levando lo sguardo verso la porta, i suoi occhi incontrarono quelli di Cheryl che usciva, la pistola fumante ancora in pugno. 
Muta fu la domanda.
Muta la risposta che ne seguì.
Era finita davvero: per Elizabeth Burke la vita come l’aveva fino ad allora conosciuta era finita per sempre. La porta dell’avvenire stava per aprirsi di fronte a lei, c’era solo quella porta e ciò che vi era dietro. Elizabeth era sulla soglia. Elizabeth non aveva paura.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Epilogo ***


Ora che siamo arrivate alla fine, non possiamo che ringraziare tutti coloro che ci hanno accompagnato in questa avventura: chi ha letto, chi ha commentato, chi ha inserito questa storia tra le seguite o le ricordate.
Coloro ai quali è piaciuta e anche quelli ai quali, al contrario, non è piaciuta.
Ci siamo divertite molto a scriverla e -  anche se era la prima volta e il risultato magari non è stato perfetto (ma, del resto, cosa lo è?) - lavorare insieme è stata un’esperienza bella, direi quasi esaltante in alcuni momenti.
Ma ho già occupato troppo spazio: adesso è giunta l’ora di lasciare la parola al nostro eroe.
Alla prossima. Nostra o vostra.   
 
EPILOGO
 
Potete anche solo immaginare cosa significhi essere svegliato dal dolore lancinante di due proiettili nella schiena? La vostra fantasia può figurarsi cosa si prova passando in un solo istante da un sonno profondo e senza sogni allo strazio delle carni lacerate, al fiato che si spezza, al cieco terrore senza nome, al sangue che ti riempie la gola impedendoti di respirare?
Io sì.
Nello spasimo ho cercato di voltarmi per capire cosa fosse accaduto, ma sono riuscito a distinguere nell’oscurità solo una figura vestita di nero in piedi accanto al letto.
Peter, Elizabeth, dove siete?
La mia mente è confusa, la vista già annebbiata dalla sofferenza, eppure la sorte non mi risparmia il dolore più acuto: assistere alla fine di Peter senza poter fare nulla per aiutarlo, per impedire che cada ucciso a sangue freddo come una bestia al macello.
Lo vedo, sì lo vedo: sento il suo urlo strozzato di rabbioso spavento, lo vedo scattare in piedi e aprire il cassetto del comodino dove so che custodisce la sua pistola… per una frazione di secondo la speranza che almeno lui riesca a salvarsi - so che per me è finita - spalanca il mio cuore martoriato. Ma è solo un istante, perché l’arma si inceppa; com’è potuto accadere? Sei sempre stato così scrupoloso…
Peter, sono sicuro che quel “clic” ti ha fatto capire di non avere più nessuna possibilità di salvezza e il terrore che ti ho letto sul viso è stato per me l’ultimo, supremo, dolore.  Un colpo al petto e sei crollato, abbattuto come un tronco dal fulmine; forse era già finita prima ancora che il tuo corpo toccasse il materasso, eppure la figura sconosciuta - non vedrò il volto di chi mi ha ucciso, di chi ti ha ucciso - non ha avuto pietà e ti ha sparato ancora una volta, alla nuca. Il colpo di grazia.
Per me invece nessuna grazia, tranne quella di non vedere la tua espressione in questo momento, Peter, di non portare con me nella morte la memoria del tuo sguardo vuoto, delle tue labbra abbandonate dal calore della vita.
È finita, è quasi finita: il dolore inaspettatamente anziché aumentare si spegne piano piano,alzo gli occhi al cielo in una muta preghiera.
Sento il gelo. Sento il fuoco. Sento la fine. No, tutto sembra svanire: il freddo, il caldo, il rumore, il sentire. Non sento più nulla.
Solo buio.
Piano piano sento ogni sentire spegnersi: non sento più le dita, i piedi, le braccia, il busto, smetto di vedere, di sentire, le mie labbra si serrano... e così è questa la fine, sì. 
Ho sempre saputo che ti passa tutta la vita davanti agli occhi nell’istante prima di morire; ebbene, per prima cosa quell’istante non è affatto un istante, si allunga all’infinito come un oceano di tempo.
Per me fu il volto della mamma in controluce, chino sul mio letto con un’ espressione mista di preoccupazione e sollievo, quando riaprii gli occhi dopo essere caduto giù dall’albero in giardino un’estate di quasi trenta anni fa.
Fu Kate vestita di blu, i capelli raccolti, che mi sorrideva di fronte al San Giorgio quella sera a casa di Vincent. 
Kate, oh Kate…
Fosti tu, Peter, le tue mani forti e i tuoi occhi, la tua passione e il tuo tormento.
Una nebbia innaturale mi avvolge, è quasi già buio.
I rumori si attenuano e si disperdono nel vuoto.
Il mio tempo è scaduto.
Cos’è stata la mia vita? Cosa ha significato? Cosa lascerò dietro di me?
Ecco, io ho inseguito e sono stato catturato.
Ho inflitto dolore e quel dolore mi è stato restituito con gli interessi; il mio strazio non può bastare a compensare coloro che ho derubato o ingannato, le mie scuse non possono restituire ciò che ho furtivamente sottratto giorno dopo giorno, anno dopo anno.
Sono stato amato e ho sofferto l’amore più infelice.
Ho mentito e sono stato ingannato.
Ho rubato e sono stato tradito.
Ho vinto e ho perso, fatto e ricevuto del male.
Questa è stata la mia vita e ora che è finita mi chiedo se avrebbe potuto essere diversa, più onesta, più serena.
Sì, avrei potuto essere una persona differente, forse migliore, ma se lo fossi stata non avrei conosciuto te, Peter.
Dio, quanti comandamenti ho violato? Difficile tenerne il conto.
Ora sono qui, forse davanti a Te, forse no.
Ti ho invocato adesso, per la prima volta da quando sono nato, e non per me.
E davvero ti ho nominato invano…
Ho ignorato la tua legge, disprezzato quella degli uomini e troppo tardi ho imparato quella dell’amore.
Non ho onorato mio padre e quando è morto non ho provato alcun dolore.
Ho confuso spesso il piacere con i sentimenti e il desiderio con l’amore.
Qualcuno piangerà la mia bellezza, il mio coraggio, le mie gesta, ma nessuno mi piangerà come il suo rifugio, la sua sicurezza, la sua gioia.
Sono un ladro, un truffatore e sto morendo.
Anzi, sono già morto.
 
FINE

 
N.d.A.: I titoli dei capitoli terzo, quarto, quinto e sesto sono tratti dal libro “Troppo amore” di Almudena Grandes, mentre il titolo del capitolo decimo è la parafrasi di una citazione di Garcia Lorca (“Il due non è mai stato un numero, perché è l’angoscia e la sua ombra”); il titolo della fic è preso dalla canzone omonima dei Temple of the Dog.
L’espressione Misses e Mister Suit è quella usata nella versione originale della serie e che nel doppiaggio italiano è tradotta come Mister e Miss F.B.I. Le parole di Neal nell’epilogo sono ispirate all’incipit del monologo finale del film  “American Beauty” e riecheggiano vagamente la canzone “Il testamento di Tito” di De Andrè.

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1086925