One week in Prague

di Timcampi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Airplanes ***
Capitolo 2: *** Primo giorno: A dustland fairytale ***
Capitolo 3: *** Secondo giorno: Fire with fire ***
Capitolo 4: *** Terzo giorno: Hallelujah ***
Capitolo 5: *** Quarto giorno: We belong together ***
Capitolo 6: *** Quinto giorno: Drunken lullabies ***



Capitolo 1
*** Prologo: Airplanes ***


One week in Prague

Prologo: Airplanes







-Eccoci qui, finalmente. Appena in tempo.- constatò Ludwig, appena ebbero superato l'ingresso dell'aeroporto, al di sopra del quale brillava l'imponente dicitura “FLUGHAFEN BERLIN-SCHÖNEFELD”.

-Appena in tempo?! Manca un quarto d'ora all'apertura del gate! Sei sempre così di fretta, West...- sospirò suo fratello, rifilandogli una sonora pacca sulle spalle.

-Comunque, sarà meglio andare: prima arriveremo al gate, e meglio riusciremo ad evitare la fila.- suggerì Arthur, facendo capolino da dietro un'ampia sciarpa quadrettata che gli copriva metà del viso. Gli altri si scambiarono sguardi di assenso, e Gilbert annuì.

-Sono certo che vi divertirete!- trillò Feliciano, con il volto illuminato da un gran sorriso, lasciando la mano di Ludwig e gettandosi a braccia aperte sul fratello: l'esperienza gli diceva che avrebbe sofferto molto la sua assenza, come sempre; in fondo, però, una settimana passa in fretta.

-E tu, invece? Sei sicuro che starai bene?- domandò Lovino, di rimando. L'altro annuì.

-Starò con Lud. E ti telefonerò, ma non troppo spesso.- sorrise, sciogliendo quell'ultimo, caldo abbraccio e muovendo un passo indietro, quasi a voler rendere più graduale quell'arrivederci.

Lovino lanciò un'eloquente occhiata al tedesco, che ricambiò con un cenno del capo.

Non gli era mai stato particolarmente a genio, però sapeva di potersi fidare di lui: era sempre stato coerente e affidabile e, soprattutto, aveva sempre amato e accudito suo fratello.

Posso affidarlo a te anche questa volta?”, chiesero i suoi occhi. E la risposta fu indubbiamente affermativa.

Arthur tossicchiò rumorosamente, cercando di attirare l'attenzione degli altri.

-Sì, giusto. Ora dobbiamo andare.- intervenne Antonio, con un allegro e impaziente sorriso.

-Certo, certo. Mi raccomando, divertitevi ma non fate sciocchezze.- li ammonì Ludwig, facendo correre lo sguardo sull'allegra comitiva per un'ultima volta, appuntandolo a turno su ognuno dei viaggiatori: suo fratello Gilbert, Elizaveta, Francis, Arthur, Antonio e Lovino.

L'idea di quella vacanza improvvisata era venuta proprio a Gil, il quale l'aveva prontamente suggerita ai suoi migliori amici: e così, nel pieno del mese di febbraio, le tre coppie avevano organizzato una vacanza di sette giorni a Praga, alla larga da impegni e affari di Stato.

Anche lui e Feliciano erano stati invitati, ma con l'Unione scossa da una così disastrosa crisi economica non se l'era sentita di lasciare il suo Paese. Tuttavia, aveva generosamente sovvenzionato quell'incorreggibile gruppo di irresponsabili prenotando a loro nome in uno dei migliori hotel della città.

-Io non ci conterei troppo, al tuo posto!- sghignazzò suo fratello, strizzando furbamente un occhio al tedesco e precedendo gli altri in direzione del gate numero 8, stringendo la mano di Elizaveta, o, come la chiamava Gilbert, Elsbeth, alla tedesca.

-¡Adios!- rise Antonio, agitando le braccia verso la sua direzione.

Seguì il gruppo fino a dove la vista glielo consentiva, ma trascorsero pochi istanti prima che la folla li inghiottisse completamente. Quando si voltò verso Feliciano, trovò una lacrima impigliata tra le sue ciglia scure e una smorfia indecifrabile, simile a un tremolante e incerto sorriso.

Circondò le sue spalle con un braccio, guidandolo nuovamente verso l'ingresso.

Sapeva che qualsiasi tentativo di consolazione sarebbe stato sciocco e inutile: anche lui aveva un fratello la cui mancanza avrebbe reso la sua casa e la sua linea telefonica orribilmente silenziosi. Gli sarebbero mancati tutti loro, a dire il vero.

-Forza, stasera andiamo a cena fuori, ti va? Cercheremo un buon ristorante italiano, sei d'accordo?

Feliciano scosse la testa, ricacciò indietro le lacrime e alzò lo sguardo su di lui.

-No. Voglio andare a casa tua. Ho voglia di mangiare le schifezze che mi prepari tu.- dichiarò, circondando con un braccio la vita dell'altro.

 

-Ve l'avevo detto, io, che dovevamo sbrigarci, invece di cincischiare!- brontolò Arthur, quando ebbero consegnato le loro valigie e furono finalmente di fronte al gate.

A dividerli dal metal detector c'era un lungo nastro di viaggiatori, schiacciati l'uno contro l'altro come un esercito di sardine.

-Vorrà dire che aspetteremo.- mormorò Francis, schioccandogli un inaspettato bacio su una guancia.

Ma ciò non contribuì a far tornare il buonumore all'inglese, che continuò a sbuffare di tanto in tanto fino a che non giunse il loro turno.

Lasciarono sul nastro trasportatore giacche, borse e cellulari e, uno alla volta, si sottoposero all'esame del metal detector.

Una volta a bordo dell'aereo, si scatenò l'immancabile, sanguinosa battaglia per accaparrarsi i posti accanto al finestrino, che vide Francis, Gilbert e Antonio penosamente sconfitti.

-Decolliamo! Decolliamo!- esultò il prussiano, non appena presero quota. -Due birre!- aggiunse poi, al passaggio di una hostess.

-Per me tre!- fece eco Elizaveta, a gran voce.

Dieci minuti dopo, le bottiglie vuote di cinque Paulaner giacevano riverse sul tavolino che divideva Elizaveta e Gilbert da Francis e Arthur, che trascorsero l'intero viaggio con le cuffie alle orecchie (il primo) e con gli occhi fissi sulle pagine de “Il cimitero di Praga” (il secondo). Lovino e Antonio sedevano dall'altro lato del corridoio, l'uno addormentato tra le braccia dell'altro.

Quando giunsero in vista della capitale ceca, intorno alle ventuno e venti, Francis fu il primo ad accorgersene.

-Ragazzi, siamo arrivati!- esclamò, additando il paesaggio sottostante, illuminato dalle migliaia di luci della sera, farsi sempre più vicino mentre il velivolo perdeva lentamente quota. Un attimo dopo, la metallica voce del pilota annunciò in tedesco, in ceco e in inglese che di lì a pochi minuti sarebbero atterrati all'aeroporto di Praga-Ruzyne, raccomandando di restare seduti e con le cinture allacciate.

-Praga, preparati ad accogliermi!- saltò su Gilbert.

-Che cazzo ti urli?!- ringhiò Lovino, svegliandosi di colpo.

-Siamo arrivati, Lovi.- sussurrò Antonio, cercando di rasserenarlo. L'italiano sbuffò, incrociando le braccia e affondando nel suo sedile.

Come annunciato, dopo meno di dieci minuti misero nuovamente i piedi sulla terraferma. Ritrovarono i propri bagagli e uscirono dall'aeroporto. Presero posto su una navetta per turisti che li condusse fino a Ponte Carlo, non lontano dal loro albergo: nonostante il buio e la stanchezza, i loro occhi riuscirono a delineare l'elegante e insolito profilo della città, spezzato qua e là da guglie, cupole ed edifici nei quali gli architetti di ogni epoca avevano voluto riversare tutto il loro estro.

Il tragitto parve loro tanto lungo che, quando terminò, quasi non credettero di essere finalmente a un passo dal loro misterioso alloggio.

-E ora? Dov'è che dobbiamo andare?- domandò Elizaveta.

-Un attimo, un attimo.- farfugliò Gilbert, frugando nelle tasche della giacca, alla ricerca dell'indirizzo scrittogli da Ludwig. -Alchymist Grand Hotel. Trziste 19, quartiere Lesser.- proclamò infine.

-Grand Hotel un corno. Scommetto che è una topaia.- sbottò Lovino.

Ma si sbagliava.

Ad attenderli al suddetto indirizzo, trovarono un grande, lussuoso palazzo color crema circondato da curatissime aiuole fiorite, opulento ma raffinato; ai lati dell'entrata, due insegne color porpora recitavano a chiare lettere “Alchymist”.

-Porca merda.- fu tutto ciò che Lovino riuscì a spiccicare.

In effetti, la piacevole scoperta lasciò tutti di stucco: nessuno si sarebbe mai aspettato nulla di simile, da parte di Ludwig.

-Allora, che cosa stiamo aspettando?!- cinguettò Elizaveta, lanciandosi oltre il cancello aperto. Di fronte a quella vista, neppure i suoi due trolley che qualche forza sconosciuta teneva chiusi parevano poi così pesanti.

Si precipitarono nella hall guardandosi intorno, come in un museo. Soltanto Arthur cercò di mascherare lo stupore, mantenendo il suo solito contegno.

-Però, che roba!- mormorò Antonio, accompagnando il commento con un lungo fischio.

Alla reception, trovarono un ometto pingue in giacca e cravatta, con i capelli neri pettinati all'indietro e baffi accuratamente impomatati che sovrastavano un composto sorriso.

Tutto, nella sua singolare figura, lo rendeva inconfutabilmente somigliante ad Hercule Poirot.

-È sicuramente belga.- sussurrò Francis all'orecchio di Arthur, che si lasciò sfuggire una risata sommessa.

-Buonasera, signori. Posso esservi utile?- domandò l'ometto, in lingua inglese ma con un vago accento francese.

-Ci sono tre stanze prenotate ai nomi di Weillschmidt, Fernandez Carriedo e Bonnefoy.- proruppe Gilbert, facendosi coraggiosamente avanti.

L'ometto inforcò un paio di occhialetti dalla montatura sottile e cominciò a spulciare nel voluminoso albo aperto sul bancone di legno chiaro.

-Sì, ecco qua! C'è la Tower Suite a nome del signor Fernandez Carriedo, La Garden Suite a nome del signor Weillschmidt e la Junior Suite per il signor Bonnefoy. Inoltre, nella suite del signor Weillschmidt troverete le chiavi per il salotto e la sala da pranzo privati. È ciò che avete richiesto?- chiese, sollevando lo sguardo e guardandoli uno ad uno da sopra gli occhialetti.

Gilbert annuì, incapace di aggiungere altro.

-Perfetto. Allora, eccovi le vostre chiavi.- sorrise l'ometto, voltandosi verso la grande teca alle sue spalle, dentro la quale penzolavano centinaia di chiavi, e prendendone tre un po' diverse dalle altre, con il il nome della stanza inciso nel portachiavi d'argento.

-Vi auguro buona permanenza, signori e signora. Se doveste avere bisogno di qualsiasi cosa, non esitate a farmene richiesta.- li congedò infine.

-Qualcosa mi dice che sarà un'ottima permanenza.- commentò Gilbert, agguantando le tre chiavi.

Attesero di essere abbastanza lontani da non essere uditi da nessuno, prima di lanciarsi in un fiume di osservazioni.

-Ci dev'essere un errore.- fece Arthur.

-E chi se ne frega? Io la voglio, la suite!- ribattè Lovino.

-Sono d'accordo!- proferì Antonio, sfilando dalle dita di Gilbert la chiave con su scritto “Tower Suite”.

-Ci mancherebbe altro.- concordò Francis, impossessandosi della propria. -Certe cose sono più divertenti, se fatte in una suite.- osservò, lanciando ad Arthur un'occhiata nient'affatto ambigua, anzi oltremodo chiara ed eloquente, al quale l'inglese rispose con un beffardo: -Le tue capacità non miglioreranno solo perchè sei in una suite.- che fece scoppiare tutti in una scrosciante risata, sicchè nessuno udì il francese sussurrargli: -Se ne sei così sicuro, non ti dispiacerà mettermi alla prova.

-Nient'affatto.- sibilò l'inglese, con un mezzo sorriso.

-L'ascensore è qui da un pezzo!- li interruppe Elizaveta, accennando al povero addetto che attendeva pazientemente il gruppo di nuovi arrivati.

Così, in un tacito accordo, tutti quanti accettarono di non indagare oltre sull'inaspettato regalo di Ludwig e di limitarsi a goderne al massimo durante tutta la permanenza.

Arthur e Francis furono i primi a lasciare il gruppo, al primo piano, dopo essersi accordati tutti insieme sull'orario della prima colazione dell'indomani.

Le altre due stanze erano al secondo piano, ma in due differenti corridoi. Usciti dall'ascensore, i quattro amici si salutarono: Antonio e Lovino andarono a sinistra, Gilbert ed Elizaveta a destra.

Il corridoio era buio e silenzioso. L'unica luce proveniva dal cellulare di Elizaveta, l'unico rumore era quello dei loro passi sul pavimento. Alla fioca luce del telefonino, trovarono la loro stanza, dietro una porta contrassegnata da una targa dorata.

-Ci siamo.- ghignò Gilbert, quando girò la chiave nella toppa.

-Wow.- mormorarono in coro, quando la porta fu aperta.

Sotto un lampadario da cui pendeva una quantità infinita di cristalli, circondato da un divano color avorio, un'ampia finestra dalle spesse tende coordinate e un armadio di legno di ciliegio e con un corteo di tappeti orientali ordinatamente sparsi tutt'intorno, vi era un immenso letto a baldacchino.

Gilbert rise.

-Cosa c'è?- domandò Elizaveta, già intuendo la risposta.

-Bene, letto. Ora vedremo se sei veramente degno di stare nella mia suite.- scandì, con un mezzo sorriso sghembo, prendendo in braccio Elizaveta e chiudendosi la porta alle spalle con un calcio.


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Capitolo 2
*** Primo giorno: A dustland fairytale ***


Primo giorno: A dustland fairytale

 

Quando Lovino aprì gli occhi, il suo primo sguardo, ancora opaco e offuscato dal sonno, si posò sulla figura che dormiva placidamente accanto a lui, con un dolce sorriso sul volto e il petto che si alzava e si abbassava lentamente. Quando dormivano insieme, Antonio aveva sempre quel sorriso sereno stampato sulla faccia; ma quando Lovino non era accanto a lui quel sorriso spariva e il sonno dello spagnolo si popolava di fantasmi: quando rincasava tardi e lo trovava già addormentato, oppure quando era arrabbiato e passava la notte accucciato sul divano, c'era sempre quella smorfia spaventata sul suo viso, accompagnata da ansimi e versi che facevano rabbrividire.

Di fantasmi, nel passato di Antonio Fernandez Carriedo, ce n'erano tanti, e tutti lo sapevano bene. Che tornassero a fargli visita, però, era un segreto.

Ma Lovino aveva giurato tempo addietro, in cuor suo, che niente e nessuno avrebbe più tormentato le sue notti: così, da allora non l'aveva più lasciato solo, e mai l'avrebbe fatto.

Nonostante il letto fosse più ampio del normale, erano così vicini che l'italiano riusciva a percepire distintamente il caldo respiro dell'altro sulla propria pelle. Succedeva sempre: se anche il letto fosse stato largo quanto l'intera stanza e loro si fossero addormentati alla maggior distanza possibile, si sarebbero ritrovati l'uno accanto all'altro, al mattino.

Alle otto avevano appuntamento con il resto del gruppo presso la sala da pranzo privata, al piano terra: aveva impostato la sveglia alle sette in punto, ma il cellulare taceva.

La luce che filtrava attraverso le tende dell'ampia finestra alle sue spalle era debole e perlata: doveva essere ancora presto, ipotizzò.

Quando erano entrati nella loro suite, aveva avuto giusto il tempo di abbozzare qualche apprezzamento a proposito di quella “fregnata assurda” e di spogliarsi, prima di crollare in un sonno troppo profondo perchè potesse popolarsi di sogni.

Cercando di non fare troppo rumore, si alzò dal letto, si sistemò i boxer e mosse qualche passo verso la finestra. Scostò le tende, rivelando il bel panorama oltre i vetri, che sembrava attendere soltanto loro.

Era felice di essere lì, lontano da ogni problema. Suo fratello era la sua unica preoccupazione, in quel momento: si disse che gli avrebbe telefonato, più tardi.

Si voltò nuovamente verso il letto, quando un fruscìo arrivò alle sue orecchie, ma Antonio dormiva ancora. Con le tende aperte, la calda luce dell'alba sembrava bagnare di latte e argento la sue pelle olivastra, i suoi capelli scuri e arruffati, le palpebre chiuse.

Da quando si erano incontrati per la prima volta, quella sua statuaria bellezza, nobile e selvaggia al tempo stesso, era rimasta meravigliosamente intatta, così come il suo inguaribile ottimismo, come i suoi difetti, come tutto il resto. Quel “tutto” che amava. Senza che se ne accorgesse, l'ombra di un sorriso sembrò fare capolino dalle sue labbra.

Un attimo dopo, con un rumoroso sbadiglio, anche Antonio aprì gli occhi. Lovino tornò a concentrarsi sul panorama, sperando che l'altro non si fosse accorto che lo stesse osservando. Percepì i suoi passi sul parquet, e poi le sue braccia grandi e calde stringersi intorno alla sua vita, e il suo petto ampio e muscoloso premuto contro la schiena.

-Buongiorno.- sussurrò Antonio, facendo scorrere la punta del naso contro la pelle fredda del suo collo. Lovino non rispose, né si mosse.

-Questa notte ho dormito benissimo.- aggiunse lo spagnolo. -E tu?

-Anch'io.- tagliò corto.

-Molto bene. Dovremmo dormire più spesso in una suite, allora.

-Dormo benissimo anche a casa.- bofonchiò, voltandosi di scatto verso di lui. Antonio avvicinò le labbra al suo orecchio sinistro, tanto da sfiorarne il lobo.

-Qui siamo a casa: ci sei tu, ci sono io.- osservò, per poi prendere il suo viso tra le mani, come neve nel caldo abbraccio del focolare.

-Te quiero, mi pequeño fuego.

-Lo so.- rispose Lovino. Ma Antonio sapeva bene da almeno cent'anni che quelle due parole ne celavano altre, in egual numero.

-Para siempre?

Lovino annuì.

E poi, Antonio avvicinò le labbra al suo volto, fino a premerle contro le sue. Attese che fosse lui ad aprire le danze.

Lovino socchiuse le labbra, ed esitò un istante prima di lasciar scivolare la lingua oltre di esse, fino a toccare quelle dell'altro, che l'accolsero in un lungo, caldissimo bacio. Coraggiosamente, mosse le dita lungo il profilo del suo corpo marmoreo, le lasciò correre lungo i suoi fianchi per poi disegnare la linea perfetta della spina dorsale, mente la presa dell'altro si faceva più decisa intorno al suo viso, alla sua vita, fino a scendere sui suoi glutei, e le sue labbra si spostarono lentamente sulla sua gola, e...

Piripipì. Piripipì. Piripipì.

-Merda!- imprecò l'italiano, come risvegliato da quel piccolo idillio, afferrando il cellulare e scaraventandolo con malagrazia sul materasso, mentre quello continuava a squillare.

-Su, su. Questo è solo il primo giorno.- gli sorrise Antonio, baciandogli la fronte. -Vado prima io, in bagno.- decretò poi, pizzicandogli delicatamente una guancia.

 

-Dove cazzo eravate, voi due?!- ruggì Lovino, non appena Elizaveta e Gilbert comparvero sulla soglia

Antonio, Lovino, Arthur e Francis erano già nella sala da pranzo privata, quando gli ultimi due raggiunsero il resto della brigata, in ritardo di venti minuti. Erano loro ad avere le chiavi della sala, così agli altri era toccato rivolgersi all'ometto della reception, ribattezzato “Hercule”, per averne una copia.

-Avete iniziato a fare colazione senza di noi!- protestò Gilbert, con gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, ammirando i ricchi vassoi in bella mostra sui tavolini dal ripiano di marmo bianco.

-Siete in ritardo. Non potevamo certamente restare sulla soglia ad aspettarvi!- brontolò Arthur.

-Pare che anche voi abbiate sperimentato le infinite risorse della suite, stanotte.- ridacchiò Francis alla vista dei loro volti stralunati, circondando le spalle di Arthur con un braccio. L'inglese gli lanciò un'occhiataccia di sottecchi.

-E chi non l'avrebbe fatto?- fece Elizaveta, esibendosi in uno sbadiglio che diede a tutti i presenti una visione panoramica del suo cavo orale.

-Purtroppo lui si è addormentato appena siamo entrati nella suite.- sospirò Antonio, puntando il dito contro Lovino. -Comunque, cos'è previsto per oggi?

Era stata Elizaveta a stilare gli itinerari, in seguito approvati all'unanimità, così tirò fuori dalla borsa un block notes, si schiarì la gola e lesse.

 

La prima tappa era costituita dall'antico quartiere di Malà Strana, e in particolare il vecchio muro chiamato “John Lennon Wall” per via dei graffiti dedicati all'artista inglese che lo ricoprivano, e che Arthur insistette per visitare.

-È solo un fottuto muro.- commentò Lovino, che alle dieci cominciò già a lamentare un estremo bisogno di cibo.

Fu poi la volta della Chiesa di Santa Maria Vittoriosa, dentro la quale Arthur cominciò a leggere come una litania noiose descrizioni di statue ed elementi architettonici tratte da una guida per turisti acquistata poco prima, e poi del Malostranské náměstí, la vecchia piazza del mercato, dopo di che si allontanarono dal Malà Strana e si recarono al castello, dove trascorsero quel che rimaneva della mattinata.

-Sto crepando di fame.- si lagnò Lovino per la centesima volta, mentre percorrevano il Vicolo d'Oro. E questa volta anche gli altri furono d'accordo, così si misero alla ricerca di un posto in cui rifocillarsi.

Si fermarono in una piccola taverna per turisti, il cui forte odore di birra aveva attratto Gilbert come una mosca sul miele.

-Erano almeno venticinque anni che non venivo qui. Ma non potrei mai dimenticare quanto sia maledettamente piccante questa roba.- mormorò Gilbert, mandando giù mezzo boccale di birra in un paio di sorsi nel tentativo di alleviare il sapore eccessivamente speziato.

-È stata tua l'idea di venire a Praga.- fece Arthur, con un mezzo sorriso.

-E sono felice di essere qui!- esclamò il prussiano, sollevando il boccale mezzo vuoto. -A Praga... e alle guerre del nostro passato, ma soprattutto alla nostra amicizia, che sarà sempre più forte di qualsiasi guerra!- brindò.

-Ben detto, Gil! A Praga!- fece eco Antonio.

-A Praga!- esclamarono tutti gli altri, sollevando i boccali.

 

Dopo pranzo, passeggiarono nel quartiere di Hradčany fino a che il cielo cominciò a tingersi del rosso del tramonto, intorno alle cinque del pomeriggio.

Prima di tornare in albergo, però, mancava ancora un'ultima tappa, la più bella di tutte.

-Non me lo ricordavo così grande.- sospirò Francis, con una nota di malinconia, quando furono sul Ponte Carlo.

-È bellissimo.- mormorò Arthur. Quando si voltarono indietro, la vista fu mozzafiato, come sempre: il castello, illuminato dalle mille luci notturne sullo sfondo di un tramonto che lasciava ormai il posto alla sera; il Ponte quasi deserto, in cui soltanto pochi turisti e rari artisti di strada si attardavano ancora sotto la maestosa parata di statue disposte lungo tutta la balaustra. Lo sciabordio del fiume sottostante giungeva ovattato alle loro orecchie, come un'eco appena distinguibile. Intravedevano le figure degli altri quattro un po' più indietro: Antonio e Lovino erano i più distanti, fermi sotto una delle statue, forse stretti in un intimo abbraccio, come le loro lunghe ombre suggerivano. Gilbert ed Elizaveta, invece, procedevano mano nella mano, solleticando di tanto in tanto l'aria scura con una risata cristallina.

-Non trovi che siano splendidi?- sussurrò Francis.

-Cosa?

-Lovi e Tonio. Eliza e Gil. Penso siano splendidi. Sono insieme da così tanto tempo, eppure non si annoiano mai di condividere ogni singolo momento l'uno con l'altro.

-Noi da ancor prima.- fece notare Arthur.

-Infatti noi siamo ancora meglio.- affermò il francese, in tutta risposta.

-A volte ho l'impressione di essere davvero vecchio.

-Lo sei. Lo siamo. Siamo veramente due vecchie, vecchissime nazioni. Ma sono certo che i nostri momenti di gloria non siano affatto finiti.

-Forse hai ragione. Però... se invece lo fossero?

-Je serai toujours près de toi, mon petit bout de ciel.

-Always?

-Toujours.

La destra dell'uno era stretta sulla sinistra dell'altro: due mani grandi e affusolate, che avevano impugnato spade e pistole, che avevo inferto ferite e le avevano medicate, che avevano scritto fiumi di parole e asciugato mari di lacrime.

-Questa città mi è sempre piaciuta.- disse Arthur, arricciando le labbra. -Mi domando quando riusciremo a tornarci ancora.

Francis sorrise: sapeva bene cosa l'inglese intendeva dire.

-Non hai sempre detto “non in pubblico”?

-Ma questo posto mi piace. Ed è... accettabilmente buio.- spiegò, premendo la schiena contro la balaustra di pietra.

Quel suo essere così imprevedibile, così diverso da un momento all'altro ma sempre coerente con il proprio carattere dalle mille sfaccettature era quel che più amava in lui, e ciò che mai gli avrebbe permesso di stancarsene.

-Condividere ogni singolo momento con te è tutto ciò che voglio.- dichiarò, premendo la bocca contro quella dell'inglese e schiudendola al suo bacio prepotente, quel bacio che lui soltanto conosceva, perchè nessuno mai avrebbe mai dovuto immaginare quanto Arthur Kirkland fosse bravo a baciare.

Ma quel momento magico, purtroppo per loro, non durò molto.

-Ohi, ragazzi! Guardate che vi lasciamo qui!- li richiamò la voce di Gilbert.

-Sei veramente indelicato, Gil!- lo rimproverò Elizaveta, colpendolo con la borsa.

-Avete ragione, si è fatta ora di cena. Sarà meglio tornare.- rispose Arthur, fermo e composto come sempre. Francis si lasciò sfuggire un sorriso, però: anche nella penombra della sera, infatti, sapeva bene che era arrossito violentemente.

Strinse la presa sulla sua mano e insieme si ricongiunsero con il gruppo, che partì alla volta dell'hotel.

-Grazie.- bisbigliò l'inglese.

-Grazie a te.- rispose, ma le labbra dell'altro si mossero ancora, stavolta senza emettere alcun suono, ma sillabando tre semplici e bellissime parole:

I love you.

 

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Capitolo 3
*** Secondo giorno: Fire with fire ***


Secondo giorno: Fire with fire

 

Arthur posò lo sguardo sul suo orologio da polso, lasciato sul comodino accanto al cellulare e alle chiavi della suite: mezzanotte e cinque minuti.

Si erano trattenuti a lungo, a cena, ricapitolando gli eventi della giornata e organizzando quelli dell'indomani. Soltanto quando gli sbadigli di Lovino si erano fatti sempre più intensi, fino a che l'italiano non si era addormentato sul divano della sala da pranzo privata, avevano convenuto che fosse meglio rimandare le chiacchiere al giorno successivo e godersi il meritato riposo.

Stranamente, però, Arthur non aveva affatto sonno: se ne stava seduto sulla sponda dell'ampio materasso matrimoniale, in veste da camera, intento a guardare e riguardare le fotografie scattate durante la giornata: non ve n'era neppure una del Ponte Carlo, si disse. Sperò che avanzasse un po' di tempo, durante il loro tour, per tornarci.

Spense la macchina fotografica e la ripose sulla scrivania, alla destra del letto.

La Junior Suite era senza alcun dubbio la stanza più bella di tutto l'hotel: il letto era un po' più grande rispetto agli altri, impreziosito da un'alta e ricca testata decorata in uno stile raffinato ma che non riusciva a definire; le tinte dell'arredo e della tappezzeria, che andavano da un tenue color crema a un bordeux particolarmente scuro, passando per l'oro e per diverse tonalità di marrone, erano accostate in maniera assolutamente impeccabile; perfino le travi del soffitto, da cui pendeva un immenso lampadario di cristalli, erano decorate da un elaborato arabesco vagamente floreale.

Lanciò una rapida occhiata alla porta del bagno, dal quale proveniva ancora lo scrosciare della doccia. Ci stava mettendo un po' troppo.

-Francis?- chiamò, ma dall'altro lato non giunse alcuna risposta. -Si è fatto tardi, è mezz'ora che sei lì dentro.- aggiunse, ma il suo richiamo parve cadere nuovamente nel vuoto. Sospirò, infilando i piedi nelle pantofole e dirigendosi verso la porta del bagno. Bussò.

-Fran, va tutto bene?- domandò. Silenzio. -Io... Io entro.- annunciò, prima di girare il pomello ed entrare.

Francis era di fronte all'ampio ripiano di marmo di uno dei due lavandini, avvolto in un accappatoio bianco, intento a pettinarsi i lunghi capelli umidi.

-Oh, è pronta.- mormorò, del tutto noncurante della presenza dell'inglese, andando a fermare il getto d'acqua che aveva riempito la vasca da bagno fin sotto l'orlo, facendo quasi traboccare la generosa quantità di schiuma.

-Ma si può sapere che cosa stai combinando?- scandì l'inglese, aggrottando le folte sopracciglia. A quanto pareva, era già uscito dalla doccia parecchio tempo prima.

-Non è evidente? Ho preparato il bagno.- rise l'altro, sollevando la manica dell'accappatoio per saggiare la temperatura dell'acqua.

-Quale bagno?

In tutta risposta, il francese si limitò a sorridere.

-È tardi, Francis.

-Ma tu non hai sonno. E neppure io.- ribattè. E Arthur seppe che non avrebbe mai potuto fingere il contrario, non con lui.

-Solo questa sera. Voglio scoprire quanto durano le bollicine, qui a Praga.- insistette, prima che l'altro potesse replicare. Arthur sospirò, chinando il capo per nascondere un piccolo, timido sorriso che stava lentamente nascendo sul suo volto.

Avrebbe potuto comodamente dare in pasto al suo humor quell'affermazione, ma non lo fece. Non lo avrebbe fatto, si disse: soltanto per quella sera.

-Aspetta qua fuori.- intimò. Francis gli posò un bacio sulla fronte, mentre usciva dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.

Forse... Oh, al diavolo.”

Quasi frettolosamente, nel timore di avere qualche ripensamento, si sfilò la vestaglia e la ripose accanto al lavandino. Fece per sfilarsi anche i boxer, ma poi li lasciò là dov'erano; inspirò a fondo, e poi si calò nella vasca da bagno, prima una gamba e poi l'altra, nell'acqua calda al punto giusto.

-Avanti.- mugugnò poi, immergendosi nella schiuma bianca fin sotto il naso.

La porta si riaprì, e il francese fece il suo ingresso nella stanza, senza neppure un accenno di malizia sul viso.

Era quello, il vero Francis: dolce, complice, sincero. L'amante perfetto.

-Vous ne devriez pas cacher: vous êtes si beau, mon petit bout de ciel... *

-Stop talking nonsense and come here before the water gets too cold. **

Francis si sfilò l'accappatoio, che lasciò cadere sul pavimento marmoreo, prima di raggiungerlo tra le spumose coltri bianche.

-Farò piano.- sussurrò, avvicinando le labbra a quelle dell'altro.

-Tsk. Faticherai a starmi dietro.- ghignò, prima che le sue labbra venissero travolte da quelle di Francis, calde e morbide come sempre erano state. Perdeva il contegno, tra quelle labbra, e avrebbe potuto perderci la testa. Intrecciò le dita con i suoi capelli biondi, ancora umidicci, mentre le mani del suo amante cercavano il suo corpo.

-E questo cos'è?- mormorò il francese, sorpreso e divertito, quando le sue carezze incontrarono la stoffa zuppa dei boxer. -Non ci servono.- ridacchiò, senza attendere la risposta dell'altro e sfilandoglieli con non poca fatica, per poi gettarli sul pavimento, dove non l'avrebbero più ostacolato.

-Sei un'idiota.- borbottò l'inglese.

-Anche io ti amo, ti ho sempre amato.- sorrise Francis, facendosi spazio tra le sue gambe e andando a suggere piano la sua gola, scendendo poi a delineare con le labbra la morbida curva delle sue clavicole.

-Se non ti amassi... Se non ti amassi, ti avrei già ucciso secoli fa.- dichiarò Arthur, attraendolo a sé.

Si amavano, si erano sempre amati. Con la stessa forza con cui si erano combattuti.

Ne avevano abbastanza, di combattersi, nonostante fosse stato divertente.

Amarsi lo era molto, molto di più.

 

-Sapevate che c'è l'usanza di esprimere un desiderio, scriverlo su un biglietto e lasciarlo su una lapide?- informò Elizaveta, mentre camminavano tra le vie del Josefov, il quartiere ebraico.

-Sì, l'avevo sentito da qualche parte. Dovremmo farlo anche noi, non trovate?- intervenne Arthur, con una nuova luce negli occhi. Per quanto la sua proverbiale superstizione fosse considerata da molti solo un ricordo dei tempi andati, l'inglese continuava ad essere costantemente rapito dal fascino delle credenze.

D'un tratto, udirono un telefonino squillare.

-È mio fratello.- dichiarò Lovino, sfilando il proprio cellulare dalla tasca.

-Lovi, fratellone! Vi state divertendo? Noi per nulla, Lud è sempre impegnato e io mi annoio, a casa sua non c'è mai niente di buono da cucinare!- strillò Feliciano, talmente forte che tutti gli astanti riuscirono a sentire, non appena Lovino ebbe accettato la telefonata.

-Sì, ci stiamo divertendo molto.- assicurò, chiaramente turbato dal tono mogio del fratello minore. -Quel crucco di merda ti tratta bene? Ti trascura, forse? Dimmelo, così quando torno...!-

-Non preoccuparti, Lovi! Lo sai: Lud mi ama e si prende cura di me. Sai che puoi fidarti di lui.- rise Feliciano. -Ci mancate tanto, non vediamo l'ora di rivedervi!

-Anche noi, Feli.- sospirò Lovino, lasciandosi sfuggire un sorriso. In fondo, non avrebbe mai lasciato suo fratello con quel mangiapatate, se non avesse riposto in quest'ultimo la più totale fiducia.

-Ti voglio bene, Lovi. Ora devo andare a fare la spesa, non c'è più pasta e la cucina di Lud fa schifo! Saluta tutti da parte mia, d'accordo?

-Vi saluta.- bofonchiò Lovino, sicchè l'intera brigata si accostò all'auricolare gridando un caloroso: -Ciao, Feliiiii!

-Mi fate diventare sordo, ragazzi! Ciao, vi voglio tanto bene! Ciao, Lovi!- strillò Feliciano, un attimo prima di riattaccare.

-Spero davvero che starà bene.- sbuffò Lovino, riponendo il cellulare nella tasca del cappotto.

-Sa cavarsela. E poi c'è mio fratello, con lui.- lo rassicurò Gilbert, arruffandogli la zazzera scura.

-Oh, siamo arrivati!- esclamò Antonio, additando l'edificio di fronte a loro: tra una miriade di piccole bancarelle e oltre un denso mare di turisti, c'era l'ingresso del Museo Ebraico, che nessuno di loro aveva davvero voglia di visitare ma che era l'unica via di accesso al cimitero.

 

-Prestami la schiena.- ordinò Arthur a Francis, poggiandovi sopra il suo pezzetto di carta e cominciando ad armeggiare con la penna.

Uno alla volta, tutti quanti scrissero i loro desideri e li affidarono alle vetuste pietre del cimitero ebraico, alle effigie consunte dal tempo e alle genti del passato che riposavano sotto di esse. Soltanto Lovino se ne astenne, continuando a fissare i compagni con fare scettico.

-Davvero credete a questa cazzata? Coglioni.- continuava a sbraitare, standosene in disparte.

Quando fecero per uscire dalla nera cancellata del cimitero, però, si accorsero che l'italiano era sparito.

-Ohi, dov'è Lovi?- domandò Antonio, preoccupato.

-Era qui un attimo fa.- osservò Elizaveta. -Proviamo a chiamarlo, forse è rimasto indietro.

-No, aspettate: è là.- fece Francis, additando la figura del ragazzo immerso tra le lapidi, chino su una di esse.

-Che diamine sta facendo?

-Non lo so, Gil. Non riesco a capirlo... Tonio, perchè stai sorridendo?

-Usciamo, ragazzi. Aspettiamolo fuori.- tagliò corto lo spagnolo, e così fecero.

Pochi istanti dopo, anche Lovino li raggiunse.

-Bastardi, mi avete lasciato indietro!- brontolò.

 

Su una delle mille lapidi di pietra, c'era un biglietto scritto in italiano.

Era anonimo, ma l'ultima riga recitava: “...ma tanto lo so che è una stronzata, sono proprio un coglione.”

 

Dopo un pasto frugale, visitarono una lunga schiera di sinagoghe.

Ve n'era una, in particolare, le cui pareti recitavano, oro su bianco, l'intera lista delle vittime dell'Olocausto.

La permamenza dentro quell'imponente edificio, se pure per una manciata di minuti, sortì un certo effetto su tutti loro e, anche se nessuno volle darlo a vedere, si sentirono sollevati quando furono nuovamente all'aria aperta, tra i mille venditori ambulanti.

Nessuno, inoltre, si trattenne dall'acquistare un souvenir: una palla con la neve, una vistosa Mano di Fatima, un amuleto, uno zuccotto ricamato. Oggetti che mai avrebbero esposto in pubblico, insomma, ma che avrebbero costituito un bel ricordo di quelle giornate, che avrebbero guardato in futuro e che avrebbero suscitato in loro l'impulso di farlo ancora.

 

-E domani?- domandò Gilbert, quando furono nuovamente di fronte all'Alchymist Grand Hotel.

-Ma come? Lo avevamo deciso insieme, non ricordi?- rispose Elizaveta.

-Non ricordo.- insistette. -Se non vuoi dirmelo, vorrà dire che sbircerò sul block notes quando ti addormenterai.

-Farò la guardia al block notes per tutta la notte.

-Posso conservarlo io, fino a domani.- propose Arthur.

Elizaveta acconsentì, lasciando Gilbert a bocca asciutta.

Presero l'ascensore e, come per le due sere precedenti, salutarono Arthur e Francis al primo piano e proseguirono. Una volta separatisi anche dagli altri, sul volto di Gilbert comparve un'espressione di disappunto.

-Qualcosa non va?

-No, stavo solo pensando...

-A cosa?

-C'è una sola cosa che proprio non mi va, in questa vacanza.

-Sarebbe?

Un ghigno comparve sul volto di Gilbert.

-Io e te non restiamo mai soli in ascensore, Elsbeth.

 

*Non dovresti nasconderti: sei così bello, mio piccolo pezzo di cielo...

**Smettila di dire sciocchezze e vieni qui, prima che l'acqua diventi troppo fredda.

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Capitolo 4
*** Terzo giorno: Hallelujah ***


Terzo giorno: Hallelujah

 

Gilbert non era mai stato un bravo musicista. Non come Roderich, almeno.

Però, nonostante nessuno l'avesse mai saputo, Gilbert amava suonare: non gl'interessava essere bravo, dirigere orchestre e tenere concerti, voleva soltanto suonare.

Perchè c'è un piano, nel tuo salotto?” gli domandava la gente, senza neppure sapere che, dentro la casa del prussiano, c'erano anche un clarinetto, un violino e un violoncello.

Quella sera, come quasi ogni sera, Gilbert se ne stava nella penombra del suo salotto, con la luce della luna che filtrava dai vetri delle grandi finestre e accarezzava il suo volto pallido, con i propri pensieri, e con le dita che danzavano sui tasti d'avorio producendo una melodia elementare, senza pretese ed incredibilmente dolce.

Quel piano conosceva le sue sofferenze, attraverso di esso fluivano tutti i suoi pensieri, le sue ansie, le sue paure.

D'un tratto, avvertì un rumore alle sue spalle. Cessò di suonare e si voltò verso la porta: sulla soglia c'era una giovane donna, bella come le luci del paradiso: i capelli castani raccolti in una crocchia da cui qualche ciocca ribelle era sfuggita; le mani sottili che s'intuivano dietro la stoffa bianca dei guanti; le generose curve del suo corpo fasciate da un lungo abito verde scuro.

-Continua a suonare, ti prego.- sorrise la donna.

-Perchè sei venuta qui?- domandò Gilbert, quasi faticando a tenere lo sguardo su di lei.

-Vuoi che vada via?- fu la risposta dell'altra.

-Non prenderti gioco di me, Elsbeth.

La donna chinò lo sguardo, tormentandosi le mani in grembo.

-L'Impero non esiste più. Tra me e Roderich è finita, Gil.- sospirò. -So che è troppo tardi, ormai; sono stata un'idiota a venire qui.

-Di che cosa stai parlando?- mormorò Gilbert, con voce rauca.

-Voglio stare con te, Gil. È tardi, lo so: non pretendo di poter venire a casa tua, nel cuore della notte, dirti che ti amo e sistemare tutto per sempre, come se potessi ripagare tutto quel che hai sofferto a causa mia. Ma volevo dirtelo, ecco.

Gilbert si alzò in piedi e si fece avanti, cercando quegli occhi verdi che gli erano mancati per tanti, troppi anni.

-Deduco tu sappia che, ora che sei venuta qui, non ti lascerò più andare via.- dichiarò, con un bieco sorriso.

-L'ho immaginato.- sorrise a sua volta la donna, un attimo prima che le sue labbra venissero travolte da quelle dell'uomo, sottili, fredde come l'inverno.

Sanno di menta.” pensò tra sé e sé l'ungherese.

Gelso nero.” si disse il prussiano.

Percepiva il vuoto dentro il proprio animo provato finalmente colmarsi, mentre la stringeva a sé forse con troppa foga; sentiva di avere nuovamente il mondo tra le sue mani, una forza immensa scorrere dentro le sue vene, riempirgli i polmoni e intasargli la testa, come una droga, come adrenalina.

Intuì le dita della donna intrecciarsi dolcemente con i suoi capelli bianchi, accarezzargli lentamente la nuca...

Seguì con l'indice la cucitura del suo guanto, fino al punto in cui questa si spezzava in mezzo alle dita; ne cercò le punta e da lì, lentamente, un centimetro alla volta, incominciò a sfilare, lasciando che il guanto cadesse ai loro piedi. Così fece anche per l'altro.

Solo quando entrambe le sue mani furono finalmente libere, la donna iniziò a sbottonargli la camicia, lentamente: avevano tutto il tempo del mondo.

-Versprich mir, dass du nie weg.*

 

-Esküszöm.-rispose la donna, con un tenero sorriso, scostando una ciocca di capelli dalla fronte imperlata di sudore del prussiano. -Válaszom soha nem fog megváltozni.**

Gilbert carezzò dolcemente le sue guance arrossate, poi strinse la sua mano nella propria e se la portò al petto, ancora scosso dall'affannoso riempirsi e svuotarsi dei polmoni e dal frenetico, possente battito del suo cuore.

Non c'era altro posto in cui desiderassero essere che lì, sotto quelle coltri dai ricami barocchi, avvolti nel calore dei loro corpi e con la sinfonia del loro respiro a spezzare quel silenzio gravido ed intenso.

-Elsbeth?

-Mh?- mugugnò l'ungherese, stringendosi al suo petto, con le labbra premute sopra lo sterno.

-Ti amo, Elsbeth.

-Anche io ti amo, Gil.- sussurrò a mezza voce.

-Non ti stancherai mai di fare l'amore con me?- ridacchiò l'uomo.

-Mai.- rispose l'altra, scuotendo energicamente la testa. -Anche se sappiamo entrambi che sono molto più brava di te.

-Ma davvero?- scandì Gilbert, con un sorriso sbilenco. -Hai bisogno di un'ulteriore verifica o te lo rimangi seduta stante?- domandò, posizionandosi gattoni su di lei.

-Sono sempre stata più brava di te.- insistette la donna, sollevando scetticamente un sopracciglio.

-Allora la mia è una sfida.

Elizaveta lanciò un'occhiata all'orologio: le cinque e un quarto del mattino.

-Accettata.

 

-Wow. Non me la ricordavo così grande.- affermò Francis, tra le sfarzose navate di Chiesa di Santa Maria di Tyn.

Tutti quanti apparivano più allegri e riposati, nel loro terzo giorno di permanenza a Praga: avevano fatto l'abitudine, ormai, ai pasti frugali e ai ritmi serrati che caratterizzavano quelle lunghe giornate, nonché ai fasti quasi esagerati dell'hotel.

-E neppure così bella.- aggiunse Arthur, scattando foto ad ogni angolo della chiesa.

-Dov'è Gil?- domandò d'un tratto Antonio. Non faticarono a trovarlo: aveva scavalcato il piccolo cancello di ferro e si trovava ora ai piedi dell'altare, in ginocchio, con i tiepidi raggi del sole che filtravano dalle vetrate e gl'illuminavano il capo.

Quando lo videro, avvolto in quel lungo soprabito nero, ai piedi dell'altare dorato, parve loro quasi di rivedere il Gilbert di molti, molti anni prima, nel massimo del suo fulgore, tanto glorioso e vitale da apparire quasi sotto una luce divina.

Antonio e Francis si scoccarono un'occhiata complice e seppero cosa fare: silenziosamente, oltrepassarono la cancellata e s'inginocchiarono sui gradini, affiancando il loro migliore amico.

-Non sapevo lo facessi ancora.- sorrise Francis.

-Cosa?- chiese Gil, colto di sorpresa dalla presenza dei due antichi compagni.

-Pregare.- fecero gli altri due, in coro.

-Erano anni che non lo facevo.- rispose il prussiano, forse mentendo, forse no.

-Dovremmo viaggiare più spesso insieme, noi tre. Come ai vecchi tempi.- affermò Antonio, ponendo una mano sulle spalle di Gilbert.

-Come ai vecchi tempi.- fece eco Francis, imitando l'amico.

Gilbert guardò prima uno, poi l'altro, e poi sorrise: sfoderò il suo sorriso migliore, smagliante, ampio, consapevolmente un po' maligno.

E poi si unì all'abbraccio, mentre tutti e tre erano ancora ai piedi dell'altare, insieme ancora una volta, come sempre, come...

-Come ai vecchi tempi.- terminò il prussiano, un attimo prima che il custode intimasse loro in un pessimo inglese di tornare dall'altra parte del cancello.

Quel momento, però, sarebbe rimasto per sempre, si disse Arthur, rimirando la fotografia appena scattata.

 

Ad appena pochi passi dalla chiesa, dietro un angolo di Piazza della Città Vecchia, c'era l'Orologio astronomico.

-È deprimente.- fu il secco commento di Lovino.

-Siamo in tempo per il rintocco delle undici.- affermò Arthur, tenendo d'occhio il suo orologio da polso.

Intorno a loro, intanto, si stava radunando una piccola folla.

-Cazzo fa, tutta 'sta gente?- brontolò ancora l'italiano.

-Aspetta.- ridacchiò Elizaveta.

Non fece in tempo a domandare “cosa?” che lo spettacolo prese avvio: le due piccole finestre, poste al di sopra del cerchio scuro dell'orologio, si aprirono, e dietro di esse fece la sua comparsa una lunga e solenne parata di santi, cadenzata dagli inquietanti rintocchi d'una piccola campana, sbatacchiata da -un brivido corse lungo la schiena di Lovino, quando se ne accorse- uno scheletro, fedelmente riprodotto da un lato della torre. Il triste pensiero che affiorò alla mente dell'italiano fu che doveva essere stato un autentico pazzo a progettare quella storpiatura, o qualcuno talmente malvagio da voler infondere una grande angoscia in tutti i malcapitati passanti. Il messaggio era chiaro: è passata un'altra ora della tua esistenza, non dimenticarlo.

Si domandò come potessero, milioni di turisti, affrontare un viaggio per poi aspettare con il naso per aria che uno scheletro ghignante si beffasse di loro.

Il monotono rituale durò per una lunga manciata di secondi, al termine del quale una sagoma comparve in cima alla torre, tanto alta che faticavano a scorgerne la fine svettare nel cielo azzurro, e intonò un breve pezzo alla tromba.

-Viene pagato dieci corone al giorno.- sussurrò Elizaveta all'orecchio di Lovino.

-Meno di cinquanta centesimi per fare 'sta cazzata ad ogni ora? Che idiota.

-Orsù, marmaglia!- li richiamò Gilbert, felice come una pasqua, mentre la folla iniziava a diradarsi. -Che fate lì impalati?- ridacchiò, incamminandosi lungo il marciapiede alla loro sinistra.

Ormai dimentichi del macabro memento mori a cui avevano poc'anzi assistito, lo seguirono verso la meta successiva, la più attesa della giornata, che fu un toccasana per tutti loro ma che avrebbe istigato i loro portafogli al suicidio, se questi avessero avuto una propria volontà: l'Hard Rock Cafè.

Era a un passo dall'Orologio e pareva quasi nascondersi tra gli antichi palazzi del centro storico; oltre l'ingresso, però, si presentò infinitamente più grande di quanto apparisse all'esterno.

Arthur non fece molti acquisti; si perse, invece, tra gli emblemi dei suoi beniamini, con un velo di nostalgica malinconia che velava di tanto in tanto il suo viso dai tratti fini ed eleganti. Si rivide con indosso quegli indumenti stravaganti, con i capelli scompigliati e il corpo costellato di piercing, i cui fori adesso si sforzava sempre di celare.

Lovino si aggirò a lungo tra vetrine e scaffali, dubbioso, ma finì per rintanarsi tra i tavoli del Cafè, di fronte a un sandwich e una birra; fu Antonio a fare acquisti per entrambi perchè, nonostante Lovino si divertisse a disprezzare le sue scelte in fatto di abbigliamento e affini, in fondo i loro gusti non erano poi così dissimili.

Francis riuscì a farsi detrarre quattrocento corone dal prezzo di una spilla da collezione che ne costava millecinquecento soltanto scambiando due chiacchiere con una commessa (e facendo andare su tutte le furie Arthur, che si placò soltanto a costo della preziosa spilla).

Ma furono Gilbert ed Elizaveta a spendere più di tutti quanti, congedandosi con una quantità sorprendente di sacchetti e le tasche molto più leggere di quando erano entrati.

Stanchi e carichi di nuovi acquisti, che già tremavano al pensiero di dover insaccare dentro le loro valige, decisero di tornare in albergo subito dopo aver pranzato.

 

-Era tanto tempo che non mi rilassavo così.- sorrise Arthur, beato, muovendo lentamente le gambe quel tanto che gli consentiva di restare a galla.

-Avevamo proprio bisogno di una vacanza, eh?- sorrise Francis, che se ne stava accanto a lui, con i gomiti a bordo vasca e il viso tra le mani.

Dall'altro lato della piscina, sotto una Venere di marmo dal volto malizioso, c'erano Gilbert ed Elizaveta.

Si trovavano in una delle tre piscine dell'hotel, la più piccola e accogliente, che era comunque abbastanza grande da permettere loro di nuotarvi dentro in tutta libertà senza disturbare gli altri.

-Perchè non hai messo il costume da bagno che ti ho regalato prima di partire?- domandò Antonio a Lovino, non appena quest'ultimo si sfilò l'accappatoio.

-Perchè c'erano delle fottute tartarughe disegnate sopra.- sbottò l'italiano, prendendo una piccola rincorsa e tuffandosi senza tante cerimonie nell'acqua fresca proprio accanto al punto in cui si trovava l'altro.

-Ma ti sta bene!- protestò ancora Antonio, non appena riemerse.

-Ma se non l'ho mai messo!- ringhiò, gettandosi con impeto su di lui e costringendolo con tutto il proprio peso sott'acqua. Nonostante non fosse abbastanza forte da trattenerlo, lo spagnolo finse per qualche istante di annaspare, dopo di che immobilizzò l'altro per le gambe e se lo caricò sulle spalle.

-Vero. Però io ho fatto un sogno in cui ce l'avevi... anche se non l'hai avuto addosso per molto.- lo stuzzicò.

-Brutto bastardo!- imprecò Lovino tra i denti, prendendo a pugni la schiena olivastra e muscolosa dell'uomo.

Quando avevano preso possesso della vasca, la prima idea era stata quella di improvvisare qualche gioco di gruppo, ma la stanchezza e il bisogno di relax avevano fatto cambiare idea a tutti: con le giornate passate a muoversi freneticamente in lungo e in largo per le vie della capitale e le ripetute notti intense -nessuno di loro era stato esplicito a riguardo, ma un tacito accordo aveva decretato l'impossibilità di considerare la notte come “riposo”- avevano bisogno di un pomeriggio di totale ozio.

Fino a quel momento, però, le notti di Lovino e Antonio erano state per lo più ristoranti e silenziose.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*Giurami che non andrai mai via.

**Lo giuro. La mia risposta non cambierà mai.

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Capitolo 5
*** Quarto giorno: We belong together ***


Quarto giorno: We belong together

 

-Imposto la sveglia alle otto e trenta, sei d'accordo? Ce la fai, in mezz'ora, a prepararti?- domandò Antonio, con il telefonino in mano, avvicinandosi al letto dove l'italiano si era già coricato, rimboccandosi le coperte fin sotto il naso.

-Sì, sì, ce la faccio.- sbuffò Lovino, allungando un braccio per spegnere il lume sul proprio comodino.

Antonio lasciò il cellulare sulla scrivania e spense l'altro lume, coricandosi al fianco del compagno, in silenzio.

Nel buio della camera, Lovino aggrottò la fronte. Antonio si stava comportando in modo strano: di solito, sembrava non vedesse l'ora di essere solo con lui, per potergli saltare addosso. “Sei stanco anche oggi?” gli domandava, con un'espressione da cane bastonato che, comunque, non attaccava. Quella sera, invece, sembrava stranamente silenzioso e distaccato.

-Ohi, Antonio...- mugugnò, sperando che non si fosse già addormentato.

-Cosa c'è, Lovi?- domandò l'altro di rimando, facendolo sentire un po' sollevato.

-Va... tutto bene?

-Non è da te, questa domanda.- ridacchiò lo spagnolo. -Sì, tutto bene. Perchè me lo chiedi?

-Sei silenzioso. Non è per niente da te.- sbottò, forse lasciando trasparire un po' troppa preoccupazione, rispetto a quanto avrebbe voluto.

-Pensavo volessi riposare, querido. Non volevo disturbarti.- si giustificò Antonio, girandosi su un fianco per poterlo guardare negli occhi. Anche al buio, Lovino intuiva perfettamente quegli occhi luminosi e smeraldini guardarlo con adorante tenerezza e un dolce sorriso comparire su quel volto.

-Non fare il finto tonto, pomodoro. Ti conosco troppo bene.- brontolò, mettendosi repentinamente a sedere, subito imitato dall'altro.

-Lovi, va tutto bene. Fidati di me.- tentò di persuaderlo. Eppure, non lo toccò: né una carezza, né un bacio per rasserenarlo. E anche questo gli pareva troppo, troppo strano.

-Non dire stronzate!- esclamò. Dalla sua voce, il cui tono si era alzato di un paio di ottave, si evinceva ora tutta la sua preoccupazione. -Fammi quella cazzo di domanda.

-Di quale domanda parli?- mormorò lo spagnolo, aggrottando le sopracciglia.

-Oh, maledizione...- imprecò tra i denti, stringendo la presa sulla candida stoffa delle lenzuola. -Quella a cui io ti rispondo: “Vaffanculo, brutto stronzo pervertito”.-

Antonio impiegò un istante per comprendere, poi scoppiò in una fragorosa risata.

-Che cazzo hai da ridere?

-Il fatto è che... -rispose l'altro, sforzandosi di soffocare il riso- ...aspettavo lo facessi tu, quando ne avessi avuto voglia.

-Coglione. Sai che non lo farei mai. Sei tu il pervertito, tra noi due.- tagliò corto l'italiano, gettandosi nuovamente sotto le coperte. Antonio sospirò, avvicinando poi le labbra all'orecchio dell'altro: -Sei stanco, Lovi?- sussurrò. Lovino esitò a lungo, prima di accennare un “no” con la testa e tendere timidamente il capo verso l'altro, come a confermare il proprio gesto, in attesa di un bacio che non tardò ad arrivare. Antonio gli si mise cavalcioni, senza staccare le labbra dalle sue, cercando con le dita ogni centimetro del suo corpo. La sua bocca lasciò le labbra dell'italiano soltanto per spostarsi sul suo collo, per lasciarvi piccoli, umidi e rossi baci.

-Vai subito al sodo, eh, pervertito?- borbottò Lovino, quando percepì le mani del compagno stringersi intorno all'elastico dei suoi boxer e sfilarglieli lentamente.

-¡Que quisquilloso! Potresti sempre condurre tu le danze, stavolta, querido.- ridacchiò Antonio, sollevandosi sui palmi delle mani e osservando il giovane arrossire sotto di lui.

-Sai che posso.- sibilò Lovino, mentre i suoi occhi venivano catturati dal piccolo crocifisso d'oro che pendeva dal collo dello spagnolo, e che oscillava fastidiosamente avanti alla sua faccia.

-Fallo, allora.- sorrise lo spagnolo, stringendosi all'altro e stendendosi sulla schiena, portandolo sopra di lui. Nonostante il buio, poteva ben immaginare quale fosse, in quel momento, il suo colorito.

-Lo faccio davvero, eh!

-Ti sto aspettando.

Per un istante, Lovino si sentì con le spalle al muro. Situazioni come quella capitavano molto, molto di rado: si sentì goffo e inesperto, ma di fronte a un'occasione che non poteva non prendere al volo.

-Però... non voglio commenti, d'accordo?

-Tranquilo, Lovi.- sorrise Antonio, scuotendo piano la testa. -Calmo. Hai tutta la notte.- lo rassicurò, sollevando una mano per carezzargli i capelli scuri, giocherellando quasi distrattamente con il suo lungo ricciolo ribelle. Lovino sbuffò, arricciando il naso.

-Estoy en tus manos, mi amor.- ribadì ancora lo spagnolo. -Completamente nelle tue mani.

Lovino fece un respiro profondo, come prima di un'immersione. Si concesse un breve attimo di esitazione, prima di premere le proprie labbra contro quelle dell'altro.

Diamo il via alle danze, ora.”

 

-Che rottura!- esclamò Lovino, quando furono nuovamente fuori dal Museo Nazionale, esibendosi in un plateale sbadiglio. -Due ore di fila per vedere qualche minchiata...

-Iniziavo a sentire la mancanza dell'aria.- ridacchiò Gilbert, inspirando a fondo.

Si trovavano nuovamente ai margini della grande Piazza San Venceslao, che ospitava, oltre a una vistosa statua del patrono di Praga, anche il Museo Nazionale e il pacchiano -in proposito, tutti furono pienamente d'accordo- monumento a Jan Palach, padre del movimento noto come “Privamavera di Praga”.

-Nulla a che vedere con les Champs-Élysées, comunque.- sorrise Francis, scuotendo la testa, quando furono sulla cima del lungo pendìo che la piazza formava, richiamando alla mente l'immagine della celebre strada parigina. Bisognava ammettere, però, che quella vista così suggestiva stuzzicava tutti, infondendo una forte sensazione di dominio sulla città sottostante.

Per ferma volontà di Elizaveta, avevano trascorso la mattinata tra le vie del centro, a caccia di acquisti più o meno saggi ma soddisfacenti.

Il marchio verde, bianco e nero di Starbucks faceva capolino quasi a ogni angolo (lungo la stessa piazza ve n'erano ben tre), sicchè trovare un luogo in cui rifocillarsi, prima di intraprendere la lunga traversata all'interno del museo, non ra stato affatto difficile.

 

Più difficile fu, invece, trovare la location designata per la cena.

-Ammettilo: ci siamo persi.- sbuffò Arthur, quando vagavano ormai da mezz'ora tra le strade del centro storico, senza però riuscire a trovare la loro destinazione.

-I nomi delle strade sono tutti uguali!- protestò Gilbert, aguzzando la vista sulla mappa.

-Non hai mai avuto un gran senso dell'orientamento, Gil.- ridacchiò Antonio, sottraendogliela bruscamente e appiattendola sul muro dell'edificio alla sua sinistra. -Allora, vediamo...- mormorò tra sé e sé. -Siamo sulla strada giusta. Manca ancora un po' di cammino, però.- annunciò infine, ripiegando la mappa.

Proseguirono per un'altra manciata di minuti, fino a giungere sotto un'invitante insegna che recitava, oro su legno: U Fleků.

Ad accoglierli oltre di essa, trovarono un'atmosfera allegra e uno stuzzicante profumo d'antico.

Una vivace canzone folkloristica risuonava da qualche parte, accompagnata da un festoso vociare e da un vortice di odori deliziosi.

-Minchia.- commentò Lovino, guardandosi intorno.

-Posso esservi utile?- sorrise loro un giovane cameriere in gilet verde.

-Sì, direi di sì. C'è una prenotazione per sei persone a nome “Héderváry”.- si fece avanti Elizaveta.

Vennero accompagnati al loro tavolo, in una delle nove sale del locale, la più grande e affollata, colma di persone di ogni nazionalità unite dalle spezie che contraddistinguevano i piatti cechi e dalla scura tonalità della birra praghese.

La musica udita poco prima, come scoprirono, proveniva proprio da quella sala, in cui, in un angolo, si esibivano quattro musicisti in abiti tradizionali.

-Quest'atmosfera mi piace. Non trovi, Fran?- sorrise Arthur, spulciando il ricco menu, affibbiando al contempo una lieve gomitata al braccio di Francis, seduto alla sua destra.

-Mhmh...- annuì il francese, stampandogli un piccolo bacio sulla guancia, ma Arthur era troppo di buon umore per protestare.

Di fronte alle calde e abbondanti portate che vennero servite loro qualche istante più tardi, poi, l'allegria del ristorante conquistò completamente anche loro e, unita all'ingente quantità di birra, contrubuì a sciogliere ogni tensione, tanto che neppure Lovino osò lamentare la mancanza della cucina italiana.

-Questo posto piacerebbe da matti anche a Lud.- disse Gilbert, intingendo una salsiccia nella senape. Non poteva mangiare salsicce senza che il pensiero corresse a suo fratello. -La prossima volta li carichiamo di peso sull'aereo. Sei d'accordo, Lovi?- aggiunse rivolto all'italiano, seduto di fronte a lui.

-Certo che sì!- esclamò quello, posando sul tavolo il boccale mezzo vuoto e pulendosi la bocca con una manica della camicia.

-Direi che dovremmo invitare tutti, la prossima volta. Più siamo, più ci divertiamo.- interloquì Francis.

-Non mi sembra una cattiva idea, in fondo.- borbottò Arthur, a mezza voce. Contrariamente a quanto lasciasse pensare, Arthur amava i viaggi, il mescolarsi delle persone, il chiasso e l'aria densa di alcol e risate che si respirava in quel luogo. Aveva sempre amato esplorare luoghi sconosciuti e riscoprire quelli noti, condividere tutto con chi aveva accanto ed accumulare esperienze diverse dalla vita di tutti i giorni.

-Sarebbe bello, se qualche volta facessimo qualcosa tutti insieme.- assentì Antonio. -Ci incontriamo soltanto quando ce lo impongono i nostri capi, manchiamo di spirito d'iniziativa!

In fondo, tutti i presenti erano reduci d'un passato che non aveva mai permesso loro di annoiarsi e, per quanto qualcuno potesse considerarli “stanchi”, nessuno di loro lo era realmente: nella loro stessa anima era insito uno spirito d'avventura che non si sarebbe mai estinto.

-Dove andremo, la prossima volta?- saltò su Elizaveta, alzando pensierosamente gli occhi alle travi di legno del soffitto. -Potremmo andare... a visitare Petra! O il Triangolo delle Bermuda!

-Non male, come idea.- annuì Arthur.

-Perchè non andiamo a Mosca?- propose Antonio.

Gilbert gli lanciò un'occhiataccia.

-Perchè c'è Ivan. Prendiamo un mappamondo e puntiamo il dito alla cieca.- fece il prussiano.

-Ottimo! Lo faremo appena tornati a Berlino. Se dobbiamo organizzare un altro viaggio, però, se ne parla per le vacanze di Pasqua.- dichiarò Antonio, con un voluminoso boccone di gulas tra le fauci.

Poi Gilbert si alzò in piedi, attirando l'attenzione del resto del gruppo e di buona parte dei presenti.

-Ohi, ragazzi! Questa musica... Vieni, Elsbeth!- ridacchiò, tendendo una mano all'ungherese, che lo seguì lontano dal tavolo, di fronte all'ingresso della sala.

-Gil, ma cosa...?

-Mi concederesti questo ballo, Elsie?- ghignò l'uomo, andando a stringerle la vita con la mano libera, attraendola a sé abbastanza da sentire i loro respiri carichi di alcol fondersi tra loro.

-Solo se prometti che non mi farai cadere.- rispose l'altra. Gilbert non era mai stato eccellente, come ballerino, e ancor meno lo era da brillo.

Il prussiano rise, stringendosi a lei e guidandola in un ballo sgraziato e goffo, ma divertente, che indusse anche gran parte degli astanti ad alzarsi ed unirsi alle danze.

Gli altri quattro, però, rimasero timidamente incollati ai loro posti.

-Su, coraggio!- li incitarono, afferrandoli per le braccia nel tentativo di trascinarli su quella pista improvvisata. Non ci volle molto a convincere Francis e ancor meno a convincere Antonio, e pur di non vederli ballare insieme anche Arthur e Lovino lasciarono un po' a malincuore i loro posti per unirsi all'euforia collettiva.

 

-Ti stavo cercando, Feliciano. Non credi sia ora di andare a dormire?

L'italiano era in salotto, rannicchiato in un angolo del divano, con il cellulare stretto convulsamente tra le dita sottili.

-Ho provato a telefonare a Lovi, ma non risponde.- mormorò, con un fil di voce. Ludwig prese posto accanto a lui, circondandolo con un braccio e lasciando che l'italiano abbandonasse il capo sulla sua spalla.

-Forse sono in un posto affollato.- ipotizzò, ma Feliciano scosse piano la testa.

-A quest'ora, di solito, sono già tornati in albergo.

-Allora si saranno fermati a cena fuori.- sorrise il tedesco. -Non devi preoccuparti per lui, sa cavarsela. E poi non è solo.- cercò di tranquillizzarlo. Quando il suo Feliciano era triste, una pessima sensazione calava su di lui: si sentiva triste a sua volta, e infinitamente impotente.

-Hai ragione, Lud. Non dovrei preoccuparmi.- sussurrò il giovane, tirando un profondo sospiro. In fondo, lui era con il suo Lud, e Lovi con il suo Antonio e con tutti gli altri. Non c'era motivo di preoccuparsi.

-Lud?- chiamò, serrando la presa sul pigiama dell'altro.

-Cosa c'è?

-Non farmi preoccupare per nessun motivo al mondo.- ordinò, in tono dolce ma perentorio. Ludwig sorrise, andando a posare dolcemente le proprie labbra sulla fronte dell'italiano.

Bastò questo a far sentire entrambi molto meglio, e a far allentare la stretta di Feliciano sul telefonino. Si sentiva più tranquillo, adesso: andava tutto bene.

 

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Capitolo 6
*** Quinto giorno: Drunken lullabies ***


Quinto giorno: Drunken lullabies

 

Avevano deciso di concedersi una giornata di tregua, alla larga dalle infinite file dei musei e dalle piazze affollate di turisti. In fondo, avevano visto praticamente tutto quel che c'era da vedere e avevano ancora due giorni a disposizione.

Così, quella mattina si erano alzati con molto comodo e si erano dedicati alla ricerca di una buona macchia di verde in cui improvvisare un picnic. La loro scelta era infine caduta su Petřín Hill, uno dei parchi più grandi di Praga. Era già passata l'una, quando presero posto in un'accogliente radura tra i salici, solitaria e soleggiata.

Rivestirono un piccolo quadrato d'erba con una tovaglia di carta rossa e bianca, acquistata poco prima, che poi coprirono di vivande che facevano capolino da contenitori di plastica.

-Non sarà granchè, ma ci accontenteremo.- sbuffò Arthur, facendo scorrere lentamente lo sguardo sulla piccola tavola imbandita, con pacata sufficienza.

L'idea di organizzare un picnic era partita da Elizaveta, la quale, anche nei momenti di maggiore stanchezza, non mancava di buon umore e di spirito d'iniziativa, trascinando tutti gli altri.

E così, in breve tempo avevano allestito un lauto banchetto a base di panini, panini e ancora panini. E, per volontà di Gilbert, di un'industriale quantità di birra di ogni tipo.

Quel giorno, però, il prussiano appariva insolitamente pensoso.

-Gil, va tutto bene?- gli sussurrò Francis in un orecchio, cercando di non farsi notare. Gilbert annuì.

-Sono... soltanto un po' nervoso.- rispose di rimando, lanciando occhiate agli altri, assicurandosi che non potessero udirlo. -Venite con me.- mormorò poi, rivolto a Francis e Antonio, che lo seguirono senza esitazione qualche metro più in là.

-Che cacchio fanno quei tre?- borbottò Lovino, rimasto solo con gli altri due, che fecero spallucce.

-Mi domando cosa staranno confabulando...- fece eco Arthur, ma Elizaveta scosse la testa.

Parlottavano in cerchio, ognuno con le braccia sulle spalle degli altri due, sollevando il capo di tanto in tanto per assicurarsi di non avere intorno orecchie indiscrete.

-COOOOOSA?!- gridò a un tratto Antonio, un attimo prima che Gilbert gli rifilasse un'indelicata manata dietro la nuca.

-Che idiota.- commentò Lovino, a quella vista.

I tre si riunirono agli altri continuando a lanciarsi complici occhiate, che il prussiano si affrettò a far concludere con un brusco ed eloquente gesto della mano.

-Ci state... nascondendo qualcosa?- domandò Elizaveta, schioccando la lingua.

-No.- rispose in coro il trio, scuotendo il capo.

Per nulla convinta, decise di archiviare comunque la questione: Gilbert non aveva mai avuto segreti, per lei, perciò era solo questione di tempo.

Così, senza ulteriore indugio, diedero inizio al banchetto.

-Ci vorrebbe una chitarra.- osservò Antonio, tra un sandwich e l'altro.

-Ci vorrebbe un aquilone.- aggiunse Francis, quando un fresco sbuffo di vento gli scompigliò i lunghi capelli dorati.

Ma non avevano né l'una né l'altro, così finirono per cantare canzoni stonate, improvvisando le strofe che non ricordavano. Erano canzoni da taverna, dei tempi andati e da molti dimenticate; canzoni che puzzavano d'alcol e di sudore, di mare e di legno marcio.

Perfino Lovino, dopo aver protestato per un po', si unì al coro.

Erano fuori tempo, senza accompagnamento se non il cozzare delle bottiglie di birra durante i ripetuti brindisi, ma il canto, il cibo e la birra li avevano privati dei freni inibitori sufficientemente a farli sentire allegri e soddisfatti di quella loro maldestra esibizione.

 

Una volta terminato il pranzo e scolate tutte le birra disponibili, nel tardo pomeriggio, per la prima volta dal loro arrivo decisero di prendere strade diverse.

Inaspettatamente l'idea era venuta a Francis, di punto in bianco. Aveva pronunciato qualcosa nell'orecchio di Arthur, e l'inglese aveva assentito. E quando Lovino aveva affibbiato una gomitata nello stomaco di Antonio, quest'ultimo gli aveva sussurrato un sorridente “Poi ti spiego”.

E così, Gilbert ed Elizaveta erano rimasti soli.

 

-Tu mi stai nascondendo qualcosa.- scandì la donna, scoccandogli un'occhiata carica di sospetto, mentre passeggiavano sotto le bianche carezze d'una luna appena sorta.

Il prussiano scosse il capo, stringendo la mano intorno a quella di lei.

-Mi conosci troppo bene, non riuscirei mai a nasconderti qualcosa.- ridacchiò.

-Abbastanza bene sa sapere che lo stai facendo.

Gilbert non riusciva a non stupirsi di quanto bene potesse comprendere tutto quel che c'era dietro ogni suo singolo gesto. Si conoscevano da sempre, questo era vero, ma mentre Elizaveta restava per lui una costante scoperta, gli sembrava di non avere più segreti, per lei.

Eppure, lei non se ne stancava mai.

Era anche per questo, dopotutto, che l'amava.

-Dove vorresti andare?- sorrise, vertendo altrove la conversazione. Questo, però, sembrò non irritare l'ungherese, che alzò al cielo i grandi occhi verdi, pensosa.

-Ponte Carlo.- dichiarò, e Gilbert non potè che esserne felice: era lontano, molto lontano.
Per quanto avesse ripetuto mentalmente il suo discorso un'infinità di volte, ringraziò il cielo di avere il tempo necessario per un'ulteriore ripasso.

-Gil, sei silenzioso.- mormorò Elizaveta, quando furono ormai a metà strada.

-Scusami, pensavo.

-A cosa?

-A... Guarda, c'è luna piena stasera!

-Gilbert!

Inutile continuare a fingere, pensò, ormai rassegnato all'idea di capitolare.

-Hai detto “Ponte Carlo”, e ti prometto che, appena ci arriveremo, ti dirò tutto quel che vuoi sapere.- affermò, premendo d'istinto la mano libera contro tasca interna del cappotto.

Ma per quanto cercasse di intraprendere le strade più lunghe, giunsero comunque a destinazione, e fu impossibile rimandare ulteriormente il momento fatidico, nonostante avesse ancora un gran timore e le mani sudate.

Era buffo, che fosse così nervoso, lui che aveva affrontato dure battaglie e temibili nemici.

-Allora?- sillabò Elizaveta, inarcando un angolo della bocca in un mezzo sorriso, premendo la schiena contro il piedistallo di pietra di una delle statue.

Così, con quell'aria di sfida e impazienza, stretta in quel lungo cappottino beige da cui spuntava una riccioluta gonna bianca... era bellissima, pensò, sentendosi d'un tratto terribilmente in imbarazzo.

-Allora, Gilbert?- insistette, incrociando le mani al petto.

L'altro sospirò, infilando una mano nella tasca interna della giacca ed estraendone un piccolo oggetto che Elizaveta non riuscì a definire, e che l'uomo nascose repentinamente dietro la propria schiena.

-Elsie...

-Sì, Gil?

-Ti ricordi cosa facevo quand'eravamo piccoli... e tu eri ancora convinta di essere un maschio?- domandò, lasciandosi sfuggire una risata sull'ultima parte della frase.

Vederla ora, piena e formosa, perfetta nella sua generosa femminilità, rendeva difficile immaginare il maschiaccio che era stata un tempo.

-Tutte quelle cose che continui a fare. Scrivevi i tuoi diari, sbattevi i tuoi presunti pregi ai quattro venti, andavi in cerca di guai...- ridacchiò la donna.

-No, no. Cosa facevo a te?

-Nessun effetto, se è quel che vuoi sapere.- rispose, e Gilbert stava già per protestare, quando aggiunse: -E cercavi sempre di mettermi dei fiori tra i capelli, quando dormivo. Ma io ti coglievo sempre sul fatto...-

-...e ti arrabbiavi, perchè i fiori non si addicono a un maschio.

-Precisamente.

-E allora?

-Avrei voluto regalarti un altro fiore, per questa occasione, ma... spero ti accontenterai.- sorrise, prima d'inginocchiarsi su una gamba e prendere un lento, profondo respiro.

-Gil, ma che stai...?- fece per domandare l'altra, prima che il prussiano le mostrasse cos'aveva in mano.

Una scatoletta di piccole dimensioni, rivestita di velluto blu, che, una volta aperta, rivelò il suo contenuto: un piccolo gioiello composto da tre rametti d'oro giallo, bianco e rosso che s'intrecciavano formando una piccola ghirlanda circolare, e che s'incontravano in una cornice di arabeschi floreali al centro della quale brillava un limpido diamante dal taglio lievemente ellittico.

-Ho studiato questo momento fin nei minimi dettagli, ma sto improvvisando. Questo è il mio modus operandi, Elsie, e tu lo sai. Avrei dovuto immaginare che imparare un copione a memoria sarebbe stato inutile. Però, qualcosa devo dirla.- mormorò, ansioso come un ragazzino al primo appuntamento. Fece una lunga pausa, durante la quale l'altra rimase in silenzio, imperscrutabile come solo una donna sa essere.

-So bene che è da idiota chiedertelo ora, dopo essere stati insieme per così tanti anni... So che non è necessario, direi quasi che è un mio capriccio. Non voglio che sia un obbligo, non voglio che sia un'alleanza. Io voglio... voglio che sia un matrimonio. Elsbeth, vuoi...?- ma non riuscì a terminare la frase, che l'altra posò un dito sulle sue labbra, mentre un tenero sorriso sorgeva sul suo volto illuminato dalla luce della luna.

-Gil, Gil... Tutto questo non ha senso. Sai bene quanto io ti ami senza che ci sia bisogno di metterlo per iscritto. E stare in ginocchio non ti si addice per nulla. Ma, Gil...- Elizaveta s'interruppe, mordendosi il labbro inferiore.

Le era tornato in mente un ricordo di molti, molti anni prima.

Sorrise, spostando le dita fino ad accarezzare i capelli del suo amato. E poi, annuì.

-Sì, Gil. Voglio sposarti.

-Questo... è un sì?- mormorò Gilbert, quasi incredulo.

-È un sì.

Gli occhi del prussiano s'illuminarono di una luce nuova, che non era né quella della luna né quella dei lampioni che costellavano il ponte.

-È un sì!- ripetè, schizzando in piedi, con la scatoletta ancora tra le dita, e stringendola a sé fino a sollevarla da terra e trascinarla in una goffa piroetta. -Questo, però, sarebbe stato comunque tuo.- le sorrise, cercando l'anulare della sua mano sinistra, a cui infilò dolcemente l'anello. -Come la prima volta.

-Come la prima volta? Ma allora...?

Gilbert scosse la testa.

-Ricordo, sì. Non è una coincidenza.

Elizaveta rimirò l'anello, così grande ma così raffinato, studiandone i riflessi, i dettagli più insignificanti ma perfetti.

-Gilbert?- domandò poi, arricciando il naso. -Che ore sono?

-Quasi mezzanotte.- rispose l'altro, scrutando l'orologio da polso. Si era fatto tardi, e avrebbero impiegato quasi mezz'ora a tornare in albergo, a piedi e senza mappa.

-Gilbert... Niente fretta. Dopo mezzanotte, non c'è più l'inserviente dell'ascensore.- disse Elizaveta, imitando il suo mezzo, inconfondibile ghigno.

 

-Gilbert! Che stai facendo?

-Taci, devo concentrarmi!

-Io parlo quando voglio!

-Smettila, Elsie! ...Ecco, ho finito. Toh.

-Cos'è 'sta roba?- domandò la bambina, con una smorfia contrariata, esaminando tra le dita il piccolo oggetto.

-A te cosa sembra?

Sembrava, in effetti, un piccolo anello, ricavato da fili d'erba intrecciati tra loro e sormontati da un delicato fiore bianco.

-Roba da femmine.- protestò Elizaveta.

Gilbert scosse il capo. Possibile che credesse ancora a quella storia del pisellino che cresce quando diventi grande?

-È una fede nuziale, dovresti esserne felice.

-Ma io sono un uomo!

-Siamo nazioni, che importanza ha se sei uomo o donna?- sbuffò il prussiano, sfilandole il piccolo anello dalle mani. -Da' qua.- tagliò corto, facendo per cercare il suo anulare, ma la ragazzina si divincolò, stringendo a sua volta il polso dell'altro nella mano.

-Se non importa, allora indossalo tu!

Gilbert sospirò, rassegnato.

-D'accordo. Dovrai mettermelo tu, però.- obiettò, tendendole la mano.

Con un largo e soddisfatto sorriso, l'altra l'afferrò di malagrazia e infilò l'anello.

-Ecco fatto. Ora sei mia moglie, Gil.

Gilbert arricciò un angolo della bocca, inizialmente contrariato. Poi, però, il suo volto si distese in un sorriso sereno.

In fondo, andava bene anche così.

 

 

 

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