Nient'altro che me stessa.

di Mickyivy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo specchio ***
Capitolo 2: *** Malattia ***
Capitolo 3: *** Nata impacciata ***
Capitolo 4: *** Butta fuori tutto ***
Capitolo 5: *** Perché tanto non ci si capisce ***



Capitolo 1
*** Lo specchio ***


Mi guardo allo specchio. Cosa vedo? Nient'altro che me stessa. Il problema è che ancora non so chi sono. Ho 19 anni, un passato complicato, una personalità asociale, seppur a prima vista non sembrerebbe. Mi guardo in questo specchio e mi chiedo: chi sono io? Cosa ho combinato nella mia vita? E mi rispondo che ancora sono giovane, che ho ancora tempo, che devo ancora finire gli studi. Ma la verità è che ho paura: ho paura di non saper vivere in questa società, ho paura che la mia timidezza non abbia mai fine, ho paura di continuare a balbettare all'infinito, e non potrò dare per sempre la colpa al fatto di pensare in due lingue diverse. E ancora, mi chiedo cosa vorrei fare in futuro, cosa saprei fare concretamente, dove vorrei vivere. Ma nessuna risposta viene ad accogliere la mia anima dubbiosa.

 

Quando avevo quindici anni, cercai di porre fine alla mia miserabile vita. Mentre mia madre lavorava mi recai al fiume. Era così bello, l'acqua non si fermava mai, scorreva sempre. Al contrario del mio mondo, che pareva fermo da quando mia nonna era morta. Non avevo lasciato nessun biglietto, nessun post su facebook. Niente che potesse far pensare che ero sparita. Riguardai il fiume e cominciai ad avvicinarmi, ero come ipnotizzata, il mio cuore gelido non provava nulla. Arrivata al bordo, toccai l'acqua con la punta delle dita, e vidi che un rametto, staccato da chissà quale pianta, era appoggiato a una roccia. Lo raccolsi e lo guardai meglio: attaccato a una fogliolina c'erano due piccolissime e delicate uova. Mi rallegrai, mi ravvivai e sentì come se il sangue tornasse a scorrermi nelle vene. Per fortuna avevo con me una bottiglia d'acqua (a causa del sole forte di quei giorni estivi). La svuotai, la riempii con acqua di fiume e ci misi dentro il rametto. Corsi all'agraria a chiedere cosa fare con le uova, e mi rispose che i pesci del fiume non sono addomesticabili, che quindi era meglio rimetterli in acqua. La sua risposta mi fece male, allora gli chiesi se potevo tenerli finché non si fossero schiusi e l'uomo accolse la mia proposta. Quel giorno ritrovai una piccola scintilla di felicità. Anche se non vidi mai cosa nacque dalle uova.

 

Spesso mi chiedo se io non sia strana. Non mi capisco, non so se mi sono mai capita. Do il meglio soltanto quando ho una grande responsabilità sulle spalle, ma allo stesso tempo impazzisco per il peso che ne deriva. Sarò davvero in grado di affrontare la vita?

 

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Capitolo 2
*** Malattia ***


Chi sono? Un insieme di molecole che si riuniscono a formare un intero corpo? E la mente? Dove sta in tutto questo?

Oggi provo dolore, rabbia, insoddisfazione, freddezza. Oggi sono un concentrato di ghiaccio, che quando se ne scioglie un po' diventano lacrime d'amarezza e sofferenza. Questo mio corpo debole mi stupisce sempre: riesce ad ammalarsi anche con tutti gli sforzi per tenerlo sano e forte. Vitamine, vita sana, esercizio fisico. Frutta, verdura. Semi dalle magiche proprietà e aggiungiamo la felicità. Forse il problema è PROPRIO la felicità. Solo quando si arriva in alto si può sprofondare per chilometri in una buca nascosta. Non vista. E cadi a lungo, senza mai fermarti. Anzi, ogni tanto ti fermi, ti aggrappi a qualsiasi cosa pur di attuttire la caduta, ma non serve a nulla: la mano scivola e cadi e cadi e cadi ancora. E ti chiedi perché devi sempre soffrire così tanto. Cosa avrò mai fatto di così terribile per meritare tutto questo dolore, sopratutto mentale oltre che fisico.

Il disprezzo di chi non sa cosa voglia dire fermarsi. Di chi non può mai perdere tempo. Di chi da anima e corpo per lavoro, anche quando al lavoro non è. Di chi non sa divertirsi o svagarsi in altro modo. 
Perché una persona così, non può capire me. 

Il 22 di questo mese arriverà mia sorella dall'argentina. Sono quattro anni e più che non la vedo. Basandomi su questo principio, a scuola, ho cercato di fare del mio meglio da subito, tanto che in due settimane avevo già 3 voti. Volevo riuscire a non mancare finché non fosse arrivata mia sorella, così da godermi con lei alcuni giorni in più, dato che resterà con noi solo 20 giorni. E poi, non so nemmeno quando riusciremo a rivederci. Ma non è andata così. Sabato stavo male: sono andata a scuola comunque, avevo solo quattro ore di lezione. Ho dovuto rinunciare (per la seconda settimana di fila) a dormire dal mio ragazzo (col quale già riusciamo a vederci poco di nostro) e a passare una serata tra amici. Mi sono persa il cinema, perché mia mamma ha paura che uscendo possa peggiorare. In pratica, sto ancora male. La paura più grande è di rimanere indietro con la scuola, ma in realtà di questo mi interesso poco. Vorrei solo, quando mia sorella arriverà, passare più tempo possibile con lei. Perché poi non so quando la rivedrò. E con questa malattia, mia madre non mi lascerà perdere altri giorni di scuola quando lei verrà. Detto questo, la mia amarezza è palpabile.

Un altro episodio di vita. Questa volta futuro. Un assaggio di chi sono io. Nient'altro che me stessa. 

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Capitolo 3
*** Nata impacciata ***


Col nuovo inizio scolastico, ricominciano i viaggi in corriera quotidiani. Mentre guardo la pianura e i paesini che attraversiamo non posso fare a meno di pormi delle domande ed analizzarmi a fondo.
Spesso la mia paura più grande è quella di dire cose sbagliate al momento sbagliato, oppure fare gesti non consoni a ciò di cui si sta parlando. Per di più sono nata impacciata:

Quando avevo tre anni ero innamorata di un bambino, si chiamava Nicolas e io lo trovavo il più carino di tutti i bambini dell'asilo. A casa dicevo che da grande mi sarei sposata con lui e prendevo l'asciugamano e facevo finta che fosse un vestito da sposa. A quell'età sapevo già leggere, uscivo di casa sempre con un libro sottobraccio. Già da piccola, nonostante fossi estroversa, ero un po' asociale: preferivo restare in aula a leggere che uscire a giocare con gli altri. Tanto che la maestra doveva spronarmi affinché uscissi, e a volte leggevo ai miei compagni. 
Quando l'anno scolastico finiva, all'asilo si faceva una grande festa: i genitori e maestri recitavano una fiaba (diversa ogni anno) e alla fine ci facevano sedere su delle sedie a nostra misura e cominciava la festa del diploma. Le maestre si trovavano sopra un piccolo palco (bisognava fare alcuni gradini per salirci) dove c'era una scrivania con i diplomi e lecca lecca giganti. A noi bambini ci chiamavano uno alla volta per consegnarci i tesori. Bisognava alzarsi dalla sedia, salire gli scalini, dare un bacio alla maestra e prendere il diploma e il lecca lecca. Era il turno di Nicolas, che si alzò dalla sedia velocemente e corse ad una velocità che mi sembrò incredibile su per le scale. La maestra lo sgridò un po' dicendogli che era pericoloso correre. Io volevo fare come lui, lo ammiravo tantissimo. Così quando arrivò il mio turno mi alzai e mi lanciai sugli scalini scivolando goffissimamente nell'ultimo e cadendo faccia a terra sul palco. Più che il dolore fisico, faceva male la vergogna. Non piansi, non mi ero fatta male. Mi si era soltanto spostato un po' uno dei due soliti codini che mia madre mi faceva all'epoca.

Impacciata ero, tale sono rimasta ancora attualmente. E' bruttissima la vergogna che provo quando faccio figuraccie. In quei momenti vorrei che un vortice oscuro mi si aprisse sotto i piedi così da caderci istantaneamente e non farmi vedere mai più da nessuno. 

Fortunatamente le mie amiche non ci fanno caso, sanno che se non ne combino una delle mie non sono io, e non me lo fanno pesare. Anzi, quando andiamo in giro diciamo che "ci facciamo riconoscere", dopotutto, non tutto il male viene per nuocere.

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Capitolo 4
*** Butta fuori tutto ***


Oggi ho passato una mattinata d'inferno. La testa sembrava scoppiarmi per via della febbre, ho passato due ore nel lettino della finta infermeria della scuola (un angolino semi nascosto nell'ante bagno), coperta da due lenzuoli fino in viso, perché la luce mi era insopportabile e perché ormai la testa mi girava a dir poco. Questa mattina ho pianto, più volte: perché stavo male, perché ho perso un altro compito, perché ho dovuto chiedere a mia madre che mi venisse a prendere a scuola (e lei è arrivata solo dopo che la campanella di uscita era suonata, perché prima doveva finire il lavoro). Così ho passato una mattinata critica, piangendo, e cercando di sopportare l'umiliazione del non riuscire a star bene come tutti gli altri adolescenti della mia età: altro che piena di energia, penso che il mio sistema linfaticon lasci a dir poco a desiderare. 

Però devo ammettere che anche nelle situazioni più brutte scopriamo cose che ci fanno sorridere, o quanto meno capitano e noi stiamo a guardarle: 
Ero sul lettino, avrò dormito mezz'ora, e al mio risveglio non mi andava in ogni caso di alzare la testa dalle vecchie coperte. Ad un certo punto è entrata una prof, mezza disperata urlando: -Rita! Rita! Che ti è successo??- e mi scopre un po'. Io alzo il viso, espressione confusa. La prof esclama: -Ma tu non sei Rita!- Io faccio cenno di no e lei mi appoggia la mano sulla testa e mi rimette giù scusandosi: -Oh, scusa cielo, torna giù, tranquilla. A quel punto entrano 5 alunne, una delle quali dice: -ma no, prof, le avevo detto che Rita era in classe ancora...- e arriva una ragazza, un po' pallida in viso che mi vede sul lettino (ormai in quel piccolo anfratto siamo in totale 8 persone, di cui 6 guardano me)  e si siede per terra, tra il lettino e l'armadio. Una ragazza esclama: -Ma cosa fai per terra! Aspetta ti prendo una sedia...- se ne va e subito torna con una sedia, di quelle comode. La ragazza si siede all'angolo del muro, vicino alla finestra e in tutto questo caos decido di sedermi, perché mi vergogno troppo a restare stesa, con tutti quegli occhi che mi guardano. Dopodicché la marmaglia sparisce e rimane la ragazza di nome Rita con un'altra sua compagna di classe e si mettono a parlare. Dopo un po' prendo confidenza e parlo anche io, tanto per distrarmi dai vari dolori. In quel momento tutto era sparito (o quasi): era piacevole conversare con gente che non mi conosceva e che era disposta ad ascoltarmi senza prendermi in giro o giudicare. I loro sguardi sinceri e le orecchie attente ad ogni mia parola. In quel momento pensai che alla fine non è tutto così male, e che non tutto il male viene per nuocere.

Essere riuscita a sfogarmi ed essere, per pochi minuti, me stessa, è stato liberatorio. Seppur rimango ancora piena di angoscia e stanca della mia salute precaria. E' bello quando le persone, una volta che fai capire loro che non stai dicendo falsità, riescono a capirci e si mettono a nostra disposizione. 

In conclusione, la sofferenza fa crescere, e non è male sfogarla. Bisogna, anzi, liberarsi, buttar fuori, piangere se si ha bisogno (e io non mi ritengo una che pianga spesso o per poco), picchiare un muro quando serve, essere sinceri quando non si riescono più a tener dentro le emozioni. Ogni tanto, dobbiamo permetterci di essere spontanei e agire come cuor dice e non come cervello comanda. Perché siamo essere umani, non robot. E noi umani, non siamo fatti per tenerci tutto dentro, per sempre. Se non ci liberiamo poco a poco, finiamo con l'esplodere, con l'impazzire, con l'ammalarci, con l'isolarci, con l'avere problemi col cibo, con le persone, con tutto. In quel caso, allora, permettiamoci di esplodere, per non morire dentro, senza nemmeno accorgercene.

Key Ivy

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Capitolo 5
*** Perché tanto non ci si capisce ***


Tanto alla fine non ci si capisce. Io in una realtà, il resto del mondo in un'altra. Voglio solo sparire da qui, andare via, scappare. Perché così non riesco più ad andare avanti: forse il punto è semplice, ed è che non sono fatta per questa realtà. Non ce la faccio. Sono stanca, non ho risposte ai perché delle persone. Perché io so cosa voglio ma non si può fare ora. Ora non si può, ma il mio obiettivo è solo quello. Se nulla cambierà non so cosa farò: non sono fatta per questo mondo. Voglio solo sparire.

E' inutile il dialogo, il dialogo porta solo al conflitto, me l'avevano detto ma non ci credevo. Ora ci credo. E' vero. Voglio solo andar via e tornare solo quando sarò pronta. Se mai sarò pronta. Perché è una merda non riuscire mai. Non riuscire mai in nulla. Essere solo una delusione continua per le persone che ami. Perché vogliono altro da te. Non solo loro, tutti vogliono altro da te. E tu? Quel che vuoi tu non conta nulla? Le lacrime non bastano a far capire quanta sofferenza mi porto dietro. Non bastano mai. Perché loro vogliono solo che tu segua il corso che il mondo impone. E basta. Non esistono altre possibilità. Anzi, le possibilità me le hanno date e ora devo continuare e andare avanti. Non mi capiscono, mi dicono. Sono stanca, vorrei solo sparire. Fuggire. Correre. Volare via. 

Se non avessi un'ancora che mi tiene agganciata a questo mondo avrei già provato a volare via. Voglio solo volare via. Non ce la faccio più...... voglio più tempo. Ma il mondo non si fermerà mai per me, non lo farà per nessuno. Per questo mi sento un pesce fuor d'acqua. Come se non appartenessi a questa società. 

E poi la rabbia diventa solo tristezza. Perché quasi nessuno capisce. E tu non puoi fare le tue scelte. Perché ancora sei sotto il tetto di altri e non puoi permetterti il tuo tetto. E allora o fai quello che ti chiedono o diventi il responsabile di guerre interne. Ed è solo colpa tua. Solo colpa tua. Perché non possono cambiare, io sì invece devo. Perché devo adattarmi. Devo adattarmi al mondo. Ma non ci riesco. Non riesco ad essere come il mondo mi chiede. E piango. Piango perché non posso essere come mi chiedono. E sono troppo debole per impormi. Sono debole e fragile. E soffro. E non ho le palle per affrontare una guerra tutti i giorni. E devo esere come mi chiedono perché sennò perdo tutto. O quasi. Perdo l'importante. 

Sono giorni che piango: da raramente a tutti i giorni. Bel cambiamento. La Ivy fredda di ghiaccio non riesce a sopportare le pressioni a lungo. Non se ne capacitano che non possa fare qualcosa. Ma se manca la volontà come posso fare qualcosa? Allora l'unica soluzione è uno strizzacervelli. Perché se non riesco a stare alle regole del mondo allora ho bisogno di aiuto, perché non posso vivere in stand by, né fuori dal mondo. E io e la mia maledetta bocca... perché cavolo cedo, solo per non litigare. Ma la verità è che lo so: non sono capace di sostenere a lungo un'atmosfera lugubre. Non riesco a vivere nel disgusto di chi mi circonda. Preferisco ferirmi da sola che vivere così.

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